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FEDERICO FELLINI

Lezione 22° (9/11)

BIOGRAFIA (enorme disponibilità di documenti)

Nasce a Rimini nel 1920, muore a Roma nel 1993.

La sua formazione è legata all’ambito della cultura popolare, grande lettura e influenza dei fumetti, soprattutto
americani tradotti in italiano (per es. “Happy Hooligan” di F. B. Opper tradotto in italiano come “Fortunello”
sul Corriere dei Piccoli dal 1910). Personaggio di Fortunello è tra il clown e il vagabondo che anticipa un po’
figura di Charlot di Chaplin, e che rimane sicuramente nell’immaginario di Fellini, anche se sempre difficile
determinare con precisione le fonti del regista, che sono sicuramente tante ma anche sempre tutte rielaborate
in modo del tutto personale e originale. Prende da giornali, cronaca, letteratura, e fumetti tantissimo ma poi
diventa qualcos’altro. Inoltre non si perdeva un film al cinema Fulgor di Rimini, dedicato ora a lui, dove
vedeva i western e i grandi film americani. Poi ha grande capacità di disegno, oltre che di scrittura: inizia a
collaborare con settimanali satirici, quale “4202” edito da Nerbini (editore iniziale di Topolino e altri
d’importazione americana  in quegli anni grande proliferazione fumetti ma poi cesserà con fascismo).

Finito il liceo si trasferisce a Roma, dove doveva studiare Giurisprudenza ma poi in realtà non inizierà mai
l’università e inizierà subito a lavorare per il giornale umoristico “Marc’Aurelio”, pubblicato da Rizzoli, dove
squadra di figure che saranno quelle che segneranno la commedia italiana anni ’50, lo stesso Zavattini, Ettore
Scola e altri. Scrive anche molte storie, con ambientazioni di provincia, storie quotidiane, sempre con vena
comico-satirica e umoristica, così come nei suoi disegni dimensione caricaturale e onirica, costante in Fellini.
Firma anche testi per rubriche radiofoniche.

Nel 1942-43 inizia anche a collaborare ad alcune sceneggiature di film, sia scrivendo piccoli interventi comici,
o anche in film a maggior ambientazione realistica (per es Campo dei fiori di Bonnard, importante perché vi
sono Fabrizi e Magnani che saranno anche attori protagonisti di “Roma città aperta”). Amicizia con Fabrizi fu
molto importante, sodalizio.

Nel ’43 sposa Giulietta Masina, compagna per tutta la vita, anche se Fellini indugiava sicuramente in
tradimenti.

Incontro fondamentale è con Rossellini, che conosce dopo la guerra, grazie anche al tramite di Fabrizi, che
infatti in “Roma città aperta” interpreta Don Pietro. Probabilmente la scena comica del film in cui Don Pietro
da padellata all’anziano a letto che non vuole scendere durante la retata, è stata scritta da Fellini stesso.

Collaborazione molto diretta e importante è però con “Paisà”: Bondanella si sofferma molto sulla
sceneggiatura dell’episodio del monastero, dove i tre sacerdoti e momento finale di digiuno francescani per
cercare convertire i sacerdoti protestante ed ebreo. Questo episodio inizialmente era scritto da Amidei,
militante comunista, e idea sua era più ideologica e legata alla resistenza. Ma prevale proposta di Fellini, che è
innanzitutto più aperta (come cinema felliniano) e non preconcetto ideologico, ma più temi legati
all’innocenza, anch’esso che tornerà in Fellini.

Altre collaborazioni importanti: Comencini, Germi etc…

Fino al 1950 debutto in una coregia, con Lattuada (con cui già collaborazione), con cui, assieme anche a
Giulietta Masina e Carla del Poggio, attrice impo e moglie di Lattuada, fonda anche una cooperativa per
realizzare il film “Luci del varietà”: già dal titolo si capisce il tema, il mondo del varietà, ma non quello delle
grandi platee, ma quello del capocomico delle compagnie piccole che si esibiscono in periferia, mondo un po’
dell’illusione. Interesse Fellini nel mondo secondario dello spettacolo popolare, e già rapporto tra quello che
vivono personaggi e le loro illusioni (qui il capocomico illuso di portare al successo la nuova subrette). Il film
da punto di vista economico fu un insuccesso. La sceneggiatura è interessante perché, oltre Fellini e Lattuada
(autorialità nella Novelle Vague), anche Pinelli e Flaiano che accompagneranno Fellini fino a “La dolce vita”.
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Sempre in questo periodo altre collaborazioni con Rossellini, come l’episodio Il miracolo nel film “L’amore”
e collaborazione anche in “Francesco giullare di Dio”.

Il primo film realizzato con sceneggiatura sua è “Lo sceicco bianco”:

nasce da un soggetto scritto da Antonioni partito da un breve documentario che aveva scritto dedicato al
mondo dei fotoromanzi (in quegli anni grande successo, 1946 “Grand Hotel” e poi vero e proprio fotoromanzo
costruito su veri e propri set cinematografici). Ma film finisce per essere girato da Fellini.

Film racconta viaggio nozze di due sposini della provincia, Ivan e Wanda: il primo ha programmato tutto nel
minimo dettaglio, mentre lei è più una sognatrice e suo grande sogno è quello di incontrare suo idolo, dal
nome appunto di “sceicco bianco” a cui lei aveva anche scritto delle lettere definendosi “bambola
innamorata”. E al loro arrivo a Roma, lei desiderosa conoscere questo personaggio e la redazione è li vicino,
fugge e va sul posto a incontrare l’uomo dei suoi sogni. Per vicissitudini varie finisce sul set, fuori Roma
mentre Ivan non la trova in camera. In montaggio parallelo le due vicende: Ivan perbenista, con sua maschera
sociale da mantenere deve cercare nascondere assenza moglie ingiustificata, Wanda sul set fotoromanzo ma
anche lei a certo punto sarà disillusa, scontro sogno-realtà.

Personaggi in questo film non rappresentano una det categoria sociale e un contesto sociale, come nel caso di
“Ladri di biciclette” (disoccupati e contesto scoiale post guerra), ma Fellini interessa vedere le maschere
sociali. Vicinanza a Pirandello, un doppio sociale dato dalle convenzioni. Anche se sempre detto che non si
rifaceva a Pirandello, ma questo fa parte un po’ del suo personaggio, c’è una rilettura Fellini soprattutto nello
smascheramento, che in Pirandello è processo tragico, mentre in Fellini mai condanna morale, ma sorriso
nello smascherarli, sguardo più complice e quasi di giustificazione della debolezza umana. Bondanella
sottolinea anche la differenza Fellini rispetto all’esperienza neorealista: per quanto vicinanza, collaborazione
con Rossellini e questo considerato suo maestro, Fellini costruisce e tratta personaggi appunto in modo
diverso: no un tipo sociale che rappresenta il contesto, ma tendenzialmente borghesi con quotidianità molto
semplice e maschera sociale.

Film no successo di pubblico e critica più negativa che positiva, ma anche già qualche accento sulle
potenzialità regia di Fellini. Una delle ragioni dell’insuccesso è la presenza di Roberto Sordi, che in quel
momento non funzionava dal punto di vista cinematografico, figura che non piaceva al cinema, e comunque
Fellini insistette per averlo. Rieditato poi in Francia e Stati Uniti, dove molto apprezzato. Inoltre era periodo
di grande attenzione ad un certo tipo di realtà, più drammatica e di disagio sociale.

Con questo film inizia la collaborazione con Nino Rota per le colonne sonore, che sono sempre importanti a
livello diegetico del film e integrate, ruolo notevole nel commento musicale.

Dal punto di vista stilistico qui Fellini è all’interno di una struttura narrativa ancora abbastanza classica, con
montaggio alternato però sostanzialmente classico.

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1950 anno santo, evento importantissimo.

Tutti stereotipi della vacanza romana, come i luoghi etc.

La preoccupazione di Ivan è quella di mostrarsi sempre puntuale con gli zii, come tutto funziona nel
matrimonio, come lui è perfetto, fare bella figura, perbenismo piccolo borghese. Mentre si vede subito
sguardo perso di Wanda. Lui al telefono e lei la fanno salire nella camera, lui la chiama per salutare zii ma lei
salita, separazione involontaria dei due, come premonizione dell’evento principale storia. Wanda chiede al
facchino dove sia via che le interessa e scopre solo a 10 min di distanza, primo sorriso lei.

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Gioco di Fellini: i due personaggi, Wanda passiva e sguardo all’esterno, finestra, Ivan super organizzato, e
nell’unico momento un filo più romantico arriva donna che deve dare asciugamani e interrompe momento che
sembrava dedicato al romanticismo.

Nella loro giornata ecco che lei riesce a fuggire per andare nella redazione. Parla con una donna di spicco lì
della sua ammirazione per lo sceicco bianco e la donna dice “la vera vita è il sogno”, che in parte è frase molto
Felliniana poiché per lui la vita forse è più il sogno.

Lei finisce sul set, Ivan inizia a cercare di raccapezzarsi in qualche modo con zii, giustificandosi quindi
fingendo Wanda malata.

Poi lei sul set. Vediamo qui l’interesse Fellini a giocare con dimensione metatestuale, mostrandoci la
costruzione della finzione, qui del fotoromanzo (anche molto in “Otto e mezzo” poi). Wanda si rende conto
finita lontana da Roma e non sa come raggiungerla, persa nella campagna d’ambientazione del film, e lei vede
lo sceicco bianco, come vera apparizione e qui soggettiva e suo sguardo che vede realizzarsi un sogno,
dimentica tutto, toglie la maschera e vive suo sogno: la vediamo ora come un’altra persona, se prima sempre
spalle abbassate e sottomessa ora sicura e felice e dritta. Poi però vediamo che lo sceicco bianco inizia a
perdere suo alone di sogno, all’inizio fa un po’ il conquistatore, ruba cuori. Parallelamente Ivan che chiama a
Wanda ma dall’altra parte c’è cameriere, per portare avanti sua maschera. Poi torniamo a Wanda, lo sceicco è
riuscita a convincerla ad andare in barca con lui. I due sembrano innamorati e dimensione sogno che si
realizza ma poi lui cade in acqua, di nuovo la gag che interrompe in Fellini. Ma vediamo che quello è il
fotoromanzo ina zione, vediamo pubblico che lo guarda, lei in realtà era in scena di recitazione ma lei pensa
sia realizzazione suo sogno.

Infine disillusa dal suo incontro col sceicco e dalla costruzione del fotoromanzo cerca di capire come tornare a
Roma e Ivan continua a cercarla, disperati entrambi. Ivana lascia gli zii e strada per tornare all’albergo ma lo
vediamo vagare per le strade di Roma, gli è crollato un po’ tutto. Scena in cui incontra due prostitute (di cui
una è interpretata da Giulietta Masina, cioè Cabiria che rincontreremo appunto in Cabiria prostituta). Le due lo
vedono piangere e s’avvicinano, gli chiedono perché e lui dice che la moglie è scappata, aveva programmato
tutto, erano in viaggio di nozze etc…alla fine consolato dalle due, parlano, caduta completa da sua maschera
sociale. No dramma e quadri società però, ma piccoli drammi quotidiani e neanche troppo profondi e
complessi. Alla fine lui va con una delle due prostitute, paradosso che alla fine è lui a tradire e no Wanda. Lei
è tornata disperata ma no coraggio di presentarsi dal marito e decide so suicidarsi buttandosi nel Tevere, ma
anche qua in realtà fiume è pochi metri sotto e quindi anche questo finisce in nulla. Scena costruita come un
vero dramma neorealista, cona anche musica, ma poi gag comica, lei è in realtà finita in due metri d’acqua e
viene vista da un uomo che si chiede che cosa faccia, portata all’ospedale psichiatrico in quanto suicida. Ivan
va a recuperarla per cercare di ricostruire sua maschera sociale e portarla con sé all’appuntamento che ha con
gli zii dal Papa. Entra nella stanza dell’ospedale, e lei vestita come sul set, gioco Fellini sui loro gesti e
sull’apparenza che sia lei ad aver tradito lui, si copre il vestito, piange etc… i due piangono, entrambe le
maschere cadute, ma quello che interessa a Ivan è salvare la dimensione sociale, “prima l’onore della
famiglia”.

Questo finale dove tutto sembra tornare a posto e andare come doveva. Si vestono tutti composti come
dovrebbe. Sguardo di Wanda, da illusione finita, parenti vanno da lei. Sguardo di Ivan, felice perché tutto a
posto, ma poi si oscura anche sul volto. Tutti loro che si avviano in questa marcia verso Vaticano, durante la
quale Wanda prova a dire qualcosa e dice a lui di essere innocente, non l’ha tradito, e lui, dopo espressione di
sollievo, dice “anche io”, quindi in modo ipocrita. Lei gli dice “il mio sceicco bianco sei tu”, sguardo di lui
prima perplesso su di lei, e di nuovo sguardo Fellini un po’ ironico ma no in sé condanna morale.

Infine dalla marcetta dei parenti si inquadra la statua dell’angelo che è come guardasse con benevolenza i
personaggi.

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Il film successivo di Fellini, che è quello che lo porta al successo, e con lui anche Alberto Sordi (coraggio
Fellini di riprovarci con Sordi), è “I Vitelloni”

Nome che entra poi a far parte della lingua italiana, come altri termini Fellini. I vitelloni sono questi
personaggi nullafacenti soprattutto nella provincia, un po’ viziati che passano loro giornate tra bar e spiaggia e
di notte girano. Sceneggiatura Fellini Flaiano, musiche di Rota: la squadra si sta formando. Fellini usa
doppiatori diversi dagli attori per i personaggi, postproduzione, per es Fausto è doppiato da Nino Manfredi.
Esterni sono girati ad Ostia e “Rimini” ma ricostruita a Cinecittà  questa altra caratteristica Fellini, quella di
non identificare mai dei luoghi precisi e spesso di ricostruirli comunque. Il film vince il Leone d’Argento ala
Festival di Venezia. Protagonisti 5 giovani che sognano avventure che però non si avvereranno mai, se non
uno che riprende treno verso fine e va verso Roma ma anche finale rimane aperto.

Il film ha una voice over: usa il “noi” ma non facilmente identificabile con un personaggio, più simile a
narratore onnisciente. Abbiamo visto nel caso del neorealismo con Rossellini voce è documentaristica, qui
invece è voce che anche commenta e in modo ironico a volte, quindi non è neanche il commento ideologico di
Visconti. [voice over e voce fuori campo: la prima non corrisponde o no pox farla corrispondere con alcun
personaggio, la seconda vi corrisponde]

Personaggi sono tutti disillusi e inconcludenti

Da punto div ista stilistico c’è uso delle panoramiche e delle carrellate a seguire i personaggi che si spostano.
A mano a mano le loro maschere e illusioni si rivelano, soprattutto nel momento in cui Alberto è ubriaco ad
un carnevale. L’unico che sembra realizzare qualcosa è Moraldo che appunto parte ma anche lì non si
conclude bene.

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Un inizio che poi diventerà tipico degli inizia delle commedie italiane, cioè la fine dell’estate, rappresentata
anche dall’elezione della miss sirena del caso. Subito voice over presenta i personaggi, per es l’intellettuale
che “pensa di fare come Hemingway”, Fausto scopre a fine serata di aver messo incinta la sorella di Moraldo,
e cerca di scappare. Tutti cercano di evitare realtà o esserne superiori. Quando Fausto fa per andarsene è però
il padre a fermarlo e lo rincorre come un bambino. Fausto che si propone fin da subito come guida spirituale
del gruppo pur in realtà essendo preoccupato solo dal sedurre le ragazze, viene subito smontato dopo 10
minuti dall’inizio con episodio padre che rivela tutta la sua maschera, disgraziato buono a nulla. Momento di
crollo tutta idea fatti finora. Ma poi continuerà comunque nel gioco della seduzione.

Lezione 23°

“Le luci del varietà”, “Lo sceicco bianco” e “I vitelloni”, hanno tutti al centro il disvelamento delle maschere
sociali dei loro personaggi, non in chiave moralistica né in senso pirandelliano, ma con sguardo ironico e di
benevolenza, Fellini sembra identificarsi un po’ con essi, o fa passare un poi questa idea di essere in fondo un
po’ un vitellone anche nelle interviste, egli è compartecipe o sembra esserlo, come sempre con i suoi
personaggi. Attenzione in questo film è al seguire anche i personaggi dando importanza agli ambienti in cui si
muovono. I personaggi sono quasi identificabili con dei tipi: l’intellettuale di provincia, il mammone, il finto
Casanova, mentre Moraldo è meno definito, sta un po’ più a lato e per questo a volte possiamo pensare che
voice over corrisponda a lui. Molte caratterizzazioni dei personaggi li ritroveremo poi nella commedia
all’italiana anni ’60, che Fellini in certo senso un po’ anticipa.

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Padre Fausto lo costringe a sposare la ragazza, e quindi vanno in viaggio di nozze. Ecco allora gli altri ragazzi
che parlano del viaggio di nozze, dove andare etc mentre sono al bar a giocare a biliardo. Poi escono in strada,
di notte, e si vedono ambienti. Loro parlano anche seriamente ma tutto finisce sempre nello scherzo. Si vede

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bene personaggio di Sordi, che Fellini delinea molto bene, come lo vedremo poi nei film successivi una volta
entrato definitivamente nel cinema italiano dopo questo film.

