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Eracle è personaggio e figura molto complessa, che si carica nel corso dei secoli di
valenze molteplici, sul piano religioso, cultuale, letterario, culturale. Il territorio di
origine è il mito: Eracle è un personaggio mitico, naturalmente; però, dal mito poi
deborda in altri territori.
Burkert nel suo manuale di storia della religione greca dà un breve profilo di
Eracle, nella categoria degli “esseri doppi ctonio-olimpici”, ossia delle figure che
partecipano sia dello statuto eroico che di quello divino. Eracle è un eroe perché non
si sottrae alla morte: muore, e anzi la sua morte – così dolorosa e ingiusta – è uno dei
suoi “meriti”, concorre a definire quella areté che è la sua massima dote e gli vale poi
la divinizzazione. Una volta assunto in cielo e accolto tra gli dèi, diventa héros theós,
come dice Pindaro (Nemea III 22). Però la tomba di Eracle non c’è, non si mostra da
nessuna parte. Di solito, la tomba di un eroe è anche il suo sacrario: è il punto di
irradiazione del suo culto, che è locale. Eracle è venerato in tutto il mondo greco, è
l’eroe panellenico; e anche il suo culto divino è diffuso ovunque.
Burkert spiega che lo strato più antico del mito eracleo è costruito attorno alla
figura di un eroe cacciatore, che abbatte bestie pericolose (il leone e il serpente). A
questo strato appartengono anche gli episodi che alludono a contatti con il mondo dei
morti e il mondo degli dèi, definiscono cioè la capacita di sconfinare in uno spazio
“diverso”: Eracle va a Erýtheia (l’Isola Rossa al di là dell’Oceano) per impadronirsi
del bestiame di Gerione, scende all’Ade per portarsi via il cane infero Cerbero, si
impadronisce delle mele d’oro che crescono nel giardino degli dèi nel remoto
Occidente. Seguono lotte con creature fantastiche o mostruose: Centauri, Amazzoni.
Poi, quando la figura di Eracle “sale di livello” e dal mito popolare trapassa nell’epos
eroico, gli vengono attribuite gesta eroiche, come la conquista di città (Troia, che
Eracle conquista una prima volta, con la generazione dei “padri”: Ecalia). Nell’VIII
secolo, al tempo della composizione dell’Iliade, gran parte di questi episodi sono
“fissati” e noti; l’Iliade menziona la presa di Troia (V 638-642 e XX 144-148) e la
cattura di Cerbero (VIII 365-369); le avventure con il leone, l’idra, la cerva, gli
uccelli, i Centauri e le Amazzoni compaiono nelle più antiche rappresentazioni
vascolari di scene mitiche. La fissazione del ciclo delle dodici fatiche (áthla) è
attribuita dalla tradizione a un poema epico di Pisandro di Rodi, databile intorno al
600 a.C. Negli stessi anni si definisce l’iconografia di Eracle che indossa la pelle di
leone.
La morte di Eracle è causata dall’azione sconsiderata di sua moglie Deianira
(“colei che combatte gli uomini”) ed è fissata dalla tradizione sul monte Eta, nei
pressi di Trachis. Il luogo è stato scavato e ha rivelato chiare tracce di culto: ogni
quattro anni vi si celebrava una festa del fuoco, con sacrifici cruenti e agoni. L’Iliade
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conosce semplicemente la morte di Eracle (connessa con l’odio di Era); i passi della
nekyia (Odissea XI 601-604) e del Catalogo esiodeo (fr. 25, 20-33) che parlano della
sua divinizzazione erano rigettati dai critici antichi come interpolazioni del VI secolo
(all’inizio del VI secolo, infatti, sembra risalire la tradizione che vuole Eracle assunto
tra gli dèi e ammesso al banchetto degli Olimpi, come compagno di Ebe).
La figura di Eracle, spiega Burkert, è un coacervo di contraddizioni. L’eroe è il
figlio di Zeus, forte e invincibile (è il “signore della vittoria”, invocato prima di ogni
competizione o cimento o prova), ma per tutta la vita deve servire Euristeo, il re di
Micene: la sua condizione quindi è assimilabile a quella di uno schiavo, di un servo.
Eracle è capace di ogni exploit fisico, ed è dotato di straordinaria potenza sessuale;
ma la sua carriera eroica è interamente soggetta ai capricci di una donna, Era, che
gioca con lui a suo piacimento; questa ambivalenza è scritta nel nome stesso Eracle,
che significa “gloria di Era, glorioso per Era”. Anche la schiavitù presso la regina
lidia Onfale si connette all’idea di un maschio fortissimo sottoposto al controllo di
una femmina.
Il culto di Eracle (eroico e divino insieme) è molto diffuso, anche in aree
periferiche (l’eroe è l’eterno girovago). Le cerimonie in suo onore non sono per lo più
feste “ufficiali” della polis, ma manifestazioni organizzate da singole associazioni
cultuali. Ad Atene non c’è traccia di culto eracleo sull’Acropoli, mentre esiste tutta
una serie di santuari, maggiori o minori, sparsi per il territorio dell’Attica. Eracle è
legato ai ginnasi e agli efebi (è l’atleta e il lottatore per antonomasia). Ad Atene il
culto eracleo si afferma soprattutto nel VI secolo, e diventa il culto eroico più diffuso
(ben più diffuso, a livello popolare, di quello di Teseo): Eracle è adottato come
cittadino ateniese (di qui la sua connessione con i Misteri Eleusini, di cui l’eroe si fa
iniziato). Un elemento fisso del culto è il banchetto a base di carne: i devoti
“mimano” il comportamento dell’eroe, che è raffigurato come sacrificatore e vorace
divoratore di carne (un’immagine che poi la commedia fissa). Ci si sente in
confidenza con Eracle: gli si rivolge nelle varie contingenze della vita, poiché l’eroe è
l’Alexìkakos. Sulla casa sta scritto: “Il figlio di Zeus, Eracle dalla bella vittoria, abita
qui: nulla di male può entrare”. Si fabbricano immagini di Eracle come amuleti;
numerosissime sono le rappresentazioni vascolari, che riproducono i vari exploits e in
particolare la lotta col leone.
Eracle però non è solo un eroe popolare, è anche figura di alto rango, al
servizio dell’ideologia ufficiale. Questo si verifica soprattutto a Sparta, dove i re dei
Dori lo adottano come capostipite. La legittimazione della migrazione dorica nel
Peloponneso è nel segno di Eracle: “ritorno degli Eraclidi”; Hyllos, l’eroe eponimo di
una tribù dorica, diventa il figlio di Eracle. In seguito Eracle diventa, oltre che dio-
eroe anche figura spirituale, in due direzioni soprattutto. Diventa “figura” e ipostasi
del buon sovrano che, in virtù della legittimazione divina, agisce irresistibilmente per
il bene dell’umanità e trova poi la propria consacrazione tra gli dèi (Alessandro si
propone come nuovo Eracle, ne fa coniare l’immagine sulle sue monete). Ma è
modello anche dell’uomo comune che, dopo una vita di pene, può sperare di trovare
dopo la morte consolazione e salvezza in un destino che lo avvicini agli dèi, lo renda
commensale degli dèi.
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Nell’VIII dell’Iliade gli Achei sono sconfitti da Ettore, che infuria; Era e Atena
constatano sconsolate che Zeus è dalla parte dei Troiani, e Atena ne lamenta
l’ingratitudine, visto che fu proprio lei, Atena, a salvare l’amato figlio di Zeus,
Eracle, dalla trappola infernale.
Nel brano di “epos di Pilo” pronunciato da Nestore nel canto XI (il vecchio re ricorda
un episodio glorioso della sua gioventù, quando ancor adolescente portò in città un
ricchissimo bottino, razziato agli Epei, e poi respinse il tentativo di riscossa dei
nemici) affiora il ricordo di un’impresa di Eracle, che devasta Pilo e uccide undici dei
dodici figli di Neleo [un episodio da mettere in rapporto con le incursioni nel
Peloponneso occidentale di un Eracle che è – in queste tradizioni mitiche –
testimonial e figura di legittimazione dell’espansione dorica].
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Teti avverte Achille che, se tornerà a combattere e ucciderà Ettore, dovrà poi lui
stesso morire; Achille si dice pronto ad accettare la sua sorte, com’è toccato a tanti
altri e anche a Eracle, che pure era figlio del dio supremo. La morte di Eracle non è
descritta, ma è messa in rapporto con l’avversione di Era.
Nella scena assembleare del XIX canto, che è simmetrica a quella del I e chiude il
tema dell’ira, Agamennone ammette il suo errore e spiega di essere stato accecato da
Ate. L’exemplum scelto è quello di Zeus che, ingannato da Era e accecato da Ate,
condanna il figlio suo Eracle, ancora prima che sia nato, a una vita di subordinazione
e di servaggio.
Tra le ombre che si presentano a Odisseo nella nekyia c’è anche quella di Eracle;
Omero spiega che in realtà nell’Ade c’è solo l’εἴδωλον dell’eroe, perché lui è
nell’Olimpo. Che cosa significhi questo dal punto di vista “teologico” non è chiaro:
tutte le figure che Odisseo incontra sono εἴδωλα. La “storia sacra” del dio viene fuori
comunque con chiarezza: una vita di sofferenza, di continue prove, confortata però
dall’aiuto degli dèi (Zeus, Ermes, Atena). La “passione” di Eracle non è motivata
dall’avversione di Era, ma dalla sudditanza a un uomo ben inferiore. L’impresa di
Cerbero è quella che più chiaramente avvicina Eracle e Odisseo, entrambi costretti
dal destino ad affrontare il rischio tremendo della catabasi all’Ade (entrambi
kàmmoroi, condannati a bere fino in fondo l’amaro calice della vita). La felicità di
Eracle nell’Olimpo e la vicinanza di Ebe sono augurio e prefigurazione del nostos di
Odisseo. La postura di Eracle, arciere torvo e minaccioso, e le incisioni sul balteo
rimandano alle innumerevoli vittorie ma anche alla violenza sottesa al personaggio.
All’inizio del XXI canto Penelope va a prendere l’arco del marito; il poeta ne
racconta la storia, con un flash-back ricco di motivi poetici: il viaggio iniziatico
adolescenziale; il tema dell’ospitalità, rispettata e violata, la corrispondenza tra padre
e figlio. Eracle è ricordato come il massacratore dell’ospite: torna quindi l’immagine
di violenza e trasgressione che caratterizza l’eroe nella sua versione più arcaica.
Eracle in Esiodo - Nella Teogonia di Esiodo Eracle è trattato per accenni. Il più
significativo è contenuto nei vv. 950-955, dove si dice che l’eroe, compiute le
dolorose fatiche, fece sua sposa la bella Ebe, figlia di Zeus e di Era, e ora “beato tra
gli immortali ha dimora, privo di affanni e giovane sempre”. Molti studiosi (tra i
quali West) dubitano però dell’autenticità di questi versi: l’intera sezione dei vv. 886-
1022 è per lo più ritenuta un’aggiunta successiva (e tra le ragione della condanna c’è
anche la divinizzazione di Eracle, che a Esiodo non dovrebbe essere nota). Ancora di
passata, il poema cita varie imprese: l’uccisione di Gerione e il furto dei buoi, l’idra
di Lerna (“che Era bianche braccia nutrì contro Eracle forte, spinta da odio
insaziabile”), il leone di Nemea. Narrando di Prometeo e della sua lite con Zeus,
Esiodo ricorda che fu Eracle a uccidere l’aquila che tormentava il Titano, “non contro
il volere di Zeus olimpio che regna dall’alto, perché la fama di Eracle, stirpe di Tebe,
fosse maggiore di quanto era prima sulla terra nutrice” (529-531). Eracle è poi
menzionato in due testi che fanno parte del corpus esiodeo ma sono quasi certamente
spuri. Il primo è un frammento del Catalogo, che racconta nel dettaglio la morte di
Eracle, causata dall’errore fatale di Deianira, e la sua assunzione tra gli dèi: il poeta
precisa che la beatitudine dell’eroe è totale, ed è assicurata dalla benevolenza di Era,
che ha mutato in affetto l’antico odio.
