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INDICE

Introduzione..................................................................................... p. 2

CAP. I - L’ITINERARIO BIOGRAFICO E ARTISTICO DI FELLINI


§. 1.1 Federico Fellini tra vita e cinema……………………….. » 4
§. 1.2 Il mondo felliniano……………………………………… » 14

CAP. II - IL “CASANOVA” FELLINIANO


§. 2.1 La storia di una produzione difficile, il Casanova di
Fellini…………………………………………………… » 19
§. 2.2 Analisi di due categorie: il seduttore e il XVIII secolo…. » 29

CAP. III - LE VISIONIDEL MAESTRO


§. 3.1 L’erotismo del Casanova felliniano……………………. » 44
§. 3.2 La sequenza finale e la “vertigine del vuoto”………….. » 56

Conclusioni……………………………………………………….. » 64

Bibliografia……………………………………………………….. » 67
Sitografia………………………………………………………… » 70

1
INTRODUZIONE

Federico Fellini, classe 1920, fu un regista unico, fuori dagli schemi, originale,
fantasioso e a tratti bizzarro. Il suo linguaggio cinematografico, i soggetti delle sue
pellicole, la scelta dei protagonisti o le ambientazioni, nulla fu mai né casuale né
banale. Tutto ciò che Fellini portò soprattutto sul grande schermo fu un universo di
magia e di poesia, una terra abitata dal regista ai confini tra la realtà e l’illusione, e
dove diede vita a personaggi nostalgici e appassionati ma anche solitari e ridicoli. Il
mondo fantastico, utopico e onirico che Fellini tradusse in immagini, storie e parole fu
così ricco di simboli da prestarsi a diverse chiavi di lettura e a stimolare intere
generazioni di studiosi a elaborare teorie, scrivere libri e produrre saggi nel tentativo di
trovare quella giusta capace di comprendere appieno la sua arte.
Prima di diventare regista Fellini si metterà alla prova come caricaturista,
giornalista, sceneggiatore, aiuto regista fino a quando, nel 1950, con Luci del varietà,
dopo aver co-diretto il film assieme a Lattuada, non prenderà in mano la macchina da
presa e inizierà a dirigere le sue produzioni. Dopo alcuni primi tentativi, il mondo
felliniano cominciò a prendere corpo e, infatti, già con I vitelloni, pellicola del 1953, il
regista riminese diede prova della sua forte personalità e della sua vulcanica creatività,
un mix che lo porterà a ricevere importanti riconoscimenti anche oltre Oceano. Nella
sua lunga carriera, Fellini diede vita a personaggi e storie così iconiche da garantirgli
un posto nel pantheon dei più grandi registi di tutti i tempi. La strada (1954) o La
dolce vita (1960), film in cui reciteranno due tra gli attori da lui più amati, l’amico
Marcello Mastroianni e la moglie Giulietta Masina, furono solo due tra le tante perle
della sua onorata carriera.
Accanto a titoli tanto noti come I vitelloni (1953) o Le notti di Cabiria (1957),
ben noti e apprezzati da qualsiasi cinefilo, esistono pellicole meno conosciute al
grande pubblico la cui analisi, tuttavia, aggiunge un tassello alla vasta e complessa
filmografia del regista riminese all’interno della quale rientra Il Casanova di Federico
Fellini, film del 1976, una pellicola nella quale il regista porta sul grande schermo

2
quella che, secondo lui, era stata la vita del grande seduttore italiano tra fughe dal
carcere, tentativi arrivistici, storie di sesso, amicizie importanti e una decadenza finale.
Il ritratto che Fellini fece di Casanova, un uomo che si muove nello scenario di un
Settecento caratterizzato da una fatiscente opulenza, appare mediocre e solitario,
prigioniero della reputazione di seduttore, uno strumento, nelle mani del regista
riminese, per criticare e deridere i fasti di un’epoca caotica e in rovina. Il Casanova
felliniano, però, non offrì a Fellini l’opportunità di raccontare i retroscena di un eros
senza più né poesia né romanticismo, ma anche per racconta di quel “mondo”
femminile che sarà una delle cifre stilistiche della sua arte.
Nel tentativo di approfondire temi e tematiche del Casanova di Federico Fellini
il presene elaborato è stato suddiviso in tre capitoli. Nel primo, L’itinerario biografico
e artistico di Fellini, ripercorreremo la storia umana e professionale del regista
riminese per poi approfondire alcuni aspetti del cosiddetto “mondo felliniano”. Nel
secondo, Il “Casanova” felliniano, ricostruiremo gli eventi salienti che
caratterizzarono la produzione della pellicola per poi analizzare due categorie in
particolare, e soprattutto il modo il cui furono interpretate da Fellini, ossia la figura del
seduttore e il XVII secolo. Nel terzo e ultimo capitolo, Le visioni del maestro,
approfondiremo alcune tematiche nodali del film, quali l’erotismo e la sequenza finale
del film che, come avremo modo di argomentare, si prestò a diverse letture e
interpretazioni.

3
CAPITOLO I

L’ITINERARIO BIOGRAFICO E ARTISTICO DI FELLINI

§. 1.1 Federico Fellini tra vita e cinema


Nato a Rimini il 20 gennaio 1920, Federico Fellini non si considerò mai
completamente emiliano e questo in virtù delle origini romane della madre, Ida
Barbiani, originaria di un rione della capitale (l’Esquilino) 1. Appartenente a una
famiglia modesta, il padre Urbano Fellini lavorava come rappresentante, il giovane
Federico frequentò il Liceo classico “Giulio Cesare”, a Rimini, e, già nel corso dei
suoi studi ginnasiali, ebbe modo di farsi notare per una spiccata attitudine alla
caricatura e al disegno, coltivato attraverso la lettura dell’autore di “Little Nemo”
dell’americano Winsor McCay, «I must have been five or six, maybe younger, when I
discovered Little Nemo, and I couldn’t believe my eyes! What a revelation!» 2.
Un’innata predisposizione per tutto ciò che esulava dalla realtà portò il giovane
Federico a maturare una passione per il cinema anche se, come avrebbe rivelato nel
libro Quattro film (1974), relativo al periodo della sua adolescenza, il suo sogno di
gioventù non era tanto quello di fare il regista quanto lo scrittore e l’illustratore 3, tant’è
vero che, ancora prima di diplomarsi, Fellini iniziò a inviare le proprie vignette ai
giornali fino a quando, il 6 febbraio 1938, si vede pubblicare una prima serie di
vignette dalla “Domenica dl Corriere” e, poi, dall’editore Nerbini sulla rivista “Il
420”4.
Una volta ottenuto il diploma, all’età di diciannove anni, Fellini si trasferì nella
Capitale con l’obiettivo di dedicarsi alla professione giornalistica. Arrivato a Roma,
dove lo accompagnarono la madre e i due fratelli (Riccardo e Maddalena), Federico
affittò un appartamento nel quartiere Appio-Latino, si iscrisse alla Facoltà di

1
Flaminio Di Biagi, La Roma di Fellini, New York, Le Mani, 2008, p. 116.
2
Citazione riportata in Charlotte Chandler, I, Fellini, New York, Cooper Square Press edition, 2001, p. 9.
3
Pier Mario Fasanotti, Tra il Po, il monte e la marina. I romagnoli da Artusi a Fellini, Vicenza, Neri Pozza,
2017, pp. 251-273.
4
Gordiano Lupi, Federico Fellini, Milano, Mediane dedizioni, 2009, p. 33 e ss.
4
Giurisprudenza ma, nei fatti, cercò di entrare nel mondo del giornalismo 5. Già qualche
mese dopo il suo arrivo, in seguito a un brevissimo periodo di gavetta presso “Il
Piccolo” e “Il Popolo di Roma”,Fellini iniziò a collaborare con il “Marc’Aurelio”, una
delle riviste satiriche più note a livello nazionale, collaborando come disegnatore
satirico, ma anche come ideatore di molte rubriche,e, grazie soprattutto alle sue celebri
“Storielle di Federico”, divenne una firma di punta della redazione6.
La visibilità ottenuta con “Marc’Aurelio” offrì a Fellini inattese opportunità
lavorative, e di guadagno,che si tradussero nell’opportunità di entrare in contatto con
personaggi, che avevano a che fare con il mondo del cinema, che gli permisero di
iniziare a scrivere copioni e gag fino a portarlo a collaborare con Erminio Macario
nella scrittura di alcuni suoi film7 e a scrivere alcune battute degli spettacoli dal vivo di
Aldo Fabrizi (con il quale strinse un rapporto di profonda amicizia), «Uno degli
incontri più importanti della mia vita»8. L’anno successivo, nel 1941, Fellini iniziò una
collaborazione con l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), mettendosi per un
periodo alla prova come autore radiofonico 9. Da quel momento, la carriera di Fellini
iniziò a decollare: scrisse numerosissimi copioni, presentò svariati programmi
musicali, collaborò con riviste radiofoniche e scrisse i ventiquattro episodi della serie
di “Le avventure di Cico e Pallina” (trasmessa tra il 1942 e il 1943) 10, storia di due
giovani sposini interpretati rispettivamente da Angelo Zanobini e Giulietta Masina che
diventerà la sua compagna di vita.
Oltre alla produzione radiofonica, nei primi anni Quaranta Fellini si mise alla
prova anche su altri fronti avendo, così, l’opportunità di saggiare la sua attitudine alla
regia. Scrisse, quindi, insieme a Ruggero Maccari alcune riviste, tra cui “Vuoi sognare
con me” e “Una lettera d’amore” (1942), storia struggente di una giovane innamorata
analfabeta che manda lettere in bianco al proprio fidanzato lontano11. L’anno
successivo, il 30 ottobre del 1943, Fellini convolò a giuste nozze con la Masina dalla

5
Ivi, p. 32.
6
Fabrizio Borini, Federico Fellini, Roma, Gremese editore, 1999, p. 12.
7
Hollis Alpert, Fellini. A life, New York, Atheneum, 2000, p. 41.
8
Federico Fellini, Pillole, in Adriano Pintaldi (a cura di), Aldo Fabrizi. Arte Romana: al Cinema e in Cucina,
Santarcangelo di Romagna, Maggiori editore, 2012, p. 29.
9
G. Lupi, op. cit., p. 33.
10
Tullio Kezich, Federico: Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 47.
11
Ivi, p. 44.
5
quale, nel 1945, avrà un primo figlio che, tuttavia, sopravvivrà solo un mese 12. Intanto,
Fellini intraprese una serie di collaborazioni con diversi registi come Manzari e
Bonnard, partecipando alla scrittura della sceneggiatura, e, nel 1944, dopo l’arrivo
degli Alleati a Roma, insieme a Enrico De Seta aprì una bottega “The funny face
shop”, iniziativa nella quale furono coinvolti diversi colleghi giornalisti e pittori (da
Guglielmo Guasta a Carlo Ludovico Bompiani) dove si ritraevano caricature dei
militari in transito nella capitale. Alla fine della guerra Fellini conobbe Rossellini e
iniziò a collaborare con lui per la sceneggiatura di Roma, città aperta (1945) «which
launched his international fame with his first nomination for an Oscar in the category
of script writing»13. L’anno successivo, Fellini fu chiamato come assistente sul set per
Paisà (1946)14, sempre diretto da Rossellini, film che inaugurerà in Italia la stagione
del Neorealismo cinematografico15.
Il 1946 fu l’anno dell’incontro con Tullio Pinelli, scrittore per il teatro e quello
in cui Fellini iniziò la sua avventura come regista; di lui Pinelli ricorderà «Ci siamo
salutati, abbiamo cominciato a chiacchierare e ci siamo intesi immediatamente. È stato
un colpo di fulmine artistico»16. Negli anni successivi, Fellini continuò a firmare nuove
sceneggiature, a mettere in scena diversi episodi e a sperimentarsi come attore insieme
ad Anna Magnani17, fino a quando, nel 1950, avvenne il suo debutto come regista con
Luci del varietà, del quale sarà regista e co-produttore,, uno spaccato sulla difficile
situazione che stava attraversando il Paese in quegli anni. Il film, purtroppo, si rivelò,
da un punto di vista commerciale, un disastro18. Il successo arrivò due anni dopo, nel
1952, con Lo sceicco bianco, per il quale scelse come attore principale Alberto Sordi,
all’epoca attore amatissimo dal grande pubblico; per la sceneggiatura scelse come
coautore Flaiano, ma nel corso delle riprese tornerà sul copione più volte, tanto da
suscitare le reazioni negative del direttore di produzione (Enzo Provenzale) 19. La
pellicola inaugurerà una fase particolare nella regia felliniana caratterizzata da uno
12
Angelo Solmi, Storia di Federico Fellini, Milano, Rizzoli, 1962, p. 105.
13
Peter Bondanella, The Films of Federico Fellini, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 14.
14
Gianfranco Angelucci, voce Federico Fellini, in Gianfranco Morra (a cura di), Sguardi sulla Romagna:
piccola enciclopedia enciclopedica, vol. I, Rimini, Editrice La Voce, 2009, p. 358.
15
Mario Verdone (a cura di), Colloquio sul neorealismo con Roberto Rossellini, «Bianco e Nero», 2, febbraio
1952, p. 8 (pp. 7-16).
16
La citazione si trova riportata in T. Kezich, op. cit., p. 96.
17
Enrico Giacovelli, Tutti i film di Federico Fellini, Torino, Lindau,2002, p. 38.
18
T. Kezich, op. cit., p. 114.
19
Ivi, p. 124.
6
stile inedito capace di mescolare umorismo e onirismo, che attirò da subito il consenso
del pubblico20, e che sarebbe stato definito «fantarealismo» 21. Nonostante le attese, Lo
sceicco bianco si rivelò, come la pellicola precedente, un completo insuccesso dal
punto di vista degli incassi, e, sebbene dalla parte della critica, non mancò chi, come
Callisto Cosulich, lo definì «il primo film anarchico italiano»22, in generale i giudizi
furono estremamente negativi «un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per
deficienze narrative e per convenzionalità di costruzione da rendere legittimo il dubbio
se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello»23.
Nonostante gli sforzi non furono apprezzati, nelle sue prime due fatiche come
regista, Fellini cominciò a raccontare il volto di un’Italia che stava cambiando. Gli
effetti degli aiuti Marshall, infatti, cominciavano a farsi vedere e il Paese entrò in una
fase di crescita economica,che portò in testa le città del cosiddetto triangolo-
industriale, ossia Genova-Milano-Torino, e che si tradusse in miglioramento delle
condizioni di vita al Nord e in un aumento dell’immigrazione dal Meridione verso il
Settentrione24. Sia in Luci del varietà, sia in Lo sceicco bianco, e, poi, anche ne I
vitelloni, i personaggi portati sul grande schermo saranno tutti accomunati dal
desiderio di migliorare la propria condizione, pronti a viaggiare e a spostarsi dalla
provincia alla grande città per inseguire i propri sogni25.
Nel 1953 uscì I vitelloni che, a differenza delle precedenti due pellicole, si
rivelò un successo di pubblico, di botteghino e di critica tanto da vedersi assegna il
“Leone d’argento” alla Mostra del cinema di Venezia; il nome di Fellini iniziò a
oltrepassare i confini nazionali e il film si rivelò campione di incassi anche in sud-
America, negli Stati Uniti e in diversi paesi europei 26. Per il film, che sperimentò per la
prima volta una formula inedita, ossia la suddivisione della trama in grandi blocchi
episodici (che restò una delle cifre stilistiche della sua produzione filmica successiva),
Fellini attinse dai suoi ricordi e dalla sua giovinezza ma scelse di far muovere i
20
G. Angelucci, op. cit., p. 359.
21
Davide Abbatescianni, Scene felliniane: il circo, il teatro, la televisione, Tesi di Laurea in Semiologia del
cinema e degli audiovisivi, Università degli Studi di Bari (Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia,
Comunicazione), Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, A.A. 2012-2013, p. 45.
22
Frase riportata in T. Kezich, op. cit., p. 127.
23
Ibidem.
24
Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi: Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, pp.
286-293.
25
T. Kezich, op. cit., p. 130.
26
Ivi, p. 136.
7
personaggi della sua memoria in una cittadina fittizia, mescolando ricordi e fantasia 27.
Nel frattempo Fellini iniziò a collaborare con autori come Zavattini, Ghione e Ferreri
per la realizzazione di L’amore in città, un film a episodi, di cui dirigerà Agenzia
matrimoniale, accolto positivamente dalla critica28.
Nonostante qualche consenso ricevuto all’estero, la fama internazionale arrivò
solo nel 1954 con La strada, storia di Gelsomina (interpretata dalla Masina) e di
Zampanò (interpretato da Anthony Quinn),per la cui scrittura collabora con Pinelli il
quale, rispetto alla scelta di focalizzare la storia sulla gente del circo e sugli zingari,
avrebbe in seguito riportato che l’idea gli era nata dal fatto che un anno, mentre andava
a trovare la sua famiglia a Torino, lungo il percorso, che all’epoca prevedeva un lungo
tragitto tra le montagne, due persone avevano attirato la sua attenzione «un omone che
tirava la carretta con un tendone su cui era dipinta una sirena e dietro […] una donnina
che spingeva il tutto»29; una volta tornato a Roma Pinelli raccontò di essere andato da
Federico e di avergli detto di aver avuto un’ispirazione per il prossimo film,
scoprendo, con stupore, che anche l’amico aveva pensato a un soggetto del tutto
analogo e che dall’unione delle loro idee nacque, in seguito, La strada.
A causa di un budget limitato, la realizzazione della pellicola si rivelò lunga e
complessa, peraltro l’esclusione di Sordi dal cast valse una rottura tra i due che durò a
lungo30, senza contare la difficoltà di aver ingaggiato un attore hollywoodiano come
Quinn e sottoporlo a un trattamento per una star del suo calibro inadeguato, anche se,
come scriverà in una lettera a Fellini e alla moglie, datata 1990, «The two of you are
the highest point of my life»31. Proprio in quel periodo, però, Fellini cominciò a
manifestare i primi segnali di una depressione che lo avrebbe accompagnato negli anni
successivi e che avrebbe spesso assunto la forma di un malumore difficilmente
controllabile32. Alla prima del film, avvenuta a Venezia il 6 settembre del 1954, la
critica non fu unanime nei confronti della pellicola felliniana, soprattutto a causa di
quella parte che sosteneva il neorealismo di Visconti (che quell’anno aveva presentato