Momento in cui tornano a casa, e con voice over vengono fatti ritratti dei singoli personaggi: Alberto vive con
mamma e sorella e mamma non va a letto se lui no tornato (sono tutti ragazzi tre i 25 e 30 anni però);
Leopoldo, l’intellettuale che si mette a scrivere come ogni sera sua nuova commedia (e poi quando riuscirà a
dare suoi testi teatrali a capocomico in realtà si svelerà essere stato accettato solo per attrazione sessuale del
capocomico nei suoi confronti); Moraldo invece rimane come sempre solo per le strade deserte. Mentre lui su
panchina a pensare che forse dovrebbero veramente partire, entra in scena un’altra delle figure del film, che in
certo senso si contrappone ai vitelloni, è ragazzino piccolo che lavora già e vuole costruirsi proprio futuro. Nel
ragazzo vi è maggiormente l’eredità neorealista, in cui è tipica la figura del bambino-adulto, come Bruno in
Ladri di Biciclette. Certamente Fellini è lontano dal neorealismo Zavattini e De Sica, molto più che resto
neorealismo, ma sicuramente qui è elemento neorealista che si contrappone anche in maniera funzionale ai
vitelloni.

Tutte varie vicende dei vitelloni, che in realtà dicono dicono ma non sembrano veramente andarsene da dove
sono. Fausto nonostante in viaggio di mozze, cerca ancora continuare suo gioco da Casanova, provando per es
a sedurre la moglie del proprietario del negozio in cui lavorava.

Passando al momento del carnevale, vediamo alla fine Alberto che balla abbracciato a questa maschera, in
momento finale del carnevale quando la festa è ormai un po’ sfatta, triste, con clown e suonatori. E lui
espressione di disaccordo su sé stesso, e proprio nel momento del carnevale paradossalmente sua maschera
cade, si rivela a lui e lui vive sue contraddizioni. Uscito dal centro festa, va in angolo a piangere, e poi
Moraldo lo raccoglie ubriaco e cerca di portarlo a casa. Alberto rivolgendosi a Moraldo, ma in realtà a sé
stesso, dice “chi sei tu”, “voi non siete nessuno, tutti voi”, “mi fate schifo”. Fellini affida la dimensione di
smascheramento non alla voice over, ma ad uno dei personaggi, e qui la differenza con neorealismo. Si astiene
dunque dal giudizio e dal commento affidando la questione al dialogo tra due personaggi e alle parole di un
ubriaco. Alberto ubriaco dice appunto che devono partire, fare un viaggio, di nuovo questa dimensione.

Quando Moraldo è riportato sotto casa, arriva sorella (lui si mostrava difensore dei valori della famiglia, in
realtà viveva alle spalle della sorella e della madre) che lo stava aspettando perché in partenza, non ce la
faceva più e ha deciso di andarsene, tra l’altro senza neanche sposarsi. Maschera sociale della famiglia si
sgretola.

Passiamo poi nuovamente a Fausto, che continuando con i suoi tradimenti mette definitivamente in crisi
matrimonio, e la moglie decide di scappare dopo ultimo tradimento con subrette.

Arriviamo al finale in cui a questo punto Fausto va a cercarla con l’aiuto degli amici, anche se per loro finisce
per essere una delle loro tante avventure. Fausto cercando va al negozio in cui aveva cercato sedurre moglie
del titolare, si mette a piangere in modo infantile. Poi proseguono e in macchina fanno gestaccio a dei
lavoratori sul ciglio della strada, ma loro macchina si ferma, non riescono a ripartire e allora i lavoratori vanno
verso di loro e i vitelloni scappano. Scena comica all’interno di un momento che sembrava svilupparsi
seriamente, questa gag diventa poi molto famosa nel suo motivo e anche come altro elemento della commedia
italiana anni successivi.

Finale con fausto che ritrova moglie e bambino a casa del padre, Fausto punito dal padre e sembra redimersi
alla fine e quadretto ricomposto. Voice over che dice storia Fausto sembra terminata “per ora” (ecco Fellini
che non chiude e da sempre una provvisorietà), ma quella degli altri? Parlavano sempre di partire…ma uno
solo, una mattina partì davvero. E allora vediamo Moraldo alla stazione, che parte, il bambino-adulto di prima
lo vede e gli chiede dove vada ma Moraldo non lo sa, doveva partire. Inquadrature finali sugli altri che
dormono mentre si sente treno che va. E infine inquadratura sul bambino che saluta Moraldo

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Su questo finale interpretazioni molteplici: per alcuni Moraldo è un debole, fugge semplicemente, non cambia,
quindi no meglio degli altri. Sguardo del bambino, che si può vedere come l’interprete positivo, che chiede
appunto a Moraldo che cosa vada a fare, e che faccia capire mancanza di senso, e inutilità fuga. Per altri
invece il significato è di coraggio di fuggire, scelta finalmente verso il futuro. Fellini non ci dà, neanche nella
sua voice over, una conclusione o spiegazione.

Fellini avrebbe dovuto girare una sorta di seguito, “Moraldo in città” ma film non si è mai realizzato.

Nel frattempo Fellini con Pinelli e Flaiano avevano già programmato idea de “La strada”, progetto però non
approvato dai produttori e che invece sul successo de I vitelloni si riapre come possibilità. Nel frattempo tra I
vitelloni e La strada, egli gira un breve episodio all’interno di un progetto di Zavattini (presa posizione
neorealista molto più radicale rispetto a Rossellini), ovvero “L’amore in città” cui partecipano diversi registi e
in cui episodio di Fellini è L’agenzia matrimoniale dove un giornalista si presenta per cercare moglie,
presentandosi come un licantropo notturno…si capisce come realismo Fellini sia sempre molto discutibile. E
con questo episodio si conclude la TRILOGIA DEL PERSONAGGIO, che comprende i tre film visti legati
allo smascheramento sociale e al neorealismo in parte. Mentre con “La strada” si apre nuova stagione
produzione Fellini, che Bondanella chiama TRILOGIA DELLA SALVEZZA E DELLA GRAZIA: La strada,
Il bidone, Le notti di Cabiria

Ne “La strada” (1954) protagonista è Giulietta Masina che interpreta Gelsomina, e altri personaggi anche
attori abbastanza famosi americani. Quindi idea di un progetto internazionale e che porti ad un successo più
ampio. Film presentato alla mostra di Venezia e vince il Leone d’Argento fra le polemiche: infatti presentato
anche “Senso” di Visconti ma no vince, vero e proprio boicottaggio sul film e pressioni politiche perchè non
vincesse da parte dei democristiani; polemiche che si riversano di conseguenza su Fellini come film difeso da
una parte della critica cattolica, mentre Senso difeso dalla critica marxista e quindi Fellini considerato
traditore del neorealismo. All’estero ha successo e no particolari critiche, mentre in italia influenza del clima
politico.

In ogni caso si inizia a delineare un cinema di fellini sempre più verso dimensione poetica, lirica, metaforica
con per prima volta ambientazioni caratterizzanti il mondo e immaginario del regista (strada, circo etc…).
musica Rota assume maggior rilevanza e si integra totalmente con film: il tema di Gelsomina, una
composizione di Rota sulla variazione di un tema di Corelli, che all’inizio doveva sentirsi con strumento
esterno, mentre poi suonata dal matto, infine ripresa con tromba da Gelsomina e diventa motivo con cui si
identifica suo personaggio ma anche i momenti più drammatici e culminanti del film.

Zampanò, girovago dal carattere violento e primitivo, che si esibisce nei piccoli circhi o in strada, ha bisogno
di una nuova compagna e compra Gelsomina, che di famiglia estremamente povera viene venduta dalla
madre. Diventa serva in tutti i sensi di Zampanò. Vestizione e trasformazione di Gelsomina nel nuovo
personaggio da circo. Incontrano il matto. (tutti personaggi da fumetto, vagabondo di Charlot o il clown etc).
Loro viaggio tema importante perchè attraversano Italia e vediamo paesaggio trasformarsi, soprattutto alla
fine è invernale e triste legato al finale stesso. Il matto entra in scena come un angelo mentre fa esercizio
acrobatico su un filo sospeso. In uno dei dialoghi più famosi, il dialogo del sasso, è lui a dire a Gelsomina, che
è disperata e si sta chiedendo a cosa serva lei, a nessuno, qual è la ragione di vita, che tutti noi abbiamo in
fondo un’utilità, anche un sasso ha un senso e un’utilità nel mondo. È una sorta di umanesimo cui guarda
Fellini, il quale, pur non essendo un cattolico convinto, guardo molto alla figura del Cristo come redentore e al
suo sguardo verso i più miseri come Gelsomina. Zampanò si scontra in continuazione con il matto fino ad
ucciderlo. Gelsomina non si riprende più dalla situazione, rimane sola e qualche anno dopo Zampanò scoprirà
casualmente che Gelsomina è morta. Vediamo allora finale in cui Zampanò ubriaco va verso il mare e
finalmente piange. Ancora questo finale aperto, una lettura è la redenzione (se lo è) di Zampanò attraverso il
sacrificio di Gelsomina, lettura cristologica. Altre interpretazioni. Comunque certamente Fellini qua, pur
senza dimenticare gli elementi di ambientazione realistica, è sicuramente più verso una dimensione poetica e
lirica, e anche la rappresentazione del reale che vi è non è certamente una rappresentazione o lettura

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sociologica, men che meno ideologica o politica. “La strada” è sicuramente uno dei film più importante di
quegli anni anche solo per il dibattito che si è creato attorno ad esso.

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Inizio, paesaggi, realtà…sì realismo. Ma poi sempre trasfigurato, come sempre in Fellini il dato reale gli serve
per trasfigurarlo.

Momento consegna di Gelsomina, Zampanò dice che può far imparare anche ai cani, subito si vede sua
volgarità e dimensione animalesca.

Momento vestizione Gelsomina. Cappello che ci ricorda Charlòt. Poi le fa provare a suonare, sembra scena
tranquilla, ma poi per farle imparare lui prende ramo e la frusta ogni volta che sbaglia.

Iniziano viaggi e spettacoli. Lei riesce a certo punto a fuggire e incontra tre musicisti che vanno verso una
festa religiosa in paesino dove appunto incontra un matto. [Fellini dice che furono fortunati e che trovarono
effettivamente una festa patronale, quindi molte immagini sono effettivamente reali]. Lei sul bordo strada e tre
personaggi che compaiono praticamente dal nulla, qui c’è proprio Fellini, sembrano venire fuori da un mondo
di sogno, in mezzo alla campagna loro passano e lei li segue, dimensione onirica quasi. Poi arriviamo alla
festa dove passiamo più a dimensione reale. Il matto vestito da angelo sul filo sopra i tetti, sembra
l’apparizione dell’angelo Gabriele, esibizione dissacrante (fa finta mangiare spaghetti) all’interno della
manifestazione religioso. Matto scende, in mezzo a folla, i due si scambiano sguardo per cui è come se si
riconoscessero.

Altra scena vediamo il matto entrare e arrivare suonando il motivo che poi diventerà quello di Gelsomina. Il
matto vede Zampanò e inizia a prenderlo in giro, i due iniziano a battibeccarsi finché alla fine interviene
polizia e vengono presi entrambi. Poi il matto rilasciato e Zampanò trattenuto. Questo porta all’incontro tra
matto e Gelsomina ed al famoso dialogo del sasso. Discorso lungo che però riassume poetica del film. Ci si
concentra soprattutto sull’individualità, e qui critiche da punto di vista marxista, per cui rappresentazioni
Fellini erano legate ad un mondo passato, vecchio, già detto. Ma comunque Fellini gioca molto sulle
immagini, sull’apertura, sul lasciare molte domande ma senza risposte.

Vicinanza che in realtà c’è tra il matto e Zampanò, che sembrano agli opposti, uno sensibile e uno volgare, e
invece entrambi affermano di non aver bisogno degli altri, il matto in realtà si capisce che vuole stare da solo,
solitudine e autosufficienza, non solo dopo il discorso per cui il matto dice che tutti servano a qualcosa,
paradossalmente scoprono che gli altri non li vogliono e quindi non servono, ma loro stessi vogliono stare da
soli ed essere autonomi.

A proposito della critica marxista, Aristarco, importante critico e anche uno dei primi professori universitari di
cinema, sul “Cinema Nuovo”, si esprime a favore di “Senso” nel contesto del famoso festival in cui i due film
si contrappongono. “Senso” è infatti considerato un’evoluzione del neorealismo, ovvero rappresentante del
cosiddetto “Realismo strico”, dove l’interpretazione del mondo è legata non solo ai fatti contemporanei ma
anche ad una rilettura storica, di più ampio respiro, mentre, pur riconoscendo la grande abilità di Fellini,
critica quel che per lui è la rappresentazione da parte di Fellini di un’ideologia passata, egli “appare come
regista anacronistico”; continua Aristarco dicendo che “Fellini è rimasto alla letteratura d’anteguerra,
d’origine falsamente lirica, intellettualistica, decadentistica, ambigua, una letteratura in cui alla sfiducia della
realtà sic cerca di sostituire un assunto poetico posto al di sopra e al di là del reale e del razionale della storia.
Fellini è un regista anacronistico impastroiato in problemi umani superati da tempo. Spiace vedere tanti
risultati dubbi in un regista certo tra i più dotati”.

C’è invece altra lettura. Letteraria e sempre di sinistra, fatta da Franco Fortini, che da invece un giudizio
diverso, per cui tipi umani rappresentati di fatto fanno parte della nostra realtà quindi non così anacronistico
Fellini, anche se suo commento meno noto e influenza di quello di Aristarco è nettamente maggiore. Fortini,
pur avanzando comunque delle critiche, cerca però di interrogarsi, dice che in fondo Fellini stesso ci
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interrogava su questi personaggi che lasciamo in secondo piano e che apparentemente sono minori e
inesistenti, a differenza degli operai o dei contadini o altre classi più ampie. Mentre critica francese giudizi
iper positivi Questa la situazione contemporanea ai suoi primi successi, molto discusso Fellini.

Altro momento film, pestaggio tra il matto e Zampanò. Si è bucata la gomma a Zampanò, incontrano il matto.
Si vede anche loro somiglianza nella situazione di vita solitaria e indipendente. Si picchiano e Gelsomina
allontana Zampanò. Il matto è mal ridotto ma se ne va senza problemi, ma poco dopo si accascia e muore. Se
ne vanno e paesaggio è arido, invernale, brullo.

Lezione 24°

Bondanella riflette molto su questo finale, anche presentandone l’evoluzione in Fellini fino alla decisione
finale presa insieme agli sceneggiatori: si vede come all’inizio, nella sceneggiatura originale, il finale fosse
più vicino ad un’idea di redenzione e Gelsomina quasi come figura sacra, con suo calvario e suo sacrificio che
porta alla salvezza Zampanò, ma questo finale portava ad una lettura chiusa. Invece poi vediamo, che pur
mantenendo questa lettura come possibile, Fellini la porta ad una maggiore apertura, per cui lacrime Zampanò
sì evidenziano un’evoluzione anche personale del personaggio ma non per forza legata a quella lettura
cristologica. Se leggiamo proprio la sequenza nella sceneggiatura si vede bene volontà lasciare uno spazio
aperto e una dimensione lirico-visiva, di una lettura che non vada a chiudersi in un facile simbolismo o
passaggio interpretativo: Zampanò piange, panoramica ampia e no chiusura particolare.

[video]

Paesaggio freddo e arido. Gelsomina viene abbandonata da Zampanò. Poco dopo vediamo Zampanò che gira
in paese e sente il motivo di Gelsomina, c’è una donna che lo canticchia e lui chiede come faccia a conoscerla,
lei dice che lo cantava sempre una ragazza che era stata lì, passati 4-5 anni, ma ora è morta. Si vede sconforto
lui. Poi più avanti lo vediamo che esce da un locale, cacciato perché ubriaco e fatto a botte con altro/i, urla di
lasciarlo stare che vuole stare solo lui, ma è un voler stare soli disperato. Va verso il mare, e ciclicamente
torniamo alla scena iniziale sempre sulla spiaggia, dove ha incontrato per prima volta Gelsomina. Certamente
si vede uno Zampanò diverso, è cambiato. Si lava faccia con acqua mare, si butta sulla spiaggia, respiro
affannoso (come descriveva Fellini nella sceneggiatura), la macchina da presa che indugia su suo viso e
sguardo ancora, Zampanò alza il volto e guarda il cielo (da qui anche lettura cristiana), riabbassa viso e
scoppia in lacrime (redenzione data, segnalata da questo). Tutto questo finale è raccontato solo attraverso la
dimensione visiva. Poi si butta verso la terra, sabbia. E la macchina da presa che si allontana, panoramica
ampia, a darci forse l’immagine di uno Zampanò solo, abbandonato, il cui destino no tanto diverso da quello
della stessa Gelsomina, e motivo di Gelsomina che si alza a chiudere film. Un finale aperto, interpretabile
anche come la solitudine dell’uomo, che guarda verso cielo sì ma poi rimane comunque solo (vs
interpretazione della redenzione e del cambiamento).

Altre interpretazioni possibili: l’impossibilità della comunicazione nella società contemporanea con Zampanò
e Gelsomina, che non riescono a entrare in sintonia, rimangono due persone sole e non riescono a trovare
quella sintonia che forse era possibile; lettura anche più in ottica femminista, per cui Zampanò è il maschio
padrone che domina e sottomette donna; alcuni anche in chiave autobiografica per cui quel rapporto tra i due
rappresenta di fatto il rapporto tra Fellini e moglie, lui un po’ padre-padrone; ancora una lettura poetica fuori
dal tempo della Bella e la Bestia, con Gelsomina che, anche se in ritardo e attraverso il ricordo, salva
Zampanò; infine l’interpretazione più diffusa in ottica cristologica (ma Fellini mai ideologia cristiana ufficiale
e chiaramente identificabile, con nessun film e a maggior ragione con la sua produzione in generale no
riconducibile ad un’ideologia definita).

