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REPUBBLICA ELLENICA

UNIVERSITÀ DEL PELOPONNESO

INDIRIZZO DI SCIENZE UMANISTICHE E STUDI CULTURALI

Facoltà di Lettere

LA VITA È BELLA- ROBERTO BENIGNI

PANAGIOTIS LIAKOS

Traduzione di LORENZO CARREA

ATENE 2019
A distanza di ormai più di vent’anni dalla sua prima proiezione nelle sale
cinematografiche, potremmo definire La vita è bella di Roberto Benigni un’opera di
vita e di piena maturazione scenariografica per il suo autore, ma anche come uno dei
film che ha influenzato come pochi altri la storia del cinema internazionale dalla fine
dello scorso millennio fino ad oggi.

Roberto Benigni (nato nel 1952 a Castiglion Fiorentino, in provincia di


Arezzo) sin dagli albori della sua carriera si è dedicato quasi esclusivamente al genere
della commedia, tanto da attore quanto da sceneggiatore – regista: basti pensare ad
alcuni dei suoi più celebri film, quali Tu mi turbi, Non ci resta che piangere, Il
piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Il mostro, Pinocchio, La tigre e la neve.
Parallelamente, Benigni non ha mancato di muovere critica al Vaticano e a Papa
Giovanni II, il quale, tuttavia, in seguito all’esplosione di popolarità del capolavoro
La vita è bella, lo riceverà in udienza privata; al contempo, l’artista ha più volte
dichiarato la sua simpatia per il Partito Comunista Italiano e il suo segretario generale
Enrico Berlinguer. Quanti seguono più da vicino la sue poliedriche attività, ben
conoscono lo zelo con cui egli si occupa della divulgazione artistica della Divina
Commedia, organizzando spettacoli e recitazioni di passi danteschi non solo in Italia,
ma anche in molte grandi città del mondo.

Se si tiene in considerazione quanto di cui sopra, nonché il fatto che il padre di


Roberto Benigni venne rinchiuso nei campi di concentramento nazisti nel período
1943-1945, non ci stupiamo di trovarci innanzi a un’opera di condanna del
Nazifascismo di portata tale, da valere all’Italia il Premio Oscar per il miglior film
straniero, a Benigni il Premio di miglior attore e a Nicola Piovani quello per la
migliore colonna sonora – una sola nota della sua eccezionale composizione basta per
riportarci alla mente l’intera pellicola, farci immergere completamente nella sua
atmosfera e ricreare appieno l’intensa commozione del primo incontro con l’opera.
Una tragicommedia, La vita è bella, che presenta tratti di profonda ispirazione
poetica, elementi comici che satirizzano la tirannia, grande fantasia nella tessitura di
una trama che presenta uno spirito caustico già proprio tanto di Aristofane, quanto di
Chaplin. I personaggi dell’opera, infine, plasmati secondo criteri pienamente
aristotelici, sono impregnati di quell’umanità che diacronicamente contraddistingue la
storia del cinema italiano.
All’inizio dell’opera, gli sceneggiatori Roberto Benigni e Vincenzo Cerami
intendono catturare la nostra attenzione attraverso l’elemento uditivo. S’ode un
sospiro di vento, in seguito al quale ci appare una figura che si aggira in un panorama
nebbioso. Il narratore si rivolge a noi dicendo che ci apprestiamo a seguire una favola
sì semplice, ma difficile da raccontare. L’elemento favolistico rimanda a uno dei tratti
fondamentali del genere della commedia sin dall’antichità: basti pensare
all’importanza che il concetto di mythos (in greco μύθος, traducibile appunto come
“trama”, “racconto”) ricopre nella Poetica di Aristotele: la commedia, infatti, doveva
nell’antica Grecia inventare un “nuovo mito”, ovvero una nuova storia che non
ricalcasse il ciclo mitologico o quello epico. In seguito a una breve introduzione del
narratore, appare una macchina che attraversa a gran velocità le colline dell’Arezzese.
Al volante c’è Ferruccio, amico del protagonista, il quale vediamo scompostamente
seduto sul sedile a fianco. Il primo, poeta, recita un qualche componimento sul
concetto di Caos (un’altra importante parola di origine greca), in cui egli si dice
pronto ad immergersi. Parola-chiave, il Caos, per quanti si occupano d’Arte: gli
arististi sono chiamati infatti a dare forma, in un certo modo a catturare, qualche tratto
di questa complessa realtà che è la vita. Lo stesso Benigni ha avuto a dire circa la
prima parte del film: «La prima parte è una classica grande storia d’amore. Guido è
un ometto come me, un toscano pieno di allegria e di vitalità. Con il suo amico
Ferruccio lasciano la campagna per cercare la felicità in città. Guido vuole aprire
una libreria (per la prima volta sono un intellettuale, so distinguere il nord dal sud e
ho letto Schopenhauer) e Ferruccio fa il tappezziere e scrive poesie»1.

Il montaggio di Simona Paggi appare seguire il testo dei due sceneggiatori, i


quali catturano la nostra attenzione tramite la rocambolesca scena iniziale dell’auto
coi freni rotti. Parallelamente, iniziano i riferimenti antifascisti: la macchina passa
attraverso una parata del Fascio e tutti interpretano il compulsivo gesto col quale
Guido (R. Benigni) cerca di allontanare la folla per il saluto romano. Lo scambiano
quindi per lo stesso Re, il quale, quando alla fine della sequence giunge sul posto, non
viene riconosciuto da nessuno degli astanti. La ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca
mediante i costumi e la scenografia di Danilo Donati, premiato con l’Oscar, è davvero
esemplare. In molti casi gli sceneggiatori hanno escogitato il modo di inserire costumi
e scenografia nel gioco stesso della trama (si vedano ad esempio il primo incontro tra

La vita è bella (2001, 266-267).


1
Guido e la Braschi e il cappello con dentro le uova che finisce sulla testa del
burocrate), tratto che, d’altra parte, è spesso tipico della commedia.

