Dopo decenni, cioè dal 1870 al 1914, di pace, di progresso e di conquiste territoriali avviò una guerra che coinvolse ogni angolo del pianeta che avrebbe per sempre modificato i vecchi assetti e avrebbe intaccato il ruolo centrale dell’Europa, ricoperto fino a quel periodo. La Prima Guerra Mondiale provocò la fine di un mondo proiettando l’umanità in una incerta e dolorosa modernità. Tutte le conquiste del Positivismo e dello sviluppo industriale, che si credevano inarrestabile e destinate a dominare ogni dove, si ritorsero contro l’umanità intera, una sorta di follia autodistruttiva che si scaricò lì dove era il massimo della potenza industriale, economica e culturale. Le scoperte della tecnica misero a disposizione gli ordini più efficaci dello sterminio di massimo e tra le armi più sofisticate vi fu il cinema, ciò che fino ad allora era un semplice strumento di intrattenimento e di informazione. Le armi della propaganda e il controllo del fronte interno non furono meno importanti di tutte quelle armi che dispensavano morti e distruzione al fronte. Proprio il cinema, negli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto, aveva dato una chiara visione di quello che poteva succedere proiettando immagini di parate di eserciti marcianti, fabbriche che producevano ogni tipo di ordigno belliche, navi lucenti dotate di bellissimi cannoni. Queste immagini venivano accolte con grande entusiasmo dal pubblico perché mostravano la crescita e la potenza industriale e militare del proprio paese, illudendosi che ciò avrebbe riguardato al conquista dei territori lontani, poiché era abituale il conquistare e sfruttare nuovi territori da parte delle vecchie potenze proprio attraverso “la politica delle cannoniere”. L’attentato di Sarajevo capovolse l’ordine naturale delle cose e in pochissime settimane gli apparati bellici di ogni esercito, l’assetto industriale e tutti i mezzi di comunicazione e cattura furono dispiegati all’interno del continente, attraversato da un apparente follia, che avrebbe portato alla grande tragedia. Tutti i frutti della Seconda Rivoluzione Industriale e la prima globalizzazione del mondo sviluppato furono messi a disposizione di un apparato di massa volto alla distruzione dei territori, degli individui e delle identità culturali. Dopo pochi mesi, nel Natale del 1914, si contavano già un milione di morti tra tutti gli eserciti e questa strage continuò distruggendo così intere generazioni. Tutto si stravolse: la vita sociale e i suoi assetti furono riorganizzati in senso gerarchico e nazionalista, intere regioni agricole furono rese prive di braccianti, le fabbriche furono riconvertite in industrie belliche, le donne cominciarono ad occupare posti lavorativi prettamente maschile fino a quel tempo, i conflitti sociali furono considerati come il tradimento del proprio paese. Gli stati dettavano leggi sui fronti e sugli eserciti ma anche sulla vita sociale e culturale con censure e forti repressioni, a tal punto di diventare queste costanti nella vita quotidiana arrivando ad annullare totalmente l’individuo. La guerra terminò solo per un intervento esterno, ovvero quello dell’esercito americano, che finì per spostare al di là dell’Atlantico i nuovi equilibri del mondo. L’Europa era attraversa oramai da un male che non terminò con la fine delle ostilità sul campo e con la pace, e questo gettava le premesse per un altro conflitto ancora più devastante e con orrori che sfociarono in veri e propri genocidi. Il crollo di imperi secolari non portò alla creazione di assetti stabili: vaste regioni come i Balcani e il Medio Oriente vennero dissestate creando così le premesse per altre tensioni che si sarebbe trascinate per tutto il novecento e oltre. Le masse, mobilitate negli eserciti, nelle fabbriche e nella società, si trovarono proiettate sulla scena politica e sociale che apriva nuovi orizzonti di progresso, ma che le esponeva ai rischi e alle repressioni brutali. L’Europa espresse il meglio di sé nel settore della cultura e delle arti con Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Pirandello, Pablo Picasso, Sigmund Freud e molti altri che si esprimevano in correnti di pensiero che miravano al superamento del trauma e all’annullamento dei conflitti in nome della cooperazione universale. La rivoluzione russa accese speranze di grandi cambiamenti e attivò un processo di rinnovamento che, assieme all’emancipazione delle masse, produsse le maggiori novità nel settore delle arti, della comunicazione e della partecipazione politica. Il cinema, la forma d’arte più giovane, si assunse la responsabilità di rappresentare il nuovo mondo. Lenin aveva teorizzato la capacità espressiva del cinema nell’alfabetizzazione, in tutti i sensi, delle masse e molti cercarono di mettere in atto ciò. La sperimentazione, l’ibridazione di elementi diversi, la creatività spinta agli estremi