“Il bidone” (1955)

Dopo successo de La strada facile fare altro film e molti chiedono un film simile. Decide di fare questo film
dal titolo che è altro termine che entra nel vocabolario italiano. I protagonisti sono persone che cercano

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sopravvivere con piccole truffe, protagonista è Augusto, già non molto giovane che ha sempre vissuto di
questi espedienti organizzati con altri personaggi di questo sottobosco romano: vendere cappotti di lana infima
come di grande pregio, fingersi sacerdoti che raccolgono soldi per opere di bene, approfittano insomma
dell’ingenuità delle persone soprattutto delle campagne romane. In questa rappresentazione di questi bidoni,
truffe, si vede anche che lui ha in realtà una figlia a cui lui si riavvicina. Lei per un lavoro ha bisogno di dare
un’indennità di cassa da dare per assunzione, soldi, e si rivolge a lui. Augusto decide di aiutarla ma per farlo
truffa i suoi comapgni: estorce denaro a famiglia con ragazza paralitica e denaro che incassa lo nasconde agli
amici, che poi lo picchiano e finisce in fin di vita.

Film è presentato a Venezia, ma non convinse né il pubblico né la critica, di tutti gli schieramenti. A lungo
rimasto in secondo piano. Ma film importante all’interno della trilogia della salvezza, per l’attenzione con
sguardo particolare a questi personaggi liminari, fuori dalla società, un po’ al limite, e mai per condanne
moralistiche ma sguardo quasi di condivisione del dramma, o comunque come persone che forse bisogna
capire di più.

Augusto è interpretato dall’attore americano Broderick Crawford, doppiato da Arnoldo Foà, un altro attore è
Franco Fabrizi che avevamo già nei Vitelloni, che qui interpreta Roberto, vi è anche Giulietta Masina ma solo
per la breve parte di Iris.

Rispetto alla Strada non vi è un personaggio come Gelsomina, cui spettatore sta vicino, ma più
rappresentazione di un mondo brutale e cinico. Augusto è in caduta libera, ogni volta che fa un colpo è sempre
peggio e lui stesso finisce poi in carcere, da parte spettatore mai vicinanza, personaggio scostante, se non nel
momento in cui si riavvicina alla figlia, perché vuole aiutarla, ma anche questo finisce per essere un ulteriore
passo verso la caduta.

[tutti e tre film di questa trilogia hanno la pox di individuare 5 episodi]

[video scena finale]

Da famiglia con figlia paralitica, che lui incontra e sembra già esserci una redenzione, lui vestito da
monsignore. Lei la bontà e la preoccupazione per gli altri, similmente a Gelsomina, e lui sembra colpito da
questa ragazza ma in realtà sta pensando a come recuperare soldi per figlia. Idea del miracolo, torna questa
idea in Fellini, ma un miracolo che poi non avviene mai. Inoltre qui a certo punto lui sembra pentirsi di star
rubando soldi a questa famiglia, in realtà no, e lui pensa di usare anzi suo finto pentimento come alibi con suoi
amici dicendo che i soldi non li ha presi perché li ha voluti lasciare a quella famiglia disgraziata. Amici non
gli credono e lo picchiano, anche spettatore però non capisce e pensa veramente che Augusto possa non aver
rubato alla fine. Invece una volta steso Augusto, gli trovano tutti i soldi addosso. Lui abbandonato in pessime
condizioni, amici non sono da meno di lui, un mondo senza pietà. Abbandonato in questa petraia desolata che
ci rimanda alla desolazione umana dei sentimenti. Inizia agonia di Augusto. Anche qui sguardo verso il cielo,
come per Zampanò, ma anche qui è un cielo che non interviene. Paesaggio immobile. Lui si chiede che
succede se muore, ma dice che tanto non deve mantenere nessuno, è solo. Anche se in realtà sta morendo
proprio a causa di tentativo aiutare figlia. La ricorda, in certo senso sua morte è riscattata dal fatto che pensava
alla figlia. Sta meglio e cerca tornare strisciando verso la strada. Si sente un canto (di nuovo importanza della
musica che entra in scena nel momento finale). Vede sulla strada delle contadine che cantavano e dice di
aspettarlo, ma a bassa voce, e guardandole andare via muore sul ciglio della strada, mentre si alza il vento che
spazza via tutto. Da una parte si può vedere la morte come condanna di questo personaggio, mentre anche
come momento di pentimento.

Bondanella infatti paragona questo momento di possibile pentimento finale all’episodio dell’antipurgatorio di
Dante nella Divina Commedia, quando il poeta incontra Buonconte da Montefeltro, che ritarda proprio
pentimento fino all’ultimo, ma quell’ultima lacrimetta finale lo salva, così come Augusto potrebbe fare
esprimendo desiderio andare con quelle donne nei campi. E alla fine ciò che lo perde definitivamente è
paradossalmente un gesto, amorale, per aiutare la figlia.
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Ultimo film della trilogia è “Le notti di Cabiria” del 1957

Sceneggiatura è sempre di Fellini, Pinelli, Flaiano, ma con la collaborazione nei dialoghi di Pasolini,
soprattutto per la rappresentazione bassi fondi romani, era già uscito infatti il suo romanzo “Ragazzi di vita”.
Siamo nella seconda metà degli anni 50 quando a Roma sicuramente in contatto e confronto continuo Fellini,
Pasolini, Moravia, e in cui anche non poche censure. Infatti Cabiria difficoltà, a partire dalla stessa
protagonista, che è proprio una prostituta, anche se fuori dagli stereotipi della prostituta tradizionale romana,
ma più ingenua come quella dello Sceicco Bianco. Il film ha inizialmente difficoltà a trovare un produttore,
perchè il mondo della prostituzione era in quegli anni oggetto di grande dibattito ideologico e politico, poiché
si stava discutendo la legge Merlin, per l’abolizione delle “Case chiuse”, legge approvata nel 1958. Prima la
prostituzione era permessa in queste case chiuse, era qualcosa di consolidato proprio nello Stato. Inoltre
censura sul cinema molto pesante. Infine Fellini aveva avuto poco successo con film precedente. Ma a certo
punto ad approvare produzione film è De Laurentiis.

Protagonista è Giulietta Masina nei panni di una prostituta, Cabiria, ma molto autonoma a differenza della
maggior parte, non ha un protettore e ha certa indipendenza economica, si è costruita una casa, anche se è più
una baracca. Ha sogno di avere un uomo che ama e che la ami. Ogni episodio (5) ogni volta è una caduta, una
delusione, da cui sì riesce a risollevarsi, ma suo sogno è destinato a non avverarsi, almeno nel percorso del
film. La Masina vince anche il premio per miglio protagonista al Festival di Cannes.

Nel film vi è anche un cameo di citazione cinematografica legato ad Amedeo Nazzàri, attore che si era
affermato durante periodo fascista e nel dopoguerra aveva avuto successo nei melodrammi popolari, era vero
divo del cinema, per quanto un cinema lontano da Fellini: infatti nel film Cabiria lo incontra per caso col
nome di Lazzari, (Nazzari interpreta sé stesso) il quale la porta nella sua villa; poi non succede nulla, ma
Cabiria sembra avvicinarsi brevemente ad un idillio, a quel mondo di Nazzari, del divismo, mondo del sogno
del cinema, che sarà poi rappresentato con La Dolce Vita con attori stranieri e americani che arrivavo, ma che
sarà diverso ormai da quello di Nazzàri che ormai è in mondo passato. Vediamo quindi sia la Roma delle
baracche e delle prostitute sia la Roma dei divi del cinema.

Il soggetto del film risale al 47 quando Fellini propone a Rossellini un film su una prostituta di periferia al
posto de Il miracolo, episodio all’interno del film L’amore di Rossellini, ma Anna Magnani rifiutò
d’interpretare una prostituta.

Film girato a Roma, la villa di Nazzari è in realtà la villa di un senatore, Angiolillo, e gli interni sono
ricostruiti in studio però. La sequenza del Santuario del Divino Amore, cui Cabiria implora aiuto per uscire
dalla sua situazione, è girata, con il permesso della Chiesa, direttamente al Santuario della Madonna che si
trova a Roma sopra la via Ardeatina, un po’ fuori dalla parte più centrale della città.

Ma film, come visto, ha problemi di censura. Fellini, aiutato anche da Padre Arpa, suo amico, e cerca di
aggirare la censura ai minori di 16 anni, coinvolgendo il cardinale Siri, all’ora arcivescovo di Genova, allora
abbastanza aperto, poi diventerà uno dei più conservatori, organizzando una proiezione privata per il cardinale
così da far avere un giudizio positivo da parte del cardinale che avrebbe di certo influenzato la critica,
allentando la censura. Alla fine del film si dice “povera Cabiria, dobbiamo assolutamente fare qualcosa per
lei” e questo porta a superare il divieto ai minori di 16 anni, ma con una richiesta: tagliare un episodio che non
centra nulla con la prostituzione, ma in cui di notte un laico va ad aiutare queste prostitute che vivono in
queste specie di grotte in condizioni estreme, e qui il mondo cattolico voleva evitare che ci fosse una
dimensione laica della carità e dell’aiuto verso l’altro. Il produttore taglia l’episodio senza dire nulla a Fellini,
che però accetta, anche perchè comunque non influisce molto sul film per quanto duri circa 5 minuti. Ora lo
possiamo vedere con l’episodio reintegrato.

[video]

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Il film inizia con un campo lungo e situazione nella periferia romana, protagonista del film, che sembra di due
innamorati, ci si aspetta una scena d’amore ma che poi cambia subito e radicalmente. Questa campo lunghi
che accompagnano l’entrata in scena di Cabiria servono proprio a dare idea chiara del contesto in cui lei si
muove e che spiega lo stesso personaggio.

Cabiria rincorsa da questo ragazzo, sembra scena d’amore e scherzosa fra due fidanzati. Sullo sfondo l’edilizia
romana, paesaggio periferico e accenno alla speculazione edilizia, richiamando direttamente Pasolini e La
ricotta. Quest’ambientazioni ritornano molto in quegli anni. Sulla riva, ci aspettiamo scena d’amore e invece
il ragazzo le ruba la borsetta e scappa, lei cade nell’acqua. Chiama aiuto, arriva della gente ad aiutarla, la
salvano, ma lei poi molto poco riconoscente, vuole andarsene via subito. Subito suo carattere, no reazione
melodrammatica ma reazione di forza. Va a casa e recupera tutti vestiti che aveva lasciato dal ragazzo che
pensava l’amasse e ricomincia sua vita.

Altra scena in cui vediamo il mondo popolare romano, ballano il mambo. Ma poi finisce male con una donna.
Si fa portare a Via Veneto, la via che sarà protagonista de La dolce vita. E qui incontra Nazzari, il divo ormai
forse passato, ma sempre divo ancora (nella Dolce Vita troveremo altri divi). Nazzari sta litigando con la
fidanzata, mondo dell’illusione, dei grandi attori cinema americano. Lei riconosce subito l’attore. Lei va a
casa sua e sembra stia entrando in quel mondo, ma ritorna fidanzata lui e si interrompe tutto. I due fidanzati
dell’altro mondo si ritrovano, lei piange etc… scena che sembra quasi un film nel film. Nel frattempo Cabiria
è nel bagno, con il cane, e vede attraverso la serratura, che ci rimanda allo sguardo scopico del cinema, noi è
come vedessimo al cinema una delle scene tipiche film Nazzari, melodrammi. Lei vede questo mondo da
lontano, lo può guardare solo attraverso il buco di una serratura. L’illusione svanisce. Vediamo poi lei
addormentata nel bagno con il cane, scena che ricorda “Vita da cani” di Chaplin, per cui unico amico con cui
passa serata è cane. Poi sguardo in contrasto su questa grande e ricca villa.

Scena in cui lei va con un camionista, che poi però l’abbandona per strada. E qui episodio tagliato. Passa un
uomo che si avvicina e le chiede se vivesse anche lei da quelle parti, mai vista, ma lei gli dice che ha casa sua.
Sempre molto orgogliosa. E poi uomo va da queste persone che vivono nella zona in specie di grotte e li aiuta,
come personaggio di sogno venuto dal nulla. Cabiria lo segue e vede. Emblematico che questo episodio
tagliato, era qualcosa di inaccettato perché fuori dalle istituzioni. Lui poi accompagna lei alla stazione tram e
le chiede dove vive e chi sia. La saluta e lei lo ringrazia di tutto. Noi non sappiamo nulla e non sapremo nulla
di lui, sembra solo uomo che aiuta per sua personale generosità; mentre è proprio in questo incontro che
attraverso parole di lei a lui sappiamo meglio chi lei sia, sua storia, cioè genitori morti quando lei ragazzina e
venuta dopo a Roma, nonché vediamo uno dei pochi grazie di Cabiria a chi l’aiuta o chi incontra, uno dei
pochi momenti in cui lei riconoscente.

Lezione 25°

C’è spettacolo di varietà in un locale tipico di second’ordine in cui lei entra. Viene coinvolta in un gioco
d’illusione, lei ipnotizzata esprime quelli che sono suoi desideri, e viene ridicolizzata, perché in contrasto con
persona che lei sembra. (è anche momento in cui di fatto cade maschera di Cabiria, elemento tipico personaggi
della fase precedente produzione Fellini, ma elementi ritornano ovviamente, no divisione netta)

Altra scena: una processione che passa dalla passeggiata archeologica attraverso le prostitute. Fellini
tipicamente accosta il sacro e il profano. Qui Cabiria, presa da questo trasporto popolare per chiedere il
miracolo, sembra anche lei chieder un miracolo. Allo stesso tempo in questo pellegrinaggio un altro
personaggio vi accompagna lo zio paralitico. Altri personaggi di questi ambienti suburbani. Miracolo non
avviene, e quindi delusione del paralitico e poi, dopo sensazione di una nuova possibilità per Cabiria, anche
per lei non cambia nulla in realtà.

Immagini e inquadrature che si concentrano sui volti. Fellini sceglie attori più per loro volto.

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Cabiria sempre molto dura, sembra trasformarsi e tra le lacrime chiede di aiutarla. Lo zio non convinto vien
trascinato a provare a camminare aspettando il miracolo, ma cade. Niente miracolo.

Incontro con questo personaggio con cui sembra poter cambiare vita, vende tutto, lascia l’amica etc… stanno
per partire, scena romantica i due a cena. Lui sempre con occhiali, non lo vediamo mai bene in volto. Lei gli
fa vedere i soldi che ha ottenuto dalla vendita casa, toglie occhiali…poi li rimette. Vanno a vedere il tramonto,
si vede paesaggio, i due su uno sperone sopra un fiume, sembra scena iniziale…parlando lui le chiede se sa
nuotare, e lei ricorda la scena iniziale ridendo, quando l’hanno buttata e stava per affogare. Lui è zitto e suda,
lei capisce c’è qualcosa che non va, pensa la voglia uccidere. Poi capisce che lui voleva i soldi, disperata gli
lascia cadere la borsa ai suoi piedi e si butta a terra, piange e inizia a implorarlo di ammazzarla, non vuole più
vivere. Lui dopo un po’ reagisce e la ferma e cerca di farla stare zitta. Poi lui scappa. Si vede lei per terra,
sembra chiudersi com’è iniziata. Ma Fellini aggiunge scena finale che sembra alludere ad una possibilità di
ritorno alla vita.

Lei si incammina, si vede bene contesto alla Fellini, ragazzi che escono a divertirsi in strada, dei musicisti e
motorini etc… lei sembra estranea a tutto quello attorno. Dice “Buonasera” ad una donna, e questo sembra
farla riconciliare con chi ha attorno, ha lacrima sotto l’occhio ma sorriso che ritorno. Suo sguardo in
macchina, lei sorride.

Commento Bazin su questo sguardo finale.

I tre personaggi di questa trilogia sono associabili. Comunque forse delle differenze in Cabiria, poiché
Zampanò e Augusto sono vittime sì ma compiono anche delle azioni vs altri, mentre Cabiria è vittima sempre.
Sicuramente tutti e tre vivono una profonda solitudine e abbandono. Si chiude comunque con Cabiria questa
fase cinema Fellini. Già però anticipazioni di alcuni elementi successivi.

Dal punto di vista sia narrativo, sia stilistico, sia del mondo rappresentato “La dolce vita” è momento di
spaccatura. Film del 1960, ancora soggetto di Flaiano e Pinelli, anche Pasolini non accreditato soprattutto per
le scene legate all’intellettuale Steiner. Importante nuova collaborazione con Brunello Rondi per
sceneggiatura. Altro elemento nuovo è uso del cinemascope, nuovo formato panoramico, che Fellini usa come
anche per precisa scelta stilistica. Interpreti sono molti. Primo film in cui interprete Mastroianni, che aveva già
avuto ruoli importanti ma non è ancora divo che diventerà con Fellini. Anche un poeta e una pittrice che
interpretano loro stessi.