In seguito a questa esilarante scena d’apertura, ci vengono esposti alcuni dei


più salienti elementi (character exposition) della personalità di Guido. Egli incontra
una graziosa ragazzina di provincia e, per accarezzarne l’innocente fantasia, sostiene
di essere un principe (le parlerà di struzzi, un’immagine che ritornerà anche
nell’analisi delle successive fasi dello scenario). Il protagonista, pertanto, come d’altra
parte lo stesso Benigni, è un ottimo fabulatore. Un uomo buono, tratto, si direbbe,
dalla tradizione della commedia dell’arte: ora Arlecchino, ora Pierrot, sempre ricco di
concetti, egli vuole affrontare persino le più grandi avversità della vita con fantasia e
umorismo, di cui invece ogni sorta di oppressori è del tutto priva. Per questa ragione
la natura della commedia è, diremmo, profondamente sovversiva: in molti casi infatti
costituisce la proposta per un mondo diverso. Come spesso avviene nelle favole, così
anche ne La vita è bella cade dal cielo tra le braccia dell’eroe (e lì si ode per la prima
volta la battuta più celebre del film Buongiorno, principessa – affatto casuale dato che
Guido stesso ha poco prima sostenuto di essere un principe) una splendida donna dal
volto di Nicoletta Braschi. Consorte di Roberto Benigni nella vita reale e Musa
ispiratrice dello stesso, nella presente scena, in veste di Dora, ella è stata appena punta
da una vespa e Guido si affretta, istituendo un primo contatto fisico con la donna, a
estrarle con la bocca il pungiglione dalla gamba. Dora rimane incantata dal suo
atteggiamento e dai suoi ritmi incalzanti. Tali ritmi caratterizzano anche il montaggio
di Simona Paggi (candidata con quest’opera presso l’Academy of Motion Picture Arts
and Sciences nel 1999), come anche alcuni dei personaggi che incontriamo
successivamente. Uno di questi è Eliseo, il borghese ebreo zio del protagonista. Egli
ci appare per la prima volta subito dopo aver patito un’aggressione razzista alla quale
aveva opposto una stoica reazione. Tali attacchi sono ormai evidentemente divenuti
quotidiani per la popolazione ebraica.

Guido si verrà a trovare in una tappezzeria. Tramite il personaggio di Oreste,


che ne è il proprietario, viene data agli sceneggiatori l’occasione di muovere critica
alla media borghesia italiana degli anni ’30, corresponsabile della salita al potere di
Benito Mussolini. Tra l’altro, il rozzo commerciante ha due figli di nome Benito e
Adolfo (alla fine della scena minaccia di maltrattarli se non la smetteranno di
giocare). In uno scenario-capolavoro quale quello in oggetto ogni dettaglio ha estrema
importanza. Persino le scene più secondarie, come quella di un lavoratore che grida
dalla strada alla moglie di lanciargli la chiave che ha dimenticato in casa, hanno ruolo
nel prosieguo del film: la scena in questione si allaccerà infatti a un’altra, successiva,
di grande magia e romanticismo, girata sotto la pioggia. La prima unità dell’opera si
chiude con una frecciata all’apparato burocratico dell’Italia dell’epoca, dal momento
che il protagonista fa domanda di apertura di una libreria – una sequence parimenti
comica, la quale si conclude con il secondo incontro tra Guido e la principessa.
Questa volta è lui a franarle addosso, mentre cerca di sfuggire in bicicletta al
burocrate che lo insegue. Circa il personaggio di Amico, lo stesso Benigni lo descrive
come: «[…] un piccolo burocrate del regime, non antipatico, uno che vuol far
carriera nel fascismo ma non ha, diciamo, la possanza vitale di Guido».2

Scenario e montaggio ci trasportano direttamente all’ingresso di Guido nel


Grand Hotel, un lussuoso albergo – ristorante. Come spesso accade agli eroi comici,
così anche qui il protagonista scruta nervosamente l’ambiente circostante. Scopriamo
in seguito che Guido sta svolgendo una prova da cameriere dinnanzi a suo zio. I
movimenti di Roberto Benigni nel frangente in cui presenta i piatti del giorno
costituiscono una vera e propria lezione di ritmo comico. Tale ritmo lascia poi il passo
alla satira della natura servile dei camerieri di analoghi alberghi sfarzosi. Proprio a
questo punto giunge lo zio, la voce della ragione, a spiegare la differenza tra i servigi
di un ristorante perbene e quelli offerti da un servitore. Segue una scena ambientata
nell’appartamento da scapoli di Ferruccio e di Guido poco prima che i due cedano al
sonno. Mentre Ferruccio riesce ad addormentarsi quasi subito grazie alla celebre
teoria di Shopenauer sulla forza della volontà mentale, Guido continua invece ad
agitarsi convulsamente e a stuzzicare l’amico.

Il mattino successivo, durante una passeggiata in piazza, Guido riconosce da


lontano la bella maestra Dora, la quale gli era improvvisamente caduta tra le braccia
all’inizio del film. Ben presto il protagonista si rende conto che il burocrate Amico,
colui che gli dava la caccia il giorno precedente, si sta intrattenendo con l’oggetto dei
suoi desideri. Si affretta quindi a nascondersi dietro a Ferruccio, affinché non venga
rilevata la sua presenza. Si tratta di un semplice espediente comico, il ricorso al quale
svolge un duplice scopo: da un lato permette a Guido di celarsi dal burocrate,

La vita è bella (2001,267).


2
dall’altro ci suscita sorpresa quando, allontanatosi quest’ultimo, il Nostro si presenterà
dinnanzi agli occhi della maestra e della sua conservatrice amica Elena, forse gelosa
nei confronti di lei per via degli apprezzamenti riportati da parte di uomini anche
molto diversi fra loro.