27
Claudio G. Fava, Aldo Viganò, I film di Federico Fellini, Roma, Gremese editore, 1995, p. 32.
28
T. Kezich, op. cit., p. 141.
29
Frase riportata in Ivi, p. 144.
30
Ivi, p. 147.
31
Lettera riportata tradotta in Ivi, p. 148.
32
Costanzo Costantini, Conversations with Fellini, San Diego, Harcourt Brace, 1995, p. 185.
8
Senso), mentre all’estero le fu assegnato, nel 1957, l’Oscar come miglior film in lingua
straniera, categoria che l’Academy istituì proprio quell’anno per il film di Fellini33.
L’anno dopo, Fellini decise di portare sul grande schermo Il bidone (1955),
storia di tre truffatori che si specializzano nel fare truffe (bidoni) a ignari sempliciotti
contadini spacciandosi da prelati, ma molti produttori, una volta letto il soggetto, si
tirarono indietro. Il film, tuttavia, raggiunse il grande schermo e fu prodotto da
Goffredo Lombardo della Titanus; la parte del protagonista fu assegnata all’americano
Broderick Crawford al quale furono affiancati, tra l’altro, la Masina e Franco Fabrizi.
L’accoglienza del film, tuttavia, fu molto contenuta, atteggiamento, quello, che portò il
regista riminese a decidere di non presentare più sue pellicole alla kermesse veneziana
(per lo meno fino al 1969, anno in cui, fuori concorso, avrebbe partecipato con Fellini
Satyricon); la critica estera ne parlò in termini di «a step false»34.
Dopo il cosiddetto “passo falso” di Il bidone, Fellini tornò in auge con Le notti
di Cabiria (1957), pellicola che gli valse un secondo Oscar, anche grande alla
magistrale interpretazione di Giulietta Masina, con la quale il regista riminese chiuse
la trilogia dedicata agli umili e agli emarginati. La lavorazione del film si rivelò
piuttosto movimentata, soprattutto a causa delle continue sostituzioni da parte di
Fellini dei produttori che il regista accusò di eccessiva superficialità 35, arrivando a
definire l’industria cinematografica “macabra” e “grottesca” paragonabile a una
«combination of a football game and a brother»36. L’obiettivo del regista riminese,
lungi dall’esaurirsi nel fare denaro vendendo i propri film, era soprattutto quello di
esprimere la sua arte e dare sfogo alla sua creatività, un presupposto, quello, che poco
aveva a che fare, in genere, con le logiche del mondo del cinema.
Ciò nonostante, sebbene il sistema gli fosse in parte contrario, nel 1960 con La
dolce vita Fellini riuscì a rivoluzionare i canoni estetici dell’ ‘ottava arte’ con una
pellicola definita dallo stesso “picassiana”37 visto l’abbandono completo degli schemi
narrati tradizionale che produsse un discreto clamore e non poche critiche non solo per
la presenza di molte scene a contenuto erotico ma anche per la volontà manifesta di

33
A. Borini, Federico Fellini, cit., p. 140.
34
BosleyCrowther, Screen: Fellini’s Bidone, «The New York Times», 20, 1964.
35
P. Bondanella, op. cit., p. 135.
36
Jhon Baxter, Fellini, London, Fourth Estate, 1993, p. 1.
37
G. Angelucci, op. cit., p. 362.
9
esprimere una certa decadenza dei costumi che per certi aspetti strideva con il
benessere economico che l’Italia aveva ormai raggiunto. Proprio per questi motivi la
critica accolse il film in modo molto negativo a parte qualche amico del regista 38.
Anche la lavorazione del film si presentò alquanto faticosa, costringendo Fellini a
cambiare in corso d’opera diversi produttori, passando da De Laurentis alla coppia
Rizzoli-Amato39; alla fine, nonostante un budget ridotto, il film fu portato a termine 40.
Il film, che vide protagonisti Mastroianni (definito il suo “alter ego cinematografico”)41
e la svedese Anita Ekberg, ottenne la Palma d’oro al Festival di Cannes.
Dopo Le tentazioni del dott. Antonio (1957), prima esperienza con il colore,
episodio dove si narra «la storia di un moralista che dichiara guerra a un gigantesco
manifesto di Anita Ekberg che pubblicizza la qualità del latte» 42, Fellini si prese un
periodo di relativo riposo nel corso del quale, trascorso un breve periodo presso le
Terme di Chianciano, iniziò a lavorare su una nuova idea, contattò Rizzoli, e decise
che il protagonista sarebbe stato Mastroianni; una volta tornato a Roma, tuttavia,
l’entusiasmo scomparve e il regista riminese perse gradatamente l’interesse per quel
soggetto che tanto lo aveva entusiasmato ma che, a un certo punto, aveva addirittura
dimenticato. La situazione di straniamento dal non ricordare quale fosse l’idea
originale sulla quale lavorare si trasformò in una nuova opportunità e, infatti, Fellini
decise di portare sul grande schermo la storia di un regista che aveva dimenticato il
film che voleva fare (scegliendo come protagonista Guido Anselmi) 43.Il titolo del film
sarà 8 1/2, uscirà nelle sale nel 1963, verrà premiato agli Oscar e sarà ricordato come
uno dei grandi capolavori della storia del cinema44.
La pellicola successiva, fu Giulietta degli spiriti (1965), in cui il ruolo della
protagonista fu, ancora una volta, assegnato alla moglie Masina (anche in questo caso
torna l’uso del colore). Si racconta che, nel periodo delle riprese, Fellini fosse
particolarmente attratto dal soprannaturale tanto da cominciare a frequentare maghi e

38
Marco P. De Santi, La dolce vita: scandalo a Roma, Palma d’oro a Cannes, Milano, ETS, 2004, p. 101.
39
T. Kezich, op. cit., pp. 14-17.
40
Ivi, p. 113.
41
Lino Micciché, Storia del cinema italiano: 1960, Padova, Marsilio, 2001, p. 225.
42
G. Lupi, op. cit., p. 89.
43
T. Kezich, op. cit., pp. 233-234.
44
Marco Bianciardi, Da Luci del varietà a 8 1/2. Le tappe della difficile consacrazione simbolica di Federico
Fellini, Napoli, Diogene edizioni, 2012.
10
presunti veggenti, in particolare un certo Gustavo Adolfo Rol, un noto sensitivo 45;
sempre in quel periodo, seppure a scopo terapeutico, il regista riminese iniziò a
utilizzare l’LSD, su suggerimento del suo analista Emilio Servadio 46, il quale, insieme
a un gruppo di colleghi, testò l’allucinogeno sul regista con l’obiettivo di capire quali
conseguenze avrebbe prodotto su un artista del suo calibro 47. In ogni modo, Giulietta
degli spiriti non suscitò particolare entusiasmo nella critica e, anzi, i commenti
negativi furono anche piuttosto severi, spaziando da «esteriore, velleitario, caotico,
fasullo, incontrollato, ipertrofico, inadeguato»48; alla lista di critiche, tuttavia, si
accodò anche qualche apprezzamento che, addirittura, arrivò a definire la pellicola «un
capolavoro»49. Uno dei giudizi più severi fu quello del Centro Cattolico
Cinematografico, che arrivò a definire il film uno «sgradevole impasto che si fa del
sacro e del profano»50; l’inatteso livello di insoddisfazione fu tale da compromettere la
sua storica collaborazione con Flaiano.
Dopo un periodo difficile, nel corso del quale Fellini deve abbandonare, anche
per questioni finanziarie, la produzione di una nuova pellicola (Il Viaggio di G.
Mastorna), tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, il regista
riminese intraprende una nuova fase estremamente produttiva della sua carriera. La
fine degli anni Sessanta sono caratterizzati dalla produzione di nuovi episodi,
documentari per la televisione e per la realizzazione di Fellini Satyricon (1969)
definito, «dallo stesso regista «un saggio di fantascienza del passato» 51, un progetto
estremamente sperimentale che, proprio per questo motivo, lasciò la critica abbastanza
tiepida. In ogni caso la pellicola fu un successo e Fellini poté lasciarsi alle spalle le
difficoltà degli ultimi anni. Agli inizi degli anni Settanta, dal 1970 al 1973, il regista
riminese produsse una nuova trilogia, I clowns (per la televisione, 1970), Roma (1972)
e Amarcord (1973), tre pellicole incentrate sul tema dei ricordi.
Non a caso il titolo del terzo film stava a significare, in dialetto romagnolo, «mi
ricordo» anche se come ha scritto Codelli «cette phrase avec sujet et prédicat est

45
T. Kezich, op. cit., p. 248.
46
Ivi, p. 249.
47
H. Alpert, op. cit., pp. 179-180.
48
T. Kezich, Fellini, Camunia, Roma, 1987, p. 351.
49
T. Kezich, Fderico Fellini, la vita e i film, cit., p. 255.
50
T. Kezich, Fellini, cit., p. 351.
51
Citazione in G. Lupi, op. cit., p. 129.
11
comme un alibi destiné à dissimuler les défaillances de la mémoire» 52. Fellini, senza
convincere del tutto53, negò sempre i legami tra il soggetto di Amarcord e la propria
vita e difese il fatto che si trattasse di un prodotto della sua fantasia; la pellicola,
comunque, si aggiudicò l’Oscar che fu ritirato dal produttore, essendo all’epoca il
regista riminese impegnato sul set di Casanova (1976).
Verso la fine degli anni ’70, Fellini portò a termine Prova d’orchestra (1979),
definito «puro cinema teatrale»54, e La città delle donne (1980), il quale, sebbene
accolto come «tipicamente felliniano»55, non fu particolarmente apprezzato dalla
critica. In quegli stessi anni il regista riminese sentì l’esigenza di spiegare Fellini
scrisse un libro, Fare un film (1980) nel quale, per la prima volta, tentò di spiegare
cosa lo avesse avvicinato al cinema e da dove traessero spunto molte delle atmosfere e
dei personaggi portati sul grande schermo56. In seguito, come spiega Borin,

Il maestro riconosciuto del cinema internazionale ha (le solite) difficoltà a fare


film, a trovare i produttori giusti e a metterli d’accordo. In definitiva, comincia
ad essere nella condizione di chi, avendo molto dato, viene ora lasciato –
regalmente – un po’ nell’ombra, solo. Salvo poi vedersi attribuire un bel Leone
d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia del ’85, premio che i beneficiati
generalmente considerano a metà tra il benservito e l’augurio per la tomba
(artistica)57.

Prima di allora, tuttavia, Fellini produsse E la nave va (1983), in cui il regista


affronta in modo ironico il tema del mondo dell’opera, Ginger e Fred (1986), una
feroce critica contro la televisione commerciale e la sua audience, Intervista (per la Tv,
1987) e l’ultimo lavoro per il cinema, La voce della Luna (1990), un’altra critica ai
mass media, per il quale scelse due interpreti d’eccezione, Roberto Benigni e Paolo
Villaggio; in Italia la pellicola non fu particolarmente apprezzata, suscitò diverse
perplessitàche si tradussero in “elogi” poco convinti 58. Diversamente dalla tiepida
52
Lorenzo Codelli, Nuit et gel (sur Amarcord), «Positif», 158, avril 1974, p. 16 (pp. 15-17).
53
T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, cit., pp. 300-304.
54
G. Lupi, op. cit., p. 183.
55
T. Kezich, op. ult. cit., p. 332.
56
Federico Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980.
57
F. Borin, op. cit., p. 144.
58
Italo Moscati, Fellini & Fellini. L’inquilino di Cinecittà, Torino, Lindau, 2016, p. 51.
12
accoglienza ricevuta in Italia, soprattutto oltre Oceano il film fu particolarmente
apprezzato da registi come Woody Allen e Martin Scorsese che si adoperarono per
distribuirlo nelle sale americane59.
Nel corso degli anni ’90, che furono un periodo d’inteso lavoro, le condizioni di
salute del regista riminese peggiorarono e Fellini dovette sottoporsi a ben tre
operazioni chirurgiche le quali, purtroppo, furono solo l’anticamera di una serie di
ospedalizzazioni e ricoveri che sembrarono, ottimisticamente, risolversi nella
primavera del 1994, quando un portavoce del regista annunciò che di lì a breve
sarebbe potuto tornare a lavorare. Si trattò, tuttavia, di una speranza infondata e,
infatti, a distanza di qualche giorno, una serie di complicanze sarebbero costate al
“maestro” la vita60. Avrebbe lasciato in eredità «il mondo felliniano […] un gioco
grottesco, patetico, burlesco, al limite tra sogno, ricordo e quotidianità […]» 61, un
universo straordinario, unico e irripetibile.

§. 1.2 Il mondo felliniano


Federico Fellini è stato uno dei pochi artisti ad aver definito uno stile, la parola
“felliniano”, infatti, evoca immediatamente «un mondo di eccessi e di tenerezza, di
sensualità esibita e di minimi indizi dai quali si risale all’impalpabile dominio dei
sentimenti, dell’umanità condivisa, dell’anima»62. Nel mondo di Fellini la componente
femminile giocò un ruolo fondamentale e, spesso, sollevò non poche critiche, come nel
caso della pellicola La città delle donne (1980), da parte dei movimenti femministi 63
all’interno dei quali si moltiplicarono le polemiche ritenute, da una parte della critica,
del tutto infondate soprattutto laddove lo si accusò di “maschilismo”, considerando che
«alcune fra le più straordinarie icone di donna del cinema moderno (Gelsomina,
Cabiria) sono opera sua»64.
59
P. Bondanella, voce Federico Fellini (1920-1993), in Gaetana Marrone (a cura di), Encyclopedia of
ItalianLiteraryStudies, vol. 1 (A-J), New York-London, Routledge, 2007, p. 702 (pp. 700-703).
60
Marina Garbesi, Fellini in coma. È l’ultima sfida, «la Repubblica», 19 ottobre 1993.
61
Thomas Van Order, Listening to Fellini. Music and Meaning in Black and White, Madison, Fairleigh
Dickinson University Press, 2009, p. 238.
62
Alessandro Zaccuri, Il neorealismo magico ci guida al senso dell’esistenza, 4/10/2018,
https://www.avvenire.it/[...]
63
Roberta Cini, Nella città delle donne: femminile e sogno nel cinema di Federico Fellini, , Pisa, Edizioni del
Centro Tirrenia 2008.
64
T. Kezich, Federico Fellini, cit., p. 326.
13
Non sempre, tuttavia, la parità di genere apparve evidente nelle pellicole del
“maestro”, tuttavia, quel certo squilibrio (a volte percepibile) non andava interpretato,
come fu evidenziato, come una presa di posizione politica ma come il frutto di una
fantasia che non ragionava in termini di “parità” ma, anzi, tendeva a collocare le
proprie creature femminili in una dimensione altra dove le donne, nella maggior parte
dei casi, erano sempre poste «a un livello più alto nonché avvolta nel suo mistero» 65. In
un’affermazione dello stesso Fellini riportata da Kezich, il regista riminese disse «Non
c’entra il femminismo. Un viaggio nella femminilità? Ma no, una pagliacciata, una
rivistina d’avanspettacolo»66. Contro i detrattori de La città delle donne che lo
accusarono della mancanza, lungo tutta la storia di una donna “reale”, Fellini ribatté
che non c’era e non poteva esserci, trattandosi di un sogno di Snaporaz, il protagonista
(interpretato da Mastroianni), «The film is really a dream, and as in a dream every
thing is the dreamer»67.
Le figure femminili che popolarono l’universo felliniano, tuttavia, apparvero
molto diverse le une dalle altre, non mancarono, infatti, pellicole in cui protagoniste o
no furono descritte solo, e unicamente, come oggetti sessuali al servizio degli uomini,
mentre, altrove, si pensi alla Gelsomina de La strada o a Cabiria di Le notti di
Cabiria, il “maestro” portò sul grande schermo tutta l’umanità, la bellezza, la tragicità
e la complessità della femminilità. Se è vero che il mondo felliniano fu caratterizzato
dal rapporto tra illusione e realtà e tra la maschera e il volto, come pure fu un universo
simbolico all’interno del quale le donne giocarono un ruolo fondamentale, è altrettanto
certo che tra le tante figure femminili quella che si distinse su tutte le altre fu quella
della moglie, Giulietta Masina alla quale il regista assegnò alcuni dei personaggi più
significati della storia del cinema moderno68.
La cifra della cinematografia, che portò alla creazione del termine “felliniano”,
fu visibile da subito. Già nella sua prima trilogia, infatti, quella nella quale si fanno
rientrareLuci del varietà, Lo sceicco bianco e I vitelloni, il regista riminese pose lo
spettatore di fronte a un’atmosfera unica, un misto tra realtà e illusione all’interno

65
Ivi, p. 327.
66
Ibidem.
67
Gideon Bachmann, Federico Fellini: “The Cinema Seen as a Woman..” An Interview on the day “City of
Women” Premiered in Rome, «Film Quarterly», 34, 2, winter 1980-1981, p. 8 (pp. 2-9).
68
G. Angelucci, Giulietta Masina: attrice e sposa di Federico Fellini, Roma, Edizioni Sabinae, 2014.
14
delle quali si innescava un meccanismo che portava le “maschere” e i “volti” dei suoi
personaggi a collidere fino a deflagrare. Come ha suggerito Bondanella, i personaggi
dei film di Fellini, come Giano bifronte, venivano posti nella condizione di rivelare la
loro vera identità attraverso la maschera così come attraverso il volto69.
Tuttavia, nonostante le difficoltà della vita di cui Fellini si fece interprete nelle
sue pellicole, una costante del suo mondo di celluloide fu sempre l’umorismo. Nella
sua prima trilogia, ad esempio, per la quale fu condizionato soprattutto dai ricordi,
dall’influenza dell’avanspettacolo o da quello dei fotoromanzi, con risultati a volte
pesanti anche per la posizione non sempre facile nella quale inquadrò i suoi
personaggi, perseguitati, spesso, da difficoltà economiche, o afflitti da problemi
sentimentali, il regista riminese non abbandonò mai la sua verve goliardica che si
differenziò da quella dei suoi colleghi,

L’umorismo, facile a riconoscersi, assume un aspetto particolarmente


coriale e accorato; Fellini […] non ha lo spirito caustico della satira come
non ha lo spirito polemico della denuncia: egli si innesta nel filone classico
dell’umorismo, pone soprattutto una partecipazione appassionata a tutti i
sentimenti dei personaggi, con cui soffre e gioisce70.