Il film vince la Palma d’Oro a Cannes e un premio Oscar per i costumi di Gherardi

Fellini si rivolge subito a De Laurentiis per produzione, ma primo problema: quest’ultimo però no convinto, in
particolare per episodio con intellettuale Steiner che inspiegabilmente si suicida e uccide i due figli, e poi non
voleva come protagonista Mastroianni ma un divo americano, Poul Newman, Henry Fonda etc…vista la fama
internazionale di Felini e che in quel periodo si giravano molti film americani a Roma. L’incontro fortunato,
grazie a Peppino Amato, con Angelo Rizzoli, editore con già esperienza nel cinema, il quale gli da fiducia. Il
film costa moltissimo, ci sono momenti di difficoltà nella produzione ma spesso anche grazie alla capacità di
mediazione di Amato si risolvono. Fellini preferisce ricostruire le scenografie (il cinema non deve copiare la
realtà ma reinventarla), e arriva al punto di ricostruire vi Veneto negli studi del Teatro 5 di Cinecittà, che
diventa appunto suo teatro prediletto.

Sulla qualità del film i giudizi della critica italiana sono sostanzialmente positivi, ma legati alla
rappresentazione della vita romana polemiche soprattutto da parte del mondo cattolico.

Fellini stesso in un’intervista su “Bianco e Nero” (sempre in conto che sue dichiarazioni sono spesso doppie
piste fuorvianti): “tentavo di mettere a fuoco quel senso di disagio e di smarrimento che queste cerimonie,
applausi, sorrisi, regali, festival, mi comunicavano. Tutti questi modi di essere nascondevano probabilmente le
radici di una inautenticità molto più profonda e angosciosa. […] sfogliando i rotocalchi, seguendo le mode dei
vestiti delle signore, leggendo la cronaca attraverso i rotocalchi” (dimensione quasi documentaristica della
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preparazione film Fellini) “se vogliamo fare un film che sia la rappresentazione di un momento di caos, è bene
che sia più caotico possibile. […] la società in cui viviamo, che tende veramente ad atteggiarsi, ed è davvero
difficile. […] la dolce vita non sarà un film realistico nel senso del neorealismo cinematografico, […] la
fotografia? Non desidero mai una fotografia realistica, ma sempre fascinosa e misteriosa”. In queste parole c’è
molto di quello che vediamo nel film. Come appunto la struttura narrativa, che è frammentata, non si
preoccupa di collegare gli elementi tra loro, è quella che è stata definita “opera mondo”, affresco o rotocalco
vero e proprio, no ver continuità tra un episodio e l’altro. In genere individuati 7 episodi, con un prologo ed un
epilogo, che sono episodi sconnessi, frammenti di un tipo di vita. Si può vedere anche, oltre che come un film-
rotocalco, come un’anticipazione della rappresentazione di quella che sarà definita la società dello spettacolo
degli anni 60-70, della spettacolarizzazione della vita (soprattutto si vede nell’episodio dei bambini che dicono
di aver visto la madonna e arriva la tv etc, diventando un caso mediatico). Le letture sono molteplici. Vari
episodi che riprendono la realtà: caso di cronaca di un’intellettuale che si suicida e uccide i figli; l’episodio
dello spogliarello di Aichè Nanà al ristorante Rugantino pubblicato sull’Espresso nel ’58 fatto da Tazio
Secchiaroli, persona cui Fellini si ispira per il personaggio del paparazzo fotografico (termine paparazzo che
entra in quegli anni nel vocabolario italiano); il maglione “dolce vita” è quello indossato dal personaggio
Pierone (anche se Fellini usa il termine anche sempre a significare questo modo di vivere la vita un po’ da
Vitelloni a Roma ma nel nuovo mondo aristocratico romano, non più periferico). Bondanella parla di estetica
della disparitภcon cui rottura con struttura classica basata sul principio della spiegazione attraverso il
processo di causa-effetto, ma un film in cui non c’è alcuna struttura classica del romanzo, ma accumulo quasi
barocco e un metter insieme a mo’ di mosaico. Inoltre libertà macchina da presa, che si muove liberamente, e
uso del cinemascope che permette alternanza di momenti vuoti e momenti pieni (vs inquadratura a T classica,
ma possiamo avere personaggi ai lati, grandi vuoti, e momenti in cui immagine è piena e affollata come
nell’orgia finale). Si vede bene infine qua caratteristica di Fellini di prendere dati dalla realtà e rimetterli
insieme in modo diverso dandogli nuova vita e possibilità di reinterpretazione da offrire allo spettatore.

Altra riflessione sul film alternativa a quella di Bondanella, ma che va anche ad integrarla, è quella di Antonio
Costa, nel suo volume proprio sulla Dolce Vita uscito nel 2010. Costa dice che certo c’è questa figa centrifuga
della struttura narrativa, struttura aperta, rotocalco, caos etc, ma non mancano elementi di un cinema più
classico. Parla dunque di ibridazione di elementi classici e moderni. Questo perché l’azione è orientata al
raggiungimento di un determinato obiettivo: Marcello (che ammettiamo pure essere il Moraldo di 10 anni
dopo), è arrivato a Roma per esser un intellettuale ma in realtà finito per essere narratore di cronaca rosa, di
gossip, e nel colloquio con Steiner dice di essere insoddisfatto, c’è momento in cui decide di tornare a provare
a fare lo scrittore. Ci prova, ha obiettivo, poi non ci riesce, ma potenzialità di costruzione e raggiungimento
obiettivo; poi c’è parvenza di una doppia trama (come in Psycho), cioè Marcello ha da una parte un rapporto
amoroso con Emma, tipica figura materna che poi dovrebbe diventare sposa, e sua vita professionale, ma
niente si chiude, vengono tessuti tutti questi fili, ma poi finiscono nel nulla, ci sono piste possibili, trame
possibili, ma poi nessuna viene sviluppata. Comunque però degli elementi classici sono tracciati, anche se poi
disconosciuti. Parliamo infatti comunque di un film particolarmente moderno. Marcello fallisce tutti i suoi
obiettivi e rimane perso.

Roma antica e monumentale c’è, ma è di sfondo, come fosse un set cinematografico similmente a film anni 50
americani girati a Roma (tipo “Vacanze romane”). C’è anche la Roma della speculazione edilizia. Ma è un
po’ come se non interessasse a Fellini, poichè a lui interessa la nuova Roma, quella dei rotocalchi, quella di
Via Veneto

[video]

Dimensione un po’ surreale di elicottero che sorvola Roma trasportando statua di Cristo benedicente (anche
questo in realtà episodio reale, 1° maggio 1956 da Milano a Roma). Partiamo da elicottero che passa sopra
monumenti romani nella campagna, acquedotti romani etc, ma poi subito dopo invece sulla Roma in
costruzione, dei nuovi quartieri e della speculazione, l’altra faccia, un cantiere, e infine la Roma della dolce
vita, del boom economico, dei nuovi ricchi. E avvicinamento dell’elicottero alla terrazza dove stanno donne in
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costume e subito dissacrazione del momento: le donne chiedono ai piloti dove portano Gesù, i tre uomini
sembrano più interessati a fare loro le foto con la Leica (paparazzo), chiedono il numero di telefono…

Stacco che ci porta a classica scena di fotografia/scatto rubato della vita all’interno di un night. Anche qui
ripresa dell’episodio di Secchiaroli. Vediamo subito professione di Marcello di giornalista di gossip. Poi
incontro con una delle prime donne, Maddalena, tipica ereditiera annoiata, per certi aspetti forse quella più
vicina a Mercello per inquietudini. Faranno l’amore poi in una casa di prostitute.

Seconda figura femminile che incontra Marcello è Anita Ekberg, la diva, che già in quegli anni era stata
ripresa in alcuni spaccati di vita delle notti romane in servizi fotografici del tempo. Scene che scende
dall’aereo accolta da foto e paparazzi.

Vediamo poi la terza figura, mentre lui in salotto borghese è al telefono con fidanzata. Quindi terza figura è
Emma, la figura materna, la fidanzata, che vuole sapere che cosa fa Marcello e vorrebbe che lui tornasse a
casa. Il sogno di Emma è quello della moglie, dare attenzioni a Marcello.

Famoso abito indossato dalla Ekberg nella sua salita a San Pietro.

Marcello che passa la serata con Silvia, che è contrapposta a Emma, è la “sirena”

A certo momento vediamo anche Celentano!

Rapporto tra Silvia e marito, controverso, ricorda quello famoso sulla cronaca mondana, tra Elisabeth Taylor e
Richard Barton, i quali a Roma qualche volta (tra cui per girare Cleopatra)

Scena famosa alla Fontana di Trevi. Lei, Anita Ekberg, Silvia entra nella fontana, immagine iconica, e invita
Marcello. Marcello sempre incerto sul da farsi. Entra nella fontana. Poi bellissimo momento di silenzio
assoluto e quasi fermo fotografico.

Poi un momento in cui marito di Silvia la aspetta, e paparazzi lo fotografano mentre si arrabbia con lei, che
dice di non aver fatto nulla, e poi i duo uomini si picchiano, e fotografi attorno che continuano
ininterrottamente, appunto qui spettacolarizzazione.

Poi non vedremo più Silvia, episodio si chiude. Arriviamo fino a incontro importante con Steiner, in chiesa.
Non si vedevano da tempo. Steiner suona in chiesa con accanto Marcello.

Scena dei bambini che vedono madonna, rispetto a devozione popolare sincera che abbiamo visto in Cabiria,
qua è tutto un fenomeno mediatico e falso, spettacolarizzato, e in realtà i ragazzini si sono inventati tutto, tutto
mosso dallo zio, ci sono fotografi, televisione, luci. Costruzione dell’evento mediatico. Per di più tutto finisce
in tragedia, ovvero con pioggia e morte di una persona, ancora una volta rigorosamente ripresa dai fotografi.

Ritorniamo da Steiner, con Marcello e Emma ospiti a casa di Steiner, vi sono vari intellettuali (pittrice che
interpreta sé stessa e anche poeta uguale). Lunga sequenza. Dopo questo episodio Marcello si convince a
riprendere la scrittura. E in questa fase abbiamo incontro con ultima donna, che è Paola, che è la figura
angelica. Una ragazzina che lavora al locale tranquillo dove sta scrivendo. Parla con Paola che è semplicità,
purezza etc.

Episodio dell’incontro con padre, che gli riporta alla memoria loro rapporto che hanno vissuto molto poco.
Padre sta male, Marcello vuole farlo stare un po’ lì invece che ripartire, così stanno insieme.

Viaggio da dei nobili romani (6° situazione). Torna Maddalena. Incontro con l’altra Roma, quella della
nobiltà, che si incrocia con la dolce vita. Qua Fellini gioca sul fatto che Marcello e Maddalena si parlano da
due stanze diverse. I due sembrano vicini e simili più di ogni altro sembra, ma poi comunque fallimento. Lei
dall’altra stanza gli dice di essere innamorata di lui. I due parlano, mentre anche lui sembra svelarsi, lei è
ancora nell’altra stanza da ascoltarlo ma con un uomo. Non gli risponde più, Marcello esce dalla stanza ma poi
non sappiamo, interruzione.

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Apparentemente neanche Emma non c’è più, forse si sono separati.

Poi momento del suicidio di Steiner, che rimane inspiegabile per molti. Ciò rientra nel quadro che vuole fare
Fellini con il film, per cui ci sono eventi che rimangono inspiegabili. Anche qua scena mediatica, paparazzi
che aspettano arrivo della moglie Steiner, che non sa però nulla del suicidio. Società dello spettacolo,
dimensione senza nessuna etica. Dopo episodio suicidio sembra finire per Marcello anche illusione di
ricominciare/riprendere sua vita riprendendo a scrivere suo romanzo.

Vediamo una festa a Fregene, dove i personaggi sono quelli di un produttore nella sua villa, e in cui Marcello
fa una sorta di grande anfitrione. Anche qui scena spogliarello che ricorda quello del 58 di nuovo. Ubriachi e
orgia. Vengono buttati fuori dal padrone e vanno tutti in spiaggia. C’è sulla spiaggia un mostro marino morto,
e qui le interpretazioni simboliche sono state molteplici.

Ultime inquadrature, su cui anche qua interpretazioni diverse: chiama qualcuno da lontano e fa gesti, su
spiaggia, è Paola. Si fanno dei gesti, ma lui non capisce molto comunque e se ne va, ultima inquadratura è
però verso Paola che ci guarda. Ma Marcello non è in realtà riuscito a sentirla e si è allontanato, qualcosa che
non chiude e soprattutto che ci rappresenta Marcello che rimane quell’eroe incerto che abbiamo conosciuto,
non cambia. Finale un po’ sospeso tra la realtà e il sogno

Le figure femminili: Fellini attori con scelta legata più alla fisiognomica più che alle capacità interpretative; le
donne che Marcello incontro sono donne diverse, ma nessuna storia si chiude, e non c’è scelta da parte di
Marcello, e quando sembra una scelta con Maddalena, in realtà naufraga immediatamente; Emma è materna
ma x Marcello la casa e le attenzioni della donna sono più una prigione; Silvia, la sirena moderna, seduttiva e
che scompare, con cui lui ha una storia di una sola notte e più che altro platonica; la figura femminile più
positiva e che guarda anche più verso un futuro è Paola, che però lui non sente, rimane lontana ed estranea.
Per cui anche da punto di vista degli elementi narrativi della storia, tutto si frantuma e nulla si risolve.
Riprendendo frase che stesso Fellini riprende, è un’opera che voleva anche essere una sorte di grande “opera
di Picasso”.

Lezione 26°

Polemiche maggiori al film nel mondo cattolico, soprattutto sul finale, sull’orgia finale, e perplessità sul
suicidio di Steiner. Da una parte padre Taddei, gesuita, che vede in Paolina la rappresentazione della speranza,
la ragazza come incarnazione della Grazia e il film, per suo finale, “sarebbe sostanzialmente cristiano”.
Dall’altra invece abbiamo padre Baragli, anch’egli gesuita, che scrive su “La civiltà cattolica”, non vi vede
alcuna speranza o prospettiva salvifica, attacca il film in tutti i suoi elementi di rappresentazioni oscene e di
corruzione. L’autorità cattolica si schiera poi dalla parte di Baragli, attraverso anche l’intervento del futuro
papa Paolo VI, “per la dilagante immoralità delle scene”. Padre Taddei sarà infatti anche allontanato
successivamente proprio a causa di questa discussione. Ciò amareggia Fellini ma non riesce a mediare in
alcun modo. Film attaccato molto anche da “L’osservatore Romano” e anche altre polemiche. Nella parte di
sinistra e laica il film è appoggiato e difeso, rispetto invece ai film precedenti. Un giudizio importante è stato
quello di Vittorio Spinazzola, che da delle letture interessanti, definendo innanzitutto “La dolce vita” il film di
una crisi, la crisi del personalismo cristiano del regista: scomparsa è la speranza, scomparsa è la fede.
Sicuramente è film che rappresenta un cambiamento e punto di passaggio di Fellini.

Altri due intellettuali del periodo ne fanno delle letture, in particolare Vittorini dice che Marcello non riesce a
cogliere quell’invito all’innocenza rivoltogli dalla ragazza, frastornato dalla vita che fa. Così come infatti non
riesce più a scrivere. Difficoltà anche lettura della società stessa contemporanea. Invece Pasolini, vi vede un
prodotto “neodecadentistico”. Ideologia di Fellini, dice Pasolini, è di tipo cattolico e nel film la problematica
più evidente è quella tra peccato e innocenza. Commento interessante che gira anche molto attorno all’amore
per i personaggi da parte Fellini, nei quali vede la corruzione sì ma in tutti anche vede i limiti dell’umano e la
profondità di ognuno, l’umanità. Sempre questo gioco ambivalente in Fellini.

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Andando a vedere sceneggiature, è un finale su cui Fellini lavora a lungo e lo rielabora più volte, ma possiamo
dire che in conclusione non è comunque un finale ottimistico per Marcello, che guardiamo con speranza è
Paola non Marcello.

Quindi nuova stagione cinema Fellini con La dolce vita, anche più complessa anche dal punto div ista delle
realizzazioni stesse. Viene visto come fondamentale in questo cambiamento un incontro nel 1960, attraverso
De Sica, con uno psicanalista a Roma, ovvero Ernest Bernhard, psicanalista Jungiano. Rapporto che dura 5
anni fino alla morte di Bernhard e durante il quale entra in consapevolezza particolare, per cui sue angosce che
aveva fin da bambino sono qualcosa di fondamentale, al pari dei pensieri diurni. Comincia a prendere appunti
e disegnare appena sveglia quello che sogna la notte. Nel 2007 pubblicato “Il libro dei sogni”, in cui raccolte
queste sue produzioni. Il primo volume va infatti dal 1960 al ’68, il secondo dal 1973 all’ 82. Si capisce con
questo quanto anche nelle sua produzione artistica diventi ancora più importante la dimensione del sogno,
della memoria, delle angosce, che riflettono non solo la sua persona ma sono anche legati, secondo
l’approccio Jungiano, ad un inconscio collettivo e potendo quindi incontrare anche il pubblico. Nella sua
produzione successiva sono centrali le figure femminili a metà tra il materno e il sensuale, che per es troviamo
anche nella presentazione in quei volumi dei suoi sogni. È inoltre periodo per Fellini in cui si avvicina al
mondo dello spiritismo, quindi comunque una grande curiosità per tutto quel mondo, che in parte si ritrova in
8 e mezzo in una specie di mago con abilità telepatiche.

Da questo punto div ista Fellini è anticipatore perché la psicanalisi in quegli anni in Italia non motlo praticata
ancora, e comunque di più quella Freudiana. Infatti anche molte critiche Fellini.