Nella scena successiva gli sceneggiatori ci introducono uno dei più stravaganti
personaggi dell’opera, il medico tedesco Lessing (interpretato dal leggendario Horst
Buchholtz, celebre e storica figura dei film western), il quale ha una vera e propria
mania per gli indovinelli. Durante un battibecco a colpi di reciproci enigmi (sarà bene
riservare attenzione alla comparsa della parola oscurità: prelude infatti in qualche
modo al prosieguo dell’opera), Guido apprende che, nonostante l’ora tarda, è appena
giunto al ristorante un tale dal Ministero. Il protagonista dimostra ancora una volta la
sua astuzia dappoiché, nonostante la cucina fosse ormai vuota, riesce a servire al
fascista il cibo in origine destinato al medico. Scopre inoltre che il cliente,
commissario governativo, ha in programma l’indomani un’ispezione alla scuola di
Dora. Escogita pertanto di recarvisi lui stesso presentandosi in loco al posto suo.

L’ironia è sottile, i personaggi secondari sono collocati con maestria nelle


varie scene della prima unità e ne reincontreremo alcuni anche nella seconda e più
drammatica parte del film. La scena della scuola è tra quei momenti di satira
cinematografica del Fascismo che Chaplin avrebbe adorato! Fa la sua comparsa
nell’aula uno scatenato Benigni (la parola “razzista’’ regna sovrana nel suo finto
discorso circa la razza ariana), la performance comica del quale tocca il suo apice con
il ridicolo sfoggio, dinnanzi ai bambini stupiti, della presunta perfezione razziale delle
sue fattezze corporee. Proprio in quel momento giunge a scuola il vero fascista.
Guido, saltando dalla finestra, saluta la sua amata: «Ci vediamo a Venezia,
principessa!».

Arriviamo così alla scena successiva, dall’inizio estremamente suggestivo. Ci


troviamo a teatro, dove quella sera la bella maestra assisterà a un’opera di Offenbach,
I racconti di Hoffman. Costumi sgargianti e una musica sublime impreziosiscono
ulteriormente la ricchezza sonora del film. Guido però neanche per un momento volge
lo sguardo allo spettacolo, ma ha occhi solo per Dora. Parlando tra sé e sé, tenta di
mettere in pratica il metodo di Shopenauer, così da fare in modo con la forza della
mente che la donna dei suoi sogni ricambi i suoi sguardi. Per l’ennesima volta ci
rendiamo conto di essere in presenza di uno dei più complessi personaggi della storia
della commedia cinematografica. Ci rendiamo cioè conto che non si tratta soltanto di
un allegro bonaccione, ma piuttosto di un uomo dalle ampie vedute, aperto ai sempre
nuovi influssi a cui il genere umano è esposto dalla vita stessa.

La maestra giunge accompagnata dal conformista che abbiamo conosciuto in


precedenza. Subito gli sceneggiatori, con l’aiuto del montaggio - o in alcuni tratti
indirizzandolo con la sceneggiatura stessa - sottolineano, con discrezione e al
contempo chiarezza, l’antitesi tra i due uomini (Guido e Amico). Nella scena
dell’Opera appare anche un altro dei personaggi già incontrati agli albori del film: è il
negoziante piccolo-borghese, a cui Guido riesce anche questa volta a strappare il
cappello. Ormai fuori dal teatro, lo spettatore osserva con attenzione la folla uscire
sotto la pioggia. Un’altra occasione per la scenografia di stupirci con la sua genialità,
come anche per la fotografia di Tonino Delli Colli e per gli effetti sonori, che
svolgeranno un ruolo di primo piano nella scena della macchina immediatamente
successiva.

Guido prende in prestito le chiavi dell’auto di Ferruccio e con una trovata


«ruba» la bella maestra al burocrate. Lo scenario le attribuisce una scena comica nella
quale la donna è colta da un nervoso singhiozzo. Da buon eroe comico, Guido non sa
guidare e così i due sono costretti a incamminarsi sotto la pioggia. Il vestito di Dora si
strappa. Segue una grande sequence romantica che unisce il realismo magico (il
tappeto rosso, le tre preghiere alla Madonna che si snodano attraverso volute casualità
comiche che intrecciano personaggi secondari dell’opera) e i riferimenti ad altre
celebri pagine della storia del cinema (Cantando sotto la pioggia, 1952). I due
protagonisti giungono presso la casa di Dora, dove, con modi diretti e al contempo dal
sapore magico, Guido si dichiara all’amata, dicendole di desiderare fare all’amore con
lei «non una volta sola, ma tante volte»!

La figura di Guido domina anche nella scena che subito segue. Vestito da
cameriere, egli porta in mano un gigantesco uovo di struzzo dietro al quale, non
appena si accorge dell’ingresso di Amico al Grand Hotel, tenta di nascondersi.
Affatto casuale è la collocazione dell’uovo nella presente sequence: uova infatti erano
anche quelle cadute per disattenzione di Guido sulla testa di Amico nella prima unità
del film. In modo analogo si chiuderà anche la scena del ristorante. Ma Guido non è
forse tra quegli uomini che non si comportano da struzzi? Egli infatti rifiuta di
accettare il mondo così com’è. Non nasconde la testa sotto la sabbia e tenta di
cambiarlo o, se non altro, di renderlo più sopportabile per le persone che ama.

La madre di Dora (interpretata da Marisa Paredes) tenta di opporsi ai capricci


della figlia e di farla alzare dal letto nonostante il singhiozzo. I costumi di Danilo
Donati si rivelano ancora una volta perfetti: il vestito di Nicoletta Braschi è davvero
principesco. Nella febbre del lavoro, Guido trova il tempo di informare Ferruccio che
Amico annuncerà le sue nozze con Dora la sera stessa (ironia tragica).