si manifestò in opere che tendevano alla creazione di un’arte totale che riassumeva in sé il nuovo linguaggio della modernità. Ma si passò in breve tempo da uno spirito ottimistico nelle sorti individuali e collettive della società, del progresso materiale e della tecnica, a un senso di smarrimento e di incertezza del presente e del futuro. La Germani si espresse in vertici notevoli nella cultura e nell’arte durante la stagione di Weimar, passò al nazismo. L’Italia, vittoriosa e con i confini accresciuti, inaugurò il fascismo che fece proseliti nel mondo. La Russia che aveva avviato una rivoluzione grandiosa e aveva dato alla luce le opere più innovative, finì per approdare allo stalinismo. Il cinema in tutto ciò dispiegò le sue potenzialità in nuove forme di spettacolo e di riflessione critica, ma si rivelò anche un efficace strumento al servizio delle ideologie totalitarie. CINEMA D’AVANGUARDIA Leger definiva i film d’avanguardia una reazione diretta dei film fondati sulla sceneggiatura e sul divo. Tra gli anni Dieci e la diffusione del realismo sono dei primi anni Trenta, la parabola del cinema d’avanguardia è identificabile come una riappropriazione artistica del mezzo cinematografico sviluppata in aperta contrapposizione con il cinema ufficiale o “commerciale”. Il cinema d’avanguardia si sviluppa in un’accezione negativa, come una reazione diffusa ai film ancorati ai vecchi intrecci narrativi del teatro e del romanzo borghese, al fascino dei divi e ai grandi investimenti dell’industria del cinema. La trasformazione in senso industriale della produzione di film si fonda sulla scoperta dell’importanza decisiva delle storie e delle star, cioè dalla replicabilità delle strutture narrative e della loro diversificazione generata dal sistema divistico, un processo che può dirsi compiuto alla metà degli anni Dieci ma che troverà piena affermazione negli anni Venti. Le avanguardie cinematografiche si caratterizzano quindi dal rifiutare “la sceneggiatura” e “il divo”, rifiutando così la struttura industriale del cinema prodotto e pensato per il pubblico. all’interno delle avanguardie cinematografiche si hanno posizione molto diversificate, e non sempre caratterizzate da questo rigetto, ma di base questo era il loro carattere generale. Nei paesi occidentali il cinema d’avanguardia si scontrerà ben presto con il problema della distribuzione e con la necessità di rivolgersi a un pubblico composto prettamente da intellettuali, quindi un circuito ben ristretto di sale. In Unione Sovietica invece le avanguardie inizialmente furono incoraggiate addirittura come forma di cinema ufficiale, ma poi furono duramente contrastate e ben presto ricondotte alla logica della propaganda di Stato. Una prima distinzione che possiamo fare tra le varie avanguardie è: (1)quelle in cui la produzione teorica e pratica si realizza all’interno dei movimenti d’avanguardia e (2) quelle ispirate a prevalenti interessi linguistici, legati alla specificità del cinema. Fin da subito si possono individuare dei paradossi di questa esperienza: da un lato, un’ampia aria di questo movimento immagina un cinema che dovrà essere modellato sulla razionalità tecnologica e in cui la pratica artistica dovrà rifarsi ai modelli produttivi della nuova civiltà delle macchine cioè costruire un linguaggio su basi razionali e dinamizzare le forme contro “l’impressione della realtà” dei film commerciali; dall’altro, soprattutto in territorio francese, l’avanguardia funziona come una forte difesa dei motivi romantici dell’arte in un’epoca fondata sul prima della tecnica e dell’industria. Nel complesso però si tratta di un periodo piuttosto decisivo per gli sviluppi della cultura cinematografica, in quanto si trova sospeso tra l’utopia di immaginare un altro cinema, l’integrazione dell’arte nella produttività industriale e la nostalgia romantica del gesto artistico puro. Il cinema dell’avanguardia va collocato dentro il tema ampio della crisi dell’intellettuale e dell’artista nella società industriale e ricondotta al clima culturale dei specifici luoghi. Di solito la storiografia cinematografica distingue: le avanguardie dell’Unione Sovietica dove le ricerche sul cinema incrociano anche una riflessione sulle forme di intensificazione della vita all’interno di una metropoli, e dove inizialmente questo cinema s’intreccia con e le forme più tradizionali del cinema; l’avanguardia di area tedesca legata principalmente alle ricerche di taglio grafico- dinamico, che guarda con grande interessa al rapporto tra il cinema, l’Astrattismo e la nuova razionalità tecnologica; un’avanguardia di area francese molto più incline a costruire un progetto di ribaltamento poetico- simbolico del linguaggio cinematografico, caratterizzata in gran parte dal mito del cinema puro e dagli esperimenti cinematografici del Dadismo e del Surrealismo. Ciò che accomuna