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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

SEDE DI BRESCIA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE

LA RAPPRESENTAZIONE DELLA FAMIGLIA NEL CINEMA ITALIANO


DEGLI ANNI TRENTA

Relatore:
Ch.mo Prof. RAFFAELE DE BERTI

Tesi di laurea di:


MARCO SBICEGO

MATRICOLA N°2305869

ANNO ACCADEMICO 1999/2000


Indice

Introduzione .............................................................................................. 5

Capitolo 1.
La famiglia italiana negli anni '30: intervento e influenza del regime. .. 13
1.1 Il regime, la tradizione: un sistema integrato................................ 13
1.2 La stabilità della tradizione, i mutamenti dell'età fascista:
un'analisi diacronica tra varianza ed invarianza. ................................. 17
1.3 La famiglia nella prassi filmica tra tradizione e innovazione....... 19

Capitolo 2.
Modelli familiari e generi cinematografici. ............................................ 23
2.1 Il sistema dei generi ...................................................................... 23
2.2 Stereotipi diversi per storie diverse .............................................. 32
2.3 Il qui e l'altrove ............................................................................. 42

Capitolo 3.
Cinema di famiglia, cinema di donne?.................................................... 48
3.1 Protagonisti e spettatori ................................................................ 48
3.2 Il nucleo familiare: chi sotto i riflettori?....................................... 54
3.2.1 La donna protagonista............................................................ 59
3.2.2 L'uomo: oggetto del desiderio e archetipo paterno................ 75
3.2.3 I grandi assenti: bambini e ragazzi ........................................ 83
3.2.4 Il ruolo degli anziani .............................................................. 90

3
Capitolo 4.
La famiglia tradizionale e la sua immagine immutabile....................... 102
4.1 L'invarianza della rappresentazione: un fascismo passivo ......... 102
4.2 Donne, uomini e stereotipi ottocenteschi.................................... 106
4.3 Oltre un decennio, anzi due, e nulla è cambiato ......................... 114

Capitolo 5.
La famiglia nel cinema dal 1930 al 1943: un'analisi diacronica........... 121
5.1 l'Italia, il regime, la famiglia: una linea di mutamenti................ 121
5.2 Movimenti già in atto: gli anni '20 e gli esordi del fascismo ..... 125
5.3 1930-1936: la fase del consenso tra stereotipi vecchi e nuovi ... 130
5.3.1 Contadine, provinciali e nuove Cenerentole....................... 136
5.4 1936-1940: i cambiamenti nella società e nella cinematografia
italiana................................................................................................ 140
5.4.1 Il triennio chiave del regime: gli eventi 1936-38................. 141
5.4.2 Telefoni bianchi, rinuncia alla propaganda ed altre novità . 146
5.5 1940-1944: la tragedia della guerra e la strada verso "Ossessione".
La famiglia distrutta, la famiglia mancata. ........................................ 156
5.5.1 Disfatta bellica e disfatta familiare: l' "impossibilità di
famiglia" ......................................................................................... 161

Conclusioni............................................................................................ 172

Bibliografia............................................................................................ 177

Filmografia ............................................................................................ 180

Immagini

4
Introduzione

Il cinema italiano degli anni Trenta, o, per essere più corretti, il cinema
italiano dal 1930 al 1943, cioè il cinema sonoro del periodo fascista,
gode da ormai venticinque anni di una ritrovata attenzione critica. Il
primo passo verso una rilettura, sentita ormai come necessaria, di quel
cinema si situa proprio a cavallo fra 1974 e 1976, con le fondamentali
iniziative della Mostra del nuovo Cinema, i convegni di Pesaro e di
Ancona con le relative retrospettive e pubblicazioni.
È in quelle occasioni, e da allora in poi, che si comincia a parlare forse
per la prima volta del cinema dell'età fascista in un modo nuovo,
finalmente libero da pregiudiziali ideologiche legate al ricordo della
dittatura, che avevano portato per decenni ad una sostanziale rimozione
in blocco di questa fase della nostra cinematografia. Il mutamento è
netto, ed è dovuto fondamentalmente ad una semplice questione
generazionale: a trent'anni dalla fine di quell'epoca maturano i tempi per
l'entrata in scena di una nuova generazione di critici, quella che non ebbe
modo di vivere durante il regime e che, quindi, ne affronta il cinema
senza essere condizionata da remore di memoria storica ; passati inoltre
gli anni di pressante forzatura ideologica diffusa che coincisero con i
movimenti del 1968, anche l'ostacolo di una lettura "politica" obbligata
sono finalmente rimossi.
La nuova vitalità che ne deriva per gli studi su questo cinema ha prodotto
importanti risultati e continua, con fortuna pressochè costante, fino ad
oggi. Se il cinema dell'età fascista ancora attira tanto gli studiosi è forse
perché sufficientemente lontano da garantire una sicura distanza critica,
forse perché per la sua stessa struttura ordinata si presta meglio di altri
all'esame, forse proprio perché tanto a lungo rimosso, forse infine

5
perché, semplicemente, più lo si è in questi anni analizzato e più si è
visto che ancora molti spazi di ricerca ed anche molte sorprese poteva
rivelare.
Anche questa tesi, nel suo piccolo, nasce da questo stesso pensiero: che
nonostante l'ormai straripante mole di lavori pubblicati su questo cinema
ci sia ancora spazio per una ricognizione che sia in grado di portare a
risultati non banali, ed anzi che possa evidenziare elementi anche poco
notati e talora anche insospettati. Un'analisi, dunque, che di necessità
deve potere, quando ne sospetti l'utilità, indugiare anche minuziosamente
su un singolo aspetto, e soprattutto su un singolo testo filmico. È stata
questa infatti la prima linea-guida che mi sono imposto di seguire nel
dedicarmi a questa ricerca: l'attenzione ai film doveva, piuttosto che
limitarsi ad un livello medio di citazione quantitativamente vasta ma di
superficie, saper accantonare quando era il caso l'oggetto-film per
qualche istante, ma porre il testo filmico stesso al centro assoluto ed
imprescindibile dell'analisi ogni qual volta il discorso giungesse ad un
punto centrale, ad una acquisizione. Il rispetto sommo dovuto ai lavori di
chi prima e meglio di noi ha studiato e scritto sul cinema è sacro, ma
quando i testi primi, cioè i film, sono disponibili e fanno la loro
comparsa in scena, sono fermamente convinto che ad essi si debba
lasciare il primo piano. Tanto più che, al livello dell'analisi testuale, la
grande maggioranza di questa produzione non è stata studiata o lo è stata
superficialmente: si può dire che il 90% delle pagine scritte sul cinema
del fascismo si occupi, in realtà, di neppure il 10% dei film del periodo
fascista.
Questo argomento porta anche ad un'altra delle questioni tipiche circa
questo cinema, ovvero l'inestricabile problema della visibilità e del
reperimento dei film: uno scoglio contro il quale si scontra chiunque si

6
accinga ad intraprendere degli studi di una qualche serietà. Degli oltre
settecento film prodotti in Italia fra il 1930 e il 1943 (ma anche il
semplice numero è quantomai incerto) quelli che sono sopravvissuti fino
a noi sono approssimativamente poco più di duecento; ma da questo a
poter pensare che essi siano tutti accessibili e visibili passa un'enorme
differenza. Quasi nulla è cambiato, nonostante il moltiplicarsi ed anche
un moderato aprirsi degli archivi e delle cineteche, da quando nel 1975
Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti, riuniti sotto il nome di "Gruppo
Cinegramma, scrivevano: "Le difficoltà materiali di accesso […]
l'irritazione e la frustrazione che accompagnano in Italia queste ricerche
[…] impediscono per lo più di considerare nella giusta prospettiva
storica l'esistenza residua dei film" 1 . A venire almeno in parte in
soccorso al ricercatore sono giunti nel frattempo l'home video e la
televisione, che ogni tanto ripesca del fondo dei suoi archivi uno di
questi film e lo trasmette in orari improbabili: è tramite questi mezzi che
sono riuscito, nel corso di qualche anno, a visionare e raccogliere un
numero comunque ristretto di titoli dell'epoca, agevolmente analizzabili
grazie alla praticità del supporto su videocassetta. Resta il fatto che, in
una produzione 1930-43 già pesantemente mutila, anche tra i film
superstiti una larga parte rimane di accesso difficilissimo o impossibile.
Per questa nostra tesi i film che abbiamo avuto modo di visionare ed
analizzare integralmente in modo adeguato sono stati all'incirca una
cinquantina. L'ineludibile necessità di sopperire alla ridotta proporzione
del campione visibile conduce ad affidarsi allo spoglio delle riviste
cinematografiche coeve (ma anche a quotidiani e periodici non di settore,
specialmente per quanto riguarda le recensioni), prime fra tutte Bianco e

1
Gruppo Cinegramma (F. Casetti, A. Farassino, A. Grasso, T. Sanguinetti), Neorealismo e cinema
italiano degli anni trenta, in L. Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano,
Marsilio, Venezia, 1975, p. 341

7
nero e Cinema, fonti essenziali per ricostruire il panorama di tanto
cinema che non è più, per noi, recuperabile per via diretta. Alla visione
delle pellicole si è dunque alternata la lettura e lo spoglio in archivi e
biblioteche, tra i quali mi permetto di citare, tralasciando le note strutture
maggiori, l'archivio della Fondazione Micheletti di Brescia, ricco benchè
ancorra bisognoso di sistemazione, che ha mostrato grande disponibilità
verso le mie ricerche.
Reso il quadro delle fonti, è il momento di spendere ancora due parole
introduttive su questa mia tesi, per indicare almeno quali siano stati i
metodi seguiti (e quindi anche gli strumenti di analisi) e quali gli intenti
ed obbiettivi. La prima questione, particolarmente, è stata piuttosto
complessa: mancavano infatti punti di riferimento precisi che facessero
da guida in un'analisi che, fin dal principio, ho voluto condurre non su un
doppio binario che facesse scorrere parallelamente, ma quindi senza farle
sostanzialmente incontrare, la prospettiva propriamente storica legata al
dipanarsi degli eventi del periodo fascista, quella sociologica che
verificasse gli effetti della prima sui costumi e sui mutamenti della
società e particolarmente della famiglia in Italia, ed infine quella
principale, la prospettiva strettamente cinematografica, che doveva
essere scandagliata per vedere se, come, in che misura ed in quale modo
le costanti ed i cambiamenti storici e sociologici del periodo fascista si
riflettessero nella rappresentazione che della famiglia il cinema aveva
creato.
Vi erano passaggi che presentavano scarse o nulle difficoltà
metodologiche, come quello sugli stereotipi dei generi cinematografici,
questione che è stata ormai ampiamente dibattuta ed assorbita, o come
quello relativo alla suddivisione dell'attenzione fra i diversi membri del
sistema familiare, nel quale la scelta di scomporre dapprima

8
elementarmente l'insieme in base alle componenti di sesso e d'età, per
poi analizzare le figure emerse in base al loro ruolo relazionale con le
altre figure del sistema familiare, è stata dettata semplicemente dalla più
immediata ed intuitiva logica. Dove invece il discorso sulle strutture si
faceva più arduo, come nei due capitoli su invarianza del modello
tradizionale e diacronia del modello modernista, è stato necessario talora
cooptare definizioni e categorie da altri campi, ed in alcuni casi,
avanzando nell'analisi verso le conclusioni più originali del lavoro, anche
utilizzare strumenti inconsueti e coniare definizioni nuove ad hoc. Con
tutto ciò, c'è almeno un testo ormai classico che è stato essenziale per
questa ricerca, dal quale proviene molto della struttura ed anche
dell'indirizzo del presente lavoro, oltre a strumenti e definizioni
essenziali, come quelle, centrali, di ideologia e mentalità, che pure ho
applicato con un minimo di libertà: si tratta della Sociologia del cinema
di Pierre Sorlin2 , testo il cui apporto, a dispetto dell'esiguità di citazioni
dirette che ne ho fatto, segue costantemente le pagine di questa tesi,
sorvegliandola senza farsi troppo notare.
Più in generale, è stato fondamentale, nella comprensione degli stereotipi
operanti nei film, un lavoro di adattamento: di fronte alla estrema
carenza di testi propriamente cinematografici sull'argomento si rendeva
infatti necessario tentare un'operazione di cooptazione di modelli propri
di altre discipline; una delle sfide che questa tesi ha comportato è stata
dunque quella di applicare all'analisi del cinema degli anni Trenta
schemi e metodi provenienti dagli studi compiuti su quel periodo in
ambiti diversi, in primo luogo naturalmente la storia e la sociologia. Il

2
P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979 (trad. di: Sociologie du cinéma, Ed. Aubier
Montaigne, Paris 1977)

9
riflesso di questa operazione di traduzione interdisciplinare è evidente
soprattutto nelle parti riguardanti la figura della donna.
Fin qui il "come" del presente lavoro; quanto, infine, al "perché", mi
preme sottolineare un punto in particolare. Il cinema italiano del periodo
fascista si offre allo studioso, come detto, con un problema di carenza di
testi filmici ma anche con il pregio di presentarsi con strutture
superficiali immediate e riconoscibili, e questo ne agevola lo studio,
specialmente quando lo si affronta prendendo in esame un ambito
particolare, come per esempio un ambiente o l'opera di un regista o,
soprrattutto, un genere. Quello che risulta assai più complesso, e che in
definitiva manca al panorama degli studi su questo periodo, nonostante
qualche sporadico tentativo dagli esiti opinabili 3 , è un discorso di ampio
respiro che sappia porre in relazione la cinematografia con il contesto
storico e sociale, e sappia evidenziare i reciproci influssi. Un compito
arduo e oneroso, di enorme impegno sia per mole che per l'enorme
livello di acquisizione teorica che comporta; e non sarebbe stato certo
proponibile lanciare la nostra piccola barca in tanto grande ed agitato
mare. Si poneva, realisticamente, la necessità operativa di concentrare
l'attenzione su un ambito delimitato e delimitabile; ma, allo stesso
tempo, c'era da parte mia la volontà di non limitarmi ad un ristretto
lavoro di cernita tematica, ma di poter comunque mettere in opera, sia
pure solo su una parzializzazione del complesso della cinematografia di
quel periodo, una serie di metodi ed ancor più di intuizioni che avevo
cominciato ad elaborare già in precedenza, durante il mio corso di studi:

3
Mi riferisco in particolare allo studio di James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy, Indiana
University Press, Bloomington and Indianapolis 1987. Nonostante la discreta fortuna che ha riscosso,
personalmente ritengo che una certa superficialità, una mancanza di unità ed una tendenza al
"meccanicismo" tipica di molta scuola statunitense ridimensionino di molto questo testo, che mi pare
più da annoverarsi nella categoria delle "buone intenzioni" che delle pietre miliari, e che dovrebbe
essere tuttalpiù un punto di partenza da tenersi presente per cercare, com'è auspicabile, di giungere
finalmente a uno studio davvero valido sui rapporti fra cinema, società e regime nel periodo fascista.

10
metodi ed intuizioni che potessero essere, se fattibile, applicati ad un
caso il più rappresentativo possibile per verificarne l'eventuale
adeguatezza anche ad un loro utilizzo futuro indirizzato finalmente
all'insieme complessivo (e complesso, se mi si consente il gioco di
parole) della cinematografia del periodo fascista.
La condizione necessaria per giungere a questo era dunque
l'individuazione di un "tema", di una porzione coerente di quel cinema,
tale che fosse sufficientemente ampia e rappresentativa da garantire una
larghezza di movimento alla ricerca ed insieme una esemplarità che
garantisse al massimo l'estensibilità finale di un'analisi che fosse in grado
di uscire dall'angusto spazio della ricerca "di settore" per giungere a
conclusioni accettabili anche come complessive. Il tutto senza
dimenticare che la scelta doveva tener conto della limitatissima
disponibilità dei testi filmici, che ai nostri fini erano essenziali ed anche
nella massima quantità possibile.
Da ciò la scelta del tema della famiglia: è infatti apparso subito lampante
come, in quel cinema, non solo l'immagine della famiglia e dei rapporti
familiari fosse talmente diffusa da non mancare, con maggiore o minore
rilievo, in quasi nessuno dei film di tutta la produzione, ma anche come,
attraverso la rappresentazione di quella struttura sociale fondamentale
che la famiglia era nell'Italia di allora, il cinema finisse con il
rappresentare di fatto uno spaccato pressochè integrale della società
presente, con una rappresentatività elevatissima rispetto al totale del
sistema in questione, quello cioè comprensivo non solo strettamente del
cinema ma anche dei suoi rapporti reciproci con la storia e la sociologia.
Attraverso quella struttura primaria che è la famiglia il cinema fascista
esprime se stesso e la società che esso rappresenta in tutte le sue
tendenze e tensioni, dal rapporto con il sistema dei generi al confronto

11
fra tradizione e modernità, fra città e campagna, fra passato e presente,
fra il qui e l'altrove. Una rappresentatività che, talora, ha spinto la nostra
ricerca a spingersi brevemente anche oltre, in punti di particolare rilievo,
all'immediata tematica familiare, per mostrare brevissimamente come
qualcun'altro munito di buona volontà, dopo di noi e certo meglio di noi,
potrà dedicarsi a disegnare finalmente quel quadro generale dei rapporti
e degli schemi di tutta una cinematografia e della sua società che ancora
attende di essere realizzato.

12
Capitolo 1.

La famiglia italiana negli anni '30: intervento e influenza del regime.

1.1 Il regime, la tradizione: un sistema integrato.


Quando si getta uno sguardo all'indietro verso gli anni del regime
fascista, oggi, è pressochè inevitabile per chi quegli anni non li ha vissuti
in prima persona trovarsi di fronte ad una serie di luoghi comuni, o
quantomeno di semplificazioni, che individuano la posizione del regime
o la situazione dell'Italia dell'epoca su certi temi o fenomeni. Definizioni
sintetiche formatesi ed accampatesi saldamente nel senso comune con
l'avallo un po' lapidario della tradizione orale, che tanto ancora
contribuisce a richiamare quegli anni, ma anche della storiografia nonché
delle ricostruzioni letterarie o spettacolari che si sono affollate negli anni
a noi più vicini (dopo decenni nei quali le ferite ancora aperte nel Paese
avevano spinto ad una sostanziale rimozione). Appare dunque
generalmente come assodata l'importanza, il segno determinante lasciato
dal regime su questioni come l'agraria o il clientelismo o l'istruzione di
base. 4 Molto spesso queste analisi sono peraltro, proprio nella loro
semplicità e voluta mancanza di profondità, azzeccate nel dare un quadro
generale. Ma, in alcuni casi, questa analisi può non rendere l'esatta
immagine di un'Italia che, proprio in anni che ancor oggi costringono
talora ad una storicizzazione, per così dire, in bianco e nero, era invece
ricca di sfumature e chiaroscuri come forse non mai; un paese che fu

4
Tra gli innumerevoli testi di respiro generale sulla storia dell'Italia del periodo fascista si è fatto
riferimento per questo lavoro particolarmente a: G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia.,
vol. IV, Guerra e fascismo 1914 - 1943, Laterza, Bari, 1997; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto,
Manuale di storia. 3. L'età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992.

13
soggetto, o più propriamente direi oggetto, di quella che Gian Piero
Brunetta ha definito, con felice espressione, fascistizzazione imperfetta 5 .
I dettami del regime, più che sovrapporsi, si affiancarono, o addirittura si
adeguarono alle realtà di un'Italia profondamente legata alle sue
tradizioni e restia ai mutamenti. E quanto più un costume era radicato
nella mentalità, tanto più il fascismo dovette adattare i propri canoni,
scendere a compromessi, o rassegnarsi a lasciare che i suoi proclami
restassero tali, isolati dal paese reale; così fu frequente, nel ventennio,
che il costume sociale italiano e la costruzione ideologica del fascismo si
plasmassero vicendevolmente o si accettassero a vicenda in varia misura
e in modo variabile, con importanti cambiamenti di questo mutevole
rapporto anche nel corso stesso dei vent'anni della dittatura. 6 È il caso,
tra l'altro, di uno dei settori della società e della morale sul quale si
ritiene comunemente che il Fascismo abbia più insistito e più inciso: il
sistema familiare.
La politica del regime nei confronti della famiglia fu sempre
caratterizzata, questo è certo, da un forte intervento a favore delle
famiglie numerose e, in generale, dell'incremento della natalità. Questo
ovviamente sottintende una "naturale" visione della donna nell'esclusiva
prospettiva di moglie e madre, anzi, secondo la nota formula
mussoliniana, "sposa e madre esemplare" 7 . Parallelamente, grande
importanza ebbero le organizzazioni infantili e giovanili. Il regime

5
Cfr. G. P. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1991
6
Non è ad esempio una novità, ed anche noi avremo modo più avanti di entrare diffusamente
nell'argomento, che la storiografia individui una frattura determinante nel rapporto fra il regime ed il
paese reale negli anni dell'avvicinamento al nazismo, e particolarmente nel 1938 segnato dalle leggi
razziali. Ma anche in altri momenti del ventennio si potrebbero individuare picchi e valli nell'ondivago
consenso che legò gli italiani al regime; un consenso che, è bene ricordarlo, non fu mai neppure
paragonabile a quello che il nazismo ebbe in Germania, sia per profondità che per convinzione.
7
P. Meldini, Sposa e madre esemplare, Guaraldi, Firenze, 1975.

14
fascista volle, per tutta la sua epoca, ergersi a difensore, protettore ed
angelo custode della famiglia, cuore sano e sacro della società italica. 8
Eppure, nonostante tutto ciò, è bene andare estremamente cauti nel
cercare di istituire il parallelismo "famiglia fascista uguale famiglia
italiana e viceversa". La realtà ci pare essere piuttosto diversa, simile
semmai ad un sistema integrato, nel quale i due parametri, la famiglia
reale come ereditata dalla tradizione e quella voluta e indicata a modello
dal regime, si avvicinano per gradi correndo perlopiù su due binari:
paralleli, vicini, molto simili e mai in conflitto, ma non coincidenti, né
realmente interessati ad esserlo.
È rilevante - e da qui il nostro interesse per la questione - notare come
questa non-convergenza risalti in un modo assai particolare dall'analisi
delle opere cinematografiche dell'epoca, mentre meno agevole potrebbe
risultare notarla attraverso lo studio di altre fonti, comprese le fonti
dirette che certo non mancano. Peculiare del cinema di quel periodo è
infatti presentare, almeno a certe condizioni ed una volta raschiata la
patina della rappresentazione di genere 9 , un'immagine duplice: sia gli
echi dell'Italia così com'era realmente, sia un'immagine dell'Italia così
come il regime la voleva. Un dualismo di prospettiva che è caratteristico,
nel periodo di cui parliamo, dei mezzi di comunicazione e di spettacolo
di massa, e particolarmente del cinema, proprio perché su questi si
concentrò un'attenzione particolare da parte del regime, che non trovò
mai, dietro ai proclami mussoliniani che ne facevano "l'arma più forte",

8
Senza addentrarci nell'argomento, segnaliamo solo come esemplare il famoso "Premio Mussolini",
che gratificava le famiglie più prolifiche con un contributo in danaro o più spesso con un pacco dono
di prodotti vari.
9
Mi riferisco qui al concetto di genere nel senso propriamente cinematografico, piuttosto che parlare
genericamente di trama o fabulazione o fiction, con diretto riferimento al fondamentale saggio di
Casetti, Farassino, Grasso e Sanguinetti nel quale si mostra come l'articolazione in generi sia
l'elemento centrale del cinema d'epoca fascista. F. Casetti, A. Farassino, A. Grasso, T. Sanguinetti,
Neorealismo e cinema italiano degli anni trenta, in L. Miccichè (a cura di), Il neorealismo

15
una direzione univoca, una mano decisa che imponesse alla
cinematografia con fermezza di operare secondo direttive di regime. Vi
fu semmai una censura più spesso fastidiosa, iperzelante, arruffona e
lunatica che finiva spesso con lo sforbiciare metri di pellicola del tutto
innocenti per voler essere più realista del re, salvo poi farsi scivolare fra
le dita, magari, interi film non altrettanto innocui 10 .
Contrariamente a settori della cultura che furono strettamente
fascistizzati (come la stampa o l'educazione), dunque, il cinema conservò
sempre una maggiore libertà d'azione, all'interno della quale registi e
sceneggiatori avevano modo (sempre ammesso che ciò fosse nelle loro
corde naturalmente) di dipingere squarci non trascurabili di realtà
italiana, anche non edificante, magari accomodati dietro improbabili
intrecci romanzeschi, canzonette e l'immancabile lieto fine. La
descrizione della famiglia nel cinema del periodo fascista scorre così,
dietro il velo dell'assoluta mancanza di realismo e di plausibilità delle
commedie bianche o ungheresi o di film consimili quanto a tasso di
irrealtà, lungo binari esili, fatti di accenni, di allusioni, eppure ben
rintracciabili agli occhi del critico odierno.
Emerge così l'idea che, come nella società, così anche nel cinema si
svolgano due discorsi prossimi e paralleli sul mondo familiare: quello
della tradizione socioculturale italica, e quello della politica sociale
fascista. Due discorsi che parlano, in realtà, linguaggi molto simili, ma
che divergono in un elemento assolutamente fondamentale: l'uno è

cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1975, pp. 331-385. Del concetto di generi e della loro
sistemazione in epoca fascista si tratterà più a fondo nel capitolo successivo, al quale rimandiamo.
10
Le vicende della censura cinematografica nel Ventennio esulano dall'argomento che stiamo
trattando, ma casi ed aneddoti riportati dai protagonisti di tali vicende sono numerosi; basti citare il
racconto di Visconti, confermato da Giuseppe De Santis, secondo il quale, dopo che le prime
proiezioni di Ossessione (regolarmente visionato e autorizzato dalla censura) avevano scatenato una
feroce polemica, Mussolini stesso volle vedere personalmente il film a Villa Torlonia, e dopo la
visione disse "No, è meglio lasciarlo circolare". Cfr. M. Argentieri, Il cinema in guerra, Editori
Riuniti, Roma, 1998, p. 281.

16
stabile attraverso il tempo, l'altro è invece in mutamento, e fattore di
mutamento egli stesso.

1.2 La stabilità della tradizione, i mutamenti dell'età fascista:


un'analisi diacronica tra varianza ed invarianza.
Vi è dunque, almeno sotto un aspetto, un divario significativo tra
l'immagine della famiglia che gli italiani ereditano dal costume
tradizionale e quella che il regime cerca di proporre. La prima è fissa nel
tempo, sia relativamente all'ambito del ventennio fascista sia in senso più
estensivo prima e dopo di esso (si tratta di un sistema tradizionale
sostanzialmente inalterato quantomeno fin dal secolo precedente, e
destinato peraltro a resistere spesso pervicacemente alla
modernizzazione anche dopo il periodo fascista e nel secondo
dopoguerra). La seconda è invece mutevole, secondo la stessa dinamica
di un rinnovamento ed una variabilità tanto rispetto al periodo prefascista
quanto all'interno dello stesso ventennio fascista 11 . Di più, potremmo
dire che di un'unica equazione familiare il costume tradizionale
rappresenta la cifra fissa, mentre l'intervento del regime rappresenta la
variabile, il fattore che muta il risultato finale.
Il paragone è però complicato dal fatto che l'interazione fra i due fattori è
reciproca: le stesse direttive e linee di intervento del regime, infatti,
devono in continuazione piegarsi e adattarsi a usi tradizionali resi
inamovibili come macigni da un'inerzia secolare. Anche l'idea di uno
studio del cinema del periodo fascista e della sua rappresentazione della
famiglia che si concentri sul solo influsso della politica del regime sul

11
Che il regime abbia non solo mutato più volte pelle nel corso del ventennio ma anche espresso al
suo interno divergenze importanti su questioni sociali e politiche di assoluto rilievo è cosa nota, ed
esula dagli scopi di questo lavoro dilungarsi sull'argomento; citiamo qui, come esempio e solo in
quanto pertinente e come anticipazione di ciò che diremo nel capitolo successivo, l'aspro scontro
dialettico tra i bottaiani e i loro oppositori sulla questione del lavoro femminile.

17
costume finisce così per apparire non del tutto completa. Ci pare quindi
che il metodo più valido, per poter esaminare nel modo più comprensivo
possibile l'immagine familiare nei film di allora, sia necessariamente
tenuto a prendere atto del dualismo tra l'invarianza della tradizione e la
progressività dell'ideologia di regime; e, di conseguenza, a procedere
analizzando i due elementi separatamente, proprio per poter meglio
mettere in luce sia i momenti nei quali l'uno influisce sull'altro, sia il loro
procedere per vie distinte, ognuno nucleo e fulcro del suo moto o del suo
stato, ognuno eccentrico all'altro. Da un lato si esamineranno, nei film
del periodo di cui parliamo, la rappresentazione della scena familiare
dell'Italia anni Trenta nei suoi elementi invarianti, evidenziandone la
continuità temporale sia interna che esterna all'arco temporale in esame;
dall'altro, e con qualche attenzione anche maggiore giacchè pare questo
il lato ad oggi meno analizzato della questione, si analizzerà lo svolgersi
diacronico dei modi di rappresentazione della famiglia sullo schermo, le
sue variazioni dal 1930 al 1943 (con qualche breve escursione, di
necessità ed a fini di chiarezza del quadro complessivo, negli anni
immediatamente precedenti e successivi), le cause e conseguenze di tali
variazioni sia nel paese che, più strettamente, nel cinema italiano. In
questo modo, crediamo, sarà più evidente l'individuazione sia di quei
tratti della scena familiare che i film degli anni Trenta ci trasmettono
immutati fino alla fine della parabola del regime, sia di quei tratti che
viceversa attraversano con variazioni significative il cinema dell'epoca
fascista, registrando, segnalando e anticipando magari, con il loro
apparire, scomparire o accentuarsi sullo schermo, momenti nodali
dell'evoluzione non solo della famiglia, ma tout court della società
italiana. Perché, come vedremo, per il cinema del periodo fascista il tema
della famiglia pare essere tanto profondamente coeso in un tutt'uno con

18
la realtà da poter ben figurare, nelle mani di autori di differenti capacità e
inclinazioni, tanto come canovaccio universale per intrecci insignificanti,
quanto, ed è di questo soprattutto che ci occuperemo, come specchio
dell'intera vita del paese, a volte sotto le vesti della sola
rappresentazione, a volte come metafora, a volte infine, specialmente
negli ultimissimi anni, come vero cavallo di Troia per l'introduzione
sugli schermi di un'aria nuova, sia sotto il profilo sociale e politico che
sotto quello prettamente filmico di un inedito sentore di realismo
montante.

1.3 La famiglia nella prassi filmica tra tradizione e innovazione.


Va in scena la famiglia dunque, ma anche l'Italia tutta; infatti, a voler
ben vedere, tutto il cinema italiano di quell'epoca parla in qualche modo
di famiglia, ed anzi non è azzardato dire che, in modi diversi a seconda
del genere a cui appartiene un film, lo scenario dei rapporti familiari sia
lo sfondo irrinunciabile sul quale agiscono i personaggi in pressochè tutti
i film del periodo. Anche pellicole che apparentemente ne rifuggono,
riescono infine a far rientrare dalla finestra ciò che hanno cacciato dalla
porta. Si pensi, per far solo un esempio, a Uomini sul fondo (1941) di
Francesco De Robertis 12 .Un film girato da un ufficiale di marina al suo
esordio cinematografico, progettato e costruito come documentario,
documentario drammatizzato però abbastanza da competere per
spettacolarità con i film drammatici ed avventurosi ed attirare così il
grande pubblico. Pur nell'apparente documentarismo dell'approccio e

12
Nei titoli di testa o di coda non compare affatto il nome di De Robertis ma, come in altri casi
analoghi, gli si sostituisce come "ideatore e direttore" del film il Centro Cinematografico della Marina,
del quale il comandante faceva parte. Una pura questione di forma, visto che il film era chiaramente
un'opera di tutta paternità di De Robertis, che infatti fu autore di soggetto, sceneggiatura, regia e
montaggio. Come dichiarato anche nei titoli di testa, che sono in sostanza una lunga tirata retorica

19
nell'isolamento che, per sua natura, la vicenda dei marinai imbarcati sul
sottomarino propone, compaiono a ripetizione riferimenti alla scena
familiare: dal reincontro dei marinai con i loro cari dopo lo sbarco,
subito nei primi minuti di film, alla scena in cui un marinaio parla al
telefono con la madre e la conforta, pieno d'amor filiale. Non bisogna del
resto dimenticare che, pur segnando Uomini sul fondo il debutto di De
Robertis in campo cinematografico, il comandante di marina si era già
cimentato con buon successo e consenso di critica come drammaturgo,
con il "dramma navale" La luce sul fondo del 1932, nel quale il motivo
centrale era un intimo dramma fra due coniugi, il conflitto fra amore e
dovere in un ufficiale di marina ed in sua moglie; già i recensori
dell'epoca sottolinearono la prevalenza della componente familiare, pur
nel quadro della ben delineata rappresentazione della vita del marinaio a
bordo di una nave da guerra 13 .
Di famiglia, dunque, parla tutto il cinema di questi anni. Ma
naturalmente c'è modo e modo per farlo, ed anzi è bene chiarire subito
che un numero notevole di questi film, pur mettendo rapporti ed intrecci
familiari in bella mostra ed in primo piano all'interno della propria trama
ed economia narrativa, finiscono paradossalmente per annullarne del
tutto la valenza. È il caso, ad esempio, dei più dozzinali (e non furono
pochi) tra i film cosiddetti "dei telefoni bianchi", o ancor più delle
commedie "all'ungherese" che ne sono sostanzialmente un sottotipo. In
questi film, la cui importanza ai fini del nostro discorso avremo
comunque modo più avanti di esaminare ampiamente, l'intreccio si basa
quasi sempre su meccanismi, appunto, di tipo parentale: generalmente un
matrimonio, ostacolato o desiderato o presunto o così via, ma

della Marina, il film entrò in produzione nel 1940 prima che l'Italia entrasse nel secondo conflitto
mondiale.
13
Cfr. M. Argentieri, op. cit., p. 105.

20
frequentissime sono anche le agnizioni filiali e le eredità, ed eventuali
ulteriori complicazioni genealogiche con coinvolgimento di zii, fratelli
ed antenati vari sono ben gradite. Il fatto è che, in queste commedie (si
badi, stiamo sempre riferendoci solo alla fetta più deteriore e seriale di
tale produzione) il sistema familiare costituisce in sostanza un mero
quadro di fondo stereotipato che consenta l'azione, la quale se ne giova
per intricarsi in trame sempre più aggrovigliate, incredibili e
stupefacenti, fino all'immancabile scioglimento finale; il tutto costruito
in modo che non vi sia "nessun aggancio. […] possibile con la realtà
esterna al film, dotato di regole proprie, autonome, automatiche e
miniaturizzate. Se A ama B, vuol dire che B non è B, ma è C travestito
da B, il quale B ama A.I personaggi minori (D, E, F) fingono d'ignorare
questo schema e ne ostacolano per un'ora e mezzo l'assetto
conclusivo" 14 . Un meccanismo affabulatorio, come si vede, che per sua
natura tende ad elidere ogni riferimento e sfumatura non essenziale alla
macchina narrativa, alla stringente logica della catena di accadimenti; il
modello narrativo di riferimento, così, finisce con evidenza ad essere
estremamente prossimo a quello della favola. Se si aggiunge che questi
film hanno in comune con la favola anche la dichiarata negazione del
legame con la realtà, si capisce perché essi siano singolarmente
insignificanti ai fini dell'analisi della famiglia, nonostante di famiglie e
legami familiari essi siano zeppi. Dico singolarmente, perché la loro
importanza come gruppo, come serie è invece di assoluto rilievo, e su di
essi torneremo a ragionare a lungo quando si parlerà degli anni del loro
boom. Peraltro, il filone dei "telefoni bianchi", o più in generale delle
commedie rosa, può annoverare tra i suoi autori migliori pressochè tutti i
registi più significativi dell'epoca, chi in pianta stabile e chi come

14
F. Savio, Ma l'amore no, Sonzogno, Milano, 1975, p. VI

21
frequentatore più o meno occasionale; e proprio le commedie realizzate
da registi attenti e sensibili, come Camerini o Bonnard per citarne solo
due, sono uno dei momenti in cui il cinema del periodo fascista sa
mostrare il suo massimo in termini di realismo della rappresentazione,
offrendoci così elementi di analisi fondamentali sulla situazione dei
rapporti familiari in Italia tra gli anni Trenta e la fine della guerra;
rapporti e situazioni del mondo familiare, stavolta, tutt'altro che isolati
dalla realtà, anzi calati in essa. Intrisi di realtà, spesso, in un modo che è
difficile pensare gradito al regime, che preferiva certo che gli italiani,
stretti fra razionamento, guerra e dittatura, spalancassero occhi sognanti
di fronte ai principeschi palazzi e castelli di un'Ungheria da romanzo e
alle dozzine di eleganti vestiti che la diva di turno sfoggiava in un'ora e
mezza di film, piuttosto che pensare alle loro scarpe con le suole di
cartone e alle case colpite dalle bombe.

22
Capitolo 2.

Modelli familiari e generi cinematografici.

2.1 Il sistema dei generi


Un'analisi della produzione cinematografica italiana negli anni '30 non
può non tenere in considerazione la questione dei generi, a prescindere
da quale sia il settore di analisi specifico, la famiglia o altri. A rendere
imprescindibile tale questione è, innanzi tutto, il fatto che il cinema
americano in questi anni assume definitivamente la posizione di
cinematografia dominante a livello mondiale grazie soprattutto alla sua
razionalizzazione produttiva, basata essenzialmente proprio sulla
codifica ed applicazione di quel sistema di generi che da allora saranno
definiti "classici".
In un cinema che, come quello italiano, usciva dal più nero dei periodi di
crisi, il modello americano non poteva non trovare terreno fertile,
almeno sul piano delle intenzioni. Luigi Freddi, a lungo deus ex machina
della cinematografia italiana, aveva ad esempio riportato dalla sua visita
ad Hollywood di qualche anno prima 15 una viva ammirazione ed il
progetto di riformare la cinematografia italiana sulla falsariga di quella
americana; progetto che vedrà la sua realizzazione più compiuta in
quella "Hollywood italiana sulle rive del Tevere" 16 che sarà Cinecittà. Il
più compiuto per non dire l'unico, dal momento che le intenzioni

15
Freddi era stato ad Hollywood e ne aveva studiato i sistemi di produzione quando, ancora come
giornalista, era stato inviato a seguire le imprese aviatorie di Italo Balbo. Sul ruolo di Freddi alla guida
(dal 1934 al 1940) della Direzione generale per la cinematografia, che non approfondiremo
organicamente limitandoci in seguito a farne cenno quando si intreccerà col nostro discorso sulla
famiglia, si sono scritte molte pagine; come riferimenti essenziali ci limitiamo per brevità a rimandare,
oltre al volume secondo della fondamentale Storia del cinema italiano di G. P. Brunetta (Editori
Riuniti, Roma, 1979, seconda ediz. 1993) ed alla raccolta autobiografica delle memorie dello stesso
Freddi (L. Freddi, Il cinema, L'Arnia, Roma, 1949, 2 volumi), al testo di C. Carabba, Il cinema del
ventennio nero, Vallecchi, Firenze 1974.
16
G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano cit. , vol. 2, p.9.

23
hollywoodiane di Freddi e in generale l'inseguimento del modello
statunitense non avranno in realtà modo di attecchire troppo a fondo nel
cinema italiano. Le peculiarità della situazione italiana infatti, ovvero,
semplificando, il regime fascista ma anche un retroterra di linguaggio
filmico di registi e produttori, portarono ad esiti piuttosto divergenti dalle
intenzioni. Sta di fatto che uno dei punti sui quali il modello
hollywoodiano fu più compiutamente realizzato fu proprio l'ottenimento
di una produzione sistematizzata in generi; ma altrettanto vero è che tali
generi furono, per una pluralità di motivi, spesso diversi da quelli
d'oltreoceano, che pure facevano accorrere folle di spettatori nelle sale.
Che il cinema italiano sotto il fascismo abbia il suo tratto principale,
sotto l'aspetto del linguaggio, proprio nella strutturazione in generi è un
dato noto ed evidente. Che questa sistemazione si sia sviluppata più per
l'intervento di Freddi, con il contributo spesso anche dialettico di altri
uomini come Cecchi (a sua volta un profondo conoscitore e ammiratore
del sistema hollywoodiano)17 piuttosto che per via di un processo
naturale di evoluzione che avrebbe avuto luogo comunque, non è
discorso che ci interessa approfondire in questa sede. Ciò che ci interessa
esaminare è invece come l'organizzazione in un cinema di generi si
rapporta alla possibilità di rappresentazione, o meno, delle realtà sociali
italiane così come erano e così come il regime intendeva veicolarle;
concentrando la nostra attenzione, naturalmente, su quello che è il punto
nodale per eccellenza della società tradizionale italiana, anche e
soprattutto durante il fascismo: ovvero, la famiglia.

17
Bene sarà precisare che Cecchi, nonostante la sua conoscenza e stima verso il cinema dei generi per
eccellenza, sembra di fatto aver dato ai suoi diciotto mesi alla guida della Cines un'impronta niente
affatto vicina al cinema di genere, ma più rivolta ad una serie di film originali e di significativa
sperimentazione linguistica, come 1860, La tavola dei poveri e Acciaio; il suo richiamo al sistema
hollywoodiano si può notare dunque molto di più negli interventi teorici che nelle realizzazioni
pratiche. A dare al cinema italiano la direzione verso il codice di genere fu, dopo la fine del periodo
Cecchi-Cines, la neonata Direzione generale di Freddi.