Nel momento esatto in cui lo spettatore coglie l’ironia tragica che lo volge a
un amaro sorriso, giunge sulla scena un tale, il quale informa Guido di un brutto
episodio di cui suo zio è appena caduto vittima. Eliseo si trova infatti fuori dal suo
ristorante, fortemente scosso dall’ennesimo attacco razzista ai suoi danni. Come
appare anche ai nostri occhi, alcuni fascisti hanno gettato della vernice verde su Robin
Hood, il suo splendido e candido destriero. Come se non bastasse, hanno scritto su di
esso la frase: «Achtung! Cavallo Ebreo». Guido, ancora una volta, tenta di
sdrammatizzare una situazione tragica. Tuttavia, il sempre razionale zio sente ormai
incombere il Male imminente e avvicinarsi quelle vergognose pagine per la storia
dell’Uomo che a breve verranno scritte. Facendo nuovamente ritorno al ristorante,
Guido incontra il medico Lessing, il quale sta per tornare repentinamente a Berlino,
non prima però di porre al protagonista un ultimo indovinello. Lessing parte, Guido
rimane pensoso alcuni istanti e poi dà la soluzione dell’enigma: è la parola silenzio:
ciò che caratterizzò la gran parte della borghesia dell’epoca, la reticenza della quale
favorì la salita al potere tanto di Mussolini quanto di Hitler.

Al tavolo di Amico si sviluppa una discussione circa il sistema scolastico ed


egli non esita ad esprimere le sue opinioni misantropiche. E’ portata in sala una
voluminosa torta rosa che reca la scritta Buongiorno Principessa, per la grande
sorpresa di Dora. Segue la scena del ballo: Amico annuncia le imminenti nozze con la
sua vecchia vicina e compagna di scuola, Dora appunto. Dietro alla folla creatasi,
vediamo la triste figura di Guido, ferita dalle parole del fascista: il vassoio che reca
nella sua mano vacillante si inclina sempre di più. Egli si distrae guardando verso la
coppia e così si realizza la gag scenariografica: Guido non vede la poltrona dinnanzi a
lui e così vi inciampa e cade per terra. Nel mezzo del fracasso che segue, il Nostro
raccoglie dal pavimento non solo il contenuto del vassoio, ma anche un cagnolino
che, per via della confusione e dell’imbarazzo provato, colloca nel disco tra i dolci
caduti. Così si scrive la commedia perfetta: essa deve stupire lo spettatore. Lì dove
l’elemento scherzoso appare concluso, giunge inaspettata la gag successiva – ο lazzo,
per rifarci alla terminologia della commedia dell’arte, dalla tradizione della quale lo
stesso Roberto Benigni proviene.

Un tale, fascista anch’egli, si accosta ad Amico, ormai sedutosi al tavolo, e si


congratula con lui per le prossime nozze. L’insolenza dell’uomo è tale che egli non
esita ad esprimersi volgarmente persino dinnanzi a una signora. Guido, al fine di
avvicinare la sua amata sotto il tavolo, si rende protagonista di un’altra gaffe. Si tratta
di uno dei momenti più magici del film. Lei lo prega: «Portami via». Com’è evidente,
anch’ella si rende ormai conto, nonostante le pressioni dell’ambiente a lei circostante
e soprattutto della madre, del carattere opprimente di Amico, così distante dalla
tenerezza dell’amato Guido.

Un membro dell’orchestra annuncia l’ingresso della «torta etiope». Secondo il


dogma panem et circenses tipico della dittatura, appare un’enorme torta a forma di
struzzo, accolta da saluti romani. All’improvviso si palesa in groppa a Robin Hood
Guido, che riesce così abbastanza facilmente a portare via Dora. La musica rende
ancora più romantica la loro fuga, che evidentemente molti ritengono parte dello
spettacolo. Amico tenta di aprire lo champagne offertogli da Guido, il tappo urta il
gigantesco uovo che è collocato nella bocca del finto struzzo e che finisce col cadere
in testa al fascista, che a quel punto coglie l’identità del cameriere-rapitore.

Un’altra scena di grande effetto. Albeggia e Guido aiuta Dora a scendere da


cavallo. Dallo scenario (testo) dell’opera si evince che gli autori hanno voluto che la
presente scena venisse girata alla prima luce del giorno, i cui dolci colori
contribuiscono a creare un’atmosfera fiabesca3. I due si trovano a casa dello zio
Eliseo. Guido, avendo perso le chiavi, escogita un altro modo di «violare» la porta.
Dora si dirige, lanciando uno sguardo malizioso a Guido come per invitarlo a seguirla,
verso la serra. Egli non esita ad entrare, e la sua figura scompare dietro a una pianta.
Gli sceneggiatori scelgono di porre fine alla prima parte del film facendo comparire

38. Casa dello zio e serra – Esterno Alba – Giorno / Guido è già sceso da cavallo e ora aiuta Dora a
3

venir giù dalla groppa della bestia. Sono imbrattati di verde anche loro, come Robin Hood. La prima,
dolcissima luce del sole dà toni irreali alla scena […], La vita è bella (2001, 141).
subito dopo dalla stessa inquadratura un bambino, il quale sentiamo chiamare da Dora
Giosuè. La voce maschile lo invita a non ritardare ulteriormente la mamma. Giosué
esce dalla serra giocando (si lamenta di non riuscire a trovare il suo tank giocattolo) e
si getta tra le braccia della madre. Ecco uno stratagemma semplice ed economico dal
punto di vista scenariografico per permettere a noi, gli spettatori, di capire che alla
fine Guido e Dora sono riusciti a creare la loro famiglia.