In ogni caso questo rapporto con psicanalisi spinge Fellini ad ampliare la rappresentazione e l’uso del sogno
nella sua produzione. Certo non dimenticando il dato reale, ma da cui sempre si parte, a maggior ragione ora,
per un ampliamento nella dimensione onirica e dell’inconscio. Così come non si deve legare questa sua
dimensione artistica a quella autobiografica. Sue narrazioni non sono autobiografiche.

A partire da questo elemento importante che si riflette nella sua produzione, vediamo un film che vuole un po’
rispondere alla ventata di censura che c’è stata in quegli anni (attacchi anche alla Dolce Vita, ma anche
“Rocco e i suoi fratelli” che esce nel 1960, presentati insieme al Cinema Capitol di Milano, dove si
proiettavano le prime in presenza del regista; anche Rocco molto contestato e procura Milano chiede di
oscurare dei fotogrammi in cui avveniva violenza sessuale che si rappresentava), ovvero il film del 1962 di
Zavattini, “Boccaccio 70”. In questo film Fellini produce il secondo episodio con “Le tentazioni del Dottor
Antonio”. Qui Fellini sceglie il registro ironico e soprattutto di scagliarsi contro i censori che nella Dolce Vita
avevano visto la dimensione oscena. Preferiva in generale il bianco e nero, perché il colore non lo controllavi,
perchè te lo immaginavi in un modo e poi stampato è diverso. Ma film è a colori e quindi si deve adeguare.
L’ambientazione è nel quartiere dell’EUR, incompleto, ancora oggi visibile e costruito in occasione
dell’esposizione internazionale del ’42 e in concomitanza con il ventennale del fascismo. Anche qui riproduce
parte del quartiere con effetti speciali e modellini.

Protagonista è Dottor Antonio, interpretato da Peppino De Filippo (che tra l’altro con Totò aveva fatto una
bellissima parodia de “La dolce vita”), con ottimi risultati. Fellini gioca sulla problematica della repressione
sessuale nell’inconscio dei moralisti, coloro ciò che avevano criticato suo film. Allora un cartellone
pubblicitario con una donna, Anita Ekberg, che invita a bere il latte, perchè fa bene, e cartellone è proprio
davanti finestre del dottor Antonio diventando per lui vera e propria ossessione, fino al prendere vita del
cartellone, con Anita che scende e va da Antonio a realizzare le sue ossessioni. Interessante questa uscita
dell’attrice, che è anche l’uscita dallo schermo cinematografico andando incontro all’immaginario spettatore, è
entrata nell’immaginario italiano del sogno erotico e dell’immagine della Ekberg. Il dottor Antonio
impazzisce.

È modo per Fellini di rappresentare da una parte nel panorama italiano la rottura di certi schemi, ma dall’altra
chi rimane lontano dalle nuove aperture.

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A livello strutturale vediamo svilupparsi quello che già si trovava ne “La dolce vita”, quindi la
frammentazione e frammentarietà, l’entrata di personaggi che sono più simbolici e metaforici, il gioco
scherzoso e della citazione, e la presenza fin dall’inizio del film di una sorta di narratore ironico, che è un
cupido, eros, ma allo stesso tempo per Antonio un diavoletto. Quindi di nuovo doppia dimensione, tentatore
simpatico ma anche chi lo porta a impazzire.

Film che spesso è stato sottovalutato ma invece fondamentale anche nella comprensione evoluzione lavoro di
Fellini.

Infine il titolo è riferimento alle tentazioni di Sant Antonio, con tutti riferimenti letterari alle produzioni
appunto letterarie a riguardo.

[video]

Scritta in fiamme e sfondo rosso, che fanno pensare alla dimensione diabolica, ovviamente in modo ironico.

Montaggio L. Catozzo: importante perché Catozzo inventò un sistema per cui attraverso piccolo strumenti si
univa la pellicola con semplice scotch invece di altri elementi che rendevano il lavoro di montaggio più
complicato. Lavora quasi sempre lui ai montaggi di Fellini. Infine è Catozzo l’attore che interpreta l’uomo col
sacco ne “le notti di Cabiria”

Lunga vista su l’EUR. Immagini di Moda, cit Dolce Vita. Si vede anche l’Hollywood sul Tevere, si girava
molto lì in quegli anni, e ironia nella rappresentazione mondo cinema. Italia del boom economico.

Voce del diavoletto-cupido che racconta e presenta tutto, e poi dice che c’è solo una persona che ce l’ha con
lui e ci presenta appunto il Dottor Antonio. Di nuovo simboli del boom, come la 500, quell’Italia che già si
vede nella Dolce Vita e che qua vediamo di sfondo a Mazzuolo. Vediamo lui che va a interrompere ragazzi
che si divertono o fanno l’amore in giro, e va ai varietà dicendo agli altri di andare a casa a fare qualcos’altro.

Si inizia anche a parlare di un Fellini quasi postmoderno¸ che gioca sul rifacimento. E si vede bene subito
all’inizio di questo film quando nel racconto del diavoletto su Antonio ricorda un episodio precedente e
vediamo che recupera una scena di un film comico, fingendo che la scena fosse però un episodio del
protagonista ripreso casualmente da un fotografo. E l’episodio è a sua volta anche un riferimento, ironico, alla
realtà, ovvero a quando Scalfaro (onorevole democristiano e poi presidente della Repubblica) in un ristorante
vide una signora che si scoprì le spalle e intervenne per coprirla e la schiaffeggiò, episodio più volte
raccontato e ripreso dalla cronaca. Episodio viene qui inserito e rappresentato, è in bianco e nero e come
velocizzato. Dimensione metacinematografica che poi in “Otto e mezzo”, già qui.

Scena in cui si comincia a costruire cartellone, donna che si viene a costituire pezzo per pezzo. Operai ma è
evento mediatico, intervento anche di giovani preti, poi pullman turistico di americani, siparietto musicale,
etc. Qui un po’ postmoderno, inserendo elementi molto diversi fra loro.

Tipico Fellini inserisce qualcosa che nella scena distrae e non centra nulla con la narrazione.

Contrasto tra Mazzuolo e operai, dimensione popolare, che non vedono nessun problema in quel cartellone.
Allora Mazzuolo va negli uffici ministeriali. Fa di tutto.

Passiamo ai momenti dell’ossessione. Come a venire dall’inconscio vede delle immagini del manifesto.
Riesce poi a fari coprire il manifesto, ma comunque ossessione non cessa. E quando manifesto su scopre a
causa del temporale, Mazzuolo scende. È notte, calma dell’EUR, ricorda la città metafisica di De Chirico. Lui
chiede allo spirito diabolico di andarsene. E lei risponde! Poi vede bicchiere di latte gigante a terra. Poi vede
che lei veramente se ne è andata dal cartellone, lui pensa di aver vinto. Ma poi si ritrova tra i suoi piedi. Da
qui lunga sequenza che si gioca tra le due figure, lui minuscolo lei gigante, di notte nel quartiere dell’EUR,
atmosfera e paesaggio surreale. Ci ricorda l’Anita Ekberg che chiamava Marcello, ma qui più provocatoria.
Lei chiede che ha fatto di male e risposte di lui a lei sembrano quelle alla critica. Fino a momento in cui lui

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cerca di colpirla al petto sentendosi San Giorgio. Lui a certo punto si rivolge a spettatore dicendo di non
guardare, rompendo metaforicamente lo schermo cinematografico. Fellini onirico, abbiamo lasciato la
dimensione realistica completamente.

Mazzuolo impazzito, portato via dalla croce rossa, con alla fine sguardo di desiderio e pronuncia nome di
Anita.

Cupido diavoletto che chiude film, sopra all’ambulanza che ride e ci fa la linguaccia.

Mentre realizza questo episodio di “Boccaccio 70” Fellini stava già preparando “8 e mezzo”, anche se poi
come sempre il film si modifica nel momento della realizzazione. Aveva deciso anche di dover iniziare questo
film su un personaggio in crisi, ma poi trasforma il soggetto in un regista cinematografico. Il film torna in
bianco e nero, produttore è Rizzoli, che rimane dopo successo de La dolce vita. Interpreti e personaggi sono
molti. Il film è la storia di un regista in crisi d’ispirazione, incertezza realizzazione film. Il titolo è riferimento
al numero dei film girati da Fellini e considerando mezzo “Le luci del varietà”, poi anche l’episodio in
“Agenzia matrimoniale” e infine l’episodio de “Le tentazioni del dottor Antonio. Il film vince l’Oscar per il
miglior film straniero ed è uno dei suoi film più famosi e riconosciuti.

La critica: quella cattolica apprezza in buona parte il film pur con qualche riserva per la rappresentazione
unilaterale dell’educazione cattolica; maggiori le critiche, al contrario di ciò avvenne con La dolce vita, la
sinistra ci vede spesso una chiusura in una dimensione decadentistica con poca apertura alla dimensione
sociale, e vede nel finale un’accettazione passiva della vita, per cui Fellini crede di riconciliare ogni conflitto
razionale acriticamente. Secondo la critica negativa di sinistra con questo film Fellini “scopre davvero la
mancanza di un’autentica problematica, le deficienze della sua avanguardia”. Appunto criticato anche come
“un cattolico in crisi di coscienza”. Dimensione dell’autobiografia è utilizzata molto anche per criticarlo,
anche se lui sempre rifiutato di riconoscere dell’autobiografismo, nonostante di fatto qui vesta il protagonista,
Mastroianni, come si vestiva lui stesso.

Analizzando il film, anche qua una forte destrutturazione narrativa e ingresso prepotente della dimensione
onirica e dell’inconscio. La critica parlò poco di quella che forse era la chiave di lettura principale, per quanto
le letture possibili rimangono diverse, cioè quella legata alla psicanalisi, ma proprio perché ancora non molto
diffusa e accettata in Italia. Protagonista è Guido e sua vicenda ma entra spesso nella narrazione la
rappresentazione di ciò che vive nel suo inconscio, creando così una narrazione caotica, una sorta di puzzle,
che però vede una ricomposizione nel finale, provocando appunto le critiche sopra dette. Un’altra delle vie di
analisi del film è la riflessione metacinematografica, al centro di alcuni testi, come quello di Mauro Giori
(2006), che parte dall’osservazione di Christian Metz, per cui questo “è un film due volte raddoppiato poiché
non abbiamo soltanto un film sul cinema, ma un film su un film che a sua volta verte sul cinema, non soltanto
un film sul cineasta, ma un film su un cineasta che riflette egli stesso sul proprio film” e più in generale riflette
sull’istituzione cinema, poichè al suo interno vediamo tutte le figure che compongono il mondo cinema.

[video]

Sequenza iniziale molto significativa della dimensione dell’inconscio, e pone subito dimensione
metacinematografica, con il punto di vista di un critico nel film stesso che commenta il soggetto che il regista
Guido gli offre di leggere, e che esprime quelle che sono le critiche che Fellini stesso si aspetta di ricevere con
suo film.

Protagonista sogna e si vedono sue angosce inconsce, ovvero vede la propria amante che amoreggia con un
altro. Scena iniziale subito un po’ surreale e rappresenta incubo di essere chiusi nel traffico, movimenti di
macchina che estraniano, volo in cielo, dimensione di ricordi e precipitazione in mare che ci riporta alla realtà.
Stava sognando ed è in questa clinica. Dottore che dice “ci regalo un altro film senza speranza?”, riferimento
subito alla Dolce Vita. Entra il critico, che sarebbe il pubblico, sul letto le immagini, che sarebbero i
personaggi. Siamo in località termale. Paziente, protagonista, Guido va in bagno, torna dimensione onirica,

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con rumori, luci, musica (Cavalcata delle valchirie) e mondo sì delle terme ma sorta di passeggiata nel parco
terme dove incontra tutta gente conosciuta e che conosce, come viaggio nell’inconscio e ricordi. Poi “La gazza
ladra” di Rossini e vediamo Guido tra questi personaggi. Come sempre Fellini ci da prima il contesto. Musica
si ferma e incontra varie persone della sua vita.

Bondanella fa parallelismo questo film con Pirandello in “Sei personaggi in cerca d’autore”

Lezione 27°

Scena importante è quella dell’incontro con il padre morto, episodio che si colloca anche in continuità con La
dolce vita dal momento che attore è proprio lo stesso che interpreta padre di Marcello, ovvero Annibale …? In
questa scena dialogo con padre deceduto al cimitero, anche se è un cimitero onirico e particolare. Ritorna
l’idea di un rapporto povero, in cui si sono parlati poco e poco presente padre che faceva le sue scappatelle, e
quindi rapporto con madre. Ritorna rappresentazione delle figure maschili come ne La dolce vita, ovvero di
figure sempre maschiliste. Il padre mette a Guido questo mantello tipico della divisa collegiale, quindi
rimando al rigore cattolico. Poi madre di Guido che, gli dice il padre, ha preparato qualcosa da mangiare per
suo viaggio, il padre che dice che la madre vuole sempre tutto in ordine. Rappresentazione della famiglia
piccolo borghese. Incontra la madre, che però poi diventa la moglie. Idea della figura femminile come
materna. Poi Guido che sta pensando al film e si vede attorno trupe televisiva. Affollamento di presente e
passato.

Incontra poi questo uomo in grado di ripercorrere e vedere suo passato. Gli dice “sì posso farti ricordare”
come fosse un po’ anche apertura dello schermo cinematografico, si vede apertura tende, proprio come
sipario. Si ripercorre l’episodio del passato ma con continua alternanza con presente.

Altro episodio importante: incontro con cardinale. Rapporto controverso con mondo cattolico. Mentre parla
con cardinale entra dal fondo questo personaggio che gli fa ricordare altro momento del passato, il ricordo un
po’ più erotico, ovvero l’incontro con Sara Ghina. Si vede lui con divisa come quella che padre gli aveva
messo sulle spalle nel sogno e a ricordare anche l’impronta dell’educazione cattolica, anche e soprattutto nella
sfera sessuale. La Ghina è la figura femminile per eccellenza felliniana, donne enormi, materne ma anche
prostitute, ambivalenza. Lei che balla e si esibisce davanti ai ragazzini. Dimensione onirica sì ma anche
abbastanza realistica rispetto alle altre, e una dimensione del sesso anche molto gioiosa e giocosa. Sequenza
lunga, che comprende anche la punizione dei ragazzini. Dimensione comica, si rincorrono. Poi inquadratura
molto bella proprio da punto di vista visivo (Fellini da La dolce vita attenzione molto forte a trasmettere
attraverso le immagini e loro costruzione). Tutti i preti e donne che non credono e si addolorano per ciò che è
successo, quasi grottesco e recitazione esagerata. Ricordo non drammatico ma più che altro grottesco.
Confessionali disegnati come fossero delle grandi orecchie in ascolto, dimensione da incubo. Confessione e
pentimento ma ossessione è tale che torna sulla spiaggia a cercare la Ghina. Dissolvenza e vediamo il critico
che parla del film e come farlo nel modo migliore, se vuole ambire a denuncia educazione cattolica non può
rappresentare questi ricordi in modo così ingenuo, no vera critica e quasi qualunquismo. Critiche che Fellini
anticipa al film. Il critico può essere una sorta di collaboratore nella creazione film ma anche appunto il
critico, soprattutto quello si sinistra.

In questa sarabanda di personaggi della vita di Guido, affollamento di figure, a certo punto troviamo anche
produttori film e ci ritroviamo sul set del film che starebbe girando Guido, che ha fatto costruire un’astronave
costata moltissimo. Guido arriva con moglie sul set. Svelamento di tutta la costruzione di un film. Si vede
come creatività del regista si sovrappone ai ricordi e vissuto personale.

C’è momento di litigio con moglie perché a certo punto compare anche la ex amante, Sandra Milo, che
rappresenta la tentazione e la seduzione mentre la moglie molto più la donna professionale. Litigano. E poi
parte sorta di sogno in cui la moglie e l’amante sono amiche e entrambe al suo “servizio”. E di nuovo
immagine dell’harem, con tutte donne della vita Guido insieme nella casa patriarcale svuotata dalle figure
maschili e femminili vecchie, rimangono solo donne giovani e Guido. E qui critiche, soprattutto femministe.
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Ma Fellini come sempre rappresenta solo un immaginario, maschile certo, e poi comunque ambientato nella
casa di lui bambino. Certo egocentrismo assoluto di Guido, che incerto senso è egocentrismo del regista che è
colui che tutto decide, immaginario del regista dominatore

Dissolvenza di nuovo (per questo molti critici hanno parlato di flusso perché no stacchi chiari, continuità e
come lunga sequenza, come se fossimo in Joyce), ma ci ritroviamo non nella scena di prima con moglie e
amica della moglie, ma in una sala cinematografica, con lui e il critico di nuovo, in un passaggio spazio-
temporale senza confini. Ma qui ci troviamo a vedere le uniche immagini vere per film che Guido sta girando,
ovvero i provini che comunque corrispondo ai vari personaggi che abbiamo visto finora. Quindi questi sogni
possiamo forse anche pensarli come la sua immaginazione degli scenari del film che stava creando.

C’è a certo punto metaforicamente idea dell’impiccare critico, come poter far fuori questa specie di grillo
parlante con musichetta che ricorda cinema muto, un inserto di sogno, perché critico rimane lì seduto.
Vediamo qui anche tutte le figure dell’istituzione cinema, anche produttore etc…

Tutto si confonde, vediamo i personaggi immaginari che guardano e continuano ad essere quelli con stessi
caratteri ma anche altri attori che fanno le prove per essere quei personaggi del film che corrispondono a quelli
che guardano. La moglie esce dalla sala, e finzione esce dalla realtà.