24
A proposito dei già citati film "sperimentali" del periodo Cecchi (1860,
La tavola dei poveri, Acciaio) è stato giustamente affermato da Casetti,
Farassino, Grasso e Sanguineti che queste prove rappresentano "un
cinema che inventa nuovi rapporti e nuove combinazioni fra se stesso
[…] e la politica" 18 . Gli stessi annotano, con riferimento particolare al
film blasettiano tratto da Viviani, "lo sconcerto della critica che non
riusciva a catalogare il film in nessuna delle categorie
preesistenti" 19 .Ecco dunque venire subito in luce, attraverso queste
parole, due elementi centrali del nostro discorso: da un lato la
suddivisione critica in generi, dall'altro la spesso ambigua e ondivaga
relazione fra cinema, politica e società. E vediamo anche come, proprio
in questo binomio, si esplicita un sostanziale dualismo, una discrepanza
che accompagnerà tutto il cinema del periodo fascista risultando però più
netta nei periodi estremi, ovvero nei primissimi anni '30 (fino all'avvento
di Freddi diciamo) e nei cruciali anni '42-'43, fino ad Ossessione: la
divisione fra "uno sperimentalismo << di qualità >>" e "una produzione
che si avvia a puntare sul prodotto << medio >>" è infatti strettamente in
rapporto, sia al livello dei singoli film sia a quello dell'indirizzo
complessivo della cinematografia nazionale, "con quegli apparati che
agiscono nel cinema come in un luogo in cui si produce dell'ideologia" 20 .
Alla sistemazione in generi del cinema italiano non è dunque estranea
una volontà politica, non solo di politica industriale nei confronti della
produzione, ma anche di ideologia. Il regime, si sa, sbandierava in
continuazione la cinematografia "arma più forte", ma è altrettanto noto
che le rarissime produzioni prettamente propagandistiche, oltre a cadere
nella trascuratezza quando non nel ridicolo, erano alquanto invise al

18
Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 345.
19
Ibidem.
20
Ivi, p. 347.

25
regime e a Mussolini stesso. Ciò che si voleva era diverso, non
chiarissimo magari ma certo differente dai pastrocchi in camicia nera di
Forzano e simili: in tempi e situazioni diverse il regime chiederà al
cinema, peraltro senza dover fare sforzi per ottenere cose che a nessuno
spiaceva dare, ora l'educazione, ora la commemorazione, infine e
massimamente la distrazione.
La mappa dei generi nel cinema italiano dell'età fascista deve fare i conti
con una tara di partenza non indifferente qual è la perdita di buona parte
della produzione. Di molti film non ci restano che accenni dalle colonne
dei giornali, dalle recensioni della critica. Una critica che, peraltro, in
gran parte si esimeva quasi sistematicamente dall'affrontare la questione
del "genere", ritraendosi con disapprovazione, bollando come
"d'evasione" senza andar oltre gran parte della produzione, pressochè
coincidente con quell'ampio genere di commedia sentimentale con le sue
varianti cui vollero spregiativamente dare nome da uno dei suoi
accessori scenografici, il famigerato telefono bianco 21 . Nondimeno, pur
nella scarsità di titoli ancora visibili e nella negazione del concetto di
genere che la più avanzata critica di allora praticò, non è difficile
delineare quali fossero i generi che composero il panorama della
produzione italiana nel periodo fascista.
Della "commedia sentimentale" abbiamo già accennato; è necessario
aggiungere però che, nell'assoluta preponderanza che tale genere ha
avuto (specialmente a partire dal 1939, anno nel quale i di questo genere
passarono dai 3 dell'anno precedente a ben 15), si possono delineare vari

21
Rimane un piccolo mistero chi abbia usato per primo questa espressione, quando ed in riferimento a
quale film; alcuni dei testimoni dell'epoca, compresi gli scenografi, non concordano neppure su chi
per primo piazzò su un set quei candidi apparecchi telefonici. Rimane il fatto che, come spesso accade
nella storia delle arti, un'espressione usata spregiativamente dai critici ha finito col restare impressa
come un nome di battesimo ad una "tendenza". Sulla questione si rimanda a M. Argentieri (a cura di),
Risate di regime, Marsilio, Venezia 1991.

26
sottogeneri: dai "telefoni bianchi" in senso stretto, ai film "alla francese"
nei quali fu maestro Camerini, al filone "collegiale", per giungere infine
alle famigerate commedie "ungheresi". La commedia finisce col
diventare talmente invadente e talmente omnicomprensiva da poter
consentire, specialmente dal '39 in poi, margini di manovra ampissimi
agli autori; è perciò proprio in questo paradossale "svuotamento" che
sarà più facile reperire indicazioni autenticamente utili per un discorso
sulle società italiana, ed anche su altro. Ma per ora restiamo ai generi.
A fianco dell'onnivoro "mostro" della commedia, hanno diffusione i film
storici ed i film in costume. Li affianchiamo qui perché, come
acutamente rilevato da Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti, il
disprezzo che la critica dell'epoca riservava alla nozione di genere causa
la perdita della distinzione tra gli uni e gli altri 22 . E, del resto, non è fuori
luogo azzardare l'ipotesi che anche nella percezione di una parte del
pubblico spesso vi fosse una sovrapposizione, almeno per quanto
riguarda le epoche più lontane, come il medioevo o come quell'epoca
romana che, dopo i fasti del periodo del muto, finisce del tutto ai margini
del cinema, proprio mentre il regime ne assume e propaganda i simboli.
La prossimità fra i due generi è evidente particolarmente nei film
biografici, che trattano spesso allo stesso modo tanto personaggi reali e
ben noti quanto figure più oscure o avvolte nella leggenda, con assoluta
indifferenza alla storicità.
Non lontani, per loro natura, dai film in costume e storici sono i non
molti film tratti dalla letteratura, intendendo perlopiù la letteratura
cosiddetta "alta", e non racconti e romanzi d'appendice i quali finivano in
abbondanza a far da canovaccio per le commedie. Più importante fu

22
Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 347..

27
senza dubbio il genere musicale, nelle sue due principali accezioni: il
"film-canzone" e il film operistico. Nel primo, esili storielle ora leggere
ora drammatiche consentivano ai cantanti di grido del momento di
esibirsi con i loro brani più famosi; nel secondo, più variegato, la grande
tradizione italiana dell'opera lirica veniva riutilizzata nei modi più vari,
da pedanti trasposizioni di teatro filmato a biografie dei compositori
infarcite di romanze, fino ad esperimenti più singolari come l' "opera
parallela". C'è da aggiungere peraltro che, fin dall'inizio dell'era del
sonoro, il cinema italiano non seppe resistere alla tentazione di infarcire i
film di arie, musiche e canzonette, cosicchè è quasi impossibile trovare
film nei quali non ci sia qualcuno che non riesce a trattenersi dal cantare;
e le commedie sono infarcite di dame canterine, maestri d'orchestra,
ragazzine dall'ugola incontenibile e via dicendo.
Grande successo riscuoteva infine il melodramma, da intendersi non nel
senso stretto di dramma in musica, ma semplicemente in termini di film
drammatico, spesso strappalacrime, con amori impossibili, eroi vessati
dai malvagi e pentimento o necessaria morte finale quale catarsi. La
presenza diffusa di elementi melodrammatici, intrinseca alla cultura
italiana, intrecciati in film di altri generi dovrebbe forse portare a
qualche cautela critica nella definizione del genere; ma per i nostri scopi
qui ci basta ricordare la diffusione, il successo e la produzione in copiose
serie che tali film ebbero. Sul modello di Italia e di italiani che trovava
rappresentazione in questi film, e in modo differente nei film commedia,
avremo modo di parlare tra poco, in quanto rappresenta, crediamo, un
punto centrale del nostro discorso.
Un ultimo accenno, in questa panoramica che per brevità accantona
generi o filoni meno praticati (come ad esempio il genere comico, che
pur potendo contare su attori preparati finì coll'essere dirottato verso la

28
commedia, e ricordando il Nerone con Petrolini si può intuire il perché),
va al genere avventuroso. Tale genere ebbe sviluppo in Italia
specialmente con la fine degli anni '30, instradandosi in prevalenza lungo
il filone piratesco al quale le popolarissime storie di Salgari fornivano
ampio materiale. Non è un caso che questo genere si sia sviluppato solo
tardivamente nel nostro paese: semplicemente, i film d'avventura che
tanto facevano sognare l'immaginazione di giovani e meno giovani
erano, fino al 1938, quelli con i divi del genere, Errol Flynn, e prima
ancora, fin dal periodo del muto, Douglas Fairbanks; ovvero, i film
americani; e dal '38 quei film non arrivavano più nelle sale. Si procedette
così alla loro sostituzione con il surrogato autarchico, ovvero i pirati
della Malesia usciti dalla penna di Salgari, autore adattissimo, popolare e
non sgradito al regime. Questi film venivano realizzati con abbondanza
di mezzi, e le scenografie spesso venivano riutilizzate per più film,
secondo un metodo comune ad Hollywood.
Vi furono generi che, rispetto a quello che era il modello sostanzialmente
obbligato, cioè il cinema hollywoodiano, non entrarono a far parte del
sistema di codici del cinema di casa nostra, per diversi motivi. Il "noir",
ad esempio, non poteva avere diritto di cittadinanza in un paese dove non
era concesso mostrare sugli schermi carceri, delitti e criminali.
Naturalmente non vi fu un genere western, mancandone i presupposti
culturali, e ci pare poco convincente assimilare con l'etichetta di "genere
coloniale" una manciata di film troppo eterogenei fra di loro come
Bengasi, Passaporto rosso o Lo squadrone bianco. Scompare o quasi, in
ossequio alle direttive nazionaliste del regime, la commedia dialettale,
non solo per la questione linguistica ma anche per il suo tono troppo
popolaresco, forse troppo schietto; né fa molta strada, come detto, un
vero cinema comico.

29
Un cinema di generi, dunque, anzi "di generi fortemente codificati" 23 ;
eppure, come si è già accennato, un cinema che proprio per questa sua
standardizzazione stretta, per questa sua, chiamiamola così,
iperserializzazione, consente meglio agli autori, almeno ad alcuni, di
inserire, e a noi di individuare, spunti significativi nella rappresentazione
dell'Italia di allora. Perché cos'altro erano quelle lussuose Budapest di
cartapesta, quei collegi dalle allieve belle e canterine, quei casti amori di
sartine, se non rappresentazioni dell'Italia e degli italiani come erano o
come si voleva che fossero o, infine, come si voleva che si convincessero
a non essere?
Sta di fatto che, attraverso i generi e specialmente attraverso i più
popolari di essi, cioè la commedia ed il melodramma, al cinema fu
concesso sia di lasciarsi sfuggire nel quadro qualche accenno alla
situazione della società italiana più di quanto fosse concesso ad altri
media come radio o giornali, sia di operare, tramite la fascinazione che è
propria dello schermo, con qualche ambiguità nel mostrare dei presunti
contromodelli che in realtà non sempre finivano col risultare tali.
Facciamo due esempi su tutti circa quest'ultimo caso. Fosco Giachetti
racconta che il ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini, lo
convocò a proposito della sceneggiatura di Noi vivi e Addio Kira e del
fascino che il personaggio del bolscevico Andrej esercitava, preoccupato
delle possibili reazioni del pubblico. "Ho paura che nei cinematografi di
terza categoria il pubblico applauda, mi dia dei fastidi" avrebbe detto
Pavolini 24 ; cosa che puntualmente accadde, poiché effettivamente la
figura di Andrej risultava più affascinante delle altre; tanto è vero che il
film, che avrebbe dovuto essere anticomunista, finì col provocare più di

23
Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 346.
24
Citato in Argentieri, Il cinema in guerra cit. , p. 231.

30
un mugugno presso il regime. Pavolini aveva cercato di fermarlo in fase
di censura, ma dovette infine cedere ed approvare la sceneggiatura dopo
l'intervento del figlio del Duce, Vittorio Mussolini. Il film, messo in
cantiere in tempi di ottimismo del paese e del regime circa l'impresa
bellica ed uscito poi nelle sale in un momento difficile per il paese,
quando le sorti della guerra cominciavano ad essere manifestamente
negative, finì per suscitare così sentimenti più antiautoritari che
anticomunisti.
Con il secondo esempio cominciamo già ad entrare nel campo specifico
della nostra analisi sulla famiglia. Fra le "Direttive per la stampa",
ovvero le cosiddette veline, emanate da quell' Ufficio Stampa che
avrebbe più avanti costituito il nucleo del MinCulPop, ve ne sono alcune
specificamente dirette all'esemplificazione di un modello di donna
"fascista": "La donna fascista deve essere fisicamente sana, per poter
diventare madre di figli sani […] Vanno quindi assolutamente eliminati i
disegni di figure femminili artificiosamente dimagrate e mascolinizzate,
che rappresentano il tipo di donna sterile della decadente civiltà
occidentale" 25 . L'esempio delle "donne-crisi" in Italia non aveva peraltro
gran presa, ma il cinema, specialmente nel periodo delle commedie
all'ungherese, non mancò di mostrarne in abbondanza, sebbene nel
nostro cinema non vi sia mai stata una vera emula di Marlene Dietrich,
che di tale tipo di donna era l'archetipo 26 . Si potrebbe obiettare che si
trattava di contromodelli; ma, ci si perdoni l'espressione, spesso sullo
schermo le cattive fanno più tendenza delle buone.
Abbiamo dunque accennato a quale fosse l'immagine (o una delle
immagini) di donna che il regime tentava di imporre; abbiamo anche

25
In Ph. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 422
26
L'unica attrice proposta in tale senso ci pare essere stata l'Isa Miranda de La signora di tutti, film
non a caso diretto non da un regista italiano ma da Ophuls.

31
aggiunto due cose essenziali per il nostro discorso, ovverosia che tale
modello non era certo estraneo alla realtà presente della società italiana,
e che nonostante tutto vi era sugli schermi un modello differente, al
quale donne e ragazze d'Italia potevano ispirarsi. E non solo il modello
da "mangiatrice di uomini", ma anche, più semplicemente, il tipo di
donna che tutte le commedie mostravano: sana, sì, e madre, forse, ma
tutt'altro che appiattita su questo schema. Una donna che sapeva essere ,
insomma, anche qualcosa oltre la "sposa e madre esemplare" dei
proclami fascisti. Vi era, insomma, "l'immagine della <<nuova donna>>
degli anni Trenta: una figura continuamente in bilico tra aspirazioni e
velleità moderniste e forti legami con il passato e con i condizionamenti
imposti dal regime fascista" 27 .

2.2 Stereotipi diversi per storie diverse


Vi è, insomma, una duplicità di stereotipi sul piano della collocazione
della donna nella famiglia e nella società, secondo un fedele
rispecchiamento delle "nuove possibilità e, allo stesso tempo […] nuove
forme di repressione" 28 che si presentano a queste donne, "affascinate
dal moderno e ostacolate dalla tradizione" 29 ; una duplicità che emerge in
modo evidente proprio dal raffronto dei testi filmici di due generi
diversi, anzi dei due generi per eccellenza dell'Italia del tempo: il
melodramma e la commedia.

27
E. Mosconi, Figure femminili tra cinema ed editoria popolare, in R. De Berti - E. Mosconi,
Cinepopolare. Schermi italiiani degli anni Trenta, "Comunicazioni sociali", anno XX n. 4 (Ott./Dic.
1998), p.648
28
V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia, 1993, p. 17
29
ibidem

32
Il melodramma trova uno sviluppo, nel periodo da noi considerato,
piuttosto tardivo rispetto al complesso della produzione 30 ; dopo che nel
'34 si era tentato di dare un padre nobile al genere affidando al genio di
Max Ophuls La signora di tutti, e dopo il fallimento di quell'esperienza,
era parso che il genere non trovasse terreno fertile. A dimostrare in modo
incontrovertibile il contrario giunsero invece, pochi anni più tardi, film
come Montevergine 31 che, pur non avvicinandosi neppur lontanamente al
valore dell'opera girata da Ophuls, riempivano le sale inesorabilmente.
erché? Proprio perché il film di Ophuls era, e non avrebbe potuto essere
altrimenti, un'opera troppo sofisticata. Mancava al pubblico ogni
possibilità di identificazione, quindi di empatia; e in un genere come il
melodramma costruito in toto sulla commozione ed i sentimenti, questa
distonia non poteva che produrre un fallimento. Nella società italiana, il
cinema melodrammatico eredita il ruolo della narrativa d'appendice, e
naturalmente dell'opera lirica; e ne eredita anche un sistema ideologico
ed un mondo di riferimento.
Il melodramma assume in sé gli elementi narrativi tipici di un lato della
società italiana, quello tradizionale. Una società ancora rurale,
profondamente ed atavicamente cattolica, nazionalista di eroici furori
risorgimentali: una società, in una sola parola, conservatrice. Brunetta 32
chiarisce precisamente che "la topologia del melodramma popolare (la
casa-patria e l'altrove) è binaria, come binaria è la contrapposizione di
tutti i valori che reggono il mondo dei personaggi: il bene e il male, la
donna angelicata e la donna perversa". E aggiunge che "questo tipo di

30
Lo sviluppo del genere vivrà il suo momento d'oro nel dopoguerra, con picchi nei primi anni '50,
trovando il suo maestro in un regista già avvezzo al genere, Raffaello Matarazzo.
31
C. Campogalliani, 1939; il film è noto anche col titolo di La grande luce.
32
Storia del cinema cit. , P. 294-295.

33
produzione diventa un ottimo contenitore ed un ottimo veicolo
dell'ideologia conservatrice" 33 .
Il melodramma diventa così il genere nel quale si identifica un modello
sociale, quello dell'Italia dei valori tradizionali; e naturalmente la
rappresentazione della famiglia non può fare eccezione, anzi ha una
posizione di spicco, sia in quanto nucleo indiscusso della società
tradizionale, sia in quanto gli intrecci di amori impossibili, tragedie,
agnizioni e via discorrendo vi ruotavano costantemente intorno. Il
melodramma rappresenta la famiglia italica nella sua immagine
immutabile arcaica, diciamo pure prefascista (anche se non certo
disprezzata dal regime) e soprattutto premoderna. Le famiglie sono
famiglie nucleari, i legami di sangue anche lontani sono vincoli sacri, la
donna trova il suo posto inesorabilmente solo nel matrimonio e nel
focolare domestico, sottomessa al suo uomo; quelle donne che escono da
questo schema sono donne perverse, irrimediabilmente perdute: e con la
loro morte, al meglio nobilitata da ravvedimenti sull'ultima soglia, la
società può riavere il suo ordine. Una catarsi in piena regola mi pare.
D'altronde il principio manicheo sotteso a questa visione del mondo non
può ammettere infrazioni, pena il crollo del sistema intero; quindi gli
stereotipi non possono essere che rigidi, ed abbiamo così dei testi che,
nel loro rappresentare un documento non tendenzioso di una delle facce
della società italiana, sono contemporaneamente costruiti secondo canoni
narrativi antichi, modelli omerici o fiabeschi, con una precisa struttura di
"funzioni"; e intendo qui tale termine con riferimento agli studi proprio
sulla fiaba di Vladimir Propp. L'eroe, contrastato da un antieroe o da un
falso eroe, viene messo in stato di disgrazia senza sue colpe, e deve
affrontare delle prove per recuperare il suo status e ristabilire l'ordine

33
ibidem

34
sociale. Rispetto a questo schema, però, una cosa non può mancare nel
melodramma, una presenza che attraverso i libretti d'opera e il
Romanticismo risale fino alla tragedia antica: la morte. Una morte che è,
appunto classicamente, purificatrice, un sacrificio finale. Insomma,
quando nel melodramma l'immancabile ala della morte si fa presente
anche nell'ultima scena, nondimeno, per la società, spesso vivono tutti
felici e contenti. Espulso il virus dalla cellula, essa torna sana. Ed il
nucleo di questa cellula e, naturalmente, la famiglia: ecco infatti che sia
le vicissitudini sia i tragici finali fanno perno regolarmente
sull'infrazione del regolare sistema familiare, si tratti di amori non
destinati al matrimonio, o di abbandoni filiali, o di rifiuto della famiglia
come nido-nucleo. Vi è un'Italia che non perdona, un'Italia che necessita
di essere rassicurata nei suoi valori arcaici assistendo alla parabola di
distruzione che precipita sempre più in basso chi rifiuta tali valori, sino
alla morte se necessario. Non sempre il finale è tragico, spesso la donna
perduta (o, più raramente, l'uomo sciagurato) nel finale ottengono la loro
reintegrazione; ma il tutto, oltre ad avere un che di posticcio, da deus ex
machina, non muta il quadro generale: esempi morti o esempi vivi che
siano, questi personaggi ugualmente mostrano che al di fuori delle
antiche convenzioni non c'è che la rovina.
Ma abbiamo detto che quest'Italia, quella tradizionale, non è che uno dei
due volti della medaglia. Vi è infatti un'altra Italia, un'Italia più moderna,
più giovane, meno tradizionalista e meno rurale. Abbiamo già detto che
la struttura tradizionale della società basata sulla famiglia e sulla donna
come suo nucleo germinale non era certo sgradita al regime; ma non si
deve dimenticare che, oltre la sbornia ruralista che il fascismo coltivò nei
suoi primi anni, si fanno ormai largo a grandi falcate nel paese già a
cavallo fra i decenni '20 e '30 la modernizzazione, l'industrializzazione, e

35
l'ineluttabile cambiamento sociale che ciò impone. Trova sempre più
consenso, in particolar modo fra le giovani generazioni e fra i sempre più
folti ceti urbani o urbanizzati, un modello sociale nuovo e diverso; e
naturalmente la prima realtà ad essere messa in discussione è quella
centrale della vecchia struttura sociale, ossia la famiglia. I giovani e le
giovani si trovano di fronte nuove scelte, nuove possibilità, nuovi
desideri; ed a rappresentare loro, il loro mondo e le loro aspirazioni
"borghesi" trovano un genere, che non esiterei a definire "borghese"
anch'esso: la commedia.
Contrariamente al melodramma, che, come si è detto, ha radici molto
lontane, la commedia così come si stabilisce negli anni '30 è genere del
tutto nuovo. Il sonoro e il cambiamento dei gusti hanno ucciso
sostanzialmente il film comico puro, ed il pubblico ora non si accontenta
più di gag e inseguimenti: vuole una storia. E la vuole, prima ancora che
divertente, sentimentale quanto basta: una storia lieta e leggera per far
sognare un po'.
Ma di quale pubblico stiamo parlando? È opportuno identificare subito a
quale spettatore potenziale si rivolgesse questo genere, per poter
giungere alla comprensione del meccanismo che lega la commedia alla
società italiana ed ai cambiamenti in atto in essa. Abbiamo già detto che
il melodramma rappresenta una parte dell'Italia, quella legata alla
tradizione; la commedia ne è il contraltare, è il cinema che si fa specchio
di una società italiana in rinnovamento. Si badi bene: non parliamo
affatto di una divisione di pubblico in senso materiale, con madri e
contadini da una parte e giovani e cittadini dall'altra. Parliamo invece di
una duplicità mentale, di due atteggiamenti; qualcosa che poteva
condurre una fanciulla a vedere un giorno Assenza ingiustificata 34 e

34
Max Neufeld, 1939

36
sognare di vestiti sfarzosi, serate al ballo e case principesche, e il giorno
dopo a vedere Melodramma 35 (titolo di per se eloquente anzi che no, ma
è solo un esempio), sospirare, fare atto di dolore per la vanità del giorno
prima e correre a casa a ricamarsi il corredo. Non vi è un'Italia spaccata
in due, ma due Italie che per larghissimi tratti coesistono, e coesisteranno
ancora a lungo.
Il genere commedia non mette in atto, naturalmente, un attacco frontale
alla famiglia come istituzione tradizionale; tanto è vero che le storie
finiscono quasi immancabilmente con un lieto fine matrimoniale o giù di
lì. Quello che avviene è più sottile, e si lega a filo doppio alla situazione
generale dell'Italia fascista, al suo modernizzarsi, al suo diventare passo
passo una economia ed una società industriale e borghese. Nella
commedia, alcune situazioni critiche in ambito familiare trovano una
soluzione diversa da quelle del melodramma, e propongono così allo
spettatore l'ammissibilità sociale di un nuovo modello, ponendo il lieto
fine a suggello della validità delle scelte dei protagonisti. Un facile
esempio può essere nella situazione narrativa "matrimonio combinato
contro matrimonio per amore"; la commedia presenta una famiglia con
figlia in età da marito, un candidato gradito ai genitori (per posizione
sociale, ricchezza o comunque interessi materiali) ed un altro, invece,
amato dalla figlia, che egli riama. Giacchè siamo in un film commedia,
sappiamo bene come finirà: non solo la fanciulla e il suo amato
coroneranno il loro sogno col finale assenso dei genitori, ravvedutisi
intanto per qualche strano accidente narrativo, ma anche il buon amante
troverà modo di elevare il proprio status in modo che non vi sia
rimpianto per il buon partito rifiutato. Gli esempi si sprecano, da La

35
Robert Land e Giorgio C. Simonelli, 1934

37
famiglia Brambilla in vacanza 36 a San Giovanni decollato 37 e una
pletora di altri film.
Inutile sottolineare quale sia l'importanza di un mutamento simile: il
rifiuto del matrimonio d'opportunità combinato dai genitori è un passo
d'indipendenza dalla famiglia originaria che non può non minare alle
fondamenta l'intero sistema della famiglia e particolarmente della
famiglia allargata, ed anche l'immagine tradizionale della donna come
soggetto socialmente sottomesso, che esce dalla potestà del padre solo
per sottoporsi a quella del marito. Ma negli anni '30 le giovani donne
cominciano ad essere, se non indipendenti, quantomeno parzialmente
emancipate; o, per centrare meglio la situazione, moderne. Una società
ed un'economia in rapido mutamento portano ad un ridisegnarsi
importante della figura della donna nel suo duplice rapporto società-
famiglia, mura domestiche-mondo esterno; e, anche questa volta, è nelle
commedie che questa nuova immagine trova il suo humus per mostrarsi
all'Italia insieme come realtà esistente e come modello propositivo.
La prima, grande novità che emerge prepotentemente dai film-commedia
è la donna lavoratrice. Questa nuova figura fa prepotentemente il suo
ingresso sugli schermi fin dal 1931, dal film capofila del genere: La
segretaria privata, un titolo di per sé eloquente. Il film di Alessandrini
identifica e mostra una nuova condizione sociale, e ciò risultava chiaro
già ai critici dell'epoca. Ecco cosa scriveva su "Cinema" Rosario Assunto
tracciando, nel 1940, una sorta di summa del genere e della concezione
sociale di cui parliamo: "La segretaria privata rappresentava il mito
consolatore e la illusione […] delle ragazze appartenenti ad una società
nella quale a nessuno era più lecito attendere inerte il proprio destino.

36
Carl Boese, 1942
37
Amleto Palermi, 1940

38
Nasceva, codesto film, mentre era nel punto più acuto quella
trasformazione di un ordine e di un sistema economico sociale che era
stata battezzata <<la crisi mondiale del 1929>>: in tutte le famiglie si
sentiva il bisogno di aumentare le entrate del bilancio domestico. E le
signorine […] deposto il ricamo in fondo ad un cassetto, studiavano
dattilografia, stenografia, computisteria per entrare nelle banche, negli
uffici, nelle aziende" 38 . E non solo di necessità economiche si trattava,
ma di nuove aspirazioni personali della nuova generazione femminile:
"Valido a dissipare la malinconia di un avvenire intravisto come uno
sfiorire quotidiano […] il ritornello di Elsa Merlini suonava come una
promessa" 39 .
Ci pare che il critico di "Cinema" avesse individuato perfettamente, pur
con gli inevitabili limiti del tempo, la situazione: un film, peraltro
rifacimento di un'opera tedesca dello stesso anno, con poche accortezze,
nelle mani di un regista non ingenuo e sotto l'influsso dell'aria che
spirava nella società italiana, aveva talmente colto lo spirito dei tempi da
trovare non solo degli emuli, ma da porsi a capofila di un genere.
Il successo delle commedie, enorme e incontrastato nell'ambito della
produzione italiana dell'era fascista, è probabilmente dovuto proprio a
questo: la sintonia con un settore emergente della società, e soprattutto
con i suoi desideri. Desideri, per carità, del tutto modesti e limitati: nella
prospettiva della ragazza al lavoro c'era comunque, immancabile, un
futuro matrimoniale. Ma era ormai chiaro ai più che tale condizione non
era l'unico esito della vita femminile; è ancora Assunto a notare che il
modello sociale proposto dalla commedia era, prima di giungere a certi
eccessi come gli iperlussi mondani del filone "ungherese", "un

38
R. Assunto, L'ultima mitologia, in "Cinema", numero 106, 25 novembre 1940, p. 365.
39
ibidem.

39
consolatore garbato e persuasivo all'accettazione di una nuova,
ineliminabile concezione di vita" 40 .
Ma non vi sono solo le donne lavoratrici ad indicare come nelle
commedie sia rappresentato un modello di donna, di famiglia e di società
in rapido mutamento, in contrapposizione alla vecchia struttura sociale,
al modello familiare, definiamolo così, "dell'obbedienza": vi sono anche
altri segnali di come la famiglia inizi a perdere la sua imperativa
centralità nel contesto sociale. Un primo esempio può essere individuato
nella sistematica disobbedienza di tutte quelle collegiali e studentesse
varie che popolano molti delle commedie degli anni '30: le "birichine di
papà" sono insubordinate tanto verso le istituzioni del collegio quanto
verso la famiglia che lì le ha rinchiuse. Proprio Il birichino di papà41 è in
questo senso esemplare: non solo abbiamo la protagonista in fuga dal
collegio (nel quale inoltre ne combina di tutti i colori), ma abbiamo
anche tutto un altro sistema di rapporti familiari messi in gioco e che non
ne escono troppo bene: dal padre buono ma succube di una marchesa
futura suocera di ottocentesca severità, al fidanzato della sorella incline
alle grazie di amiche sciantose, fino a quello che è forse il meno
appariscente - eppure è già nel titolo!- ma più importante degli elementi:
il "birichino", non si dimentichi, è Chiaretta Gelli, e il suo iperattivo
trafficare non solo travolge d'impeto tutta una serie di convenzioni e
vecchie ipocrisie sociali, ma anche finisce coll'evidenziare un rifiuto
della stessa identità femminile così come ancora era spesso vista
all'epoca. Vi è, inoltre, un rigetto frontale della figura della matriarca,
incarnata nell'arcigna marchesa, e quindi della famiglia allargata, a
favore del legame diretto ed esclusivo con il padre, solo punto di

40
ibidem
41
R. Matarazzo, 1943

40
riferimento affettivo in un contesto ostile. E dietro alla figura della
marchesa (e di suo figlio) si cela anche altro: è tutto un mondo, tutto un
sistema di convenzioni sociali ipocrite, premoderne e insomma
sorpassate quello che viene aggredito dal gioioso caos purificatore di
Nicoletta. Non inganni il riappacificamento e regolare matrimonio che
da al film il dovuto lieto fine: matrimonio sarà, ma attraverso
l'operazione di rottura sociale compiuta dalla ribelle Nicoletta (o Nicola)
la sorella maggiore ha acquisito una posizione di maggior peso e tutela
nella sua condizione di moglie; non sarà più accettato stendere l'ipocrita
velo del buon nome, del "non fare uno scandalo" sulle avventure del
marito, egli non può più contare sull'impunità del privilegio maschile,
della subalternità della moglie al marito per potersi permettere ciò che
vuole. Non era poco per i tempi. Ed era tutto l'opposto dello schema dei
rapporti coniugali nel melodramma, nel quale l'accettazione della donna
della propria sottomissione al marito era condizione necessaria, al di
fuori della quale non vi erano che l'estromissione dalla società e la
perdizione.
Un secondo esempio, infine, di come numerosi elementi nella commedia
italiana dell'età fascista segnalino una nuova voglia di libertà all'interno
del mondo familiare vogliamo segnalarlo nella movimentazione dei
rapporti genitori-figli. Abbiamo già accennato a questo aspetto della
questione parlando dei film in cui si mostra una situazione di matrimonio
combinato dai genitori e rifiutato dai figli. Questo caso è certo il più
ricorrente e visibile, ma non è il solo: si pensi a situazioni più astruse ma
né infrequenti né incredibili, quali quelle in cui i figli mostrano più senno
di genitori inadeguati, come accade per esempio in Frutto acerbo 42 e

42
Carlo Ludovico Bragaglia, 1934

41
ancor di più in una commedia dai tratti dolceamari come L'ultimo
ballo 43 .
Tutto questo dipanarsi di comportamenti rinnovati nell'ambito dei
rapporti familiari, ed in particolare la frequenza di richiami dei
personaggi (nella fattispecie perlopiù i giovani protagonisti, quelli cioè
destinati all'amoroso e nuziale lieto fine) ad un loro desiderio di libertà, è
come abbiamo visto frutto di mutate condizioni economiche e
conseguentemente sociali; ma che tale voglia di liberarsi dai legami
troppo stretti finisca confinata solo nell'ambito familiare, questo non è
scontato. Col passare degli anni non sarà più solo la famiglia l'istituzione
da cui liberarsi; ma allora, come vedremo, non sarà più il solo genere
commedia a dare fiato sugli schermi alla voglia di libertà della giovane
generazione.

2.3 Il qui e l'altrove


La chiave per la comprensione del rapporto tra generi del cinema italiano
anni '30 e l'immagine della famiglia è sostanzialmente tutta già contenuta
nella contrapposizione fra melodramma e commedia. Pure, dopo aver
parlato di questo rapporto fra un genere il cui mondo sociale di
riferimento è rivolto al passato ed uno che invece è rivolto al presente ed
al futuro, è opportuno fare almeno un accenno, per quanto sintetico,
anche alla situazione dei generi rispetto allo spazio, e non solo al tempo.
Vi è infatti sia nei melodrammi sia nelle commedie, seppur con modalità
diverse, una frequente situazione di spostamento spaziale dell'azione al
di fuori dell'Italia. Tale rappresentazione straniera è meno ricca di spunti
nuovi rispetto a quanto già detto, quindi ci si soffermerà brevemente solo
sugli aspetti più importanti, in particolare sull'opposizione fra l'"altrove"

43
Camillo Mastrocinque, 1941

42
della commedia e quello del melodramma e di altri generi genericamente
drammatici (come ad esempio il film storico, che spesso peraltro assume
in sé molti connotati melodrammatici).
La contrapposizione appare evidente: nelle commedie le storie vengono
ambientate fuori dal paese sia per consentire l'inserimento nella trama di
situazioni che non erano accettabili nell'Italia fascista, come il divorzio o
altri comportamenti sociali genericamente ritenuti poco morali dal
regime, sia per consentire di rappresentare grandi sfarzi, metropoli, lussi
e modernità che ambientati a casa nostra sarebbero suonati fin troppo
falsi ad un pubblico abituato, e mi permetto di parafrasare, più al pane
nero che ai telefoni bianchi 44 . Quindi ecco che le improbabili storie di
ricchi finanzieri e segretarie dall'inspiegabilmente lussuoso guardaroba
vengono ambientate a Budapest, o in alternativa a New York e così via.
Il pubblico poteva continuare a sognare e l'immagine dell'Italia come
paese morale e morigerato non veniva scalfita. E di entrambe le cose il
regime aveva un disperato bisogno: non si dimentichi che l'esplosione
delle commedie di ambientazione ungherese avviene proprio in
coincidenza con il calo del consenso riscosso dal regime. Ma questo sarà
argomento di un successivo capitolo, e ne parleremo assai ampiamente.
Per ora basti segnalare questo: attraverso l'ambientazione estera, in paesi
che sono presentati come l'Ungheria o l'America ma che in realtà sono
ben lontani dalla realtà di tali paesi e si avvicinano molto di più ad una
costruzione fiabesca di un paese di sogno, si introducono sullo schermo
nuovi comportamenti sociali, ancor più nuovi e financo bizzarri di quelli
che abbiamo descritto in precedenza. Le storie sono talmente incredibili
che il loro reale peso sociale non può che essere considerato irrilevante;

44
"Pane nero e telefoni bianchi" fu il titolo di una rassegna retrospettiva organizzata a Ravenna, in
occasione della quale G. Casadio, E. G. Laura e F. Cristiano pubblicarono il libro Telefoni bianchi.
Realtà e finzione nella società e nel cinema italiano degli anni Quaranta, Longo, Ravenna 1991.

43
ma resta comunque il fatto che, Budapest o no, il pubblico italiano
assiste ad una sarabanda di balli, divorzi, adulteri, crimini e
comportamenti antisociali assortiti, e che tutto questo trafficare dei
personaggi ha termine comunque con un lieto fine. Certo, le adultere si
pentono, i corrotti si convertono, ma nel frattempo hanno fatto tutti la
bella vita; una vita non solo ricca, il che già risultava abbacinante agli
italiani colpiti dalle "inique sanzioni", ma anche e soprattutto libera: e
questa voglia di libertà, già tanto sentita sul piano sociale, comincia
ormai a farsi sentire anche sul piano politico. D'altro canto il regime non
poteva liberarsi di questa cinematografia: anzi, gettata quasi in partenza
la spugna del cinema di propaganda, questo cinema di svago,
chiamiamolo di "diversione", era qualcosa di cui il regime avvertiva la
necessità per lasciare che il lusso degli schermi riempisse i sogni degli
italiani, evitando che pensassero troppo alla difficile situazione nella
quale il fascismo stava conducendo sempre più il paese, dall'autarchia
alla guerra.
Ben diversamente si configura l' "altrove" del melodramma. Abbiamo
già detto come nel mondo tutto binario del melodramma anche la
topologia casa-patria / altrove non ammetta eccezioni: come il nido
familiare o la patria avita è il luogo del bene, così le terre straniere sono
l'incarnazione di ogni malvagità. L'esempio più tipico di questo schema
lo ritroviamo nei molti melodrammi che mettono in scena figure di
italiani emigranti. Basti citare, restando solo ai film più noti, Passaporto
rosso 45 ed il già citato Montevergine, due storie di emigranti per i quali
l'America è foriera solo di sventura e perdizione, e che trovano il loro
riscatto solo nel ritorno alla loro terra. I film che trattano l'argomento
dell'emigrazione non sono pochi, e lo fanno tutti nel medesimo modo: sia

45
G. Brignone, 1935

44
che gli emigrati si siano fatti una posizione o che siano dei poveri
diavoli, non potranno trovare la felicità e la pace se non tornando in
patria, abbandonando un mondo di scelleratezze ed amoralità che li
corrompe. Indifferentemente dal fatto che i paesi in questione siano gli
Stati Uniti o altre nazioni, quasi sempre sudamericane (ed in effetti
queste erano le mete degli emigranti), tali paesi vengono ugualmente
descritti in modo sommario ed incurante, con la sola preoccupazione di
metterne in mostra l'ostilità, la malvagità intrinseca; non ha importanza
neppure che tale connotazione negativa venga da donne perverse o
società criminali o emarginazione dello straniero: ciò che conta è che
non vi può essere altro che male al di fuori della propria patria, e l'unica
via che ha l'emigrato per recuperare la propria dignità è il ritorno nelle
terre dei padri.
Naturalmente il discorso non si limita ai film che parlano
dell'emigrazione, ma si estende anche ad una serie di film di argomento
diverso. Spesso non si tratta necessariamente di melodrammi in senso
stretto, ma, come abbiamo detto, il melodramma pervade del proprio
spirito anche film che appartengono ad altri generi, come il film di
guerra o il film storico. Nondimeno, la rappresentazione dei paesi
stranieri rimane la stessa: uno stereotipo completamente negativo, regno
della corruzione, terra di uomini ostili e malvagi. È fin troppo facile
citare il dittico Noi vivi - Addio Kira, a proposito del quale peraltro
abbiamo già visto come finiscano col mescolarsi alla condanna della
Russia bolscevica altri elementi, sia per ideologie sia per fascinazione
filmica delle ambiguità; ma vari sono i film consimili, anche se in realtà
il regime non avrà mai dal cinema molti film antisovietici: si ricordano
Orizzonte di sangue 46 , Sancta Maria 47 e il rosselliniano L'uomo dalla

46
G. Righelli, 1942

45
croce 48 , e quest'ultimo è certo meno tipizzabile dei precedenti. Anzi, è
forse proprio dai film del Rossellini preneorealista che possiamo
estrapolare alcuni dei pochi segnali positivi verso i popoli stranieri: sia
nel film citato che in Un pilota ritorna 49 si fanno avanti quei sentimenti
di fratellanza, di comunanza nel dolore fra i popoli che tanto bene
avremo modo di conoscere nel dopoguerra. Ma si tratta, appunto, di
Rossellini. Il cinema fascista era un'altra cosa, e si avvicinava per esso il
momento di calare il sipario.
Sembra, in conclusione, che non vi sia luogo alcuno nel melodramma
degli anni '30 e soprattutto in quelli prodotti tra la fine del decennio e gli
anni '40 per una descrizione non demonizzata di paesi e popoli stranieri.
L'America è vista come terra di perdizione e di ogni follia, tanto nei
moderni Stati Uniti che nella incivile America Latina; della Russia
bolscevica si parla poco ma sempre malissimo, com'è inevitabile per un
paese non solo ideologicamente nemico, ma, peggio ancora, senza Dio.
Inutile dire che i pochissimi film con ambientazione africana (bisognava
pur mostrarle agli italiani queste colonie pagate a tanto caro prezzo)
tratteggiavano gli indigeni secondo i peggiori stereotipi razzista. Non
mancano neppure le frecciate a rivali secolari dell'Italia come
l'Inghilterra e i "cugini" francesi, specialmente in filoni collaterali come i
film storici e d'avventura più che in veri e propri melodrammi (infatti su
inglesi e francesi si scatena più il dileggio che la censura); e al regime
certo non spiaceva che gli italiani rinfocolassero il loro nazionalismo
sfogandosi contro paesi che erano peraltro, anche al momento, avversari.
Il dato più significativo circa la sostanziale inadeguatezza del nostro
cinema a fornire, in film drammatici, un ritratto positivo di un qualsiasi

47
P. L. Faraldo, 1941
48
R. Rossellini, 1943
49
R. Rossellini, 1942

46
paese straniero, mi pare sia in modo abbastanza evidente la totale
mancanza di film dedicati agli alleati. Non un metro di pellicola speso
per rendere simpatici agli italiani quella Germania che tanto corteggiava
il nostro paese; men che meno si parla del Giappone, e se non vi fossero
i film dedicati alla guerra di Spagna (pochi e non troppo significativi su
questo punto 50 ) anche dell'altro paese alleato del regime non si
troverebbe traccia. È indubbio che la Germania non era certo ben vista
dagli italiani, che ancora conservavano come sacri cimeli il rancore,
l'odio e l'orgoglio della Grande Guerra (con il consenso entusiasta del
regime, che non poteva che esaltare il nazionalismo postbellico;
nazionalismo nella cui atmosfera era nato il regime stesso, ma che poi
creerà più d'un pensiero quando si tratterà di accantonarlo e convincere
gli italiani a combattere a fianco dello storico avversario tedesco). Ma ci
pare che, più generalmente, sia la struttura stessa del mondo di
riferimento del melodramma a non consentire la rappresentazione sugli
schermi di paesi stranieri con tratti positivi. Per un mondo
anacronisticamente chiuso in se stesso e nelle proprie piccole, intoccabili
certezze domestiche non era ammissibile che vi potessero essere altri
paesi all'infuori dell'Italia nei quali gli uomini vivono felici. Proprio
mentre le commedie sembravano suggerire sempre più che per menare
vita felice non c'era che da guardare fuori dall'Italia.