Nel mondo di Fellini illusione e realtà tesero sempre a confondersi e a


compenetrarsi. In un’intervista rilasciata al Grazzini, lo stesso regista disse «Mi piace
credere in tutto ciò che stimola la fantasia, e mi presenta una visione del mondo e della
vita più fascinosa, o comunque più congeniale al mio modo di essere» 71. La forte
componente illusoria delle pellicole del ‘maestro’ è stata oggetto di grande interesse da
parte di numerosi critici e giornalisti che hanno tentato di individuare le giuste
coordinate per capire la sua cinematografica; Solmi, ad esempio, riferendosi al suo
stile disse che era basato soprattutto sull’esagerazione, la distorsione e la
contraddizione di eventi e fatti che appartenevano alla sua vita e alla sua esperienza, il
che, a suo dire, creava in Fellini la convinzione che le sue illusioni fossero sempre

69
P. Bondanella, Italian Cinema: From Neorealism to the Present, New York, Continuum, 2001, p. 130.
70
Angelo Olivieri, L’imperatore in platea. I grandi del cinema italiano dal Marc’Aurelioallo schermo, Roma,
Dedalo, 1986, p. 66.
71
Giovanni Grazzini, Federico Fellini: intervista sul cinema, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 9.
15
connesse alla realtà, tanto che si cominciò a parlare di un cinema della poesia o poetica
della memoria72, quando, invece, a detta di Solmi, si trattava solo di «a further proof of
his individualism»73 che era «his gift of introspection»74.
Per Bondanella, invece, il mondo felliniano attingeva la sua linfa vitale
soprattutto dalla prospettiva con cui il regista si approcciava ai suoi personaggi che,
diversamente da quelli del cinema neorealista, apparivano unici e per certi aspetti
“poco credibili”, nel senso di poco “reali” 75. Riferendosi a Ivan, protagonista di Lo
sceicco bianco, Baxter evidenziò che anche la sua illusione aveva in sé uno “sceicco
bianco”, ossia il pontefice Pio XII il quale, a sua volta, raccontava storie fantastiche,
«As Pierre Kastpointed out mischievously in Cahiers du cinéma»76.L’idea di
un’esistenza vissuta conformandosi alle convenzioni sociali e inseguendo sogni
romantici era per Fellini destinata al fallimento77, e, proprio per questo, tutta la
filmografia del regista riminese fu attraversata dal contrasto tra mondo reale e
illusioni; un approccio, a detta di Bazin, che lo portò spesso oltre i confini del
realismo, producendo quello che il critico definì un universo di «“poetry” or
“surrealism” or “magic”»78.
Nel mondo felliniano i personaggi del “maestro” vivono d’illusioni, si rifugiano
in una dimensione che permette loro di scappare da una realtà che li rifiuta e nella
quale non si sentono a loro agio. Se, tuttavia, in alcuni casi, come in Lo sceicco
bianco, Ivan e Wanda riescono nella loro fuga dal reale, ne I Vitelloni i protagonisti
sono obbligati a scontare la loro realtà, «lose control and cling to the soo thing confort
of their shattered illusion»79 ma, soprattutto nel personaggio di Moraldo (uno dei
vitelloni), che è quello dei quattro che decide di andarsene dalla provincia, è
interessante la sua cosiddetta epiphany, che lo porta ad assumersi le sue responsabilità
e ad abbandonare il suo mondo di’illusioni, motivo per cui è stato definito «un alter

72
Ester De Miro, Mario Guaraldi (a cura di), Fellini della memoria, Rimini, Guaraldi, 2011, p. 15.
73
A. Solmi, Fellini, New York, Humanities Press, 1968, p. 20.
74
Ivi, p. 22.
75
P. Bondanella, Italian Cinema, cit., pp. 114-115.
76
J. Baxter, op. cit., p. 93.
77
P. Bondanella, op. ult. cit., p. 123.
78
André Bazin, Cabiria: The Voyage to the End of Neorealism, in Bert Cardullo (a cura di), André Bazin and
Italian Neorealism, New York, Continuum, 2011, p. 200 (pp. 195-203).
79
P. Bondanella, op. cit., p. 129.
16
ego»80 di Fellini, un collegamento, questo, che è stato ribadito da Tullio Kezich 81,
mentre Solmi ha sostenuto che sia stato uno di quei personaggi che ha concorso a
costruire il simbolismo felliniano82, un altro elemento del mondo del regista.
Solmi ha sostenuto che il senso del mistero che aleggiava in tutta la filmografia
felliniano raggiungeva, a volte, livelli quasi eccessivi tanto da sconfinare nell’assurdo
rendendo difficile una lettura corretta del simbolismo del regista; proprio in virtù di
questo cripticismo, Solmi ha criticato l’approccio di alcuni colleghi francesi e italiani
che hanno forzato, a suo dire, le loro interpretazioni cercando a tutti i costi improbabili
connessioni tra il regista riminese e il barocco cinquecentesco o il melodramma
settecentesco83. Certo è, tuttavia, che è possibile individuare nella filmografia del
regista riminese una serie di simboli che tornano con ricorrenza come le spiagge e il
mare (soprattutto nella prima trilogia), le piazze deserte (specialmente notturne), alcuni
riferimenti alla Chiesa cattolica; come ha evidenziato Solmi,però, la ricerca eccessiva
di simboli nell’universo felliniano si rivelerebbe, alla fine, sterile, in quanto tutto, nel
cinema del regista riminese, può essere considerato un simbolo 84. A sostegno di questa
affermazione, Kezich ha aggiunto, riportando il pensiero di Bernhard, che «Il
contenuto del simbolo, in ogni caso, è il mito» 85, un mito che affondava in un
inconscio collettivo che, secondo Fellini, permetteva all’artista di «comunicare con il
pubblico, ad un livello subliminale, mediante film che esprimessero un mondo
simbolico, piuttosto che rappresentare la realtà»86.
Tutti gli elementi del mondo felliniano si trovano già in nuce nelle sue prime
opere ma vanno via via prendendo corpo permettendo al regista, come ha scritto
Zaccuri, di diventare «pienamente felliniano»87. Nella sua ultima stagione
cinematografica, infatti, da 8 ½ ad Amarcord, da Giulietta degli Spiriti a Ginger e
Fred, il mondo del regista riminese tese a diventare sempre più finzionale, onirico e

80
Ibidem.
81
T. Kezich, Federico: Fellini, la vita e i film, cit., p. 137.
82
A. Solmi, op. cit., p. 36.
83
Ivi, pp. 34-39.
84
Ivi, p. 35.
85
T. Kezich, op. cit.,, p. 217.
86
P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, cit., p. 172.
87
Alessandro Zuccari, Il neorealismo magico che ci guida al senso dell’esistenza, 4/10/2018,
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/il-neorealismo-magico-che-ci-guida-al-senso-dell-esistenza
17
illusorio, popolato da personaggi lunatici, funambolici, surreali ma anche portavoce
dei propri tempi e anticipatore di quelli a venire.
Fellini, infatti, «ha dato vita a una galleria […] registrando come pochi altri il
cambiamento del costume italiano e al tempo stesso cogliendo in modo esemplare i
simboli del nostro passato e del nostro enigmatico presente» 88. Grazie al suo universo
interiore il “maestro” inventò un mondo intero capace di parlare alla sua e alle
generazioni successive, dimostrando, così, come, attraverso la memoria e la sensibilità,
fosse possibile ricavare elementi per capire il presente.

88
Cameralook Redazione, Federico Fellini, “l’unico vero realista è il visionario”, 20/01/2020, in
http://www.cameralook.it/web/federico-fellini-lunico-vero-realista-e-il-visionario/
18
CAPITOLO II

IL “CASANOVA” FELLINIANO

§. 2.1 La storia di una produzione difficile, il Casanova di Fellini


Rispetto alle altre pellicole, che generalmente impegnavano Fellini per circa
nove mesi, la produzione del Casanova richiese molto più tempo e questo per il
bisogno avvertito dal regista di approfondire la conoscenza e i dettagli del periodo in
cui era nato e aveva vissuto il protagonista del suo film 89. Originariamente, infatti,
l’idea era quella di iniziare a girare le riprese nell’estate del 1973, sotto la produzione
di Dino De Laurentis, tuttavia, giunto il momento di andare sul set, il regista riminese
decise di prendersi un anno di tempo per colmare quelle lacune, rispetto alla storia e al
personaggio, che riteneva necessari per portare a termine quello che, da molti, sarebbe
stato considerato il suo “capolavoro” anche se a distanza di tempo90.
L’anno successivo, tuttavia, quando le riprese avrebbero dovuto iniziare,
cominciarono a circolare notizie su possibili dissidi tra il regista e il produttore 91 il
quale, contrariamente a quanto voleva Fellini, aveva chiesto di assegnare la parte del
protagonista a Robert Redford, Paul Newman o Al Pacino (ma furono considerati
anche attori italiani come Mastroianni, Sordi e Volontè)92 e che il film fosse girato in
lingua inglese per poter contare su incassi garantiti. Non riuscendo a trovare una
soluzione alla diatriba, «De Laurentis cede ad Andrea Rizzoli, figlio di Angelo, il
contratto per il Casanova»93 assumendosi un impegno economico non da poco,
considerando che il costo per la produzione fu stimato a quattro miliardi. A distanza di
un anno, tuttavia, anche Rizzoli rinunciò al progetto, ritenendo che i costi fossero
eccesivi (nel frattempo la cifra era salita a otto miliardi) lasciando che, nel 1975,
subentrasse la Produzione Europee Associate (PEA) di Grimaldi il quale cercò di

89
F. Borin, Casanova, Palermo, l’Epos, 2007,pp. 22-48.
90
Rosita Copioli, Gérard Morin (a cura di), Casanova di Fellini: ieri e oggi 1976-2016, Roma, Gangemi, 2017,
91
Hollis Alpest, Fellini: A Life, New York, Paragon House, 1988, p. 245.
92
T. Kezich, op. cit., p. 308.
93
C. F. Fava, A. Viganò, op. cit., p. 43.
19
imporre al regista riminese di girare a Londra e in inglese, riuscendo ad averla vinta
sulla lingua ma non sulla location, visto che il film fu girato, alla fine, a Cinecittà94.
Durante le riprese accade un fatto inaudito: una parte dei negativi che erano già
stati girati del Casanova, e altro materiale filmico di Pasolini e Damiani, fu rubato da
Cinecittà95. Fellini reagì alla notizia con sgomento, anche perché nel materiale
trafugato si trovavano le scene in cui compariva l’americana Sandy Allen la cui mole
gigantesca aveva già creato notevoli problemi organizzativi che difficilmente
avrebbero potuti essere bissati per farla tornare in Italia. La questione, fortunatamente,
si risolse qualche mese dopo quando il materiale scomparso fu ritrovato a Cinecittà 96
ma, a distanza di qualche mese, si ripropose un nuovo intoppo che bloccò le riprese, si
trattò, in quel caso, della decisione della produzione di licenziare tutta la troupe a
causa di uno sforamento eccessivo del budget quando ancora il film era ben lontano
dall’essere finito. Grimaldi cercò un accordo con Fellini, proponendogli di investire un
ulteriore miliardo di lire a condizione, però, che venissero ridotti i costi, il regista
riminese, però, da parte, sua, espresse una viva contrarietà nei confronti delle richieste
di Grimaldi e lo trascinò in tribunale97.
In seguito, dopo tre anni di riprese, la situazione si ricompose e il film, che
aveva tutte caratteristiche per essere considerato un kolossal98, portato a termine, uscì
nelle sale il 10 dicembre del 1976 senza, tuttavia, ottenere il risultato sperato: la
critica99 come il pubblico, infatti, accolse il film modo negativo e tiepido e al
botteghino il film si rivelò un insuccesso (conquistando, tuttavia, un Oscar 1997 per i
migliori costumi). Ciò che probabilmente penalizzò il film fu la scelta di portare sullo
schermo la figura di un noto, e in parte amato, personaggio della storia italiana,
Giacomo Casanova, avventuriero e libertino che, anche grazie ai suoi scritti (in
particolare la Histoire de ma vie)100, era riuscito a creare di se un’immagine quasi
leggendaria, spogliandola di tutta la sua magnificenza per restituirne una versione
parodistica e demolitiva che la sottraeva alla dimensione del mito.

94
Ivi, p. 145.
95
T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, cit., p. 311.
96
C. G. Fava, G. Viganò, op. cit., p. 43.
97
H. Alpest., op. cit., p. 258.
98
F. Borin, op. ult. cit., p. 19.
99
T. Kezich, Fellini, cit., p. 460.
100
G. Casanova, Histoire de ma vie (1787), Paris, Francis Lacassin, 1993, p. 650.
20
Il Casanova raccontato da Fellini, per la cui parte, alla fine, fu scelto Donald
Sutherland, fu un personaggio ben diverso da quello noto al grande pubblico che lo
aveva amato e ammirato per le incredibili avventure raccontate nella sua autobiografia
e che, nell’immaginario collettivo era diventato un’icona della virilità maschile e della
libertà sessuale; il regista emiliano, infatti, portò sullo schermo un Casanova passivo,
patetico, che passava da una relazione all’altra senza sfuggire a una serie di
umiliazioni. A detta di Zapponi, Fellini odiava Casanova 101 e, infatti, in un’intervista a
“Gente” confessò la propria avversione nei confronti del personaggio nel corso della
quale lo definì uno “scrittore noioso”, un «personaggio chiassoso, indisponente, vile»
e, ancora «un omaccione impennacchiato che puzza di sudore e di cipria, che ha
l’ottusità, la prepotenza e la spocchia della caserma e della chiesa, uno che vuole
sempre avere ragione»102.
Tuttavia, proprio per la sua rivelazione, ci fu chi, interrogandosi sui motivi che
lo avevano convinto a portare sul grande schermo un personaggio che così
profondamente lo irritava, Borin spiegò che il maestro succhiò

il meglio dal suo personaggio, cogliendone la sensibilità di vecchio vitellone,


venditore di fumo, ovvero di italiano condizionato dalla donna-madre-amante,
poco credibile con quella fama ingombrante e tuttavia moderno, un gran curioso
del mondo, nato nel secolo sbagliato103.