E poi c’è lo Scudo di Eracle, un poemetto in esametri che racconta lo scontro tra
Eracle e Cicno, figlio di Ares, che uccide i pellegrini diretti a Delfi; aiutato da
Apollo, Eracle affronta Cicno in un duello iliadico (carro e tiro di lancia) e l’uccide. Il
violatore dell’ospitalità, l’assalitore degli dèi si è trasformato in un difensore della
pietà e della norma religiosa: Eracle sta assumendo (forse ha già assunto) lo statuto
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del purificatore, che libera la terra da mostri ferini e da uomini empi, alla maniera di
Teseo.
Per concludere il panorama dei testi arcaici, si può ricordare anche l’Inno omerico a
Eracle, un breve componimento (databile al VI secolo), che ricorda i punti
fondamentali della saga: la nascita a Tebe, da Alcmena e Zeus, le lunghe fatiche e gli
interminabili viaggi, agli ordini di Euristeo, la salita al cielo e l’assunzione tra gli dèi.
Eracle nella lirica - Nel VI secolo, dunque, la figura di Eracle ha assunto i suoi
contorni definitivi di eroe – dio e si è affermata nel culto e nell’arte. Però
l’evoluzione del personaggio non è affatto terminata: anzi, Eracle deve il suo fascino
proprio alle nuove letture che di lui vengono proposte nel tempo, nella letteratura,
nell’arte, nella filosofia. La tragedia ha un ruolo importante: coglie le contraddizioni
del personaggio, le asprezze della sua storia, e le ripropone dentro lo schema tragico
del conflitto libertà – destino. La tragedia opera uno scavo dentro il personaggio, lo
rilegge dall’interno, lo interiorizza. Ma questo processo è preparato e anticipato dalla
lirica, in particolare dalla lirica corale del primo V secolo (Bacchilide e Pindaro).
Karl Galinsky parla di un “Eracle in transizione”. Sappiamo che altri poeti arcaici
composero carmi su Eracle: Archiloco dopo avere vinto una gara di inni in onore di
Demetra a Paro compose un breve canto in lode di Eracle kallinikos. Stesicoro fu
particolarmente attratto dal mito eracleo, che trattò in opere come Cicno, Gerioneide,
Scilla, Cerbero. Paniassi di Alicarnasso compose un Eraclea in 14 libri; ma con
Paniassi siamo già nel V secolo.
Bacchilide tratta la saga di Eracle nell’Epinicio V, composto per la vittoria
olimpica (476 a.C.) di Ierone nella corsa del cavallo montato. Il mito è introdotto da
una gnome: nessun mortale gode mai di una felicità totale; beato è colui che, con
l’aiuto del dio, coglie un momento di gloria. Esempio di ciò è la vicenda di Meleagro,
ucciso proprio nel momento del trionfo; il caso di Meleagro è filtrato attraverso la
reazione di Eracle, che incontra l’anima dell’eroe defunto mentre si inoltra nell’Ade
alla ricerca di Cerbero. La situazione è vagamente odissiaca, ma a ruoli ribaltati:
Eracle si sostituisce a Odisseo (è lui il vivo), Meleagro si sostituisce a Eracle; anche
in Bacchilide Eracle imbraccia minaccioso l’arco, pronto a colpire (questa anzi è una
chiara “citazione” omerica). Con sapiente gioco letterario, la sventura di Eracle (la
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morte dolorosa, per mano della persona più cara, amaro compenso delle tante
gloriose fatiche) è proiettata su Meleagro; ma le parole finali di Melagro e la
menzione di Deianira gettano un’ombra sinistra e alludono alla triste conclusione
della saga eraclea.
piangendo: «È difficile
piegare la volontà degli dei,
per chi vive sulla terra.
Anche mio padre Eneo, domatore di cavalli,
avrebbe placato l’ira della venerabile
dea incoronata di fiori, Artemide
braccio bianco, supplicandola
con molti sacrifici di capre
e di buoi rosso mantello.
Ma la dea conservò
implacabile l’ira; scatenò un cinghiale
fortissimo e feroce
contro la bella città di Calidone:
gonfio di forza
devastava le vigne con le zanne,
sgozzava le pecore e chiunque
dei mortali gli capitasse davanti.
Guerra tremenda gli facemmo
noi, i migliori tra i Greci,
per sei giorni di seguito; e quando
il dio offrì la vittoria agli Etoli,
seppellimmo i morti. Tanti ne aveva uccisi
l’impetuoso cinghiale ruggito profondo:
Anceo e Agelado, il migliore
dei miei cari fratelli,
partoriti da Altea
nel nobile palazzo di Eneo.
Una sorte funesta li spense,
tutti: non ancora, infatti, aveva deposto
l’ira la figlia di Letò, la scaltra
cacciatrice. Per la pelle bruna
s’accese un’aspra rissa
tra noi e i Cureti battaglieri.
Fu allora che io uccisi,
tra i molti, anche Ificlo e il nobile
Afarete, i valorosi zii materni;
nella mischia infatti Ares
spietato non distingue l’amico,
ma ciechi escono di mano i colpi
e s’avventano alle vite dei nemici
e portano morte
là dove il dio vuole.
A questo non pensò
l’altera figlia di Testio,
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Nel Ditirambo XVI (Eracle o Deianira, per i Delfi) Bacchilide tratta il mito in
maniera diretta, selezionando il momento decisivo della saga, ossia quello in cui il
destino di Eracle si compie. L’eroe ha conquistato e distrutto Ecalia e si appresta a
offrire sacrifici di ringraziamento agli dèi: ma proprio quando tutto sembra mettersi al
meglio (successo, favore divino, pietà religiosa), la disgrazia colpisce, grazie
all’ottenebramento che acceca la mente di Deianira. Il testo di Bacchilide mostra
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Ancora più esplicito è Pindaro nella X Olimpica, dove l’istituzione dei giochi è
conseguenza di una vittoria militare: Eracle uccide il re Augia, che lo aveva
ingannato e derubato, e con il bottino conquistato al nemico celebra la prima edizione
delle gare. La combinazione dei due passi fa capire quale sia la lettura pindarica del
mito di fondazione. Eracle, il figlio di Zeus, arriva a Pisa (questo il nome miceneo di
Olimpia), dove spadroneggiano governanti crudeli, e con la forza del braccio impone
regole nuove, nel nome della giustizia di Zeus. L’istituzione dei giochi diventa la boa
di un passaggio epocale, dalla barbarie alla civiltà. La violenza di Eracle è il mezzo
necessario perché i valori di dike si sostituiscano all’arbitrio
Eracle nella tragedia – Eracle è personaggio attivo di quattro dei 33 drammi che ci
sono pervenuti per tradizione diretta: Trachinie, Filottete, Alcesti, Eracle. Inoltre,
l’eroe aveva un ruolo importante nella trilogia eschilea su Prometeo, di cui
possediamo il primo [verosimilmente] dramma, cioè il Prometeo incatenato.
Sull’allestimento scenico dell’Eracle notizie essenziali sono date da V. Di
Benedetto – E. Medda, La tragedia sulla scena, Torino 1997, pp. 132-135. La
vicenda è ambientata a Tebe, davanti alla casa di Eracle, la cui facciata fa da edificio
scenico. Davanti alla casa c’è l’altare di Zeus Sotér, dedicato un tempo dall’eroe al
padre Zeus per la vittoria contro i Minii di Orcomeno; sull’altare siedono supplici,
all’inizio della tragedia, Anfitrione, Megara e i figli di Eracle. Le due parodoi portano
l’una ai luoghi della città, l’altra al territorio esterno.
L’Eracle apre una vasta finestra sullo spazio retroscenico, ossia sull’interno
della casa: in pochi altri drammi l’interno è “aperto” agli spettatori in misura
altrettanto vistosa. Dopo che Eracle, impazzito, ha sterminato la sua famiglia, e dopo
che un servo è uscito per raccontare l’accaduto, la porta si apre e l’interno della casa
diviene visibile. Lo spettacolo che si presenta agli spettatori è complesso: si vedono i
corpi dei figli, che giacciono in diversi punti, il corpo di Megara e più all’interno un
tronco di colonna spezzata a cui è legato Eracle. Fino alla fine della tragedia la porta
resta aperta. Peraltro lo spazio scenico “esterno” rimane attivo: nel finale infatti
arriva, da una delle parodoi, Teseo; Eracle, dopo avere dialogato con l’amico e averne
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accettato l’ospitalità, lascia lo spazio interno e sorretto da Teseo si avvia verso Atene.
L’allestimento prevede anche l’uso della mechané, nella scena di Iris e Lissa.
Le due dee compaiono in alto, come si evince dal v. 817 (οἷον φάσμ᾿ ὑπερ δόμων
ὁρῶ): ciò significa che sono portate dalla macchina, della quale Iris si serve anche
per lasciare la scena volando nuovamente verso l’Olimpo, mentre Lissa entra in casa.
Probabilmente le due dee arrivavano sull’alto della casa e si sistemavano su un
piattaforma, dove rimanevano fino al momento dell’uscita (ai vv. 872-873 Lissa dice:
“Va’, nobile Iris, risali sull’Olimpo; io mi introdurrò, invisibile, nella casa di Eracle”).
In che modo, esattamente, Lissa entrasse nella casa, è impossibile dire.
Un altro aspetto singolare dell’allestimento è il sistema delle entrate e delle
uscite di Megara con i suoi figli e di Anfitrione. All’inizio del dramma essi sono
esclusi dalla loro stessa casa per ordine di Lico; poi, alla fine del primo episodio, Lico
concede loro di rientrare, ma solo per dare a Megara la possibilità di far indossare ai
figli gli ornamenti funebri, dal momento che la loro morte è decisa. All’inizio del
secondo episodio tutti e cinque escono di nuovo, pronti a morire; ma rientrano in casa
alla fine dell’episodio, dopo il ritorno di Eracle, quando la salvezza sembra certa
Eracle stesso sottolinea il rovesciamento della situazione ai vv. 622-624: “Ma su,
figli, accompagnate in casa vostro padre: il vostro rientro è certo più bello di quanto
fosse l’uscita”. La casa, quindi, è a lungo sospesa tra un valore positivo (luogo di
rifugio e di salvezza) e un valore negativo (spazio precluso, ovvero luogo di morte);
poi, con l’erompere della pazzia, la casa è distrutta, e nel finale Eracle e Anfitrione
sono privati di un loro proprio spazio. Il dramma racconta la distruzione della casa,
che si traduce anche nella distruzione dello spazio scenico: l’uscita finale di Eracle
suggella questa situazione.