Comincia così la seconda e più drammatica parte dell’opera. I tre inforcano la


bicicletta e la scena che segue costituisce uno dei momenti di maggiore felicità per i
protagonisti, con la camera di Roberto Benigni e Tonino Delli Colli, posizionata sul
manubrio della bicicletta, a inquadrare gros-plan i loro volti ricolmi di gioia. Tuttavia,
mentre attraversano pedalando il paese, gli sceneggiatori evidenziano mediante la
scenografia una situazione ormai completamente cambiata: «[…] Prima una strada,
poi l’altra. Ma tutto è così diverso da prima. Tragici e desolanti appaiono i segni
della guerra. Le vetrine dei negozi sono protette dal nastro adesivo. I vetri delle
finestre sono rivestiti con carta da zucchero o fogli di giornale. I monumenti non si
vedono più perchè impacchettati, protetti da vecchi materassi legati con le corde. Tra
una colonna e l’altra dei portici sono ammucchiati i sacchi di sabbia. Sui muri
campeggiano, sinistri, i manifesti del regime che inneggiano alla vittoria finale:
immagini di elmetti, di teschi, di moschetti e di svastiche […]»4

Il bambino nota sulla vetrina di una pasticceria un cartello – altro elemento


caratteristico della sceneggiatura e dello scenario – che vieta l’ingresso ad Ebrei e
cani nel negozio. Cominciano a questo punto le prime bugie di Guido al figlio, nel
tentativo di proteggerlo dal brutale imbarbarimento generale. Il protagonista appare
conservare il suo umorismo e la sua capacità di rendere più luminosa la vita degli
altri, persino in tali frangenti così bui che lasceranno ben presto il posto all’oscurità
più profonda. La libreria che Guido da sempre sognava è divenuta finalmente realtà.
Eppure i controlli e le aggressioni fasciste e naziste costituiscono ormai un fenomeno
pressoché quotidiano: le ronde invadono il negozio dinnanzi agli occhi del bambino,
spengono sigarette sulla vetrina e sottopongono il padre a continue verifiche. Egli,
però, non manca mai di ridere e giocare col figlio, così da suscitarne l’allegria e
cacciare la paura dai suoi pensieri.

La vita è bella (2001, 145).


4
Giosuè si trova a guardia del negozio quando vi fa ingresso la madre di Dora.
Dal modo in cui ella osserva il bambino, comprendiamo che i due non si sono mai
incontrati. Gli porge una lettera destinata a sua madre e il piccolo, astuto come il papà,
subito capisce che l’indomani, in occasione del suo compleanno, conoscerà
finalmente sua nonna, che non è altri che l’elegante signora che ha davanti agli occhi
(Danilo Donati veste nuovamente la Paredes in modo impeccabilmente elegante, con
un cappello che non può che catturare l’attenzione dello spettatore). Il padre torna
quindi alla libreria e, nell’abbassare la saracinesca – come sottolineato dallo scenario
e riprodotto dalla scenografia – apprendiamo che i fascisti hanno ivi scritto che il
negozio in questione appartiene ad un Ebreo.

Nella scena che segue osserviamo – come sottolineato naturalmente dagli


sceneggiatori stessi nel testo – che è cambiato anche l’interno della casa, dove ormai
vivono Dora, Guido e Giosuè. Il piccolo vuole celarsi dalla madre, così da evitare di
fare il bagno. Trova così nascondiglio in un piccolo armadio, dove però suo padre lo
scopre. In un primo tempo i due mantengono segreto il rifugio del ragazzino, in modo
che la madre non lo individui. Alla fine Giosuè, muovendosi da dentro l’armadietto,
regge il gioco al papà, che si rifà alla forza della mente per spostare gli oggetti
(Schopenhauer), e palesandosi all’improvviso, pronuncia la battuta tipica di Guido:
Buongiorno Principessa! Tale padre, tale figlio.

Il compleanno di Giosuè è giunto e sua nonna arriva in carrozza insieme con


Dora. Quest’ultima scende e subito la coglie una sensazione inquietante: pochi istanti
dopo vediamo insieme a lei la scenografia della casa completamente stravolta.
L’elemento uditivo interviene a trasportarci in un veicolo militare nazista. In seguito,
il montaggio mette in serie quanto scritto da Benigni e Cerami e catturato dalla
camera del primo: alle immagini di ebrei stremati segue quella di Guido che tiene per
mano Giosuè. Lo zio Eliseo siede sul sedile di fronte. Il bambino è confuso e Guido
gli parla cercando il sorriso e cacciando le lacrime, promettendogli una grande
sorpresa per il suo compleanno. Persino quando vengono caricati sul treno della
morte, egli continua a inneggiare alla vita, per incoraggiare il figlio, e a sbeffeggiare
la meticolosità dei Tedeschi. Parallelamente, Dora trova un ufficiale tedesco, lo prega
ed alla fine ottiene da lui di salire anch’ella sul treno insieme alla sua famiglia.
Superfluo sottolineare il carattere straziante della scelta della donna e dell’intera
scena.
La fotografia di Tonino Delli Colli comincia ad abbandonare i colori vivi,
magici e caratteristici della prima parte del film. Il treno giunge in un campo di
concentramento in cui, come evidenziato anche dallo scenario, il grigio domina la
scenografia. Riportiamo nuovamente le parole dello stesso Roberto Benigni, questa
volta relative alla descrizione del campo: «[…] è il luogo dove sono portati gli ebrei,
ma non è ricostruito filologicamente: è «il» lager. Rappresenta tutti i campi di
concentramento del mondo, di qualunque epoca. Noi ricostruiamo perfettamente cosa
succedeva in quei luoghi spaventosi. Il campo, i costumi, gli oggetti, tutto nel film è
reinventato. Gli orrori non sono descritti nei particolari, ma evocati, suggeriti per
sentirne il dolore al di là del raccapriccio».5

Scendendo dal treno, Guido cerca tra la folla Dora, così come l’aveva vista
salirvi all’ultimo momento nella precedente sequence. Ascoltiamo la voce innocente
di Giosuè rivolgersi al padre: «Hanno fermato il treno per far salire la mamma...».
Guido riesce finalmente ad individuarla. Quando però si rivolge a lei, non la chiama
più Principessa, ma semplicemente Dora: segno del fatto che la situazione si è ormai
fatta tesa e disperata. La donna è allontanata con la forza e Guido ritorna dal figlio,
oltremodo provato, e dallo zio. Descrive a Giosuè il difficile gioco a cui dovranno
prendere parte, il quale però prevede per il vincitore come premio un vero tank. Il
piccolo sembra non credere alle sue orecchie. I nazisti allontanano lo zio, portandolo
nella zona del campo destinata ai prigionieri più anziani.