queste avanguardie è l’abbandono, il superamento o il rifiuto del concatenamento logico- narrativo delle immagini e la stretta interdipendenza fra teoria e prassi,cioè tra il cinema realizzato e quello pensato. Le sperimentazioni sul linguaggio filmico proposte dall’avanguardia si mostrano legate da una parte alla consapevolezza che comunque un prodotto filmico resta maggiormente legato allo strumento attraverso cui si realizza rispetto comunque a tutte le altri arti; dall’ altra alla volontà di rivendicazione del film come pratica artigianale, legata alla dimensione del laboratorio piuttosto che dell’industria, con il conseguente ripristino della centralità del soggetto creatore. In particolare nelle avanguardie di area tedesca che la riflessione tra laboratorio e industria troverà sbocco espressivo attraverso l’astrattismo cinematografico rappresentato da Viking Eggeling, Hans Richter o ancora Walter Ruttmann. Le caratteristiche di fondo del cinema astratto fanno emergere la dimensione tecnologica del film come pratica inglobata nel nuovo linguaggio della macchina, quindi automaticamente predisposta verso l’elaborazione di forme espressive che non hanno più nulla a che vedere con il soggettivismo romantico, le passioni umane, la psicologia. Nel caso di Eggeling, ad esempio, questa prospettiva conduce a una concezione armonia e contrappuntistica del film, visto essenzialmente come una forma d’arte cinetica che trova nella musica un interlocutore privilegiato, cioè i suoi film si offrono da un lato come il movimento luminoso di forme essenziali e dall’altro come la visualizzazione di spartiti musicali. Le ricerche di Eggeling saranno decisive per gli sviluppi del cinema astratto degli anni Venti, e i lavori di Hans Richter. Secondo Richter il cinema d’avanguardia, a differenza di quello “ufficiale”, è in grado di esplorare le potenzialità del movimento e i valori puramente cinetici del film. I suoi film, tipo Rhythmus 21, sono costruiti come dinamizzazione di forme astratte e sono un valido esempio di scrittura astratta che nega qualsiasi forma di comunicazione con lo spettatore che non sia puramente ritmica, percettiva e persuasiva. Altro personaggio molto importante in questo contesto fu Walter Ruttmann, anch’egli contribuì in modo deciso allo sviluppo del cinema astratto, ma che si concentrò in particolar modo al trattamento di elementi grafico- cinetici che presentano una maggiore concessione alla spettacolarità e utilizzerà diverse tecniche cinematografiche, dimostrandosi attratto principalmente dal trasferire la dinamizzazione della pittura astratta su pellicola. I progetti di Moholy- Nagy invece si muovono sulla centralità del movimento, come in altre sperimentazioni del film astratto, ma egli intende il film come un luogo di attrazione e di ricerche visuali differenti che puntano all’allargamento delle facoltà percettive dell’uomo e all’affermazione della tecnologia come luogo depurato alla creatività in una società moderna e tecnicizzata. Il cinema quindi diventa uno strumento di conoscenza e di ricerca sulle potenzialità espanse della visione, assumendo di volta in volta le forme di cinema simultaneo, di policinema, o di un’arte puramente visiva integrata con la fotografia, la grafica e il design. Il cinema d’avanguardia rappresenta l’irruzione di un nodo problematico, cioè la dialettica tra logica artistica e logica industriale, che continuerà a percorre tutta la storia del cinema in modo sotterraneo, presentandosi sempre sotto nuove forme. Nel contesto degli anni Dieci e in particolare nell’area francese del post Cubismo e in quella del Futurismo italiano che si definiscono le basi per lo sviluppo del cinema d’avanguardia del decennio successivo. La pittura fu sicuramente uno dei primi riferimenti utili per lo sviluppo di un’estetica visivo- cinetica fondata sul dinamismo delle forme, ma anche gli esperimenti in campo musicale furono uno stimolo per le nuove possibilità linguistiche ed espressive, soprattutto nella chiave di una integrazione della musica e della pittura attraverso la dinamizzazione della relazione percettiva tra suono e colore. L’interesse per il cinema di Pablo Picasso, di Arnold Schonberg, di Corra va collocato in questa ottica, cioè danno vita a uno dei più concreti progetti di esplorazione cinematografica delle arti messi in gioco nella prima parte degli anni Dieci. Questi artisti hanno in comune la rimozione del carattere tecnologico, dell’effetto di realtà e di potenzialità comunicative del cinema, ovvero mirano a ricondurre il cinema nell’orizzonte delle arti tradizionali invece di analizzare la sua modernità tecnologica, una sorta di arte sintetica in cui convogliano tutte le altri arti invece della ricerca di uno specifico film. Nei primi anni Dieci quindi il cinema si trova ad affrontare due problemi ovvero la dinamizzazione delle forme