Datazione – Non abbiamo informazioni dirette e oggettive sulla data di
rappresentazione. In questi casi la datazione può essere solo congetturale. Per le
tragedie di Euripide uno strumento efficace è il dato metrico, in particolare il
trattamento del trimetro giambico. Sulla base dei sette drammi databili con certezza,
gli studiosi hanno constatato che negli ultimi venti anni della sua carriera artistica
Euripide divenne sempre più “permissivo” (cioè, meno rigido) nell’uso di piedi
soluti. La proporzione di piedi soluti rispetto al totale dei trimetri giambici è del 6,2%
nell’Alcesti (438), del 6,6% nella Medea (431), del 4,3% nell’Ippolito (428), del
21,2% nelle Troiane (415), del 27,5% nell’Elena (412), del 39,4% nell’Oreste, del
37,6% nelle Baccanti (406). Il dato dell’Eracle corrisponde al 21,5%, il che
suggerisce una datazione vicina alle Troiane, forse il 416. Anche altri aspetti metrici
sembrano confermare questa datazione, in particolare la presenza di una sezione in
tetrametri trocaici (l’antico metro del dialogo tragico): sappiamo che Euripide, per un
vezzo arcaizzante, usò questo metro nei suoi ultimi drammi (non ce n’è traccia prima
delle Troiane).
Alcuni studiosi hanno voluto trovare elementi utili alla datazione anche in
possibili rferimenti agli eventi politici. Così, si è proposto come terminus ante quem
il 415, perché con il 416 (episodio di Milos) Euripide diventa pacifista (ne sarebbe
prova la trilogia delle Troiane, del 415 appunto), abbandonando quella simpatia
patriottica per Atene che fa spesso capolino nei drammi precedenti, nei quali Atene
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1-106 prologo
La scena è davanti alla reggia di Tebe. Anfitrione racconta, in una lunga rhesis,
l’antefatto: la decisione di Eracle di mettersi al servizio di Euristeo, re di Argo, per
assicurare a sé e al padre il diritto di tornare nella città da cui Anfitrione proviene.
L’eroe ha portato a termine tutte le fatiche impostegli da Euristeo [fin dall’inizio
Euripide enfatizza la novità mitica adottata: la strage dei figli segue le fatiche, non le
procede], tranne l’ultima, la discesa all’Ade e la cattura di Cerbero. Dall’Ade Eracle
non è ancora tornato; della sua prolungata assenza ha approfittato Lico, un forestiero
arrivato dall’Eubea, per uccidere il re di Tebe, Creonte, padre di Megara e suocero di
Eracle e impadronirsi del potere. Lico, per evitare che i figli di Eracle, diventati
adulti, possano decidere di vendicare il nonno, ha deciso di ucciderli; per impedirlo,
Anfitrione e Megara siedono supplici, con i bimbi, sull’altare di Zeus Sotér, nella
speranza che questo valga a proteggerli dalla violenza del tiranno. Dopo la rhesis, il
prologo è completato da un dialogo tra Anfitrione e Megara: il vecchio esorta la
nuora a nutrire speranze, poiché la condizione degli uomini è mutevole, né il successo
né la sventura durano a lungo.
138-347 primo episodio: arriva Lico, con le sue guardie, che rivolge parole sprezzanti
ad Anfitrione e Megara. Lico sostiene che la fama di Eracle è immeritata: non è un
grande eroe chi si è battuto solo con bestie selvagge, non con guerrieri, e usa come
arma preferita l’arco, evitando di battersi in prima fila, come fanno gli opliti.
Anfitrione replica, difendendo il figlio [il coraggio di Eracle è fuori discussione:
l’eroe ne ha dato prova, tra l’altro, combattendo al fianco degli dèi contro i Giganti].
Lico ordina ai suoi di raccogliere legna in quantità e di disporla intorno all’altare, per
dare fuoco poi alla catasta e ardere i supplici. Il Corifeo, con una rhesis insolitamente
lunga, si appella alla tradizione tebana contro il tiranno e proferisce minacce
(destinate a rimanere tali). Megara interviene, riconoscendo che tutto è perduto e
invitando Anfitrione ad accettare di morire con lei e con i suoi figli. Lico accorda ai
supplici il permesso di rientrare in casa (ne erano stati esclusi dal tiranno stesso) per
prepararsi alla morte, poi si allontana con i suoi uomini. Anfitrione (che pronuncia
amare parole all’indirizzo di Zeus, incapace di salvare il suo sangue), Megara e i
bimbi entrano nel palazzo.
348-441 primo stasimo: il Coro canta le gesta di Eracle, con un canto che incrocia il
lamento funebre e l’encomio; il corale, per ampiezza e caratteristiche formali, è un
unicum nella produzione euripidea.
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442-636 secondo episodio: escono dal palazzo Anfitrione, Megara e i figli; tutti in
abiti funebri. C’è prima una rhesis di Megara, che lamenta il doloroso cambiamento
nel corso delle loro vite: nei progetti del padre, i tre ragazzi avrebbero dovuto
diventare i sovrani di Argo, Tebe ed Ecalia; nelle attese della madre, avrebbero
dovuto sposare nobili e belle fanciulle di Atene, di Sparta e di Tebe; tutti questi
progetti si sono rivelati illusori. Anche Anfitrione constata la mutevolezza della sorte,
che in un solo giorno l’ha fatto precipitare nella rovina. Ma ecco arrivare, contro ogni
speranza, Eracle, di ritorno dall’Ade. L’eroe viene rapidamente informato di quanto
sta accadendo: la vicenda che ha portato Lico al potere, l’ingratitudine dei Tebani,
pronti a servire il nuovo padrone. Eracle rincuora i suoi ed entra con loro nel palazzo,
disponendosi allo scontro con Lico.
701-733 terzo episodio: arriva Lico, con il suo seguito, e dialoga con Anfitrione,
uscito dal palazzo. Il vecchio attira il tiranno nella trappola, dicendogli che Megara e
i figli sono rimasti dentro, distesi come supplici sull’altare di Estia. Lico si precipita
dentro, Anfitrione indugia ancora per qualche secondo, pregustando l’imminente
morte del tiranno, poi rientra anche lui nel palazzo.
822-873 quarto episodio: sopra il palazzo appaiono Iris e Lissa; Lissa, la dea della
follia, è stata mandata da Era per sconvolgere la mente di Eracle; è un compito che
Lissa esegue controvoglia ma, poiché deve obbedire agli ordini di Era, si mette subito
all’opera e descrive la trasformazione che sconvolge la mente dell’eroe. Poi le due
dee si allontanano: Iris risale all’Olimpo, Lissa entra nella casa.
875-921 serie di canti astrofici: il Coro commenta le grida di Anfitrione, che si odono
dall’interno, e si immagina la scena terribile che si sta svolgendo; entra un
Messaggero, che in preda all’emozione dialoga in metro lirico col Coro.
922-1015 quinto episodio: il Messaggero racconta, con una lunga rhesis, la scena
della follia di Eracle e l’uccisione dei figli e di Megara.
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1016-1087 intermezzo lirico: il Coro ricorda gli exempla delle Danaidi e di Procne; si
aprono le porte e l’interno diventa visibile, con i corpi degli uccisi, Eracle legato alla
colonna e i segni della distruzione; Anfitrione e il Coro, in dialogo lirico, attendono
con ansia il risveglio dell’eroe.
1088-1428 esodo: Eracle, destatosi, non ricorda ciò che è accaduto e non si rende
conto della sua situazione; è Anfitrione a rivelarglielo, in un dialogo dai toni
strazianti. Eracle vorrebbe uccidersi, ma arriva l’amico Teseo, venuto da Atene con
un esercito allo scopo di portare aiuto contro Lico. Anfitrione spiega a Teseo quel che
è accaduto (Eracle intanto se ne sta muto, con il capo avvolto nel mantello, pieno di
vergogna). Poi, per le insistenze di Teseo, Eracle si scopre il capo e affronta la
situazione. Segue un lungo dialogo tra i due eroi; Eracle racconta la sua carriera
gloriosa, conclusasi così ingloriosamente, e ribadisce che l’unica soluzione per lui è
darsi la morte. Teseo ribatte che sarebbe una scelta disonorevole e vile, poiché la vita,
con tutte le sue pene e le sue brutture, deve essere comunque accettata dai mortali;
invita dunque Eracle a venire ad Atene, dove potrà purificarsi e farsi apprezzare dai
cittadini. Eracle accetta e, dopo avere dato al padre disposizioni per la sepoltura dei
figli e di Megara, si allontana in compagnia dell’amico, cui si è completamente
affidato.
Trattamento del mito – Per certi versi Euripide si attiene a una versione tradizionale
e ormai consolidata del mito di Eracle. Ciò vale in particolare per il primo stasimo,
che contiene il catalogo degli athla: il leone nemeo (“liberò il bosco sacro a Zeus dal
leone”), i Centauri (“abbatté con l’arco la razza montana dei selvaggi Centauri”), la
cerva dalle corna dorate (“uccise la cerva dalle corna dorate e dal dorso maculato,
devastatrice del lavoro agricolo”), le cavalle di Diomede (“domò imbrigliandole le
cavalle di Diomede che, prive di morso, erano solite stritolare tra le mascelle cibo
cruento”), il brigante Cicno (“sulla costa dominata dal Pelio uccise con l’arco Cicno,
assassino di viandanti”), i pomi delle Esperidi (li può cogliere “uccidendo il serpente
dal dorso fulvo che li custodiva”), la liberazione del mare dai mostri (“e scese allora
negli abissi del mare, assicurando la bonaccia ai remi dei mortali”), Atlante (“per
sorreggere con forza di eroe le dimore degli dèi punteggiate di stelle”), la cintura
della regina delle Amazzoni (“ottenne il glorioso trofeo della vergine barbara e lo
custodisce a Micene”), l’idra di Lerna, le mandrie di Gerìone, il viaggio nell’Ade per
la cattura di Cerbero. Elemento comune a tutte le imprese è la tensione civilizzatrice:
Eracle è mosso dal desiderio di liberare la terra e il mare da creature mostruose o
pericolose che possono ostacolare i viaggi e gli spostamenti degli uomini. Il Coro
ribadisce questa idea in ogni strofe, o quasi; e Lissa ai vv. 851-853 la teorizza: “Ha
bonificato le regioni inaccessibili e il mare inospitale e da solo ha ripristinato il culto
divino che era messo in pericolo da uomini empi” (ἄβατον δὲ χώραν καὶ
θάλασσαν ἀγρίαν / ἐξημερώσας θεῶν ἀνέστησεν μόνος / τιμὰς πιτνούσας
ἀνοσίων ἀνδρῶν ὕπο). Non è difficile riconoscere in questo ritratto l’immagine
22
che Pindaro dà di Eracle: una figura quasi sacerdotale, totalmente devoto alla causa di
giustizia propugnata dal padre Zeus (il testo più significativo, cme si è visto, è il fr.
169a M.: “La legge, di tutti sovrana, dei mortali come degli immortali, guida con
altissima mano giustificando la violenza estrema. Ne do prova dalle fatiche di Eracle
[…]”). Anche nelle metope del tempio di Zeus a Olimpia la scelta iconografica è
ispirata alla stessa percezione dell’eroe come collaboratore degli dèi, sempre
impegnato in imprese intese a ristabilire una norma di civiltà.
I commentatori osservano che la formulazione usata da Lissa è molto vicina a
quella che Tucidide mette in bocca a Pericle a proposito della missione civilizzatrice
di Atene in II 41, 4: “Abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro
ardimento” (πᾶσαν μὲν θάλασσαν καὶ γῆν ἐσβατὸν τῇ ἡμετέρᾳ τόλμῃ
καταναγκάσαντες γενέσθαι). Si può pensare che negli anni periclei l’ideologia
democratica si fosse appropriata della figura di Eracle, proponendolo come un
modello dell’azione politica di Atene (“faro dell’Ellade”).