Sulla scena, dunque, Fellini non portò il Casanova storico ma una sua caricatura
che fu raccontata estrapolando alcune vicende della Historie de ma vie, unite tra di
loro come se fossero un’unica storia. Nonostante una certa attinenza al testo, Fellini si
prese numerose libertà non solo rispetto al tono da dare alle vicende, che furono
deformate a tal punto da risultare delle parodie, ma anche rispetto alla collocazione
spaziale di alcune avventure delle quali furono immaginatelocation di pura fantasia.
Tutti gli avvenimenti che, in qualche modo, avrebbero potuto contribuire a rimandare
di Casanova un’immagine positiva furono volutamente esclusi. Ciò che probabilmente

101
B. Zapponi, Il Casanova di Fellini. Sceneggiatura originale, Torino, Einaudi, 1976, p. 86.
102
L’intervista apparsa sul numero di “Gente” del settembre 1975 viene riportata da Roberto C. Provenzano,
Invito al cinema di Fellini, Milano, Mursia, 1995, p. 85.
103
F. Borin, Federico Fellini, cit., p. 126.
21
non fu compreso, tuttavia, fu che Fellini non era mai stato interessato a girare un film
storico quanto, piuttosto, a mostrare i risultati di un interesse che non aveva nulla a che
fare né con la struttura letteraria né con quella narrativa che riguardava Casanova
quanto piuttosto con la sua dimensione pittorica 104, un obiettivo che trovò
espressionenella scelta di scenografie volutamente esagerate e ridondanti (con poca o
nessuna aderenza alla loro ricostruzione storica) e all’uso delle musiche di Nino Rota
che produssero un risultato stridente con il resto delle immagini. Come scrive
Castigliano «Una ricerca di “irrealismo” che si fa evidente nella rappresentazione delle
città che, notturne o sommerse dalla pioggia, rassomigliano volutamente a sfondi di
teatro»105. E, infatti, il film fu girato interamente in interni, negli studi di Cinecittà.
Così come le scenografie, anche la fisionomia degli attori fu trasformata in
senso caricaturale, alterata nei tratti e resa fruibile dallo spettatore grazie all’uso di
artifici estetici in senso deformante. Per il protagonista, ad esempio, Fellini richiese la
modificazione del mento e della fronte e si occupò personalmente del trucco dell’attore
«per trasformarlo il più possibile, con sadica voluttà» 106. Ugualmente le interpreti
scelte per il ruolo delle amanti del libertino veneziano si caratterizzarono tutte per un
aspetto fuori dall’ordinario, come nel caso di Sandy Allen, una gigantessa americana il
cui trasferimento dagli Stati Uniti a Roma richiese la modifica dei sedili dell’aero,
oppure volutamente imbruttite e rese lugubri da un trucco eccessivo e caricaturale.
Secondo Zapponi, «E le donne, poi […] Che spaventosa galleria. Neanche una doveva
essere “normale”: tutte arpie, minorate, deformi»107.
Lungi, dunque, dall’essere una trasposizione fedele del racconto casanoviano, il
Casanova felliniano si presentò come una pellicola che invitava lo spettatore a entrare
in un modo estraneo e irreale, sottomesso alla legge della finzione, nella quale il
regista riminese tornò su alcune delle sue tematiche preferite quali l’amore, il sesso, la
rappresentazione artistica, il passare del tempo e la morte. Tuttavia, per quanto
parodistico il film potesse apparire, Fellini indugiò soprattutto sugli aspetti negativi di
un protagonista nei confronti del quale, come si è detto, non nascose il proprio

104
T. Kezich, op. cit., p. 329.
105
Federico Castigliano, Il rituale amoroso nel Casanova di Fellini, «Babel Littératures plurielles», 24, 2011, pp.
27-41.
106
B. Zapponi, op. cit., p. 90.
107
Ivi, p. 95.
22
disprezzo. Ci si interrogò, come si è detto, sulle ragioni che spinsero il regista riminese
a realizzare un film su un soggetto tanto detestato e, forse, come venne ipotizzato, oltre
al desiderio di dare sfogo alla sua vena “visuale e visionaria”, il raccontare la vita di
Casanova permise a Fellini non tanto di realizzare un’ulteriore pellicola sull’ennesimo
seduttore quanto, piuttosto, di portare sul grande schermo il vuoto, il ritratto del vuoto
senza intenzione, una pellicola fredda e mortuale che gravitava intorno a una vita
inesistente nella quale non c’erano né personaggi né situazioni ma solo «Il diario di un
fesso, uno zibaldone insopportabile, l’elenco telefonico […] un balletto meccanico,
frenetico e senza scopo, da museo delle cere elettrizzato»108.
Si trattò, certamente, di un progetto impegnativo, fuori dal comune, che poteva
essere affrontato unicamente da un cineasta dotato di un talento speciale, liberato dalla
maggior parte dei legami che solitamente bloccavano la creatività artistica e deciso a
sperimentare e a rischiare, a non ripetere pedissequamente gli schemi delle biografie
con tutta la cura e dedizione di cui necessitavano le produzioni convenzionali, come
quelle di ricostruzione storica spesso pedissequamente aderenti alle aspettative del
pubblico e affidati al nome di un grande attore che riempisse i cinema col suo nome (si
pensi al Ben Hur del 1959 diretto da Wyler e Cleopatra del 1963 diretto da
Mamkiewicz). Fellini, che negli anni Settanta, era già un autore consacrato a livello
internazionale, dal quale ci si aspettata molto proprio in virtù dei risultati conseguiti gli
anni precedenti, realizzò,per ilCasanova,una sorta di tour de force, ponendosi un
obiettivo altissimo, ossia quello di rappresentare il vuoto dell’umanità incarnandolo in
un personaggio storico, tema, quello del vuoto, che, come vedremo, rappresenterà un
elemento centrale nel finale della pellicola. Il risultato, dunque, fu, ancora volta,
assolutamente felliniano, a partire dal titolo scelto per il film nel quale al nome di
Casanova fu affiancata la dicitura “di Federico Fellini” a rimarcare, appunto, che si
trattava di un prodotto di cui il regista riminese si era, in qualche modo, appropriato
fino alle scenografie volutamente teatrali come il mare di plastica nel quale fece
remare il suo protagonista.

Il Casanova di Federico Fellini, 1976 (frame 18:53)

108
La frase e riportata da F. Borin, op. cit., p. 43.
23
Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=jVZ_CGBy5Dc

A detta di Copioli e Morin il protagonista «attraversa una laguna di plastica in


tempesta. Questa laguna non può essere d’acqua, perché l’acqua è fonte di vita, di
fecondità. Il suo mare non è che sterilità e accumulazione» 109. A questo mare di
plastica si devono affiancare gli edifici di pietra di cartone e la quasi totale assenza di
spazi naturali, sottolineano il carattere teatrale della rappresentazione che riguardò
anche la figura dei protagonisti che, in più di un’occasione, sembravano usciti da un
quadro antico o da uno strano incubo, indipendentemente dal fatto che si trattasse di
rispettabili uomini di chiesa, saltimbanchi, dame dell’aristocrazia o bambine prodigio
con la capacità di confutare gli argomenti di Sant’Agostino sulla concezione della
Vergine Maria. Lo spettatore fu invitato a contemplare la schiera di curiosi personaggi
che accompagnavano la deriva di Casanova il quale fu descritto come un uomo alla
deriva che si lasciava trascinare dagli avvenimenti senza un piano prestabilito 110.
All’inizio della vicenda, che si apre su una Venezia nel periodo del carnevale,
Fellini racconta di un Casanova che ha ricevuto una lettera che lo invita nella casa
dell’ambasciatore francese dove incontra suor Maddalena, una suora licenziosa e
vogliosa con la quale si lancia in una performance erotico-ginnica scandita dal ritmo di
un carillon a forma di uccello meccanico (una sorte di feticcio che il libertino si porta
sempre con sé)111. L’atto sessuale tra Casanova e la suora avviene sotto l’occhio
indiscreto (seppure nascosto) dell’ambasciatore, amante di Maddalena e voyeur, alla
109
R. Copioli, G. Morin, op. cit., p. 51.
110
F. Borin, op. cit.., p. 17.
111
P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, cit., p. 327.
24
quale il libertino veneziano, che acconsente di esibirsi nel suo amplesso, chiede in
cambio un impiego in Francia. Una volta consumato l’accoppiamento con suor
Maddalena, Casanova, dopo un viaggio in mare, viene arrestato e processato da un
Tribunale dell’Inquisizione che lo accusa, tra l’altro, di Magia nera, quindi condotto
nel carcere di Piombi dove si lascia andare al ricordo di una sua ex fiamma.
Evaso dal carcere, Casanova, nella storia felliniana, si dirige a Parigi dove viene
introdotto nel salotto dell’anziana marchesa d’Urfé, la quale, sebbene nelle Mémoires
non abbia un ruolo particolare, nella pellicola diventa una figura centrale. La donna,
infatti, dedita all’esoterismo, è convinta che Casanova possieda dei poteri particolari,
in particolare che conosca il segreto della pietra filosofale, di conseguenza chiede
all’avventuriero veneziano di fecondarla e trasformarla in uomo 112. A detta di Zapponi
«Fellini si entusiasmava all’idea di una Parigi alchimista e visionaria» 113 e questo lo
portò ad assegnare all’interno episodio più peso che aveva nelle memorie del
Casanova.

112
Elio Benevelli, Analisi di una messa in scena. Freud e Lacan nel «Casanova» di Fellini, Roma, Dedalo, 1979,
p. 38.
113
B. Zapponi, Il mio Fellini, Venezia, Marsilio, 1995, p. 88.
25
Frame 39:05

Fonte: Ibidem.

Elaborato un complesso rito d’iniziazione, grazie all’aiuto di Marcolina


(compagna del fratello abate di Giacomo), il libertino veneziano porta a termine la
richiesta della d’Ufrè114, quindi conclusasi la scena dell’incontro tra i due, Fellini
catapulta Casanova a Forlì (presso la residenza del marchese De Bois) per prendersi
cura di Enrichetta, una giovane solita vestirsi con abiti maschili e amante di un
capitano ungherese più grande di lei, della quale il veneziano sembra innamorarsi.
Rispetto al resto di Historie de ma vie, Fellini, in questo caso, decise di restare
attinente al racconto di Casanova, senza spiegarne le ragioni e

si limita a farci vendere nel film Giacomo Casanova che singhiozzando va alla finestra
[…] E la voce fuori campo di Casanova racconta: “Nel mio sovrumano dolore
farneticavo di togliermi la vita, oppure seppellirmi in chiostro, frate per sempre” […]
Dopo di che c’è una svolta nel film. Dopo il brivido di castrazione provocato da

114
T. Kezich, Federico Fellini. Il libro dei film, cit., p. 236.
26
Enrichetta, si profila davvero, all’orizzonte della vita di Casanova, lo spettro
dell’impotenza e della lugubre morte115.

A quel punto la scena si sposta a Londra dove, dopo un litigio furioso con la
giovane moglie Charpillon e la madre di lei, Casanova viene abbandonato per strada e,
sconvolto, tenta il suicidio. L’apparizione di due nani e di una gigantessa, tuttavia, lo
fa desistere e si ritrova, seguendoli, catapultato tra i membri di un circo itinerante.
Come spiega Stubbs, «The figure is one invented by Fellini for inclusion among the
tales from Casanova’s memoirs. Fellini cloaks this figure in mystery»116.
Nella scena successiva Casanova si trova a Roma, in una festa organizzata
dall’ambasciatore inglese Lord Talou, che propone al libertino di mettere a confronto
la sua nota prodezza amatoria con quella di Righetto (cocchiere del principe Del
Brando). Sebbene inizialmente restio, alla fine Casanova accetta la sfida e si lancia
insieme al rivale in una nuova performance, che lo vedrà vincitore,di fronte a una folla
esultante (una vicenda, peraltro, presente anche in Historie de ma vie) nonostante
Fellini indugi sull’espressione poco soddisfatta della sua partner a differenza di quella
del rivale che risulta evidentemente più compiaciuta.
Partito da Roma, Casanova arriva a Berna dove si innamora di Isabella, figlia
dell’entomologo Moebius, e la prega di raggiungerlo in una locanda di Dresda; il
giorno dopo, in attesa della donna (che non si presenterà), ancora una volta il libertino
veneziano viene coinvolto in un’orgia improbabile insieme alla cantante Astrodi e alla
gobba Susanna. Secondo Zanelli, nonostante l’amore dichiarato nei confronti di
Isabella, Casanova non perde tempo nell’aspettarla in quanto

Aspettare vuol dire avere una relazione stabile, amare veramente, giocarsi
tutto; vuol dire prendere contatto con le proprie parti profonde, e probabilmente
avere troppa ansia. Ecco perché Casanova, non trovando Isabella
all’appuntamento fissato nella locanda di Dresda, si guarda bene
dall’aspettarla, anche solo per pochi minuti. Preferirà darsi subito per sconfitto,

115
E. Benevelli, op. cit., p. 57.
116
John Stubbs, Federico Fellini as auteur. Seven aspects of his films, Southern Illinois University, Board of
Trustess, 2006, p. 63.
27
e cogliere al volo la prima possibilità di evasione: l’orgia delle commedianti.
Dato che fermarsi ai suoi occhi, significa solo soffrire di più117.
Si, tratta, di fatto di un ennesimo tassello che Fellini inserisce nel suo puzzle
per restituire allo spettatore l’immagine del destino di solitudine di Casanova che, alla
fine del film, dovrà accontentarsi dell’amore di una bambola meccanica.
A Dresda, tuttavia, Casanova farà un incontro inaspettato. Dopo aver assistito a
uno spettacolo al Teatro dell’Opera (dove assiste a Orfeo ed Euridice), l’avventuriero
veneziano intravede nei loggioni la madre la quale vive da tempo in Sassonia grazie a
una pensione che le è garantita dal Principe. Casanova la va a prendere al loggione, la
carica sulle spalle e la porta fino alla carrozza; quindi si congeda senza neppure averle
chiesto come fare a rintracciarla lasciando che vada verso il suo destino di morte 118. Le
sequenze successive si sposta nel castello del duca di Wüttemberg dove Casanova
resta attratto da una bambola meccanica, Rosalba, che ha le dimensioni e le fattezze di
una donna.

Frame 2:06:01 e 2:07:29

Fonte: Ibidem

Dopo un primo approccio, che ricorda quello di una danza rituale, Casanova
giace con la bambola e trae ampia soddisfazione dall’amplesso con la partner
meccanica che, tuttavia, consumato l’atto, la lascia sul letto «a gambe aperte […] in

117
Dario Zanelli, Nel mondo di Federico: Fellini di fronte al suo cinema (e a quello degli altri), Roma, RAI
ERI,2001, p. 82.
118
T. Kezich, Federico Fellini. Il libro dei film, cit., p. 238.
28
una posa oscena e assurda»119. Si tratta, di fatto, dell’ultima prodezza del libertino
veneziano che, nell’ultima scena, viene ritratto da Fellini come un vecchio che lavora
in qualità di bibliotecario presso il castello di Dux (alle dipendenze del conte
Waldstein) e che non fa altro che lamentarsi del malo modo in cui lo tratta la servitù.
Casanova è ormai l’ombra di ciò che era, un uomo finito, che ha perso la sua bellezza
e la sua baldanza e al quale non resta che vivere di ricordi nei quali un posto speciale
lo riserva alla donna che più gli è rimasta nel cuore, la bambola Rosalba.

§. 2.2 Analisi di due categorie: il seduttore e il XVIII secolo


Per comprendere appieno le ragioni che portarono Fellini a realizzare una
trasposizione cinematografica del personaggio di Giacomo Casanova (1725-1798) così
lontana da quello che riportano le fonti storiche, è necessario tenere in considerazione
due elementi fondamentali che giocarono un ruolo nella mente del regista riminese,
quella del seduttore e quella del XVIII secolo. Il seduttore di Fellini, infatti, si aggira
nel secolo dei Lumi interpretandone e incarnandone tutte le ambiguità e le
contraddizioni; si tratta, di fatto, di due elementi che Fellini strumentalizza a suo
favore per demistificare Casanova che, metafora dell’uomo moderno (quello che
dovrebbe farsi guidare dalla ragione e non dall’istinto), fallisce miseramente nel suo
intento. Si trattò, tuttavia, di una soluzione che non parve maturare nel regista in corso
d’opera considerando l’incipit presente nella sceneggiatura originale scritta a quattro
mani con Bernardino Zapponi120.
Da tale incipit, infatti, emergeva un Casanova dai natali importanti, uomo
raffinato e riflessivo, amante della bellezza e spirito libero, dalla quale, tuttavia, Fellini
scelse di eliminare qualsiasi riferimento che restituisse allo spettatore un’immagine
positiva dell’avventuriero venezianoe questo perché, come spiega Borin, «il regista
non pensa di dover dare spessore allo spazio indipendente ostentato da Casanova, che
invece considera bloccato, ingabbiato e schiavo del carattere e dei propri istinti
erotici»121.