pittoriche e la visualizzazione cromatica della musica. In quest’ottica si pongono i fratelli Corradini con i loro esperimenti di “musica di colori”, che ben presto li conducono nell’impiego del cinema, progettando sinfonie cromatiche ispirate a testi musicali o letterari, in cui i colori sono dipinti direttamente sulla pellicola. Queste sono ricerche perdute ma fondamentali per lo sviluppo del cinema d’avanguardia e in particolare per il film astratto. Anche Arnold Schonberg riconduce il cinema all’adattamento di opere teatrali o letterarie e intuisce le potenzialità specifiche del montaggio e degli altri elementi del linguaggio cinematografico, che riconduce a un ampio progetto di astrazione, come la prosecuzione cromatica e visiva della musica dodecafonica e seriale. Inoltre egli vede un ampliamento delle possibilità espressive che le arti tradizionali, e in particolare la pittura, intravedono nel cinema. Diverso si presenta il caso del Futurismo, in quanto si presenta come il primo movimento d’avanguardia che si intreccia con il cinema in un complesso rapporto di influenze, intrecci ideologici e prospettive estetiche. Il cinema rappresenta per i futuristi una svolta radicale, del tutto organica al ribaltamento futurista della vita, ma molto probabilmente le difficoltà tecniche e finanziarie legate alla produzione di film non permettono al movimento di entrare in contatto con le pratiche cinematografiche. Nel contesto francese si intrecciano attorno all’avanguardia esperienze eterogenee e diversificate, non riconducibile alla matrice del film astratto ma all’estensione delle avanguardie artistiche nell’orizzonte cinematografico e alle ricerche sulla fotogenia sul cinema puro. Insieme proprio al Dadismo e al Surrealismo saranno infatti le riflessione sul cinema puro a definire le direttrici di un ampio dibattito. Il progetto del cinema puro mira realizzare un cinema diverso, votato all’esplorazione delle possibilità poetiche e simboliche dell’immagine filmica, ma in antitesi rispetto al cinema ufficiale. Un cinema che emerge dall’impressione di realtà dell’immagine filmica e dalla base fenomenologica del dispositivo cinematografico, anziché dall’astrazione, e che punta a realizzare le potenzialità inespressa del cinema tradizionale. Tutte le riflessioni teoriche a riguardo, tipo di Alberto Cavalcanti, Ricciotto Canudo o Louis Delluc, convergono nell’accettare l’impianto narrativo e l’illusione di realtà del cinema, ma soltanto per dare vita a un flusso di immagini pure, immagini da cui vengono eliminati i caratteri di teatralità o letterarietà. Da ciò nasce una specifica attenzione alla sequenza , al frammento, al dettaglio capaci di veicolare elementi di cinema puro all’interno dello schema narrativo- rappresentativo del film. La purezza del cinema non è il contrario dell’illusione della realtà, ma una sua sublimazione poetica, lirica, cioè il presupposto per la rivendicazione di uno spazio di autonomia artistica interno al campo dell’industria cinematografica e del cinema ufficiale. Molto importanti sono gli studi affrontati a riguardo da Delluc e Epstein. Delluc riprende un termine proveniente dal lessico fotografico, fotogenia e ne fa il centro della sua elaborazione teoriche, la quale diventerà il centro degli anni Venti. La fotogenia per Delluc si caratterizza come l’elemento vago quanto decisivo per l’accesso a una forma di bellezza cinematografica, una bellezza legata alla base fotografica e riproduttiva del film e alle possibilità manipolatorie del linguaggio cinematografico. Questa è la bellezza che di volta in volta cattura il nostro sguardo, che sia un volto, un oggetto. La fotogenia indica la strada di una prassi cinematografica che si concentra su una personale rielaborazione del filmico, senza negare l’illusione di realtà e la base referenziale dell’immagine cinematografica. Epstein invece basa il suo spunto teorico sull’idea di trasferire il materiale letterario di partenza su un piano lirico e dinamico- visivo pensando ai concatenamenti, ai raccordi e alle dissolvenza in termini plastici, secondo la lezione specifica delle avanguardie. Nel 1925 Jean Goudal sosteneva una stretta affinità tra i metodi compositivi del pensiero Surrealista e il linguaggio cinematografico. Questo movimento guidato da André Breton non adotterà mai una pratica cinematografica “ufficiale”, ma troverà proprio nel cinema un terreno fertile di confronto. Gran parte della più rilevante produzione cinematografica francese legata alle avanguardie si definisce, nel corso della metà degli anni Venti, nel passaggio dal movimento dadaista al Surrealismo. Le iniziative nel campo cinematografico sono guidate dal tentativo di annettere il film tra gli strumenti espressivi delle due modalità di espressione artistica: quella del Dadaismo, fondata sul gioco, il nosense e l’illogicità, e quella Surrealista