Nel prologo dell’Eracle le fatiche sono riassunte nella frase ἐξημερῶσαι
γαῖαν (v. 20), e la loro causa è la devozione filiale. Anfitrione spiega che suo figlio
ha accettato di mettersi al servizio di Euristeo, signore di Argo, per consentire a lui di
ritornare nella sua città di origine. Ciò è coerente con uno dei grandi temi del
dramma: il sentimento della paternità. Nell’Eracle i personaggi continuamente
discutono sul ruolo di un padre: dei due padri di Eracle, Zeus e Anfitrione, quale si
mostra più degno del proprio nome? Peraltro, a questa spiegazione delle fatiche in
termini squisitamente umani (che potrebbe essere una novità introdotta da Euripide)
Anfitrione ne aggiunge altre due, più tradizionali: l’ostilità di Era e l’inflessibilità del
destino.
In ogni caso, gli studiosi riconoscono nell’Eracle la presenza di tre innovazioni
nel trattamento della saga. La prima è la figura, e il ruolo, di Lico. Non c’è alcuna
menzione di questo personaggio nelle fonti anteriori ad Euripide; la sua presenza in
autori successivi (Igino, Seneca) dipende dal dramma euripideo. Lico viene
presentato ai vv. 26-34: “C’è un vecchio racconto dei Cadmei: che un tale Lico un
tempo era sposo di Dirce e regnava su questa città dalle sette torri prima che i sovrani
di questa terra fossero i due gemelli dai bianchi cavalli, Anfione e Zeto, nati da Zeus
[Anfione e Zeto sono i figli gemelli di Antiope e Zeus: Lico e Dirce perseguitano la
loro madre, Antiope, per molti anni; i due gemelli, allevati da un pastore e diventati
l’uno (Zeto) pastore a sua volta, l’altro (Anfione) musico, ritrovano la madre, la
vendicano e fondano le mura della città]. Suo figlio, che ha lo stesso nome del padre,
non Cadmeo ma originario dell’Eubea, ha ucciso Creonte e, dopo il delitto, regna sul
paese, poiché si è imposto alla città afflitta da una discordia civile”. Euripide
“inventa” Lico (omonimo di suo padre, anche lui avversario dei figli di Zeus) perché
gli serve per creare la situazione di pericolo iniziale: Eracle è assente, impegnato
nell’ultima delle sue fatiche, ma è necessario che i suoi familiari a Tebe siano
minacciati da qualcuni (che non può essere Euristeo, in questo momento della
vicenda).
La seconda, grande, innovazione è l’inversione della sequenza cronologica tra
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Il pio Pindaro rifiuta la versione che faceva di Eracle l’assassino dei figli: definendoli
come otto defunti “armati di bronzo”, il poeta li presenta come guerrieri, caduti
gloriosamente in battaglia.
Nelle fonti successive la sequenza follia – fatiche è fissa. I racconti più
dettagliati sono quelli di Diodoro Siculo e di Apollodoro. In particolare, Apollodoro
II 4, 12 spiega che dopo la battaglia contro i Minii l’eroe impazzì per volontà di Era e
gettò nel fuoco i figli avuti da Megara, uccidendoli; “Recatosi poi a Delfi, interrogò
il dio sul luogo in cui avrebbe dovuto prendere dimora. Fu allora che la Pizia per
prima si rivolse a lui col nome di Eracle (in precedenza veniva chiamato Alcide [dal
nonno Alceo, padre di Anfitrione]); essa gli ingiunse di stabilirsi a Tirinto al servizio
di Euristeo per dodici anni compiendo le dieci fatiche che gli sarebbero state imposte,
e predisse che dopo averle portate a compimento sarebbe diventato immortale”. Gli
studiosi sono per lo più d’accordo nel ritenere che questa cronologia follia (e
uccisione dei figli) – fatiche fosse la versione standard in età arcaica e classica, e che
sia stato Euripide a rovesciarla. L’innovazione euripidea avrebbe però trovato scarso
seguito, e la versione tradizionale avrebbe mantenuto la propria forza, anche dopo la
composizione della tragedia
La terza novità (connessa con la seconda, peraltro) è il ruolo di Teseo. Teseo
arriva in scena nel finale, per confortare Eracle e condurlo con sé ad Atene. Gli
studiosi pensano che il coinvolgimento di Teseo nella saga eraclea sia un’invenzione
di Euripide: un’invenzione, beninteso, non rivoluzionaria, ma anzi favorita dalla
tradizione letteraria. Nella tragedia attica la lode di Atene e la celebrazione della sua
identità mitica (di cui Teseo è figura capitale) sono temi ricorrenti. Anche nelle
Supplici (ca. 422) Teseo mette la forza della città al servizio di una causa di giustizia,
sempre in nome di una norma di pietà religiosa. Teseo ha un ruolo simile anche
nell’Edipo a Colono [successivo all’Eracle, naturalmente]: accoglie Edipo ad Atene,
proponendosi come pio mediatore tra piano umano e piano divino. Già ai vv. 618-621
la sua presenza è “caricata” nelle battute di dialogo tra padre e figlio:
Teseo viene esaltato perché proposto come “secondo Eracle”, anch’egli impegnato in
una vasta opera di ripulitura del mondo da mostri e criminali. Nelle metope del
Tesoro degli Ateniesi (costruito dopo il 490) erano rappresentate sui lati Nord e Ovest
la fatiche di Eracle, sui lati Sud ed Est l’Amazzonomachia di Teseo. Allo stesso
modo, nel tempio di Efesto (ca. 440) edificato nell’Agorà di Atene (il cosiddetto
Theseion) le metope raffiguravano le fatiche di Eracle e le fatiche di Teseo.
Sostanzialmente, Euripide consolida il radicamento ateniese della figura di
Eracle creando un contatto con Teseo (un Teseo, tra l’altro, in qualche modo
“creditore”, oltre che debitore, nei confronti dell’amico): e dobbiamo pensare che
questa sia un’operazione di politica culturale consapevole e funzionale alla lettura
ideologica dei due eroi propugnata dalla democrazia attica. La datazione al 416 circa
ne risulta confermata (o forse sarebbe meglio dire non ostacolata).
ΜΕΓΑΡΑ
60 ὦ πρέσβυ, Ταφίων ὅς ποτ’ ἐξεῖλες πόλιν
στρατηλατήσας κλεινὰ Καδμείων δορός,
ὡς οὐδὲν ἀνθρώποισι τῶν θείων σαφές.
ἐγὼ γὰρ οὔτ’ ἐς πατέρ’ ἀπηλάθην τύχης,
ὃς οὕνεκ’ ὄλβου μέγας ἐκομπάσθη ποτὲ
65 ἔχων τυραννίδ’, ἧς μακραὶ λόγχαι πέρι
πηδῶσ’ ἔρωτι σώματ’ εἰς εὐδαίμονα,
ἔχων δὲ τέκνα· κἄμ’ ἔδωκε παιδὶ σῶι,
ἐπίσημον εὐνὴν Ἡρακλεῖ συνοικίσας.
καὶ νῦν ἐκεῖνα μὲν θανόντ’ ἀνέπτατο,
70 ἐγὼ δὲ καὶ σὺ μέλλομεν θνήισκειν, γέρον,
οἵ θ’ Ἡράκλειοι παῖδες, οὓς ὑπὸ πτεροῖς
σώιζω νεοσσοὺς ὄρνις ὣς ὑφειμένους.
οἱ δ’ εἰς ἔλεγχον ἄλλος ἄλλοθεν πίτνων
Ὦ μῆτερ, αὐδᾶι, ποῖ πατὴρ ἄπεστι γῆς;
75 τί δρᾶι, πόθ’ ἥξει; τῶι νέωι δ’ ἐσφαλμένοι
ζητοῦσι τὸν τεκόντ’, ἐγὼ δὲ διαφέρω
λόγοισι μυθεύουσα. θαυμάζων δ’ ὅταν
πύλαι ψοφῶσι πᾶς ἀνίστησιν πόδα,
ὡς πρὸς πατρῶιον προσπεσούμενοι γόνυ.
80 νῦν οὖν τίν’ ἐλπίδ’ ἢ πόρον σωτηρίας
ἐξευμαρίζηι, πρέσβυ; πρὸς σὲ γὰρ βλέπω.
ὡς οὔτε γαίας ὅρι’ ἂν ἐκβαῖμεν λάθραι
(φυλακαὶ γὰρ ἡμῶν κρείσσονες κατ’ ἐξόδους)
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Prologo – La scena iniziale sfrutta il modulo della supplica all’altare, usato spesso
nell’incipit tragico. Nell’Andromaca la protagonista, nel momento in cui l’azione si
avvia, ha cercato rifugio insieme al figlio Molosso presso il tempietto di Teti,
costruito in ricordo delle nozze con Peleo (un luogo che ha un valore profondamente
simbolico per Andromaca: è una sorta di sacrario nuziale, che marca l’inizio di una
stirpe). Andromaca si sente infatti minacciata dalla gelosia di Ermione, che
approfittando dell’assenza di Neottolemo è decisa a sbarazzarsi della rivale. Molto
simile è l’incipit degli Eraclidi, in cui i figli di Eracle e Iolao siedono presso gli altari
di Zeus e degli altri dèi a Maratona per cercare protezione dalla violenza di Euristeo.
Questa forma di iketeia va distinta dall’altra, anch’essa tipica della tragedia, in cui il
supplice non cerca riparo fisico immediato per sé (ossia, non usa lo spazio sacro
come un taboo), ma con il richiamo alla sacralità di un luogo cerca di dare forza alla
propria preghiera: le madri dei caduti tebani all’inizio delle Supplici (la scena è a
Eleusi, presso l’altare di Demetra), ovvero la scena iniziale dell’Edipo Re.
I “figli dei figli” sono i nipoti, naturalmente. Ma la formulazione greca παῖδες
παίδων ovvero τέκνα τέκνων ha una grande pregnanza, perché rimanda alla
successione delle generazioni, quindi all’eredità materiale e spirituale che garantisce
agli uomini una forma (minore) di “immortalità”. Nell’epigramma 43 A-B di
Posidippo si dice che la defunta Nicostrata ha avuto la consolazione di “vedere i figli
dei figli” (τέκνων [τέκν’ ἐπ]ιδοῦσαν). La formulazione τέκνων τέκν’ ἐπιδεῖν è una
variazione del topos παῖδας παίδων ἐπιδεῖν che è ricorrente nelle iscrizioni funerarie a
partire dal IV secolo a.C.
Gli Sparti appartengono al ciclo tebano. Cadmo, mentre vagava alla ricerca di
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Europa, ebbe da Zeus l’ordine di uccidere un drago e di fondare una città (la futura
Tebe) nel luogo dello scontro. Su invito di Atena, Cadmo seminò nella terra i denti
del drago: ne nacquero gli Sparti (i “seminati”), ossia dei guerrieri armati che si
affrontarono in una battaglia sanguinosa quando Cadmo gettò una pietra in mezzo a
loro. Ne sopravvissero solo cinque, che furono i capostipiti delle cinque stirpi
aristocratiche di Tebe. La metafora della “messe” si applica molto facilmente alla
stirpe dei “seminati”. Nell’avvio del De Pythiae oraculis di Plutarco (un beota, al
quale il mito tebano è particolarmente caro) la stessa metafora è usato per i discorsi
che gli amici intrecciano mentre si accingono a visitare il tempio di Apollo: i
visitatori “seminano” i discorsi e poi li “mietono” quando sputano su “gonfi e
combattivi”.