Arriva Claudia Cardinale che dove salvare le prove, essere l’attrice giusta, e loro due vanno a fare un giro
perché lui le racconti del film. Ma poi arrivano in questo spazio praticamente vuoto e qui Guido le confessa
che in realtà quel film non esiste e la sua parte dunque neanche. Potrebbe essere finale, non esiste niente, sono
stufo di dire bugie, ma sarebbe più un film di Antonioni, tra il vero e il falso, la realtà e la rappresentazione.

Decisione Guido che sembra di non fare più film, condivisa dallo sceneggiatore. Si arriva al momento della
conferenza stampa, grande sarabanda di volti, sempre fondamentali nel cinema felliniano. Pressioni perché
faccia film, domande gente, nel frattempo immagina di parlare con la moglie, che non ce la fa più, fino a suo
immaginario di fuggire sotto tavolo conferenza, momento onirico di ricordo della mamma che lo rimprovera,
e lui che si spara. Di nuovo confusione realtà e immaginario. Silenzio. Passiamo sul set film, con silenzio
perché fine riprese. E Guido che saluta suoi collaboratori dicendo che ci si vede nel prossimo film. Capiamo
che scena di prima era in realtà immaginario della scena finale del film fatto, era finzione.

Torna critico che si rivolge a Guido, post fine film, mentre se ne va. Critico dice a Guido di non avere rimorsi,
discorso da intellettuale, giustificazioni dell’intellettuale per il non farsi di quel film che però di fatto abbiamo
visto farsi in parte nel suo immaginario. Vediamo arrivare come sorta di mago già visto prima e torna
quell’immaginario, come finale alternativo a quello già visto. Tutti personaggi vestiti di bianco, dimensione
estetica di quiete e purezza, l’atto creativo si ripopola di tutti i personaggi e critico rimane fuori. E voce Guido
che parla rivolgendosi a moglie Lisa. Inizia poi sfilata che ci rimanda al circo e all’accettazione del proprio
immaginario e ritorno alla purezza dell’atto creativo (per qualcuno è sorta di allegoria del fanciullino
pascoliano), soprattutto con bambino vestito di bianco, che ci ricorda l’altro bambino visto, ovvero Guido da
piccolo nei suoi ricordi. E vediamo che si apre sorta di sipario e compaiono tutti personaggi del film come se
fosse vero inizio del film, il cinema che riparte. È la passerella finale ma è anche l’inizio. E il mago che
interpreta la magia della creazione, del cinema. E Guido ha ripreso in mano la situazione, il ruolo di regista.
C’è una riconciliazione con sé stesso e passato, anche un’autoassoluzione proprio, che avviene anche proprio
attraverso la creatività artistica.

Epilogo finale è proprio solo dimensione del circo popolare, e ultima inquadratura è bambino vestito di bianco
al centro del circo, che esce di scena e si spengono le luci.

Oltre a questo finale però ci sarebbe un altro finale, di cui abbiamo solo la sceneggiatura. Il primo finale, già
montato, non lo convince perché vi vede rischio di concentrarsi troppo sul rapporto con moglie e che lettura
sia di una riflessione su crisi di coppia quando però vorrebbe essere riflessione più ampia. Primo finale
sicuramente meno spettacolare e Fellini dice allo stesso Rizzoli che “ci vorrebbe un finale più aperto, più

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consono al tono dell’opera, 8emezzo è un passo avanti rispetto alla Dolce Vita, qui ci dev’essere una gioia di
vivere, che là mancava”. Durante la proiezione del trailer del film, gli viene ispirazione del nuovo finale, più
alla Chaplin e più positivo.

Assieme alla Dolce Vita, è film forse più importante di Fellini. Per alcuni già di postmoderno si può parlare,
infatti sicuramente si può parlare anche qui di “esplosione della narrazione”.

Film successivo è “Giulietta degli spiriti” del 1965, di cui molti hanno parlato come di un “Otto e mezzo” al
femminile: donna borghese di mezza età (Giulietta Masina), con educazione cattolica, tradimenti del marito,
dimensione del sogno etc… innovativo è uso del colore, prima volta che colore è scelta veramente sua, scelta
voluta pensata e discussa con il direttore della fotografia. Perché infatti quella dimensione del sogno che fa da
guida anche qui, era a colori in quanto dimensione visiva diventa prevalente per Fellini, come si vede bene poi
nel “Satyricon”. Diventa importante colore come dimensione dell’immaginario, evocativo, simbolico a volte,
vero strumento. Anche qui struttura narrativa è simile, frammentata etc.

[video]

Ambientazione in una villa di Fregene che però ovviamente sempre in gran parte ricostruita a Cinecittà.
Montaggio di Ruggero Mastroianni, fratello di Mastroianni. Volevano Katharine Hepburn come attrice ma
Fellini riuscì a imporsi per la Masina.

Lei continua a cambiarsi (continua metamorfosi) e sempre ripresa da dietro. Inizio festa anniversario
matrimonio, da cui poi però si scoprirà tradimento. Quindi crisi matrimonio ma soprattutto crisi del
personaggio e sua educazione cattolica.

Film troppo sottovalutato.

Fellini entra in sorta di crisi, legato anche a problemi di salute. Inizia un progetto che non avrà mai una
conclusione, un sogno suo che cerca sempre di realizzare ma non arriva mai a fare, ovvero film “I mastorna”,
con già delle scene costruite negli studi di Dino De Laurentiis. Poi gira un documentario, ovvero “Block notes
di un regista”, e appena prima del Satyricon, gira anche un film a episodi tratto dal racconto di Edgar Allan
Poe, il film “Tre passi nel delirio”, ma pensando comunque già al Satyricon

Lezione 28° (23/11)

“Fellini Satyricon” [lavoro di approfondimento e analisi fatto dal nostro dipartimento]

2009, convegno dedicato al film, Immaginario dell’antico (con anche un archeologo).

Grande progetto di Fellini è “Il viaggio di G. Mastrona”, che però non si realizzerà mai. Intervista di Fellini da
Grazzini: ci dice sostanzialmente dell’adattamento del Satyricon ma soprattutto quanto ci sia dentro tutto
Fellini, soprattutto da “Otto e mezzo”. Fellini dopo la “Giulietta degli spiriti” anche rompe con i suoi storici
sceneggiatori, grande cambiamento e anche due anni di inattività. Progetto de “Il viaggio di G. Mastorna” era
nella sua testa in realtà già dal 1938, quando aveva letto a puntate sulla rivista Omnibus il romanzo “Lo strano
viaggio di Domenico Molo” di Dino Buzzati. Arriva già anche ad avere un contratto e a costruire la
scenografia, ma poi fallisce tutto. Prima ancora, un altro progetto era anche quello di realizzare un film tratto
da “What mad universe” di Fredric Brown, ma questo fu subito abbandonato. Ritroviamo queste idee di
Fellini proprio in “A director’s notebook”, girato per la NBC, film in cui lui diventa la voce narrante e
protagonista e dove viene inscenato proprio il fallimento del G. Mastorna ma anche la scena tagliata di
Cabiria, L’uomo nel sacco (scena che nella versione italiana di questo film trasmessa poi dalla rai viene
proprio nuovamente tagliata). Vediamo infatti che gli attori impersonano sé stessi. [vedi suddivisione episodi].
Tra gli episodi anche alcuni sui suoi ricordi. Nelle scene che parlano del Mastorna, si vedono proprio le
scenografie del set mai finito, Mastroianni che interpreta brevemente questo eroe, Mastorna appunto etc…

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Dopo questa opera molto interessante si arriva appunto al Fellini-Satyricon, 1969. “A director’s notebook” è
come fosse una sorta di passaggio, perché da una parte riprende alcuni progetti falliti o episodi, ma dall’altra
introduce al “Fellini-Satyricon” con la ricerca del cast, dei luoghi… In un’intervista pubblicata nel ’68 Fellini
dice dell’importanza della scelta delle facce, scelta degli attori importantissima anche attraverso proprio la
loro fisiognomica.

[professoressa Gagenti] LA RICERCA DELLE FACCE

Per prima cosa la visita ai siti archeologici per trovare non tanto nei monumenti ma nei visitatori di oggi le
facce o qualcosa degli antichi. Prima sosta è il Colosseo di notte, che egli definiva “questa orrenda catastrofe
di pietra, questo teschio mangiato dal tempo […] come la testimonianza della civiltà di un altro pianeta e mia
ha comunicato un brivido di terrore e di voluttà”. È dunque in realtà per Fellini qualcosa di alieno. E le
persone che trova lì vicino di notte sono ricettatori, travestiti, personaggi equivoci di vario genere.

Step successivo è di giorno sull’Appia antica: prostitute che improvvisamente si trasformano in antiche
romane e iniziano anche a parlare in latino, ma senza senso, ed emettono anche degli ululati da lupo, perché
prostituta in latino anche lupa; e il fuoco che avevano accanto le prostitute per segnalarsi diventa una sorta di
grande fuma da cui emergono queste lupae del passato; e dei camionisti passati per andare dalle prostitute si
trasformano improvvisamente anche loro in antichi romani, legionari, in un paesaggio che si popola di
elementi archeologico-reali (per es. un frammento del fregio, molto ridotto dell’Ara Pacis.

Poi c’è un ritorno al ricordo della romanità che da piccolo ha vissuto al cinema. Operazione molto divertente:
inventa un finto film muto con set il doppio portico famoso del Museo della Civiltà Romana all’EUR

Poi uno degli esperimenti più fruttuosi, cioè l’escursione notturna sull’Appia Antica con il medium Genius,
dove dialogo è di stratigrafia non archeologica ma parapsicologica. Poi a Genius pare di vedere tre fratelli
romani che appaiono più come degli ectoplasmi. E qui si può vedere molto probabilmente l’idea di quella che
sarà la Villa dei suicidi

Molto diverso e deludente è l’approccio dell’archeologia ufficiale. Fellini si incontra con un insigne
professore di archeologia, che parla tipico inglese britannico di Oxford, ma assume un atteggiamento
veramente professorale e avvia un viaggio sulla metropolitana attraverso la Roma sotterranea. Ma questo della
scienza accreditata è un aspetto poco fruttuoso. Perché professore, che si perde per far vedere un minuscolo
frammento di mosaico, non si accorge che le fermate nel frattempo non sono più segnalate da scritte in
italiano ma in latino su lastre marmoreo e che sulle banchine le persone in attesa sono antichi romani che
parlano in latino (lo stesso della scena delle lupe) e qui Fellini incontra una delle facce che sarà uno dei
personaggi del film.

Poi il cast continua al Macello comunale di Roma, dove Fellini fa interagire i lavoranti del macello facendoli
anche combattere come dei gladiatori. I gladiatori erano una cifra un po’ fissa per Fellini per la mentalità
romana, della quale “ci sfugge completamente il senso”. E anche qui ci sono delle facce che ritroviamo poi nel
film. L’idea dei gladiatori si trova anche nel primissimo ideogramma del film infatti.

Ultimo step è proprio quello di un vero e proprio casting a Cinecittà, dove scene sono molto esilaranti.

IL RAPPORTO CON IL SATYRICON DI PETRONIO

È molto complesso. Innanzitutto dell’opera ci sono arrivati 3 libri dei 16 che originariamente lo dovevano
comporre, e non sappiamo questi tre libri contigui in che punto si trovassero. È un testo letteralmente senza né
capo né coda. È veramente, nell’estetica felliniana, un frammento dell’antichità. Il contenuto dei 10 episodi
del film è praticamente lo stesso dei capitoli di Petronio, con unica differenza che il “romanzo” inizia in una
graca urbs dell’Italia meridionale, mentre il film a Roma. Nel film situazioni o dialoghi del testo letterario

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vengono mantenuti anche se in contesto diverso, quindi “migrano” da un episodio all’altro. Alcuni episodi
dell’opera sono stati completamente eliminati, mentre altri inventati da Fellini sono stati interpolati.

L’idea di un modello dalla natura frammentaria non è nuova in Fellini, soprattutto a rappresentazione della
“generale natura frammentaria del mondo antico, come ci appare oggi”. Soprattutto la sua idea del frammento
è legata all’affresco che via via nel tempo va scomparendo, già presente in un altro film, la “Cleopatra” di
Joseph Mankewitz, e che ritroveremo in un altro film di Fellini stesso, “Roma” dove i personaggi affrescati
svaniscono immediatamente appena vengono riportati alla luce.

Ma molto fruttuosi gli studi multimediali e intermediali: LA SCENEGGIATURA AUDIOVISIVA


DEDOTTA

Cappelli, editore, al tempo aveva una collana che pubblicava sceneggiature di film. Ma quando pubblica
Fellini Satyricon, è una sceneggiatura che esce praticamente in contemporanea con film e riporta quindi
proprio la sceneggiatura del film stesso ma poi cambia leggermente una volta sottoposta all’operazione di
montaggio. Quindi hanno provato (prof) a dedurre una sceneggiatura direttamente dal film.

LE FONTI

In generale la ricetta del film è: una contaminazione a livelli multipli di tre elementi che poi vengono
ulteriormente selezionati, cioè l’antico, il contemporaneo e l’elemento etnico. Stando alle sue interviste
emerge quanto i resti dell’antica Roma poco gli dicono, e soprattutto la visita ai Musei Capitolini è stata
infruttuosa così come l’incontro con l’archeologo. Certo però si è documentato, ha visitato molti altri siti, ha
letto saggi, ha studiato tanto. Ma l’ha fatto più che altro per capire “quanto dovrà assolutamente evitare”.
Quello che gli interessava non era un film storico o di ricostruzione e fedeltà, ma “tentare di evocare
medianicamente, come sempre fa l’artista, un mondo sconosciuto di duemila anni or sono”, cioè “fare un po’
come fa l’archeologo, quando con certi cocci, o con certi ruderi, ricostruisce non già un’anfora o un tempio,
ma qualcosa che allude a un’anfora, ad un tempio: e questo qualcosa è più suggestivo della realtà originaria,
per quel tanto di indefinito e di irrisolto che ne accresce il fascino, postulando la collaborazione dello
spettatore”. Dice poi di non voler aggiungere film alla lunga collana di film sulla romanità, da “Quo vadis?” a
“Scipione l’Africano”. No due film a caso: il primo, come molti dei film muti di ambientazione storica
dell’epoca, si rifà alla pittura storica dell’800.

Come è stato usato tutto ciò che Fellini ha studiato? Per quanto riguarda le opere d’arte. Il primo incontro che
nel film abbiamo con l’arte antica è nell’episodio della pinacoteca, per cui è stato possibile identificare tre
precisi volumi come fonti usate per la scenografia. La pinacoteca è allestita in una sorta di white box, come
fosse un museo modernista, e la maggior parte dei dipinti sono opere di un pittore all’epoca anche molto noto,
Nino Scordia, amico di Fellini che ha collaborato con lui anche in “Casanova” e ne “La città delle donne”. Il
procedimento realizzativo usato da Fellini è consistito in: prelievo fotografico del materiale iconografico dei
libri, poi nella sua accurata trasposizione pittorica nel formato di opere parietali o da cavalletto di una
quadreria moderna, anche giustapponendo in un continuum unico opere di diversa provenienza, come
nell’atrio della Villa dei suicidi (un dettaglio di un affresco rinvenuto a Roma e un dettaglio di un affresco da
Ercolano). Nella Pinacoteca infatti troviamo riportate in dipinti appesi alla parete, immagini prese da vasi o
stele, da pitture parietali, con differenze di secoli tra le origini dei vari reperti artistici che poi sono trasposti
nella scenografia, e tutti messi insieme. Anche gioco sulla scala, come dettagli di visi negli affreschi poi
ingigantiti per la scenografia. E non solo da civiltà greco-romana ma anche un po’ periferiche. C’è poi anche
un dettaglio preso dalla lastra dipinta della Tomba del Tuffatore di Pestum, che però era stata rinvenuta solo
nel 1968, la cui notizia era stata riportata su alcune riviste e quindi fellini si mostra anche molto bravo a
recepire anche le ultime scoperte. Poi altre suggestioni, come la scena in cui si svolge la cena di Trimalchione
colorata di un rosso violento che non può non ricordarci la megalografia della Villa dei misteri.

Anche la scultura ha la sua fonte, cioè Andrè Malraux, un intellettuale importante per questo discorso su
Fellini. Le sculture nel film sono quasi tutte radunate, come bottino, nella nave del pirata. Anche queste, di età
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e tipologie e origini diverse le ritroviamo tutte nel libro di Malraux. Quest’ultimo è molto probabile che con il
libro “Les voix du silence” sia stata anche la fonte per grande affresco nel santuario dell’ermafrodito. Malraux
è stato un politico francese, uno scrittore ma soprattutto un intellettuale. Autore di vari scritti sulla filosofia
dell’arte e soprattutto nei due testi fonti per Fellini, egli accosta opere di epoche e culture molto lontane ma
considerate tute di apri valore: confrontate per vedere quali fossero analogie, quindi un approccio anticlassico
e antiaccademico, quindi molto simile a quello che sta alla base della scelta di opere di arte figurativa presenti
nel film Satyricon. Quindi Malraux no solo mera fonte illustrativa ma anche come filosofia di scelta delle
opere da riprodurre.