I personaggi interpretati da Roberto Benigni e Giorgio Cantarini sono guidati


in una stanza con molti altri prigionieri. Subito lo scenario distingue tra gli altri
Bartolomeo, un uomo ormai profondamente segnato dalla detenzione, la cui voce si
ode a stento. Egli osserva un po’ stupito quel padre di famiglia il quale, alle domande
del figlio circa la lontananza della madre e la sua usuale merenda, risponde dicendo
che stanno partecipando a un gioco dove devono ottenere mille punti per vincere. Un
ufficiale tedesco fa quindi il suo ingresso in stanza e con toni accesi chiede a qualcuno
che conosca il tedesco di tradurre i suoi ordini e rendere edotti gli Ebrei sopra i
terribili lavori forzati a cui saranno costretti. In un ulteriore tentativo di proteggere
l’anima innocente del figlio, Guido si propone come traduttore. Tuttavia, anziché
riferire quanto annunciato dai nazisti, egli finge che l’ufficiale in questione parli con

La vita è bella (2001, 268-269).


5
voce minacciosa in quanto previsto dal regolamento del gioco. Un gioco duro, nel
quale ciascuno non dovrà chiamare la mamma o reclamare la merenda. Ovviamente,
gli sceneggiatori escogitano di mettere in bocca a Guido le parole di cui sopra in
modo che egli possa tranquillizzare il figlio e garantirgli maggiori probabilità di
sopravvivenza.

In questa scena comica si scontrano due mondi completamente opposti.


Benigni ha pensato, scritto e messo in scena nella seconda parte dell’opera qualcosa di
davvero difficile: interpreta infatti il dramma come se fosse commedia – benché la
storia del genere comico abbia dimostrato come sia più semplice fare l’opposto.
Benigni ci riesce però alla perfezione, attraverso un’interpretazione di quelle che
raramente abbiamo visto premiate dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences.
Tale vibrante interpretazione, piena di sentimento, reca in sé tutto ciò che caratterizza
l’uomo mediterraneo, nonché innamorato della vita. Il modo in cui questi due mondi,
quello della guerra e del Male da un lato e quello della gioia, della vita e della fantasia
dall’altro, si vengono nella presente scena a scontrare, presenta per lo scrivente una
qualche affinità, tanto nei ritmi quanto nei contenuti, con alcuni versi della commedia
aristofanea degli Acarnesi. Nell’opera in questione, la fa da padrone lo scontro di
ideali e di vita tra Diceopoli, sostenitore della pace tra Atene e Sparta, e Lamaco,
sempre pronto a partire per la guerra. I due, nel loro costante battibecco comico a
difesa dell’una o dell’altra tesi, impartiscono ordini totalmente opposti ai loro schiavi.
Ci sia concesso un breve riferimento a pochi ma significativi versi del testo:

LAMACO Portami il trespolo, sostegno dello scudo.

DICEOPOLI E a me porta i panini, sostegno del mio...stomaco (indica il ventre)

L. Portami qui lo scudo tondo con la Gorgone.

D. Α me da’ la pizza tonda con il formaggio.

{…}

L. (Indica lo scudo) Versaci dell’olio, servo. Nel bronzo vedo un vecchio che finirà
accusato di vigliaccheria.

D. (Indica la pizza) Versaci del miele, tu. Anche qui si vede un vecchio che manderà
al diavolo Lamaco, figlio di... Gorgaso.
L. Servo, portami la corazza da guerra.

D. Servo, tira fuori la mia corazza, cioè il boccale.

L. (Indossa la corazza) Con questa mi difenderò dai nemici.

D. (Prende il boccale) Con questo mi difenderò dai convitati.6

La scena successiva ci mostra i terribili lavori forzati a cui gli Ebrei erano
costretti, talmente estenuanti da avere come scopo l’annientamento dei detenuti. Il
piano è incentrato sulla fonderia, un luogo che gli sceneggiatori descrivono come un
inferno. Tornando indietro nella stanza dei prigioneri, Guido porge al figlio il solo
tozzo di pane che gli era stato destinato. In seguito vediamo l’ala femminile del
campo, dove è rinchiusa anche Dora. Nascono in noi alcuni amari interrogativi, dal
momento che le guardie in quella sezione erano donne. Come potevano, in quanto
donne anch’esse, perpetrare tali supplizi ad altre? Domande retoriche, queste,
dinnanzi a individui senza traccia di pietà nel cuore e imbevute delle paurose idee
generate dal fanatismo di Adolf Hitler. In uno spostamento dalle celle di detenzione ai
lavori forzati, Dora ascolta per la prima volta delle camere a gas, in cui i nazisti
sterminavano gli Ebrei dopo che li avevano radunati con il pretesto di un bagno.
Ancora una volta Roberto Benigni e Vincenzo Cerami si dimostrano drammaturghi
eccellenti. Al fine di muoverci ancora di più alla commozione, nella scena successiva
dedicano grande enfasi a Giosuè, il quale trova il padre e gli dice di non voler andare
a fare il bagno con gli altri: avevamo infatti già visto all’inizio della seconda parte
come il bambino non amasse particolarmente tale procedura.

Fuori dalle camere a gas distinguiamo tra gli altri la figura dello zio Eliseo.
Malinconico, greve, si sveste con movimenti lenti. Una nazista inciampa e lui la aiuta
a rialzarsi, chiedendole se stesse bene e interessandosi sinceramente della sua salute.
Quello che però ottiene da lei è soltanto uno sguardo pieno di odio: ancora una volta
lo scenario ci commuove attraverso i suoi contrasti. Si tratta appunto di uno scenario
ricco di immagini che, soprattutto nella seconda sezione, ci dà molte informazioni
senza ricorrere alle parole. Una tale scena è anche quella in cui, nel luogo dei lavori
forzati delle donne, si distingono ammassi di oggetti personali dei morti e dei
morituri, suddivisi per categorie secondo la maniacale follia nazista. Tra quelle pile di

6
Gli Acarnesi (2010, 181-183).
cose spunta anche un gatto che, secondo la descrizione dello scenario, pare cercare
qualcosa o qualcuno. Il suo padrone forse?