50
Si ricorda L'assedio dell'Alcazar (A. Genina, 1940) e poco più.

47
Capitolo 3.

Cinema di famiglia, cinema di donne?

3.1 Protagonisti e spettatori


Cominciamo con un quesito: a chi era indirizzato il cinema fascista? A
quali classi sociali, età, sesso apparteneva lo spettatore ideale del cinema
dell'età del regime? Tale domanda si lega a doppio filo, in virtù del noto
meccanismo di identificazione che si crea fra lo schermo e lo spettatore,
ad una questione gemella: quali erano i protagonisti della cinematografia
fascista?
Quando ci poniamo il problema dello "spettatore ideale" non vogliamo
certo addentrarci nell'argomento di quale fosse poi, nella realtà, la
composizione del pubblico nelle sale. Un simile lavoro, per quanto
interessante possa essere, incontrerebbe innanzi tutto un enorme ostacolo
materiale nel reperimento dei dati necessari. In un panorama di fonti
storiografiche nel quale persino il numero dei film usciti nelle sale è
incerto, e non di poche unità ma di svariate dozzine da una fonte
all'altra 51 , ogni ricostruzione che cerchi di basarsi su cifre desunte da
fonti d'epoca risulta improba; cercare poi di quantificare quanti uomini e
quante donne, quanti giovani e quanti anziani frequentassero le sale è da
escludere, dal momento che non esistono riferimenti a questi elementi fra
i dati di vendita dei biglietti. Si può tutt'al più, e pare più che sufficiente
per i nostri scopi, ricostruire approssimativamente quale fosse la
situazione grazie alle memorie, scritte ed orali, di chi era presente; e
naturalmente anche tramite le fonti indirette, per quanto esse vadano
prese con cautela. Tanto per restare nel nostro campo si osservino i film

51
Non staremo a citare tutte le fonti e le loro discordanze, ma le cifre indicativamente variano da circa
660 ad oltre 720 nel periodo 1930-1943.

48
dell'epoca con l'occhio stavolta dello storiografo: quando nei film vi sono
scene ambientate dentro un cinema o all'uscita o entrata di esso, non si
vedono perlopiù altri che giovani, parimenti ragazzi e ragazze, con lieve
prevalenza dei primi; qualche sparuto signore, più spesso con signora al
seguito che solo, e mai donne mature da sole; pochissimi ragazzini, che
pure notoriamente per il cinematografo impazzivano e s'intrufolavano in
sala in ogni modo: ma probabilmente li si trovava nei cinema
parrocchiali o di terza visione, e non nelle sale lussuose che sole
vengono messe in scena nei film 52 . Famiglie al completo, a dar retta ai
testi filmici, al cinema non se ne vedono quasi mai. Di anziani non si ha
traccia.
A sentire le testimonianze della generazione che aveva vent'anni nel '40
la realtà non era molto diversa dalla finzione filmica 53 . Il cinematografo
era luogo soprattutto di giovanotti, borghesi di diversa levatura a seconda
della sala: i "signori" e i popolani frequentavano sale diverse in zone
diverse, non certo per discriminazione ma per il più semplice dei motivi:
il diverso prezzo del biglietto. Quanto alle signorine, la loro presenza nei
cinema, con amiche o meno spesso in gruppo misto o in coppia (il
cinematografo, non dimentichiamolo, era pur sempre visto dalla
generazione precedente come un'oscura sala di dubbia moralità) sembra
molto più legata allo spazio sociale: più frequente nelle metropoli come
Roma o Milano, decresce rapidamente nelle città più provinciali e
scompare nelle zone rurali, ove peraltro i cinematografi non
abbondavano certo. D'altronde, questa stessa dinamica sociologica è in

52
Bisogna inoltre ricordare che nei film l'ambientazione è quasi sempre quella metropolitana, perlopiù
romana; la situazione sociale e del consumo spettacolare in realtà diverse del Paese era diversa in
modo consistente da quella della capitale.
53
Per le preziose testimonianze dirette, che utilizziamo in questo punto e disseminate qua e là lungo
tutto il lavoro, ringrazio in modo particolare Franco Chiodi, classe 1919 e una fervida memoria di
quello che furono il cinema e la rivista nella Brescia dell'epoca.

49
gran parte applicabile al consumo di spettacoli cinematografici in
generale, senza distinzioni di sesso, età o status. A nutrirsi di cinema
erano soprattutto le grandi città.
Confermata è l'assenza dalle sale delle persone più avanti con gli anni,
per un duplice motivo: le difficoltà economiche di cui spesso gli anziani
facevano per primi le spese, e la preferenza, fra chi poteva permettersi
svaghi, di altre forme di intrattenimento, come l'opera, la rivista o forme
non spettacolari 54 .
Le famiglie al completo non frequentavano il cinema se non raramente:
era un tipo di spettacolo non ritenuto in genere adatto a giovani e
bambini. L'eccezione era costituita da qualche (sparuto) film
particolarmente adatto ed espressamente dedicato ai fanciulli: molti di
coloro che a quel tempo portavano ancora i calzoni corti entrarono per la
prima volta in un cinematografo che non fosse la sala parrocchiale in
occasione dell'uscita di Biancaneve e i sette nani, il gioiello disneyano
che, crediamo, dovette far sgranare gli occhi non poco anche ai genitori
che li accompagnavano.
Ma abbiamo citato i cinema parrocchiali, e non a caso: per moltissimi,
specialmente nelle zone d'Italia dove più forte era la presenza della
chiesa in un contesto sociale moderno, il primo schermo fu quello della
sala parrocchiale. Vi si proiettavano film di poco rilievo e spesso di
nessuna circolazione nelle sale pubbliche: pellicole agiografiche, storie
virtuose, eventi miracolosi. Solo raramente arrivava qualche film, in
terza visione, di normale circolazione: la selezione, assolutamente
vincolante, del Centro Cattolico Cinematografico attraverso le sue

54
In particolare, i testimoni dell'epoca ci ricordano come, almeno nel nord Italia, la gran parte delle
persone uscite per anzianità dal mondo produttivo passassero il loro tempo nelle osterie, non solo
mescite di vino ma vero punto di aggregazione sociale, per tutti ma soprattutto per gli anziani: lì si
incontravano i conoscenti, si discutevano le questioni, si leggevano i giornali, si ascoltava la radio, si
concludevano anche affari, e naturalmente si passava il tempo con occupazioni come il gioco a carte.

50
Segnalazioni cinematografiche (e, prima della fondazione del CCC,
attraverso la Rivista del cinematografo del Consorzio Utenti
Cinematografi Educativi) censura con grande severità le pellicole sia
nazionali che estere, bollandone molte come inadatte tout court alla
visione da parte di occhi pii e concedendo a pochissime lo status di
"visibile anche in sala parrocchiale". Col passare degli anni, le schede
del CCC si baseranno sempre più, oltre che sul giudizio morale, su
quello ideologico, in una crescente concordia col regime: basti ricordare
che vennero ammessi alla proiezione parrocchiale molti film sulle guerre
d'Africa e di Spagna.
Le sale parrocchiali erano dunque in grandissima parte frequentate
proprio dai giovanissimi, per i quali erano scelti solo film educativi o
edificanti; tanto che era prassi comune che l'accesso alla proiezione
prevedesse non il pagamento del biglietto ma la presenza alla messa
domenicale, col noto meccanismo dei "timbrini" 55 : all'uscita dalla
funzione venivano timbrate apposite tesserine o simili che davano
l'ingresso alla proiezione del film. La frequentazione delle sale
parrocchiali era dunque non solo un fatto prettamente giovanile, ma i
fanciulli frequentavano tali spettacoli da soli, e non insieme alla
famiglia; la loro tutela era delegata ai sacerdoti. Più raramente i ragazzini
facevano parte del pubblico dei cinematografi pubblici: la libertà
concessa dalla famiglia ai giovanissimi era ancora estremamente
ristretta, e perlopiù erano ragazzini di famiglie popolari o della bassa
borghesia ad infilarsi nei cinematografi di terza visione, marinando la
scuola o spendendo gli spiccioli guadagnati con i loro piccoli lavori da
garzoncelli frequentando le sale negli spettacoli pomeridiani. I figli delle
classi più agiate, che studiavano e non entravano ancora bambini nel

55
O con sistemi similari, come tagliandi eccetera.

51
comunque emancipante mondo del lavoro, non frequentavano le sale
cinematografiche se non saltuariamente e in casi particolari.
L'iniziazione al cinema avveniva alle soglie dell'ingresso nel mondo
adulto. Ed a qualunque età avvenisse era, è bene dirlo, un'esperienza
vissuta in proprio e non guidata dalla famiglia, in virtù del fatto che il
gap generazionale fra genitori e figli impediva che i primi potessero
avere gli strumenti culturali e la mentalità per guidare i secondi alla
scoperta di una forma di spettacolo che praticamente non esisteva
quando essi erano nati, o che era ancora una sorta di attrazione da
baraccone verso la quale resistevano forti pregiudizi; senza scordare
inoltre che l'avvento del sonoro aveva profondamente mutato l'essenza
stessa del cinema, e che la generazione precedente continuava a
preferirgli le più tradizionali forme di spettacolo come il teatro, la lirica e
la rivista.
Abbiamo dunque visto, pur se con approssimazione e con inevitabili
generalizzazioni (si è già detto come la situazione variasse moltissimo in
base a zone geografiche, fasce socioeconomiche e così via) quale fosse il
pubblico del cinema dell'età fascista. La domanda che si pone ora è se e
quale corrispondenza vi fosse fra il pubblico reale e un ipotetico
"pubblico ideale" al quale il regime fosse interessato a rivolgersi, in
modo più o meno diretto, tramite il cinema; o, più semplicemente, quale
rapporto intercorresse fra la società italiana reale e i modelli sociali che
filtravano dagli schermi.
Non è il caso di entrare qui nell'annoso e complessissimo dibattito fra
chi ritiene che questo cinema fosse profondamente fascista e chi lo
considera perlopiù un cinema afascista e privo di valenza politica; mi
paiono del resto di un'evidenza lapalissiana sia il fatto che una forma
espressiva come il cinema non possa non respirare profondamente l'aria

52
dei tempi in cui vive, sia il fatto che il regime fascista non volle usare e
non usò mai lo spettacolo cinematografico come forma di propaganda
diretta (contrariamente a quanto avveniva negli stessi anni in
Germania 56 ).
Il cinema italiano dal 1930 al 1943 può dirsi, più che un cinema fascista,
un cinema dell'Italia fascista: la differenza sta nel legame più con gli
umori del paese che con l'ideologia del regime. Sta di fatto che se vi è un
campo, un tema sul quale pare esservi una profonda aderenza fra la
società italiana (nella sua realtà e nelle sue aspirazioni), il regime fascista
e la rappresentazione cinematografica, questo è proprio il tema della
famiglia. In modi e momenti diversi o coincidenti il cinema ha
rappresentato la mentalità o la realtà o le aspirazioni degli italiani e delle
loro famiglie, come pure i diversi aspetti dell'ideologia familiare
propugnata dal fascismo, senza che l'uno e l'altro aspetto si trovassero
mai o quasi in contrasto, almeno fino agli ultimissimi anni del fascismo,
quando ormai il dissenso fra il paese e il regime cominciava a
manifestarsi anche e soprattutto in altri campi. Ma prima di giungere a
vedere come il cinema dell'età fascista abbia seguito nella
rappresentazione della famiglia percorsi ora fissi ora mutevoli sulla linea
diacronica, analizziamo tale rappresentazione familiare scomponendola
nei suoi singoli elementi, i membri della famiglia cioè. Quali erano i
personaggi sui quali il cinema concentrava maggiormente la sua
attenzione nell'ambito della famiglia? E secondo quali modelli li
rappresentava?

56
Il regime nazista fece un uso larghissimo e stringente del cinema come mezzo di propaganda diretta:
non solo attraverso l'ossessiva elaborazione formale che ruotava attorno alla raffigurazione di Hitler
nelle riprese cinematografiche dei suoi discorsi, ma anche attraverso il cinema di finzione, nel quale
abbondavano i film razzisti, antisemiti e incentrati sul destino di dominio mondiale che attendeva la
Germania e la razza ariana.

53
3.2 Il nucleo familiare: chi sotto i riflettori?
La prima necessaria precisazione è che in questi paragrafi ci occuperemo
della rappresentazione che il cinema dà dei diversi membri della famiglia
in modo generale, tracciando quadri complessivi di quali fossero le linee
guida individuabili a prescindere dalla datazione dei singoli film e dal
fatto che l'istituzione famiglia subisca o non subisca processi di
rinnovamento della propria presenza nel cinema; questo sarà invece
argomento dei due successivi capitoli, nei quali si analizzeranno appunto
un modello di rappresentazione della famiglia che rimane costante nel
corso degli anni del regime, e uno che invece subisce trasformazioni nel
corso degli anni ed in particolari momenti.
Pare però opportuno dapprima individuare quali siano le figure familiari
che il cinema del periodo fascista porta con più frequenza sugli schermi,
ed individuare i caratteri prevalenti che queste figure assumevano.
Necessaria operazione preliminare è stabilire quali delle relazioni
familiari siano significative o meno nell'ambito del nostro discorso, cioè
quali siano i rapporti di parentela che individuano membri del nucleo
familiare che sono attivi nelle strutture narrative dei film e quali quelli
che restano invece prevalentemente inattivi, non sfruttati. Infatti,
all'interno di una famiglia gli individui contano innanzi tutto per ciò che
rappresentano, per il loro ruolo in rapporto con gli altri membri: non
esiste un padre se non c'è un figlio.
Vediamo così che alcuni dei rapporti familiari rimangono fuori dagli
schermi, ed in particolare, fra i rapporti di parentela primari, è quasi del
tutto assente la dinamica del legame fra fratelli o sorelle. Queste ultime
talora compaiono, in virtù generalmente del ruolo narrativamente
comodo che la loro complicità può rivestire, ma praticamente mai si
sviluppa nel racconto un qualsivoglia punto di interesse rispetto al

54
rapporto fra di esse. Penso ad esempio a film come L'allegro fantasma 57
nel quale le tre sorelle servono esclusivamente ad inserire canzonette nel
film (si tratta infatti dell'allora noto Trio Primavera), tanto che esse sono
del tutto indistinte e che, se invece che tre sorelle vi fosse una sola
ragazza, nulla nella narrazione muterebbe (e, a dir la verità, il film ne
avrebbe guadagnato assai); oppure a Il birichino di papà, dove pure il
centro dell'azione si snoda proprio attorno alla benefica intromissione
della sorella minore nella vita della maggiore, senza però che questo
fornisca nessuno spunto che vada oltre la pura funzione narrativa volta ai
soli fini dell'intreccio; oppure ancora ad un film importante e di livello
superiore come La signora di tutti, nel quale la sorella della protagonista,
dopo una presenza nella prima mezz'ora di film puramente di contorno
nei soliti panni della sorella-complice, scompare completamente per
l'intero film, per un'ora, prima che lo spettatore scopra, nel finale
(l'ultima scena dell'allucinato flashback della morente protagonista,
prima che il tempo filmico torni lineare e ce la mostri morta) che proprio
quella sorella è la causa del suicidio di Gaby / Isa Miranda, in quanto
essa ha sposato l'unico vero amore della vita dell'infelice donna fatale.
Tutto ciò, sia ben chiaro, senza neppure che tale sorella appaia: viene
solamente nominata. Lei ed il suo rapporto con la sorella hanno né più né
meno la stessa importanza di un oggetto scenico, di uno di quei fazzoletti
con le iniziali ricamate che riempivano da secoli la storia del racconto di
ogni tipo. Il rapporto di sorellanza, dunque, è presente sugli schermi in
modo del tutto inattivo, puramente come espediente narrativo; ma
peggior sorte ancora è quella che tocca ai fratelli, che non hanno neppure
questa parte: sono semplicemente assenti.

57
A. Palermi, 1941

55
Naturalmente in questo schema di legami familiari, e passiamo ora alle
relazioni che sono attive nella cinematografia degli anni '30, vanno
incluse, e sono anzi fondamentali, anche le relazioni "in fieri", e non solo
quelle già consolidate: quindi non si tratta solo di mogli e mariti, ma
anche e soprattutto di fidanzati, di future mogli e futuri mariti, di uomini
e di donne in età e condizione tali da porsi nel momento di approccio, di
accesso al nucleo familiare, o meglio di passaggio da un nucleo familiare
all'altro; sebbene quest'ultimo passaggio, quello cioè relativo al transito
dal nucleo familiare d'origine e dallo status di figlio al nuovo nucleo
familiare col relativo status di marito, risulti spesso curiosamente
assente, rimosso, particolarmente per quanto riguarda l'uomo. La
stragrande maggioranza dei film dell'epoca prevedeva due attori giovani
che, attraverso varie vicende, finivano con il conoscersi, l'innamorarsi
romanticamente e lo sposarsi (che poi il matrimonio venisse mostrato
come lieto fine o solo annunciato o reso scontato da baci o fidanzamenti
non fa in realtà alcuna differenza); ma non sempre veniva mostrato nella
narrazione il nodo cruciale del passaggio dalla famiglia d'origine alla
nuova, e nella grande maggioranza dei casi ad essere rappresentata in
questo momento era solo la famiglia originaria della donna; molto più
raramente quella dell'uomo, e in casi ancor meno frequenti entrambe.
Anche quando ciò avveniva, inoltre, non si approfondiva troppo
l'argomento: pare che la questione dell'uscita dalla famiglia paterna e
l'approdo alla nuova fosse un fatto che coinvolgeva soltanto le donne. Il
motivo non è troppo difficile da individuare: lo status della donna in età
da marito rimaneva nonostante tutto quello di una figura sottomessa, che
usciva dalla potestà del padre solo per entrare sotto la potestà del nuovo
uomo, il nuovo padrone, il marito. È questo principio di "cessione" della
donna come soggetto subordinato quando non oggetto, che già

56
cominciava a venire rifiutato dalla nuova generazione negli ambienti più
toccati dalla modernità, che a mio parere provoca la parziale rimozione
della questione nel cinema dell'epoca. In molti film e specialmente nelle
commedie (che come detto sono collettivamente la punta più avanzata
nella rappresentazione dei desideri e dei comportamenti sociali moderni)
le famiglie originarie sono semplicemente assenti dalla storia: esse sono,
letteralmente, rimosse, nel nome di quel desiderio di libertà per sé che le
donne cominciavano ad avvertire come un'urgenza non più rimandabile.
Le "segretarie private" non sembrano aver famiglia. E l'operazione
riguarda anche la grandissima maggioranza di quei film in cui la famiglia
d'origine compariva e ricopriva un ruolo centrale nella narrazione: con la
rarissima, parziale eccezione di qualche melodramma, infatti, quando
veniva mostrato in un film il momento topico del transito fra una
famiglia e l'altra lo svolgimento della vicenda era sempre uno solo: la
figlia innamorata di un uomo che i genitori non acconsentivano a farle
sposare (o fidanzare, come detto) rifiutava l'eventuale matrimonio
d'interesse gradito dalla famiglia, convinceva i genitori attraverso varie
peripezie e poteva unirsi infine al suo amato. Non è presente invece la
soluzione autoritaria, cioè l'accettazione a forza da parte della ragazza
del matrimonio senza amore voluto dalla famiglia. Questo è il dato più
indicativo: il cinema non può rappresentare la soluzione tradizionale
(perché, non dimentichiamolo, era così che andava normalmente
nell'Italia di solo una generazione prima, ed ancora in quegli anni il
matrimonio combinato era prassi non scalfita soprattutto fra i ceti non
urbanizzati) poiché essa non è accettata dal suo pubblico, che era
composto proprio da quei giovani borghesi che cominciavano a rifiutare
tale vecchia mentalità. Ma c'è anche, a fianco del motivo prettamente
cinematografico di tale rimozione, una più sottile questione, di stampo

57
prettamente sociale, antropologico. Se pensiamo anche al melodramma,
che pure come si è detto rappresentava i valori e i costumi sociali di
un'Italia tradizionale ed antimoderna, vediamo ugualmente come non vi
siano tragedie legate alla proibizione di un determinato matrimonio e
all'imposizione di un altro, legate cioè al transito dal vecchio al nuovo
nucleo. La motivazione è che anche nell'ambito di questa realtà sociale
più arretrata, il valore primario del matrimonio è e rimane quello della
riproduzione, della continuazione della specie e della stirpe. La soluzione
tragica di un matrimonio imposto, o anche di un matrimonio che si riveli
infelice a causa di traumi nel passaggio fra la famiglia d'origine e la
nuova famiglia 58 , non era accettabile in quanto comportava, con la morte
della protagonista, che il ciclo generazionale della vita venisse spezzato,
e per di più in conseguenza di un atto compiuto proprio dalla famiglia
originaria. Un simile evento andava contro le più primarie norme sociali,
in modo del tutto inaccettabile. Così, di fronte alla crescente pressione
della modernità col suo portato di nuove esigenze sociali, le dinamiche
antropologiche spingono verso il male minore, ossia l'abdicazione della
famiglia originaria dalla sua autorità nel momento dell'uscita dal vecchio
nucleo e della formazione del nuovo in nome della superiore priorità
della continuazione della stirpe. Ed il cinema, che più di ogni altro
medium dell'epoca era per sua natura in grado di percepire
inconsciamente tali dinamiche, che entrano così a far parte della
rappresentazione.

58
È il caso, ad esempio, di Mamma (regia di G. Brignone, 1940), nel quale una donna avvezza alla
vita di città ed alla socialità mondana sposa un tenore e viene da lui condotta a vivere nella vecchia
casa di famiglia, isolata in campagna, con la di lui madre, donna troppo diversa da lei. Il trauma del
disadattamento causa tale infelicità alla donna, lasciata peraltro sempre sola dal marito impegnato in
continue tournee, da condurla alla fuga ed ad un passo dall'adulterio; ma la situazione si risolverà con
la riappacificazione degli sposi attraverso il sacrificio della madre. Come si vede, la salvaguardia della
nuova famiglia è prioritaria sulla vecchia; ed infatti, nel finale del film, dalla scena della morte della
madre si passa in dissolvenza sulla nascita del figlio della coppia: la continuazione della stirpe è stata
salvaguardata ed il ciclo naturale, scongiurata la rottura, può continuare.

58
Ma come si vede è soprattutto di donne che abbiamo parlato; ed è infatti
la donna la figura centrale del cinema dell'età fascista, protagonista
indiscussa del mondo familiare nel quale solo essa è compiuta e regina
incontrastata degli schermi d'Italia. Ed è da essa, e dalla posizione che i
film le riservano entro il sistema familiare, che deve partire
necessariamente l'esame dei singoli ruoli familiari e delle immagini che
il cinema dà di essi.

3.2.1 La donna protagonista


Molto abbiamo già detto sull'immagine della donna nel cinema italiano
degli anni '30, e molto ancora avremo modo di dire più avanti sui
mutamenti che tale immagine subisce nel corso degli anni dal 1930 al
1943. Quello che ci interessa ora è concentrarci sulla figura femminile
nel panorama generale del periodo, delineando quale sia il peso della
donna nei rapporti d'importanza, sia narrativa che sociale, all'interno del
contesto familiare, e quali siano gli stereotipi centrali secondo i quali
essa è rappresentata, lasciando per il momento da parte la questione del
se e come alcuni di questi stereotipi si evolvano durante il periodo preso
in considerazione.
Lo spunto obbligato di partenza è il divismo femminile, e la sua
superiorità netta su quello maschile. Di fatto, tutto il cinema dell'età
fascista è un cinema, se non di dive, di donne. Meglio ancora, di ragazze.
Infatti le protagoniste di tutta questa cinematografia, tanto delle
commedie quanto dei drammi o delle avventure o delle rievocazioni
storiche, sono sempre e solo fanciulle o giovinette, sul punto di sbocciare
alla vita o cariche di vitale femminilità in fiore o in boccio. Prima ancora
di vedere in che modo dive come Doris Duranti o Alida Valli o Carla del
Poggio incarnassero aspetti diversi della donna in film di diverso taglio

59
ed ambiente, si precisa subito che non vi è posto per signore mature,
donne di mezza età e fascini matronali tra le protagoniste di questa
stagione: la donna del cinema anni '30 è, quasi per statuto, la bella
fanciulla in età da marito 59 . Il tipo di personaggio, cioè, che consentiva
identificazione, emulazione e sogno alle giovani italiane insolubilmente
legate dai lacci, dorati, falsi e vagheggiati, dell'ideale dell'amore
romantico.
"Il rapporto fra cinema e pubblico va studiato dettagliatamente,
specialmente rispetto alla storia, sia perché il cinema ha un ruolo nella
formazione mentale del pubblico sia perché il film utilizza le
convenzioni già esistenti nell'ambiente. Per esempio bisogna domandarsi
se le giovani donne sono spinte dall'esperienza reale a volersi innamorare
o se cercano invece di raggiungere certi miti" scrive la Lesage 60 ; e di
seguito individua, come punto centrale attorno a cui si snoda il ruolo
narrativo del personaggio femminile, il mito dell'amore romantico,
"concetto dominante della società" posto "come massima soddisfazione
della vita della donna" 61 .
È infatti il mito dell'amore che contraddistingue, in tutta la
cinematografia dell'età fascista, il ruolo della donna, qualunque tipo
sociale essa incarni. Non vi è differenza sotto questo aspetto fra le varie
figure di donna che questo cinema ci presenta, siano esse collegiali o
maestrine, povere o ricche, segretarie o campagnole. Ugualmente che il
loro mondo sia fra le rose o i banchi o le scrivanie o i fornelli, tutte

59
Nella totale assenza di protagoniste di mezza età, con le attrici confinate tuttalpiù e nemmeno con
frequenza nel comprimario ruolo di madri delle protagoniste, un ristrettissimo numero di film porta
invece in primo piano la figura della donna anziana; ne renderemo conto in questo capitolo nel
paragrafo dedicato appunto alla figura degli anziani.
60
J. Lesage, Strumenti per una critica femminista di cinema, in "Effe", n. 5 (maggio 1976), p. 30.
61
Ibidem.

60
hanno un solo desiderio ed un solo destino: l'innamoramento romantico
ed il matrimonio.
D'altro canto vi sono motivi anche d'opportunità in questo schema non
sgradito al regime: conciliando il sogno romantico e la realtà
matrimoniale, quella che si crea è un'alleanza fra immagine filmica e
società, volta a far sì che i desideri e le nuove aspirazioni social-
sentimentali delle giovani generazioni di "italiani di Mussolini", ormai
non ulteriormente eludibili, si indirizzino poi concretamente verso la
giusta, necessaria e tradizionale funzione sociale della donna nella
famiglia, quella di sposa e madre esemplare. L'Italia cattolica e fascista
non può permettersi che i giovanili grilli per la testa di coloro che
devono ingrossarne le file permangano oltre l'età della fanciullezza.
Così, quello che tutto il cinema fascista narra intorno alla figura della
donna è, si potrebbe dire, un rito di passaggio, passaggio dalla
spensieratezza della gioventù all'assennatezza della virtù muliebre; e ne
fa un rito celebrato sullo schermo in piena letizia e sicuro lieto fine da
uomini belli o ricchi o entrambi che sposano ragazze incredule e felici
della loro buona sorte, del loro grande sogno d'amore coronato. Ciò
affinchè, attraverso questo rito cinematografico, le giovani donne
idealizzino e si liberino di ogni remora circa la necessità e la bontà di
tale passaggio alla condizione coniugale.
Che il ruolo naturale della donna nella società fosse quello di compagna
dell'uomo e riproduttrice della specie, nell'età fascista è cosa fuor di ogni
dubbio. Ma, una volta salvaguardato questo fondamentale punto, appare
evidente che esso non può essere un tema narrativamente interessante
per il cinema, dal momento che esso non è in grado di formare una
storia, ma soltanto di darne l'abbrivio al lieto fine nuziale. Il fatto che il
protagonista e la protagonista si sposeranno o fidanzeranno alla fine del

61
film è, oltre che scontato, insufficiente, anche perché essendo tale
destino comune a tutte le donne, non fornisce spunto per nessun tipo di
caratterizzazione. Spunti che forniva invece, ed in abbondanza, una
banale occhiata alla realtà quotidiana concreta della donna. Le italiane,
infatti, accomunate da questa via a senso unico verso il matrimonio,
avevano però molto altro su cui differenziarsi, e molto altro sapevano
esprimere e di fatto stavano esprimendo proprio in quel momento nella
società italica e fascista. In effetti, proprio allora cominciavano ad
emergere dietro l'ancora intoccabile sfondo della figura di moglie e
madre nuovi aspetti della presenza della donna nella vita sociale, ed
insieme ad essi si formavano nuovi modelli di donna: modelli che,
sollevati dalla realtà ed intinti in un buon bagno di sogno, vengono
prontamente immessi sugli schermi. Nascono così i personaggi-tipo: le
collegiali, le dame da telefoni bianchi, le segretarie, le ragazze di
provincia. Ed, insieme ai personaggi, nascono i filoni del cinema dell'età
fascista; un cinema che ritengo di poter definire, proprio per questo suo
costruirsi in base alla figura femminile, un cinema di donne.
Tutto cominciò, si è soliti dire, con il trillante "Oh come son felice,
felice, felice!" gorgheggiato al mondo da Elsa Merlini ne La segretaria
privata. Se ciò è vero per quanto riguarda i testi filmici, vedremo come
invece dal punto di vista sociale l'origine stia più a monte. Ma quello che
ci interessa ora è evidenziare come, in quella figura, è già riassunta gran
parte dell'immagine femminile del cinema fascista, con i suoi temi
centrali, primo fra tutti quello, inedito e non certamente usuale, del
lavoro.
Abbiamo già riportato le parole di chi individuava, nel 1940, come La
segretaria privata rappresentasse l'uscita allo scoperto di un'intera
generazione di ragazze per le quali, per la prima volta, il lavoro poteva

62
considerarsi una realtà normale; ed anche come la "crisi del '29" ed un
nuovo modello economico di nascente consumismo imponessero alle
famiglie nuovi introiti. In quello stesso articolo 62 Assunto indicava la
gaia segretaria Merlini, crediamo per primo, come "Cenerentola del
secolo ventesimo", con felice definizione che identifica immediatamente
i due poli centrali del discorso: la matrice fiabesca da un lato, la
modernità dall'altro. Perché la rappresentazione della donna nel cinema
degli anni '30 si sviluppa attraverso questo doppio registro: la volontà (o
necessità) di far sognare, di indirizzare il pensiero dello spettatore fuori
dalle difficoltà e miserie quotidiane, e la presa d'atto di una rinnovata
situazione della donna nel suo rapporto con la famiglia e la società in
evoluzione, primariamente vista attraverso il nuovo tema della vita
femminile: il lavoro.
Infatti, pur senza contravvenire alla nota e inflessibile ideologia della
"moglie e madre esemplare", il cinema dal 1930 in poi comincia a
proporre nuovi personaggi femminili, nei quali tale ideologia è, per così
dire, filtrata attraverso il tema del lavoro. Il successo de La segretaria
privata creò un nuovo mito, non solo quello di Cenerentola con il
matrimonio dell'umile dattilografa col principesco direttore di banca, ma
anche e soprattutto quello della donna che lavora; anzi, della donna che
può lavorare senza per questo che venga meno nulla della sua
femminilità, che infatti si sublima e si appaga nel lieto fine matrimoniale,
con un matrimonio che riesce ad essere insieme d'amore e di grande
convenienza sociale.
Si trattava di un successo che generò immediatamente un filone di film
consimili, nei quali fin dal titolo si identificava la protagonista come

62
R. Assunto, cit.

63
donna lavoratrice: La maestrina 63 , La telefonista 64 , La segretaria per
tutti 65 e via di seguito. Ed il successo era dovuto proprio alla
commistione di quel favoleggiato desiderio di amore romantico e
matrimonio socialmente elevante, e di identificazione nelle protagoniste
di un modello presente e ben reale nel paese, quello della donna al
lavoro.
Appare evidente che questa figura di lavoratrice non era facile da
conciliare con quella tanto cara al regime e tanto radicata nel costume
italico di moglie e madre. Pure, fu necessario trovare il modo di far
coesistere le due realtà, perché il regime non era più nelle condizioni di
permettersi che la pur tanto pressante propaganda per la battaglia
demografica e l'educazione domestica privasse il paese di forza-lavoro
divenuta ormai indispensabile per sostenere un'economia che
particolarmente dopo la crisi del'29 stava andando in sfacelo. Anche
all'interno delle fila del regime si scontravano, sul tema, due anime ben
diverse: da un lato i bottaiani, favorevoli all'ingresso delle donne nel
mondo del lavoro, dall'altro l'ala oltranzista, nettamente contraria in
nome della donna destinata a mettere al mondo nuove schiere di italiani
nel chiuso del focolare domestico. Il terreno su cui trovare la
conciliazione fra i due aspetti non fu difficile ad individuarsi; basti
pensare alle parole della bottaiana Castellani, una donna, una dirigente
del Partito ed una sostenitrice dell'apertura al lavoro femminile: "Chi
conosce le donne che lavorano sa che aspirano, 99 casi su 100, al
matrimonio e al compito familiare" 66 ; ed erano parole del tutto
corrispondenti alla realtà. Bottai e la sua corrente avevano perfetta

63
G. Brignone, 1932
64
N. Malasomma, 1932
65
A. Palermi, 1933
66
Citato in P. Meldini, op. cit. , p.79

64
coscienza di come il lavoro femminile fosse una necessità che, per
quanto potesse essere o meno accettata come intrinseca alla
modernizzazione della società, era in quel momento in Italia resa
indispensabile dal disastro economico di fine anni '20.Si ponevano
giocoforza le condizioni preliminari per un rinnovamento sociale stabile
della funzione della donna, che per la prima volta diventava soggetto
economicamente attivo; ma lo si faceva, per ora, attraverso un richiamo a
condizioni eccezionali di necessità, al fine di convincere la donna ad
impiegarsi nel lavoro in nome, oltre che della nazione, proprio di quella
famiglia che la propaganda continuava a ritenere lo sbocco infine
obbligato della condizione femminile. E così le donne del cinema del
fascismo saranno delle donne che lavorano; e di fatto una donna che non
lavora non la si vedrà quasi mai se non in ruoli particolari, caratterizzata
come modello negativo e di dissolutezza mondana. Ma, sempre, sono
donne che lavorano con in testa la famiglia, ed anzi in vari casi (come ad
esempio Vecchia guardia 67 e Come le foglie 68 ) sono esplicitamente
donne che lavorano per rimediare ad una difficile situazione familiare, in
assenza dell'uomo; e, si intuisce, non lavoreranno più quando i loro
uomini torneranno e si potrà realizzare finalmente il loro sogno, il loro
desiderio di famiglia.
Ma l'accesso della donna la mondo del lavoro comportava un rischio non
indifferente rispetto alla stabilità sociale. Benchè le donne d'Italia, come
diceva la Castellani, vedessero ancora lo sbocco matrimoniale come loro
sublimazione e meta, era evidente che si presentavano due pericoli: uno
rappresentato dalla possibile sensibilizzazione delle donne a certi stimoli
di socialità avversi al regime, come quelli presenti nel mondo della

67
A. Blasetti, 1935
68
M. Camerini, 1934

65
fabbrica (non si dimentichi che le donne venivano ancora considerate
come soggetti intellettualmente deboli e facilmente traviabili), l'altro
rappresentato dalla possibilità che l'aspirazione al lavoro finisse col
"superare l'intensità di aspirazione al matrimonio e alla famiglia" 69 ; due
casi che finiscono col combaciare, dal momento che proprio
nell'organizzazione sociale della fabbrica emergono quegli elementi
destabilizzanti di nuova comunità che rischiano di porsi in alternativa
alla comunità familiare. Si pensi, a questo proposito, ad Acciaio 70 ,
rarissimo caso di film d'ambiente industriale nel periodo fascista, dal
quale emerge per più d'un verso la volontà di celebrare il trionfo
comunque della famiglia anche fra uomini e donne dell'ambiente della
fabbrica.
Non che il rischio di un'eccessiva emancipazione femminile fosse troppo
insidioso per la mentalità delle donne italiane, come la Castellani aveva
colto. In Noi vivi, ad esempio, quando Kira / Alida Valli sente fare un
discorso sull'emancipazione femminile storce il naso, e a fare tale
discorso è un'antipaticissima "rossa", brutta, scarmigliata, sudiciona, un
perfetto ed esemplare concentrato di anti-femminilità. Un simile discorso
non può far breccia: le italiane, sia le fidanzatine dello schermo come lei
che tutte quelle che vi si identificavano, non vogliono indipendenza ma
un uomo per il quale palpitare. Cionondimeno, con il solito doppio
reciproco rimando che la realtà da un lato ed il regime dall'altro operano
sul cinema, gli indirizzi dei film rispecchiano la volontà sia delle donne
che della propaganda, indirizzando l'immagine del lavoro femminile solo
verso "quei settori in cui la funzione di moglie e madre esemplare nella

69
A. Frabotta, Per una nuova storia della donna nel cinema italiano, in A. Miscuglio e R. Daopulo (a
cura di), Kinomata. La donna nel cinema, Dedalo, Bari 1980, p. 80.
70
W. Ruttman, 1933

66
famiglia fascista non venisse messa in discussione" 71 . Così, mentre
Acciaio rimane un caso del tutto isolato, si verifica l'esplosione sugli
schermi delle segretarie, delle dattilografe, delle sartine, delle maestre,
delle commesse. Esattamente quei lavori nei quali, proprio in quegli
stessi anni, le donne facevano ormai la parte del leone: in vent'anni dal
1911 al 1931 la presenza femminile nel settore impiegatizio si era
quintuplicata, nell'insegnamento vi erano 8 donne ogni 3 uomini, nei
servizi domestici le donne erano quasi 8 volte gli uomini, e così di
seguito. Restava invece immutato, cioè ancora in nettissima minoranza,
l'apporto femminile all'industria 72 . Il pericolo della sovversione da una
socialità cattolica basata sulla famiglia tradizionale ad una socialità
operaia e proletaria in odore di socialismo basata sulla comunità operaia
era così scongiurato, con soddisfazione tanto della Chiesa quanto del
regime, che in questa difesa della famiglia toccano uno dei loro punti di
massimo accordo.
Abbiamo osservato che, nel cinema del periodo fascista, una donna che
non lavora non si vede quasi mai, non almeno come protagonista e come
modello positivo e propositivo; piuttosto accade che la donna non sia,
fisicamente, parte integrante del film. È il caso, per esempio, di un non
esteso gruppo di film come Luciano Serra pilota 73 o Il grande appello 74
o ancora Squadrone bianco 75 ed anche, per certi versi, della prima parte
di Cavalleria 76 con l'eroismo del soldato "emergente" Amedeo Nazzari a
polarizzare il centro dell'azione drammatica. Questi film, storie di guerre,
drammi fra uomini, eliminano completamente la donna. Non c'è posto

71
A. Frabotta, op. cit, p. 80
72
Per questi dati cfr. A. Frabotta, op. cit.
73
G. Alessandrini, 1938
74
M. Camerini, 1936
75
A. Genina, 1936
76
G. Alessandrini, 1936

67
per la figura femminile nello scenario tutto virile e quasi misogino di
questi eroismi bellici. La compagna del guerriero non può, in questi film
che sono fra i pochissimi di guerra (e quindi di propaganda per le
conquiste italiane: basta guardare gli anni di produzione per capire il
contesto storico), permettersi di rubare la scena all'eroico soldato
italiano. Ed infatti per questo soldato, come vedremo parlando della
figura maschile, la donna può solo essere o causa di guai o, più spesso
appunto, premio finale al vincitore che ritorna. Ma per ora torniamo alle
donne. Anzi, alle ragazze.
Abbiamo detto infatti che le donne del cinema fascista sono donne al
lavoro, ma c'è una eccezione, e non da poco: il filone cosiddetto
"collegiale". Filone bizzarro, mi permetto di dire, particolarmente nella
misura in cui ad impersonare queste collegiali o orfanelle che non
dovrebbero a rigor di logica avere più di quindici anni sono le stesse
attrici, non proprio nell'età per il ruolo, che erano impresse a fuoco
nell'immaginario degli spettatori italiani come "fidanzatine" ormai ben
lontane dall'età dei trastulli e in piena età da marito 77 . Spesso la
credibilità anche fisica di queste collegiali era nulla; ma al pubblico
piacevano tanto che nessuno protestava. Forse che molti italiani, in anni
che ormai conducevano tra sinistri scricchiolii verso l'imminente
tragedia, preferivano davanti agli schermi sognare quella beata
fanciullezza, cercare un'impossibile immedesimazione che fosse quasi
regressione, illudersi di sfuggire al mondo adulto?

77
Solo per citare qualche caso come esempio, si pensi a Maria Denis, classe 1916, protagonista nel
ruolo di studentessa pestifera del film di Alessandrini Seconda B nel 1934 e successivamente tornata
al ruolo della liceale, dopo otto anni ed innumerevoli film, con I sette peccati di Kish, nel 1942: una
"liceale" di ventisei anni dunque. Allo stesso modo Silvana Jachino, nata pure nel 1916, interpreterà
una delle due collegiali protagoniste di Le educande di Saint-Cyr (regia di Gennaro Righelli) nel 1939,
a ventitrè anni; al suo fianco, completa un duo di poco credibili fanciulle Vanna Vanni, addirittura più
vecchia della Jachino di un anno.