119
F. Fellini, B. Zapponi, op. cit., p. 139.
120
Ivi, p. 3.
121
F. Borin, Casanova, cit., p. 73.
29
Obiettivo di Fellini, infatti, fu quello di demolire completamente la figura che,
nell’immaginario collettivo, voleva Casanova come un grande seduttore, sintesi di
libertà e azione, seduzione e ambiguità, per restituire al suo posto la sagoma di una
macchietta senza spessore, vittima delle proprie passioni, prendendo le distanze anche
da quella corrente libertina che, originatasi nel corso del Rinascimento italiano, e poi
diffusasi in Europa, aveva contribuito a trasmettere l’idea di questi seduttori come
«spiriti forti, liberi pensatori, francamente atei, intelligenze sottili, che affermano
l’indipendenza e l’autonomia della ragione, e hanno in sospetto il sentimento, come
base della falsa fede, delle superstizioni e delle credenze» 122.
Trattandosi di un seduttore come Casanova, era inevitabile che Fellini si
occupasse di inscenare situazioni vivaci simili a quelle già presenti in alcuni film
precedenti come La dolce vita (1960) e soprattutto Fellin-Satiricón (1969) o Roma
(1972), già all’inizio della pellicola, non a caso, viene introdotta una scena sessuale
esplicita tra il seduttore veneziano e una monaca strabica dall’aspetto particolare il cui
comportamento sottolinea il livello di trasgressione della scena e un ambasciatore
francese invisibile che sta osservando fuori campo, dall’altra parte di una parete
decorata, con il beneplacito dei presenti. Il fatto che la suora gli si conceda a patto che
l’ambasciatore possa spiarli demolisce, da subito, il mito del seduttore al quale la
donna si concede per un tornaconto personale. Si tratta, di fatto, di una sorte di
menage a trois nel quale l’ambasciatore assolve al ruolo di guardone, il terzo nascosto
che osserva lo spettacolo dall’occhio/spioncino di un pesce che decora la parete della
stanza dove avviene l’amplesso. Benevelli sostiene che

Già quel primo incontro non è vissuto nell’immediatezza imprevedibile dei


flussi di desiderio. Nel Casanova di Fellini il rapporto sessuale non è un godere
della casualità ma è fin dall’inizio posto come un dovere. E come ogni dovere,
esso implica un testimone che giudica della sua esecuzione123.

La sessualità di questa scena, come quella di molte altre (ad esempio quella in
cui il seduttore veneziano ha un amplesso su un letto a baldacchino dalle dimensioni

122
Giovanni Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Milano, Adelphi, 1991, p. 59.
123
E. Benevelli, op. cit., p. 17.
30
ridotte con tre prostitute, che ricorda le acrobazie del circo come qualcosa che si ripete
in modo meccanico), fu giratain modo da paragonare gli atti sessuali del Casanova a
qualcosa di sterile e senza vita 124. Nella maggior parte dei suoi amplessi, infatti, il
seduttore felliniano «si muove con gesti ritmici, meccanici, ed il piacere è quasi
assente dal suo volto che sembra preso da altri pensieri» 125. Negli episodi di natura
sessuale, come si è anticipato, Fellini introdusse uno strano amuleto, un uccello
metallico, un ibrido tra una colomba e un gufo che si dimenava mentre il seduttore
portava a termine i suoi amplessi quasi a rimarcarne il ritmo meccanico, ripetitivo e
freddo, come la musica che accompagnava l’atto126.

Frame 1:03:48

Fonte: Ibidem.

Il libertino veneziano, dunque, non viene ritratto come un amante appassionato


ma come un atleta capace di realizzare qualsiasi tipo di piroetta muscolare, così come
lo dimostra la scena della gara nella residenza dell’ambasciatore inglese a Roma dalla
quale Casanova esce vincitore ma alla quale, tuttavia, partecipa controvoglia vittima
della fama che lo precede. Il seduttore felliniano, in altre parole, ha perso
completamente la sua umanità e si è trasformato in una macchina del sesso e,
diversamente da quanto riportato nell’Histoire de ma vie, dove, rispetto alla vicenda di
124
Gianfranco Angelucci, Liliana Betti (a cura di), Il Casanova di Federico Fellini, Bologna, Cappelli, 1977.
125
F. Fellini, B. Zapponi, op. cit., p. 30.
126
F. Borin, op. ult. cit., p. 49.
31
Roma, il libertino racconta di aver assistito alla gara amatoria ma di non aver
partecipato, nel film ne diventa uno dei protagonisti 127. Nella pellicola, inoltre,
Casanova, che inizialmente appare restio, accetta di prendere parte alla competizione
quando una nobildonna lo invoglia a partecipare alludendo al fatto che si tratta di un
confronto “filosofico” tra un bruto e un uomo raffinato128, a rimarcare, di fatto,
l’ambizione vana del libertino veneziano che aspira a essere ciò che non è.
Non mancano, tuttavia, neppure situazioni che inducono a pensare che
Casanova, in qualità di seduttore/libertino, provi un sentimento, capace di celebrare
l’incanto femminino, anche se Fellini le presenta sempre da una prospettiva, e con
un’intonazione, che instilla il dubbio dello spettatore circa la sincerità del personaggio.
Si pensi, ad esempio, alla relazione che il seduttore veneziano intrattiene con la bella
Isabella che conosce casualmente in Svizzera. Nei confronti della donna, che si prende
cura di lui, Casanova ha parole di apparente amore e passione.

- Oh mio Dio, come siete bella! Quel vostro sorriso così grazioso…Pieno di
riserbo è come quello delle figure sulle tombe etrusche, un sorriso ilare e
mortuario.
-Mortuario? Così tu parla a chi ti ha salvato da morte?
-Ma soltanto per consegnarmi a un’altra dolcissima morte, a quella
dell’amore. Io sento che voglio annullarmi in voi mia saggia Minerva.
-Che uomo strano che tu sei Iacomo! Non può parlare d’amore senza
immagini funebri?... La più dolce delle morti?Ti vuoi annullare in amore?
Forse che più di amare tu desideri di morire?
-Il più tardi possibile, mia incantevole Isabella. E quando verrà quel
momento vorrei stringere la vostra mano(Frame, 1:44:57-1:45:45).

La rappresentazione del femminino in questa pellicola oscilla tra l’affasciante e


il misterioso, come lo dimostra la scena di Isabella e altre in cui Fellini invita lo
spettatore a contemplare una proiezione d’immagini dipinte che alludono al sesso
femminile sotto forma di una spirale senza fondo e una bocca mordace che rimanda
127
G. Casanova, op. cit., p. 650.
128
Federico Di Trocchio, La filosofia dell’avventuriero, in Gilberto Pizzamiglio (a cura di), Giacomo Casanova.
Tra Venezia e l’Europa, Firenze, Olsckhi, 2001, pp. 109-145.
32
all’immagine della balena che ingoiò Giona, la “Great Mouna” (viene detta nel film)o
la mitica Scilla. In una scena del film, ritrovatosi in mezzo a un gruppo di gitani,
Casanova viene attratto da un imbonitore che invita gli astanti verso la sua attrazione,
un’enorme balena che può essere visitata all’interno.

Frame 1:15:43.

Fonte: Ibidem.

Le parole dell’imbonitore hanno indotto una parte della critica a ritenere che
Fellini alludesse alla figura materna129.

The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti


possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina.
Guardate, la sua bocca v’invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra
nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico
libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in
fondo, nella pancia della Grande Mouna. La Mouna è una ragnatela, un
imbuto di seta, il cuore di tutti i fiori. La Mouna è una montagna bianca
di zucchero, una foresta dove passano i lupi, è la carrozza che tira i

129
L. Betti, G. Angelucci, Casanova rendez-vous con Federico Fellini, Milano, Bompiani, 1975, p. 207 e ss.
33
cavalli. La Mouna è una balena vuota, piena d’aria nera e di lucciole,
un forno che brucia tutto. La Mouna, quando è ora, è la faccia del
Signore; è la sua bocca. È dalla Mouna che è venuto fuori il mondo con
gli alberi, le nuove, gli uomini; uno alla volta, di tutte le razze: dalla
Mouna è venuta fuori anche la Mouna… Evviva la Mouna, la Mouna, la
Mouna… (1:14:08-1:16:02)

La figura materna assume nel Casanova un aspetto estremamente inquietante.


Quella che il libertino veneziano incontra casualmente al teatro di Dresda, infatti,
quando ormai lo spettacolo è finito e in sala non è rimasto più nessuno è una madre
che è immaginata come una figura fantasmatica, dall’alone spettrale, che emerge,
come da una tomba,dall’interno di un palchetto, mentre dall’alto guarda il figlio, in
una posizione di assoluto dominio dunque, il quale cercherà di farsene carico e issarla
sulle sue spalle per uscire dal teatro per, poi, tuttavia, abbandonarla 130.
La scena fa pensare alla rappresentazione letterale di un figlio obbligato a
sopportare il peso di una madre che sembra disposta a divorarlo, come se fosse una
sorte di mantide religiosa, un insetto che tornerà in una sequenza de La città delle
donne (1980). Lo stesso Fellini, riferendosi al film, disse che si trattava della «storia di
un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza
idee personali, sentimenti, punti di vista; un ‘italiano’ imprigionato nel ventre della
madre [preso] a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto» 131.
Il seduttore felliniano si comporta secondo le regole dell’amour-goût, regole,
cioè, che non richiedono nessun progetto seduttivo, quando, piuttosto, sembrano
obbedire a un rituale codificato che li priva della loro carica passionale ed emotiva.
Nulla, dunque, nella pellicola del regista riminese si ritrova delle angosce e dei
turbamenti di cui Casanova lasciò testimonianza nella suaHistoire,

Canova enuncia con enfasi i principi dell’amour-goût, ma non riesce a


realizzarli, visto che subisce come fatalità una serie di accoppiamenti

130
T. Kezich, Federico Fellini, cit., p. 238.
131
F. Fellini, Fare un film, cit., p. 176.
34
indesiderati e non ha, il più delle volte, accesso a quel piacere che dovrebbe
essere l’obiettivo ultimo del libertinaggio132.

Scompare nel Casanova di Fellini tutta la complessità che le derivava dalla


riflessione filosofica iniziata da Kierkegaard che aveva contribuito a inserire la figura
del seduttore

all’interno di un percorso interpretativo che lascia emergere nel mito […]


alcune fra le questioni filosofiche e teologiche più controverse dell’età
moderna […] La complessità del mito è evidente e riflette la complessità di un
intero secolo, il Settecento, nel quale, accanto al trionfo della ragione,
dell’Aukflärung (rischiaramento), si fa egualmente largo l’oscurità e
l’ambiguità della sensazione133.

Come ebbe a sostener lo stesso Fellini nel corso di una conferenza stampa il suo
Casanova

Anziché nei panni vitalistici dell’infaticabile conquistatore, io lo penso come


un vecchio goffo, disfatto e disadattato, anche un po’ burattinesco, come un
italiano imprigionato per tutta la vita nella pancia di sua madre, da cui non mai
saputo uscire. Chiuso nella sua umida placenta, il mio Casanova sarà un
mitomane che non ha mai provato autentiche passioni, e che ora, giungo al
tramonto, quasi rispondendo irritato alle domande di un molesto intervistatore,
tenta di riscrivere con l’antica spavalderia le proprie memorie, con risultati
macabri e disastrosi134.

Portare sul grande schermo la storia di Casanova permise a Fellini non solo di
reinterpretare la figura del libertino veneziano ma, anche, di raccontare secondo una
prospettiva del tutto personale il periodo nel quale visse, il XVIII secolo, l’epoca dei
Lumi. Il Settecento nel quale si mosse Casanova fu, per l’Italia, un epoca particolare
132
F. Castigliano, op. cit., p. 38.
133
Giacomo Fronzi, L’altro Casanova. Le memorie nell’immaginario cinematografico di Federico Fellini,
«Segni e comprensione», XXV, nuova serie, n. 74. maggio-agosto 2011, p. 65 (pp. 56-76).
134
F. Borin, Casanova, cit., p. 32.
35
ma, così come per la figura del seduttore, anche per quanto riguardò il periodo storico
che fece da palcoscenico al grande avventuriero veneziano fu completamente
reinterpretato dal regista riminese. L’Italia, in quegli anni, visse un periodo di
riassestamento territoriale e di pace, che andò dal 1748 al 1792, e che rese possibile
un’intensa attività riformatrice da parte dei principi più illuminati, all’unisono con
quanto avveniva negli altri Stati europei. Dopo le tre grandi guerre di successione di
Spagna, svoltesi nella prima metà del secolo XVIII, si assistette, lungo tutta la
Penisola, a profonde modificazioni territoriali: sorsero Stati indipendenti, con governi
nazionali, e Stati indipendenti sotto dinastie straniere, il regno di Napoli e di Sicilia, tra
questi ultimi, vennero assegnati all’infante Carlo di Borbone, che regnò dal 1734 al
1759, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese135.
La ritrovata indipendenza dal giogo spagnolo, sia pur relativa e in un certo
modo formale, giocò un ruolo fondamentale e influì in maniera decisiva sulle
coscienze della nuova generazione di riformatori. Il sogno di una politica realmente
autonoma, sulle basi della Francia e della Spagna, il desiderio di una autosufficienza
economica e commerciale divennero le mete inconsce di molti colti illuminati 136. La
corona austriaca cominciò a riparare i danni causati dall’inefficienza della casata
iberica, iniziando una serie di opere per riparare i danni bellici, riorganizzare il
governo e l’amministrazione, importare nuove tecniche di coltivazione con l’obiettivo
di aumentare il livello di benessere, ripopolare le città e rendere il commercio
nuovamente florido137.
La guerra di successione di Spagna aveva avuto, anche, il merito di aprire
l’Italia alla cultura straniera e, in quel momento di ristagno bellico, la Penisola poté
dirsi pronta per cominciare a usufruire di quel clima di rinnovamento generale che
proveniva dall’estero e che trovò espressone soprattutto nel movimento che prese il
nome Illuminismo, termine con cui si volle indicare, appunto, quel momento dello
sviluppo del pensiero filosofico europeo che fu caratterizzato dall’abbandono, seppur
momentaneo, della tradizionale speculazione rivolta verso i massimi problemi
metafisici, quali l’indagine su Dio, sull’anima, sul mondo, per una ricerca rivolta,
135
Franco Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell’Italia nell'età dell’Illuminismo, in Mario Fubini (a cura
di), La cultura illuministica in Italia, Torino, Eri, 1957, pp. 58-68.
136
Franco Venturi (a cura di), Illuministi italiani, t. V, Riformatori napoletani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962.
137
Wess Mitchell, La grande strategia dell’impero asburgico, Milano, Leg Edizioni, 2019.
36
soprattutto, alla risoluzione di problemi politici, economici e sociali.Non si deve,
peraltro, pensare che l’Illuminismo, per aver abbandonato i grandi temi filosofici del
passato, rappresentasse una fase speculativa di minor livello, esso, infatti, «fu l’erede
autentico dello spirito umanistico - rinascimentale e costituì un vasto e profondo
processo di liberazione dalle vecchie strutture culturali e spirituali, dai pregiudizi del
passato, realizzato mercé i lumi della ragione»138.
L’obiettivo che si propose la filosofia fu quello di «illuminare» gli uomini, di
renderli, cioè, tutti partecipi di quei benefici e progressi che potevano essere raggiunti
attraverso l’unico vero strumento d’indagine, la ragione.Il predominio dato alla
ragione ebbe l’inevitabile conseguenza di porre l’Illuminismo in un’ottica anticuriale,
e antireligiosa, da qui lo slogan Écrasez l'infâme! (Schiacciate l’infame!), cioè la
Chiesa, che più tardi pronuncerà Voltaire, a simbolo di tale orientamento 139.
L’Illuminismo, contro l’ideale di rinunzia cristiana, cercò di affermare il diritto alla
felicità individuale e collettiva, per realizzare quella naturale armonia tra il bene dei
singoli individui e la moralità sociale, considerata un’esigenza e una potenzialità insita
in ogni uomo, e, infine, per rendere possibile, contro ogni evidenza storica, una reale
connessione tra il progresso dell’umanità e la felicità di tutti140.
Nel XVIII secolo, per quel che riguardavala Repubblica Venezia, la
Serenissima iniziò a sperimentare un periodo di declino dovuto a una serie di ragioni
tra cui, in particolare, un ceto politico incapace e disinteressato alle sorti della città e
un patriziato arroccato unicamente a difesa dei propri privilegi. Nel corso del
Settecento, tuttavia, alcuni Dogi tentarono di introdurre delle riforme per ridare alla
Repubblica la gloria di un tempo, ma il Consiglio dei Dieci si oppose a qualsiasi
iniziativa segnando in negativo il destino della città.Nonostante da un punto di vista
politico ed economico Venezia apparisse una città in decadenza, da un punto di vista
artistico si conquistò la nomea di “città delle Maschere” a causa della lunga durata del
suo Carnevale che portava gli abitanti a indossare una maschera per circa sei mesi; nel
periodo del Carnevale la città diventava un punto di attrattiva per intellettuali, nobili e

138
Armando Saitta, Il cammino umano, vol. II, Bologna, Calderini, 1985, p. 218.
139
Vincenzo Ferrone, L’Illuminismo nella cultura contemporanea: storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza,
2002, p. 48.
140
Juan Bada, Il clericalismo e l’anticlericalismo, Milano, Jaca Book,1998, p. 52 e ss.
37
avventurieri provenienti da ogni parte141. Anche da un punto di vista artistico la città
continuò a sfornare grandi personalità come quella del pittore Antonio Canal, detto il
Canaletto, che iniziò la serie dei grandi vedutisti 142, del musicista Antonio Vivaldi,
detto «il prete rosso»143 edel drammaturgo Carlo Goldoni che trionfòsu Pietro Chiari e
Carlo Gozzi144.
Di ciò che Venezia era nell’epoca dei Lumi, e del Settecento in generale, Fellini
operò una rilettura del tutto personale. Il regista riminese, infatti, restituì della città un
affresco inedito, lontano, ma contemporaneamente vicino, a quello reale, riuscendo,
tuttavia, a consegnare allo spettatore l’immagine di una città seduttiva e accattivante,
ma anche fatiscente e desolata in un complesso rapporto tra realtà e fantasia. Rispetto
al XVIII secolo, Fellini lo aveva definito «un secolo di merda! Non potrò farne che un
museo delle cere elettrizzato»145e questo perché, lo riteneva un secolo abusato
visivamente e ridotto a un cliché.