Il muro coperto di iscrizioni e graffiti nella prima scena film, è opera di Nino Scondia, e ricorda alcune opere
contemporanee. Ma alcune altre suggestioni si nascondono dove meno ce le aspetteremmo: le ultime
inquadrature della scena dell’ermafrodito, in questa terra riarsa che si spacca secondo pattern particolare
rimanda direttamente ai pattern dei Grandi cretti di Burri. E un personaggio chiave è il poeta Eumolpio, che
molto probabilmente rappresenta l’intellettuale Emilio Villa, molto noto nell’ambiente artistico romano, anche
lui autore di scritti dall’impronta molto anticlassica sui nessi tra la neoavanguardia artistica dell’epoca e gli
studi archeologico-antropologici. Quindi una linea di pensiero che non è solo quella di Fellini, ma che negli
anni’50 in Francia e a Roma più compiutamente negli anni ’60 trova autorevoli voci.

Poi molteplici suggestioni anche da altre culture: la ricetta “antico, contemporaneo, etnico” funziona anche nel
giardino delle delizie, dove troviamo citazioni letterarie da miniature persiane.

Poi passiamo a “facce”, trucco, acconciature, costumi. Le facce un’ossessione per Fellini. Prima scelta
ovviamente per protagonisti: aveva pensato a due attori importanti ma, come dice lui stesso, “costavano
troppo” e ripiega su due sconosciuti. Questi sono bellezze maschili ambigue, con aria del tempo, “il volto di
un preciso momento storico”. Ma volto più glam, più upgrade, è un’indossatrice di colore, Donieille Luna,
nome di fantasia. È la prima modella di colore ad apparire sulla copertina di una rivista patinata, prima come
disegno ma già due anni dopo su Vogue. Questa indossatrice ebbe moto successo mediatico, precorritrice
delle grandi top model degli anni ’80. Scelti i personaggi, si presentava problema del trucco. Truccatore fu
Piero Tosi, che ebbe però rapporto molto difficile con Fellini. Tosi aveva delle affinità elettive molto stingenti
con Luchino Visconti, il quale in quel momento stava girando “la caduta degli dei”, ma aveva dovuto fermarsi
per problemi di Budget. Quindi Fellini lo chiama. Per creare la famosa faccia magnolia servivano 5 ore e
mezza, che però si vede nel film per pochissimo. Mentre per il protagonista il trucco era di 20 minuti e basta.
Tipicamente felliniano. Nella foto in cui si vede la stanza per truccatori, appesa al muro come modelli ci sono
le foto delle statue dei musei capitolini, no di modelle/i. ma le sculture non davano modello per colore, che
invece è da ricercare nei ritratti del Fayum, una mostra sui quali aveva fatto scalpore nella tarda età vittoriana
perché erano percepiti particolarmente sensuali nel loro rapporto tra vivacità dell’immagine e corruzione del
corpo, perché sono ritratti di mummie. E nel caso dei ritratti maschili sono dotati di sottile fascino omoerotico.
E, per di più, anche di questi parla Malraux ne “les voix du silance”. Ma nei trucchi abbiamo anche il cotè
fashion, basta confrontarli con pubblicità o riviste di bellezza, tra cui sempre anche Vogue o Lancome:
sopracciglia depilate, ombretto a macchia attorno all’occhio, trucco dorato, le lenti a contatto colorate (poiché
D. Luna purché bellissima non aveva gli occhi azzurri), finte afroamericane, finto black… riferimenti ai viaggi
in india e Nepal con queste argille con cui si dipingevano il volto nella tradizione vedica (ma anche in questo
Fellini non è stato il primo). Anche il trucco femminile è molto lontano da quello che usavano le dive del
tempo, anche per i film storici. [la “Medea” di Pasolini dal punto div ista dei personaggi si avvicina molto
all’idea di Fellini, nella ricerca di una storia che fosse arcaica e anche ricerca antropologica; ma i suoi volti
non sono rimasti contemporanei perché si ispiravano esclusivamente al cotè antico. I volti e i trucchi di Fellini
sono rimasti veramente senza tempo perché si ispiravano alla moda contemporanea e anche ai volti antichi e al
cotè etnico]. Per le acconciature invece il modello erano le sculture, soprattutto tutti i ritratti dei Musei
Capitolini. Ma qualsiasi scultura, di diverse etè ed epoche. Ma sempre anche il cotè etnico/fashion (treccine
stile africano, trecce lunghe tipiche indiane…immagini Vogue). Per quanto riguarda i costumi bisogna partire
dalla constatazione che l’abito antico non è una costruzione sartoriale, sono sostanzialmente dei teli. E la

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bellezza di queste linee era già stata scoperta nella moda dall’artista, ideatore, oggi diremmo fashion designer
Mariano Fortuni, il quale ispirandosi alla scoperta inizi ‘900 della statua dell’Aurigo di Delfo, inventa appunto
un abito che si denominerà appunto “delfos”. E poco tempo dopo Fortuni, visto il successo, ne registra il
marchio. Questa tunica molto sciolta usata da tutti i personaggi, cambiano magari le lunghezze e i colori.
Manca assolutamente la toga, abito “nazionale” dei romani ma che in realtà indossate esclusivamente da
alcune classi e in alcune occasioni. Anche qui supponiamo una vicinanza con i ritratti del Fayum, perché
anche per i colori degli abiti ovviamente la scultura non ci da indizi. Il peplo, abito greco, compare una volta
sola, nella cena degli omeristi appunto, ma anche qui con delle variazioni, per esempio la cantante indossa una
corona blu che era una delle corone che indossava il faraone e l’idea della machera romana, mentre il corifeo
veste come Apollo. Poi un riferimento al mosaico bizantino. Poi c’è una grande ricerca sui tessili, cercando di
riprodurre proprio le stesse tecniche produttive degli abiti. Ma nel frattempo venivano di moda queste fibre
che non sono seta ma che ne hanno le stesse caratteristiche, che si vedono in tante pubblicità. Poi si vedono i
mini chitoni, erano infatti di moda le minigonne, ma proprio i mini chitoni anche nelle linee di moda quegli
anni. Grandi colane che si vedono tipiche degli hippie, per cui Fellini aveva una particolare simpatia. I gioielli
sono in parte ripresi dall’antico ma stravolti nelle dimensioni. I materiali possono essere i più diversi, creando
grandi gioielli piatti per esempio. Questi si vedono molto, ancora una volta, anche nella moda e c’è anche uno
dei pochi casi in cui probabilmente è stato il film ad ispirare lo stilista/designer, cioè un gioiello da testa che
vediamo poi nel 1970 sulla rivista di Vogue.

Poi vi è l’elemento del multilinguismo che è sicuramente uno di quelli più destabilizzanti per lo spettatore. Ci
sono due gruppi di lingue: il primo che comprende una serie di lingue regionali, quindi dialetti soprattutto
dell’Italia centro meridionale, come siciliano, romano etc; un secondo comprende lingue più o meno esistenti
che portano poche o nulle informazioni, anche perché spesso un po’ nascoste dai rumori di sottofondo, per
esempio latino, un pastiche romanzo, tedesco dei pirati, il greco. Una delle fissazioni di Fellini era fare il film
tutto in latino e reclutare attori tedeschi che doppiassero il latino perché si ritiene che la pronuncia latina
originaria fosse particolarmente vicina al tedesco. Qualche anno dopo un film totalmente in latino è stato
realizzato da un altro regista.

Infine anche la musica conta veramente tanto, essendo infatti i dialoghi in realtà scarsi. È compito della
musica, secondo Fellini, restituire la sensazione di una realtà scomparsa e non proprio conoscibile. Dato che si
vuole rimanere fuori da melodico, bisogna avere qualcosa di arcaico e moderno allo stesso tempo. E come
arcaico abbiamo il ricorso a serie di incisioni, soprattutto una particolare collana dell’UNESCO di musiche
etniche di varie aree geografiche del mondo, di modernissimo abbiamo invece la musica elettronica, che da
una sorta di fantascienza psichedelica come poteva essere “2001 Odisse nello spazio” uscito un anno prima.
Un motivo che torna ben sei volte nel film è un brano pseudo-etnico composta ex nova per il film da Rota. Per
il filone elettronico importante è il compositore turco naturalizzato americano Ilhan Mimaroglu, che ritorna in
posizioni chiave nel film, come nel momento degli omeristi all’interno della cena di Trimalchione. Qui tra le
parole greche si sentono anche altre che sono in realtà turche. Il testo citato dagli omeristi ad un certo punto è
di Pindaro e infatti si vede Eumolpio che lo conosce e lo recita a bassa voce. In particolare tre frammenti
pindarici, fondamentali per capire il significato di fondo del film. Poi con la stessa musica sul finale del film
prima che venga riassorbita dal suono del vento, quindi questo battito pulsante si arresti per essere riassorbito
nel buio, non è l’immagine di un viaggio verso una gioiosa vita a venire che sta intraprendendo nostro unico
personaggio superstite, Encolpio, come ci fa capire testo di questa meravigliosa lirica turca dal titolo
“Immersi”. Discorso di Encolpio che parla alla fine interrotto a metà, quindi come inizio film il frammento.
Non solo, poi vediamo d’un tratto che il primo piano di Ascilto lentamente si trasforma in un affresco assieme
a tutti gli altri personaggi di Fellini-Satyricon, e allo stesso tempo sentiamo solo rumore del vento no più
musica. Siamo sprofondati di nuovo nel nulla degli elementi e vediamo che questi ruderi che presto
crolleranno in cui tutti i personaggi sono accompagnati dalla ripresa, ancora, di quel motivo musicale che
veramente può essere considerato il tema della memoria e della felicità perduta

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È un Fellini, se vogliamo, all’ennesima potenza. Bisogna lasciarsi trascinare ed entrarci dentro anche senza
cercare troppo di capire

Lezione 29°

Abbiamo anticipato “Satyricon” e “Mastorna”, ma comunque “Toby Dammit” si inserisce nello stesso
periodo di profonda crisi di Fellini, e malattia, dopo Giulietta degli spiriti e anche la rottura con Flaiano con
cui vera e propria lite, aggiungendo il film Mastorna che non si realizza. Progetto di Toby Dammit è del 1968,
viene proposto a Fellini infatti di fare il terzo episodio di “Tre passi nel delirio”, tre episodi ispirati ai racconti
di E. A. Poe. L’episodio diretto da Fellini è sicuramente quello più riuscito e più vicino a Poe. Doveva essere
un progetto molto più ampio ma alla fine tre episodi e coproduzione franco-italiana. Fellini si affida a nuovo
sceneggiatore, Zapponi, giovane scrittore che incuriosì il regista. La scelta del racconto di Poe cade su uno dei
meno conosciuti, ovvero Non scommettere la testa col diavolo. È anche uno dei pochi racconti con un fine
morale: il peccatore finisce con testa mozzata e punito giustamente. Rispetto al racconto comunque Fellini e
Zapponi fanno tutt’altro, racconto è punto di partenza, reinventano completamente.

Protagonista attore straniero, molto affascinante, con viso volutamente bello, Terence Stamp. Recita la parte
di un attore straniero che arriva a Roma (ricorda scena del Mastorna), dove deve girare uno spaghetti western
d’ispirazione religiosa, un western cattolico. Deve ritirare un premio, ha un’intervista televisiva e alla fine
altro scopo per cui arriva a Roma è che avrebbe avuto una Ferrari a disposizione. E scena finale folle corsa
notturna sui colli romani con la macchina e finirà con testa mozzata.

Il film no molto fedele nel racconto ma perfettamente interpretato lo spirito di Poe, e questo glielo ha
riconosciuto anche tanta critica. Nella rappresentazione visiva c’è tutto Poe nella dimensione dell’angoscia,
del mistero, e il protagonista incarna alla perfezione il personaggio angosciato, insicuro, di un romantico
moderno. La scena finale soprattutto trasmette tutta angoscia che ci trasmette scrittura Poe. Altra scelta Fellini
è di non far interpretare diavolo dal vecchietto zoppo come in Poe, ma da una giovane attraente e innocente,
come a dire che il male non è in qualcosa che per forza vedi subito come brutto. Anche qui c’è tutto Poe, per
cui il male arriva anche dal fascino di qualcosa che ci attira. Poi la scelta della fotografia, con Rotunno, che è
scelta insolita “fra il rosso-Vlaminck (rif al pittore Vlaminck e suo quadro Gli alberi rossi del 1905) e il nero
incombente della notte”. Infatti, in mezzo, i quattro capitoli del film si possono far corrispondere al colore che
domina il singolo episodio: l’arrivo all’aeroporto e il viaggio verso la città, rosso (per certi aspetti sembra una
Roma caotica e infernale, come alla città di Taxi Driver, e dimensione di incubo che invece ci rimanda a
8emezzo all’inizio); l’intervista televisiva, argento livido; la premiazione, verde-azzurro cupo; la corsa sulla
Ferrari, nero con venature rosse.

Siamo davanti a un film fortemente visivo e che ci pone forse quella che possiamo considerare una nuova
stagione, che possiamo considerare L’ETA’ DELL’ANSIA. Toby Dammit inaugura, dopo il Mastorna e la
malattia, il secondo Fellini, legato molto di più alla dimensione visiva e dell’inconscio, con una narrazione più
onirica e destrutturata, e anche dimensione metanarrativa. Tassone ci dice che non si può affermare che
“Fellini abbia sempre rifatto un po’ lo stesso film”.

[video]

Carrellata dentro all’aeroporto, che sembra uno spazio surrealista, con personaggi assurdi, angosciante.
Dimensione onirica, colori. Paparazzi, ci riporta alla Dolce Vita. Arriva il sacerdote che è produttore film.
Sono in macchina, e mentre produttore racconta sua idea del western morale, cattolico, vediamo fuori e il
passaggio attraverso una città assurda e inquietante. Il sacerdote cita Barthes, Pasolini, Lukasch, tutti. A certo
punto appare la bambina, ma è flashback a quando l’aveva vista in aeroporto, dove in cima alle scale noi ci
eravamo accorti del suo sguardo allucinato ma non avevamo visto cosa vedeva, e lo vediamo ora nel suo
flashback.

26
Poi nello studio televisivo, dove abbiamo una parodia dell’intervista con risposte paradossali. Dice che non
crede in dio, ma crede nel diavolo, non è cattolico. E allora com’è il diavolo per lui? Dice essere qualcosa di
affascinante.

Terzo episodio, il premio della lupa d’oro. E anche qua satira sui premi cinematografici e letterari con tutta
serie di personaggi sulla passerella. Ancora fondamentale dimensione degli sguardi, dell’aspetto fisico, della
fisicità dei personaggi. Vari personaggi, tutti tipicamente felliniani. Premiazioni, e uno e un attore quasi cieco
e riferimento è abbastanza evidente a Totò. C’è nebbia, che è anche un po’ come vede le cose lui. Alla fine
viene chiesto lui di fare un monologo shakespeariano, e lui sceglie Macbeth. Ma non lo termina, e inizia a
parlare e ridere, chiede che cosa vogliono da lui, si arrabbia, si sfoga, dice che ultimo film che ha fatto è stato
licenziato dal regista perché era sempre ubriaco, esprime quella dimensione angoscia che abbiamo visto nel
personaggio fin dall’inizio, i suoi demoni e ossessioni. Anche macchina da presa a mano che lo segue e gli va
anche addosso, a rappresentare sua estraneità con mondo che lo circonda. Fuga.

Poi corsa sui colli romani. Lui prende la Ferrari, rappresentata proprio come oggetto del desiderio, anche
come la tocca, sembra quasi farci l’amore. C’è anche idea quegli anni macchina come oggetto da ottenere,
fama etc…10 minuti abbondanti di corsa.

Arriva fino a momento in cui c’è un ponte crollato e gli viene detto di fermarsi e tornare indietro. Questa idea
viene a Fellini e Rotunno durante una gita durante la quale arrivano al punto in cui era crollato il ponte di
Ariccia, vedono questo vuoto creato dal crollo e hanno idea chiudere film così. Quindi si ferma, di nuovo
nebbia, questa difficoltà a vedere bene, a capire, simbolica, confusione. E poi di colpo il buio e il vuoto creato
dal crollo. Poi compare tra la nebbia e dall’altra parte del ponte la bambina. Qui grande abilita Fellini
rappresentare questa idea di male, perdizione. Ricorda un po’ i bambini diabolici di Henry James. Attrazione
fatale. Decide di andare. Ora il finale, nella sostanza lo stesso di Poe, ma scelta diversa di Fellini. Vediamo tra
la nebbia che si chiarisce sempre più la fune di metallo sporca di sangue, rappresentazione per sineddoche, ci
rimanda a cosa può essere successo. E poi testa mozzata e sorriso del diavolo-bambina che si porta via la testa.

Certamente film di passaggio per dimensione visionaria che doveva essere il Mastorna e che abbiamo visto
nel Satyricon, ma anche importante per la dimensione di Poe. Nel finale vediamo apparire il ritratto di Poe con
titoli di coda, ma anche perché ultimo dei tre episodi ripresi da Poe.