68
Immedesimazione o meno, è fuor di dubbio che tutte queste candide
fanciulle, raggianti, vitali, piene solo della loro gioventù leggera, della
loro onesta, pura, ingenua adolescenza, servissero a raccontare sognanti
storie d'amore adagiate in un mondo di fantasia, a portare il pubblico
lontano dagli affanni della realtà quotidiana e dalle ombre che da essa si
proiettavano minacciose sul futuro, un futuro di ristrettezze, di fame, di
guerra. È da queste basi ideologiche, sullo sfondo di una società che non
vuole essere adulta, che nasce questa cinematografica infatuazione
dell'adolescenza.
Ma cosa fanno, dove vivono queste adolescenti d'Italia? È naturale che
negli anni del fascismo la vita delle fanciulle si svolgesse racchiusa nel
protettivo nido familiare, secondo la tradizione italica. Ma della vita
quotidiana in casa di una adolescente c'è ben poco di interessante da
raccontare: proprio per la sua normalità, per la sua sostanziale
caratteristica di sistema chiuso, di guscio protettivo, l'ambito del
quotidiano familiare offre ben pochi spunti interessanti ai soggettisti ed
agli sceneggiatori. Non resta perciò che buttarsi, secondo il copione tanto
in voga del deamicisiano "Cuore", sull'unico aspetto della vita delle
fanciulle italiane che si svolge fuori dall'ovattato e grigio orizzonte
domestico, ovvero, l'ambiente scolastico.
Quella manciata di ore mattutine che la normale scuola propone sono
però un limite spesso troppo ristretto per un valido svolgimento
narrativo: difficile in così poco tempo poter formare quei microcosmi di
rapporti personali che rendono interessanti le peripezie delle studentesse.
Ecco così che la soluzione ideale è quella del collegio: un ambiente
narrativamente intrigante, un sistema autonomo perfetto per un serrato
svolgimento dell'azione, un luogo-tempo nel quale, proprio per la loro
separazione forzata dal mondo esterno, le fanciulle del regime

69
concentrano ed esplicitano tutto l'arco delle loro esperienze: non solo
studiano, ma soprattutto complottano, sognano, amano. La dinamica
rimane la stessa sia che si tratti di collegi sia della loro variante
strappalacrime, l'orfanotrofio, sia che l'ambientazione porti le
protagoniste nell'Ottocento e quindi negli educandati. Ed anche quando
non di collegi ma di semplici scuole si trattava, pare comunque che fosse
esclusivamente tra i banchi che le adolescenti vivevano una vita degna di
nota.
Prendiamo ad esempio uno dei film classici del genere,
Maddalena…zero in condotta 78 , nel quale appunto non ci si trova in un
collegio ma in una normale scuola diurna per ragazze della buona
borghesia, la Scuola Commerciale "Audax" (e si noti come queste
ragazzine svagate e raffinate, che hanno tutto fuorchè l'aria di dover
lavorare per vivere, studino in una scuola commerciale, cioè indirizzate
verso un impiego in quel mondo di segretarie e dattilografe che ben
conosciamo ormai). Qui le studentesse entrano ed escono con comodo
dalla scuola, vivono in famiglia, a casa, ma pare proprio che di questa
casa e questa famiglia non importi loro un bel nulla: è emblematico a
riguardo il modo in cui Maddalena organizza nella propria casa
l'intricato doppio intrigo sentimentale senza curarsi punto del suo allibito
padre che resta travolto dagli eventi, comprese due richieste per la mano
di sua figlia fatte da due sconosciuti che gli parlano di incomprensibili
cacce al bisonte. Ed altrettanto significativa è l'irresistibile figura della
"privatista" Irasema Dilian, che pur essendo nuova della scuola, pur
frequentandola solo occasionalmente, pur avendo istitutori che la
educano fra le familiari mura di casa, come si compete al suo rango di
contessina, nondimeno instaura subito un legame forte con la classe, ne

78
V. De Sica, 1940

70
fa il suo mondo di esperienze: la soddisfatta bramosia con cui si strafoga
dei cannoli di Maddalena, lei che nella sua casa di contessa deve avere
stuoli di cuochi al suo servizio, ci fa sospettare che quella non sia
golosità, ma piuttosto fame di vita e di esperienze, fuori da una vita in
famiglia che non riserva emozione alcuna. Nelle pur severe scuole e
perfino, paradossalmente, nei collegi, queste ragazze sembrano trovare
una libertà che non hanno in casa: non tanto libertà fisica, quanto una
libertà di crescita che trovano solo a stretto contatto con le loro simili.
Quella libertà di crescere e di fare esperienze proprie che, nella
comunione d'animi fra ragazze, fa affrontare anche gli schiaffi che dalla
vita si ricevono, come mostra in modo esemplare il delicatissimo Violette
nei capelli 79 . Questo film è quasi esemplare nel suo mostrarci come
queste tre piccole donne che crescono, crescano forti nella solidarietà fra
di loro. L'orfanella Lilia Silvi fugge dalla tetra casa della inacidita sarta
con la quale vive, e si fa adottare dall'eccentrica famiglia di un musicista;
guadagna così un padre, ma soprattutto due sorelle piene di vita come lei
(la sportiva Carla Del Poggio e la ballerina Irasema Dilian, ancora loro,
sorelle ora come compagne di banco della scuola "Audax"); ed infatti il
padre muore, gli affanni piombano sulle tre ragazze restate sole al
mondo, ma la solidarietà fra di loro non viene meno e le fa andare avanti
Proprio la sorellastra è quella che più fa sacrifici: si sobbarca il compito
di sbarcare il lunario grazie alla sua esperienza di sartina, fa da sorella
maggiore alle altre due, svezza il figlio nato a Irasema Dilian dalla colpa
e da un amore impossibile. Il velo di disperata tristezza che copre nei
momenti più drammatici il volto di questa stupenda ballerinetta triste
diventata così dolorosamente donna è lo stesso che ci mostrerà Mario
Soldati, e saranno passati pochi mesi, sul viso della Edith di Malombra;

79
C. L. Bragaglia, 1942

71
e la dolorosa perdita dell'innocenza dell'angelica Irasema Dilian ci pare
oggi una pietra tombale, prima ancora che su un filone, su un sogno
infranto di una nazione violata.
La grande quantità di questi film "collegiali" potrebbe far sospettare che
nel periodo fascista la maggior parte delle ragazze d'Italia vivesse fra le
mura di un istituto. Ovviamente non era affatto così, ma questi luoghi
rappresentavano, anche agli occhi del regime, un surrogato da commedia
di una serie di valori chiave: innanzi tutto la religione, e poi una
concezione militare della vita. Il collegio faceva pensare spesso ad un
convento per la costante presenza di suore o di laiche che avrebbero
potuto esserlo in tutto e per tutto, ed i grembiuli non si allontanavano
troppo dalle tonache; ma quegli stessi grembiuli erano anche una sorta di
uniformi come quelle militari, e quell'edificio chiuso fra alte mura con le
sue marce in fila, i suoi esercizi ginnici e la sua, almeno in teoria,
disciplina inflessibile, faceva senza fatica venire alla mente anche
l'immagine della caserma. Un convento e una caserma però nella quale,
perché il film fosse un poco interessante, doveva pur succedere una ridda
di pasticci, guai ed insubordinazioni; ecco così che, mentre alle orfanelle
nei collegi si addice una misurata quiete adombrata di romantica
malinconia, alle benestanti studentesse è consentito combinare ogni sorta
di irrispettose disobbedienze. Vi è un motivo ben preciso dietro a questa
differenziazione, oltre alla naturale diversità dei personaggi; finchè tutte
le discolacce dei buoni collegi del cinema italiano hanno un fondo di
ricchezza altoborghese dietro al loro istinto ribelle, infatti, si può evitare
che la violenza ribelle di questi personaggi si scarichi contro l'ordine
sociale. Consentire che a sovvertire un centro di ordine e disciplina come
un collegio fosse una orfanella povera sarebbe stato un inaccettabile
rischio per quella stabilità sociale che già le ristrettezze dei tempi

72
d'autarchia e di guerra mettevano, con l'accresciuto squilibrio fra poveri
e ricchi, a dura prova. Ed infatti sono sempre agiatissime queste
collegiali, come Maddalena col suo zero in condotta, come le educande
protagoniste di Un garibaldino al convento 80 , come quell'uragano di
Nicoletta/Nicola ne Il birichino di papà, film quest'ultimo che forse più
di ogni altro in questo filone si spinge alle estreme conseguenze del caos
e della sovversione dell'ordine delle cose. Non solo di ordine sociale ma
addirittura dell'ordine di natura si direbbe, dato che ci troviamo di fronte
un nucleo familiare che, già scombussolato dall'assenza della figura
materna, vede addirittura una figlia femmina virtualmente tramutata in
un maschiaccio, per educazione, impeto ed atteggiamenti, fino ad
arrivare a chiamarla, in privato come in pubblico, Nicola. Il tutto
secondo il volere, l'avallo e l'incoraggiamento del padre, che peraltro
questo maschiaccio di fanciulla si guarda bene dal chiamare babbo o
papà, rivolgendosi a lui semplicemente come Leopoldo, roba da
compagni d'armi o d'avventure. E questo birichino, che è certo una
birichina col volto e la voce di Chiaretta Gelli ma fin dal titolo comincia
a voler fare confusione, sembra specializzata nel ridicolizzare ogni forma
d'autorità: in collegio non passa un secondo senza mandare gambe
all'aria la disciplina, e l'austera presidentessa viene costantemente
ridicolizzata dalla "piccola selvaggia". Punizioni di ogni sorta degne di
un galeotto non la spaventano, anzi aumentano il suo furore distruttore,
come nella scena del saggio di danza, uno dei passi più dissacranti forse
dell'intero cinema del regime, con il sabotaggio e la messa in ridicolo di
quello che era tra l'altro uno dei riti del fascismo, le rassegne ginniche
della gioventù. E mentre la presidentessa è verde di rabbia e i genitori
delle altre allieve si agitano tra l'incredulo e lo scandalizzato, il buon

80
V. De Sica, 1942; le due protagoniste sono Carla Del Poggio e Maria Mercader.

73
papà Leopoldo non fa che inorgoglirsi e strillare felice "È Nicola, è
Nicola!", turbando ancor di più gli astanti con l'idea che in un tanto
rigoroso collegio femminile vi sia un Nicola. Perché il rapporto fra
Nicoletta, anzi Nicola, e il padre che la adora è non solo un rapporto
esclusivo che li isola sia dagli altri membri della famiglia sia dal mondo
esterno, che sembrano non capirli, ma è una complicità che pare un
autentico invito alla sedizione familiare. Una sedizione in nome, sia
entro che fuori la famiglia, della rottura di ogni ipocrita convenzione: se
ne accorgerà il povero Franco Scandurra, promesso sposo della sorella di
Nicoletta, quando cercherà di fare il cascamorto con una sciantosa: nulla
gli verrà risparmiato per metterlo in riga, compresi uno stordito avvocato
e un rapimento anomalo. Il bigottismo della marchesa cade vittima dei
colpi impietosi sparati dalla vulcanica ribelle all'indirizzo suo e di tutto
un mondo basato sull'insincerità e su un ipocrita culto delle convenzioni
e dei riti sociali. D'altronde siamo ormai sul finire del 1942 e gli italiani
covano ormai più d'un pensiero di ribellione e di pulizia sociale; nel
clima di disfatta che aleggia non basta più neanche la vecchia formula
della scappatoia nella fantasia, che dagli schermi aveva cullato il paese
con sogni d'amore e fanciulle in fiore lungo quegli anni di ristrettezze;
anche le favolette sentimentali ormai smarriscono il loro fresco profumo
di violette sovrastato dall'acre odore di sudore, sangue e sconfitta. Il
1942 è l'anno tra gli altri anche di Violette nei capelli, il film, come si è
detto, della perdita dell'innocenza, della delusione dei desideri, dei
sacrifici infiniti di Carina/Lilia Silvi; quella stessa Silvi che proprio
l'anno prima, a un decennio esatto da La segretaria privata, aveva dato
corpo con Scampolo 81 ad una storia ugualmente modellata sul mito di
Cenerentola. Ma nulla è più uguale: se sullo sfondo della segretaria Elsa

81
N. Malasomma, 1941

74
Merlini c'era l'Italia che viveva nel culto di capuffici e capi d'ogni
genere, in marcia verso il futuro, ottimista e fiduciosa nel regime che
l'aveva rinsaldata, dietro la vagabonda sartina Scampolo c'è invece
l'Italia in guerra, alla quale stanno venendo meno le ultime speranze nel
futuro, un'Italia pessimista che sta per perdere anche la forza di rifugiarsi
in questi ultimi viaggi nella fantasia sempre più stridenti con la realtà; e
che di capuffici e soprattutto capi d'altro genere non vuol più sentir
parlare.

3.2.2 L'uomo: oggetto del desiderio e archetipo paterno


Paradossalmente dunque, come abbiamo visto, da una società
tradizionalmente maschilista si sviluppa un cinema che, pur restando
moralmente legato ad una concezione paternalista e riduttiva della donna
com'è quella che fa del matrimonio e della maternità lo sbocco naturale e
inevitabile, offre ad essa il ruolo di figura largamente centrale del suo
sistema narrativo. Questo può accadere perché il cinema del periodo
fascista è, come abbiamo detto, un cinema che ha come sua cifra la
concezione dell'amore romantico: così accade, come in tanta parte della
storia del costume, che la donna, socialmente sottomessa all'uomo, lo
tenga però a sua volta soggiogato alla servitù d'amore.
Ma in un cinema che ha come suo obbiettivo principale quello di far
sognare, i due poli del rapporto, cioè uomo e donna, non possono avere
uguale spazio: incarnare il sogno meglio si addice alle donne che agli
uomini, la cui superiorità ancora non è messa sostanzialmente in dubbio,
in quanto all'uomo dell'era fascista, soldato di Mussolini in guerra e in
pace, si addice concretezza, sacrificio, spirito d'azione, e non smancerie
o grilli per la testa. Ecco così che inevitabilmente l'uomo ha una figura di
rincalzo in quella preponderante parte dei film del periodo che

75
raccontano sognanti storie d'amore: in quell'universo è la donna a farla
da padrona. Anche il divismo del tempo si indirizzava quasi a senso
unico: a fronte di tante stelle e stellette che riempivano i rotocalchi e i
sogni degli italiani, tra gli uomini invece gli unici a raggiungere un vero
status di divi sono Amedeo Nazzari, Fosco Giachetti e, con sfumature
diverse, Vittorio De Sica. Insomma, in questo cinema l'uomo pare essere
al centro dei pensieri molto più che dell'azione. Gli ingranaggi del cuore,
che tanta parte hanno nella produzione degli anni '30, sono assai meglio
manovrati dalle donne, e all'uomo non resta che, consenziente, girare con
essi. Ed in effetti si potrebbe formulare un'ipotesi di lettura della
posizione defilata, in questo cinema di aneliti femminili, dell'uomo: egli,
narrativamente, è indispensabile alla storia in quanto dev'essere
l'elemento scatenante, il motivo per il quale la donna palpita, si strugge,
combina equivoci e vive situazioni impreviste, ed è altrettanto
indispensabile in quanto deve essere, com'è d'obbligo, la meta finale che
appaga le peripezie della donna concedendole il suo amore e
conducendola al suo destino di moglie e madre. Nel mezzo dell'azione,
però, la sua presenza è richiesta tutt'al più solo come controparte:
l'azione vera è nelle mani della donna. All'uomo, evidentemente, è
richiesto solo di mostrarsi prima disponibile, e poi attendere che gli
eventi e i battiti di ciglia delle loro spasimanti intrattengano il pubblico
per un'oretta; tutt'al più possono collaborare, mostrarsi galanti e riamare,
ed il pubblico gradirà specialmente se sullo schermo ci sono i pochi divi
maschili dell'epoca (in primis De Sica), ma una volta che il meccanismo
è in moto l'uomo può anche sparire per un po'. Pare insomma che questo
uomo che tanto fa innamorare sia spesso, narrativamente, una sorta di
"motore assente": lui ci mette un sorriso nelle prime scene, e al resto,
visto che almeno in amore comandano loro, ci pensano le donne.

76
Per trovare lo spazio di manovra dei personaggi maschili è dunque molto
più opportuno gettare lo sguardo un poco più in là delle imperanti
commedie o anche dei melodrammi più classici; si trovano spunti più
interessanti sulla figura dell'uomo se lo si esamina nei ruoli di lavoratore
o di soldato piuttosto che nel suo ruolo, che pure sarebbe più
strettamente attinente alle questioni che ci interessano, di marito o di
promesso sposo o di possibile fidanzato, ruoli che come abbiamo appena
visto comportano in qualche modo una sua sparizione, una messa in
sordina. È un dato del tutto evidente che, nel cinema del fascismo, vi è
un appiattimento assoluto dell'ambito familiare sulla sola figura della
donna. Già detto dei mariti e della loro assenza narrativa, non bastano
pochi personaggi di padri burberi ma buoni o di mariti in contrasto con le
mogli a negare il fatto che, per questo cinema (e questa società), la
famiglia è un fatto essenzialmente femminile; l'uomo, che deve
occuparsi delle responsabilità del lavoro e in generale delle questioni del
mondo esterno alla famiglia, prende in quanto pater familias le decisioni
importanti, ma nel quotidiano rimane indifferentemente estraneo alle
questioni domestiche, ben felice di lasciare sulle spalle della moglie le
incombenze familiari. Peraltro tale scenario è, nei film, più intuito e
individuato a sprazzi che non descritto: la vita del nucleo familiare in
quanto tale è infatti, come detto, tenuta fuori scena proprio in quanto non
narrativamente interessante, privilegiando invece le avventure, con
destinazione finale matrimonio e famiglia, delle giovani e dei giovani
italiani; ed è solo come elemento di contorno a queste vicende che
vediamo quasi sempre rappresentata la famiglia, il che, com'è evidente,
porta ad un'immagine di tipo stereotipo basata sulle tradizionali figure
narrative del padre brontolone ma buono con la figliola oppure severo ed
intransigente in modo ottocentesco, della madre pettegola e in caccia di

77
un buon partito per la figlia oppure della buona madre consolatrice, e
così via; figure insomma mai a tutto tondo e molto di maniera.
La figura maschile trova così le sue espressioni più significative non nei
ruoli dell'amoroso o del marito, ma in storie nelle quali l'elemento
sentimentale, pur sempre presente, è utilizzato in modo funzionale in
un'ambientazione indirizzata a focalizzare elementi narrativi diversi, con
spiccato riferimento a temi cari al regime e destinati a formare
un'immagine di uomini italiani forti, onesti e nobili. In buona sostanza, le
più interessanti figure maschili sono quelle dell'uomo lavoratore,
eventualmente emigrato, ma soprattutto dell'uomo soldato.
Sull'uomo lavoratore il discorso che conduce il cinema del fascismo è
semplice e immediato: il pericolo "rosso" che veniva dai lavoratori delle
industrie, sensibili alle idee proletarie, viene messo sotto silenzio e
rimosso dagli schermi (Acciaio è, come si è detto, l'unica chiara
eccezione, ed è un'eccezione che si concentra su una storia d'amore e
rimuove i rischi politici affidando all'ambiente della fabbrica la
celebrazione della morale corrente), mentre trionfano gli ambienti
borghesi, nei quali l'uomo o è il modello del "principe azzurro", cioè
l'imprenditore o direttore di banca o simili, pronto a innamorarsi della
Cenerentola di turno, oppure è il bravo ragazzo di modesta famiglia che
con un qualsiasi serio lavoro e la sola, innocua ambizione delle mille lire
al mese sa attrarre a sé una brava ragazza e conquistarne, a scapito
magari di ricchi e nobili pretendenti nullafacenti più graditi alla famiglia,
il romantico amore e la promessa nuziale. Tutto piuttosto chiaro come si
vede: il lavoro, quello vero, tanto è ostentato per la sua novità nel caso
delle donne, tanto è messo fuori scena per gli uomini. Gli unici accenni
di qualche rilievo sono appunto, in numerosi film del genere commedia
sentimentale, quelli allo scontro per il cuore di una donna fra giovanotti

78
modesti ma seri lavoratori e riccastri oziosi e mondani: ed è davvero
scontato come andrà a finire. Non molto più significative sono le figure
di lavoratori italiani emigrati: qui l'immancabile motivo nazionalistico
porta ancor più ad appiattire i personaggi su uno stereotipo di onesto e
gran lavoratore che si scontra con la mollezza e corruzione morale del
paese straniero. Ben più interessante e ricco di spunti è invece il
discorso sull'uomo soldato; discorso nel quale il cinema fascista mette in
atto, pur nell'esiguo numero delle opere, anche una qualche sottigliezza
inaspettata.
È noto che la scelta del regime in campo cinematografico fu quella di
rinunciare ad una propaganda diretta a favore invece di un controllo
diffuso sulla produzione, tramite il coinvolgimento statale nelle case e la
censura preventiva. Nonostante questa scelta non mancano comunque,
concentrati specialmente in un determinato e ristretto periodo di anni,
una serie di film con intenti propagandistici o celebrativi; gli anni sono
quelli immediatamente a ridosso dell'impresa d'Africa, ed i film in
questione sono quel ridotto gruppo di pellicole di argomento bellico
intese a formare, nei pensieri del regime, uno spirito di emulazione e di
accettazione del sacrificio (perché, come noto, al già notevole sforzo
bellico seguiranno le "inique sanzioni" e le ristrettezze dell'autarchia). E
non è un caso che in questi film del 1936 e dintorni, come Squadrone
bianco o Cavalleria per citarne solo alcuni, vi sia come una costante la
presenza di un eroe soldato che trova alla fine la morte nell'adempimento
del suo sacro dovere: il messaggio che si vuole mandare è che per la
patria gli uomini dell'Italia fascista devono essere disposti ad ogni
sacrificio, anche a quello della vita, come il capitano Santelia o il
cavaliere-pilota Umberto Solaro.

79
La missione del soldato non può conoscere distrazioni, neanche quella,
tanto cara al cinema di quegli anni, dell'amore: basti vedere come, nei
due film citati, per l'uomo che serve la sua patria in armi la donna sia un
elemento di disturbo, una pericolosa forza centrifuga dai doveri virili che
va evitata: in Cavalleria, più melodrammatico, la donna amata da Solari
è un amore impossibile poiché lei, per salvare le sorti economiche della
famiglia ridotta alla bancarotta, ha accettato di sposare un ricco nobile
che non ama; in Squadrone bianco, che è più propriamente un film
bellico, la questione si accentua ulteriormente e del discorso entra a far
parte anche un altro elemento, forse il più rilevante rispetto alla figura
maschile, ovvero quello dell'emulazione di un surrogato paterno. Ma
vediamo meglio di cosa si tratta.
In Squadrone bianco un tenente di cavalleria dalla vita mondana e
viziatella subisce una delusione amorosa, scaricato dalla donna, ancor
più mondana di lui, che egli ama. In conseguenza di questa delusione si
fa assegnare ad uno squadrone in Tripolitania, dove trova un capitano
integerrimo con cui entra in collisione a causa della sua borghese
mollezza. Ma lo squadrone parte in missione, a caccia di una colonna di
ribelli, e durante la dura marcia nel deserto gli screzi ed il confronto con
l'esemplare capitano forgiano in lui, dopo l'iniziale crisi, una nuova
tempra di uomo, un vero soldato forte, leale e coraggioso. Quando, dopo
la battaglia con i ribelli, lo squadrone rientra alla base è lui a guidarlo: il
capitano è morto, combattendo eroicamente. Nel forte c'è un gruppo di
turisti in visita, e fra essi la donna che il tenente amava: ella lo
riavvicina, ma lui, ormai, è un soldato vero, e non ha più spazio per i
sentimenti di un tempo: la sua vita, vita da uomo vero finalmente, è lì,
nel deserto, da soldato.

80
Ciò che ci interessa notare è come, pur partendo dal movente iniziale
dell'amore per una donna, il film si dipana integralmente come la storia
di un rapporto esclusivamente virile, quello fra il capitano ed il tenente;
tanto è vero che, in conclusione, la donna verrà rifiutata in nome del
superiore amore per la patria. Il rapporto che si crea fra i due uomini,
uno tutto d'un pezzo, autorevole, benvoluto dai suoi uomini e l'altro
fiacco, svogliato, privo di nerbo e di passione, è inizialmente di aperto
conflitto; ma quando giunge il momento di mettersi alla prova, a contatto
con il vivo esempio del capitano il tenente comincia a riscattarsi,
attraverso un'etica del sacrificio che, con un climax ascendente che passa
attraverso la rinuncia al cammello, la febbre, il nuovo malore e la
rinuncia all'acqua tanto preziosa per culminare nella battaglia, quando
egli si espone ad ogni pericolo combattendo in prima linea, venendo
ferito ben due volte e ciononostante continuando a fare il suo dovere di
soldato.
A ingenerare questo cambiamento, questo riscatto morale è l'esempio del
capitano: egli riprende duramente il tenente quando è necessario, ma sa
essergli vicino e solidale nei momenti difficili, e con le opere più che con
le parole lo fa crescere e lo conduce a diventare un vero uomo e un
degno soldato. Quando infine questa crescita è compiuta, egli può
consegnarlo finalmente formato al mondo ed all'esercito dell'Impero, e
gli indica come ultimo insegnamento esemplare la via del sacrificio per
la patria, attraverso il proprio immolarsi sul campo di battaglia. Il tenente
ora ha compreso, è maturo, ed è pronto a prendere il suo posto e a
ricondurre lo squadrone in salvo.
Non si tratta, mi pare evidente, di una semplice storia di amicizia virile
ed eroismo militare, e si va oltre anche il semplice schema del romanzo
di formazione: il processo che abbiamo descritto fra il capitano Santelia

81
ed il tenente Ludovici è, a tutti gli effetti, l'archetipo di un rapporto fra
padre e figlio. Ed è anche, sia in sé stesso sia per traslato attraverso
questa stessa figura di padre, metafora del rapporto fra il Duce e il suo
popolo.
Come un padre il capitano deve saper essere duro con un
sottoposto/figlio viziato; come un padre lo conduce con sé e lo fa
crescere sotto il proprio esempio, ne forgia il carattere e lo fa entrare nel
mondo delle responsabilità; come un padre, infine, gli dà l'esempio
ultimo nel sacrificio, e secondo il ciclo immutabile scompare e lascia il
posto all'erede, finalmente pronto a sostituirlo e seguire le sue orme. Allo
stesso tempo, come si vede, il modello del rapporto fra questa figura
paterna, questo padre ideale e la sua progenie è il medesimo che nella
mistica fascista rappresentava il legame tra il Duce ed il suo popolo: una
figura di guida, dallo spirito coraggioso e forte e dalla morale
integerrima, che conduce l'Italia e gli italiani ad una nuova
consapevolezza del proprio destino di eroismo, attraverso lo spirito di
obbedienza e di sacrificio per il bene collettivo. Nella cinematografia
degli anni '10 e '20, complice l'infinitamente maggiore ingenuità sia del
cinema sia, quando si instaurò, del regime, la figura del Capo era stata
incarnata dagli "uomini forti", i forzuti del tipo di Maciste, con una
simbologia elementare: l'eroe buono, forte e coraggioso, si batte contro
gli oppressori malvagi e li sconfigge imponendo la sua nuova morale e la
sua nuova legge di giustizia. Ora l' "uomo forte" è al potere, il cinema ha
enormemente raffinato i suoi mezzi espressivi ed anche il regime ha
sviluppato una simbologia meno ingenua: non è più un invito
all'adesione quello che si deve trasmettere, ma alla fiducia, un invito a
mettersi ciecamente nelle mani del Duce in nome della Patria, fiduciosi
che, per quanti sacrifici egli richieda all'italiano, lo fa per il suo bene e in

82
nome del bene comune, per far crescere l'italiano forte nel Suo esempio,
come si addice ad un buon padre.

3.2.3 I grandi assenti: bambini e ragazzi


È noto che uno dei settori della società in cui il regime operò in modo
più organizzato, più totalizzante e più visibile fu l'inquadramento dei
giovani. In questo, il regime diede prova di una significativa capacità di
mutamento - per molti altri aspetti mancante, tanto da giustificare
appieno quella folgorante definizione di "dittatura imperfetta" che ne
diedero poi gli storici - delle convenzioni socioculturali italiane: da
sempre infatti tradizione voleva che il solo punto di riferimento per la
gioventù fosse la famiglia, mentre il fascismo, che pure sulla morale
della famiglia poggiava tanti suoi assunti, in primis proprio quello della
"battaglia demografica" cioè della prolificità, volle con tutta evidenza
instaurare un sistema di matrice formalmente pseudomilitaresca che
ordinasse le schiere dei fanciulli in gruppi di disciplinati fascisti del
futuro 82 .
Le basi su cui avveniva l'ordinamento della gioventù erano
semplicissime: il sesso e l'età. Piccoli italiani e piccoli Balilla, piccole
italiane e giovani italiane erano le formazioni divise per età
propedeutiche, nell'idea del regime, all'adesione volontaria e convinta
delle nuove generazioni ai quadri adulti del Partito. L'adesione alle
associazioni giovanili fu presto resa obbligatoria per tutti, finendo col
non andare oltre una grossa faccenda di facciata, con la massa dei
giovani intruppata in sfilate e in quei giochi ginnici che dovevano essere
l'ideale preparazione ad essere perfetti "soldati del Duce" una volta usciti
dalla fanciullezza.

83
L'importanza data dal regime all'indottrinamento della gioventù si può
notare anche da quello che era l'altro ambiente di formazione, ovvero la
scuola dell'obbligo, la scuola elementare. La riforma Gentile fu, com'è
ancor oggi evidente, uno degli interventi del fascismo che ebbero più
peso nella realtà delle nuove generazioni di italiani, tanto più che,
rimossi gli orpelli più visibilmente fascisti ma lasciato intatto il sistema
nel suo complesso, i medesimi principi verranno a lungo conservati nel
sistema scolastico dell'Italia repubblicana. I testi unici delle scuole
elementari, che erano editi dallo stato, erano il frutto dell'unione degli
elementi di propaganda del regime più elementari e di quel paternalismo
educativo ancora di matrice tardoottocentesca e postrisorgimentale che
dava loro una tipica atmosfera che oggi definiremmo,
deamicisianamente, da "Libro Cuore". Su quei libri i "Figli della Lupa"
apprendevano ad onorare caduti e reduci, amare il Duce e sognare
avventure di guerra. E perfettamente complementari ad essi erano le
letture che tutti i fanciulli avevano per le mani fuori da scuola, quei
romanzi salgariani che trasponevano in esotici panorami del tutto
immaginari (poiché, come noto, il loro autore aveva scritto della Malesia
senza essersi praticamente quasi mai mosso dalla sua Verona) la stessa
giovanile voglia di avventure, lo stesso elogio del coraggio e della lealtà.
Una letteratura per ragazzi che, come il suo autore, non aveva nessuna
intenzione di essere fascista ma che, di fatto, trovava tutto il gradimento
del regime, tanto più quando i valorosi corsari ridicolizzavano il perfido
nemico inglese.
Non c'è bisogno di dilungarsi oltre per vedere come il fascismo
riservasse all'inquadramento della gioventù un occhio di riguardo, dalle
scuole alle associazioni giovanili fasciste ai noti incentivi alle famiglie

82
Per l'inquadramento storico si rimanda a Sabbatucci-Vidotto, Storia d'Italia cit.

84
più prolifiche 83 . Ciò che preme è invece rilevare come, in un quadro
generale tanto fortemente indirizzato ad una educazione fascista della
gioventù, gli anni '30 manchino in modo pressochè assoluto di una
qualsivoglia rappresentazione di questi bambini e ragazzi sugli schermi
cinematografici.
Tutto quello che possiamo ricavare dalle sparutissime apparizioni di
giovani e fanciulli sugli schermi sono elementi in grandissima parte
marginali, di poca importanza sia circa una definizione dell'immagine
dei giovani nel fascismo, sia e soprattutto circa la rappresentazione dei
giovani nell'ambito familiare. Su quest'ultimo punto, che è poi quello che
più sarebbe qui pertinente, non vi è, a conti fatti, assolutamente nulla. Il
bambino o il fanciullo, che già appare incomprensibilmente dimenticato
da tutto il cinema del periodo fascista, è completamente rimosso dalla
scena familiare. Anzi, in un quadro che vede la figura del fanciullo usata
perlopiù in funzione melodrammatica, il ruolo prevalente è proprio
quello dell'orfanello strappalacrime.
Su questa traccia, cioè il melodramma d'appendice con orfano ed
eventuale agnizione finale del genitore creduto morto, si snodano gran
parte dei pochi film del periodo con i fanciulli come personaggi, da La
cieca di Sorrento84 a Principessina 85 al dittico repubblichino Senza
famiglia/Ritorno al nido 86 così via. La figura dell'orfanello, o ancor più
spesso dell'orfanella, non viene a mancare neanche in film non

83
Il già citato "Premio Mussolini" ed altre forme simili di sostegno alla natalità.
84
N. Malasomma, 1934
85
T. Gramantieri, 1943
86
G. Ferroni, 1944; realizzato a Venezia. Pur non essendo i film del periodo della Repubblica di Salò
parte significativa del nostro discorso, sia per ragioni strettamente cronologiche sia per l'estraneità
della situazione sociale della RSI rispetto al quadro del periodo fascista che ci interessa, ci è parso
opportuno citare anche questi due film anche per segnalare come, in virtù di uno stereotipo da
letteratura d'appendice, l'immagine dei fanciulli non abbia trovato, né prima né dopo, quell'adesione
alla realtà che proprio nei fanciulli costituirà invece, come diremo tra poco, uno dei tratti salienti del
Neorealismo.

85
87
melodrammatici, come il curioso Fermo con le mani! , film d'esordio
di Totò nel quale al comico si cerca di adattare il modello, che gli era
palesemente estraneo, di Charlot, tant'è vero che gli viene pure
affiancata, appunto, un'orfanella 88 . La bimba in questione era
impersonata dalla piccola Miranda Bonansea Garavaglia, che era anche
la voce con cui parlava sugli schermi nostrani la diva bambina per
definizione, Shirley Temple; e la Garavaglia alla Temple si rifaceva, nel
look e nelle parti recitate, come alla piccola dive d'oltreoceano si
richiamavano pressochè tutte le stelline in erba della cinematografia di
casa nostra. Il modello Temple, che tanto successo riscuoteva tra il
pubblico, era evidentemente quanto di meno adatto a costruire una storia
ed un personaggio di qualunque spessore non banalmente romanzesco:
una causa in più dell'insipienza di questi film e delle figure giovanili che
ne erano protagoniste.
Talvolta all'orfanella vera e propria si sostituisce la figura di una
bambina che i genitori in realtà li ha ma, per qualche motivo, soffre per
una lontananza fisica o psicologica da essi. È il caso di due film in
particolare, il calligrafico Piccolo mondo antico 89 nel quale la piccola
Ombretta soffre per la lontananza forzata del padre fuggito in Piemonte,
e La fuggitiva 90 , interpretato come il precedente da Mariù Pascoli, la più
nota forse delle dive bambine di casa nostra, nel quale a mancare alla
piccina è la mamma, una Anna Magnani troppo impegnata a far carriera
come soubrette per potersi dedicare alla figlia e alla famiglia, tanto da
farsi creder morta. Così la bambina si affeziona ad una governante, una
ragazza capitatale appresso per caso, la quale non tarda a far breccia

87
G. Zambuto, 1937
88
Sulla figura di Totò, che esula dagli scopi di questo lavoro, si rimanda a A. Anile, Il cinema di Totò,
1930-1945 : l'estro funambolo e l'ameno spettro, Le Mani, Recco 1997
89
M. Soldati, 1941
90
P. Ballarini, 1941

86
anche nel cuore di papà; ma per la morale italiana, cinema compreso, il
matrimonio è sacro, e la giovane si farà da parte alla ricomparsa della
vera madre.
Accanto a quest'ultimo film se ne pongono altri, come ad esempio Una
notte dopo l'opera 91 , che allo stesso modo mettono in scena ragazze dal
cuore tenero che si prendono cura di bambine restate senza la madre. "In
questo genere di raccontini edificanti le bambine vengono usate come
scintilla per accendere un rapporto amoroso ultra-casto" 92 , ed accade
così, come in quest'ultimo film citato, che l'angelico surrogato materno
resti "invischiata nella trama familiare, diventando una virginale mater,
ancor prima di esser sfiorata da un uomo" 93 .
Da tutto quanto si è detto finora l'unica nota di rilievo è proprio la
sostanziale estraneità dei bambini da una tematizzazione, una qualsiasi,
nel cinema del periodo fascista: essi sono perlopiù assenti, e quando
sono presenti o anche protagonisti non si staccano dal clichè
dell'orfanella o comunque da un bozzettismo mèlo che occhieggia da un
lato alle atmosfere deamicisiane (oltre ai film già citati si pensi ad
esempio a Piccolo alpino 94 , che al motivo dell'orfano che ritrova infine il
padre creduto morto mescola quello della grande guerra, col piccolo
protagonista che segue al fronte l'alpino che gli ha salvato la vita),
dall'altro al modello di Shirley Temple e delle altre bambine prodigio
d'oltreoceano (e non è un caso che in Italia e in America si girino quasi
contemporaneamente, e presumibilmente senza coscienza della curiosa
concomitanza, due film di argomento identico, centrati sulla storia di una
bambina e del suo puledro destinati a fare fortuna vincendo una gara

91
N. Manzari e N. F. Neroni, 1942
92
Stefano Masi, Enrico Lancia, Stelle d'Italia. (Vol. I) Piccole e grandi dive del cinema italiano dal
1930 al 1945, Gremese, Roma, 1994, p. 122
93
ibidem
94
O. Biancoli, 1940

87
ippica: le due pellicole ebbero addirittura il medesimo titolo, Gran
Premio 95 ).
Si può dire, anzi, che vi sia stata una certa singolare diffidenza di questo
cinema nei confronti delle figure di bambini costruite a tutto tondo fuori
dagli stereotipi: forse per quella ineliminabile innocenza dello sguardo
che i bambini hanno, e che ne farà, pochissimi anni dopo, i veri
protagonisti di tanta parte del nuovo cinema, del neorealismo, a partire
dall'antesignano preneorealista I bambini ci guardano 96 per arrivare a
Sciuscià 97 e Ladri di biciclette 98 passando per la memorabile scena finale
di Roma città aperta 99 . Appunto l'occhio privo di ipocrisie che è proprio
dei bambini renderà, del resto, assai sgradito al regime I bambini ci
guardano, spietata rappresentazione della famiglia piccoloborghese in
disfacimento.
La conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, di questa diffidenza del
cinema del fascismo verso la rappresentazione dei bambini ci viene dalle
sorti di due film, forse gli unici due del periodo fascista (a parte
ovviamente il succitato film di De Sica) che vollero mettere al centro
della storia una figura di bambino non stereotipata ma viva e ritratta
nella sua sensibilità. Uno di essi è Ragazzo (1933) di Ivo Perilli, l'altro è
Il canale degli angeli (1934) di Francesco Pasinetti; nel primo un
fanciullo è il protagonista della storia, nel secondo il bambino è il
testimone dall'occhio rivelatore, proprio come sarà un decennio più tardi
nel film di De Sica.

95
Il film italiano, per la regia di G. Musso ed U. Scarpelli, con la solita Mariù Pascoli, è del 1944;
quello americano, il cui titolo originale è National Velvet, è del 1945 ed ha per protagonista una
giovanissima Elizabeth Taylor. La coincidenza è talmente curiosa che non escluderei, personalmente,
che una qualche ispirazione circa il soggetto vi possa essere stata.
96
V. De Sica, 1943
97
V. De Sica, 1946
98
V. De Sica, 1948
99
R. Rossellini, 1945

88
Su Ragazzo si sa, in verità, assai poco 100 : tutto ciò che ci rimane è la
trama, perlopiù ricostruita dai diretti interessati, che raccontava di un
ragazzo sbandato nella Roma del degrado e dei quartieri popolari, dei
biliardi e delle chiatte sul Tevere, che trovava la sua redenzione
nell'iscrizione al partito fascista. Un soggetto apparentemente del tutto
innocuo ed anzi di gradimento del regime dunque; ed invece il film non
giunse mai nelle sale. Mussolini in persona, pare, lo bloccò quando era
già praticamente in macchina nei cinematografi ed annunciato per la sera
dai giornali e dalle locandine. Perilli ne affidò una copia alla cineteca del
Centro Sperimentale, dove peraltro fu regolarmente visionato negli anni
seguenti dagli allievi; ma dopo l'8 settembre quella copia fu data alle
fiamme dai nazisti che devastarono il Centro. Quale fosse in realtà la
prospettiva del film e cosa avesse realmente scatenato le ire del Duce
rimane per noi impossibile a dirsi; ma i testimoni dell'epoca che
poterono vederlo hanno spesso ribadito che l'anticonvenzionalità di
quella figura di ragazzo di strada nella Roma che il regime avrebbe
voluto far scomparire era tutto l'opposto dei consueti stereotipi sulla
fanciullezza.
Il canale degli angeli era invece un film di impianto differente, simile
per molti versi a I bambini ci guardano anche se certamente l'apporto di
Zavattini diede al film di De Sica qualcosa di unico ed anche se il
decennio di distanza - oltre naturalmente alla intrinseca qualità dei film,
che qui non è in discussione - doveva portare ad esiti diversi. Pure, nel
film del giovanissimo Pasinetti si narrava dell'adulterio (e già questo è
cosa eccezionale) di una madre, visto attraverso gli occhi di un bambino;
il quale non è solo spettatore, ma anche partecipe delle sofferenze della

100
Le annotazioni qui riportate per entrambi i film si rifanno essenzialmente ai contributi di F. Savio,
op. cit. , e G. P. Brunetta, Storia… cit.

89
madre, sensibile alla situazione fino ad ammalarsene, fino
all'ottenimento, con la partenza dell'amante, del ricompattamento del
nucleo familiare. Ciò che è significativo è che, nonostante il film sia
circolato regolarmente, il film fu completamente ignorato dalla critica:
neppure il meticolosissimo Francesco Savio è riuscito a reperire il
benchè minimo accenno sulle riviste dell'epoca, né consta a Brunetta che
se ne sia parlato neppure sulle riviste dei Guf; per saperne qualcosa
bisogna rifarsi ad interventi del dopoguerra, stimolati anche dalla
prematura morte del regista. Ancora una volta, dunque, i bambini
vengono messi in un cantuccio nascosto dal cinema di regime:
evidentemente si preferiva di gran lunga perpetuare la tranquilla,
rassicurante immagine di maniera degli orfanelli e di simili vetusti ma
funzionali stereotipi deamicisiani.