Dal punto di vista figurativo il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e


svenato da tutte le parti. Restituite originalità, una nuova seduzione, una
visione nuova di questo secolo è sul piano figurativo un’impresa disperata146.

Nonostante le premesse, tuttavia, l’impresa fu portata a termine e, una volta


conclusa, lo stesso Fellini se ne disse soddisfatto, soprattutto da un punto di vista
figurativo, affermando che, insieme a Satyricon, «il Casanova è tra i miei film più
affascinanti, […] mi sembra il film più compiuto, più espresso, il più coraggioso» 147.
L’obiettivo che il regista riminese si era proposto, infatti, ossia quello di fornire il
ritratto storico di un’epoca, ma al contempo di stravolgerla, confondendo lo sguardo
dello spettatore e le sue capacità di riconoscimento figurativo dei numerosi riferimenti
presenti nel film, fu raggiunto in pieno. Fellini, infatti, si era prefisso di liberare il
141
Stefania Bertelli, Il carnevale di Venezia nel Settecento, Milano, Jouvence, 1992, p. 62.
142
Pierluigi De vecchi, Raffaella Bentivoglio Ravasio, I colori del tempo: un percorso nella pittura italiana,
Milano, San Paolo IMI, 1999, p. 233 e ss.
143
Arcangelo Salvatori, Antonio Vivaldi: (il Prete rosso). Note biografiche, «Rivista mensile della città di
Venezia», VIII, 1928, pp. 325-346.
144
Simone Valtorta, Nel secolo dei Lumi, un paese in bilico fra stagnazione e riforme, 12/2016,
http://www.storico.org/seicento_eta_lumi/italia_settecento.html
145
T. Kezich, Fellini, cit., pp. 448-449.
146
F. Fellini, op. cit., p. 175.
147
Ivi, p. 162.
38
Settecento dai suoi cardini spazio-temporali consapevole del fatto chequel
periodoimplicava, anche da un punto di vista stilistico, una certa idea di scena e di
spettacolo, che esprimeva una tensione sia verso la corrente barocca sia verso quella
romantica148. E, anzi, il XVIII secolo felliniano si orientò proprio verso un
barocchismo estremo, quasi kitsch, spogliandolo, in parte, di quell’aurea di razionalità
di cui lo avevano investito gli illuministi per trasformarlo in un’anticamera della
modernità con le tutte le contraddizioni che ciò poteva comportare.
Per ricostruire sulla scena quel Settecento che aveva nella mente, Fellini, attinse
a piene mani dal repertorio iconografico realizzato insieme a Zapponi e dai bozzetti
preparatori di Donati. Nella sceneggiatura originale, infatti, si trovano diversi
riferimenti sia alle parrucche caricaturali alla William Hogarth 149, sia agli
schemicompositivi della pittura di Tintoretto e Tiepolo,sia alla pittura veneziana le cui
opere si trovanoin numerose inquadrature. Ciò che lo spettatore vide sullo schermo,
però, fu soprattutto un lavoro di contaminazione, ibridazione e stratificazione di
epoche e stili diversi che portò costumi, scenografie e maschere a essere rivisitati e
reinterpretati, restando riconoscibili ma anche diversi. Donati, ad esempio, raccontò di
come Fellini fosse giunto alla scelta scenografica di un mare di plastica, palesemente
finto, che compare in una delle prime sequenze (quando Casanova si allontana da
Venezia), un mare, che è e non è un mare contemporaneamente, rifacendosi
all’impianto scenografico dell’Otello di Verdi, allestito alla Scala, e, poi, riproposto
nella pellicola. Secondo Donati si può parlare dell’opera felliniana considerandola
come un’attualizzazione del Settecento, ridefinito alla luce di un «venezianismo decò»
di primo Novecento o di un«surrealismo metafisico» che si avvale di collaborazioni
preziose di artisti di un certo calibro, tra i quali spiccano Ronald Topor e Mario
Fallani150.
Prendendo le distanze dal Settecento, e svincolandosi da qualsiasi fedeltà di tipo
storico, Fellini lasciò che fosse la sua immaginazione a guidarlo nelle scelte delle
scenografie, dei costumi e del trucco, il che, tuttavia, non gli impedì di far emergere
alcune delle ossessioni che furono tipiche di quell’epoca e che, in seguito, sarebbero
148
Paola Maresca, IL giardino e il fantastico, Firenze, A. Pontecorboli, 2005, p. 33 e ss.
149
Bernardino Zapponi, Casanova: in un romanzo la storia del film di Fellini, Mondadori, Milano, 1977, p. 67.
150
Michele Bertolini, Riferimenti iconografici e visioni immaginarie nel “Casanova di Federico Fellini”,
«Rivista Graphie», 81, 2017, pp. 1-7.
39
state espressione anche dell’età moderna. Il Casanova, in tal senso, fu una sorta di
catalogo di allucinazioni visionarie, tra le quali la mania pigmalionica, il gabinetto
delle meraviglie (Wunderkammer) di derivazione seicentesca, il gusto del
collezionismo privato e, in particolare, la passione per gli automi animati.
Per quanto riguarda il Pigmalione si trattava di una figura celebrata da un punto
di vista estetico-letterario che si era trasformata nel XVIII secolo in una vera e propria
ossessione; diversamente dalle Historie, dove il riferimento al mito è esplicitato, nella
pellicola appare più velato e il rimando è inserito nella parte iniziale del film, nella
sequenza della seduzione nei confronti di Galatea Annamaria. La giovane, infatti,
incarna perfettamente le sembianze di una statua inanimata grazie al suo pallido
incarnato, bianca come la cera e fredda come il marmo, prende vita e colore solo
grazie all’intervento di Casanova che la fa sua mentre la giovane è svenuta
restituendole, così, la vita. La figura del Pigmalione e quella di Galatea, divenuta
celebre del XVIII secolo, era ben nota a Fellini che la rivisitò nell’ottica del vitalismo
organico. Il libertino felliniano, infatti, attraverso il possesso carnale riportò in vita un
corpo apparentemente inanimato.

Frame 29:16

Fonte Ibidem

40
Un’altra ossessione del XVIII secolo, quella per gli oggetti meccanici, si trova
espressa nell’uccello di metallico che fa da spettatore a tutti gli incontri galanti del
seduttore sia nella parte finale della pellicola quando Casanova incontra Rosalba, la
bambola meccanica a fattezze umane, che ricorda gli oggetti progettati e realizzati
dall’inventore francese Pierre Jaquet-Droz.Anche in questo caso, tuttavia, la visione
felliniana è ribaltata e non è il creatore il padrone della macchina ma la macchina, in
questo caso Rosalba, a dominare Casanova. Peraltro tutta la scena dell’amplesso con la
meccanica, consumato in un ambiente triste e lugubre e accompagnato da una musica
roboante e allucinata prodotta dai numerosi organi in un contrappunto isterico e
disordinato, rappresenta il sovvertimento dell’ordine settecentesco dove l’inventore
dominava le sue creazioni mentre con le sue movenze meccaniche e rigide la bambola
felliniana coinvolge, e imprigiona, il seduttore e lo trasforma, a sua volta, in un
automa.
L’Europa del Settecento nella quale Fellini fece muovere il suo personaggio
appariva come un pozzo nero, un mondo infernale di interni aristocratici scialbi e
paesaggi incolori e nebulosi. La poca chiarezza, l’eterna notte della pellicola, i chiari
scuri dei palazzi nobiliari, la pioggia spesso battente furono tutte scelte registiche che
contribuirono a creare un clima soffocante dove trovano spazio tribunali
dell’inquisizione, donne mostruose, situazioni aberranti a dimostrazione di quanto il
Settecento con i suoi Lumi fosse un’ipotesi irrealizzata. Fellini, infatti, raccontò di un
mondo infarcito di superstizioni e assurde credenze ben lontano, dunque, dal quella
ricerca dell’autonomia, della laicità, della verità, di una rinnovata umanità e
dell’universalità di cui si faceva portavoce l’Illuminismo151.
L’uomo del XVIII secolo di cui raccontò Fellini, dunque, non era ancora
riuscito a liberarsi da tutte le finte illusioni che popolavano la sua mente e, infatti,
restavano in luizone buie che lotenevano ancorato alla passione, al sublime e
all’orrido. Il Casanova felliniano è interprete di un“pensiero errante”, espressione di
una natura inquieta che tende a porre se stessa di fronte a esperienze al limite, che
sperimenta nel corso dei suoi frenetici e continui viaggi.Il Settecento felliniano nel
quale si muove Casanova, come ha sostenuto Zapponi, non fu affatto il “secolo dei

151
TristanTodorovLo spirito dell’illuminismo, Milano, Garzanti, 2015.
41
Lumi”, quanto, piuttosto, un modo oscuro, tenebroso e sepolcrale152 che sembrò
ammiccare alle ridondanze ed esasperazioni del barocchismo, un epoca che il regista
riminese immaginò popolata da strane creature che vivevano d’istinti e di passioni e
che si contrapponevano all’immagine che ne derivava dalla Historie de ma vie dal
quale, seppure non traspariva l’immagine di un uomo guidato dalla filosofia
illuminista, quanto meno nel suo modo di essere ne incarnò alcuni ideali.Come ha
evidenziato Cagli, infatti,

Giacomo voleva […]scavalcare i privilegi di nascita, di nobiltà, di casta, non


perché li disprezzasse, ma perché ambiva a costruirsi una figura che potesse
farne a meno; voleva poter essere “qualcuno” costruendosi una propria identità,
una propria storia, una propria fama153.

Niente di tutto ciò si trova nel Giacomo felliniano il quale sembrò sposare
piuttosto l’immagine di un XVIII secolo come l’avrebbe intesa, dopo di lui, Orengo
per il quale non era stato solo il secolo degli Illuministi, in quanto fu

un secolo dai nervi fragili, femminile, sensibile alle vertigini del vuoto, della
noia. Fra eleganze e galanterie, il fascino ci va soggetto non è tanto della
“solarità”, quanto del suo contrario. Non è la luce del giorno ad attrarlo, quanto
il grande universo del notturno e i suoi teatri: foreste, rovine, cimiteri e grotte
sotterranee […]. Ma al di là del perimetro rassicurante che la ragione ha
tracciato ci sono fantasmi del primitivo, del barbarico, del proibito154.

In questo senso, allora, anche Casanova fu espressione di quella realtà segreta


che attraversò tutto il XVIII secolo che si espresse «nella ricerca di un limite
inaccessibile»155, quel limite che, per il seduttore, oscillava tra ragione e passione,
piacere e terrore e che nella storia portata sul grande schermo da Fellini si trasformò in

152
B. Zapponi, Il mio Fellini, cit., p. 95.
153
Vito Cagli, Giacomo Casanova e la medicina del suo tempo, Roma, Armando,2012, pp. 16-17.
154
Nico Orengo, Prefazione, a Matthew Gregory Lewis, Antonin Artaud, Il monaco, Milano, Bompiani, 2000, p.
II.
155
Jacques Chouillet, L’esthétique des Lumières, Parigi, Puf, 1974, p. 128.
42
un luogo fantastico e immaginario. D’altra parte, come commentò Amelio, «La verità
di Fellini è fatta delle sole bugie alle quali dobbiamo credere ciecamente»156.

156
La citazione si trova riportata in Vittorio Giacci, Immagineimmaginaria. Analisi e interpretazione del segno
filmico, Roma, Città Nuova, 2006, p. 54.
43
CAPITOLO III

LE VISIONI DEL ‘MAESTO’

§. 3.1 L’erotismo del Casanova felliniano


Il Casanova felliniano è un uomo che viaggia da una parte all’altra dell’Europa,
spinto, apparentemente, dalla necessità di trovare mecenati che gli permettano con la
loro generosità di continuare la sua attività di scrittore, filosofo e scienziato, nella
pratica, tuttavia, l’unico vero interesse che mostra il libertino veneziano nel film pare
essere quello di perpetrare nelle varie corti europee le sue “imprese donnesche”. Si fa
da subito evidente, infatti, una sorta di incongruenza tra le aspirazioni intellettuali del
personaggio e le sue continue performance sessuali che lo mostrano come un vero e
proprio atleta del sesso;una volta giunto a Roma, ad esempio, il principe Brando,
rivolgendosi a Casanova, gli dice sarcasticamente,

Io vi conosco di fama, signor Casanova. Sono un vostro grande ammiratore.


Quante cose ho sentito dire sul vostro conto, cose grandi! […] I vostri meriti
sono stati paragonati a quelli di uno stallone. E qualche volta a quelli di un
animale un po’ meno nobile157.

Si tratta, certamente, di un aspetto sul quale Fellini indugia, scegliendo, non a


caso, di terminare praticamente ogni sequenza con una prestazione sessuale che,
tuttavia, viene presentata al pari di un esercizio fisico e non priva di un certo sapore
clownesco.
L’erotismo di cui si fa interprete il Casanova felliniano, di fatto, non ha nulla di
seducente e neppure di seduttivo non solo per il protagonista ma neppure per lo
spettatore e non sembra aiutare il protagonista né a conquistare davvero una donna né
a provare piacere. Nella sceneggiatura originale si leggeva che durante l’amplesso

157
F. Fellini, B. Zapponi, op. cit., p. 162.
44
Casanova «si muove con gesti ritmici, meccanici, ed il piacere è quasi assente dal suo
volto che sembra preso da altri pensieri…»158. Preceduto dalla sua fama di super-dotato
e di infaticabile amatore, Casanova ne cade vittima e, infatti, come viene mostrato nel
film, molti di quei mecenati che lo aiuteranno gli chiederanno in cambio dimostrazione
delle sue eccezionali doti, richieste alle quali si piegherà anche contro la propria
volontà. A Parigi, infatti, non solo deve cedere alle lusinghe della vecchia e decrepita
Madame d’Urfé ma, pure è costretto a giacere con tre orribili dame all’interno di una
stanza d’albergo.
Nelle scene in cui Casanova consuma i suoi incontri erotici Fellini mette in atto
una deformazione che raggiunge toni spesso sarcastici e crudeli. Nella scena in cui
giace con suor Maddalena, infatti, nella casa dell’ambasciatore francese (a Venezia), la
donna non solo gli si concede per accontentare il suo vero amante (l’ambasciatore) ma
chiede a Casanova di «farai bene il tuo dovere» il modo che l’uomo, guardando di
nascosto, non si annoi; a poco vale la risposta del libertino veneziano che parla di sé
come di «un amante così ben educato» tanto da suscitare la relazione della donna che
gli risponde che la troppa educazione non si addiceva al furore di due amanti.
Nelle parole del protagonista Fellini palesa da subito l’idea che di erotismo
aveva il suo avventuriero, una sorta di galanteria in assenza di qualsiasi passione.
L’ambiente nel quale si consuma l’atto appare sfarzoso ma per certi aspetti desolato,
un po’ come la figura di Casanova che, nonostante la sua fama, si rivela ben misera
cosa nel momento di massimo erotismo. Vestito elegantemente ma con un certo
eccesso, l’uomo si presenta agghindato a festa con tanto di bottoni d’oro e di ruches,
ma quando si sveste mostra una biancheria minuta, estremamente semplice, per nulla
attraente, neppure mascolina; indumenti che peraltro sceglie di tenere anche durante
l’amplesso.
In questa prima scena erotica fa la sua comparsa, come si è avuto modo di
anticipare, il carillon a forma di uccello metallico che, in qualche modo, ritma la
performance di Casanova alzando la testa e sbattendo le ali, il tutto accompagnato dal
suolo di una musica stridente.

158
Federico Fellini, Bernardino Zapponi, Il Casanova di Fellini. Sceneggiatura originale, Einaudi, Torino, 1976,
p. 30.
45
Frame 13:02

Fonte: Ibidem.

Prima che l’atto sia consumato, Casanova e suor Maddalena, secondo quanto
previsto dalla sceneggiatura, si lasciano andare a una sorta di danza rituale dove i due
amantisi sbizzarriscono in una serie di«accoppiamenti sempre più complessi […]
simmetrie sempre più arcaiche e scrupolose» restituendo allo spettatore un’immagine
tutt’altro che erotica quanto, piuttosto, assurda e ridicola, non priva di una certa
volgarità; i corpi dei due amanti, infatti, si contorcono in piegamenti e rovesciamenti,
con tanto di gambe all’aria e posizioni innaturali159
Il momento di maggiore erotismo, quello in cui i due amanti dovrebbero
raggiungere il massimo del piacere, si riduce a un esercizio fisico, privo di qualsiasi
passione e di coinvolgimento. Casanova resta mezzo vestito e piuttosto che lanciarsi in
abbracci ed effusioni inizia una serie di flessioni sulle braccia come se si stesse
allenando per una gara o fosse nel mezzo di una competizione.