interessa a ricondurre l’espressione del Dadismo dentro le logiche del sogno, dell’inncoscio e di una rilettura irrazionale dei motivi del Simbolismo e del Romanticismo. Un film spartiacque che possiamo citare è Entr’ acte di René Clair, realizzato a partire da un’idea del pittore Francis Picabia: questo film raccoglie numerose suggestioni del movimento dadaista, rigettando la ricerca di artisticità del cinema puro o del film astratto, per svilupparsi invece come un elogio delle gag e dell’irrisoria comica svincolata dal senso, con molte scene di slapstick. L’attenzione per il comico sarà anche uno dei tratti specifici del Surrealismo, come un emblema del movimento. Il Surrealismo più che esercita una diretta influenza definirà un certo modo di intendere l’esperienza di visione e la frequentazione della sala cinematografica come rito specificatamente moderno ma anche come spazio di spaesamento, di incontro con l’insolito, privilegiando non il film in sé ma il flusso di immagini che prende forma al cinema. i due film della coppia Brunuel- Dalì, Un chien andalou e l’age d’or possono considerarsi l’apice di una serie di avvicinamenti progressivi tra il cinema e la “scrittura automatica” specifica del Surrealismo, uno dei maggiori impatti dell’avanguardia cinematografica francese nel suo complesso. Un chien andalou è un progetto di figurazione cinematografica delle logiche dell’inconscio che influenzerà gran parte del cinema successivo attratto dalla dimensione dell’irrazionale e dell’onirismo. Il filma parte da un sogno, per poi mescolare idee di Brunel e Dalì ma totalmente distante dalle sperimentazioni giocose vicine all’area dadaista, lontano dalla logico poetico- simbolista del cinema puro e dei film impressionisti, ma anche dall’astrattismo. Il prologo del film, con il celebre taglio dell’occhio, funziona come una sorta di manifesto programmatico del cinema surrealista, ma è anche una delle icone più potente della stagione del cinema d’avanguardia nel suo complesso. Le ricerche sui rapporti tra il cinema e il sogno trovano ampio seguito nell’unico film realizzato da Jean Cocteau, Il sangue di un poeta. Cocteau è una figura estranea ai movimenti d’avanguardia ma con il suo film sviluppa una delle più suggestive ipotesi di “cinema di poesia” di quegli anni, in cui le ricerche sull’inconscio e sul sogno si mettono al servizio di una personale simbologia cinematografica legata all’idea del film come “poema” lirico, spettrale, visionario ecc. Questo film viene prodotto nel 1932, da qui a breve si affermerà il sonoro un nuovo modello di “cinema ufficiale”, sempre più centrato sulla parola e la stagione del cinema d’avanguardia è oramai al tramonto. Molte ricerche effettuate dall’avanguardia sul ritmo, sul movimento, sui rapporti grafici delle immagini diventeranno un patrimonio diffuso, veicolato anche dal cine più commerciale e spettacolare. La storia del cinema tedesco comincia alla vigilia del primo conflitto mondiale con poche opere, la spinta decisiva avverrà dopo la guerra, a cui seguiranno tempi gloriosi ma molto brevi, dal 1925- 1927. Nel 1916 la Germania proibisce l’importazione di film prodotti nelle nazioni nemiche, l’anno successivo il divieto si estenderà anche agli Stati Uniti (resterà in vigore fino al 1920). Questo diede avvio ad un incredibile aumento della produzione cinematografica nazionale, si pensi che nel 1933 il numero dei film prodotti in Germani è solo inferiori a quelli di Hollywood. In questi anni fiorisce l’ “Espressionismo tedesco”, corrente cinematografica in continuità con i movimenti artistici che si erano diffusi in Europa, in Germania sin dagli anni Dieci. La storiografia fa coincidere l’inizio dell’Espressionismo cinematografico con l’uscita di Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, a conferma di ciò vi è il volume di Siegfried Kracauer, “Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco”, in cui Wiene viene individuato come un vero e proprio spartiacque all’interno della storia del cinema tedesco; con Wiene si ha un nuovo modo di concepire il cinema e la sua funzione, secondo direttive che avrebbero istruiti la produzione cinematografica tedesca, almeno fino alla seconda metà degli anni Venti. In realtà la storiografia più recente ha ricondotto l’origine e le ragioni del successo di quest’opera all’interno di una complessa operazione, commerciale e culturale, cominciata intorno alla metà degli anni Dieci. Operazione al quale è possibile far risalire ad esempio Lo studente di Praga di Stellen Rye, del 1913: uesto film narra la storia di un giovane di modeste origini, che per amore di una facoltosa contessa vende la sua immagine, riflessa in uno specchio, a un inquietante personaggio, dalle fattezze mefistofeliche. Questo film mette in scena un tema che diventerà come una sorta di ossessione per il cinema tedesco successivo, ovvero