3.2.4 Il ruolo degli anziani


Come per i bambini, anche gli anziani non sono soggetti particolarmente
amati dal cinema del periodo fascista; in una cinematografia che si
impernia sugli amori romantici di belle fanciulle non abbonda certo il
posto per la terza età. Ma rispetto all'assenza quasi totale dell'infanzia,
gli anziani trovano più spazio nei film del periodo, sia disseminati a far
"colore" nei film in ruoli di carattere quali nonni, zie e via dicendo sia, e
questo è certamente più interessante, attraverso la tematizzazione di un
argomento verso il quale c'è una certa ambivalenza nei film di quegli
anni, ovvero la nostalgia dei tempi passati. Tema attraverso il quale trova
qua e là il modo di filtrare anche, per quanto riguarda la rappresentazione
della scena familiare, uno dei punti più rilevanti della dinamica di
rinnovamento sociale dell'età del fascismo, ovvero la contrapposizione

90
fra famiglia allargata e famiglia nucleare, fra vecchie e nuove
convenzioni familiari.
Vi è anche, per la verità, un altro tema nel quale compaiono gli anziani,
ma ci limiteremo qui ad accennarne dal momento che essendo
specificamente indirizzato ad altri scopi non rientra nell'argomento che
ci interessa: si tratta del tema dei reduci. Le tangenze fra le due
tematiche sono peraltro marginali, dato che le figure di reduci più
importanti, come ad esempio quello che ne è l'archetipo, il protagonista
di Luciano Serra pilota 101 , oppure il Roberto di Vecchia guardia 102 , non
appartengono di fatto alla schiera degli anziani. Il tema del reinserimento
dei reduci nella società e della continuità fra la grande guerra e il
fascismo, dunque, non si riconnette quasi mai con quello degli anziani,
se non in figure marginali e di contorno come i vari invalidi e mutilati di
guerra.
Approfondire il modo in cui il cinema del regime prima glorificherà e
poi, quando non sarà più funzionale ad un regime ormai consolidato,
cercherà di rimuovere l'immagine dei reduci, non è pertinente al nostro
discorso, e se ne è accennato solo per completezza. Come detto infatti la
tematica nella quale si rivelano i più interessanti aspetti delle figure degli
anziani è quella dello strappo generazionale, del rimpianto dei vecchi
tempi e della relativa deprecatio temporum contro la nuova società e i
nuovi valori.
I film che si occupano di questa tematica non sono numerosissimi; del
resto parlare, in epoca fascista, di rimpianto per i tempi andati non era
certo cosa troppo popolare. Eppure la ricorrenza di questa nostalgia del
passato è più che occasionale, e a favorirla e consentirla era l'appoggio

101
G. Alessandrini, 1938
102
A. Blasetti, 1935

91
ideale al pensiero di una delle correnti del fascismo (perché è bene
ricordare che il fascismo come regime non fu mai una dittatura compatta
al suo interno, ma un continuo intrecciarsi di posizioni diverse, talora
anche in contrasto fra loro) che negli anni '30 godeva di fortuna alterna
per non dire ridotta: la corrente ruralista, tendenzialmente antiborghese
ed antiindustriale, che dopo aver ben servito agli scopi di un regime in
cerca di consenso era divenuta ormai ingombrante nella nuova Italia che
il fascismo teneva saldamente in mano grazie soprattutto all'alleanza con
gli industriali ed al silenzioso sostegno delle classi borghesi. Come
scrivono Giardina, Sabbatucci e Vidotto, infatti, "i maggiori successi in
termini di partecipazione e consenso il regime li ottenne non a caso
presso la piccola e media borghesia" 103 , mentre, dietro alla propaganda
ruralista, la politica economica del regime "avvantaggiò soprattutto le
grandi imprese e favorì i processi di concentrazione aziendale" 104 ,
finendo invece in campo agricolo "col mettere in crisi molte medie e
piccole aziende" 105 . Erano, quelle dei ruralisti convinti, le frange del
fascismo più socialmente tradizionaliste e più legate al mito continuista
che univa in un'ideale spirito italico il risorgimento ed il fascio.
E non è un caso che i film di cui parliamo si rifacciano tutti, appunto, al
mondo risorgimentale: da Un garibaldino al convento 106 a Una
romantica avventura 107 , che nel risorgimento sono praticamente
ambientati attraverso l'uso estensivo del flashback e si inseriscono così
nel prolifico genere storico, fino a quello che è, almeno per i fini della
nostra ricognizione, il più interessante di essi, che è invece ambientato

103
Giardina, Sabbatucci, Vidotto, op. cit., p.620. A questo testo ed alla citata Storia d'Italia a cura di
Sabbatucci e Vidotto si rimanda anche per le questioni circa le correnti ruraliste nel regime fascista.
104
idem, p.624
105
ibidem
106
V. De Sica, 1942
107
M. Camerini, 1940

92
nell'Italia contemporanea e ci dà quindi modo di effettuare l'analisi
diretta del confronto passato/presente che viene esplicitato sullo
schermo: stiamo parlando di La damigella di Bard 108 . In tutti e tre i film
vi è una protagonista che, ormai anziana, nutre rimpianti per il bel tempo
andato; rimpianti che sono narrativamente connotati, al livello più
superficiale, come sentimentali, e che si estendono facilmente al naturale
rimpianto per la giovinezza passata. Ma il passo è breve per giungere,
senza sforzo intellettuale, a leggere in essi anche una più generale
nostalgia per una società del passato che non trova più posto nell'Italia
del presente.
La damigella di Bard è il film nel quale questa tematica viene più
direttamente esplicitata. La protagonista, un'anziana nobildonna caduta
in miseria (interpretata da una magnifica Emma Gramatica), ma ancora
ricolma di una signorilità d'altri tempi, anche nelle avversità. Il palazzo
di famiglia, che l'ha vista vivere tutta la sua ottuagenaria vita, ormai è di
un altro, un gretto e volgare borghese, speculatore e senza alcuna finezza
o nobiltà d'animo; e di quel palazzo lei sale tutte le scale, in quella che è
però una discesa di condizione: già costretta al tempo della vendita del
palazzo a lasciare il primo piano, quello "nobile", per il secondo, è infine
costretta ora, ad ottant'anni, a lasciare anche quello e finisce relegata
nella soffitta, fra la miseria più nera; ma è una miseria affrontata con una
dignità da contessa, più nobile delle volgari ricchezze borghesi. La
damigella accoglie con la massima cortesia l'ufficiale giudiziario che le
pignora ogni cosa, e rifiuta, benchè sia senza cibo né legna per scaldarsi,
la somma faraonica che un borghese professore le offre per le lettere di
Costantino Nigra che la damigella conserva: il suo cimelio più caro,
ricordo di un amore che si perde ormai nella storia ma che resta per lei

108
M. Mattoli, 1936

93
l'unico presente importante. È evidente che ai borghesi, agli uomini
nuovi non è dato di capire i valori di questa donna e del suo mondo: essi
appartengono ad un mondo troppo diverso, privo di ogni grazia e nobiltà
d'animo, grettamente governato dal danaro. Ciò che per loro è storia, per
lei è vita. Il disprezzo per la borghesia speculatrice che traspira da questo
film è notevole, toccando punte di acredine impressionante nella figura
del "nuovo padrone", l'arricchito ragionier Facozzi, tratteggiato con
spunti impietosi che non lasciano scampo a lui ed a quelli della sua
risma, come quello, esemplare, del circolo delle dame di carità, dove non
solo figura come il più classico dei parvenu, ma dove deve pure subire
l'onta di vedere che lui è sopportato dai veri nobili solo in virtù dei suoi
soldi, mentre la contessa, che egli aveva persino malamente scambiato
per una delle questuanti, è invece la signora del consesso, accolta con
ogni onore.
Il biasimo per la nuova società e l'esaltazione dei valori del tempo che fu
non possono naturalmente, in un film del genere, che condurre ad un
lieto fine che faccia trionfare le ragioni della nobiltà di sangue contro
quelle della ricchezza borghese: e così, grazie al solito meccanismo
dell'agnizione (la contessa scopre che Franco, il giovane amato dalla
marchesina Renata, ragazza di nobile cuore sulla quale ella veglia
maternamente, non è un borghese squattrinato ma il figlio misconosciuto
del proprio fratello, morto senza potergli dare il nome), il casato dei Bard
ritrova una discendenza, la damigella ritorna in possesso dei suoi
possedimenti e Franco, non più semplice borghese ma conte di Bard, può
finalmente sposare Renata. La marchesina aveva frattanto rifiutato anche
le insistenti proposte di matrimonio del figlio del ragionier Facozzi, ricco
sì ma non accettabile come pretendente in quanto mancante di quarti di
nobiltà.

94
È questo uno dei punti centrali di questo e degli altri film citati: il trionfo
della morale dei tempi passati contro il volgare presente si celebra
soprattutto attraverso il completo rifiuto di ogni incrocio fra classi
sociali. Un atteggiamento certo anacronistico, e volutamente: non è ai
valori della società degli anni presenti che si vuole fare riferimento, ma
ad un tempo passato giudicato più degno. È l'esatto contrario di quanto
celebravano, negli stessi anni, le commedie bianche, le storie di
segretarie e modeste fanciulle che salivano la scala sociale - quella della
nuova società borghese naturalmente - attraverso il matrimonio con il
capo, il banchiere o il padrone dell'azienda: le storie ricalcate sul
modello della Cenerentola insomma. Ma a questo punto è bene fare una
precisazione: Cenerentola nella tradizione è una giovane inizialmente
defraudata del suo rango, che infine viene reintegrata ed a un livello
ancor più elevato; mentre le segretarie delle commediole degli anni '30
non hanno alcunchè alle loro spalle. Più realmente prossimo al modello
della Cenerentola ci pare essere allora, e non sembri paradossale, proprio
il Franco de La damigella di Bard, che ottiene grazie anche ai propri
meriti personali la reintegrazione nel mondo della nobiltà al quale
appartiene, benchè ignaro, per nascita. La sua è dunque la sola risalita
sociale possibile: proprio perché intesa non a mutare la struttura delle
gerarchie di classe, ma a ripristinarla. In questi film infatti, ed anzi in
quasi tutta la produzione cinematografica dell'epoca ambientata nel
passato più prossimo, vi è costantemente, come nota Gori, "un invito,
neanche tanto velato, al rispetto delle gerarchie, al mantenimento delle
differenze di classe, insomma all'immobilismo e alla pace sociale" 109 .E
sotto questo aspetto tali film diventavano, ora sì, un veicolo gradito al

109
G. M. Gori, Patria diva. La storia d'Italia nei film del ventennio, La casa Usher, Firenze, 1988,
p.57.

95
regime, che ormai stabilizzatosi non vedeva più di buon occhio le
rivendicazioni sociali ed invitava ognuno a stare al suo posto. Non è
d'altronde certo un caso che questo film e gli altri che abbiamo citato
appartengano ad anni nei quali certe perplessità cominciavano a sfiorare
il paese: il 1936 delle sanzioni, il 1940 e il 1942 dei dubbi sulla guerra.
Tra gli italiani c'era chi cominciava a notare che a tirare la cinghia ed a
morire al fronte era alla fine sempre la povera gente e non i signori; al
regime era dunque niente affatto sgradito che lo schermo proponesse a
tutti la concordia ordinum. Così accadeva che un messaggio nostalgico e
passatista, non troppo ben visto dal fascismo, convivesse con l'aspetto di
conservatorismo sociale che gli faceva da corollario ed insieme da
viatico, essendo questo sì grato ai gerarchi. Il messaggio di intoccabilità
delle differenze sociali filtra anche per opposizione: sempre nei primi
anni della guerra l'esempio di ciò che accade a chi le infrange ci viene
dal calligrafico Piccolo mondo antico 110 , nel quale il matrimonio fra
classi sociali diverse ha luogo. Il patriota e nobile Franco sposa la
modesta borghese Luisa, e l'infrazione del codice sociale attira su di loro
la sventura: culmine ne è l'annegamento della piccola Ombretta, figlia
della inammissibile unione. E non è solo nei melodrammi che viene
trasmesso questo messaggio: si pensi per esempio ad alcuni film di uno
dei registi meno ingenui del periodo, Mario Camerini, come Gli uomini
che mascalzoni! 111 o Il signor Max 112 . In questi film emergono,
ombreggiati dietro a spunti populisti di dolceamara polemica
antiborghese, l'invito a rientrare nell'ordine costituito dopo il tempo delle
pazzie giovanili, e il "rifiuto di ogni promiscuità di classe: i giovani
poveri e simpatici sposeranno le buone fanciulle proletarie, le quali dopo

110
M. Soldati, 1941.
111
1932.
112
1937.

96
le caste frivoleze dell'adolescenza, diventeranno mogli-madri
perfettamente inquadrate e comprese della loro missione di angeli
domestici. Ogni velleità di arrampicata perturbatrice deve essere
scoraggiata" 113 .
Un altro dei capisaldi della concezione sociale d'altri tempi che gli
anziani rappresentano nei film del periodo è ugualmente in contrasto con
la linea di evoluzione della società italiana in senso borghese e
capitalistico, ed è ancor più strettamente di pertinenza della nostra
analisi: si tratta della contrapposizione fra la famiglia allargata e la
famiglia nucleare.
Abbiamo già visto come, passata la ventata ruralista, il fascismo avesse
preso senza indugi l'inevitabile direzione dell'industrializzazione del
paese, con tutte le conseguenze che questo cambiamento della struttura
socioeconomica del paese comportava; la famiglia era una delle realtà
sociali più toccate da questa evoluzione, poiché la montante
industrializzazione conduceva al decadimento della famiglia come
istituzione funzionale al processo produttivo, quale era da sempre la
tradizionale famiglia allargata nella società rurale. La trasformazione
però ha naturalmente tempi lunghi e trova resistenze notevoli, dovute
all'inerzia che un sistema sociale secolare porta con sé: così, nelle
diverse situazioni (città e campagna, alta borghesia e ceti popolari), vi
sono ampie disparità nell'inserimento nella nuova società, e quindi anche
nell'inserimento delle famiglie nel nuovo sistema sociale della famiglia
nucleare, più funzionale al nuovo sistema economico che si andava
diffondendo. Molti nuclei familiari cominciano a non essere più inseriti
in modo integrato nel sistema produttivo tradizionale e contadino e

113
C. Carabba, Ideologia e propaganda nella commedia degli anni Trenta, in Miccichè (a cura di), Il
neorealismo… cit. , p. 401.

97
conseguentemente nella famiglia allargata, ma contemporaneamente non
sono ancora inseriti appieno nella nuova istituzione sociale che è la
famiglia nucleare, che diverrà la norma solo con la generazione
successiva e la ricostruzione, nel dopoguerra. Anche da queste tensioni
in corso derivano gli accenti nostalgici e tradizionalisti che in certi film
si ritrovano in riferimento alla famiglia allargata, rappresentata quasi
sempre da una figura di matriarca, talora anche da un padre e alcune zie.
La prima cosa che si nota, dunque, è che questa famiglia allargata è
praticamente sempre, sugli schermi, anche una famiglia in qualche modo
monca, incompleta in qualche sua parte: i padri sono vedovi, le matrone
ancor di più, le zie palesemente zitelle, come pure molti altri personaggi
di donne anziane. Nel cinema degli anni '30 per vedere delle famiglie al
completo in tutti i loro componenti bisogna guardare altrove, a quei film,
in primo luogo le commedie, che rappresentavano il mondo dell'Italia
della modernità: famiglie, quindi, nella loro interezza, ma famiglie
nucleari, padre, madre e figlio/figlia; non sono contemplati, in queste
famiglie borghesi ed urbane, i gruppi allargati, né tantomeno le figure
parentali anziane: i vecchi, non funzionali al processo produttivo,
vengono rimossi da un sistema familiare che nasce come risposta ad
esigenze economiche progressive dettate dal nuovo capitalismo.
Le famiglie allargate, dunque, ci vengono già proposte dai film con una
tara di partenza, ovvero l'assenza di un membro. Inoltre, essendo
inevitabilmente rappresentate da una o più persone in età avanzata, e
trovandosi sempre nei film anche la figura della giovane o del giovane
che rappresentano le nuove generazioni e sono (o desiderano essere)
integrate nel mondo socioeconomico moderno, l'impietoso confronto non
può che portare acqua al mulino della nuova generazione e del nuovo
concetto di famiglia. Per le anziane zie o madri, per il loro mondo d'altri

98
tempi fatto, anche socialmente, di gozzaniane "buone cose di pessimo
gusto", non c'è che la comprensione, la solidarietà, un po' di nostalgia di
quella che può avere chi è ormai a pieno titolo lanciato in un'epoca
diversa. Agli anziani, portabandiera di valori ormai superati dai tempi,
resta tutt'al più una carognesca lotta contro le nuove convenzioni nella
quale far pesare per una volta ancora, forse l'ultima, il peso ormai sfinito
del loro status di capoclan; lotta per la conservazione di un mondo
irrimediabilmente passato, forse migliore del nuovo, chissà, ma
comunque ormai impossibile; lotta dalla quale usciranno,
inevitabilmente, sconfitti.
L'esempio per eccellenza di queste figure di anziane lo diedero le sorelle
Gramatica, sia in coppia sia quando sullo schermo appariva la sola
Emma, la più famosa. Abbiamo già visto Emma nel ruolo della
damigella di Bard, ed abbiamo evidenziato nella storia le tracce di una
nostalgia invincibile per un passato migliore: ma, nonostante il lieto fine
tenda a stabilire un'ideale supremazia della vecchia società sulla nuova, è
evidente come il mondo ideale della nobiltà nel quale insiste a voler
vivere la damigella sia un isolato anacronismo. E il dato della struttura
familiare lo conferma: pur reintegrato nel rango nobiliare, Franco
sposerà la sua Renata, nobile anch'essa, ma la famiglia a cui daranno vita
sarà presumibilmente una famiglia nucleare e di tipo borghese.
Le sorelle Gramatica danno vita insieme, in almeno altri due casi, a
personaggi di anziane donne sole che si aggrappano disperatamente,
contro la logica degli schemi familiari moderni, a dei giovani nipoti, che
tengono in casa con loro e nei confronti dei quali nutrono una gelosia
quasi morbosa. I due film in questione sono Sissignora 114 e, soprattutto,

114
F. M. Poggioli, 1941

99
Sorelle Materassi 115 , entrambi girati da Poggioli negli anni '40, entrambi
melodrammi senza l'ombra di un lieto fine. Nel primo le sorelle sono due
arpie che tiranneggiano la servetta, la protagonista Maria Denis,
sottoponendola ad ogni angheria e licenziandola infine in tronco quando
scoprono che la ragazza nutre dolci sentimenti per il loro nipote
gelosamente adorato, dal quale non intendono a nessun costo lasciarsi
abbandonare; nel secondo, ancor più significativo, le anziane e sole
sorelle Materassi (che sono tre: oltre ad Emma ed Irma Gramatica c'è nel
ruolo della terza sorella, la meno anziana ma già vedova Giselda, Olga
Solbelli, che fu preferita alla terza delle Gramatica, Anna, meglio nota
col cognome Capodaglio, non celebre quanto le altre due), magliaie
fiorentine vissute in una femminilità inutile che le rende ora cattive, ora
patetiche, adorano con gelosia soffocante quel nipote che è bene o male
il solo uomo della loro stirpe e l'ultima continuazione della famiglia.
Mala loro disperata brama di continuazione ed unità della famiglia viene
presti, inesorabilmente, disillusa: il giovane, del tutto insensibile ai loro
anacronistici desideri, le abbandona dall'oggi al domani per sposare la
mangiauomini Clara Calamai, lasciandole desolatamente sole nel loro
isolamento dal mondo e dall'oggi con il cruccio della gelosia, del dolore,
della solitudine. Poco importa che il mondo del loro passato sia
tratteggiato come un mondo migliore rispetto al presente amorale e
vizioso del nipote scapestrato: alla fine è comunque quest'ultimo,
inevitabilmente, a vincere. Del passato non può restare che il rimpianto,
e la superficiale nostalgia di chi lo osserva guardando all'indietro,
vivendo nel mondo moderno.
La simbolizzazione estrema di questo soccombere del vecchio ordine
sociale basato sulla famiglia allargata e matriarcale la troviamo forse in

115
F. M. Poggioli, 1943

100
un film che abbiamo già citato, il "mèlo-canzone" Mamma; ancora una
volta il ruolo del titolo tocca ad Emma Gramatica, madre (anche qui
sola) di un famoso tenore, che torna all'avita casa di campagna, ove vive
l'anziana genitrice, con la giovane sposa, donna di mondo, insofferente
dell'angusta e chiusa vita rurale e della convivenza con la vecchia
suocera, ingombrante relitto di un mondo passato. Perché la felicità
possa coronare l'amore della coppia moderna, la madre deve togliersi di
mezzo: e così essa si immola salvando l'unione dei due, e con la sua
scomparsa la coppia può vivere felice. Così alla morte della madre, e con
lei del passato, corrisponde la nascita del figlio della coppia: scompare la
famiglia allargata con la figura della matriarca, e il suo posto viene preso
dalla nuova famiglia nucleare, ora completa nel suo assetto di
padre/madre/figlio. Il futuro è loro: per il passato, per quanto di nobili
sentimenti esso sia, non c'è più posto. La nuova società esige
un'istituzione familiare più adeguata al sistema capitalistico e industriale:
la famiglia nucleare, quella che nei film che più incarnavano la
modernità dell'epoca, cioè le commedie "bianche", era ormai
rappresentata come l'unica realtà di fatto per il nuovo mondo delle
segretarie felici.

101
Capitolo 4.

La famiglia tradizionale e la sua immagine immutabile.

4.1 L'invarianza della rappresentazione: un fascismo passivo


Esistono dunque nel cinema italiano del periodo fascista due differenti
tendenze, come abbiamo ampiamente anticipato, che coinvolgono i modi
di rappresentazione della famiglia e le ideologie che sono sottese a tali
rappresentazioni. Da un lato troviamo una tendenza, esplicitata in modo
particolare nelle commedie (ma non solo), rivolta ad esprimere gli
elementi di rinnovamento della società; dall'altro vi è invece una
tendenza, che meglio si nota nei melodrammi (ma non esclusivamente),
che si fonda sull'assetto sociale e familiare più tradizionale. Quello che
vogliamo vedere ora è come queste due tendenze si comportino in modo
diametralmente opposto lungo l'asse diacronico dal 1930 al 1943;
ovvero, come la linea di rappresentazione filmica che si attiene al
modello sociale tradizionale mantenga i suoi contenuti ideologici
immutati lungo gli anni in questione, mentre quella che si lega alla
rappresentazione degli aspetti sociali più moderni compie in quegli stessi
anni una evoluzione sia di significanti che di significati, seguendo le fasi
delle variazioni, anche ridotte, dell'ambito sociale del paese. Questo
secondo aspetto, ricco di spunti, sarà oggetto del prossimo capitolo;
vediamo dunque qui invece di approfondire il tema, già toccato per
larghi accenni nelle pagine precedenti e peraltro di più piana lettura,
dell'invarianza lungo il corso degli anni che permea la visione della
società rappresentata secondo l'ideologia più tradizionalista nei film
dell'epoca.
Quanto vediamo raffigurato sugli schermi da queste pellicole non è
punto diverso, in effetti, da quanto avveniva realmente nel paese: a

102
fronte di un sostanzialmente ridotto nucleo di italiani e di famiglie
italiane socialmente avanzate, che si può in pratica limitare agli strati
medio e altoborghesi delle maggiori città industrializzate, vi era la
grande maggioranza della popolazione che continuava invece ad
attenersi a modelli di società più antichi e più radicati nella mentalità
italica. Questo sistema sociale tradizionale, che comprendeva tutta una
serie di aspetti ma al centro del quale vi era la struttura fondamentale
della famiglia come insieme sociale minimo, non era un portato del
regime fascista: si trattava di un costume che proveniva
cronologicamente da molto prima, da una lentissima, impercettibile
sedimentazione secolare, e che poteva tranquillamente riferirsi come
termine più immediato alla società ottocentesca quando non a quella
dell'ancien régime; per molti strati del popolo italiano gli anni, le guerre
e le rivoluzioni erano passate senza lasciar tracce sensibili nella loro vita
quotidiana e nelle loro usanze sociali, con un semplice, indifferente
cambiamento dei padroni. Lo stesso regime fascista non solo non
apportò significativi mutamenti a questo quadro 116 , ma ne fece suo
buona parte e ad esso si appoggiò spesso, discostandosene in parte (ma
solo in parte) solo negli ultimi anni, quando tra le priorità della politica
del regime l'industrializzazione prese il posto del ruralismo. Ma anche
allora molti aspetti di questo sistema sociofamiliare tradizionale rimasero
fra i modelli del regime: si pensi solo a come, negli anni dell'autarchia e
delle sanzioni, ed ancor di più in quelli della guerra, il regime
indirizzasse la sua propaganda all'elogio della donna massaia
parsimoniosa, regina della cucina in economia: il "fronte interno" non

116
Anche se è bene sottolineare come l'operazione fascista di bonifica e sistemazione delle zone rurali
del paese sia stato, è ora di riconoscerlo, uno dei più rilevanti interventi di politica sociale ed insieme
economica compiuti in Italia almeno nella prima metà del secolo, se non oltre. Se però tale iniziativa
ebbe successo nel condurre intere popolazioni rurali fuori da un'economia quasi medievale ed ai limiti
della sussistenza, non altrettanta presa ebbero tali progressi sotto l'aspetto sociale.

103
era solo quello delle donne al lavoro dunque, ma anche e soprattutto
quello delle donne tra le mura domestiche 117 .
Quello che vediamo rappresentato sullo schermo quando un film
tematizza questi elementi di società italica tradizionale, vale a dire la
ruralità, la famiglia patriarcale, le virtù domestiche della donna,
l'accentramento delle decisioni nelle mani dell'uomo e così via, non era
una raffigurazione di propaganda fascista, né di una società voluta o
sorta dal fascismo: era semmai il fascismo stesso che, nato nei primi anni
del secolo da quella società, vi si era in gran parte conformato per
seguirne le aspettative, e ad essa era restato legato anche quando il potere
era conquistato e la situazione mutata. Mi pare insomma di poter ritenere
eccessivo che a questa tipologia sociale si possa dare la definizione di
"fascista", proprio perché essa è al fascismo preesistente, e non ne
subirà, se non in piccola parte, condizionamenti tali da mutarla: questo di
cui parliamo è un paradigma sociale che rimarrà invariato lungo il corso
del regime, e che sarebbe probabilmente resistito anche alla sua caduta,
se non fosse intervenuto invece a mutarlo almeno in parte un altro
evento, più traumatico anche sotto il profilo sociologico: il dramma della
guerra mondiale, comprensivo di sbarco ed aiuti americani e di lotta
partigiana. Saranno proprio la perdita degli uomini partiti in guerra, il
contatto con i soldati americani (al sud) e l'esperienza della guerra civile
(al nord) a determinare uno sconvolgimento nelle dinamiche sociali,
come si può ben vedere (ed anzi questo è forse il tema centrale di tutta
una produzione) dai film del neorealismo. Ma anche questa sarà, come
diremo, più una parentesi che un punto e a capo; e la questione ci

117
Sulla questione della propaganda in favore della parsimonia domestica, del consumo autarchico e
dell'economia familiare in tempo di guerra si rimanda al prezioso contributo di F. Cristiano, Sanzioni e
autarchia nell'Italia dei telefoni bianchi, in G. Casadio, E. G. Laura, F. Cristiano, Telefoni bianchi.
Realtà e finzione nella società e nel cinema degli anni Quaranta, Longo, Ravenna, 1991.

104
porterebbe oltre il soggetto della nostra attenzione Per ora ci limitiamo a
notare come, negli elementi più significativi della rappresentazione
familiare quando essa viene focalizzata secondo il modello tradizionale,
non si riscontri alcun mutamento interno al consolidato e arcaico sistema
sociale lungo gli anni del regime; non solo, ma gli stereotipi immutabili
che vengono utilizzati fanno capo ad una serie di paradigmi che sono
direttamente di matrice ottocentesca. Tanto invariabile è questo sistema
sociale premoderno che non solo non subisce scossoni nel ventennio
fascista, ma che può riferirsi in modo indifferenziato e identico ad un
modello, spesso anche cooptato da altre forme culturali, appartenente al
secolo precedente. Cooptato da altre forme culturali si è detto, in quanto
il rapporto, come mondo di riferimento, con l'Italia tradizionale ed i
modelli tardoottocenteschi è mediato con frequenza attraverso la
letteratura, soprattutto un certo verismo d'appendice degli ultimi anni del
secolo. Non necessariamente questo significa un'ambientazione storica
del film, anche se ciò avveniva spesso; più in generale si intende che era
a quei testi che facevano riferimento sceneggiatori e registi quando
volessero costruire sullo schermo scorci di un'Italia di valori e costumi
tradizionali. Non era certo una volontà realistica che li guidava, ma
bozzettismo dell'immagine e conservatorismo della mentalità; tanto è
vero che, se solo avessero voluto, questi registi e sceneggiatori borghesi
e stracittadini avrebbero trovato quei valori intatti nell'Italia della
provincia, della sottoistruzione, della sussistenza. Rendendosi così conto,
non senza sorpresa, che quella certa Italia immobile ed inveterata che
essi rappresentavano annusandola dai libri non era affatto diversa da
larghi strati di quella attuale e reale; e questo forse, assuefatti a città,
Stracittà e Cinecittà, l'avevano trascurato o dimenticato. Ma questo
discorso ci condurrebbe a divagare; restiamo invece alla questione

105
centrale, e portiamo ora alcuni esempi di come in questi film si utilizzino
stereotipi familiari di ascendenza ottocentesca che si attagliano
perfettamente anche all'Italia contemporanea ed al modello tradizionale
di famiglia che ancora era dominante in tanta parte del paese. Ancora
una volta le esemplificazioni più rilevanti, tali da poterle ritenere
omnicomprensive, sono quelle relative all'immagine della donna; e, di
riflesso, alla figura dell'uomo.

4.2 Donne, uomini e stereotipi ottocenteschi


Che la donna sia la figura centrale di tutto il cinema dell'età fascista lo
abbiamo già detto più volte; ma ancor più assume rilievo questo essere
protagonista quando si tocca l'aspetto della rappresentazione della
famiglia secondo il canone tradizionalista. Questo perché è proprio in
questo mondo che la donna riveste la sua massima importanza: essa è al
centro della rappresentazione perché è al centro della famiglia, in quanto
la famiglia tradizionale, allargata e prolifica, ha il suo fondamento
proprio nella figura della donna nei due ruoli essenziali che tale società
conservatrice le assegna: la donna-moglie e la donna-madre. Due ruoli
nei quali, come si vede, essa non è sostituibile.
La serie degli stereotipi, delle iconografie familiari e femminili del
cinema fascista, che abbiamo già ampiamente descritto, si fonda su un
retroterra che unisce due pulsioni parallele: sul piano narrativo la
pulsione all'amore romantico, che si espleta nel doppio registro del
melodramma e della commedia sentimentale; sul piano sociale la
pulsione al compito di moglie fedele e madre devota, meglio incarnata,
come si è detto, nel melodramma (giacchè la commedia, pur
tematizzando come happy end il matrimonio, era il terreno piuttosto
della rappresentazione delle passioni giovanili spensierate e della nuova

106
figura di donna lavoratrice). Quest'ultimo aspetto della virtù muliebre
viene mostrato più spesso attraverso esemplificazioni in negativo
piuttosto che in positivo; ciò anche perché, narrativamente, faceva certo
più brodo raccontare storie di donne perdute e punite piuttosto che
mostrare la piatta vita quotidiana di donne devote alla famiglia.
L'immancabile castigo finale che spettava alle donnacce infedeli era una
lezione morale molto più efficace che non una oleografia della brava
sposina italica.
Queste pulsioni, ovvero il romanticismo (spesso d'appendice) degli
eventi e l'intoccabilità della morale muliebre, rimangono pilastri
inattaccabili della cinematografia del regime per tutta la sua durata; e il
loro radicamento nel cinema come nella società è un dato consolidato
pregresso, che era già pane quotidiano per la letteratura ed anche per il
cinema dell'intero secolo e della stessa cinematografia degli anni '20,
quella parte depressa dell'ancora muto cinema italiano (già in età
fascista, non dimentichiamolo) che tanto piccola traccia ha lasciato di sé.
Non intendiamo certo addentrarci qui in un discorso sul cinema degli
anni '20, ma è incontestabile che anche dietro alle fosche e decadenti
figure di donne dannunziane allora imperanti vi fosse un retroterra di
profondo tradizionalismo sociale: non per nulla queste donne erano per
loro statuto eroine dal destino tragico.
Il punto è piuttosto secondo quali schemi, appoggiandosi a quali temi
questi due punti centrali che abbiamo individuato trovino posto nei film
e si propongano agli spettatori italiani come modelli. In un certo modo si
potrebbe innanzi tutto dire che già nell'interazione fra di essi l'uno
veicola l'altro; cioè, il motivo dell'amore romantico fa da viatico, da
piacevole cornice narrativa e persino da edulcorante, per la
rappresentazione e per l'accettazione della morale conservatrice,

107
dell'immagine della donna fedele e sottomessa, che accetta come
naturale il suo ruolo domestico. Ma anche altre tematiche rivestono
un'importanza particolare nel fornire un retroterra, definiamolo così, un
"mondo di supporto" adatto alla messa in scena della morale
conservatrice della famiglia e della donna. Una di queste tematiche sarà,
e non potrebbe essere altrimenti, quella della vita campagnola, del
ruralismo tanto caro al regime e al "figlio del fabbro"; un'altra, o se si
preferisce una diramazione di questa, sarà quella della provinciale
insidiata dall'aria viziosa della grande città e dei suoi spregiudicati
borghesotti (la stessa città e la stessa borghesia che,
contemporaneamente, celebravano sugli schermi il nuovo che avanza
attraverso le commedie).Altri temi ricorrenti sono quelli della scelta di
un uomo concreto e onesto come marito piuttosto di un fatuo nobile o
ricco, o del sacrificio, anche supremo, per il marito; oppure quelli che
portano in scena antimodelli, prototipi negativi, come il tema della
caduta morale senza ritorno della donna peccatrice o quello dello
scambio accidentale di mariti e fidanzati, che nelle commedie
esorcizzava certe piccole aspirazioni, di modesta meschinità borghese,
alla trasgressione del vincolo coniugale.
Tutti questi elementi non solo si ritrovano in abbondanza nei film
dell'intero periodo fascista, ma sono anche ampiamente distribuiti lungo
il suo intero corso, e attraverso gli anni non subiscono alcuna variazione
di nessun tipo, né narrativa né, soprattutto, sociologica. A partire,
naturalmente, dal più ricorrente ed ampio di questi, ovvero il ruralismo,
tema caro in primis a Blasetti: già dalla sua opera prima, Sole (1929) 118 ,

118
Sole, ritenuto per più versi, e non a torto, il film della "rinascita" del cinema italiano dopo la crisi,
nasce muto e viene sonorizzato solo due anni dopo; escludendolo qui dalla nostra disamina per motivi
cronologici non possiamo però astenerci dal menzionare che, col suo ruralismo, anch'esso si attiene al
modello che stiamo evidenziando.

108
il "regista con gli stivali" mostra questo suo interesse, ma ancor meglio si
può vedere nel suo cinema l'ideologia contadina con tutto il suo portato
di tradizionalismo sociale cominciando dal suo primo film parlato, Terra
madre (1931), per proseguire immediatamente col suo film successivo,
Palio (1932): il tema rurale resterà sempre caro a Blasetti, ma questi due
film, situati cronologicamente all'estremo inizio del periodo, ci
forniscono due perfetti esempi del modello ideologico-sociale di
partenza, che come vedremo sarà anche, immutato, quello d'arrivo. Nel
primo, le virtù contadine della popolana "zappaterra" Emilia (Leda
Gloria) conquistavano l'amore del padrone, il duca Marco, a spese della
mondana svenevolezza tentatrice della bionda, e straniera, Daisy. In un
invito all'antica virtù della donna di campagna italica chiaro che più non
si potrebbe, Blasetti non manca di inserire anche il motivo, pur'esso
costante per tutta la parabola del cinema del fascismo, della perfidia da
maliarda rubamariti della femmina straniera. Esattamente lo stesso
schema viene reiterato dal regista l'anno seguente, in Palio, dove ancora
una volta come nel film precedente troviamo l'opposizione fra due
donne, una popolana semplice e schietta (interpretata sempre da Leda
Gloria, vera musa popolana del primo Blasetti, in attesa dell'incontro
folgorante con Elisa Cegani) ed una perfida sciantosa. Quest'ultima, non
contenta di aver sottratto il fantino Zarre all'amore della brava fidanzata,
lo attira pure in un agguato e lo fa malmenare per impedirgli di correre il
Palio. Ma, naturalmente, sarà la ragazza del popolo a spuntarla, e l'amore
e la giustizia trionferanno. Nella tornita e un po' naif Leda Gloria degli
esordi blasettiani si individua perfettamente il prototipo del personaggio
della donna del popolo operosa "che si accinge a diventare moglie e
madre" 119 .

119
Masi - Lancia, op. cit., p.16.

109
Leda Gloria impersona un ruolo simile ancora nel 1934, quando, sotto la
direzione stavolta di Guido Brignone, interpreta nel film Oggi sposi la
parte di una provincialotta sbarcata in viaggio di nozze nella grande città,
Roma: un ruolo, questo della provinciale nella metropoli, che è il
prolungamento diretto di quello della contadina. Nel consueto schema di
opposizione fra purezza rurale ed insidie cittadine, alla candida sposina
accade proprio di essere travolta dalla "inospite Babilonia" 120 con i suoi
mille tormenti, lontani anni luce dall'ingenua, placida e serena vita
paesana. Esattamente lo stesso tema e lo stesso motivo, come fanno
notare Masi e Lancia, che rivedremo quasi vent'anni dopo, nel
postbellico 1952, in Lo sceicco bianco 121 . Questo sconfinamento dal
nostro ambito cronologico ci ricorda come le tematiche di cui stiamo
trattando siano resistenti al trascorrere del tempo anche oltre la fine del
fascismo, ed a questo accenneremo ancora brevemente nel prossimo
paragrafo; per ora restiamo nei nostri margini del periodo fascista, e
limitiamoci ad evidenziare come l'identica svalutazione della società
cittadina, borghese e moderna, che vediamo ai primissimi albori degli
anni '30 in Terra madre permanga lungo tutta l'età del regime, giungendo
immutata ai primi anni '40, quando ancora "in film di Visconti o Blasetti
la città è il polo negativo di una visione del mondo in cui la salvezza e il
massimo di integrazione tra individuo e realtà è solo nel mondo
rurale" 122 . Un mondo che ha i suoi valori distintivi proprio nella sacralità
della famiglia, in una femminilità di tipo materno e casalingo, in una
bellezza severa e pudica; è un mondo che è la realtà di una società
italiana ancora ampiamente agricola, una società legata, come
perfettamente nota ancora Brunetta, parlando stavolta di Montevergine

120
F. S. [Filippo Sacchi], in Corriere della Sera, 1 Marzo 1934.
121
Di Federico Fellini, con Brunella Bovo nella parte della sposina di provincia.
122
G. P. Brunetta, Storia… cit., p.277.

110
che è film del 1939, "a un cattolicesimo arcaico, a un'ideologia ruralista
come momento di conservazione di questi valori" 123 . E ancora, questo
cinema, "ottimo veicolo dell'ideologia conservatrice" 124 , è visto come
l'efficace sostituto "alla narrativa popolare e all'opera lirica
dell'Ottocento" 125 .
Non c'è però solo la tematica ruralista a delineare, nei film del periodo
fascista, una traiettoria fatta di elementi immutabili in difesa di valori
sociali conservatori ed assetti familiari tradizionali. Prendiamo l'esempio
più classico di modello negativo: la "donna perduta" Il fatto che essa sia
tale per scelta o per sventura o per semplice fiacchezza d'animo non
riveste alcuna importanza: la condanna cade inesorabile sul suo capo. La
sua colpa primaria è una: essere una donna estranea allo schema
familiare, e come tale un pericolo per la stabilità sociale, sia in quanto
esempio di sedizione sia come concreta minaccia per gli altrui uomini e
quindi per l'integrità loro e delle loro famiglie. È il caso, nel 1934,
dell'Isa Miranda del già ampiamente citato La signora di tutti; ed è il
caso, con diversi svolgimenti narrativi ma con la medesima morale
familiare, delle prostitute interpretate da Paola Barbara in La
peccatrice 126 e da Laura Solari in La statua vivente 127 , rispettivamente
del 1940 e del 1943. Nel primo di questi due film una ragazza, sedotta e
abbandonata, dà alla luce il figlio della colpa (il quale però muore dopo
pochi giorni) e fugge dalla casa materna. Una doppia esclusione dal
sistema familiare, dunque: sia come moglie/madre che come figlia.
Inevitabile perciò che nel film la ragazza scenda tutti i gradini
dell'abiezione. La possibilità di salvezza, attraverso l'ospitalità di una

123
idem, p. 294.
124
idem, p. 295
125
ibidem.
126
Regia di A. Palermi.
127
Regia di C. Mastrocinque

111
sana e proba famiglia di contadini, le viene preclusa quando il figlio di
questi, che l'ama, scopre il suo passato e la respinge. Essa precipita così
sempre più a fondo, in città naturalmente, nel gorgo del peccato, fino alla
prostituzione. Ma troverà infine la sua possibilità di salvezza, e sarà
naturalmente nel rientro nel canone familiare: preclusole per la sua colpa
iniziale il ruolo di sposa esemplare, il suo reinserimento nel sistema-
famiglia non può che avvenire attraverso il ritorno nella casa della
madre, che comprende e perdona; non senza che, a spingere la sventurata
al pentimento, vi sia un'immancabile morte, non sua stavolta ma di una
compagna di postribolo.
Non scampa invece alla morte un'altra prostituta, la Rita di La statua
vivente, la quale, non avendo di fronte a sé la via del rientro nella
famiglia originaria ma solo il sogno di formarne una sua (perché nel
cinema fascista anche le peccaminose prostitute hanno in fondo un cuore
che anela ad un onesto marito e ad una casa piena di pargoletti), non può
avere altra sorte che una morte tragica: la salvaguardia della sacralità
della famiglia non può permettere che una prostituta acquisisca lo status
di moglie, che ne uscirebbe dilaniato nei suoi requisiti di purezza e
fedeltà. Tanto più che in questo film la prostituta prende letteralmente il
posto di una moglie: Rita assomiglia in modo impressionante alla sposa
di un marinaio, destinata a morire in un incidente il giorno stesso delle
nozze (ed infatti sia la moglie che la prostituta sono interpretate da Laura
Solari). Rita cerca allora di sostituirsi alla defunta moglie legittima nel
cuore e nella vita del marinaio, ma egli la scaccia: non c'è posto per le
prostitute nel mondo dei rapporti familiari, ogni suo tentativo di
redenzione, per quanto sincero, è destinato a fallire. Il ruolo di sposa
fedele, rifiutato una volta, è precluso per sempre. Immancabile giunge
così il castigo finale: quando Rita attende il marinaio nella di lui casa

112
indossando gli abiti della defunta, egli non può certo gradire, come
credeva la sciagurata; ma anzi, la considera una profanazione, un insulto
alla sacralità del rapporto coniugale, alla moglie morta. Fuori di sé,
dunque, la uccide. L'infrazione della famiglia è un delitto che si paga con
la morte.
Esempi ulteriori di come il conservatorismo sociale dell'Italia di allora
trovi nello scenario familiare uno dei suoi cardini invariabili nel corso
degli anni si potrebbero trovare in molti altri film ed espressi secondo
angolazioni diverse. Si è già detto come, uscendo dal genere
melodrammatico per gettare uno sguardo anche sulle commedie dei
telefoni bianchi, lo scambio del partner sia uno dei temi più frequenti,
ma mostrato proprio in modo tale da esorcizzare certe aspirazioni
piccoloborghesi all'infrazione dell'irrevocabilità del legame
matrimoniale: si pensi a quante commedie mettevano in scena errori di
persona entro l'ambito coniugale, come Il fidanzato di mia moglie 128 , o
altre bizzarrie della situazione coniugale, come Dopo divorzieremo 129 .
Tutte storie che, inevitabilmente, finiscono col ribadire l'intoccabilità e la
centralità dell'istituzione matrimoniale.
Ed infine non poteva mancare, in una società conservatrice come quella
di cui abbiamo parlato, ancora profondamente maschilista, il tema della
donna come sottomessa compagna dell'uomo che si sacrifica per lui: un
sacrificio che, nel quotidiano, poteva anche voler dire spaccarsi la
schiena nei lavori di casa, ma che al cinema assumeva naturalmente una
dimensione più elevata, quasi sacrale, fino all'iperbole del sacrificio
estremo della vita: è l'esemplare caso di Nozze di sangue, nel quale la
pura ed incolpevole sposa dal significativo nome di Immacolata, resa

128
C. L. Bragaglia, 1943
129
N. Malasomma, 1940

113
non più tale alla vigilia delle nozze con l'inganno da un perfido furfante,
dapprima sopporta l'esibito tradimento del severo marito, ed infine
giunge ad immolare la sua vita per salvare quella di lui. Anche qui la
colpa, per quanto involontaria, non trova espiazione se non nella morte;
ma la prova di perfetta virtù muliebre data dalla povera ragazza dopo la
sua involontaria caduta al di fuori della morale familiare accettata le
consente alfine, con la sua morte da agnello sacrificale, di circondarsi
postuma di un'aura di donna martire, con un velo, seppur luttuoso, di
santità.