Frame 12:58

159
Ivi, p. 14.
46
Fonte: Ibidem.

Come si legge nella sceneggiatura originale, l’amplesso viene compiuto «con


ostinazione ed anche dando il senso d’una quotidiana fatica: una sua azione abituale e
implacabile, dalla quale il libertino non può sottrarsi» 160. Una volta che la performance
è giunta al termine, l’ambasciatore, restando nel suo nascondiglio, si congratula con
Casanova ma non dimostra alcune interesse difronte alla sua richiesta di una lettera di
raccomandazione per un lavoro in Francia.
Seppure tutta questa prima scena erotica sia, già di per sé, piuttosto parodistica,
se la si compara con la storia raccontata nelle Historie, il suo carattere caricaturale
appare ancora più evidente161. La scelta di Fellini, infatti, è stata quella di privare la
scena descritta nelle memorie di qualsiasi elemento erotico e ridurla a uno scambio di
favori sessuali; nella realtà, invece, Casanova descriveva una relazione con la donna
intensa, struggente e passionale per la quale si era a lungo tormentato e per la quale
aveva profondamente sofferto. Rispetto ai dialoghi, invece, Fellini mutuò quelli
presenti nelle Historie ma operò una selezione optando per quelli più superficiali e
vanesi. Anche la vicenda del candaulismo (ossia il desiderio dell’ambasciatore di
condividere la sua amante) trova una corrispondenza nel diario del libertino veneziano

160
Ivi, p. 15.
161
G. Casanova., Histoire de ma vie, cit., pp. 792-803.
47
ma, diversamente dall’originale, nel film i due amanti non si sottraggono alla vista del
voyeur e, anzi, fanno bella mostra delle loro piroette sessuali. Uno degli aspetti meno
attinenti rispetto allaHistoire riguarda l’atteggiamento di Bernis, l’ambasciatore, nei
confronti di Casanova; nel film, come si è detto, il primo si complimenta e gli parla
restando nascosto (sorvolando sulla sua richiesta di raccomandazione), nel libro,
invece, i due si incontrano a una cena alla quale è presente anche la suora e, secondo
quanto riportato nelle Historie, sarebbe stato proprio il Bernis a offrire spontaneamente
un aiuto al libertino.
Un’altra scena interessante nella quale l’erotismo casanoviano viene ridotto a
poco più che a una situazione licenziosa e burlesca è quella che si svolge a Roma,
presso la casa del Lord Talou, dove Casanova si ritrova a partecipare (controvoglia) a
un’orgia, diversamente da quanto viene riportato nelle Historie dove, di fatto, racconta
di esserse limitato ad assistervi.

Tout le monde se leva de table soul, moi excepté […] Ce fut alors que la
grande Orgie commença. Il est impossible de détailler le excès que j’ai vus ;
mais un grand libertin peut se les figurer. […] On donna en spectacle quatre ou
cinqu accouplements, où les abbés brillèrent tantôt actifs et tantôt passifs. Je
fus le seul respecté162.

Anche in questo caso Fellini realizza un adattamento che si discosta dal testo
originale e coinvolge Casanova in una gara con un cocchiere nel corso della quale
dovrà dimostrare chi dei due, nel giro di un’ora, potrà portare a termine più amplessi.
Come si è avuto modo di anticipare, nella pellicola inizialmente il dongiovanni
veneziano tenta di rifiutarsi ma, alla fine, si lascia coinvolgere da un filosofeggiare da
quattro soldi di una nobildonna che gli propone la sfida come l’incontro tra il “nobile”
e il “buon selvaggio”163. La convinzione di Casanova espressa nel film è che
solo un corpo sostenuto dall’ingegno, dall’intelligenza, dalla cultura» sia in
grado di eccellere nell’arte amatoria e questo perché «si richiede una
considerevole maturazione morale, per non parlare della fantasia e soprattutto

162
Ivi, p. 650.
163
Ivi, p. 183
48
della conoscenza di quello che è il movimento dei fluidi, delle influenze stellari
e planetarie164.

Frame 1:37:18

Fonte: Ibidem.

Le parole che Fellini decide di far pronunciare a Casanova risuonano altisonanti


ma vuote, sembrano più che altro uno sfoggio di eruditismo vago, un insieme di parole
a effetto che portano uno dei presenti a sostenere di non essere in grado di capirle. Non
è certamente un caso se Fellini esclude dal testo qualsiasi riferimento filosofico di un
certo spessore da parte del Casanova in quale nel Histoire si dimostra attento lettore
dei philosophes165 mentre nel film il suo parlare è spesso svuotato di senso e
paragonato a un sproloquiare.
In una sorta di ring rabberciato, Casanova si prepara alla performance bevendo
una pozione improvvisata (composta, come da lui richiesto da diciannove uova crude,
vino di Spagna, zenzero, cannella e chiodi di garofano) e mettendo in scena un
siparietto di stiramenti ed esercizi respiratori. Anche in questo caso la mise che Fellini

164
G. Angelucci, L. Betti, op. cit., p. 124.
165
Giorgio Ficara, Casanova e la malinconia, Einaudi, Torino, 1999; Federico Di Trocchio, La filosofia
dell’avventuriero, in Alberto Pizzamiglio (a cura di), Giacomo Casanova. Tra Venezia e l’Eurpa, Olschki,
Firenze, 2001, pp. 109-145; Franco Fido, Casanova lettore dei Philosphes a Dux, in Ivi, pp. 21-33.
49
sceglie di far indossare a Casanova appare del tutto simile a quella dell’incontro con
suor Maddalena e, come in precedenza, la sua partner non sembra particolarmente
entusiasta dall’incontro (di fatto neppure suor Maddalena lo era, in quanto ciò che
desiderava veramente era compiacere il proprio amante nascosto), anzi sembra subire
la prova dell’uomo, a differenza dell’espressione soddisfatta e goduta della donna che
sta gareggiando insieme a Righetto.

Frame 1:38:35 e 1:38:37

Fonte: Ibidem.

La prova, alla fine, viene vinta da Casanova, che viene osannato dai presenti
che lo acclamano a gran voce e gli urlano all’unisono «Roma è tua!», con chiaro
intento ironico visto che nella Città eterna Casanova non riuscì a trovare nessuna
lettera di raccomandazione e nessun incarico.
Una terza scena erotica è quella che si ritrova alla fine del film quando
Casanova si trova nel castello del duca di Wûrttemberg, definita la più brillante corte
d’Europa. Anche in quel caso le ragioni che spingono il libertino veneziano a Corte
sono la ricerca di un impiego diplomatico e di denaro per poter proseguire la sua
attività come scrittore e studioso. Sebbene nell’Histoire de ma vie si racconti del
viaggio a Ludwigsburg166, tutto ciò che accade nel castello è frutto dell’invenzione di
Fellini e Zapponi che costruirono una situazione del tutto particolare per l’uscita di
scena del grande seduttore veneziano. I due sceneggiatori, infatti, decisero di far
166
G. Casanova, op. cit., pp. 564-567.
50
incontrare Casanova con il duca di fronte a una folla di cortigiani che in atteggiamento
goliardico bevono e cantano in modo sguaiato; nella scena il libertino veneziano cerca
di spiegare al duca a che punto siano i suoi studi e gli illustra alcune delle sue scoperte
scientifiche, ma il nobile appare visibilmente disinteressato mentre, invece, diventa
oggetto di scherno da parte del giullare di corte. Visibilmente sdegnato, Casanova si
calma solo dopo aver scorto tra quella marmaglia Rosalba, una bambola meccanica di
grandezza e fattezze umane. Una volta finita la festa, Casanova torna nella sala ormai
vuota e inizia a rivolgersi a Rosalba come se fosse una persona reale e a inscenare una
sorta di rituale prodromo all’amplesso.

Frame 2:07:33

Fonte: Ibidem.

Dopo essersi intrattenuto con la bambola e aver danzato con lei al ritmo di un
triste carillon, Casanova porta Rosalba sul suo letto e, mentre si spoglia, le recita
alcuni versi del Petrarca. Per rendere possibile un amplesso, diversamente impossibile
e comunque irreale, Casanova sospende la bambola per le braccia.
In questa scena, diversamente dalle precedenti, la macchina da presa indugia
più volte sull’espressone di Casanova che sembra particolarmente partecipe e scosso

51
da forti sensazioni, fino a quando, finito l’amplesso, il libertino veneziano non si ferma
a contemplare quel corpo femminile senza vita né espressione.

Frame 2:11:50 e 2:14:30

Fonte: Ibidem

Quindi, Casanova abbandona la stanza lasciando la bambola sul letto in una


posa oscena, «a gambe aperte»167, forse un omaggio di Fellini a quell’amour-goût che,
secondo Stendhal, regnava a Parigi nel XVIII secolo168; inteso come

un tableau où jusqu’aux ombres, tout doit être couleur de rose, où il ne doit


entrer rien de désagréable sous aucun prétexte, et sous peine de manquer
d’usage, de bon ton, de délicatesse, etc.169.

In effetti, tutti gli incontri del Casanova felliniano sembrano rispondere alle
regole dell’amour-goûte, infatti, il regista non indugia in nessun preliminare di
seduzione quanto, piuttosto, si sofferma sul carattere rituale e codificato dell’incontro,
a sottolinearne l’aspetto cerimonioso privandolo di qualsiasi carica erotica o
passionale. Si tratta, anche in questo caso, di una libertà che gli sceneggiatori si
presero rispetto a l’Histoire de ma vie la cui trasposizione eliminò qualsiasi accenno
che potesse far trasparire un qualche spessore emotivo, psicologico o sentimentale del
protagonista. È anche vero, tuttavia, che il Casanova felliniano non riesce neppure a

167
G. Fellini, B. Zapponi, op. cit., p. 139.
168
Stendhal, De l’amour, Gallimard, Paris, 1980, p. 26.
169
Ivi, p. 33.
52
interpretare al meglio i principi dell’amour-goût in quanto dalla maggior parte dei suoi
incontri amorosi non sembra ricavare nessun piacere; nelle sequenze che lo vedono
protagonista con la bambola meccanica, invece, tali principi sembrano realizzati o,
quantomeno, trova espressione l’ideale erotico dei suoi sostenitori, che prevedeva da
parte dell’amante una signorile delicatezza, un evento reso possibile dal fatto che lo
stesso Casanova si è ormai ridotto in una sorta di uomo-macchina.
Numerosi studi, nel tentativo di capire il rapporto tra Fellini, il sesso e
l’erotismo hanno spesso citato il rapporto del regista con le teorie junghiane,
insistendo sul fatto che il cineasta portò sullo schermo la maggio parte delle sue
ossessioni relative alla sessualità; il quadro che ne deriva, in genere, è quello di una
sessualità nevrotica fortemente segnata da una formazione cattolica castrante 170. Teresa
De Laurentis e Marga Cottino-Hones, ad esempio, si sono avvalse di strumenti della
psicoanalisi in un ottica femminista, come lo sguardo, il complesso di edipo, il
feticismo o il fallocentrismo, per cercare di analizzare il linguaggio cinematografico
della sessualità e dell’erotismo felliniano 171 e, rispetto al Casanova, hanno parlato di
una follia libidica che rifletterebbe il disagio del regista riminese per il sesso
insignificante. Ma, in realtà, molte questioni restano ancora in sospeso.
È interessante il fatto che, dopo aver dormito con Rosalba, la scena successiva
vede Casanova, ormai vecchio, al servizio del conte Waldstein come bibliotecario. Il
libertino veneziano è ormai diventato l’ombra di se stesso, nessuno lo rispetta e le sue
ambizioni di scrittore e acculturato fanno parte ormai del suo passato. Dalle memorie
pubblicate, due servitori omosessuali hanno strappato un suo ritratto da giovane e lo
hanno attaccato al muro con le proprie feci sopra le latrine del castello.

Frame 2:18:41

170
John Stubbs, Federico Fellini as Auteur: Seven Aspects of his Films, Carbondale, Southern Illinois University
Press, 2006, p. 37
171
Teresa De Laurentis, Fellini’s 91/2, in Peter Bondanella, Cristina Degli Espositi (a cura di), Perspectives on
Federico Fellini, New York, GK Hall & Co, 1993, pp. 203-213.
53
Fonte: Ibidem.

Eppure, giunto ormai alla fine della sua esistenza, miserevole, dimenticato e
accusato di essere un ladro, Casanova crede ancora di avere delle chance e di poter
continuare la sua attività di scrittore. Ma ormai, deriso, ha persona qualsiasi dignità.

Frame 2:22:22

Fonte: Ibidem
Affaticato, stanco e appesantito, agghindato a festa come un tempo, ma ormai
evidentemente fuori luogo, la sua meccanica sessualità, dalla quale l’erotismo è
sempre stato assente, lo ha trasformato in un fantasma vivente. Anche l’uccello
meccanico che lo ha accompagnato come un feticcio in tutte le sue scorribande
sessuali è ormai chiuso in una teca e la sua ala pare quasi spezzata, segno che tutta la
sua vivacità e vitalità di seduttore è giunta ormai a termine.

54
Frame 2:23:43 e 2:24:15

Fonte: Ibidem

Nelle ultime scene Fellini racconta di un sogno fatto ormai dal vecchio
Casanova che, ricordando della sua giovinezza, vede intorno a sé tutte le donne
possedute in una Venezia glaciale; ma l’unica con la quale, nel sogno, il libertino
veneziano decide di ballare è Rosalba la bambola meccanica, «an empty dream of an
empty dream»172.
L’ultima scena, di Casanova che sogna di danzare con Rosalba sul ghiaccio,
chiude il lungo e complesso viaggio erotico-sessuale del personaggio felliniano, un
uomo la cui triste vita è suggellata da una sequenza finale nella quale il regista riesce a
comunicare la “vertigine del vuoto”.

§. 3.2 La sequenza finale e la “vertigine del vuoto”


La sequenza finale del Casanova felliniano alterna un incubo, quello della
condizione esistenziale nella quale si trova costretto a vivere il vecchio seduttore, e un
sogno a occhi aperti al quale si lascia andare il protagonista. Ormai anziano e deriso da
tutti, Casanova è costretto a lavorare come bibliotecario presso il conte Waldstein nella
speranza che questi continui a foraggiare la sua arte, tuttavia, dopo l’ennesimo
tentativo di dar sfoggio della sua cultura, si ritira nelle sue stanze e, lasciandosi andare

172
F. Borin, Federico Fellini, cit., pp. 125-132.
55
ai suoi pensieri, inizia a raccontare un sogno fatto qualche notte prima. Un sogno ad
occhi aperti, occhi allucinati e vitrei.

Frame 2:26:56

Fonte: Ibidem.

Uno degli aspetti particolarmente interessanti di questa sequenza finale è la


scelta di Fellini di distanziarsi in modo netto dalla conclusione di Histoire de ma vie, si
tratta, più che altro, di una aggiunta che spezza, di fatto, la costruzione paratattica degli
episodi della pellicola. Il racconto del libertino veneziano, di fatto, non si sviluppa
secondo uno schema narrativo preciso e neppure offre del suo protagonista una
crescita personale; Casanova, infatti, resta identico a se stesso e nel corso delle pagine,
tra un’avventura e l’altra, non fornisce elementi per pensare a lui come a un
personaggio che va incontro a una evoluzione personale173. Nella Histoire, infatti, il
giovane protagonista appare descritto come un uomo spinto da «una smania di
movimento, una fisica irrequietezza»174 e«famelico di vita»175, un individuo
continuamente in viaggio, un viaggio apparentemente senza sosta 176, «n’ayantja mais
visé à un pointfixe, le seul système quej’eus, si c’en est un, futce lui de me laisser
alleroù le vent qui soufflait me poussait»177.

173
Gino Benzoni, In viaggio per l’Europa, in A. Pizzamiglio (a cura di), op. cit., p. 44.
174
F. Fido, op. cit., p. 36.
175
G. Benzoni, op. cit., p. 47.
176
G. Casanova, op. cit., p. 5.
177
Ivi, p. 2.
56
In effetti, nella Histoire non compare un vero e proprio finale e questo in virtù
del fatto che lo stesso Autore, aveva dovuto quasi improvvisamente, per problemi di
salute, interrompere una scrittura che era iniziata, su suggerimento di un medico, come
una sorta di terapia per sfuggire a una depressione che aveva colto l’avventuriero già
in età avanzata. Le ragioni, dunque, che portarono il libertino veneziano a raccontare
della sua vita non avevano mai avuto a che vedere con un’esigenza narrativa quanto,
piuttosto, per dare sfogo a una visione edonista 178 dell’esistenza che gli era propria. A
tale proposito è stato ipotizzatoche l’interruzione del racconto coincidesse con la scelta
dello scrittore veneziano di non inserire nella sua Histoire le vicende degli anni per lui
più cupi e difficili, quelli della vecchiaia179.
Le memorie casanoviane, di fatto, presentano un interessante livello di
originalità nel fatto che si allontanano dal vero e proprio racconto autobiografico che,
fino ad allora, aveva riscosso tanta fortuna, affidando la narrazione a un susseguirsi di
eventi apparentemente casuali180, privi di un qualche intento moralistico volto a
presentare quella di Casanova come un esempio di vita esemplare 181 o di un forte
intento poetico182. Nella prefazione della Histoire de ma vie si leggeva:

A l’âge de soixante et douze ans […] je ne saurais me procurer un amusement


plus agréable que celui de m’entretenir de mes propres affaires [..] M rappelant
des plaisirs que j’eus je me les renouvelle et je ris des peines que j’ai endurées,
et que je ne ses plus183.