l’attrazione paurosa per le basi segrete dell’Io. il tema del doppio determina atmosfere irreali e fantastiche che definiscono, sul piano stilistico, il cinema espressionista successivo. Una delle caratteristiche più rilevanti del cinema Espressionistico sarà la “soggettivizzazione dell’esperienza”, che determina quella coincidenza fra mondo interiore e mondo esteriore, nella quale è possibile rintracciare anche il senso ultimo di tutta l’arte espressionistica (dalla pittura alla scenografia teatrale, all’architettura) che confluirà nel cinema degli anni Venti. Questo spiega le scenografie deformate, le prospettive alterate, le illuminazioni contrastate, ipotesi confermate dai numerosi casi di collaborazione di scrittori, pittori, architetti e scenografi teatrali. La contiguità con le altri arti forse costituisce il tratto più distintivo dell’intera stagione cinematografica espressionistica, e si può sostenere la tesi che il cinema espressionistico realizzerebbe la compenetrazione perfetta delle tre nozioni di spazio con le quali esso lavoro: lo spazio architettonico, quello filmico e quello pittorico. Ma a questa tesi si deve far una precisazione molto importante, ovvero che spetta proprio al cinema il compito di radicalizzare e portare a massima esplicitazione di quei tre spazi. In questo senso il ruolo della macchina da presa diventa centrale, in un lavoro che non consiste solamente alla rappresentazione dello spazio, ma alla sua organizzazione e alla sua costruzione e ciò si può notare nei numerosi movimenti della macchina nei film di questo periodo, che segna anche un elemento di profonda rottura e distacco rispetto a tutto il cinema precedente. Un esempio di ciò è il film Metropolis di Fritz Lang, il quale riesce a fare del movimento, sia della macchina che degli sfondi, il principio a partire dal quale concepire l’intera sua impresa. Tutti questi elementi di novità rendono fondamentali la funzione e la centralità del registra sul set, ribadendo così, nello spirito dell’Espressionismo, che tutto ciò che si vede sullo schermo esiste soltanto in relazione a un occhio che lo guarda, e al mondo in cui esso lo guarda, suggerendo che quell’occhio sia l’origine e il principio costruttivo del film stesso. Altro elemento di novità per il cinema di quegli anni, sotto convinzioni di molti registri, è quella di eliminare del tutto la componente scritta del film, affidata alle didascalie che accompagnava il passaggio da un’immagina all’altra. Il fenomeno fu così rilevante, nonostante comunque le diverse posizioni a riguardo, che si può individuare un tipi specifico di prodotto cinematografico ovvero il titelloser Film (“Film senza didascalie”), di cui il film più celebre che possiamo cita re L’ultima risata di Murnau, in cui costringerà anche il registra a seguire passo per passo il protagonista, piegandosi, contorcendosi, chinandosi, ottenendo cosi inquadrature da diverse angolazioni. In questi anni in corrispondenza con la diffusione dell’Espressionismo si diffonde anche il Kammerspielfilm. Entrambi condividono la stessa problematica matrice psicologica che nell’Espressionismo assume tratti inquietanti e deformati del racconto orrori fico, invece nel Kammerspielfim assume le sembianze solo apparentemente più familiari dell’intimità ripetitiva della vita quotidiana degli interni piccolo borghesi. La carica simbolica che attraversa le ambientazioni spesso irrealistiche del cinema espressionista, nel Kammerspielfilm trova collocazione in dettagli apparentemente irrilevanti, capaci di rilevare tutta la profondità di complesse dinamiche psicologiche, attorno alle quali il racconto si costruisce. Nel Kammerspielfilm si possono rintracciare i primi segnali di un crescente interesse per le tematiche sociali, attorno delle quali si costituisce il nucleo centrale delle tendenze cinematografiche prevalenti in Germania a partire dagli anni Venti, ma che avrà piena affermazione negli anni Trenta. Questa sensibilità è presente in uno dei primi film riconducibili alla corrente che prenderà il nome di Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività): La via della gloria di George w. Pabst, in cui si narra la vita di due ragazze costrette a prostituirsi per scampare a una vita di stenti nella Vienna degli anni Venti, devasta ancora dal Prima Guerra Mondiale. Nei film che seguono, l’attenzione riservata al quotidiano e ai suoi problemi assume, dopo una floridezza economica, tinte sempre dai toni più grigi e senza speranze, in concomitanza con la nuova crisi e l’avvento del nazismo in Germania del 1929. Questo è il momento in cui le arti (compreso il cinema, dopo un lungo periodo di sperimentazione avanguardista, ritornano al realismo attraverso cui raccontare il mondo in cui si accentuano i problemi economici e i conflitti sociali. La crisi del cinema tedesco fu dovuta, molto