La dualità tra appartenenza umana e destino divino è ciò che rende tragica
(ossia contraddittoria, enigmatica) la figura di Eracle: Eracle può soffrire perché è
uomo, e come tale è soggetto all'ostilità capricciosa degli dèi, e di Era in particolare;
ma, paradossalmente, proprio la sua sofferenza “insensata” gli vale la beatitudine e
l'immortalità. Eracle porta in sé la contraddizione perché ha due padri, uno mortale e
uno immortale. Il dramma dà perciò una parte grandissima ad Anfitrione, che ha
accettato con umiltà l'intromissione di Zeus nella sua vita coniugale e ne ha accolto il
frutto, Eracle appunto, come un suo proprio figliolo. Ciò emerge con chiarezza
proprio nell'incipit della tragedia: Anfitrione si presenta come il “compagno di letto”
di Zeus (σύλλεκτρον, v. 1) e insieme “padre di Eracle” (v. 3). Nella prima parte del
dramma, quando Eracle è lontano e i suoi figli sono minacciati da Lico, Anfitrione si
tiene in equilibrio tra queste due condizioni, accettandone l'ambiguità: così, in
risposta all'attacco verbale di Lico (che ha accusato Eracle di vigliaccheria), replica
“La porzione di paternità che compete a Zeus, sia Zeus stesso a difenderla; per ciò
che riguarda me […] non posso sopportare, Eracle, che si dica male di te” (vv. 170-
173).
Più avanti, quando la situazione sembra ormai senza scampo, Anfitrione
diventa più severo con Zeus, la cui indifferenza gli sembra incomprensibile: vv. 339-
347 “Zeus, invano dunque hai condiviso il mio letto coniugale, invano dichiaravo di
avere in comune con te la paternità di un figlio! Tu eri dunque meno amico di quanto
sembravi! Io, pur essendo un mortale, supero per virtù te, un grande dio: perché non
ho tradito i figli di Eracle. Tu sei stato capace di entrare di nascosto in un letto e di
fare tua la donna di un altro, senza che nessuno ti autorizzasse, ma non sei capace di
salvare i tuoi cari. Non sei un dio saggio, oppure non sei giusto”. Ma Eracle torna,
giusto in tempo utile per salvare i suoi, e la “metà” divina della sua paternità è
riaffermata dal Coro nei versi finali del III stasimo:
Quando però l’eroe stermina i suoi e minaccia di uccidere anche il padre, per
Anfitrione diventa molto difficile reggere il proprio ruolo paterno: alla gloria di una
“parentela” con Zeus subentra la desolazione, l’angoscia, la disperazione. Ma il
vecchio non abbandona la partita, e anzi riversa tenerezza su Eracle, reclamandolo
come suo: “Figlio, anche se sei nel male, sei mio” (v. 1113). A questo punto, è Eracle
a scegliere: se veramente egli fosse figlio di Zeus, allora l’ingiustizia della sua sorte
sarebbe intollerabile; ma il figlio di un uomo può resistere con fermezza ai mali della
vita, darsi ragione della rovina in cui è precipitato. Nel dialogo con Teseo Eracle
spiega che la causa delle sue sfortune è una condanna che lui, in quanto figlio di
Anfitrione, porta nel sangue: “Sono nato da quest’uomo che, contaminato per avere
ucciso il vecchio padre di mia madre, sposò Alcmena, colei che mi ha messo al
mondo. Quando le fondamenta di una stirpe non sono sane, è destino che i
discendenti subiscano sventure”. Eracle, cioè, ripudia Zeus e abbraccia Anfitrione
perché solo così può accettare e capire quel che gli è successo: “Ma tu, vecchio, non
sentirti offeso: mio padre io considero te, non Zeus” (vv. 1264-1265). Teseo replica
che non c’è vera differenza, nella capacità di fare il male e di sopportarne le
conseguenze, tra gli dèi e gli uomini: anche gli dèi commettono colpe esecrabili, e
tuttavia accettano i loro errori e abitano l’Olimpo; dunque [questo il pensiero
sottinteso] Eracle non deve rinunciare alla paternità divina per continuare a vivere.
Ma Eracle non è d’accordo (vv. 1341-1346): “Io non credo che gli dèi godano di
amplessi che non sono leciti […] Il dio, se veramente è un dio, non ha bisogno di
nulla. Questi sono racconti infami dei poeti”. L'eroe non potrebbe formulare in modo
più chiaro la propria decisione di rinunciare al proprio mito.
Difficilmente però questa è la prospettiva di Euripide, o comunque la lettura
che della vicenda di Eracle il drammaturgo vuole proporre al pubblico. Nel
trattamento della figura di Anfitrione Euripide sembra rifarsi allo schema concettuale
usato da Pindaro per spiegare la forza e la debolezza dell’eroe Eaco, capostipite degli
Egineti. Nell’VIII Olimpica viene evocata la scena della costruzione delle mura di
Troia, commissionata dal re Laomedonte ad Apollo e Poseidone. I due dèi decidono
di chiamare come collaboratore, associandolo all’impresa, il re di Egina Eaco, figlio
di Zeus, che per le sue doti di giustizia e di pietà si è reso degno di questo
grandissimo onore. Mentre i lavori fervono, accade un fatto straordinario: tre serpenti
si avventano contro le mura; due ricadono giù, stroncati, il terzo supera fischiando la
sommità del bastione. Apollo non ha difficoltà a interpretare il prodigio; rivolto a
Eaco gli dice: “Il presagio è per te: la città cadrà due volte, a opera di tuoi
discendenti, della prima e della terza generazione”. Apollo predice ciò che sta per
accadere: il mito infatti racconta che Troia è conquistata prima dalla spedizione
guidata da Eracle (di cui fanno parte anche Peleo e Telamone, figli di Eaco), poi – a
breve distanza di tempo – dagli Achei di Agamennone (e tra loro ci sono Achille e
Aiace, nipoti del re di Egina).
Il senso dell’episodio è facile da capire: Eaco ha il privilegio di cooperare con
gli dèi, ma la sua partecipazione all’impresa è proprio ciò che rende Troia
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vulnerabile. Il re di Egina trasferisce alla città la caducità iscritta in lui, nella sua
condizione di creatura mortale; se le mura fossero interamente manufatto divino,
nessuna mano umana potrebbe abbatterle. D’altra parte, nel momento in cui trasmette
alla rocca il germe della mortalità, l’eroe pone anche le basi per la gloria della sua
stirpe: saranno infatti i suoi discendenti a trarre vantaggio di quella debolezza. Simile
è il ruolo di Anfitrione: associato a Zeus nella procreazione di Eracle, l’eroe trasmette
al figlio la caducità insita in ogni mortale; ma la mortalità (con tutto ciò che alla
mortalità si accompagna) di Eracle è ciò che gli permette, alla fine, di guadagnarsi la
beatitudine eterna.
L’uccisione, anche involontaria, di un parente è nel mito arcaico la colpa che
più spessa spiega la fuga (e l’esilio) di un eroe dalla sua patria: è il caso, per esempio,
di Teoclimeno nel XV dell’Odissea.
Megara rievoca la massima gloria militare di Anfitrione, la vittoriosa
spedizione contro i Tafi. La sede dei Tafi erano le isolette situate tra Leucade e la
costa acarnana, la più grande delle quali è Meganisi, chiamata dalle fonti antiche
Tàphos o Thaphiùssa. I Tafi sono spesso identificati con i Teleboi, abitanti delle
medesime isole. I Teleboi entrano nella saga di Alcmena, Anfitrione ed Eracle:
rubano infatti le mandrie di Elettrione, padre di Alcmena e re di Argo, e le
consegnano a Polisseno, re degli Elei; Elettrione prepara una spedizione punitiva ma
muore (ucciso accidentalmente dal genero Anfitrione) prima di poter partire;
Alcmena impone al marito di portare a termine l’impresa, e Anfitrione con l’aiuto di
vari compagni invade le isole dei Tafi/Teleboi e le devasta, uccidendo il loro re (e si
fa riconsegnare gli armenti da Polisseno). Proprio nella notte successiva al suo ritorno
a Tebe Anfitrione si unisce ad Alcmena e concepisce Eracle. La vittoria, dunque, è
per Anfitrione anche l’origine di tutti i mali: se fosse morto durante la spedizione, lo
sventurato Eracle non sarebbe nato.
I episodio - I vv. 138-139 sono due trimetri pronunciati dal Corifeo per annunciare
l’arrivo in scena di Lico. Questo è normale nella tragedia attica (se ne occupano Di
Benedetto – Medda): quando un personaggio arriva da una parodos, è necessario
“coprire” il tempo che il personaggio impiega per raggiungere la scena.
Con il v. 140 inizia l’agone tra Lico e Anfitrione, che ha per tema la gloria di
Eracle (negata da Lico, affermata da Anfitrione. La definizione di “agone” sembra
l’unica possibile, anche se ci sono evidenti anomalie strutturali. La prima, e la più
evidente, è la clamorosa differenza nell’estensione delle due rheseis: il discorso di
Lico occupa 30 versi, quello di Anfitrione 66 (di norma, c’è un equilibrio molto
maggiore). Inoltre lo scontro verbale tra Lico e Anfitrione scatta ex abrupto, con le
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prime parole pronunciate dal tiranno subito dopo il suo ingresso in scena, e si
esaurisce nella coppia delle rheseis contrapposte (poiché le battute successive non
alimentano ulteriormente il dibattito, ma spostano l’attenzione sulla sorte dei
supplici). Lo schema dell’agone (un modulo scenico molto caro a Euripide e
applicato in quasi tutte le sue tragedie) prevede nella sua configurazione standard una
coppia di rheseis, pronunciate dai due interlocutori, con commenti intercalari del
Corifeo, una seconda coppia di interventi più brevi (che può anche mancare) e quindi
uno scambio di battute a botta e risposta, di solito con tono concitato o persino iroso.
Per esempio, l’agone dell’Alcesti vede contrapposti Admeto e Ferete, in occasione dei
funerali di Alcesti. Il vecchio dice di volere rendere onore alla donna che ha salvato la
vita di suo figlio, ma Admeto lo attacca duramente, con un lungo discorso di accusa;
Ferete replica, con altrettanta durezza (tra le due rheseis una coppia di versi
pronunciati dal Corifeo); seguono altri due versi del Corifeo, e poi una feroce
sticomitia, al termine della quale Ferete si allontana con parole di oscura minaccia, e
Admeto gli urla dietro insulti.
L’agone dell’Eracle è anomalo anche per la sua collocazione: non occupa il
centro del dramma, ma ne segna l’incipit. Non investe, inoltre, il nucleo problematico
della tragedia (qual è il destino di Eracle? o meglio: esiste un destino di Eracle?), ma
tocca un punto che può sembrare secondario, ossia il grado di coraggio che le dodici
fatiche hanno richiesto. In realtà però il discorso di Lico suggerisce, a suo modo, una
soluzione del problema. Mentre gli altri personaggi oscillano tra la “lettura” divina e
quella umana dell’eroe (Eracle glorioso figlio di Zeus, Eracle sventurato figlio di
Anfitrione), Lico afferma semplicemente che Eracle è un vigliacco buono a nulla;
quindi, non vale neanche la pena di preoccuparsi troppo di lui. La soluzione del
problema è posta nella negazione del problema stesso: Eracle non è nessuno, la sua
figura non suscita nessun dilemma.