Già dalla prefazione, dunque, lo stesso libertino veneziano esaltava la follia


della gioventù e la contrapponeva a quella forma di maturità che si raggiungeva
forzatamente in vecchiaia «je fustoute ma vie victime de messens; je me suisplu à
m’égarer, et j’ai continuelle ment vécudans l’erreur»184.

178
Ivi, p. 5.
179
Ivi, p. 4.
180
Bruno Capaci, Gianluca Simeoni, Giacomo Casanova. Una biografia intellettuale e romanzesca, Liguori,
Napoli, 2009, p. 23.
181
Marie-Françoise Luna, Casanova mémorialiste, Champion, Paris, 1998.
182
G. Casanova, op. cit., p. 2.
183
Ivi, p. 4.
184
Ivi, p. 2.
57
Così come traspare dalla Historie, anche la vita di Casanova raccontata da
Fellini appare come un’esistenza vana, priva di significato, un vuoto che, a detta dello
stesso regista riminese, il suo protagonista tentava disperatamente di colmare in ogni
modo; a tale proposito Fellini disse di essersi «aggrappato a questa “vertigine da
vuoto” suscitata dalla lettura dell’Histoire, come all’unico punto di riferimento per
raccontare Casanova e la sua inesistente vita» 185. È anche vero, tuttavia, che operando
una riduzione delle memorie, la trasposizione felliniana tese a ridimensionarne la
portata, rendendo estremamente difficile afferrare la straordinarietà, o comunque
l’eccezionalità, della vita dell’avventuriero veneziano186.
La scelta di Fellini e Zapponi di inserire un’ultima sequenza, completamente
assente nella versione originale delle memorie, contrastò, di fatto, con la struttura
stessa dell’opera casanoviana, ma permise al regista di mostrare un protagonista ormai
appesantito dagli anni e irrimediabilmente lontano dai fasti di un tempo, anzi la figura
che restituisce lo schermo è quella di un perdente, un vecchio che deve sopportare le
angherie dei servi e del suo presunto mecenate. Il Casanova felliniano, ormai, vive in
un mondo di ricordi, scollato dalla realtà, vittima egli stesso della fama che lo ha
preceduto «Sono un celebre scrittore italiano. Conoscerete il mio nome, certamente.
Giacomo Casanova, da Venezia. Letterato, filosofo…» continua a ripetere come a
convincere se stesso, e tutta questa umanità perduta, questa senilità con cui
improvvisamente il protagonista (e dunque lo spettatore) è costretto a confrontarsi
rimandano del libertino veneziano un’immagine patetica e penosa.
Riferendosi a quest’ultima sequenza, lo stesso Zapponi confermò l’avvenuto
slittamento di tono, «L’avventuriero fallito ispira pietà a Fellini, è la prima volta che i
due simpatizzano: l’opera di distruzione del regista è compiuta, e ora contempla la sua
vittima quasi con rimorso»187. Nell’ultima sequenza, dunque, non si assiste solo al
declino di Casanova ma al tramonto di un’intera epoca, quando, infatti, tornato dal suo
viaggio, il barone di Waldstein lo invita alla sua cena di amici per intrattenerli
recitando l’Ariosto, il vecchio libertino si presenta agghindato in modo quasi ridicolo,
apparendo del tutto fuori luogo, «imparruccato, incipriato, veste clamorosi abiti fuori

185
F. Fellini, Fare un film, cit., p. 176.
186
G. Casanova, cit., p. 5.
187
B. Zapponi, op. cit., p. 101.
58
moda; sembra un pavone, una maschera, un patetico pagliaccio. Il belletto tenta
inutilmente di coprire lo sfacelo del volto settantenne»188.
Dopo essere stato schernito e offeso, Casanova si ritira nella sua stanza,
anch’essa espressione del suo decadimento,

ingombra di carte, di disegni arrotolati, statuette, armi arrugginite; tutto il suo


passato accumulato senza più ordine, un caos di ricordi polverosi e rosi dai
topi. Dalle pareti immagini femminili ambiguamente sorridenti lo fissano come
per un addio189.

Diversamente da quanto avviene nella Histoire, dunque, Fellini decise di


mostrare un Casanova sganciato dalla realtà e persino dalla sua stessa vita, unuomo
che, risucchiato nella sua stessa “vertigine” di vuoto, si lasciava andare a fantasticherie
che non aveva vissuto, come se neppure il ricordo della sua stessa vita potesse colmare
quell’abisso esistenziale che era stata la sua esistenza, un susseguirsi di azioni prive di
senso e di significato. Seduto nella poltrona della sua desolata stanza, Casanova
esordisce dicendo «Venezia, tornerò mai più a Venezia? L’altra notte ho fatto un
sogno».
Nel suo sogno il libertino veneziano si trova nella sua amata città, sommersa dal
ghiaccio e sferzata dalla neve e dal vento. Appare praticamente svestito, indossa solo
gli indumenti intimi che, in gioventù, esibiva nei suoi incontri amorosi, oltre a un
lungo mantello. In una delle prime scene l’uomo si accovaccia e guarda sotto il
ghiaccio dove intravede quell’enorme tesa della dea Luna(regina del carnevale) che,
nelle prime scene del film, i veneziani avevano tentato, invano (segnale di cattivo
auspicio), di issare dalle acque del Canal Grande nei giorni del Carnevale mentre un
corifeo reclamava «Vera figura, vera natura, slansada in ragi come ‘n’aurora che tut
quanti te ne inamora: aàh Venessiaaàh Regina aàh Venùsia».

Frame 5:09 e 2:24:49

188
F. Fellini, B. Zapponi, op. cit., p. 152.
189
Ivi, p. 154.
59
Fonte: Ibidem.

A detta di Don Wills, la gigantesca statua che i veneziani tentano di issare fuori
dalle acque e che poi, nella scena finale, appare nel sogno di Casanova immersa sotto
il ghiaccio, è molto di più di una dea del carnevale.

This idol s raise halfway out of the canal, snaps its supporting cables and drops
back in the water – an ill omen, suggestive perhaps of forces not so easily
harnessed. The idol appears only once more, at the end, but is echoed in the
empty fish-eye, in the figurehead from a sunken ship, in the whale-woman and
in various statuettes. […] in the aged Casanova’s dream, with the canal frozen,
over; it begins, in other words, in heat and life and ends in cold and death190.

In una breve scena Casanova vede scendere alcune donne da una scalinata, ma
l’attenzione del giovane e spavaldo è solo per Rosalba. Una splendida carrozza d’oro
trainata da quattro cavalli avanza su quella che sembrerebbe una piazza San Marco
ghiacciata e un vecchio e una donna, da dentro, gli indicano dove si trova la sua amata.
Casanova si avvicina alla bambola meccanica che inizia, a ritmo di un dolce e
melanconico suono, a danzare. A quel punto anche il giovane libertino sembra
trasformato in un essere senza vita, e si lascia trasportare senza batter ciglio, al suon di
musica dolce e malinconica, insieme all’unica donna che ha lasciato in lui un segno, la
bambola meccanica.

190
Albert Johnson Don Willis, Review: Two Views on. Fellini’s Casanova, in “Film Quarterly”, vol. 30, n. 4,
summer 1977, pp. 26-27 (pp. 24-31).
60
Frame 2:27:10 e 2:27:21

Fonte: Ibidem.

Fellini indugia nella scena finale sull’inesistente vita di questo dongiovanni


veneziano per rimarcare ad oltranza quel vuoto vorticoso che era stata la vita di
Casanova. Nella Historie, come ebbe a sostenere lo stesso Fellini, non c’era nessuna
ideologia, nessun sentimento, nessuna passione e neppure un carattere estetico; niente
che ricordasse ciò che era stato il XVIII secolo, neppure una critica storica o
sociologia. Il regista riminese, dunque, portò sullo schermo quella totale assenza di
qualunque cosa che la vita e la lettura di Casanova gli aveva suggerito e, come
sostenne in un intervista rilasciata al Times,

[…] a funeral‐home film, devoid of emotion, only some figures that take shape
in a mas - perspectives scanned in frozen, hypnotic repetition. I desperately
grabbed hold of this ‘vertigo in a vacuum’ as my sole point of reference in
telling about Casanova and his non-existent life191.

Per la scena finale, Fellini scelse come sfondo all’incontro di Casanova con
Rosalba una Venezia congelata e le acque del Canal Grande completamente
ghiacciate. Tutto ciò che era simbolo di vita è diventato espressione di morte e
dell’incapacità del libertino veneziano di amare, nonostante le sue tante avventure

191
Paul Schwartzman, Fellini’s unlovable Casanova, in “The New York Times”, 6 febbraio 1977, p. 22
61
amorose. Mai come in questa scena finale Casanova esprime i tratti di una modernità
da venire, così indaffarato a condurre una vita frenetica ma, contemporaneamente, del
tutto allineato con se stesso, immerso in una vita mai davvero vissuta ma solo esibita e
attraversata senza lasciare traccia. Il Casanova felliniano, infatti, appare come la triste
sagoma di un individuo che tenta di colmare l’abissale vuoto della sua esistenza
inanellando una serie di amplessi occasionali che, tuttavia, non riescono a salvarlo da
una tragica fine. La sua scrittura, come sostenne Fellini, era stata il tentativo di lasciare
di sé qualcosa di positivo a fronte di una vita che non era stata altro se non che un
fallimento.

Casanova probably wrote his memoirs because he looked back on his life as a
failure. If you look at history books, he's not mentioned. If you look at other
people's memoirs, he’s not mentioned. He is mentioned only by himself. It’s as
though Casanova could not bear dying with the weight of that failure. So he
created a fantasy, and left behind a life that was a little more positive192.

La vertigine del vuoto dalla quale lo spettatore viene avviluppato nella sequenza
finale del film non riguarda, tuttavia, solo la figura di Casanova. Si tratta, infatti, della
proiezione stessa di Fellini sulla sua creatura nei confronti della quale, sia rispetto alla
figura del libertino veneziano sia al periodo nel quale visse, provò, da subito, una sorta
di repulsione della quale non fece mai mister, e, anzi, a più riprese, sostenne che fu
proprio quella sensazione quasi nauseante, che lo stesso definì come si è visto
“vertigine del vuoto”, a essere il suo punto di riferimento per raccontare Casanova e la
sua inutile vita193.
La sua mai celata avversione nei confronti del personaggio, portò Fellini, che
nel corso del film lo mostrò come una marionetta del sesso, a scegliere, alla fine, di
congelarlo definitivamente come se fosse la statuina di un carillon. Nell’ultima scena,
che ha in sé qualcosa di patetico, triste ma anche struggente, Fellini raccontò di un
uomo che, alla fine, aveva trovato chi lo completava, un essere, come lui, imperfetto,

192
Ibidem.
193
Gary Arnold, Fellini’s Casanova: Bed and Bored, in “The Washington Post”, 11 febbraio 1977.
62
nel quale, essendo niente di più che un sorprendente congegno, prevalevano al suo
interno più i “vuoti” e le parti meccaniche.
Nella scena finale, quindi, si vedono Rosalba e Casanova che danzano insieme,
cristallizzati, quasi ibernati. Tutto invita a pensare che si tratti di un’immagine
riassuntiva nella quale Fellini sintetizzò visivamente tutto il suo disappunto nei
confronti di una vita consacrata all’amore carnale, priva di erotismo, di vera passione e
soprattutto di amore.

63
CONCLUSIONI

Nella sua vita, Giacomo Casanova, era stato un avventuriero che aveva
viaggiato per tutta Europa entrando in contatto con alcuni dei personaggi più illustri
della sua epoca e che si era trovato spesso in situazioni che gli erano costati periodi di
carcere. Scrittore e libertino, Casanova frequentò i salotti più esclusivi delle corti
europee nel periodo in cui la Rivoluzione Francese aveva ridisegnato la geopolitica del
Vecchio Continente. Per alcuni il periodo in cui visse l’avventuriero veneziano
coincise con il periodo della crisi della coscienza europeo, che aveva cominciato a
manifestarsi verso la fine del XVII secolo, quando liberi pensatori e libertini avevano
cominciato a mescolare idee tratte da Epicuro, soprattutto quelle relative alla ricerca
del piacere, con un ateismo crescente che aveva preso a declinarsi in una
contrapposizione alle regole, alla tradizione e alle convenzioni sociali. Fu, tuttavia,
anche il periodo dello spirito geometrico cartesiano, della riflessione di Spinoza, di
Rousseau e di Voltaire, come quella degli Enciclopedisti francesi ma anche del barone
Holbach e del marchese de Sade. Il XVIII secolo fu l’epoca dei Lumi, evo in cui si
cominciò a pensare che la luce della Ragione potesse finalmente liberare l’uomo dalle
tenebre e dall’ignoranza.
Nel Casanova di Federico Fellini, tuttavia, poco o nulla restò di ciò che era
stato effettivamente Casanova e il Settecento. La pellicola felliniana, infatti, invitò lo
spettatore in un mondo bizzarro e irreale, sottomesso alle legge della finzione
cinematografica che aveva permesso al regista riminese di riproporre alcune dei suoi
leitmotiv ricorrenti, come l’amore, il sesso e la morte. Non si trova nella sceneggiatura
di Fellini e Zapponi, così come nella realizzazione scenica, niente che faccia pensare a
una ricostruzione storica propriamente detta, né tantomeno al desiderio di portare sul
grande schermo le gesta del libertino veneziano secondo una qualche aderenza alla sua
biografia.Fellini non nascose mai la sua repulsione verso Casanova e neppure il poco
interesse nei confronti dell’epoca nella quale visse e della quale fornì solo qualche

64
scarno accenno, utilizzando il Settecento più come sfondo o decoro che come
momento storico.
Nel tentativo, allora, di capire per quale motivo il regista riminese profuse tanti
sforzi e sopportò tante difficoltà, che gli si presentarono nel corso della produzione,
per realizzare un soggetto che, neppure tanto larvatamente, lo disgustava e lo irritava,
bisognerebbe, forse osservare con attenzione la sequenza finale del film, il momento
che meglio di tutti gli altri sintetizza ed esprime il desiderio del regista di realizzare
una pellicola sul ‘vuoto’, l’intenzione di raccontare quel ‘vuoto’ che si celava dietro lo
sguardo di un magistrale Sutherland il quale «esprime bene l’idea di un Casanova
incapace di conoscere il valore delle cose e che esiste soltanto nelle immagini di sé
riflesse nelle varie circostanze»194.
Ciò che realizzò Fellini fu un’operazione di dissacrazione e di straniamento del
personaggio storico, catapultando il Casanova storico in una dimensione di estrema
vaghezza costantemente in bilico tra la realtà e il sogno che per il suo protagonista,
però, si trasforma, alla fine, in un incubo del quale, forse, non è neppure
consapevole195. È evidente, quindi, che il personaggio portato sul grande schermo dal
regista riminese non vada letto solo in chiave fantastica ma anche metaforica perché,
attraverso Casanova, Fellini raccontò di un uomo contemporaneo incapace di una vera
vita ma vittima di «uno smemoramento da profondità marina»196.
Il personaggio felliniano, infatti, passa da un piacere all’altro senza alcuna
consapevolezza e, al pari di Rosalba, è un uomo meccanico, che reitera gesti e
sentimenti apparentemente in modo incosciente. Nella pellicola, tuttavia, non mancano
momenti, seppure fuggevoli, in cui Fellini sembra regalargli un qualche guizzo di reale
sentimento come, ad esempio, quando lascia trasparire dal personaggio una qualche
sofferenza per la perdita di Enrichetta e per il desiderio di una vita con Isabella. Si
tratta, tuttavia, di attimi che il regista smentisce subito dopo quando permette che
Casanova si lasci andare all’ennesimo amplesso caotico, bizzarro e ridicolo a
dimostrazione della sua incapacità di imparare dai propri errori, imprigionato tra
piacere e dolore, amore e morte.

194
G. Angelucci, L. Betti (a cura di), op. cit., p. 32.
195
Gian Luigi Rondi, Il Casanova di Federico Fellini, in “Il Tempo”, 11 dicembre 1976, p. 73.
196
G. Angelucci, L. Betti, op. cit., p. 34.
65
Casanova, in sostanza, è il riflesso dell’epoca in cui visse, un uomo in declino,
l’immagine goffa di un seduttore che scambiò il sesso per erotismo, incapace di un
pensiero profondo e vittima della stessa fama che aveva concorso a creare che lo
voleva per sempre giovane, bello, aitante, seduttivo mentre altro non era che una figura
patetica e tragica un «burattino che guarda il mondo con occhi di pietra»197.

197
G. L. Rondi, op. cit., p. 73.
66
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