probabilmente, all’ingerenza dell’industria hollywoodiana: da una parte abbiamo il fenomeno di emigrazioni di molti registri, attori tedeschi anche significati verso oltreoceano e dall’altra parte abbiamo anche l’ingente investimento di capitali stranieri che impongono sempre una più riconoscibile “americanizzazione” del cinema nazionale, soprattutto in seguito all’avvento del sonoro. In Russia si ha l’affermazione di una nuova forma d’arte rivoluzione, che si individua con il nome di “scuola sovietica di montaggio”. Questo termine si riferisce a un corpus eterogeneo di opere e di autori che, fermo restando sulle scelte stilistiche individuali, condividono istanze, tendenze e atmosfere, tenute insieme da una stessa idea di cinema. A dare avvio alla rivoluzione nel mondo cinematografico della Russia fu proprio la Rivoluzione bolscevica, del 1917. Il cinema russo negli anni successivi alla rivoluzione, non è solo uno strumento utile a raccontare quell’evento storico, per seguirne, anticiparne e condividerne almeno in parte l’evoluzione e l’esito; ma anche il tentativo plurale e diversificato di dare una forma estetica alla rivoluzione, assumendone la struttura, i tempi e persino le traiettorie. Il 1924 può definirsi l’anno in cui si inaugura la grande stagione del cinema delle avanguardie sovietico, destinata a concludere una decina di anni più tardi, attraverso tre film che gettano le basi dell’arte rivoluzione, o meglio dire dell’arte del montaggio: Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov del 1924, Sviopero di Serge Ejzenstejn el 1925 e Cineocchio di Dziga Vertov del 1924. I tre registri condividono l’idea che se esiste un modo di raccontare, con gli strumenti propri del cinema, la rivoluzione e il suo significato, esso risiede nel montaggio, in quanto strumento utile per dar forma alla frattura che l’evento rivoluzionario iscrive nella storia. Si ha, quindi, un uso peculiare del montaggio nel quale è possibile proprio riconoscere la cosiddetta scuola sovietica cioè: più che la messa in successione lineare di due inquadrature, connesse fra loro dal punto di vista tanto spaziale quanto temporale, al montaggio spetta il compito di mostrare una distanza, un intervallo, un salto fra le immagini che in un film si succedono. Così inteso il montaggio ha lo scopo di lasciar emergere un contenuto non è dentro le singole immagini, ma fuori di esse e le eccede come lo spazio nere di un intervallo o in ciò che immagine non è tipo un pensiero o un concetto, posto fra due immagini in successione. Questo è l’esperimento di montaggio denominato “effetto Kulesov” e che la sequenza finale di Sciopero elabora in una forma più sofistica: nessun legame logico tiene unite l’immagine di un bue sgozzato e quella di una massa di manifestanti trucidati dalla polizia zarista. Solo attraverso un’operazione di montaggio le due immagini totalmente slegate fra loro, riescono a interagire elaborando un “senso” che non risiede ne nell’una e nell’altra. Il “senso” consiste nell’analogia che l’accostamento fra le due immagini è in grado di suggerire allo spettatore: persone innocenti uccise proprio come i buoi al macello. Il punto di partenza che il montaggio del cinema sovietico sceglie è la totale assenza di relazione fra le immagini con le quali si confronta. In alcuni casi il lavoro consiste nel colmare, riempiendola di “senso”, quella distanza, al fine di raggiungere un’unità compositiva e ideologica finale e in altri invece vi è il mantenimento di quella stessa distanza. In entrambi i casi questa operazione fa affidamento sullo spettatore, è da lui che ha origine e a lui che si rivolge, come parte integrante di un’operazione di montaggio che non può non richiedere a chi guarda una forma di elaborazione attiva. Questa forma di montaggio si contrappone con al modello americano della Griffith, in cui il montaggio è uno strumento silenzioso e invisibile e funzionale alla costruzione di un racconto per immagini. Infatti il cinema americano è presente, in maniera più o meno esplicita, come bersaglio polemico in alcuni film e in alcuni autori, ad esempio in Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi, il quale è una rivisitazione in forma parodica dei generi cinematografici classici, modelli sapientemente utili zatta da Klesov allo scopo di creare una vera e propria opposizione, ideologica ed espressiva, fra due modi di intendere il cinema e dunque la vita, destinata a risolversi nel radicale ribaltamenti della situazione data in partenza. Il film nel finale, diverso rispetto a quelli americani, non è prescritto da una narrazione che precede le immagini e il concatenarsi secondo una successione potenzialmente interminabile, piuttosto è il risultato di varie peripezie, determinate di volta in volta, dai movimenti e dai gesti dell’attore. La concezione del montaggio, elaborata dalla scuola