La rhesis di Lico è articolata in tre momenti: ironica apostrofe ai supplici,
derisi per il loro assurdo e ingiustificato attaccamento alla vita (hanno riempito la
Grecia di vani lai, presentandosi l’uno come il glorioso padre e l’altra come la
gloriosa sposa di un grande eroe); sistematica denigrazione dell’areté di Eracle, che
ha combattuto contro animali, non contro guerrieri, e si è servito non della lancia ma
dell’arco, l’arma dei vigliacchi; difesa della propria scelta di uccidere gli Eraclidi
(che una volta cresciuti potrebbero decidere di vendicare la morte di Creonte).
Al v. 150 ἀρίστου φωτὸς ἐκλήθης δάμαρ è un riferimento al makarismòs, cioè
al momento del rito nuziale in cui la sposa è “chiamata felice” per la sorte che le è
toccata (anche Anfitrione ai vv. 10-12 ricorda le grida di giubilo con cui i Tebani
hanno accompagnato in corteo Megara alla casa di Eracle). Bond cita il passo delle
Troiane (v. 311) in cui Cassandra chiama “beata” (μακαρία) se stessa per le sue nozze
regali.
Lico argomenta che Eracle non è un campione invincibile (il kallinikos), ma un
vigliacco. È una sorta di epideixis, di esercizio retorico giocato sul paradosso, sulla
difesa di una tesi apparentemente insostenibile. Analoghe prove retoriche sono il
discorso di Cassandra nelle Troiane (i Troiani, vinti, sono stati più fortunati dei Greci,
vincitori) e la rhesis di Melanippe nel fr. 494 Ka. della Melanippe prigioniera (le
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[bisogna pregare Era perché Carasso possa tornare con la nave intatta]
e trovare noi in buona salute. Tutto
il resto affidiamolo agli dèi:
i venti impetuosi, infatti, si placano
presto nella bonaccia;
quelli a cui il re dell’Olimpo, divenuto
propizio, decide di girare il destino
via dagli affanni, questi sono felici
e fortunati.
commerciare con persone provenienti da tutta la Grecia, mentre per gli altri Ateniesi
vige ancora l’embargo. Arrivano prima un Megarese e poi un Tebano, ma le trattative
sono disturbate da due sicofanti: il primo è cacciato via in malo modo, minacciato di
botte (vv. 827-828 “Ti spacco la faccia! Vattene a fare il sicofante da un’altra parte”);
il secondo, Nicearco, è addirittura legato, imbavagliato e impacchettato come se fosse
un vaso. Il testo qui lascia capire come si svolge la scenetta; Diceopoli picchia
Nicearco, che protesta e si appella ai testimoni; poi con l’aiuto del Tebano lo
imbavaglia, per impedirgli di urlare, e lo avvolge stretto, così che non si possa
muovere. I segnali testuali fanno intendere che al malcapitato toccano altre botte in
testa. Un altro esempio è la parata dei cinque intrusi degli Uccelli. Appena costruita la
città celeste, arrivano personaggi che vorrebbero approfittare del nuovo mercato che
si è aperto: il poeta, l’oracolista, Metone, l’ispettore, il mercante di decreti. L’eroe
reagisce in maniera estremamente aggressiva, perché deve difendere lo spazio di
Nubicuculia (che gli appartiene) da estranei che mirano a colonizzarlo. Con l’unica
eccezione del poeta, gli intrusi vengono cacciati via in malo modo: il testo non ci
mette in condizione di ricostruire esattamente la gestualità, ma si può immaginare che
si ripeta la stessa dinamica, con il malcapitato che viene percosso e inseguito per lo
spazio scenico da un Pisetero sempre più indignato.
La formulazione del v. 251 δοῦλοι γεγῶτες τῆς ἐμῆς τυραννίδος è una sorta di
“sigillo” che sancisce lo statuto tirannico di Lico. Che un monarca consideri i
cittadini, e persino gli anziani dignitari della città, suoi schiavi, è la palese
dimostrazione della sua hybris. Lico considera tutti Tebani suoi schiavi perché si
attende che eseguano i suoi ordini; ma sente anche di poter “fare quello che vuole” di
loro, esattamente come un padrone dispone dei suoi servi a suo piacimento. È quello
che Polo nel Gorgia di Platone (469C) ribadisce a Socrate: “Io per tiranno intendo
quello che dicevo un attimo fa: è uno che in città può fare quel che gli piace:
uccidere, esiliare, tutto quello che gli viene in mente”.
I vv. 252-274 sono assegnati ad Amfitrione dal codice L, ma tutti gli editori
moderni ritengono che sia il coro a pronunciarli (possono essere solo i coreuti a dire,
per esempio, al v. 258 che Lico non sarà mai il loro padrone; e al v. 270 il coro
ricorda con sdegno il nome di “schiavo” che il tiranno ha usato nei suoi confronti al v.
251). Ciò significa che abbiamo a che fare con una sequenza di 17 trimetri giambici
recitati da coro: è la rhesis corale più lunga in tutto il corpus tragico (di solito il coro
interviene nelle parti cantate o nelle sticomitie). Tono e contenuti ricordano la scena
finale dell’Agamennone, in cui Egisto rivendica con orgoglio l’uccisione di
Agamennone e si presenta come il nuovo “padrone” della città, minacciando i vecchi
del coro che lo rimproverano per quel che ha fatto e per le intenzioni dispotiche che
manifesta.
Al v. 252 il coro sembra seguire una versione alternativa del mito, secondo la
quale è Ares a seminare i denti del serpente. Nella versione più diffusa, la semina è
opera di Cadmo (Ares ha comunque un ruolo, poiché è il dio a cui è consacrata la
fonte custodita dal serpente, ovvero è il padre del serpente).
Al v. 257 τῶν ἐμῶν è una congettura moderna (ce ne sono anche altre) al posto
del tràdito τῶν νέων: che Lico per attuare il suo colpo di Stato di sia appoggiato sui
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III episodio – La scena ha stretti punti contatto con Elettra 998-1171 (uccisione di
Clitennestra). a) Lico e Clitennestra sono fatti entrare in casa con dei pretesti (Elettra,
che sostiene di avere partorito da poco, chiede a sua madre di entrare per celebrare il
sacrificio per il decimo giorno del bimbo); b) le ultime parole rivolte alle vittime
designate sono simili (“Entra nella mia povera casa […] Offrirai agli dèi i sacrifici
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che devi”; “Tu dunque entra, dirigiti dove è destino”); c) breve canto corale; d) le
vittime gridano da dentro la casa; e) il coro commenta e si rivolge con un’apostrofe
diretta al morente.
Anfitrione attira nella trappola Lico facendogli credere che Megara abbia
cambiato idea, non voglia più consegnarsi spontaneamente alla morte ma ricorra di
nuovo alla supplica presso un luogo sacro (questa volta sedendo sui gradini del
focolare, consacrato a Estia). Nel dialogo col tiranno, Anfitrione è molto ambiguo,
finge sottomissione, rassegnazione, ma manda anche segnali (quasi a provocare
l’altro, nella certezza che l’ottuso Lico non capisca). Così, parla di Eracle come di un
defunto, vanamemnte invocato dalla sposa (καὶ τὸν θανόντα γ’ ἀνακαλεῖν μάτην
πόσιν) e impossibilitato a soccorrere i suoi, a meno di una – evidentemente
impossibile – resurrezione (εἴ γε μή τις θεῶν ἀναστήσειέ νιν). Anfitrione si rifiuta di
condurre fuori di casa Megara dicendo che, se lo facesse, si renderebbe complice di
un omicidio (μέτοχος ἂν εἴην τοῦ φόνου δράσας τόδε): anche in questa frase si
nasconde un doppio senso, perché Anfitrione sta, di fatto, collaborando all’uccisione
di Lico.
Al v. 711 δραστέον δ’ ἃ σοὶ δοκεῖ è beffardo: Lico ha presentato se stesso come
il padrone della città, capace di imporre ai cittadini / servi la sua volontà, di
costringerli a fare qual che più gli piace; Anfitrione finge di assecondare questa
presunzione.
La supplica presso il focolare ha precedenti omerici: nel VII dell’Odissea
Odisseo dopo avere abbracciato le ginocchia di Arete e averla pregata, si siede
supplice sopra la cenere del focolare. Anche Temistocle (Tucidide I 136), inseguito da
emissari degli Spartani e degli Ateniesi, si rifugia presso Admeto re dei Molossi:
supllica la moglie del re e poi, su consiglio della donna, prende tra le braccia il bimbo
del re e si pone a sedere presso il focolare.
Il verso di uscita di Lico (le ultime parole che il tiranno pronuncia in scena),
ossia ὡς ἂν σχολὴν λεύσσωμεν ἄσμενοι πόνων, ha un doppio senso sinistro: Lico
vuole trovare pace alle preoccupazioni, e in effetti la troverà, ma sarà la pace della
morte.
I vv. 726-727 sono pronunciati da Anfitrione mentre Lico lascia la scena e poi
scompare dentro il palazzo. Il seguito della battuta non è più destinato alle orecchie
del tiranno: Anfitrione si rivolge ai vecchi del coro e pregusta il piacere della
vendetta. I commentatori osservano che la prima frase (“va’ dove il destino ti
chiama”) è estremanente ambigua, e richiama situazioni simili, in cui una vittima
designata è oggetto di espressioni a doppio senso, comprensibili per il pubblico che
ha un’informazione completa, incomprensibili per la vittima (“ironia tragica”). In
Baccanti 965-971 Dioniso invita Penteo a seguirlo sul monte, e pronuncia frasi che
alludono all’imminente triste fine del suo nemico: “Seguimi, io sono la tua scorta.
Qualcun altro ti ricondurrà da lassù”. “Mia madre, vuoi dire”. “E sarai sotto gli occhi
di tutti”. “Proprio a questo mi avvio”. “Ritornerai trasportato …”. “Che finezza!”.
“… dalle braccia di tua madre”. “Che delizie!”. “Delizie, davvero”. “Quelle che mi
merito”. “Sei un uomo tremendo (δεινός), e ti avvi a cose tremende”. In Ecuba 1018-
1022 Ecuba invita Polimestore a entrare nella sua capanna, con il pretesto di
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consegnargli oggetti preziosi destinati a Polidoro, ma in realtà per vendicarsi con agio
di lui e dei suoi figli: “Vieni in casa; infatti gli Achei sono impazienti di sciogliere le
vele delle navi e tornare da Troia verso la patria. Fai quello che devi e così ritornerai
con i tuoi figli alla dimora in cui hai condotto il mio”. Anche nell’Agamennone ( vv.
958-974) Clitennestra dopo avere convinto il marito a entrare nel palazzo calpestando
i tappeti di porpora, lo accompagna con parole che possono sembrare bene auguranti
(“quando eri lontano, molti voti avevo fatto per te; ora che sei qui, è come se
l’inverno fosse rotto da un improvviso tepore”); poi, quando Agamennone non può
più sentire, dice “Zeus, Zeus che tutto compi: esaudisci la mia preghiera: fa’ che ciò
che deve accadere, accada”.