4.3 Oltre un decennio, anzi due, e nulla è cambiato


Vi è dunque, come abbiamo appena visto, una linea ideologica
tradizionalista e conservatrice attiva in Italia negli anni del fascismo che
rappresenta nella cinematografia una linea minoritaria, ma che nella
società era ancora, alla faccia del mondo moderno e urbanizzato messo
in scena nelle commedie, il modello largamente dominante nel paese. E
si tratta, come abbiamo visto, di un'ideologia, di un modello sociale che
si conserva immutato lungo tutto l'arco cronologico degli anni del
cinema fascista. Ma non solo: il sistema sociale e familiare conservatore
in questione proviene da una cultura arcaica che è pregressa al fascismo,
e che per larghi tratti continuerà ad essere dominante o attiva anche nel
dopoguerra. Non solo nella realtà socioculturale del paese, ma anche
nella rappresentazione della società italiana e della famiglia che di questa
realtà darà il cinema.
Abbiamo già accennato a Lo sceicco bianco, e a come questo film (che
non è di un qualsiasi regista sprovveduto o manierista, ma di Federico
Fellini) nel 1952 rappresenti una storia ed una morale sociale
sostanzialmente non differente da quella di un analogo film di quasi

114
vent'anni prima. Mi permetto dunque poche righe di digressione sul
cinema degli anni successivi alla caduta del regime proprio allo scopo di
evidenziare come l'invarianza di quella certa prospettiva sociale di
matrice rurale, antimoderna, cattolica e strapaesana si perpetui non solo
durante tutto l'arco degli anni del fascismo, ma come continui ad essere
operativa anche nei film del periodo successivo; e, naturalmente, non
solo nei film ma anche nella società italiana reale.
Nell'immediato momento successivo alla caduta del regime ed alla fine
della guerra si sviluppa in Italia, sotto l'impulso di un'emozione morale
potentissima e di una commistione irripetibile di situazioni sociali,
culturali, produttive, politiche ed artistiche, quella cinematografia
memorabile che passerà alla storia sotto il nome di neorealismo. Un
cinema, questo lo si può affermare con certezza nonostante alcuni studi
abbiano cercato di evidenziarne i rapporti di continuità (assai esteriori a
mio parere) con la cinematografia precedente, di chiara e netta rottura
col passato, non solo sotto l'aspetto del linguaggio ma anche e soprattutto
sotto il profilo sociale, con un ruolo che si può ben definire
rivoluzionario. In realtà, salvo rari casi del tutto particolari come quello
di Chiarini, non si può dire che vi siano critici o studi determinati a
rilevare esclusivamente l'aspetto della continuità fra cinema degli anni
'30 e neorealismo; abbondano piuttosto gli studi nei quali le due
componenti, quelle che i quattro critici del "Gruppo Cinegramma"
definirono "continuità e frattura" si mescolano in varia misura, mutevole
anche col passare degli anni130 . Quello di stemperare la contrapposizione

130
Cfr. Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti cit.; in particolare per le definizioni di "frattura" e
"continuità" cfr. pp.331-343. Questo saggio è probabilmente il più significativo esame sui rapporti di
attrazione e repulsione fra il cinema degli anni '30 e il neorealismo. Fondamentale l'approccio
semiotico alla questione, con l'analisi dei rapporti di frattura e continuità affrontata attraverso l'analisi
intertestuale e il campo di relazioni semiotiche costituito dalle "citazioni". Qua e là affiorano però,
anche in questo esemplare studio, certe indulgenze verso la linea della continuità che non mi sento di
condividere pienamente.

115
netta fra il "prima" e il "dopo" è esercizio critico che dobbiamo
soprattutto alla generazione di studiosi che, non essendo stata parte in
causa all'epoca della guerra e del neorealismo, potè finalmente parlare di
neorealismo e cinema fascista senza determinate pregiudiziali
ideologiche: quella generazione, non a caso, che farà rinascere in grande
stile il dibattito sul cinema dell'età fascista a metà degli anni '70, in
corrispondenza con i noti convegni di Pesaro e Ancona. Cionondimeno,
personalmente ritengo che anche i più raffinati fra i critici
contemporanei, compreso Gian Piero Brunetta per molti aspetti 131 ,
tendano oggi a sopravvalutare gli elementi di continuità tra neorealismo
e cinema dell'età fascista. Più opportuno sarebbe a mio giudizio parlare,
come ho già accennato, di continuità oltre il neorealismo, con la
riattivazione, ad anni '50 in corso, di modi e linguaggi precedenti alla
catastrofe bellica; mentre l'avventura neorealista, nel suo breve e intenso
periodo, rimase appunto una sorta di parentesi: una scuola senza né
maestri né discepoli.
Infatti, dopo pochissimi anni, non solo questa eterogeneissima "scuola"
andò sfaldandosi, ma fu rapidamente insabbiato il suo stesso lascito in
termini di cinematografia sociale. I grandi autori che avevano dato fama
imperitura a quel momento della nostra cinematografia si avviano,
superato il momento traumatico dell'immediato dopoguerra, lungo le
loro diverse strade creative; mentre i minori, cessato il periodo d'oro,
prontamente si disperdono al servizio di una produzione di maniera, di
genere. Ed è forse proprio questa nozione di "genere" a dare la chiave del

131
Anche nel volume secondo della sua fondamentale Storia del cinema italiano (cit.) Brunetta tende
a dare molto rilievo agli aspetti di continuità fra cinema fascista e neorealismo, sia attraverso la
presentazione delle istanze "realiste" della critica del tempo (particolarmente il gruppo di "Cinema"),
sia attraverso un costante riferimento a film, autori e correnti che del neorealismo sarebbero
"antecedenti". Si vedano, a proposito, in particolare il capitolo "Il cammino della critica verso il
neorealismo" (pp. 197-230) ed il paragrafo dall'altrettanto significativo titolo "Spostamenti progressivi
verso la realtà" (pp.275-8).

116
discorso: il cinema neorealista era stato il cinema dell'antigenere per
definizione, il cinema della "messa in disordine" rispetto all'ordine del
sistema dei generi preesistente; e lo stesso disordine era stato portato nel
mondo dei rapporti sociali, sconvolti dall'esperienza bellica e
rappresentati nella loro più brutale realtà. Proprio in quanto tale, questo
cinema non poteva sopravvivere a se stesso: il suo status di momento
azzeratore, di caos purificatore, non poteva che avere breve vita,
destinato fin da principio ad essere accantonato, museificato quando il
paese fosse pronto a riprendere il suo cammino ed assumesse quindi un
nuovo ordine. Ordine politico, ma anche e per quanto ci riguarda
soprattutto ordine sociale; e quindi, inevitabilmente direi, ordine
cinematografico. Finito il bellissimo falò, si scopre che la società italiana
non è poi granchè mutata nel passaggio di regime dal prima al dopo la
guerra; ed anche i suoi desideri e la sua fame di cinema restano legati a
modelli che sono in gran parte riproposizioni appena aggiornate del
cinema che fu negli anni '30. Sono passati pochi, pochissimi anni dai
capolavori di Rossellini, Visconti, De Sica, ma già si rifacevano vivi i
vecchi modelli, sia sociali, in un generale rappel a l'ordre, che
cinematografici, con la ricomparsa proprio del massimo nemico dei
registi e critici del neorealismo: il cinema dei generi. Come non
riconoscere sotto le spoglie delle tornite "bellezze in bicicletta" le eredi
delle cinguettanti segretarie e dattilografe delle commedie di regime? La
cosiddetta "commedia all'italiana" non discende forse direttamente da
Camerini e dal cinema dei telefoni bianchi? Notava Carabba oltre
venticinque anni fa, restando non troppo ascoltato, come "l'analisi
scandagliata delle vane commedie degli anni Trenta permetterebbe di
stabilire vari punti di contatto con i brutti e cattivi filoni di strepitoso
successo del <<trentennio democratico>>, dal deprecato bozzettismo

117
manieristico dei <<poveri ma belli>> all'insincero moralismo falsamente
accusatore dei <<Sorpassi>> alla Gassmann" 132 . E ancora, non sono
forse i drammoni cupi, chiusi, colmi di amori tragici e disperati di
Poggioli i progenitori diretti del filone postbellico ultrapopolare e
lacrimevole che trova il suo massimo esponente in Matarazzo? Gli
esempi potrebbero, se questa fosse la sede più appropriata, continuare; è
comunque un fatto che, specialmente sotto il profilo sociologico, le
traiettorie che si disegnano nella cinematografia fra gli anni '30 e gli anni
'50 risultano alla resa dei conti molto meno segnate dall'esperienza
neorealista di quanto si possa pensare. L'eccezionalità stessa di quel
cinema, il suo essere irripetibile ed improrogabile, finisce così con
l'apparire a noi posteri, e col rappresentare per i contemporanei, più una
parentesi che una rivoluzione. Una parentesi nel clima della società e del
cinema italiano almeno, perché, sul piano dell'importanza per la
cinematografia mondiale, che l'esperienza neorealista potè recepirla
senza i fardelli che pesavano sulla società italiana, fu rivoluzione vera, e
feconda.
In Italia invece, si è detto, una parentesi: e più ancora che sul piano del
linguaggio fu tale proprio sul piano della rappresentazione sociale. La
guerra e la repubblica avevano cambiato certo molte cose nella società
italiana, ma ancora una volta larghissimi strati della popolazione erano
stati toccati dal cambiamento solo marginalmente, e le consuetudini
sociali e familiari antiche, così com'erano sopravvissute pressochè intatte
ed immutate nel passaggio attraverso tutto il ventennio fascista, ancora
erano riemerse incrollabili nel dopoguerra. Di nuovo rappresentavano
soprattutto le larghe fasce d'Italia che vivevano in una società rurale
oppure di piccolissima borghesia, con il loro tradizionalismo

132
C. Carabba cit., in Micchichè (a cura di) Il neorealismo… cit., p.394-5.

118
conservatore; di nuovo ad essere nucleo fondamentale di questa società
tornava ad essere la famiglia, concepita in senso arcaico, come sistema
chiuso di relazioni allargate e ramificate in schemi di subalternità. E di
nuovo, infine, al centro naturale della famiglia tornava, anche nella
rappresentazione cinematografica, lei, la donna: naturalmente con i
medesimi connotati di prima.
Scriveva Varese a dieci anni dalla fine della guerra a proposito della
"nuova" figura femminile nel cinema italiano: "La donna di questi film
del dopoguerra è, in genere, compagna all'uomo nelle preoccupazioni
economiche e nell'incertezza della vita, talvolta compagna anche nelle
lotte politiche e sociali" 133 . Il tempo, si sa, non è generoso con le analisi
critiche toccate dal calore del momento presente. Così oggi, nel chiederci
se veramente fosse cambiato qualcosa nella figura della donna nella
società e nel cinema nel passaggio dagli anni del fascismo a quelli del
dopoguerra, ci basta ribaltare impietosamente proprio quelle stesse
parole: dal confronto tra le riflessioni sulla figura femminile dei film del
dopoguerra e quelle dei film degli anni '30 emerge un quadro nel quale,
senza variazioni di rilievo, il ruolo della donna rimane quello di
compagna dell'uomo, cioè detto senza mezzi termini di subordinata
all'uomo, sempre e comunque in nome dell'unità della famiglia della
quale essa è il perno, "nella quale il suo ruolo di moglie e madre deve
essere perpetuo" 134 . E non diversamente accade se si tocca il tema, pure
più moderno e quindi apparentemente meno soggetto alle spinte
tradizionaliste della conservazione sociale, della donna al lavoro: pur con
l'inserimento di tematiche modernamente sociali, come la
disoccupazione, nella rappresentazione del mondo privato le fanciulle

133
C. Varese, Questa la donna nel cinema italiano del dopoguerra, in "Cinema Nuovo", n. 30 (1954).
134
A. Frabotta,. cit., p. 83.

119
rimangono perlopiù bozzetti sentimentali, e sono, ancora, dattilografe
con l'anelito infine ad un tradizionale matrimonio; e ancora la città è il
polo negativo di un'opposizione bene/male con la campagna, è il luogo
del crollo, anche simbolico e morale. Lo si può vedere persino in film tra
i migliori degli autori più severi, com'è quello, del 1952, a cui abbiamo
fatto riferimento senza nominarlo in queste ultime righe: quel piccolo
capolavoro di "realismo popolare" che è Roma: ore 11 di Giuseppe De
Santis.

120
Capitolo 5.

La famiglia nel cinema dal 1930 al 1943: un'analisi diacronica.

5.1 l'Italia, il regime, la famiglia: una linea di mutamenti


Quando, nel 1930, il cinema italiano scopre le voci, il fascismo è ormai
consolidato all'interno del paese. Negli otto anni trascorsi dalla marcia su
Roma il regime ha conquistato, sotto ogni aspetto, il controllo della
nazione. Tredici anni durerà ancora il regime, fino a quell'ordine del
giorno del 25 luglio 1943 che ne concluderà la parabola (salvo la
agonizzante esperienza repubblichina); tredici anni che vedranno
alternarsi fasi di maggiore o minore consenso. Un periodo durante il
quale molti saranno gli eventi, molti i cambiamenti, sia nella società che
nel cinema.
Nel capitolo precedente abbiamo esaminato come, durante l'età del
regime, una certa linea di pensiero connotata in senso tradizionalista
attraversi la società e venga rappresentata sugli schermi del paese; e
soprattutto abbiamo evidenziato come questa linea sia anche
temporalmente invariante, si conservi cioè immutata nelle sue basi
attraverso tutto il periodo preso in considerazione (ed anche oltre). In
questo capitolo, invece, prenderemo in esame la tendenza opposta, l'altra
linea di condotta che attraversa l'Italia in quegli anni, ovvero la linea più
votata alla modernizzazione, sociale, economica, e naturalmente
familiare; ed il modo in cui questi mutamenti sociali vengono
rappresentati nel cinema. In realtà non è tanto sugli aspetti in loro stessi
di tale modernità che vogliamo soffermarci, anche perché già

121
ampiamente scandagliati in ottimi studi 135 , ma piuttosto sul fatto che,
contrariamente alle posizioni tradizionaliste che rimangono invariabili
durante gli anni, questa linea di ri-strutturazione sia della società che del
cinema ha un suo andameno diacronico preciso col variare dei momenti,
col trascorrere degli anni. Essa non solo rappresenta il mutamento, ma è
in continuo mutare essa stessa; il suo variare, produrre nuove figure
sociali e nuove raffigurazioni cinematografiche è il contraltare
dell'immobilità di valori di cui abbiamo parlato in precedenza: due
tendenze che convivono nel paese, e nel cinema, come due facce della
stessa medaglia.
La prima, indispensabile premessa a questo discorso è che sarebbe del
tutto fuorviante cercare sommariamente di affibbiare a queste due
prospettive le etichette "fascista" e "antifascista". Sarebbe operazione
completamente fuori luogo, perché è solo negli ultimissimi anni del
regime che il settore più ricettivo e dinamico del cinema comincia a far
filtrare, in modo spesso inconsapevole, i segnali della spaccatura che si
va aprendo tra il regime ed il paese; e peraltro attraverso il territorio
semantico della modernizzazione transiteranno dal principio alla fine
temi, figure e discorsi tutt'altro che sgraditi al regime, ed anzi in certi
momenti persino più vicini agli interessi reali del fascismo di quanto non
lo fosse, per esempio, il ruralismo.
È dunque assai difficile dare una definizione univoca per i film che
prenderemo in esame in questo paragrafo, proprio perché l'unico fattore
ad accomunarli è l'appartenenza ad una linea in evoluzione di
rappresentazione della società italiana. Non si può parlare di registi
protagonisti espressamente di questa tendenza, se non in modo del tutto

135
In particolare sul ruolo che in quest'ambito ha la donna (soggetto centrale sia dei mutamenti sociali
che del cinema come si è detto) spiccano i lavori di Elena Mosconi (Figure femminilitra cinema ed
editoria popolare cit.) e Victoria De Grazia (Le donne nel regime fascista cit.).

122
superficiale: la stretta convivenza dei due modelli faceva sì che anche
nella pratica del lavoro cinematografico essi nascessero indistintamente.
Ugualmente non si può parlare di generi privilegiati: se è vero infatti che
la commedia fu, per sua natura testuale, più vicina alle spinte moderniste
della società, è altrettanto vero che l'evoluzione della società italiana
trova spazio anche negli altri generi, compreso il "tradizionale"
melodramma.
Impuntarsi nel cercare di stabilire in quali misure siano i film a
rappresentare la società esistente e in quale siano il cinema e i media a
proporre un modello sociale è, si sa, come chiedersi se sia nato prima
l'uovo della gallina. Importante è solo tener bene presente che questi
reciproci influssi esistono, sapere quale sia la loro forza ed in direzione
di cosa si orientino. Nel caso del cinema del fascismo abbiamo visto già
come la direzione sia duplice: da un lato la conservazione sociale,
dall'altro il modernismo. In entrambi i casi si tratta, a mio giudizio, di
modelli dalla forza rilevante; ma forze connotate diversamente: l'una,
quella tradizionalista, è forza statica, sostanzialmente passiva; l'altra è
invece una forza dinamica, che da un lato produce movimento, dall'altro
lo segue attentamente. Ed infatti vedremo come, lungo questa linea,
venga alla luce in modo evidente un'evoluzione che trova i suoi punti di
accumulo in determinati momenti dell'epoca in questione, e
segnatamente in corrispondenza niente affatto casuale con avvenimenti
storici precisi, con punti di svolta della società italiana del periodo
fascista.
Due spartiacque fondamentali costituiscono i margini, che peraltro vanno
presi, come sempre nella storiografia, come riferimenti elastici, dei tre
momenti che la prospettiva sociologica può individuare nei tredici anni
di cui parliamo: uno è, naturalmente, l'entrata in guerra; l'altro, più

123
dilatato temporalmente ma forse ancor più cruciale, è l'insieme di eventi
politici che hanno luogo a cavallo fra la fine del '35 e il '38, fra cioè la
guerra d'Africa e le leggi razziali. Ma prima di introdurre in dettaglio
questa questione cronologica, è doveroso accennare anche ad almeno
un'altra importante linea di demarcazione che attraversa il cinema degli
anni '30, una linea che qui lasceremo in secondo piano perché più
propriamente legata alla produzione cinematografica piuttosto che alla
rappresentazione cinematografica della società, che è il nostro tema: si
tratta della rottura che avviene dal 1934 con l'istituzione della Direzione
generale per la cinematografia ed il passaggio del ruolo di uomo-guida
del cinema italiano da Cecchi e Freddi. È indubbio che tale mutamento
abbia enormemente segnato il cinema del periodo, ma, ai nostri fini, in
termini cioè di raffigurazione della società e della famiglia, risulta molto
più significativo seguire i mutamenti che il cinema rappresenta attraverso
l'altra prospettiva, quella che ci consente di collegare il lavoro dei
cineasti alla realtà sociale del paese, piuttosto che evidenziare come la
gestione Freddi abbia forse (ma non potremo saperlo mai) tarpato le ali
ad un possibile cinema italiano "d'autore" per puntare sul modello
americano degli standard di genere.
Vi sono dunque momenti precisi nei quali il cinema avverte, in qualche
modo, il mutare della situazione sociale in Italia in corrispondenza a
determinate situazioni storiche venute a crearsi; e, a fianco di una
corrente tradizionalista che per sua natura non si presta a fornirne
riscontro, dà voce a tali momenti di frattura con un mutarsi, spesso
appena accennato ma non lento, degli elementi della rappresentazione
sociale del paese sugli schermi. Come si è detto, tali momenti
corrispondono a precise situazioni sociopolitiche che originano dal corso
del regime fascista; è perciò opportuno, innanzi tutto, stabilire un punto

124
di partenza, il termine a quo dal quale esaminare il cammino del cinema
in parallelo a quello del regime: tale termine non può che essere l'inizio
dell'età del cinema sonoro e la contemporanea rinascita del cinema
italiano dopo il periodo oltremodo buio degli anni '20, e quindi è
indispensabile evidenziare brevemente quale fosse, all'alba del 1930, la
situazione dell'Italia sotto il profilo sociale e quali fossero le linee sulle
quali si muoveva e si era mosso nei suoi otto anni di potere il regime
fascista. Il fatto che in quegli anni il cinema italiano fosse poco più che
un'entità vegetante non ci esimono infatti dal ricordare per quali vie la
società ed il regime fossero giunti alla situazione, che per noi sarà di
partenza, dell'inizio degli anni '30.

5.2 Movimenti già in atto: gli anni '20 e gli esordi del fascismo
Nelle poche pagine di questo paragrafo si parlerà dunque ben poco di
cinema, e molto invece di storia e società: pur con la necessaria brevità
cercheremo di dare atto dei mutamenti sociali che erano già in corso
negli anni '20, e di quale fosse la situazione dalla quale si muoveranno
gli ulteriori cambiamenti del decennio successivo sui quali ci
concentreremo.
Alle soglie del cambio di decennio, dunque, il regime ha appena portato
a termine con successo la sua opera di stabilizzazione e di conquista di
consenso all'interno del paese. È del 1929, infatti, il Concordato firmato
tra lo stato fascista e la Chiesa, che sacrificando larghi settori di laicità
dello stato chiudeva l'annosa questione romana, e soprattutto conquistava
al fascismo la forza di orientamento morale padrona assoluta del paese,
cioè la chiesa, potendosi giovare contemporaneamente di un enorme
successo propagandistico agli occhi degli italiani tutti. L'indizione, non a
caso poche settimane dopo, di nuove elezioni (le prime tenute col nuovo

125
sistema plebiscitario), mostrava chiaramente come il regime fosse ben
conscio del grande guadagno di consenso che i Patti Lateranensi gli
avevano fornito. I risultati delle votazioni, di per loro scarsi di significato
dato il sistema totalitario col quale si tennero, indicarono comunque nelle
cifre che intorno al regime vi era ormai un consenso diffuso, foss'anche
solo un'accettazione passiva. Per quanto ovviamente inaffidabili come
per ogni votazione tenuta in regime non democratico, con sistemi
plebiscitari e senza controllo sulla veridicità dei dati, i risultati appaiono
comunque come un segnale che la grande maggioranza degli italiani era,
se non favorevole al fascismo, almeno non contraria: si registrò "un
afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti
favorevoli. Un risultato da valutare con cautela […] ma comunque
indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime 136 . Un
consenso ripristinato appieno dopo i momenti difficili della metà del
decennio, con il delitto Matteotti e la seccessione dell'Aventino, e basato
sul significativo passaggio da un fascismo duramente squadrista ad una
fase di, per così dire, normalizzazione; un passaggio dalla fase della
presa del potere a quella della gestione del potere conquistato.
Questo consenso, appena rinsaldato sulla base dell'accordo con la chiesa
cattolica, non significava però che il paese avesse visto la sua situazione
sociale ed economica migliorare negli anni del regime: benchè infatti
l'Italia continuasse a muoversi lungo le linee di sviluppo comuni a tutti i
paesi dell'Europa occidentale (con l'aumento della popolazione,
l'urbanizzazione, la crescita dell'industria e dei lavoratori del terziario, in
Italia specialmente nella pubblica amministrazione), "alla vigilia della
seconda guerra mondiale l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato
e il suo distacco dalle grandi potenze europee si era accentuato piuttosto

136
Giardina, Sabbatucci, Vidotto, op. cit., p.616

126
che colmarsi" 137 . Il reddito medio di un italiano era lontanissimo da
quello di francesi e inglesi, e le condizioni materiali conseguenti erano
una dieta povera, basata sui farinacei e scarsa di proteine, ed un ancora
più evidente carenza di beni di consumo durevoli, compresi i mezzi di
comunicazione, come radio e telefono.
Le condizioni materiali di vita, insieme ad un identico ritardo anche sul
piano sociale, restavano dunque seriamente arretrate, nonostante la
propaganda del regime mostrasse un paese efficiente e produttivamente
fascistizzato, ma "l'arretratezza economica e civile della società italiana
fu per certi aspetti funzionale al regime e all'ideologia fascista, o quanto
meno ne favorì le tendenze conservatrici e tradizionaliste. Il fascismo,
come il nazismo, predicò il <<ritorno alla campagna>>[…] e tentò di
scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i
centri urbani. Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa,
difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come
garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico" 138 . Se da
un lato il regime "voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni
del passato" 139 all'altro lato però, contemporaneamente, "era in qualche
modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell'<<uomo
nuovo>>, verso un sistema totalitario moderno" 140 ; per la realizzazione
di tutto ciò era però necessario superare l'ostacolo dell'arretratezza
economica, che era legato soprattutto, come il regime dovette presto
notare, proprio alla struttura ancora profondamente rurale della nazione,
ai "piccoli paesi sperduti dove non arrivavano le strade carrozzabili, non
c'erano scuole e non si sapeva cosa fossero la radio e il cinema" 141 . Ecco

137
idem, p.617
138
idem, pp. 617-620
139
idem, p.620
140
ibidem
141
ibidem

127
un primo accenno al cinema: lo accantoniamo un istante prima di
ritornarvi; per ora ci preme sottolineare come, resosi conto che la propria
ideologia ruralista originaria non era più funzionale alla costruzione
dello stato fascista nella nuova fase del consenso e del potere acquisito, il
fascismo lasciò che questa linea di pensiero restasse sempre più sullo
sfondo, sempre più solo sbandierata e non applicata, passando nella
nuova fase a prendere come suo interlocutore privilegiato quel gruppo
sociale che più e meglio avrebbe potuto assicurargli la stabilità nel
controllo del paese sia sotto l'aspetto sociale che sotto quello economico:
ovvero la borghesia. I ceti piccolo e medio borghesi furono quelli presso
cui il fascismo riscosse i maggiori successi, sia perché favoriti
nell'ascesa sociale dai nuovi canali della burocrazia del regime (che si
moltiplicava a dismisura) e dalla crescita del settore terziario, sia perché
erano queste le classi più sensibili ai valori che, accantonato il ruralismo,
erano quelli esaltati dal fascismo: il nazionalismo, l'ordine sociale, la
gerarchia. L'alta borghesia e la grande industria rimasero meno
ammaliati dal regime, ma quando fu evidente che per gli interessi dei
grandi capitalisti i burrascosi strepiti populisti del regime non erano
pericolosi attacchi ma solo propaganda innocua, i gruppi industriali non
ebbero problemi nel dare un tranquillissimo ed indifferente appoggio alla
politica fascista, ricevendone in cambio, quando gli effetti della crisi del
'29 si fecero sentire, sostegno statale per sanare le perdite e commissioni
per i cantieri della grande stagione di lavori pubblici che si aprì come
strumento per contrastare la crisi. Sarà invece solo negli anni '30 che lo
Stato diverrà, con le nazionalizzazioni, prima stato-banchiere e poi ststo-
imprenditore. Operazione questa che porterà in effetti il paese ad uscire,
a metà del decennio, dalla fase più acuta della crisi, ma che creerà un
precedente, una struttura ed una nuova enorme burocrazia parastatale che

128
segneranno fino ai giorni nostri la struttura socioeconomica della
nazione.
Ma torniamo ora, per concludere prima di entrare nel dettaglio della
situazione nel paese e sugli schermi all'alba degli anni '30, al precedente
accenno al cinema. È quasi superfluo ritornare sulla nota questione del
"cinema arma più forte" dei proclami mussoliniani, ma non è superfluo
soffermarsi invece su come e quanto questi proclami vennero o meno
applicati; dopo oltre sessant'anni la storiografia continua a discutere del
se e quanto il cinema di quegli anni debba essere considerato
strettamente un "cinema fascista". Credo che questo mio studio illustri
chiaramente la mia modesta opinione a riguardo, ma mi pare opportuno
in questo contesto ripetermi in modo sintetico: quel cinema fu fascista
allo stesso modo in cui fu fascista l'Italia, cioè molto e diffusamente, ma
in modo sostanzialmente superficiale; ed anche torno a dire che molti
aspetti di quel cinema che oggi definiamo "fascisti" furono in realtà più
fattori già insiti nel paese che il fascismo fece suoi, piuttosto che precisi
diktat ideologici strutturati ed imposti dal regime. La scelta di rinunciare
quasi fin da subito ad un cinema di propaganda diretta fu ugualmente
una realistica e corretta presa d'atto, da perte di uomini non ingenui come
Freddi e Pavolini, del semplice fatto che in Italia quel modello non
avrebbe funzionato. Si scelsero così altre vie, meno dirette, ma non per
questo, infine, meno efficaci; e se ciò comportava che i messaggi
generali che sortivano dagli schermi fossero meno diretti e più di
compromesso, ciò non era altro che il riflesso di un regime che, mentre
su altri media come la stampa e la radio poneva il suo controllo totale, al
cinema lasciava una libertà d'azione che risultava più funzionale.
Qualcuno nel regime dovette aver capito allora che, lasciando che il
cinema incarnasse senza troppi steccati ambizioni, sogni e paure degli

129
italiani, esso avrebbe prodotto, senza neppure doverlo forzare, una
cinematografia che rappresentava fedelmente anche il regime: poiché le
cosonanze di base fra esso e la nazione furono, in virtù
dell'opportunismo situazionista che il regime seppe applicare, a lungo
profondamente coincidenti: mentre si soddisfava una fetta del paese con
affermazioni di propaganda, si accontentava l'altra fetta con le
realizzazioni pratiche, e via così invertendo l'ordine dei fattori quando
fosse necessario, senza tuttavia che il prodotto cambiasse. Almeno fino
ai decisivi anni 1936-38, quando il prodotto-consenso comincerà a non
soddisfare più gli italiani, in conseguenza della nuova politica del
regime. Ma un passo per volta: vediamo ora come il cinema
rappresentava la società e quindi la famiglia italiana negli anni
precedenti, quelli fra il 1930 e il 1936, quelli insomma del maggiore
consenso.

5.3 1930-1936: la fase del consenso tra stereotipi vecchi e nuovi


Con l'introduzione nel 1930 del cinema sonoro (o parlato che dir si
voglia) inizia dunque un nuovo periodo per la cinematografia italiana,
che coincide con il momento di ripresa dopo la letale crisi degli anni '20.
In genere però si tende ad attribuire tradizionalmente il titolo di "film
della rinascita" ad un film che fu girato ancora muto, ovvero l'opera
prima di Alessandro Blasetti (un regista che, pur senza essere un grande,
lascerà un segno profondo nello sviluppo della cinematografia italiana,
di quell'epoca ma anche in seguito): Sole, girato nel 1929 proprio alle
soglie dell'introduzione del sonoro. Se non fosse proprio per il fatto che,
per cronologia e per statuto di film muto, esso esula dal nostro ambito,
potremmo tranquillamente partire da quest'opera nella nostra

130
ricognizione su questo primo periodo: gli elementi ci sarebbero tutti, a
cominciare da quella costante che è l'ormai più volte citato ruralismo.
È un dato di fatto che, in questa prima fase, i discorsi-chiave siano
sostanzialmente due: un dualismo ed una frattura. Il dualismo è quello, di
cui abbiamo già abbondantemente fatto cenno, fra le tendenze ruraliste e
quelle moderniste, potremmo dire fra Strapaese e Stracittà; la frattura è
quella, come abbiamo anticipato, fra la prima fase con la gestione Cecchi
e la seconda con la Direzione generale e Freddi. La prima questione è
più strettamente legata al nostro discorso sulla famiglia nel cinema, ma
la seconda è, a mio parere, più rilevante perché carica di conseguenze
determinanti per lo sviluppo successivo che il cinema italiano ebbe, nel
periodo fascista per non dire anche oltre. Cominciamo perciò da
quest'ultima, senza troppo dilungarci e rimandando per un
approfondimento ai testi specifici che abbiamo già citato all'inizio del
secondo capitolo.
La "rinascita " del cinema italiano, quella cioè che si fa tradizionalmente
cominciare all'estrema soglia del muto con Sole, nasceva sotto la guida
dell'uomo che, forse unico, aveva continuato a tenere duro per quanto
possibile durante il periodo buio: Stefano Pittaluga. Questo nonostante il
succitato Sole non fosse una produzione della sua Cines, ma della
neonata Augustus, casa indipendente appositamente istituita da Blasetti e
dai suoi compagni d'avventura delle riviste "Cinematografo" e "Lo
spettacolo d'Italia" mediante i proventi delle riviste, i risparmi personali,
l'aiuto di alcuni sostenitori ed una sottoscrizione azionaria: il film fu,
come ricorda Blasetti, prodotto con questi limitati mezzi e "attraverso
digiuni memorabili ed ostacoli di ogni natura" 142 . Riconosciuto
unanimemente dalla critica come il film che riportava il cinema italiano

142
A. Blasetti, Scritti sul cinema (a cura di A. Aprà), Marsilio, Venezia 1983, p.344

131
ai fasti di un tempo 143 , Sole non ebbe un riscontro di pubblico altrettanto
lusinghiero: dal punto di vista commerciale il film fu un insuccesso,
riducendo il gruppo della Augustus, come disse ancora Blasetti, alla
fame. Ma Pittaluga, che in precedenza non aveva voluto impegnarsi nella
realizzazione di Sole, riconobbe in Blasetti e nel gruppo che aveva
lavorato con lui una valida forza produttiva, e decise così di chiamare il
regista, col quale aveva avuto più di uno scontro in precedenza sulle
pagine delle citate riviste blasettiane, ad aprire la produzione della nuova
Cines, da lui riaperta e riattrezzata nei vecchi stabilimenti di via Veio; e
dei quadri della nuova Cines entrarono a far parte anche gli altri
collaboratori della ormai liquidanda Augustus (tra i quali vi erano, per
citarne solo alcuni, Barbaro, Vergano, Solaroli e Pasinetti). Pittaluga fu
dunque il primo, con questa ristrutturazione, a credere in una ripresa del
cinema italiano in corrispondenza con l'avvento del sonoro e ad
introdurrre i nuovi apparecchi nella produzione e nell'esercizio. Pittaluga
si trova così in una situazione quasi monopolistica, tanto che in questa
prima fase il 90% dei film prodotti in Italia sono realizzati sotto il suo
marchio; la legge del 18 giugno 1931 (che tanto peso avrà nel
determinare la via intrapresa dal cinema italiano), che insieme ad
elementi protezionistici approntava aperture di credito per il cinema e
stabiliva premi e sovvenzioni su base quantitativa, sembrava e di fatto
era fatta su misura per lui: ma Pittaluga non potè vederne i frutti, dal
momento che morì appena prima che entrasse in vigore.
La guida della rinata Cines passò così negli anni successivi nelle mani di
Ludivico Toepliz; il quale volle accanto a sé, come direttore artistico,
Emilio Cecchi. Sarà quest'ultimo, per un breve quanto intenso ed

143
Cfr.: A. Blasetti, Il cinema che ho vissuto (a cura di F. Prono), Dedalo, Bari 1982, p.214 e passim.

132
importante periodo, il vero deus ex machina della cinematografia
italiana.
"Agli inizi degli anni trenta lavorano per la Cines Blasetti, Righelli,
Camerini, Almirante, Campogalliani, Bragaglia. Prima della direzione
Cecchi non esiste un vero programma, né alcun piano produttivo, mentre
grazie a lui, dal 1932 si cercherà di stabilire un rapporto piùstretto fra
letterati e cinema e di modificare - attraverso film e documentari - gli
stereotipi rappresentativi dell'Italia e degli italiani", afferma Gian Piero
Brunetta 144 ; e ancora: "Il breve arco di tempo che va dall'avvento del
sonoro alle prime iniziative della Direzione generale per la
cinematografia, istituita nel 1934 presso il ministero della cultura
popolare, vede i timidi passi du una ripresa non tanto in termini
quantitativi, quanto di ricerca di nuovi moduli produttivi e di nuove
strade, narrative ed espressive" 145 .
Dunque solo con l'avvento di Cecchi la Cines - e quindi il cinema
italiano tout court - trovano una loro direzione coerente, una politica
cinematografica. Una coerenza che pure deve convivere con qualche
tendenza più eterogenea: se infatti da un lato Cecchi diede un marcato
impulso ad una cinematografia che voleva essere, per così dire, di
qualità, d'autore, dall'altro è pur vero che la produzione Cines viene da
lui orientata a soddisfare le richieste di un pubblico medioborghese, con
le sue aspirazioni ancora alquanto ondivaghe fra un assetto sociale più
tradizionale ed il prepotente richiamo alla modernità ed alle possibilità di
ulteriore ascesa sociale che ciò presentava. La direzione in cui si muove
Cecchi è proprio quella di cercare di conciliare questi due aspetti:
riuscire ad offrire al pubblico una produzione che non atterrisca per una

144
G. P. Brunetta, Storia… cit., p.6
145
idem, p.231

133
sua eccessiva novità, ma contemporaneamente che sappia rinnovare
l'immagine dell'Italia, sfuggendo alle convenzioni più popolari ed
oleografiche come pure all'artificiosità da teatro di posa del cinema dei
decenni precedenti. Un'operazione che viene svolta, e non senza apparire
nella sua brevità priva di un qualche successo, attraverso l'unione nelle
pellicole di un elemento tradizionale e rassicurante con un altro
innovativo e problematico: in particolare, si nota come si scelga di
seguire un'impianto narrativo consolidato (la commedia o il
melodramma) ma ponendone lo svolgimento in ambienti inusuali ed
innovativi. Nascono così quelli che sono i film più rappresentativi del
periodo Cecchi, 1860 146 , La tavola dei poveri 147 , Gli uomini che
mascalzoni… 148 e Acciaio 149 .
Il primo è in qualche modo un caso a parte, che, innovativo già dal suo
linguaggio, trova la necessaria accettazione nel motivo risorgimentale;
negli altri tre casi si può vedere come, sullo sfondo di vicende d'intreccio
piuttosto usuali (la commedia sentimentale in due casi, il melodramma
per La tavola dei poveri), venga messa in scena un'Italia del tutto
sconosciuta agli schermi: l'ambiente dell'industria, non certo immune da
malcelata sospettosità da parte del regime; la Milano "scoperta"
dall'obiettivo di Camerini (che degli "esterni" è il più fedele assertore: si
pensi, restando solo nel breve periodo di cui stiamo parlando, a Figaro e
la sua gran giornata, Il cappello a tre punte, T'amerò sempre, Come le
foglie, tutti ampiamente girati in esterni in vari luoghi del paese); il
mondo, infine, dell'amarissimo teatro dialettale di Viviani, anch'esso per
niente gradito dal regime, nella sua lotta ai dialetti in nome dell'unità

146
A. Blasetti, 1934
147
A. Blasetti, 1932
148
M. Camerini, 1932
149
W. Ruttmann, 1933

134
nazionale. L'unione con soggetti noti e codificati garantisce che lo
spettatore segua il film alla scoperta di aspetti del paese prima d'allora
assenti dagli schermi, e spinge lo spettatore stesso a realizzare la fusione
fra primo piano e sfondo, ovvero fra le vicende esemplari dei personaggi,
che sono romanzesche, e l'ambiente in cui si svolgono, che invece è
l'ambiente reale di determinate parti e situazioni del paese. Il
procedimento può, infatti, adattarsi ugualmente a rappresentazioni del
tutto diverse: tanto all'introduzione nel visibile dello spettatore della
Milano metropoli moderna come città reale e non immagine astratta, con
una nuova possibilità di identificazione, quanto all'umanizzazione, fuori
da ogni cornice di "colore" ma invece con tutto il campionario della sua,
perdonateci la citazione, miseria e nobiltà, della Napoli che Blasetti
preleva da Raffaele Viviani; come pure si adatta alla inedita
focalizzazione del mondo dell'industria, sia in quanto a macchinari sia in
quanto ad operai.
Ma, si è visto, non vi sono solo le moderate ma significative
sperimentazioni della produzione di punta della Cines di Cecchi: sia
all'interno della produzione della stessa Cines, sia nelle altre case di
produzione che timidamente si stavano (ri)affacciando, si guardava con
maggior interesse a filoni che fin dal loro esordio mostravano di
garantire un successo di pubblico senza preoccupazioni. Il primo film
sonoro italiano, La canzone dell'amore, aveva mostrato il perdurante
gradimento per il melodramma; mentre l'anno seguente La segretaria
privata aveva portato sugli schermi il nuovo modello narrativo vincente,
la commedia sentimentale con contorno di aspirazioni moderniste
all'ascesa sociale. Del primo di questi film non parleremo: sulla struttura
del melodramma e sull'assetto tradizionale della società italiana che vi si
lega ci siamo già dilungati in precedenza. La novità è invece il secondo,

135
il film che introduce, per nefasto che lo si sia considerato, una nuova
linea di rappresentazione sociale oltre che un nuovo genere destinato,
come vedremo, a gonfiarsi a dismisura negli anni a venire, quando le
ragazzotte di provincia che arrivano nella grande città non si
contenteranno più di un posto da dattilografa ma vorranno anche candidi
telefoni e rose scarlatte.