sovietica, co-implichi: da una parte la radicale problematizzazione di un’idea classica di scrittura, intesa come sceneggiatura, e dall’altra la messa a punto di una nuova concezione dell’attore, che passa in alcuni casi attraverso il suo definitivo rifiuto. Questo si può notare anche in Cineocchio di Vertov, il quale a inizio film vuole sottolineare che il film sia il primo cine- oggetto di non finzione cioè senza sceneggiatura e senza attori, ma realizzato fuori dagli studi per cogliere la vita in flagrante. Il cinema per Vertov non deve presentarsi come strumento di riproduzione del reale, ma il luogo dell’invenzione di un mondo ancora da farsi e il montaggio è lo strumento atto a questa ricostruzione creativa. Il triennio 1928- 1930 segna un momento di passaggio verso un’ulteriore fase del cinema sovietico, destinato a determinare il progressivo esaurimento della spinta avanguardista che, dopo la rivoluzione, aveva lavorato all’invenzione di un linguaggio cinematografico nuovo. Le opere di questo periodo esprimono in maniera tangibile una tensione fra il passato e un futuro incero, questo è un carattere specifico del cinema di quegli anni. In quegli anni Lenin morì e Stalin prese il potere, avviando il processo di collettivizzazione delle terre che da lì a poco avrebbe trasformato l’Unione Sovietica in una delle potenze economiche mondiali. Il cinema di quegli anni deve descrivere questa realtà, e per farlo abbandona il tratto discontinuo ma frammentario e assume il tono solenne, cioè il tono che si addice al racconto di ogni grande impresa. I film realizzati negli anni che segnano il passaggio fra le due epoche testimoniano perfettamente la tensione sia storie che decidono di raccontare, sia nello stile e nella forma con cui scelgono di farlo. Un esempio può essere il La Linea Generale di M. Ejzenstein: sia il titolo che il finale di questo film furono cambiati molto probabilmente per voler diretto di Stalin, in quanto questo film doveva essere prima di ogni cosa l’occasione per esaltare le avventure della nuova epoca sovietica Il film racconta di una costruzione di un kolchoz nella campagna sovietica, il seguente arrivo di una scrematrice consente la lavorazione meccanica del latte e della sua trasformazione in burro e ciò provoca diffidenza in alcuni, ed entusiasmo in altri. Quello che Ejnstein mette in scena è esattamente il processo di trasformazione vissuto, nello stesso periodo, dall’intero sistema del paese. Come parti di un tutto più complesso, le forze contrastanti che attraversano la vita della piccola comunità contadina, nel momento dell’arrivo del “nuovo”, sono le tensione che accompagnano il cinema di quegli anni, quando si trova nella condizione di compiere un vero e proprio salto qualitativo, in direzione della riformulazione delle proprie possibilità espressive. Questo salto qualitativo nell’opera di Ejnstejn viene compiuta attraverso il carattere astratto dell’immagine, in grado di restituire la genericità di un concetto. La serie di primissimi piani dei protagonisti e alternati in un ritmo progressivamente sempre più serrato, sono utili per costituire degli esempi di un determinato “tipo” espressivo, che rimanda ad un intera classe sociale. In questo film resiste però un impulso regressivo e disgregante e da ciò discende, forse in maniera necessaria, una concezione diversa del montaggio vista come un doppio movimento tensivo: in avanti e indietro, verso l’alto e verso il basso ecc. I film riprendono a mostrare il conflitto, per certi versi insanabile, fra nuove e vecchie generazioni, nuove e vecchie classi sociali, presente e passato ed è proprio di quest’ultima tensione che il regime staliniano perseguirà la rimozione, con ogni mezzo e con sempre maggiore determinazione. Forse anche per questa ragione il sonoro tarda ad approdare in Unione Sovietica, diventando una consuetudine solo quando nascono film che scelgono di accogliere i “dettami” del reale. La consapevolezza di molti, sin dagli anni Venti, era che il sonoro avrebbe rappresentato un’istanza “normalizzatrice”, per un cinema nato in aperta polemica con le aspirazioni narrative del cinema americano. La strada intrapresa dal cinema sovietico descrive un cammino di progressivo adeguamento del linguaggio alla linearità del racconto epico, in questo senso va ricordato il caso del film Sobborghi, in cui l’uso del sonoro, in senso espressivo e apertamente antinaturalistico, può essere interpretato come l’ultima difesa dell’esperienza avanguardista degli anni Venti. Il registra Boris Vasil’evic Barnet usa il sonore per attivare la modalità di montaggio audiovisivo, simile per funzionamento “al montaggio delle attrazioni”. Il sonoro irromper nel cinema sovietico con lo scoppio di bombe e con la visione di armi imbracciate dai soldati, questo per esprimere, meglio delle solo parole, l’assurdità della guerra globale