A proposito dell’espressione βρόχοισι δ’ ἀρκύων κεκλήισεται ξιφηφόροισι dei
vv. 729-730 (“sarà attratto nelle maglie di una rete irta di spade”) i commentatori
osservano che il termine di confronto più vicino è Medea 1277 ὡς ἐγγὺς ἤδη γ’ ἐσμὲν
ἀρκύων ξίφους: qui siamo nel momento della teknophonìa, e si ode da dentro la voce
di uno dei bimbi che grida “Ormai stiamo per essere trafitti dalla spada”. La Mirto
suggerisce che si alluda a una tecnica di caccia per la quale la preda viene catturata
dentro una rete e poi, mentre le maglie della rete la immobilizzano, viene trafitta con
la spada; qualcosa del genere succede anche ad Agamennone, come Clitennestra
stessa racconta:
La Mirto osserva che la Schadenfreude, cioè la gioia che si preva nel vedere un
nemico soffrire o morire, è un’idea molto radicata nel sentimento greco (la sapienza
arcaica spiega che la felicità consiste nl far bene agli amici e male ai nemici), e
ampiamente presente nella tragedia: cfr. per esempio Eraclidi 938-940 (parla il Servo,
che conduce Euristeo in catene alla presenza di Alcmena) “A me hanno dato ordine di
condurre costui al tuo cospetto, perché il tuo cuore si riempia di gioia: non c’è cosa
più dolce che vedere un nemico, un tempo fortunato, colpito dalla sventura”; Aiace
79 (Atena a Odisseo, a proposito dello spettacolo di Aiace folle) “Ridere dei nemici
non è la cosa più bella?”
Grida retrosceniche di Lico – Il Coro intona un canto, in cui manifesta la gioia
per il ritorno di Eracle e l’attesa per la punizione del tiranno, Proprio quando il
corifeo si avvicina alla porta del palazzo per capire meglio quanto sta accadendo
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dentro, si odono dall’interno prima i lamenti di Lico (v. 750), poi il suo grido (v. 754)
“Popolo di Cadmo, sono ucciso a tradimento!”; i Coreuti rispondono (vv. 755-756)
“E tu uccidevi a tua volta: rassegnati a subire la vendetta, a pagare la pena dei tuoi
misfatti”. Situazioni simili non sono infrequenti nella tragedia. Nell’Agamennone,
dopo che Cassandra è scomparsa dentro il palazzo, c’è una battuta gnomica del
Corifeo, poi si odono dall’interno le grida di Agamennone, colpito da Clitennestra:
“Ah! Sono colpito a morte” (v. 1343), “Ahimè, un altro, un altro colpo ancora” (v.
1345); il Coro reagisce con commenti diversi, pronunciati dai singoli coreuti. Nella
Medea, quando la protagonista entra in casa, determinata ormai a uccidere i figli, c’è
un breve canto in cui il Coro invoca il Sole perché intervenga a fermare la mano della
mostruosa erinni, poi si sentono dall’interno le grida dei due bimbi.
Anche nell’Ippolito la voce della Nutrice, dal retroscena, informa il Coro del suicidio
di Fedra; la scena è molto vivace perché tra interno e esterno si instaura un vero e
proprio dialogo, molto curioso e anomalo.
Il sacrificio si svolge secondo la prassi rituale, come nella scena di Pace 956-
962: Trigeo ha sistemato l’altare davanti alla porta, mentre il Servo è andato a
prendere il canestro con l’orzo, le bende e il coltello; Trigeo ordina al Servo di fare il
giro dell’altare, da destra, con il canestro e la brocca, poi dice: “Ecco, prendo il
tizzone e lo immergo” [l’immersione del tizzone, preso dal fuoco acceso sull’altare,
ha lo scopo di consacrare l’acqua, che viene poi usata per aspergere la vittima e i
partecipanti a rito].
A partire dal v. 930 c’è la descrizione dell’attacco di follia. I primi sintomi sono
fisici: il silenzio improvviso di Eracle e la sua immobilità, gli occhi stravolti e
iniettati di sangue, la bava alla bocca. Questa sintomatologia coincide con quella
descritta nel De morbo sacro 7: “[il malato] perde la parola, soffoca, gli esce schiuma
dalla bocca, i denti sono serrati, le braccia si contraggono con spasmi, gli occhi si
stravolgono”. I commentatori osservano che la pazzia di Eracle ha chiari punti di
contatto con altre scene tragiche, in cui pure sono descritti attacchi di follia. In
Baccanti 1118-1124 Penteo, caduto dal pino dove l’ha fatto salire Dioniso e catturato
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dalle baccanti inferocite, cerca di farsi riconoscere da sua madre Agave, ma questa ha
la mente dominata dalla follia, come dimostra l’aspetto stravolto del viso:
Euripide, Baccanti 1118-1124
“Madre, sono tuo figlio Penteo,
che hai generato nella casa di Echione.
Abbi pietà di me, mamma, non uccidere
tuo figlio per le sue colpe”.
Lei aveva la bava alla bocca, roteava
le pupille, era fuori di sé,
posseduta da Bacco: non l’ascoltava.
Descrizioni simili riguardano la follia di Oreste, assalito dalle Erinni. In Oreste 219-
220 il protagonista (che si è appena risvegliato da un breve sonno, dove ha trovato un
poco di requie) chiede a Elettra “Sostienimi, sì, sostienimi, e asciuga dalla mia povera
bocca e dai miei occhi la bava sanguinosa”; ma pochi attimi dopo un nuovo attacco di
follia lo investe, ed Elettra se ne rende subito conto (vv. 253-254): “Ahimè, fratello
mio, il tuo sguardo è stravolto; sei cambiato, sei di nuovo in preda alla follia, mentre
poca fa eri in te”. Nell’Ifigenia in Tauride il Bovaro racconta a Ifigenia la scena cui
ha assistito: lui e i suoi compagni hanno visto due stranieri, nascosti in una grotta in
riva al mare, e hanno pensato di prenderli per consegnarli alla dea. Ma uno spettacolo
straordinario si è offerto ai loro occhi: uno dei due stranieri (Oreste, naturalmente) ha
cominciato a scuotere il capo in su e in giù, ad agitare le braccia, percorse da un
tremito incontrollabile, a gridare frasi inconsulte, dicendosi perseguitato da belve
orribili. Poi si è lanciato contro i vitelli, colpendoli con la spada, nella convinzione di
difendersi dalle Erinni. I mandriani si sono disposti ad affrontarlo, per difendere le
loro bestie, ma lo straniero d’improvviso si è accasciato al suolo, col mento
gocciolante di bava (v. 308).
I sintomi descritti dal Messaggero si combinano con quelli “visti” da Lissa: i
sussulti del capo, il respiro irregolare, l’emissione di suoni simili a muggiti. Il riso
isterico (v. 935) ricorda i vv. 301-304 dell’Aiace: Tecmessa sta raccontando l’attacco
di follia dell’eroe che, dopo avere massacrato molti capi di bestiame, “balza fuori
dalla porta e rivolgendosi a un’ombra lancia insulti contro gli Atridi, contro Odisseo,
con grandi scoppi di risa perché ha saputo fargliela pagare”. Eracle non ha acora
perduto completamente il senno, quando si rivolge ad Anfitrione (riconoscendolo) e
gli dice di voler completare l’opera uccidendo anche il suo grande nemico, Euristeo.
Ma subito dopo ai sintomi fisici subentra la perdita del senno e lo stato allucinatorio:
Eracle crede di essere in viaggio per Micene, su un carro che esiste soltanto nella sua
immaginazione, e durante il fantomatico viaggio si illude di partecipare ai giochi
Istmici e di riportare una serie di vittorie. Bond propone un confronto con le
allucinazioni di Aiace, che insulta le ombre, o con la terribile scena delle Baccanti in
cui Agave, tenendo in mano la testa del figlio da lei massacrato, ne parla come se
fosse la testa di un leone. Se le prime allucinazioni di Eracle sono quasi comiche
(tanto che i servi ne ridono, pur provando anche paura), poi la scena si fa sempre più
cupa, fino a diventare atroce al momento dell’uccisione dei figli. A far precipitare la
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Le reazione dei servi sono spesso sfruttate da Euripide per dare profondità a una
narrazione. Un esempio è il racconto del Messaggero nella Medea; all’inizio i servi si
allietano per quella che sembra essere una riconciliazione familiare: vv. 1136-1143
“Quando i tuoi figli arrivarono col padre ed entrarono nella casa della sposa, noi
servi, che soffrivamo per i tuoi mali, ci rallegrammo […] uno baciava la mano dei
bambini, un altro il loro biondo capo; io stesso, con gioia, seguii i tuoi figli nelle
stanze delle donne”. Poi c’è invece la reazione d’orrore: vv. 1171-1173 “Una vecchia
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ancella, fοrse credendo che le fosse sopraggiunto il furore di Pan o di qualche altra
divinità, emise un grido”.
Ai vv. 961-962 καλλίνικος οὐδενὸς ἀκοὴν ὑπειπών è preferibile far dipendere
οὐδενὸς da ἀκοὴν: “dopo avere imposto il silenzio a nessuno [cioè, a un pubblico
immaginario]”. Al v. 975 ὦ τεκών è molto forte (molto più forte di quanto sarebbe ὦ
πάτερ): “tu che li hai messi al mondo”; Eracle riprende la stessa formulazione, per
marcare la sua colpa, ai vv. 1367-1368, in cui si rivolge ai figli uccisi dicendo ὦ
τέκν’, ὁ φύσας καὶ τεκὼν ὑμᾶς πατὴρ ἀπώλεσε.
Eracle colpisce il primo figliolo al fegato, cioè nel punto dove Odisseo ferisce
mortalmente Euriloco (la seconda vittima, dopo Antinoo) con una freccia in Odissea
XXII 83; nel IX canto Odisseo vorrebbe colpire al fegato Polifemo addormentato, ma
si trattiene pensando all’immane pietra che chiude la caverna. Il fegato è una sede
d’elezione per le ferite, nella poesia epica. Non esistono punti del corpo dove la
morte non possa “domare” il guerriero: il collo, il ventre, la fronte, la tempia, il
fianco, il petto, il polmone, l’inguine. E poi c’è il fegato, dove il colpo è sicuramente
mortale, nell’epica come nella tragedia. Non è solo una questione anatomica, ma è
qualcosa che appartiene all’“anatomia dell’immaginario”. Il fegato è organo vitale, e
in particolare è sede degli affetti: nella tragedia, quando un’emozione colpisce con
violenza un personaggio, si usa spesso la metafora del “colpo al fegato”; Platone, nel
Timeo, traccia una fantastica tripartizione del corpo, per la quale la testa è la sede
dell’anima razionale, il cuore è la sede dell’anima irascibile e il fegato la sede
dell’anima passionale (e il diaframma, i precordi, ha la funzione di tenere chiuse le
spinte della concupiscenza, così come l’istmo del collo divide il cuore dalla ragione).
È chiaro che il colpo al fegato non è un colpo come gli altri: non solo perché è
particolarmente efficace [Eracle stesso, quando decide di suicidarsi, immagina questo
tipo di morte: v. 1148 “affondare la spada nel fegato”; la stessa cosa pensano Oreste
nell’Oreste e Menelao nell’Elena], ma anche perché esprime la volontà di colpire
dove fa più male, dove l’annientamento del nemico è certo. Si colpisce al fegato colui
che più si odia, e il colpo è veicolo dell’avversione. Nelle Fenicie Polinice morente
riesce a colpire lì il fratello Eteocle; nella Medea la protagonista vuole annientare i
suoi nemici, il re di Corinto Creonte, sua figlia Creusa e Giasone, colpendoli al
fegato. Quindi, il colpo vibrato al fegato del figlioletto è un segno evidente dello
stravolgimento prodotto dalla pazzia. Nicole Loraux, Come uccidere tragicamente
una donna, considera il caso di Deianira nelle Trachinie, vv. 930-931: Deianira “si
trafigge il fianco con un pugnale a doppio taglio, ficcato tra il fegato e il diaframma”.