Dopo questo film abbiamo “A director’s notebook” e “Fellini-Satyricon” entrambi del 1969 [già analizzati]

Dopo il Fellini-Satyricon, altra serie di film: “Roma”, “I clown”. Arriviamo poi ad “Amarcord”, e
altri.
Bondanella mette insieme “Amarcord” e “Prova d’orchestra” come film legati ad una dimensione
politica, sempre comunque in modo ampio e non strettamente ideologico, ma sono i due film con
maggiori riferimenti politici. “Amarcord” nasce nel 1973. Collaboratore è Tonino Guerra, scrittore e
poeta romagnolo. Il titolo è termine dialettale romagnolo, “mi ricordo”, però questi ricordi di Fellini
sono costantemente rielaborati e reinventati, quindi no riferimento specifico alla biografia felliniana
né a episodi storici. Fellini dice però che l’idea del titolo gli è arrivata per il suono della parola che
gli piaceva più che per il significato, un suono che gli fa rievocare qualcosa.
Protagonista è una città, che certo ricorda Rimini, ma non direttamente citata come sempre.
Dimensione del borgo all’interno del quale si muove un mondo, un mondo corale. In questo molto
simile a I vitelloni, ma a differenza di quest’ultimo no solo un gruppo ma un intero mondo appunto
corale, famiglia, amici, scuola, andando a toccare molto di più il contesto storico in cui è ambientato,
ovvero il fascismo. Ma un fascismo particolare, quello dell’Italia provinciale, un’illusione, una
dimensione di stallo e non crescita. Grande successo di critica anche per la rappresentazione del
fascismo come qualcosa che pervade ed entra senza quasi accorgertene nella vita della povera gente
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di provincia. Febbraio 1974 sul Corriere Natalia Ginzburg scrive che Amarcord ha il merito di
rivelare “la natura del fascismo ordinario”, non quello delle grandi rappresentazioni politiche, ma
quello della quotidianità. “Il fascismo appare quale era, nella sua dimensione visibile e invisibile, in
quella visibile appare come grottesco, […] in quella invisibile veniva respirato come l’aria. […] Gli
antifascisti veri in questo film non ci sono. […] Noi riconosciamo qui le nostre confusioni
sentimentali. […] Una sorta di memoria corale.” Lettura molto condivisibile che ben ci restituisce
questa dimensione del film che qualcuno poteva criticare perché non vi vedeva alcuna critica
esplicita, ma che trasmette però bene la pervasione del fascismo nella quotidianità come qualcosa
anche quasi di invisibile. L’altra rappresentazione è quella delle illusioni, individuali e collettive,
quindi quelle personali ma anche quelle legate al fascismo e sue disillusioni. Per esempio la grande
costruzione del transatlantico, orgoglio del fascismo, che però appare anche come un’illusione, di
cartone. Una prima parte del film è più legata alla dimensione individuale, la seconda più a quella
collettiva e storico-istituzionale.
Struttura narrativa, nonostante la maggior dimensione corale, è sempre abbastanza frammentata e
destrutturata, per quanto continuità data dal protagonista Titta. Anche struttura ciclica, da primavera
a primavera (come ne I vitelloni, fine Estate)
Gli attori: c’è Pupella Di Maggio, attrice legata anche al teatro di De Filippo, fa la classica madre di
famiglia del tempo (ricorda infatti anche “Venerdì, Sabato, Domenica” di Eduardo De Filippo);
anche diversi attori non professionisti  sincretismo attori professionisti e non e marasma attori.
[video]
Si inizia con questi fiori, petali, che loro chiamano “manine” che cadono e volteggiano nell’aria, a
segnalare l’inizio della primavera, e infatti li troviamo di nuovo poi alla fine film. Questo ci viene
raccontato dalle parole di quello che è un po’ il matto del borgo, tipico di tutti i paesi di provincia. E
questo ci dice subito di come la credibilità del racconto debba sempre essere messa un po’ in dubbio
(nel cinema Fellini).
Si vedono tutti i luoghi tipici del borgo, fino all’interno del barbiere.
Las era si ritrovano tutti in piazza, dimensione corale
Ogni tanto personaggio misterioso che irrompe nel paese con la sua moto in corsa.
Altro personaggio che entra, l’avvocato, il classico colto del paese, che conosce storia del borgo, e ci
racconta storia del paese. Da un alto ci interpella e si rivolge a noi, ma contemporaneamente è
sempre interrotto da una voce, che noi non vediamo, che gli fa il verso etc, tocco ironico sempre
Fellini nei momenti seri, dei discorsi aulici, tipo sfottò popolare.
Carrellata magistrale delle figure dei vari professori. Momento della foto di classe. Ciccio è
innamorato di Aldina, lei è suo sogno, ma rimarrà un’illusione. Scatto fotografia, stacco improvviso
su foto Papa, Re e Mussolini, poi si passa all’aula, lezione e altro professore rappresentato. Poi la
professoressa di matematica, che vedremo fervente fascista e che rientra un po’ anche lei nei sogni
erotici di Titta.
Stacco successivo si passa alla famiglia. Dopo un percorso corale che rappresenta anche le istituzioni
si passa a presentare la famiglia, che è esemplare e diventa protagonista del film. Padre, figlio,
madre, nonno, fratello della madre. Quadro familiare e punizione del bambino.

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Si torna al corso principale della città, momento di nuovo più corale, vediamo il cinema. Si vede
manifesto in cui Freda Ster e Ginger Robert con scritta “danzando con te” anticipando in certo senso
film successivo Fellini. La donna, la Gradisca, cioè la professoressa matematica chiede di Gary
Cooper, il suo sogno. Cinema è un po’ dimensione del sogno.
Sogno di Titta
Confessione, parla del suo desiderio della Gradisca e del suo sogno. Si vede Titta che cerca di
avvicinarsi a lei seduta dentro il cinema, arriva accanto e lei, ma lei presa da Gary Cooper e non si
accorge che lui mano sulle sue gambe. Titta dice al prete che si è toccato, ma si è pentito. E poi
sacerdote lo chiede anche al credente successivo, è ossessione.
Dimensione collettiva poi del fascismo, girata a Cinecittà, perfetto perché essa era perfettamente in
stile. Rito collettivo per la festa nascita Roma. Il federale che appare tra la nebbia, che imita il Duce.
Una marcetta. Si vede molto bene l’aspetto seduttivo del potere e della ritualità di massa, anche se
qui con una marcetta più provinciale. Carrellata sulle Giovani Italiane. Dimensione scenografica.
Il padre di Titta è anarchico invece e si lamenta del casino che fanno in piazza. La madre l’ha chiuso
per impedire che andasse a fare casini.
Si torna alla manifestazione. C’è il saggio ginnico. Si vede tutta quella ritualità di cui parlava la
Ginzburg, che entra nella quotidianità persone.
Si solleva il volto di Mussolini e qui Fellini trovata: Ciccio sogna guardando volto Duce suo
matrimonio con Aldina, con Duce stesso che li sposa. si sovrappongono immaginario e realtà.
Illusione.
Mentre poi c’è cerimonia, un grammofono suona l’internazionale. Allora fascisti indagano su chi
possa essere stato e convocano anche il padre di Titta appunto considerato anarchico. E qui anche lui
che prima si era mostrato così coraggioso, qui nega tutto e fa l’ingenuo, sembra spaventato e
titubante. È obbligato a bere l’olio di ricino che comporterà conseguenze degradanti per lui, glielo
fanno bere per degradare la persona interrogata.
Lezione 30°
Momento del film in cui i ragazzi sognano il Grand Hotel (sempre quello di Rimini, come il cinema,
ma ricostruiti). Solito testimone che si rivolge allo spettatore dalla poco credibilità. Mitica serata in
cui Gradisca è attesa al Grand Hotel attesa dal principe degli Emirati Arabi. Sogno orientaleggiante.
Luce sovraesposta, barocca quasi, che da idea dell’illusione. Arrivo dell’Emiro con le concubine. Il
venditore ambulante del paese che dice che è stato chiamato dalle concubine e ha avuto 28 rapporti
in una notte. Ognuno ha un sogno legato a quell’Hotel, ciascun personaggio vi proietta propri
desideri e sogni. Oppure la serata dei gigolot, mentre fuori sono ragazzi che guardano e sognano.
Ma l’illusione più grande è quella del passaggio del Rex, episodio noto perché protagonista il fratello
del padre ricoverato in un manicomio e famoso suo urlare rifugiato sull’albero. E lui vuole una
donna. Torna un po’ il tema della repressione sessuale. Situazione sarà ricondotta alla normalità
attraverso suora che lo convince. Rapporto sempre un po’ controverso tra religione cattolica e sesso.
Abbiamo poi appunto il Rex, orgoglio del lavoro italiano che sta per passare davanti alla città. Tutti
vogliono vedere. E qui si vedrà chiaramente l’illusione data dal potere. Il Rex davanti a Rimini non è
mai passato, di nuovo Fellini gioca su qualcosa che è vero ma che comunque anche no, mai successo,
e in ogni caso non ci ha mai detto che quella è Rimini, tra illusione e realtà. A vederlo va anche il
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padre anarchico, anche lui comunque affascinato. Persone nelle barche ad aspettare. Ma poco a poco
vediamo già che siamo dentro ad un’illusione e vediamo che lo sfondo con altre barche e mare è in
realtà cartellone. In attesa un po’ tutti confessano propri pensieri esistenziali. E qui Gradisca dice che
suo sogno in realtà è uomo per la vita, famiglia, semplicità etc… no Gary Cooper che è solo
un’illusione, e infatti si sposerà con un carabiniere, mondo cinema è illusione. E nella realtà è tutta
una disillusione. Ed ecco che improvvisamente nella nebbia appare questo Rex. Luci e musica a darci
proprio idea del sogno e dell’illusione. Disillusioni personali e poi corali.
Vediamo nel borgo la nebbia e nonno che si perde, realtà è qualcosa in cui ti muovi a tentoni. No un
caso che la nebbia sia subito dopo il Rex, “non si vede proprio niente. Solo nel ’22 c’è stata una
nebbia così”. Anno della marcia su Roma, come se appunto fossero in quell’anno tutti un po’
offuscati. Fellini sempre riferimenti da cogliere.
Altro evento è la corsa automobilistica famosa che passa attraverso borgo e i personaggi del borgo
che si identificano negli eroi della corsa, ci si proietta ancora una volta e si diventa protagonisti ma
nell’illusione.
Siamo al cinema Fulgor. Tutti escono perché c’è stata la grande nevicata. Tutte le reazioni dei
personaggi alla nevicata. E poi l’avvocato che ci spiega che questo sarà ricordato come “l’anno del
nevone”. E gli arriva addosso una palla di neve. poi il gioco con la neve ma anche dimensione della
morte che sta entrando nella vita di Titta con la mamma che sta male. Improvvisamente mentre
ragazzi giocano si sente un verso. E appare un pavone. Fa la ruota. Metafora della bellezza ma anche
dell’illusione. Si passa infatti alla tristezza con morte madre Titta. Dopo il funerale arriviamo al
finale.
Finale è matrimonio della Gradisca, sono tornate le “manine”. Rimane la dimensione comica e felcie
ma anche profonda malinconia. “ha trovato il suo Gary Cooper”. Fotografia che immortala momento
collettivo, come già nella foto di classe. Infine il matto del paese che saluta in macchina. Finale
passerella come spesso in Fellini, rimostrandoci un po’ tutti personaggi. La Gradisca che se ne va,
lascia il borgo, lancia bouquet che non è raccolto da nessuno. Va via e rincorrono la macchina.
Saluti. Finale malinconico. È tornata la primavera, quindi riprenderà il ciclo delle stagioni, riaprirà il
Grand Hotel.
Amarcord è uno dei film di maggior successo Fellini, ha anche vinto Oscar. Nonostante potesse
sembrare un film di respiro locale, ma questo ci dice anche la grandezza Fellini x sua capacità creare
affresco di qualcosa di locale e individuale che porta a coralità di discorso che va al di là, dimensione
più ampia dei miti dell’illusione che seducono tutti.
Poi c’è anche “Casanova”, ma passiamo a “Prova d’orchestra” del 1979 che Bondanella associa
direttamente ad Amarcord come film più politici, anche se sempre in dimensione metaforica e della
seduzione del potere, di cui non rappresenta mai direttamente i conflitti e scontri. Questo film è una
commissione RAI. Nel momento in cui lavorava a “La città delle donne” pensa a questo apologo che
richiami al contesto politico di quegli anni, soprattutto il rapimento di Moro. In questo periodo di
disorientamento Fellini costruisce una metafora legata ad una rivolta di musicista all’interno di un
auditorium, ricostruito apposta a Cinecittà, che si risolve alla fine apparentemente con un ritorno
all’ordine, ma stacco in nero nel finale e si sente direttore che dopo momento di armonia da degli
ordini in tedesco. Sembra quasi Hitler, tono dittatoriale. Molti vi vedono la rappresentazione del
rischio che si passi alla dittatura. Fellini comunque nelle dichiarazioni non lega il film direttamente al
contesto storico, anzi afferma di aver pensato al film già prima.
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C’è sempre una cornice comica, perché i tratti fisici degli orchestrali sono “strettamente connessi agli
strumenti che suonano”, e inoltre Fellini era stato colpito, dice, assistendo a delle prove d’orchestra,
da come prima di iniziare il concerto scherzavano fra di loro, atteggiamenti anche volgari, mentre
con arrivo direttore e creazione artistica allora qualcosa id completamente diverso. Dimensione
salvifica della produzione artistica sembra essere chiavi lettura film e significati del finale, salvo poi
quell’ultimo ordine dittatoriale.
Nell prima parte del film c’è televisione che deve intervistare orchestrali e la voce fuori campo che fa
domande è la stessa voce di Fellini. Le interviste rivelano però anche la dimensione esistenziale degli
orchestrali, la loro frustrazione a volte. Come sempre in Fellini poi emerge il ritratto del singolo
personaggio.
Film presentato con la prima al Quirinale perchè lo volle vedere il Presidente della Repubblica
Sandro Pertini.
Come sempre nel regista siamo davanti a film che si vuole rivolgere allo spettatore, parla di un
apologo politico ma più che nella dimensione politica, nella dimensione etica. Vorrebbe che Prova
d’orchestra possa “suggerire una solitaria riflessione allo spettatore, e che la sua tensione sia da lui
vissuta come fatto personale interiore”. Fellini come sempre vuole rivolgersi allo spettatore nel senso
che ciò che proiettato sullo schermo si intreccia con i vissuti personali, vivendo il film a livello
proprio anche sensoriale (soprattutto gli ultimi film).
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Muro rosso sotto titoli iniziali e in sottofondo rumori come di incidenti, caos, dimensione esterna,
che potrebbe essere un po’ come in 8e mezzo, ma poi passiamo alla dimensione interna, calma
dell’auditorium, come mondo protetto. Le due sono separate ma nel corso del film vediamo che la
dimensione esterna non può non entrare all’interno, l’esterno non puoi chiuderlo e fermarlo fuori.
Silenzio. Una prova acustica. Copista che ci racconta di quello spazio, sua storia (ma in realtà
qualcosa di ricreato da Fellini). Un luogo storico, vecchio. Un mondo passato, antico, pacifico. Poi
arriva il primo violino e parla a noi.
Poi passiamo a momento interviste e capo orchestra che dice che c’è la televisione. E iniziano prima
contestazioni degli orchestrali. Si sentono le inflessioni regionali, che Fellini usa per rendere ancora
più idea dei personaggi.
Ogni tanto però si sentono dei boati come se arrivassero dall’esterno.
Anche fra gli orchestrali stessi non c’è armonia e ci si prende in giro.
Ogni volta che intervista qualcuno si vede luce riflettori che va sull’intervistato, che sempre alla fine
è come se si confessasse. Sembra quasi un reportage televisivo, lo stile è quello. Ciascuno lega il
proprio strumento alla propria vita e proprio carattere.
Suonano, direttore tedesco li fa suonare a grande ritmo. Non vogliono continuare a suonare per
l’ennesima volta, in segno di protesta, chiamando ancora in causa il sindacato. Sentono boato ancora,
questa realtà esterna che preme. Fanno pausa. Ulteriori interviste e confessioni.
Torniamo al vecchio copista che ricorda i tempi passati e le diverse modalità lavoro. Si passa a
orchestrali e si vede il contrasto tra ciò raccontato e rivolta che sta nascendo. Poi intervista al

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maestro. Quando maestro/direttore torna dalla pausa, ecco che troviamo la rivolta. Però anche tra di
loro a volte contestazioni. Distruzione del metronomo che da il tempo.
Caos. Ma nel frattempo sta iniziando anche a crollare muro. Uno impazzisce e comincia a sparare. Il
muro sempre più si sgretola. Si apre una breccia, crolla. E sfera gigante irrompe, rappresentando il
mondo esterno che irrompe sì ma anche la perfezione, l’armonia. Simbolo del ritorno all’armonia.
Ma sotto il crollo è morta l’arpista, a simboleggiare il sacrificio necessario per il ritorno all’armonia,
che apparentemente è tornata. Silenzio. “le note salvano noi” dice il direttore, che parla ora ai
musicisti. La prova va avanti e eseguono composizione (creata apposta da Rota, un valzer). Ordine
sembra essersi ricomposto. Film avrebbe potuto chiudersi qua. Ma Fellini ci da un fotogramma nero
e crea ambiguità del finale. Finiscono eseguire, direttore cambia tono e li rimprovera, mentre urla
schermo diventa nero e si sente solo lui che arrabbiato parla in tedesco. Fine. Per molti è dittatore che
subentra in situazione di caos.
Sull’ “Avanti” Lino Miccicchè dice che “film va letto nella poetica ambiguità delle sue molte
possibili letture senza cadere alla tentazione di leggerlo riducendone il senso a puro senso politico: il
disordine, l’anarchia e il recupero di un principio di autorità. Il discorso potrebbe anche sembrare
reazionario, quando invece è essenzialmente pessimistico. E può anche essere quello in fondo
leggibile in tutto Fellini, di una beffarda ironia della storia, come prodotto di un inconscio, spasimo
dell’uomo esistenzialmente oscillante fra autorità e libertà.” Miccicchè non era uno che amasse
molto Fellini, amava molto più Visconti, ma c’è questo omaggio e sguardo a Fellini in dimensione
più tranquilla al di là di una necessaria pura lettura ideologica.

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