5.3.1 Contadine, provinciali e nuove Cenerentole


Ma per ora restiamo agli esordi del genere, anzi partiamo proprio
dall'esordio: La segretaria privata, appunto. In questa prima fase,
quando le cinguettanti telefoniste manovrano telefoni che ancora non
sono bianchi, non si può ancora parlare a pieno titolo di questo filone
come di un cinema profondamente fascista, come è invece
frequentemente definito il cinema dei telefoni bianchi in senso stretto
(che va dal 1936 in poi cioè, come vedremo) 150 . Per il momento,
piuttosto, ciò che emerge è come questi film, a cominciare proprio dal
primo di essi, rappresentino molto di più una mentalità diffusa in un
settore del paese che non propriamente un'ideologia di regime (usiamo
qui le nozioni di mentalità e ideologia nel senso propriamente riferito ai
fondamentali studi di Sorlin) 151 . Né era ancora operativo in pieno, in
questa fase, un altro dei temi che poi arricchiranno negli ultimi anni
molti dei film meno deteriori del genere, ovvero la contrapposizione
città/campagna risolta a favore della componente strapaesana e rurale
contro le insidie della metropoli. Per il momento, in virtù soprattutto del
citato legame che si istituisce fra realtà sociale di sfondo e narrazione

150
Il punto centrale del dibattito sulla maggiore o minore organicità di quel cinema con il regime è
stato toccato nella nota polemica condotta attraverso le pagine del quotidiano "La Repubblica"
all'indomani del seminario di Ancona del 1976; si distinsero tra gli altri in quell'occasione, sul
versante di chi vedeva in quei film un fascismo profondo, Farassino, Lizzani e Kezich.

136
romanzesca in primo piano, quelle che vengono messe in scena non sono
ancora le sognanti quanto stranianti falsità di lusso che serviranno pochi
anni dopo a coprire le ristrettezze di un paese immiserito dall'autarchia e
dalle sanzioni, ma un autentico desiderio di promozione sociale,
discutibile finchè si vuole nei mezzi e negli scopi ma comunque senza
dubbio corrispondente ad una realtà sociale che si andava diffondendo
nel paese: quella di una generazione che, spinta dalla modernità e dal
desiderio di una vita diversa, più moderna, più agiata e, infine, più libera
da condizionamenti sociali tradizionali, dalle campagne e dalla provincia
partiva verso la città (e l'inurbamento era un dato di fatto nel paese) alla
ricerca della propria strada.
Era una conseguenza naturale di ciò che ad assumere la posizione
centrale nel testo filmico fossero allora coloro che erano le nuove figure
emergenti di questo mutamento sociale: ovvero le donne. È in questa
fase che allo stereotipo femminile tradizionale se ne affianca uno nuovo,
quello appunto delle segretarie o dattilografe o telefoniste e così via. Il
modello di personaggio femminile precedente subisce uno scossone, che
pur senza mutarlo lo pone comunque in una posizione concorrenziale,
dopo che per lungo tempo non vi erano stati modelli alternativi al doppio
stereotipo donna fatale/donna angelicata, poste in una contrapposizione
appiattita dato che non erano altro che la raffigurazione di un modello
virtuoso e della sua nemesi. Con la comparsa del nuovo stereotipo ci
troviamo invece di fronte ad una alternativa reale: esattamente la stessa
che stava nascendo in quegli anni nel paese, ovvero la possibilità, per
un'ampia fascia di popolazione, di scegliere per il proprio futuro la via
dell'inurbamento, dell'ingresso in un nuovo contesto sociale aperto a
modelli del tutto diversi da quelli tradizionali, che consentiva una

151
In particolare P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979

137
maggior libertà d'azione alla donna, sia con l'accesso al mondo del
lavoro sia con un nuovo concetto di promozione sociale ed, infine, di
famiglia. Non è infatti difficile riconoscere, nei viaggi che le radiose
provinciali compiono verso la città, innanzi tutto una autentica fuga da
un mondo oppressivo e senza prospettive appaganti, ed in sintesi una
fuga dalla famiglia originaria. Anzi, non solo dalla propria famiglia
d'origine, ma dalla stessa istituzione della famiglia chiusa tradizionale
tout court. Le "segretarie private" non rifiutano certo il principio di
famiglia ed il matrimonio, questo sarebbe impensabile; ma la loro
anabasi verso la città e la modernità è un palese desiderio di un modello
familiare diverso, che le ponga, nella loro condizione di moglie, su un
livello più elevato che in precedenza: all'interno della nuova famiglia,
quella nucleare, esse potranno assumere il centro della ribalta,
guadagnare potere decisionale, ed affrancarsi dall'opprimente patriarcato
della famiglia allargata.
Ecco dunque che nascono le nuove Cenerentole degli anni Trenta, le
segretarie che sposano i loro facoltosi direttori. Dello schema favolistico
in questione abbiamo parlato in precedenza, ma ci preme qui sottolineare
un'ultimo fatto: il modello che si origina dalla Segretaria privata (che
peraltro era già un remake di un omonimo film tedesco dello stesso anno,
ed è un peccato non aver potuto procedere ad un confronto testuale delle
due pellicole che avrebbe messo, credo, assai meglio in risalto le
peculiarità sociali della rappresentazione italiana) ottiene fin da subito un
potente successo di pubblico e finisce così, per la disperazione dei critici
dell'epoca, per dar vita prima ancora che ad un genere ad un autentico
filone in carta carbone: si pensi solo a come il medesimo meccanismo
narrativo venga pedissequamente riproposto in film come La telefonista

138
o ancora Due cuori felici 152 . La nota discendenza di tutta questa
cinematografia da romanzi, commedie teatrali o direttamente film di
provenienza tedesca e poi ungherese è certo un fattore uniformante già in
partenza; ma i cineasti italiani ci mettono poi del loro nel cercare di
staccarsi il meno possibile dal modello di partenza, finendo prestissimo,
con le solite eccezioni dovute a singoli registi con patricolari doti
personali come Camerini, col dare vita ad un clichè che appare da subito
ripetitivo. Così già nel 1933, nel recensire Non son gelosa di Carlo
Ludovico Bragaglia, Enrico Roma attacca "l'abusata strada di tutti", "la
formula standard della Cines, che tante delusioni ci ha procurato" 153 .
Già ai critici contemporanei erano dunque evidenti due cose: che la
Cines sotto la guida di Cecchi aveva creato delle speranze di avere in
Italia un cinema di qualità (e nelle parole dei critici il nome a più riprese
citato o invocato è quello di Renè Clair), e che dalla stessa Cines, quasi
monopolista della produzione, stava però sorgendo anche, ed anzi stava
divenendo la norma (mentre i citati film di Blasetti e pochi altri parevano
restare eccezioni), un cinema di genere ed orientato ad una produzione
seriale, che, dopo aver rapidamente scoperto sia le peculiarità del nuovo
linguaggio del cinema sonoro sia le nuove possibilità narrative
dell'immissione sullo schermo di modelli sociali inediti ricalcati dalle
situazioni e dagli ambienti autentici del paese, si stava rapidamente
cristallizzando in stereotipi di minor prospettiva e largo consumo. Erano
già, dunque, le prime avvisaglie della direzione che il cinema italiano
avrebbe definitivamente imboccato, di lì a pochissimo, sotto la guida di
Freddi e con l'avallo del regime che allungava un'altra mano sul cinema
attraverso l'istituzione della Direzione generale per la cinematografia.

152
B. Negroni, 1932
153
E. Roma, I nuovi films, in <<Cinema illustrazione>>, n. 17, 26 aprile 1933, p.12.

139
Sarà con Freddi che il cinema italiano verrà definitivamente ridisegnato
come un cinema di genere, secondo il modello hollywoodiano a lui tanto
caro; e così proprio Freddi si può a buon diritto considerare il
responsabile del proliferare delle dattilografe e segretarie nel nostro
cinema, ed infine quindi dei telefoni bianchi: anche se quando avverrà
l'autentico boom del genere Freddi sarà ormai verso la fine della sua
esperienza a capo della Direzione generale: e, non a caso, verrà piazzato
invece a capo proprio della Cines appena assorbita dallo stato. Lì
continuerà a proporre il suo modello di un cinema di buon livello medio,
basato sulla codificazione e standardizzazione di genere; ma ormai i
tempi saranno tali che molte cose cominceranno a sfuggire di mano: è
sotto la sua giuda, ad esempio, che Bonnard dirigerà Campo de'fiori,
film decisamente eccentrico rispetto allo schema freddiano. Ma prima di
arrivare a parlare di questi ultimi momenti del cinema dell'età fascista,
bisognerà passare per la fase cruciale che determina l'inversione di rotta,
nel cinema come nel paese: gli anni che portano dalla guerra d'Africa a
quella mondiale.

5.4 1936-1940: i cambiamenti nella società e nella cinematografia


italiana
Come accennato, c'è un periodo chiave nel corso del regime fascista,
durante il quale si accumulano, nel relativamente breve volgere di tre
anni o poco più, una serie di eventi, decisioni e mutamenti che
porteranno il paese, il regime ed il cinema ad un decisivo cambiamento
di rotta: ovvero, in sostanza, dal generale consenso alla nascita di un
latente dissenso, che deflagrerà poi platealmente con la disfatta bellica.
In questo periodo si concentrano numerose novità dal punto di vista
strettamente politico, con dirette conseguenze economiche e quindi

140
sociali; e contemporaneamente si realizza una significativa variazione
nell'ambito della produzione cinematografica, la quale riflette la nuova
situazione sociopolitica con diverse modalità. Per capire l'enorme
esplosione delle commedie con la nascita dei film dei cosiddetti "telefoni
bianchi", ma anche per leggere le evoluzioni che subiscono nei film le
figure della donna, del marito e della istituzione familiare nel suo
complesso, non si può assolutamente transigere dall'esaminare nel
dettaglio quali furono gli eventi storici, le scelte del regime che
condussero a questo slittamento dei modelli cinematografici. È
opportuno quindi, prima di addentrarci nello specifico del filmico,
rendere sinteticamente conto dei determinanti eventi di quel triennio che
va dal 1936 al 1938.

5.4.1 Il triennio chiave del regime: gli eventi 1936-38


"<<Al Nuovo Teatro prima Gala di Passaporto rosso di Guido Brignone.
Protagonista Isa Miranda. È l'epopea di tre generazioni italiane, che
attraverso i tempi hanno recato in terre lontane il dono prezioso del 'latin
sangue gentile' >>. Così annunciava un'inserzione pubblicitaria nella
cronaca di Ferrara del Corriere Padano del 19 novembre 1935. Ma in
prima pagina un titolo a cinque colonne richiamava ad altri italiani in
terra lontana, l'Africa Orientale, e ricordava ai compatrioti: <<Tutto il
popolo italiano agli ordini del Duce è in linea per resistere e vincere
anche la battaglia economica>>. Il giorno precedente erano diventate
operative le 'inique sanzioni' decise dalla Società delle Nazioni contro il
nostro paese". La citazione di questo passo dal lavoro su "Sanzioni e
autarchia nell'Italia dei telefoni bianchi" di Filippo Casadio 154 ci è parsa
davvero troppo appropriata per non aprire così il nostro discorso sul

141
periodo cruciale della storia, anche cinematografica, dell'Italia fascista.
Si parte appunto da quello che è, storicamente, il primo momento
cruciale nella catena di eventi e scelte politiche che condurranno il paese
a mutare profondamente l'assetto dei rapporti fra popolazione e regime:
ovvero la guerra d'Africa e, diretta conseguenza, l'istituzione delle
sanzioni. Siamo, come visto e come noto, alla fine del 1935. Il regime,
galvanizzato dall'impresa imperiale, operazione facile ma dipinta in
patria come eroica conquista, affronta di slancio anche il problema delle
sanzioni chiamando in causa il tanto caro "popolo italiano"; con una
poderosa campagna propagandistica che presentava l'Italia come vittima
di una congiura internazionale delle nazioni plutocratiche contro l'Italia
proletaria ed il suo sacro diritto di conquistarsi il proprio "posto al sole".
Quest'immagine fece breccia nell'opinione pubblica, comprese le classi
popolari, e generò un'imponente mobilitazione contro le sanzioni.
Un'ondata di imperialismo popolaresco percorse il paese, esplicitandosi
in forme le più svariate, dalle manifestazioni antiinglesi ai cortei
bellicisti, ed anche in forme più concrete, come quella esemplare della
donazione delle fedi nuziali per sovvenzionare l'economia del regime, il
famoso "oro alla patria".
Se economicamente l'impresa d'Etiopia si rivelò un fardello più che un
guadagno, dal punto di vista del risultato politico il successo fu
clamoroso ed indiscutibile. La campagna contro l'Etiopia, conclusa
vittoriosamente con la proclamazione dell'impero nel maggio 1936,
segnò, per il regime fascista, il punto di massimo consenso.
Ma ben presto, svaniti gli entusiasmi coloniali, il fronte apparentemente
compatto dei consensi cominciò a denotare le prime significative
incrinature: e nell'arco di poco tempo, praticamente di un triennio, il

154
in Casadio, Laura, Cristiano op. cit., p.51

142
distacco fra il regime ed il paese si andò irreparabilmente allargando,
giungendo così alla vigilia della guerra mondiale ad assumere
proporzioni notevolissime, che sarebbero emerse appieno poco dopo,
alla viglia della disfatta.Sarà allora che il regime perderà
progressivamente anche il sostegno sul quale ancora più poteva contare,
quello dei giovani. Ma una cosa per volta: è fdondamentale, ora, vedere
quali furono gli eventi che protarono alla formazione di questa crepa, di
questo latente dissenso che origina proprio dal punto in cui il fascismo
pareva aver conquistato il massimo del successo nel paese, e che sortirà
effetti visibili anche nell'immagine della società e della famiglia che
verrà rappresentata dal cinema. Procediamo dunque secondo l'ordine
degli eventi.
Una prima causa di disagio nel paese discende direttamente dai postumi
dell'avventura africana. La nuova fase di politica economica inaugurata
dal regime portò gli italiani e soprattutto le fasce sociali meno agiate, che
già non versavano in ottime condizioni, ad un generale peggioramento
delle condizioni di vita materiale, con una netta perdita del valore
salariale: le spese militari conseguenti alla volontà del fascismo di
ostentare un prestigio nazionale, alla necessità di domare gli incessanti
focolai di guerriglia in Etiopia nonché, in quell'immediato periodo, alla
partecipazione alla guerra di Spagna, suscitarono perplessità e scontento,
e nondimeno difficoltà e ristrettezze nella vita quotidiana. Quest'ultimo
aspetto venne ulteriormente aggravato prima dalle sanzioni (il cui peso
venne comunque ingigantito dal regime a fini propagandistici: mai
particolarmente efficaci né restrittive, le sanzioni furono infine cancellate
già nell'estate del '36) e poi dal rilancio in grande stile, che Mussolini
volle traendo spunto proprio dall'episodio delle sanzioni, della politica
dell'autarchia.

143
La ricerca forzata di una sempre maggiore, ed impossibile,
autosufficienza economica, portò qualche vantaggio, anche cospicuo,
alle grandi industrie; ma i risultati furono tutt'altro che brillanti,
specialmente sul piano del consenso e della situazione socioeconomica
delle fasce meno abbienti del paese, che videro i salari salire molto meno
del costo della vita e portarono, in sostanza, a mutamenti notevoli anche
nell'assetto sociale: è questo uno degli elementi che più peseranno nella
entrata nel il mondo del lavoro delle donne, fenomeno che tanta
importanza riveste nella costruzione dell'immagine filmica dei rapporti
familiari.
Al fianco delle preoccupazioni economiche crescevano nel paese anche
quelle propriamente politiche. Il progressivo avvicinamento del fascismo
alla Germania ed al nazismo. Già la tradizione risorgimentale e della
Grande Guerra non poteva vedere di buon occhio l'amicizia con lo
storico nemico tedesco; inoltre vi era una diffusa antipatia per lo Stato
nazista, i suoi metodi bellicosi e la sua volontà di potenza. Dal momento
in cui si accostò al regime di Hitler il fascismo cominciò ad operare una
graduale stretta totalitaria, niente affatto gradita al paese; ma la
manifestazione più seria ed aberrante di questa nuova linea fu senz'altro
l'introduzione, nell'autunno del 1938, delle leggi razziali che
discriminavano gli ebrei. Per il tessuto sociale fu un fulmine a ciel
sereno: non c'era mai stata in Italia alcuna forma di antisemitismo
diffuso, e la già poco numerosa comunità ebraica era complessivamente
ben integrata nella società. Queste misure ricalcate in forma attenuata su
quelle naziste del 1935, tanto gratuite quanto ripugnanti, anziché
suscitare il consenso e l'orgoglio nazionale che Mussolini auspicava
finirono solo con l'infliggere un altro duro colpo al rapporto, ormai
palesemente segnato, tra il fascismo e gli italiani. Le leggi razziali

144
suscitarono ad ogni livello sociale sdegno, sconcerto o quanto meno
preoccupata perplessità, aprendo per giunta anche un contrasto con la
Chiesa.
Guerra coloniale, sanzioni, autarchia, leggi razziali: in tre anni una serie
di mutamenti che portano ad un significativo ribaltamento di posizioni
nella società italiana, da un sostanziale consenso ad un dissenso diffuso.
Da questa serie di eventi ne abbiamo tralasciato uno, che non è compreso
nella storia generale ma fa specificamente parte della storia
cinematografica, ed anzi ne è un nucleo essenziale per capire cosa
succede nel cinema italiano dal 1938 in poi. Infatti, accanto ai succitati
fenomeni storici che naturalmente si riflettono in modo consistente anche
nel cinema (si pensi solo a come le leggi razziali portarono fuori dalle
scene autori anche importanti, primo fra tutti Aldo De Benedetti; i quali
comunque continuarono a lavorare pur dovendo rinunciare alla firma, a
comparire cioè nei credits e nei titoli di testa) ve n'è uno centrale, ovvero
l'istituzione del monopolio sull'importazione dei film stranieri. In
Sostanza, il provvedimento provoca il ritiro della majors e la scomparsa
dei film americani dagli schermi del paese. Basti ricordare come la
produzione statunitense occupasse i quattro quinti del mercato per capire
quale enorme, sconvolgente impatto il provvedimento ebbe sul nostro
cinema. Nascono così, com'è nella natura delle cose, nuovi film per
colmare il vuoto lasciato dalle pellicole americane, ed interi nuovi
generi: primo fra tutti, quel genere di commedia che evolve (o involve se
si vuole) dalla già affermata commedia rosa delle "segretarie per tutti", e
che prenderà il deteriore nome, che ancora resiste ad ogni tentativo di
trovare nuove definizioni, di cinema dei telefoni bianchi.

145
5.4.2 Telefoni bianchi, rinuncia alla propaganda ed altre novità
La difficile fase che attraversa l'Italia in questo periodo compreso fra la
guerra d'Africa e quella, ben più tragica, mondiale, porta a cambiamenti
sottili ma percettibili nella cinematografia (oltre che naturalmene nella
società). Si può dire che, per quanto riguarda i riflessi più diretti nelle
pellicole di quegli anni, il dato più rilevante fra i mutamenti economici e
politici di cui abbiamo parlato sia quello delle ristrettezze economiche
conseguenti all'autarchia. Un effetto, come si è accennato,
profondamente perturbante nei rapporti sociali, con l'allargamento del
divario fra classi agiate e classi popolari che genera una serie di reazioni
nella stessa struttura sociale ed anche naturalmente all'interno dell'ambito
familiare. Ma sugli schermi queste difficoltà non trovano la loro
principale manifestazione in una rappresentazione diretta, che peraltro
sarebbe stata inammissibile per un regime che voleva dare del paese
un'impressione di serenità, al più di sana frugalità ma certo non di
ristrettezze; anzi, per contrasto il cinema che emerge e domina gli ultimi
anni del regime, da qui in avanti, è un cinema che celebra il trionfo del
lusso, della mondanità, dello scialo. E non solo, ma anche per contrasto
con la stretta totalitaria che il regime stava operando il cinema dominante
di questi anni rappresenterà situazioni di libertinismo impensabile, come
divorzi e placidi adulteri, con la sola cautela di situarli in non sempre
credibili ambientazioni ungheresi, o tedesche o americane. Nasceva
insomma, in questo momento di difficoltà economiche e consenso in
caduta libera, un cinema quanto mai lontano dalla realtà; un cinema,
come ho avuto modo di definirlo, di diversione, utilizzando questo
termine sia per opposizione con l'impensabile idea di un cinema "di
eversione" che fosse contro il regime, sia per meglio sottolinearne la
differenza dal semplice "cinema d'evasione": in quanto, infatti, una

146
cinematografia d'evasione è quella che non si prefigge altro scopo che
intrattenere lo spettatore, mentre ritengo che il cinema dei telefoni
bianchi fosse, magari non nelle intenzioni di tutti i registi ma certo con
consapevolezza da parte di produttori e uomini di vertice dell'ormai
parastatale cinema italiano, un cinema dal cosciente ed esplicito
substrato ideologico, che si indirizzava nella direzione di non tanto
divertire quanto propriamente di-vertere, sviare, allontanare
scientemente ed iperbolicamente i pensieri degli italiani dalle difficoltà,
miserie e cupissime prospettive che si paravano loro quotidianamente di
fronte.
Così il cinema del regime, in questa delicata fase, rinuncia
deliberatamente all'opzione della propaganda diretta. I proclami
mussoliniani sul cinema "arma più forte" si riducono ad un balletto di
dame e cavalieri ricchi e svagati avvolti nel lusso di case da favola e
vestiti sfarzosi. D'altro canto, le inclinazioni populiste del regime
venivano già perfettamente veicolate dai film che seguivano la corrente
tradizionalista del costume sociale, di cui abbiamo largamente parlato
nei capitoli precedenti: con l'autarchia questi film diventano (anzi
continuano ad essere) il veicolo perfetto per propagandare senza sforzo
l'immagine della "moglie e madre esemplare", lo "spirito di patriottismo
che freme nel cuore di tutte le donne italiane" 155 nella difesa di quello
che viene chiamato il "fronte interno". Erano infatti sempre le donne al
centro dei riflettori, in quanto era a loro che toccava la gestione delle
risorse familiari e la convivenza con i problemi dell'economia autarchica.
I film che propongono questa visione sociale si affiancano perfettamente
a tutta quella serie di pubblicazioni di propaganda che in questi anni il
regime produce ad uso delle contadine, delle "massaie rurali", e poi

155
Benito Mussolini, Messaggio dell'Anno XIV

147
anche delle massaie di città, con l'intento di diffondere l'imperativo della
massima frugalità attraverso anche una serie di istruzioni pratiche per
produrre di più, consumare meno ed italiano, e non sprecare nulla.
Ma il centro motore del cinema di questi anni è senza dubbio, come
dicevamo, rappresentato dal cosiddetto cinema dei telefoni bianchi.
Dallo spoglio che abbiamo effettuato, basandoci essenzialmente sul
fondamentale repertorio di Savio 156 con qualche piccola integrazione,
l'esplosione del filone dei telefoni bianchi con i suoi sottogeneri (la
commedia "ungherese", i film "alla francese", l'imitazione
hollywoodiana eccetera) appare evidente fin dai numeri: dai tre film del
genere usciti nel 1937, ed altrettanti nel 1938, si passa di colpo ai 15 del
1939, e successivamente, salendo ancora, il numero si mantiene costante
praticamente fino alla caduta del regime, con 16 film nel '40, 19 nel '41 e
20 nel 1942. Solo nel fatale 1943 il numero comincia a scendere ad 11:
ma ormai in quel momento il regime è caduto, l'Italia è spaccata in due e
nelle sale circola, scatenando polemiche e discussioni, il film d'esordio di
un certo Luchino Visconti, intitolato Ossessione.
Di questo cinema, che abbiamo chiamato di diversione, sono da
esaminare diversi aspetti, relativamente soprattutto all'ampio raggio di
fattori che giustificano il repentino affermarsi del genere, le sue
motivazioni ed il ruolo che esso va a rivestire nel contesto della
cinematografia italiana. Questi film rappresentano sicuramente la
rinuncia del regime alla propaganda attiva a favore invece della
diversione; ma anche è indubbio che queste commedie soddisfano per gli
spettatori una necessità di fuga sognata da una realtà quotidiana sempre
meno piacevole. Necessaria, per naturali leggi di mercato, era anche la
sostituzione con produzioni nazionali dei film hollywoodiani che proprio

156
F. Savio, Ma l'amore no cit.

148
da quell'anno scompaiono dagli schermi italiani lasciando un vuoto
enorme; ed infine, si può anche avanzare l'ipotesi che anche fra i registi e
gli sceneggiatori vi fosse un'incapacità o impossibilità di mettere in
scena una rappresentazione anche moderata della realtà italiana senza
sentirsi ipocriti o senza incorrere in una censura che stava in quel
momento stringendo le sue maglie. Alcuni giovani registi basilarmente
avversi al fascismo, per loro formazione più portati alla cura dello stile
ed al legame con la letteratura, si rifugeranno nella "bella forma" proprio
ad evitare anche quell'appoggio trasversale al regime che intravedevano
nella suggestione alienante delle commedie; ma saranno una estrema
minoranza.
Fin qui il panorama generale della situazione; ma, in dettaglio, quali
effetti ebbe questo sostanziale mutamento sull'immagine della famiglia
che il cinema mostrava? In primo luogo, ovviamente, il nuovo
ingigantito peso del genere commedia nella produzione italiana portò ad
un'accentuazione della linea modernista che esso rappresentava rispetto a
quella tradizionalista più radicata nell'ambiente dei melodrammi; quindi,
come detto, una maggiore visibilità dei modelli della famiglia nucleare,
della vita urbana e dell'indipendenza ed importanza della donna, non
solo come lavoratrice ma anche nella figura, che è centrale nel cinema
dei telefoni bianchi, della donna ricca ed autonoma, la quale comunque
infine non sfugge al copione matrimoniale delle precedenti commedie
sentimentali; peraltro la maggiorranza di questi film sono talmente e
volutamente alieni da ogni proposta realistica, anche solo per
opposizione, da risultare privi di valore ai fini della nostra ricognizione.
Ma vi furono anche particolari evoluzioni che si possono legare più
strettamente alla situazione sociale del momento. Centrale è, ancora una
volta, la figura femminile. Si è già parlato del filone collegiale-

149
scolastico, che in questi anni fa registrare anch'esso una espansione
notevole; ed in questo appassionarsi degli italiani per le liete storie di
giovani studentesse ai loro primi, teneri approcci con la vita si è letto un
impossibile desiderio di regressione, di ritirata di fronte alle sempre più
cupe responsabilità adulte di un paese che si vedeva ormai sulla strada di
una crisi senza ritorno, di un dramma che avrebbe spazzato via ogni
innocenza e candore. Ma anche sul versante delle donne al lavoro e su
quello più propriamente muliebre delle donne angeli del focolare si nota
l'accentuazione dei caratteri di maggior spicco. L'autarchia porta ad una
maggior attenzione alle virtù muliebri delle donne, ma non tanto in realtà
sul piano strettamente materiale dell'economia domestica (evidentemente
non proponibile in un cinema che doveva, programmaticamente, far
sognare: ciò avrebbe troppo richiamato alla realtà), quanto sotto l'aspetto
della fedeltà coniugale: si mettono in scena così divorzi ed adulteri, veri i
primi e presunti i secondi, ma sempre con un immancabile lieto fine ai
fiori d'arancio o con una perfetta riconciliazione fra mariti e mogli. Il
matrimonio può attraversare il film nei panni di un balletto d'equivoci
(ammesso che si sia a Budapest o fuori d'Italia, naturalmente), ma alla
fine tutto deve comunque tornare al suo posto. E d'altronde modelli
sociali, o anche antimodelli, legati con la realtà, questi film ne
propongono davvero troppo pochi perché ne esca qualcosa di più
significativo. Il cinema dei telefoni bianchi, in fondo, rappresenza nel
suo complesso proprio questo: la cancellazione della proposta di
identificazione, la rimozione del legame con il reale; è un cinema che
rappresenta un momento di una nazione rifiutandosi di descriverla, che è
rappresentativo proprio nel suo volerle disperatamente sfuggire.
Solo alla fine di questo periodo, quando ormai la crisi economica ha
piegato le famiglie e già in lontananza echeggiano sinistri rimbombi

150
d'artiglieria, cominciano timidamente ad affacciarsi allo scoperto i primi
significativi indicatori di un'Italia che non solo c'è e non è Budapest, ma
che stretta fra ristrettezze mortificanti e prospettive di sangue mostra di
dissentire; ovviamente sugli schermi non compare alcuna contestazione
esplicita al regime, ma in alcuni film, rari per ora ma che aumenteranno
dopo l'inizio della fine, dopo il '40, si possono rintracciare qua e là spunti
che vanno in direzioni eccentriche al moto del regime e della sua
ideologia. Un tema è quello dell'uomo soldato, con l'accentuazione di
quella figura di "marito assente" che abbiamo già esaminato, ed il suo
passaggio da situazione narrativa simbolica a rappresentazione di
situazioni reali: in particolare ciò accade, com'è scontato, nei film di
filone bellico che accompagnano o seguono la campagna d'Etiopia. In
questi contesti si nota una significativa emergenza di componenti
misogine da un lato (che abbiamo già illustrato nell'analisi di Lo
squadrone bianco) 157 , e la rappresentazione invece della privazione della
figura dell'uomo dalla famiglia, costituita o costituenda, nell'altro. Ma
quest'ultimo è un discorso che vedremo emergere soprattutto in seguito,
quando la guerra tornerà realtà presente e viva, a strappare gli uomini di
nuovo e più tragicamente dalle loro case e dalle loro famiglie.
Fermiamoci per ora su un altro punto, ovvero su come alcuni primi
segnali comincino a mostrare un disagio sotto l'aspetto della prospettiva
familiare, mostrando una sorta di velata destrutturazione, un cedimento
del modello della famiglia come fulcro della società, elementi che si
accentueranno negli anni della guerra fino a raggiungere il culmine con
Ossessione, ma che già fanno le loro prime, sporadiche comparse.
Il film nel quale questi elementi si possono notare con la maggiore
importanza è una pellicola non troppo nota, minore, L'argine di Corrado

157
infra, par. 3.2.2, pagg. 62 segg.

151
D'Errico 158 . La storia non esce da canoni ben conosciuti: un traghettatore
di provincia della Bassa romagnola, che ha una donna, s'invaghisce di
una elegante signora del bel mondo cascatagli sotto mano per un guasto
della sua auto: dopo una notte d'amore lei se ne va senza neppure
salutare, e lui infatuato abbandona tutto, compresa la sua donna, dalla
fama e moralità non certo cristalline, e se ne va in città sperando di
ritrovarla, prendendo lavoro presso un compaesano che ha fatto fortuna e
possiede un locale alla moda. Parte ma non sa che la sua donna, al paese,
aspetta un figlio da lui. In città ritrova la bionda tentatrice, ma si rende
conto del suo errore, dell'amore per la sua donna al paese e della
desiderabilità della campagna alla città, quindi si pente e torna nella
dimora avita, dove l'aspettano la sua donna, la loro creatura, insomma
una famiglia.
Fin qui tutto pare normale, ed anzi non manca il tema caro al regime
della sana vita rurale migliore di quella viziata di città né, persino, quello
del pentimento e ritorno alla comunità parafamiliare allargata ed alla
famiglia propriamente detta. Ma di che tipo di società chiusa si tratta,
com'è composta questa comunità campagnola della Bassa romagnola che
ci appare del tutto isolata dal resto del mondo, fotografata in una
sospensione irreale eppure ben concreta fra nebbie, campi e acque da
Vaclav Vich? Questo è il primo punto rilevante, perché questo sistema
sociale chiuso e quasi primordiale si fa notare per un'assenza, e proprio
quella fondamentale: l'assenza delle donne. Questo villaggio di
campagnoli, che quasi sembrano vivere tutti insieme nell'osteria, è una
società tutta al maschile, con due sole eccezioni: da un lato la madre del
protagonista Zvanì (niente padre in compenso), che col suo ruolo
istituzionale di ostessa finisce col presentarsi quasi come la figura

158
1938

152
materna, o almeno matriarcale, di tutta la comunità; dall'altro, e messa ai
margini anche fisici della comunità, una "donnaccia", forse un tempo
una prostituta ma comunque presentata dalla "voce collettiva" della
comunità, e dalla madre di Zvanì che non può soffrirla, come una "donna
di molti", inaccettabilmente audace; è interpretata da Luisa Ferida, e si
chiama Sina (che è sicuramente il diminutivo di un nome come Teresina
o simili, ma non possiamo non pensare perfidamente al fatto che la
"sina" è, in molti dialetti della pianura padana, la femmina del maiale).
Non altre donne qui, solo uomini, dove siano le loro mogli, le loro
famiglie non è dato sapere: la stuttura familiare, che proprio nelle
campagne aveva il feudo della difesa della famiglia allargata, trova qui il
suo punto di non ritorno, con la aperta contraddizione di un intero
villaggio che si configura secondo le modalità di rapporto di una
famiglia allargata, di un clan, ma contemporaneamente abolisce la figura
che della famiglia è il vivo cardine continuativo, ovvero la donna. E per
questa via si giunge ad un estremo difficilmente immaginabile: assente,
la donna viene di fatto "surrogata", non solo attraverso la presentazione
della comunità intera come famiglia, ma addirittura in modo diretto, con
un incredibile episodio di autentico travestitismo. I villici, con lo scopo
di giocare uno scherzo a Zvanì impazzito di passione dopo la repentina
partenza della bella e raffinata cittadina, gli fanno credere che essa sia
ritornata: ma in realtà sotto quel vestito e quella parrucca si cela proprio
uno dei contadini, che lo irride con atteggiamenti effemminati da
sciantosa. Pare solo una burla, ma il freddo cinismo con cui viene sia
organizzata che filmata lascia pochi dubbi sul fatto che vi sia
quantomeno una affiorante destrutturazione di ogni canone familiare, se
non un preciso per quanto celato attacco alla struttura-famiglia. Se fosse
un momento isolato potremmo dubitarne, ma come si è visto non è così,

153
il disassemblamento della convenzione sociale è qui un dato di fondo.
L'episodio en travesti si conclude, e non potrebbe essere diversamente
visto che il climax è ormai al suo vertice, con il momento drammatico
che attiva la svolta drammaturgica: Zvanì, accecato dalla furia (che è sì
furia per l'irrisione e furia passionale, ma anche furia per il sacrilegio
compiuto contro la convenzione familiare: infatti egli è sostanzialmente
il portavoce del rispetto verso la famiglia, tanto è vero che è il solo ad
innamorarsi, il solo ad avere nel villaggio una madre, il solo, infine, a
creare in conclusione del film una famiglia), spara ad uno dei
compaesani artefici della burla, ferendolo. Sconvolto, quindi, prende la
via della città, in fuga dal delitto ed in cerca della sua bella borghese,
abbandonando la sua famiglia, quell'unica striminzita famiglia del
villaggio formata da un lato dalla madre e dall'altro da una donna amata
ma di dubbia moralità, e per di più in aperto scontro fra le due donne. Un
simile esito, caratterizzato cioè dalla figura semantica dell'esclusione,
dell' "eroe bandito per sua colpa" (ci rifacciamo ancora a Propp 159 ), è
inevitabile, dal momento che egli ha violato l'unità del sistema chiuso,
intrattenendo rapporti con l'intruso, che è estraneo al massimo grado:
perché cittadina, perché socialmente e culturalmente diversa, infine
perché, colmo del turbamento, donna in una società di uomini. Il suo
arrivo crea potenziali sconvolgimenti che vanno evitati: e se lei se ne va
ma il pensiero di lei in Zvanì continua a mettere a rischio la stabilità del
sistema chiuso, allora egli dev'essere allontanato. Drammaturgicamente
ineccepibile ed antico quanto la tragedia greca ed oltre. Solo che stavolta
la struttura sociale non si mobilita contro un elemento perturbatore in
difesa della famiglia: al contrario, si attiva proprio contro colui che è
colpevole del naturale desiderio di unione alla donna, donna

159
cfr. Vladimir Propp, op. cit.

154
antimuliebre finchè si voglia ma pur sempre una donna e quindi base del
principio di famiglia, e non un contadino travestito. E la Sina, che col
suo amore per Zvanì e col figlio che porta in grembo è l'unica potenziale
forza familiare vitale del contesto, rimane abbandonata: lo schiaffo
all'istituzione famiglia è reiterato, e solo forzatamente viene, come
d'obbligo, sanato nel lieto fine.
Ma anche la seconda parte del film, quella ambientata nella città, non
cessa di perturbare il quadro familiare. Nella metropoli e nel locale del
compaesano John, che si è arricchito in america ed è poi tornato in patria
ma non al paese, aprendo un lussuoso night club in città, la famiglia è la
grande assente. Le coppie sono irregolari, le dame si accompagnano a
più cavalieri, e soprattutto compaiono le figure delle entreneuse, in
particolare Olga, donna ormai matura e d'incipiente sfiorimento,
palesemente carente proprio di un legame familiare; all'arrivo del bel
Zvanì, rinunciato ben presto ad ogni vaga idea amorosa, l'entreneuse
assume in rapporto con lui un altro ruolo, ancora una volta caustico nei
confronti degli assetti familiari: quello di sostituto materno. Che una
donna di tale specie rivesta un ruolo positivo di conforto materno è un
altro elemento anomalo, un'altra incrinatura in quel compatto assetto
familiare di cui abbiamo parlato nel capitolo sulla struttura sociale
tradizionale: è evidente che da quel modello siamo, qui, ormai
ampiamente al di fuori, se non contro. Non basterà dunque certo, a
cancellare tutto questo, diciamolo pure, scempio dell'immagine
familiare, l'obbligatorio lieto fine, con la ricomposizione dei dissidi, sia
familiari (con Zvanì che torna da Sina e dal loro figlio per formare una
regolare famiglia) sia sociali (col ritorno nel "nido", al paese, non solo di
Zvanì ma anche di un John riconvertitosi alla vita rustica): suona tutto
troppo forzato, troppo insincero, non credibile dopo tutta una serie di

155
immagini antifamiliari ben più convincenti e perturbanti; e il
"riconciliatore" banchetto finale richiama alla mente, più che una grande
famiglia felice, certe abbuffate a base di spaghetti e ipocrisie sociali che
vedremo parecchi anni più tardi in tanta "commedia all'italiana". Era
inevitabile che un film simile venisse rigettato dalla critica: ed infatti fu
stroncato e accusato di "ridicolizzazione della nostra gente e dei nostri
sentimenti" 160 . A modo suo, il recensore in questione aveva capito.

5.5 1940-1944: la tragedia della guerra e la strada verso "Ossessione".


La famiglia distrutta, la famiglia mancata.
Quando, il 10 giugno 1940, la voce del Duce Mussolini proclama agli
italiani che è giunta l'ora delle decisioni irrevocabili, tra gli italiani che
restano come pietrificati davanti alla radio ci sono anche gli uomini del
cinema. Sotto gli altoparlanti di Cinecittà si radunano divi e registi, ma
anche generici, comparse, maestranze. Le reazioni del micromondo
cinematografico italiano, non dissimili da quelle che percorrevano in
quegli istanti tutto un paese all'ascolto, non sembravano stavolta
concedere alcun credito al persuasivo istrionismo del dittatore, del divo
che monologava sul proscenio di Palazzo Venezia. Fra i presenti c'è
anche Elsa De Giorgi, che così racconta quei momenti: "Nessuno parlò,
nessuno si mosse per alcuni eterni minuti… Guardai intorno ad una ad
una le facce che mi circondavano: in ciascuna, lo stesso deserto che era
nell'aria senza suono. Sulla faccia di Camerini, laggiù investita dal sole,
traspariva una desolazione stupita. Blasetti aveva gli occhi sbarrati come
un ragazzo maltrattato. Valenti si mordeva il labbro superiore e il suo
viso era duro, cattivo" 161 .