Di ritorno alla cella dai suoi tormenti quotidiani, Guido nota che la stanza del
microfono che trasmette gli ordini dei nazisti in tutto il campo è rimasta incostudita.
Subito gli viene un’idea: lo segue anche Giosuè, che si era nascosto all’interno di un
sacco e che era stato colto dal singhiozzo. Guido afferra il microfono e invia un
messaggio d’amore alla sua principessa, dicendole di averla pensata tutta la notte.
Dora li ascolta inizialmente impaurita, per poi abbandonarsi alla commozione e
sentirsi rassicurata nel sapere che la sua famiglia sta bene.

In tal contesto, la scena dell’incontro con il dottor Lessing è paradigmatica. Ed


è paradigmatica poiché gli scenneggiatori hanno pensato di presentarci dapprima il
medico di spalle e il protagonista scrutarlo nervosamente. Il reciproco riconoscimento
non tarderà ad arrivare.

Subito dopo viene una scena particolarmente difficile, in cui l’allora bambino
Giorgio Cantarini fa prova di tutto il suo talento, recitando come un attore
professionista di grande esperienza. Si tratta di una scena di contrasto col padre, in cui
dapprima gli dice di aver capito che in quel campo i prigioneri diventano sapone e
bottoni, vengono inceneriti e di bambini non se ne vedono più. Guido continua però a
proteggerlo e ad essere l’unico tra i prigioneri a conservare ancora una qualche
energia. Risponde al figlio che tali informazioni gli sono giunte da avversari, i quali
vogliono accumulare più punti nel gioco e uscirne vincitori. Giosuè dice di volersene
andare e Guido, dandogli ragione, acconsente ad uscire dalla stanza, ricordando al
contempo al figlio che, con una tale pioggia, di certo si ammaleranno. Il protagonista
comincia quindi uno show circa il tank che stavano finendo di costruire, parla dei
punti acquisiti durante il gioco e del fatto che sono primi. Apre la porta e sta per
qualche istante sotto la pioggia. Il piccolo, rimasto più indietro, lo chiama: ci ha
ripensato, preferisce rimanere e, rivolgendosi al papà, usa la sua stessa
argomentazione: «Ma piove, mi viene la febbra a quaranta».

L’ultima unità dell’opera si apre con un’ampia inquadratura sul campo di


concentramento. I megafoni trasmettono dappertutto un discorso di Hitler. Alcuni
bambini, figli dei nazisti, giocano a nascondino. Nello stesso momento, come
descritto nello scenario, Guido si trova vestito da cameriere nell’alloggiamento degli
ufficiali e imbandisce le tavole. È forse il dottor Lessing ad avergli rimediato un ruolo
da cameriere all’interno del campo. Chiudendo la finestra, nota i piccoli giocare e
conduce Giosuè, che se ne stava da solo, presso di loro, così da dimostrargli che ci
sono anche altri bambini nel campo. Gli presenta quel gioco come pieno di rivalità, in
quanto ciascuno dei partecipanti è fermamente intenzionato a uscire vincitore dalla
immaginaria sfida descritta da Guido al figlio sin dal loro arrivo nel lager. Appare in
seguito una soldatessa tedesca che riprende i piccoli che giocano e coglie Guido
prepararsi a scappare con Giosuè. Il Nostro fa in tempo a dire al figlio che avrebbero
dovuto fare il gioco del silenzio (motivo, quello del silenzio, a cui gli sceneggiatori
hanno fatto ricorso anche nelle precedenti unità dell’opera), e così la donna prende
Giosuè per un bambino tedesco e si limita a rimproverare Guido. Allontanandosi, il
papà fa l’occhiolino al figlio.

Ci troviamo ora all’interno dell’alloggiamento. Lo scenario descrive


minuziosamente la disposizione degli oggetti, nonché quella dei bambini e dei nazisti
loro genitori. Un militare osserva i piccoli mentre mangiano e fanno rumore, li
riprende con severità e quelli tacciono impauriti. Tale personaggio, ancorché
secondario, e quanto egli simboleggia suscitano in noi una profonda avversione: lo
scenario di Benigni e Cerami ha quindi adempito appieno ai suoi (drammatici) intenti.
Lì Guido, mentre serve gli ufficiali, quasi supplica con lo sguardo il dottor Lessing di
aiutarlo e questi gli manifesta alla prima occasione il desiderio di parlargli al più
presto. La nostra agonia aumenta: vorrà forse salvare l’adorabile famiglia di Guido
dal male incombente? Il protagonista si trova ora nella sala ospitante i figli dei
Tedeschi, nonché lo stesso Giosuè. Al piccolo sfugge la parola «grazie» in italiano e
un cameriere tedesco corre subito a chiamare la soldatessa. Affinché nessuno scopra il
suo sotterfugio, all’arrivo della donna Guido finge di star insegnando a tutti i bambini
a pronunciare quella parola.

Giunge quindi il momento dell’agognata conversazione tra Guido e Lessing.


Accompagna la scena la musica di un grammofono. Il sottofondo musicale voluto
dagli sceneggiatori caratterizzerà anche la scena onirica seguente. Guido riferisce al
dottore che anche sua moglie si trova nel campo, ma questi non vi dà alcuna
importanza. È tale la sua cieca alienazione che non esita a chiedere lui aiuto a Guido
per la risoluzione di un enigma postogli da un amico. Ormai, però, non siamo più ai
tempi del Grand Hotel. Tanto sconvolto rimane Guido dalla bieca insensibilità di
Lessing, tanto ne rimaniamo anche noi.