160
Anonimo, in Bianco e Nero, 31 ottobre 1938
161
E. de Giorgi, I coetanei, Einaudi, Torino 1955, p.53

156
Il racconto della De Giorgi non brilla per lo stile: pieno di grossolana
retorica, assomiglia proprio ai poco credibili dialoghi di tanti film di
allora, e non dei migliori, così infarcito di maniera e bassa letterarietà.
Ma, all'ultimo, il registro cambia repentinamente: quando entra in scena
Osvaldo Valenti, la camicia nera più nera del cinema italiano, un
realismo duro e immediato si impadronisce del discorso. Un crudo
dettaglio fisico, un moto nervoso, un volto semplicemente "cattivo": la
faccia di Osvaldo Valenti è la faccia che il cinema italiano durante quella
guerra non avrà mai. Nessun film, nell'ultimo, sanguinoso atto del
fascismo, mostrerà la faccia bellicosa di un paese ansioso di scendere in
trincea. E non solo perché i registi non lo vogliono e il regime non lo
chiede: semplicemente, perché quel paese non esisteva.
Con l'entrata in guerra, e presto anche con i primi rovesci bellici, il
regime perse definitivamente anche quei settori di consenso che gli erano
rimasti, principalmente quello, su cui più contava, dei giovani. Quelle
ristrette frange dell'opinione pubblica che, attratti dai fulminei successi
della Germania, credettero come il regime in una vittoria da ottenersi con
poco sforzo, si dovettero amaramente ricredere subito. La disfatta, prima
ancora di essere palese sul piano bellico, si mostrò in tutta la sua
evidenza su quello sociale. E il cinema, che pure continuerà a dipingere
di bianco i telefoni senza soluzione di continuità anche nei momenti più
drammatici, non può non registrare, magari a margine, magari di
sfuggita, magari anche oltre la volontà conscia degli autori, questo
crollo: che è crollo, anche per non dire soprattutto, delle strutture sociali,
e quindi della famiglia.
Le crepe che avevano cominciato a comparire con la fine del consenso
dal 1938 ora si allargano fino a diventare voragini. L'immagine della
famiglia-modello fascista, che già prima sugli schermi veniva più

157
suggerita, sottintesa che non mostrata, crolla, si dissolve sotto il peso
della guerra. Al posto della moglie e madre esemplare che accudisce il
focolare o tutt'al più si divide fra casa e lavoro per il bene della famiglia
e della patria compaiono figure di donne indipendenti forzatamente e
senza scelta; le donne lontane dai mariti non sono più fiduciose Penelope
che confortano o attendono gli uomini lontani o in difficoltà: di Penelope
hanno semmai la solitudine e l'incomprensione per quella causa che
sentono iniqua e assurda, quella causa che sottrae loro figli e mariti e
restituisce invece tristi medaglie. Non vi è alcuna fierezza nel loro essere
private dell'uomo: vi è senso d'abbandono, scoramento, soprattutto
preoccupazione per il futuro.
Quanto di più lontano si possa immaginare, insomma, non solo dai
proclami bellicosi del regime e della propaganda, ma anche dal polo
principale del cinema di quegli anni, che è ancora quello dei telefoni
bianchi. Anzi, si può senz'altro notare come negli anni di guerra il
genere, fedele al suo statutario intento diversivo e sognante, accentui
ulteriormente i suoi tratti esteriori più marcatamente lontani dalla realtà
italiana. Ma, contemporaneamente, nello stesso ambito di questo genere
ormai tanto standardizzato e codificato trovano lo spazio per emergere,
in alcuni casi per sensibilità e volontà di registi o sceneggiatori non
ingenui, in altri per semplice impossibilità di tenere fuori del tutto dalla
pellicola le atmosfere dei duri giorni presenti, alcuni elementi di critica,
qualche sfuggente accenno, qualche infiltrato scampolo di realtà che
spunta a turbare la fasulla serenità delle lievi storie romantiche. Sono
elementi che aumentano col passare dei mesi, col precipitare degli
eventi, prendendo sempre più spazio, fino a culminare, alla vigilia della
caduta del regime, nel film che chiude una fase e ne apre un'altra, nel
film che è, sotto l'aspetto della nostra analisi, il capolinea senza ritorno

158
della dissoluzione della famiglia e di tutto ciò che di essa si è detto fin
qui: Ossessione. Ma, nel suo fare a pezzi ogni fiducia nel modello
familiare, esso non ci appartiene più: è troppo avanti, e troppo in alto,
per poterlo includere con tutto il suo senso dell'umano, dell'ineluttabile e
del disperato fra le tappe della nostra ricognizione sull'immagine della
famiglia nel cinema fascista; è, piuttosto, il muro contro il quale si
schiantano tanti anni di convenzioni, il pettine del senso tragico che
scioglie in un solo strappo i dorati, fasulli nodi della rappresentazione di
sensi, sentimenti e rapporti fra uomini e donne.
In questo periodo, più che mai, il discorso deve essere condotto con lo
sguardo acutamente rivolto ai testi filmici, per non perdere la bussola di
fronte alla situazione di un paese nel quale la guerra mondiale prima e la
guerra civile poi avevano spazzato via le basi delle certezze sociali e
familiari, precipitando il sistema dei rapporti interpersonali verso un
autentico grado zero. La propaganda del regime, dal 1940 in poi, si
concentra integralmente sulla guerra lasciando ampiamente da parte
questioni d'altro genere, comprese quelle legate alla famiglia, quando
esse non siano direttamente connesse alla guerra. L'esito quasi
inevitabile è che nel cinema, che basava la sua rappresentazione della
famiglia sempre e comunque su modelli accomunati al fondo dalla
prospettiva dell'amore romantico, lieto o tragico che fosse, il tema della
famiglia e quello della guerra non trovino modo di coniugarsi a fondo.
Del resto è la guerra stessa ad essere ben poco presente nel cinema:
narrare i trionfi e gli eroismi, veri o meno, dei nostri soldati restava
compito quasi esclusivo dei filmati Luce, mentre il cinema di finzione,
coerentemente con la linea scelta e seguita da tempo dal regime, si
teneva quasi sempre lontano dal tema bellico e dagli intenti di
propaganda e continuava a proporre agli italiani storie sempre più prive

159
di appigli con i drammatici momenti presenti, con intenti di distrazione,
o di "diversione", per allontanare dagli italiani i pensieri funesti e
regalare loro il sogno di una impossibile fuga dalla tragica realtà. È dalla
fine del '41, quando l'atmosfera si fa ancora più opprimente ed è evidente
a tutti che la guerra non s'è affatto messa come quella rapida, trionfale e
non troppo cruenta impresa che Mussolini aveva promesso agli italiani,
che cominciano ad affiorare, in modo inizialmente sommesso ma
estrememente diffuso nei film di tutti i generi e di ogni livello
qualitativo, i segni di un dissenso e disagio ormai oltre il livello di
guardia ed i riferimenti, per niente eroici o marziali, a tragedie e miserie
di una guerra che aveva ormai allontanato, definitivamente ed
irreversibilmente, il paese dal regime che in quella tragedia l'aveva
condotto. Col passare del tempo questi elementi si infittiscono, si
rafforzano, invadono i film in modo sempre più significativo anche se
magari anche confuso: spesso, come sottolinea Argentieri, anche in
assenza di ogni volontà polemica o ideologica ed anzi soprattutto nel
caso di film ed autori privi di uno spessore in questo senso, vi è "qualche
segnale che scappa di mano ai registi e agli sceneggiatori" 162 . Non è
quindi solo nelle pellicole di maggior rilievo o dei registi di maggior
profondità che la dissoluzione del sistema familiare si mostra, ma,
complessivamente, in tutto l'insieme di una produzione che non poteva
non essere, volente o nolente, influenzata e permeata dai rivolgimenti in
atto.

162
M.Argentieri, Dal teatro allo schermo, in M.Argentieri (a cura di), Risate di regime. La commedia
italiana 1930-1944, Marsilio, Venezia 1991, p. 93

160
5.5.1 Disfatta bellica e disfatta familiare: l' "impossibilità di famiglia"
I film di quest'ultimo periodo (e particolarmente tra 1942 e 1943) che
potremmo prendere in esame per evidenziare i segnali della crisi
dell'Italia e del mondo familiare sono dunque tutt'altro che pochi, ed è
necessario procedere ad una funzionale scrematura per poter disporre di
un'analisi più significativa. In molti, anzi diciamo pure nella totalità, dei
film che generalmente vengono considerati come i "precursori" del
neorealismo questi elementi di rottura sono numerosi ed evidenti, ma
proprio per la loro caratteristica di essere pellicole in qualche modo già
proiettate "oltre" il periodo del cinema fascista converrà accenarne
soltanto e rinunciare all'analisi approfondita, che rischierebbe di
fuorviare rispetto al quadro che vogliamo dare, che è quello del rapporto
fra cinema e società familiare nel suo complesso, nel suo livello diffuso,
e non quello di eccezioni e casi limite. Film come I bambini ci guardano,
Quattro passi fra le nuvole, per non parlare di Ossessione - che è, lo
ribadiamo, il film della svolta, il punto di non ritorno, almeno per quello
che concerne il nostro discorso sull'immagine della famiglia - sono, nella
loro eccezionalità, ricchi di riferimenti (magari anche in negativo, come
proprio nei primi due film citati che pongono volutamente,
ostentatamente la guerra fuori dal discorso, dall'intreccio e dalla
costruzione dei personaggi, salvo poi lasciare che si insinuino nel testo
piccoli accenni sfuggenti come quelli sul razionamento o
sull'abbigliamento), ma sono altresì poco rappresentativi di quel livello
diffuso di sentire che è proprio dell'interazione fra cinema e società. Pur
senza dimenticarci di tali film, dunque, sarà opportuno preferire loro
delle opere piu "integrate" nel momento storico e sociale,
paradossalmente anche di valore artistico poco o molto inferiore ma più
sintomatiche, più rappresentative del "livello medio" del cinema che

161
dialogava con gli spettatori nelle sale tra un oscuramento e un altro.
Un'altra necessaria selezione deve concentrarsi su quei film che, prodotti
o iniziati nell'ultimissimo periodo del regime e della guerra, furono poi
ritoccati o terminati dopo la Liberazione o dopo la fine del conflitto.
Nonostante vi siano in alcuni di questi film elementi estrememente
interessanti per la descrizione della crisi in corso e della sua traduzione
cinematografica, sarebbe filologicamente scorretto accettarne
indiscriminatamente il testo ed affidarsi ad essi per un'analisi: troppo alto
il rischio che, dopo la fine del fascismo, essi siano stati completamente
stravolti, con soggetti mutati, dialoghi sostituiti e simili ribaltamenti
ideologici; ed in vari casi non si tratta di rischio ma di certezza, come ad
esempio è per Uomini e cieli, i cui dialoghi furono in più passi rifatti in
modo evidente con il senno di poi, ed a cui fu addirittura aggiunta a
guerra finita una didascalia iniziale che lo dichiara girato "prima che
ancora finisse l'ingiusto martirio della guerra" e lo dedica ai reduci.
Infine sono da collocare al di fuori della nostra disamina, o almeno ai
margini, i film girati nella Repubblica Sociale nei tristi giorni di Salò: la
situazione di eccezionalità sia politica che produttiva e l'assoluta perdita
di contatto fra quel cinema e società (dovuta sia alla brevità del
fenomeno sia all'ormai aperta situazione di guerra civile e di dissenso
generale) ci costringe a considerarli come un caso a parte, un corpo
estraneo e non significativo e utilizzabile per il nostro esame. Tanto più
che a quasi tutti questi film repubblichini toccò la stessa sorte di cui
abbiamo detto sopra, ovvero la distribuzione in versione "riveduta e
corretta" nel dopoguerra: è il caso di Ogni giorno è domenica, film girato
da Mario Baffico nella Venezia repubblichina, che i serissimi dubbi su
un rifacimento postbellico dei dialoghi ci obbliga ad emarginare dalla
nostra analisi, ed è un peccato, dal momento che gli spunti sia

162
genericamente antibellici che specificamente relativi alla frantumazione
tragica dell'immagine di famiglia sarebbero innumerevoli e
perfettamente rappresentativi ai nostri fini; vi si riscontrano infatti tutta
una serie di ribaltamenti dei topoi più comuni delle commedie
sentimentali, e domina un'atmosfera di tragica privazione, quella che,
come avremo ora modo di mostrare attraverso l'analisi di uno dei film
che più la evidenzia, abbiamo definito "impossibilità di famiglia".
Il film in questione è Campo de'fiori, girato nel 1943, all'immediata
vigilia della caduta del regime, da Mario Bonnard, un regista che, senza
avere il talento né le velleità di quelli che diverranno da lì a pochi mesi
gli "autori" per eccellenza, i maestri cioè del neorealismo (neorealismo
del quale Bonnard non farà mai parte), pure è tra i più scoperti nel
portare sugli schermi i segnali della crisi sociale e soprattutto familiare
ormai deflagrata.
Già l'anno precedente, in Avanti c'è posto, il regista era stato fra i primi
a ricordare apertamente in un film che, alla faccia dei telefoni bianchi,
l'Italia era un paese in guerra: vi si vedono soldati in partenza dalla
stazione con tanto di fucili in spalla, si discute di cartoline precetto, si
notano i vetri coperti di carta per evitare le schegge in caso di
bombardamento, si fa persino della sottile satira sulla cucina autarchica.
In Campo de'fiori Bonnard mette sulla scena di una Roma "minore" di
ambienti popolari, come il mercato della piazza che dà il titolo al film,
due attori che si ritroveranno insieme di lì a poco a scrivere un capitolo
di storia del cinema sotto la direzione di Roberto Rossellini: Aldo Fabrizi
ed Anna Magnani. Ne fa due bottegai, un pescivendolo e una verduraia;
affianca loro Peppino De Filippo in un ruolo sui confini tra l'amaro e il
beffardo, un barbiere dalla vitalità fasulla ed autoconsolatoria che cela la
malinconia di un uomo impercettibilmente vicino al ridicolo.

163
In questo scenario della Roma popolare, Bonnard non nasconde nulla e
fa spazio a tutti gli accenni di vita quotidiana che per qualsiasi italiano in
quel momento significavano guerra e dittatura: le generali condizioni di
ristrettezze economiche, il razionamento, l'oscuramento (con Fabrizi che
loda i suoi pesci dicendo che "sono pieni di fosforo, io l'adopero per
l'oscuramento. La sera quando cammino, invece di portare la lampadina
mi metto una triglia all'occhiello"). C'è una balia che lascia l'incarico
perché suo marito è stato richiamato al fronte e va a lavorare in fabbrica,
c'è una pentola che dovrebbe bollire in quindici minuti ma impiega
invece oltre un'ora perché il gas va e viene; c'è infine una costante,
pesante e ostentata presenza opprimente di poliziotti, e persino del
carcere, nel quale finisce rinchiuso anche il protagonista, naturalmente
senza alcuna colpa.
Ce ne sarebbe già più che a sufficienza per un discorso generale sulla
messa in scena della crisi della società; ma il film va ben oltre ed
esplicita - ed è per questo che l'abbiamo scelto come esemplare - tutto un
complesso sistema di figure della dissoluzione della famiglia, anzi, della
privazione della sua stessa prospettiva, in breve di quella frustrazione
diffusa del desiderio di realizzazione familiare che abbiamo chiamato
impossibilità di famiglia.
Questa frustazione della volontà di legame familiare coinvolge tutti i
personaggi: non solo i due protagonisti nel rapporto fra loro che rimane
negato fino in extremis, fino ad un obbligatorio e svuotato lieto fine
tutt'altro che convinto e per niente trionfale, ma anche gli altri
personaggi. Il pescivendolo Peppino (Fabrizi), che è il protagonista
principale, è al centro di una ripetizione costante di questa situazione: gli
è negato prima il rapporto con la bella cliente, a più riprese e per più
motivi (il carcere, la scoperta del matrimonio di lei e in generale

164
l'inaccostabilità del suo mondo), poi anche la consolatoria parentesi
genitoriale con il figlio di lei giunge ad inevitabile conclusione, non
senza un'ultima frustrazione della speranza di legarsi alla madre; la
quale, dal canto suo, è intrappolata in un degrado morale involontario ed
inevitabile, che la costringe addirittura a separarsi da suo figlio, a causa
dell'assenza del padre del bimbo che è al Nord e del fallimento della sua
impresa. L'inciso tra la natura, con la famiglia di pastori che hanno in
custodia il bambino, non è incidentale: questa placida scena agreste tra i
boschi d'Abruzzo è l'Arcadia, è il luogo del sogno nel quale solo si può
realizzare il desiderio impossibile della pace del nucleo familiare. In
tutto il film la sola famiglia felice, anzi la sola famiglia tout court, è
questa incolta famiglia di pastori isolati dal mondo, e solo in questa
parentesi si dà un attimo di pace e felicità per il protagonista; al ritorno
in città, fra il dramma del mondo, si vedrà come il sogno svanisca in
fretta.
Il barbiere Aurelio (De Filippo), infine, di questa negazione dei rapporti
è la figura più malinconica. Dietro il suo atteggiarsi a libertino si cela
l'impossibilità di istituire un rapporto stabile, rappresentata nel film in
primo luogo dagli insistiti quanto delusi, derisi e finanche patetici
tentativi di approccio con la fruttarola Elide (Magnani); ma anche il
progressivo evidenziarsi di come le sue avventure siano del tutto
immaginarie, fanfaluche autoconsolatorie e malinconiche create per
mascherare la sua solitudine. Il simbolo di questa sua condizione,
dell'autoillusione che egli si crea è in quel suo motto, quel refrain
ripetuto ossessivamente nelle conversazioni con Peppino e che, ogni
volta, risulta sempre più una patetica menzogna: quel "noi dominiamo!"
che vorrebbe mostrare la propria superiorità sulle donne, il proprio pieno
controllo della sfera dei sentimenti, persino una quasi sprezzante

165
superiorità alle pene di chi ama e a chi è legato in un rapporto coniugale;
ed invece finisce col rivelarsi una miserevole rimozione per
deprecazione di qualcosa che non si può avere, e che, in realtà, si
desidererebbe disperatamente: in quell'espressione emerge, infine,
l'amarissima autoironia di un uomo solo, di una figura che è palesemente
quella di un loser; un personaggio che, forse più di tutti gli altri, è il
simbolo ed il rappresentante della frustrazione del desiderio di rapporto e
di stabilità, colui che più porta il marchio dell'impossibilità della
famiglia.
Vogliamo concludere con un altro breve esempio, un film che ci è
particolarmente caro dal punto di vista critico per come mostra che
l'emergere dei segnali della crisi si fa vivo anche in film per ogni aspetto
poco rilevanti, tipicamente di genere e persino mediocri: insomma non in
pellicole di particolare significato o cura o supportate da una cosciente
intenzione di veicolare questi aspetti, ma in lavori del tutto standard,
nella produzione media. Quest'analisi consente inoltre di vedere come i
segni della frustrazione della volontà di famiglia non si presentino solo
in film di ambientazione contemporanea, ma anche in generi
statutariamente lontani dalla realtà, com'è quello del film d'avventura:
genere al quale appartiene il nostro film, La figlia del Corsaro Verde,
realizzato nel 1941 dal veterano Enrico Guazzoni.
Di questo film ho già avuto modo di dare una lettura in precedenza 163 ,
ma vorrei qui concentrarmi particolarmente sulla questione
dell'irrealizzabilità dei desideri di legami familiari. Il soggetto del film è
tratto da un omonimo romanzo di Emilio Salgari 164 , e questo, a

163
Cfr. M. Sbicego, "La figlia del Corsaro Verde": tra evasione ed inquietudini, in "Caffè Trieste" 7
(Anno III n. 2 - Maggio 1998), pagg. 3-6
164
In realtà questo è uno dei numerosi romanzi che vennero pubblicati, talora sotto il nome del padre,
dai figli di Emilio Salgari, Nadir e Omar, che rielaborarono insieme ad autori epigoni gli appunti
lasciati dal padre alla sua morte. Il romanzo è in realtà opera di Omar Salgari e Scurial. Nelle diverse

166
prescindere dalle sue altre valenze, ci consente un'operazione
interessante: il confronto testuale fra il film e il romanzo, tanto più
probante in quanto i due testi sono precisamente contemporanei. Vale
dunque la pena di notare subito che le discrepanze presenti nella trama
tra film e romanzo devono essere considerate come significative, dal
momento che invece, per quanto riguarda i dialoghi del film, essi sono
presi di peso, parola per parola, dal libro 165 .
La trama è tipicamente salgariana: Carlos, il figlio del governatore della
colonia di Maracaibo (Fosco Giachetti) si infiltra come spia fra i pirati
che infestano le acque del posto; qui conosce Manuela (Doris Duranti),
la bella e combattiva figlia del Corsaro Verde, un tempo capo dei pirati,
la quale ha come scopo di vita la vendetta contro il governatore che le ha
ucciso il padre ma, ignara, si innamora proprio del di lui figlio. Quando
però i corsari rapiscono le figlie dei notabili di Maracaibo, fra cui
Isabella (Mariella Lotti), figlia del governatore e quindi sorella del nostro
eroe, egli si tradisce e viene condannato a morte. Ma Manuela lo salva e,
con l’aiuto degli uomini rimasti fedeli al Corsaro Verde, i due
sconfiggono i pirati che si sono rivoltati sotto la guida del perfido Zampa
di Ferro (Camillo Pilotto), salvano le fanciulle e liberano la colonia
occupata, dopo un feroce scontro nel quale la stessa Manuela si batte
fino a perdere la vita a fianco del suo impossibile amore.
Fin qui, tutto parrebbe normale. Ma è nei dettagli che emergono in
controluce i motivi che segnalano come la crisi della società e della
famiglia italiana sia ormai talmente diffusa da penetrare autonomamente
nella rappresentazione cinematografica, anche oltre la volontà esplicita

edizioni del libro si oscilla fra l'attribuzione a Emilio o Omar, con la seconda che prevale col passare
degli anni; ma nel 1941, nei titoli di testa del film, si scrive "tratto dal romanzo omonimo di Emilio
Salgari".
165
L'edizione del testo da noi utilizzata è: Omar Salgari, La figlia del Corsaro Verde, Carroccio,
Milano 1947

167
dell'autore, quasi per osmosi potremmo dire. Innanzi tutto, uno sguardo
al romanzo fa subito balzare all'occhio un fatto: il film si attiene parola
per parola al libro per quanto riguarda i dialoghi, e vi resta
sostanzialmente fedele anche nella trama, ma con'un'eccezione molto
precisa: di tutte le innumerevoli scene e situazioni di prigionie, arresti e
carcerazioni presenti nel film non si trova nel romanzo la minima traccia.
Fin dall’inizio del film si parla molto di otto pirati incarcerati a
Maracaibo, e in seguito si troveranno agli arresti o comunque privati
della libertà sia il protagonista Carlos, e per due volte, che le educande
col precettore, sequestrate e segregate dai corsari, per non parlare del
mulatto Cabezo, tenuto alla catena; non solo, ma le educande, persino
quando stanno comodamente al sicuro nei palazzi della corte di Spagna,
si sentono testualmente "in prigione". L'assoluta assenza di tutti questi
passi nel romanzo, caso quasi unico in un film che per il resto vi si
attiene pedissequamente, consente di sospettare con cognizione di causa
che dietro a tutto ciò ci sia il rigetto della mancanza di libertà dell'Italia
fascistissima dei tempi di guerra. Per averne un'ulteriore conferma, basta
vedere come questo tema della prigionia (o meglio della privazione di
libertà) faccia il paio con un altro, non meno significativo: quello della
ribellione/tradimento. Anche qui gli spunti sono abbondanti, e ancora
una volta sono resi più significativi dall'assenza di alcuni di questi
episodi nel romanzo. Si comincia scoprendo che la capitale governativa
Maracaibo è infestata di spie dei corsari, poi si fa cenno a degli
inquietanti sommovimenti interni nella capitale di Spagna, e lungo tutto
il film si vede covare sotto la cenere lo scontento dei pirati che monta
sempre più fino alla rivolta finale contro i loro stessi compagni. Il
personaggio di Carlos, il protagonista, è addirittura emblematico:
ritenuto, testualmente, un "traditore" da suo padre per il suo disinteresse

168
alle grane del governo e ai rischi che la colonia corre, cerca di
riconquistarne il consenso infiltrandosi fra i nemiciottenuta la loro
fiducia, immediatamente li tradisce cercando di fare esplodere la nave; il
piano fallisce, viene scoperto e riesce ciò nonostante a farla franca senza
perdere la fiducia dei corsari; infine, definitivamente confessatosi
traditore, spinge al tradimento la stessa Manuela. Tanta aria di fronda
non può essere, a mio parere, casuale, in un paese in guerra e che non
avrebbe desiderato altro, ormai, che potersi liberare del drammatico peso
che sopportava.
Ci sono, dunque, almeno due nuclei tematici attorno ai quali si
addensano i segnali della drammatica crisi italiana; ma oltre a questi ce
n'è almeno un terzo, ed è quello che più ci interessa: il discorso sulla
famiglia, anzi sulla famiglia mancata; su quella che genericamente
Argentieri chiama "la sfasatura tra i desideri e il loro inverarsi" 166 e che
noi, nello specifico della nostra linea di lavoro, abbiamo chiamato
impossibilità di famiglia.
Tutti i personaggi, in questo film, desiderano fortemente qualcosa, ed in
particolare ciò che più di ogni altra cosa sembra essere bramato da tutti e
a tutti negato è il rapporto di coppia o familiare: alle educande viene
prima negata quella presentazione a corte nella quale sperano di
incontrare nobili e piacenti principi azzurri, e poi anche ogni più
modesto tentativo d’approccio coi marinai è frustrato dal precettore, che,
a sua volta, nella maniacale brama di elogi dalla corte che lo assilla
mostra tutta la sua natura di uomo profondamente solo e arido. Carlos,
che sin dalla prima scena è presentato nel pieno di un rapporto pessimo
con suo padre, dovrà poi perdere la donna che ama per riavere la sorella;

166
M.Argentieri cit., in Argentieri (a cura di), Risate di regime cit., Marsilio, Venezia 1991, p. 93

169
ma proprio la corsara Manuela è il massimo simbolo di questa
insuperabile frustrazione del desiderio di famiglia: privata ab origine del
padre, cerca per lui una vendetta che non troverà, ed inoltre viene
defraudata anche del ruolo che in quanto figlia le spetterebbe come erede
legittima al comando dei corsari; è invece relegata al ruolo di "buon
partito" negando la sua volontà decisionale, di libertà, autonomia ed
autodeterminazione; in più è insidiata dalla prospettiva senza apparente
via di sbocco di un matrimonio senza amore, degradante ed addirittura
disgustoso.
Ma si va anche oltre: lo scopo della sua vita, cioè uccidere il governatore
di Maracaibo per vendicare il padre (l'idea della famiglia originaria),
entra in conflitto con l’amore per Carlos (l'idea della famiglia da
costituire), uscendone sconfitto; l’amore stesso per Carlos, che pure è
ricambiato, viene prima mortificato dalla equivoca gelosia per la di lui
sorella Isabella, ed infine stroncato sul nascere dalla morte di Manuela,
sulla quale il film si chiude. Niente famiglia per lei e per Carlos, e
nemmeno soddisfazione della vendetta in nome del padre e della
famiglia originaria: la frustrazione del desiderio familiare, l'impossibilità
di famiglia non potrebbero mostrarsi con un volto più cupo di questo,
quello della morte. Guazzoni e lo sceneggiatore Alessandro De Stefani
(un professionista tutt'altro che ingenuo, e si devono probabilmente a lui
molti degli accenni che abbiamo evidenziato) non si sforzano neppure di
appiccicare alla storia un lieto fine posticcio; e peraltro questa soluzione,
che era di prassi nei film, era immancabilmente presente nel romanzo
originale.
L’assenza ostentata del rituale happy end fa di La figlia del Corsaro
Verde un caso raro nel panorama dei film "leggeri" del periodo fascista
che ormai si avvicinava alla sua fine: un ennesimo indicatore di come la

170
frustrazione delle aspirazioni, familiari e non, avesse ormai superando il
livello di guardia. Il cinema, senza per ora farlo troppo notare, si stava
già incamminando per questa strada nella direzione che avrebbe portato
un giovane regista di nome Luchino Visconti, due anni dopo, a realizzare
quel film cardine della storia del cinema che è anche il punto di non
ritorno del discorso sull'impossibilità di famiglia, elevata col genio del
singolo artista a condizione tragica dettata da un Fato ineluttabile.
Quando verrà presentato in anteprima nella primavera del '43,
Ossessione troverà una pioggia di opposizioni censorie; ma era tardi per
il regime, ormai, per censurare il riflesso dei propri scempi.

171
Conclusioni

Giunto al termine, logico e cronologico, di questo lavoro, non posso non


notare come, fra mille questioni che abbiamo toccato, alcune in modo
marginale ed altre invece sviscerandole fin nel più profondo, altre mille
ne restino giocoforza emarginate. Per conferire all'esposizione una sua
integrità strutturale si è dovuto compiere ripetutamente un sacrificio
necessario di infinite questioni secondarie, seguendo un principio di
economia: si è ammesso a far parte del nostro discorso solo ciò che
fornisse alla ricerca una quantità di comprensione superiore alla quantità
di disordine che vi introduceva. Approfondire la questione del
reinserimento dei reduci nella società, per esempio, sarebbe stato certo
interessante, ma, restando ai fini della comprensione del quadro dei
rapporti familiari nel cinema, avrebbe creato molta più divagante
confusione di quanto fosse desiderabile, e dato che l'importanza di
questo tema nell'ambito della rappresentazione familiare è tutto sommato
molto marginale, si è rinunciato a parlarne, in nome di una maggiore
unità e linearità del discorso.
Credo che questa operazione di sfrondamento abbia contribuito
positivamente al lavoro, o quantomeno a favorire l'individuazione
immediata di quelli che sono i nuclei forti di riflessione intorno ai quali
ci siamo concentrati. Dapprima si sono indagati quelli di carattere
generale, cioè che riguardano il cinema italiano degli anni Trenta ed il
tema familiare nel loro complesso, senza divisioni né cronologiche né
ideologiche: il sistema dei generi e i diversi stereotipi familiari di ogni
genere, i diversi ruoli familiari e la loro prevalenza o marginalità nel
cinema fascista, la duplice centralità della figura femminile nel cinema e
nella famiglia e le sue modalità e variazioni, la sostanziale

172
"defamiliarizzazione" dell'uomo, che abbiamo definito il "motore
assente" della catena degli eventi filmici, il rapporto fra diverse realtà
familiari concrete e le proposte ideologiche della propaganda verso la
famiglia.
Il quadro, ormai solido, così delineato ci ha permesso di spingerci un
passo ancora avanti, alla scoperta di una duplice dicotomia che si cela
nella rappresentazione familiare sugli schermi (e parallelamente fuori di
essi, nel paese). Due modelli sociali e familiari, quello tradizionalista,
conservatore, rurale e patriarcale da un lato, quello modernista, borghese,
urbano e nucleare dall'altro, percorrono l'uno accanto all'altro l'età
fascista senza reciprocamente sottrarsi spazio; e parimenti percorrono il
cinema di quegli anni, che per ognuno di essi scopre, formula e
istituzionaliza dei topoi, dei ruoli e talora persino dei linguaggi. Ma,
come detto, il dualismo si raddoppia, con la scoperta che questi due
diversi modelli si comportano in modo opposto lungo l'asse cronologico:
mentre il primo mantiene invariati i propri schemi sia di mentalità che di
rappresentazione lungo l'intero l'arco temporale dal 1930 al 1943, il
secondo fa registrare diacronicamente una evoluzione, tanto sul piano
della forma che su quello dei contenuti ideologici.
Ed è quest'ultima linea cinematografica che, infine, diviene così lo
spazio di espressione, o meglio di affioramento dato che non sempre si
tratta di processi coscienti o volontari, dell'intero corso dei mutamenti
sociali che attraversano il paese nel suo passare, lungo gli anni del
fascismo, da un sostanziale consenso passivo ma diffuso ad un sempre
più marcato dissenso, che cresce attraverso il tempo marcando dei
momenti centrali in tale processo. Un dissenso anch'esso dapprima
passivo o celato (e tale resterà fino alla caduta del regime fascista e, in
termini cinematografici, al Neorealismo) ma parimenti sempre più

173
generalizzato, che si esprime in un crescendo, e che abbiamo analizzato
seguendone le espressioni più direttamente connesse alla
rappresentazione del mondo dei rapporti familiari, seguendo il percorso
di questo crescendo fino al suo culminare in Ossessione e nel livello zero
dell'impossibilità della famiglia.
Quando si arriva alla conclusione di un lavoro come questo rimane
sempre una questione in sospeso: sono più le domande a cui si è risposto
o piuttosto quelle che si sono ulteriormente create? Sulla prima parte del
quesito non sta certo a me esprimermi, anche se qualche piccolo lume,
almeno su alcuni aspetti, credo immodestamente di averlo qua e là
acceso. Quanto alla seconda parte, ho pochi dubbi sul fatto che questa
tesi di domande ne abbia proposte parecchie. E non posso che dirmene
soddisfatto. Se una ricerca di questo genere debba essere più un punto
d'arrivo o di partenza mi pare un falso problema: entrambe le cose sono
ugualmente essenziali, ed un'analisi che sia veramente vitale non può
non aprire nuovi quesiti, nuovi spunti per il futuro. La questione dei
rapporti fra le mentalità familiari e la loro rappresentazione
cinematografica, già di per sé aperta a smisurate possibilità, o rischi, di
digressione e diramazione, diviene un autentico calderone di ogni
elemento quando la si ponga nel contesto di un paese e una situazione
storico-sociale come quella dell'Italia nel cruciale, complesso e spesso
contraddittorio periodo del fascismo. La stessa scelta del tipo di
approccio metodologico, che potrebbe prevedere, diversamente da
quanto fatto in questo lavoro, opzioni come l'analisi di un solo genere, o
di un singolo tema ristretto come per esempio la figura dell'orfano
piuttosto che quella del divorzio, o ancora dell'opera di un solo regista,
inevitabilmente risulta decisiva nello stabilire cosa sarà incluso

174
all'interno dello studio e cosa invece dovrà necessariamente restarne
fuori o ai margini.
Negli anni che hanno seguito la "riscoperta" critica del cinema degli anni
Trenta, dai convegni di Pesaro e Ancona in poi e fino ad oggi, gli studi
su questo periodo si sono moltiplicati a dismisura, con risultati spesso
fondamentali, sia sul piano di una sistemazione generale sia fornendo
quadri pressochè esaustivi su aspetti particolari e limitati. Quello che
forse si è visto meno, e soprattutto in area italiana, è stato un serio studio
di base storica e insieme sociologica di ampio respiro. In questa tesi si è
sentita spesso la mancanza di complete analisi del genere, che ha
costretto ad un lavoro supplementare; talora affidandosi allo studio,
importante certo ma che non ci ha mai convinto appieno per un certo suo
semplicismo molto "americano", di Hay 167 , che ci accorgiamo solo ora di
non avere di fatto mai citato nel testo, e ciò non sarà senza un perché
evidentemente; talora adattando invece proficuamente al nostro contesto
alcuni strumenti, metodi e definizioni della Sociologia del cinema di
Sorlin 168 , in modo estremamente proficuo, sia per l'impostazione
complessiva del lavoro sia anche in precisi punti (come l'utilizzo, per
quanto con qualche libertà, delle definizioni di mentalità e ideologia),
nonostante si trattasse di strumenti pensati per l'analisi del cinema
italiano del periodo immediatamente successivo; talora, infine, in
mancanza di precedenti e strumenti adeguati specialmente nello
specifico della ricerca sulla famiglia, elaborando di necessità definizioni
ex novo. Se questi strumenti, sia ammessi sia riadattati sia nuovi, siano
davvero funzionali ed efficaci per un'analisi di indirizzo sociologico e
storico insieme del cinema fascista, come mi pare lo siano stati per ora

167
James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy, Indiana University Press, Bloomington 1987
168
Pierre Sorlin, op. cit.

175
nella strutturazione di questa mia tesi, lo potrà verificare chi voglia, in
seguito, occuparsi di colmare quei numerosi spazi di ricerca che, come
abbiamo detto, ancora rimangono numerosi in attesa di essere sviscerati
nel dettaglio.

176
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Marsilio, Venezia, 1975

178
• M. Mida, L. Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al
neorealismo, Laterza, Bari, 1980
• A. Miscuglio e R. Daopulo (a cura di), Kinomata. La donna nel
cinema, Dedalo, Bari 1980
• V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1966 (trad. di:
Morfologija skazki, Leningrad, Academia, 1928)
• R. Redi (a cura di), Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio,
Venezia, 1979
• G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia., vol. IV, Guerra
e fascismo 1914 - 1943, Laterza, Bari, 1997
• F. Savio, Visione privata, Bulzoni, Roma, 1972
• F. Savio, Ma l'amore no, Sonzogno, Milano, 1975
• P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979 (trad. di:
Sociologie du cinéma, Ed. Aubier Montaigne, Paris 1977)
• M. Verdone - L. Autera (a cura di), Antologia di "Bianco e Nero"
1937-1943, Roma, Ed. Bianco e Nero, 1964 (5 voll.)

179
Filmografia

Rendiamo conto qui dei film che sono entrati nella nostra ricerca
limitatamente solo ai titoli che abbiamo specificamente visionato ed
analizzato integralmente e personalmente. Per quanto riguarda gli altri
film citati nel testo che non sia stato possibile visionare in tutto o in
parte, sia che essi siano ancora attualmente visibili o che siano
irrimediabilmente perduti, i riferimenti sono comunque presenti, per
tutti, in nota nel testo.

• A che servono questi quattrini, Esodo Pratelli, 1942


• Addio giovinezza!, Ferdinando M. Poggioli, 1940
• L'allegro fantasma, Amleto Palermi, 1941
• Apparizione, Jean de Limur, 1944
• L' argine, Corrado D'Errico, 1938
• L'assedio dell'Alcazar, Augusto Genina, 1940
• Il birichino di papà,Raffaello Matarazzo, 1943
• Campo de' fiori, Mario Bonnard, 1943
• La canzone dell'amore, Gennaro Righelli, 1930
• Casanova farebbe così, Carlo Ludovico Bragaglia, 1942
• Cavalleria, Goffredo Alessandrini, 1936
• La cena delle beffe, Alessandro Blasetti, 1941
• La corona di ferro, Alessandro Blasetti, 1941
• La damigella di Bard, Mario Mattoli, 1936
• Ecco la felicità!, Marcel L'Herbier, 1940
• La famiglia Brambilla in vacanza, Karl Boese, 1942
• La figlia del corsaro verde, Enrico Guazzoni, 1940
• Fermo con le mani, Gero Zambuto, 1937
• La fornarina, Enrico Guazzoni, 1942
• La fortuna viene dal cielo, Akos Rathony, 1942
• Grandi magazzini, Mario Camerini, 1939
• Luciano Serra pilota, Goffredo Alessandrini, 1938
• L'ultima carrozzella, Mario Mattoli, 1943
• Maddalena… zero in condotta, Vittorio De Sica, 1940

180
• Mamma, Guido Brignone, 1940
• 1860, Alessandro Blasetti, 1934
• Mille lire al mese, Max Neufeld, 1939
• Nozze di sangue, Goffredo Alessandrini, 1941
• Ore 9 lezione di chimica, Mario Mattoli, 1941
• Ossessione, Luchino Visconti, 1943
• Passaporto rosso,Guido Brignone, 1935
• Piccolo alpino, Oreste Biancoli, 1940
• Piccolo mondo antico, Mario Soldati, 1941
• San Giovanni decollato, Amleto Palermi, 1940
• La segretaria privata, Goffredo Alessandrini, 1931
• Se io fossi onesto, Carlo Ludovico Bragaglia, 1942
• Il signor Max, Mario Camerini, 1937
• La signora di tutti, Max Ophüls, 1934
• Sorelle Materassi, Ferdinando Maria Poggioli, 1943
• La telefonista, Nunzio Malasomma, 1932
• Tempo massimo, Mario Mattoli, 1934
• Teresa Venerdì, Vittorio De Sica, 1941
• Ti conosco, mascherina!, Eduardo De Filippo, 1943
• Tosca, Karl Koch, 1941
• I tre aquilotti, Mario Mattoli, 1942
• L'ultima carrozzella, Mario Mattoli, 1943
• Gli uomini che mascalzoni…, Mario Camerini, 1932
• Uomini sul fondo, Francesco De Robertis,1941

181
Immagini

Manifesto di Il Signor Max di M. Camerini


(1937)

Un “Cinefurgone” della metà degli anni ‘30. Questi automezzi,


voluti dal regime per portare i cinegiornali anche nei borghi rurali
più isolati, proiettavano naturalmente anche film di finzione

IXI
Nell’immagine in alto, Alessandro Blasetti fotografato nelle paludi Pontine, nel dicembre del
1928, durante le riprese di Sole. Sullo sfondo, altri membri della troupe.
Sotto, un fotogramma di Sole.

IX
II
Telefoniste con le calze di seta, ma solo nella finzione cinematografica: la realtà
non era di lussi, ma di stenti. L’immagine è tratta da La telefonista

Nino Besozzi ed Elsa Merlini nel tanto vituperato capostipite delle “commedie
bianche” italiane: La segretaria privata

IX
III
Una moglie trascurata, insoddisfatta ed inquieta: è Carola Höhn, qui con il marito
tenore (Beniamino Gigli), nel melodramma classico Mamma.

A sinistra: un appassionato bacio fra Memo Benassi e Marta Abba in Il caso Haller di A. Blasetti
(1933).
A destra: Alida Valli nel melodramma L’amante segreta di C. Gallone (1941): come si vede i
telefoni non erano bianchi solamente nelle commedie.

IX IV
Un’immagine da Ore 9 lezione di chimica: le fresche e candide bellezze tra i
banchi di scuola che il cinema fascista tanto amava avevano spesso un’aria un
po’ troppo matura per delle scolarette. A destra del gruppo si vede per esempio
un’Alida Valli ormai decisamente donna.

A sinistra, Clara Calamai e Vittorio De Sica ne L’avventuriera del piano di sopra di R.


Matarazzo (1941). A destra, Luigi Almirante in Il presidente della Ba.Ce.Cre.Mi di G. Righelli
(1933): il film aveva come frase di lancio: “Trovate esilaranti, eleganze e modernità”.

IX
V
A sinistra: Doris Duranti è La figlia del Corsaro Verde, personaggio rappresentativo come pochi
altri della tragica frustrazione del desiderio di famiglia che emerge negli anni della guerra.
A destra: un fotogramma da Il birichino di papà. L’insubordinazione di Chiaretta Gelli/Nicoletta
(o se si preferisce Nicola) si sfoga in questa scena contro lo scalcagnato avvocato, come altrove
contro le ipocrisie familiari ed ogni altra forma d’istituzione e d’ordine costituito.

Emma ed Irma Gramatica insieme ad Olga Solbelli (a destra nella foto) in una scena di Le sorelle
Materassi. Emma è in questi anni la protagonista di quasi tutti i più importanti ruoli di donna
anziana, contrita e naturalmente sola: da La damigella di Bard a Mamma a Sissignora.

VI
IX
Irasema Dilian: dalla “privatista” di Maddalena...zero in condotta (in alto, con Carla Del Poggio)
alla spettrale Edith di Malombra (in basso), passando per la perdita dell’innocenza dell’Olivia di
Violette nei capelli (al centro, da sola e con Lilia Silvi e Carla Del Poggio). In tre anni, dal 1940
al 1942, il volto spensierato del cinema italiano si è ormai velato di cupi presagi

VII
IX
Alcuni documenti fotografici del connubio
fra cinema e regime, tra storia politica e
storie personali. Sopra e a fianco, tre
immagini dei divi più “neri” del cinema
fascista: Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. In
senso orario: la Ferida con un volontario
della Decima Mas; Valenti in divisa
repubblichina; l’attore che fotografa la
compagna. Le due immagini a destra
provengono dall’Archivio di Stato di
Milano.
Sotto, il gotha della cinematografia italiana
esce da una visita al Centro Sperimentale:
da sinistra a destra si riconoscono Luigi
Freddi, Esodo Pratelli, il ministro Dino

VIII
IX
A mettere la pietra tombale sugli scenari familiari del cinema fascista
arriva, di ritorno dalla Francia e dalle esperienze con Jean Renoir,
Luchino Visconti, che con Ossessione chiude un’epoca per
cominciarne un’altra. Qui sopra, Visconti durante la lavorazione del
film; in alto, Clara Calamai e Massimo Girotti in una scena.

IX

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