Poco dopo Guido trova il grammofono e vi inserisce un disco di Offenbach,


dal quale emanano le note del brano che egli e Dora avevano ascoltato insieme
all’Opera. Persino la descrizione del passo nello scenario è magica: «Il canto
struggente della Barcarola si perde nella fitta e bassa nebbia del campo. È la musica
che ha fatto da cornice all’incontro d’amore tra Guido e Dora. Ora, dondolando
nella foschia accesa dalla luna alta nel cielo, vaga per le strade buie di
quell’immensa prigione, in cerca di lei».7 Dora ode la musica, coglie il messaggio, si
accosta piano piano alla finestra e ascolta commossa la melodia a lei destinata.
L’atmosfera è onirica. Guido spunta da un angolo e chiama il figlio. Lo guiderà nella
nebbia, per poi svanire in essa. È proprio la nebbia, forse, a fargli dire a Giosuè, che
sta per cedere al sonno: «...Domattina viene la mamma a svegliarci con due belle
tazze di caffè e latte coi biscotti. Prima si mangia... e poi io ci fo all’amore due o tre
volte... (S’immerge nella nebbia)... Se ce la fo!»8 La nebbia è fitta, ma Guido riesce a
intravvedere un lugubre ammasso, alla vista del quale gli si raggela il sangue: è una
catasta di uomini trucidati. Il sogno si è trasformato in incubo.

Nella sequence successiva il campo appare in gran subbuglio. I prigionieri,


con le loro camicie a righe, guardano fuori dalla finestra. Bartolomeo sostiene che
ormai la guerra è finita. Il primo pensiero di Guido è di nascondere il figlio, poiché i
nazisti tentano all’ultimo momento di eliminare quanti più ebrei possibile. Giosuè si
cela nel nascondiglio dove il giorno precedente si era infilato uno dei bambini
tedeschi. Il padre gli ordina di non uscire di lì prima che sia terminata ogni agitazione.
Lo bacia e poi corre a travestirsi da donna (il travestimento è un elemento topico della
commedia). Prima però che riesca a cambiarsi i vestiti, alcuni soldati tedeschi si
fermano dinnanzi al nascondiglio di Giosuè e il loro cane inizia ad abbaiare. Guido
ricorre al metodo di Schopenhauer e il piccolo si salva! Cerca quindi di rintracciare
Dora, ma vede che tutte le donne del campo sono state fatte salire su un veicolo
dell’esercito. Ogni suo tentativo è vano e disperato. I Tedeschi lo individuano ed egli,
come un eroe del dramma antico, viene giustiziato lontano dagli occhi nostri e del
figlio. Udiamo soltanto i colpi della mitraglia. Quando il soldato lo conduce dinnanzi

La vita è bella (2001, 238).


7
8
Idem (2001, 241).
al campo visivo di Giosué, Guido gli fa l’occhiolino e mima un comico passo militare.
La musica di Piovani diventa improvvisamente e grottescamente giocosa. La fatale
fine del padre. Il sacrificio.

È l’alba. Lo scenario descrive con cura la situazione nel campo e i movimenti


di Giosuè, che si aggira spaesato dopo così tante ore rinchiuso nel suo nascondiglio.
S’ode un rumore. Appare un tank americano che evidentemente ha appena liberato il
campo. Il carro si ferma proprio davanti a Giosuè, un soldato lo saluta all’americana e
il bambino grida con gli occhi lucenti: «è vero!», riferendosi al premio promessogli
dal padre nel caso avessero vinto il gioco. Mentre il tank si allontana, Giosuè
distingue tra la folla la madre. Corre verso le sue braccia, e il narratore voice-over
dell’inizio del film si rivela essere lo stesso Giosuè: «Questa è la mia storia. Questo è
il sacrificio che mio padre ha fatto. È stato il suo regalo per me». Il piccolo dice a
Dora che hanno vinto e lei, sorridente, lo stringe nel suo abbraccio. Il sacrificio del
padre non è stato vano. Lo spettatore può ora lasciare le lacrime della commozione
scorrere libere.
EPILOGO – CONCLUSIONI

Molti aspetti sono stati analizzati nel presente lavoro. Se, tuttavia, dovessimo
definire con un sol termine il tema centrale dell’opera, tale parola sarebbe amore. È la
stessa parola a cui è ricorso proprio Roberto Benigni durante la consegna dell’Oscar
per il migliore film straniero: una premiazione spontanea, estroversa, mediterranea e
diversa da quelle tradizionali.

L’amore, dunque. Un sentimento che si manifesta sotto molte forme in questo


film. È l’eros, è certamente l’amore per la vita e soprattutto l’amore provato da un
genitore per il figlio. Quest’ultimo è universale e non conosce limiti o confini. È un
sentimento puro e disinteressato. Tale è l’amore per Giosuè provato da Guido, il quale
si dirige sorridente verso la morte. Per tutta una vita ha fatto il bene e dunque ha la
coscienza pulita; per tutta una vita ha cercato di rendere piacevoli anche i momenti
più difficili. Ora quindi sorride, poiché in fondo ciò che per lui ha maggiore
importanza, ovvero la sua famiglia, sopravviverà.

I due sceneggiatori, Vincenzo Cerami e soprattutto Roberto Benigni


(regista del film ma anche attore premiato con l’Oscar per la migliore interpretazione
maschile) dimostrano con questo capolavoro quanto essi siano profondamente
impregnati non soltanto dagli ideali antinazisti, ma anche dalla storia del cinema
italiano e dalla sua indagine della natura umana. Ma, in primo luogo, dai celebri versi
dantesci: «L'amor che move il sole e l'altre stelle» (Paradiso, XXXIII, v. 145).
BIBLIOGRAFIA

G. Gramegna, La vita è bella. Sceneggiatura di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami,


Torino

G. Paduano, R. Lauriola, Aristofane: Gli Acarnesi, Milano

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