È una “morte virile”, per una donna che in tutta la prima parte del dramma ha
proposto se stessa come l’icona della femminilità (Deianira è colei che custodisce la
casa, nella trepida attesa del ritorno del marito); nel momento della morte, Deianira
ed Eracle si scambiano le parti: lei muore virilmente di lama, lui muore come una
donnicciola, agitandosi e piagnucolando sul letto.
Il nome μύδρος indica la massa di metallo (incandescente), il verbo
μυδροκτυπέω significa “battere il ferro incandescente” e μυδροκτύπος è l’aggettivo
derivato dal verbo; quindi al v. 992 μυδροκτύπον μίμημ’ vuol dire “al modo del
fabbro che batte il ferro”. Le ultime due “prodezze” di Eracle sono azioni egualmente
56
se qualcuno rinuncerà ai suoi giorni per lui; soltanto la sposa si offre per questo
sacrificio.
Nel dramma di Euripide il primo tema è sullo sfondo, appartiene all’antefatto,
mentre centrale è il secondo. Pare che Euripide sia stato l’unico dei tra grandi a
drammatizzare questo mito. Abbiamo invece notizia di una Alcesti del vecchio
Frinico, che dovette servirgli da modello: sappiamo che anche in Frinico compariva
Thanatos con la spada in pugno, pronto a tagliare i capelli di Alcesti. Della Alcesti di
Frinico abbiamo un solo frammento, molto esiguo, che sembra tratto dalla
descrizione dello scontro tra Eracle e il demone della morte. Se è davvero così, allora
anche l’intervento di Eracle non è una novità euripidea, ma un elemento ormai
tradizionale. Certo, il trattamento che Euripide fa del personaggio di Eracle, nel
contesto di una vicenda drammatica come quella di Alcesti, è una scelta molto
innovativa: è l’Eracle comico decontestualizzato e reimpiantato.
Alcuni passi famosi di Aristofane mostrano come l’Eracle morto di fame fosse
un personaggio fisso della commedia (e della tradizione letteraria) greca. Lo si
deduce, per esempio, dalla parabasi della Pace, dove il poeta esalta la novità della sua
arte comica:
Anche nel prologo delle Vespe tornano formulazioni simili: il servo Xantia si rivolge
direttamente al pubblico per introdurre l’argomento della commedia e spiega che non
ci saranno schiavi che buttano noci agli spettatori, né il solito Eracle a pancia vuota o
Euripide messo alla berlina, e neppure un furioso attacco contro Cleone:
È ben noto come, in realtà, anche Aristofane ricorra in più occasioni allo
stereotipo dell’Eracle affamato; in ogni caso, i versi della Pace e delle Vespe non
avrebbero senso se Eracle non fosse ormai diventato una sorta di maschera, un po’
come il Pulcinella eternamente affamato della tradizione popolare italiana. E in
effetti, i frammenti e le testimonianze vanno esattamente in questa direzione. La
nostra documentazione non ci consente di ricostruire nel dettaglio l’origine e lo
sviluppo della maschera di Eracle ghiottone: una storia del personaggio è impossibile.
Emerge però – in chiara filigrana – il ritratto del mangiatore impenitente, del
parassita che crede solo nella religione del ventre; o peggio, del furfante pronto a
tutto, a ogni forma di rapina e soperchieria, pur di riempirsi la pancia. La commedia,
nelle sue varie forme (siceliota, megarese, attica) e il dramma satiresco ripropongono
questo Eracle per tutto l’arco del V e del IV secolo.
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Della trama del Sileo di Euripide siamo informati da varie fonti, che ci
consentono di ricostruirne, almeno a grandi linee, la vicenda. Particolarmente utile è
un passo dei Prolegomena de comoedia Aristophanis di Tzetze:
Il pantagruelico banchetto con ogni probabilità non era rappresentato sulla scena, ma
raccontato da un personaggio che vi aveva assistito (Sileno, o forse Sileo stesso).
Appunto a questa rhesis può essere assegnato il fr. inc. fab. 907 Kannicht (la cui
appartenenza al Sileo lascia in realtà pochi dubbi):
Non contento di avere preso a Sileo il miglior bue e il miglior vino, Eracle si
prendeva forse anche sua figlia Xenodice (con il pretesto di consolarla); perlomeno,
questa è la situazione che sembra suggerita dal fr. 694 Kannicht:
Anche nella commedia del IV secolo la fame di Eracle è tema frequente. Nella
Esione Alessi metteva in scena la vicenda di questa figlia di Laomedonte, che il padre
dovette offrire in pasto – incatenata a uno scoglio – a un mostro marino: Eracle la
vide e la salvò, dopo che Laomedonte gli promise di dargliela in moglie. Nel fr. 88 un
personaggio (che rifaceva il verso al messaggero tragico, probabilmente) descrive la
smodatezza alimentare di Eracle; nel fr. 89 parla Esione stessa che, con comico
disappunto, deve constatare come la vista di una tavola imbandita per Eracle sia più
seducente di quella di una bella fanciulla.
In un’altra commedia di Alessi intitolata Lino c’è una scena spassosa in cui il
precettore di Eracle porta l’allievo in biblioteca e lo esorta a scegliersi un volume, a
suo piacere: la scelta, inevitabilmente, è un manuale di cucina.
D’altra parte, gli esempi che siamo venuti considerando danno solo una pallida
idea di quello che doveva essere il trattamento comico di Eracle. A questo pulviscolo
di frammenti si aggiungono però le scene godibilissime di Uccelli e Rane in cui
Aristofane, smentendo se stesso, sfrutta a fondo il tema della fame di Eracle, per la
delizia del pubblico.
Nel finale degli Uccelli arriva l’ambasceria divina, di cui fanno parte
Poseidone, Eracle e il dio barbaro Triballo. Pisetero ha buon gioco nel vincere la
resistenza dell’altero Poseidone, facendo leva sulla fame di Eracle, esasperata dal
lungo digiuno: davanti allo spettacolo dell’arrosto di uccelletti che Pisetero sta
preparando, Eracle è disposto ad accettare qualsiasi condizione (e a imporla ai
compagni di ambasceria) pur di essere invitato a pranzo.
Nelle Rane Dioniso è vestito da Eracle, per meglio affrontare il viaggio verso
l’Ade. Lo sfruttamento comico del personaggio comincia già nel prologo, quando
Dioniso va dal fratello per avere informazioni. Gli deve spiegare il motivo del
viaggio, che è il desiderio di richiamare in vita Euripide. Per Euripide Dioniso prova
un vero e proprio †meroj, e poiché l’altro non capisce in che senso è usata la parola,
Dioniso glielo spiega ricorrendo a un esempio alimentare:
Poi, quando Dioniso e Xantia arrivano all’Ade, il travestimento da Eracle (che i due
si scambiano) garantisce a chi lo porta un’accoglienza buona o cattiva, a seconda
dell’interlocutore e della traccia lasciata in lui dalla precedente venuta del vero
Eracle. Terrorizzato dalle minacce e dagli insulti di Eaco, Dioniso rifila la divisa di
Eracle a Xantia, il quale però ne sperimenta i vantaggi quando il Servo di Plutone lo
colma di cortesie e di moine; Dioniso, indispettito, si riappropria del travestimento,
ma deve affrontare la rabbia delle ostesse che Eracle aveva derubato e insolentito.
Aristofane rivela qui tutto il suo genio di drammaturgo; l’intera sequenza di queste
scene è una abilissima forma di metateatro: Xantia e Dioniso ‘interpretano’ a turno il
ruolo di Eracle, scambiandosene la maschera. Con un procedimento per molti versi
simile a quello degli Acarnesi, in cui Euripide è chiamato in scena, a mostrare in
presa diretta i ‘trucchi’ della drammaturgia tragica, Aristofane disvela qui i
procedimenti dell’arte comica, rendendo queste gags doppiamente godibili per il
pubblico.
[…]
OSTESSA Boccaccia schifosa, quanto mi piacerebbe spaccarti con una pietra quei denti che hanno
distrutto le mie provviste.
PLATANE Io invece ti scaraventerei volentieri in un burrone.
OSTESSA E io ti taglierei con la falce quel gargarozzo che si è trangugiato le mie trippe.
Per lo più, si ritiene che questa scena tra il Servo ed Eracle sia un espediente
buffonesco, usato da Euripide per allentare la tensione e creare le condizioni migliori
per una ripartenza drammatica, con l’epiparodo, il monologo di Admeto, lo stasimo e
la scena finale. Ma in realtà c’è molto di più. Consideriamo il discorso che Eracle
rivolge al Servo e la lezione di vita e di saggezza che vi è contenuta.
Euripide, Alcesti 779-802
Vieni qui, che penserò io a educarti meglio. Lo sai come vanno le cose per i mortali? Credo di no:
come potresti? E allora, stammi a sentire. Tutti i mortali li attende la morte, e non ce n’è uno che
sappia se domani sarà ancora vivo. Come sarà la nostra sorte, non si sa: è un gioco che non si
impara, non c’è arte che tenga. Dunque, ora che ti ho detto come stanno le cose, goditela, bevi,
pensa a vivere giorno per giorno, e affidati alla sorte. E poi onora Afrodite, la divinità più dolce per
i mortali: è una che ci vuole davvero bene! Lascia perdere tutto il resto e credi alle mie parole, se ti
sembra che dica cose giuste. Io sono convinto di sì. E allora dimentica i dispiaceri, mettiti una
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corona in testa e vieni a bere con noi; getta alle spalle l’infelicità. Sono sicuro che lo spumeggiare
del vino nella coppa ti farà navigare lontano da questi cupi pensieri che ti si leggono in viso. I
mortali devono avere pensieri mortali. Per la gente troppo seriosa e accigliata, a mio giudizio, la
vita non è una vera vita, ma una disgrazia!
Nei suoi canti, poi, il Coro delle Menadi più volte sottolinea la necessità per gli
uomini di rinunciare ad assurde velleità, per rifugiarsi nella fede serena di Bromio e
nella quotidianità gioiosa che il dio indica ai suoi fedeli.
Tre sono i punti della sapienza dionisiaca: l’accettazione del contingente (secondo il
principio del vivere “giorno per giorno”); la rinuncia a quanto supera la misura di un
mortale; l’abbandono a ciò che ‘scioglie i dolori’, cioè le dolcezze di Dioniso e
Afrodite. Non è difficile vedere che esattamente identica è la lezione impartita da
Eracle al Servo nel komos dell’Alcesti. Che cosa possiamo dedurne? Evidentemente,
il poeta intende caricare il suo personaggio con valori e significati ben precisi. Eracle
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non è solo il portatore di una naturalità sfrenata: è depositario di una sophìa, è colui
che conosce il ritmo della vita umana e la sua esatta misura. Come tale, è adatto a
neutralizzare l’astratta affettazione di Admeto.
Ciò ci riconduce alla natura dell’Alcesti, che è a tutti gli effetti una tragedia,
anche se molto particolare per tonalità e impianto. Il dramma è infatti costruito
sull’impossibile conflitto che marito e moglie ingaggiano col destino. I due coniugi
rispondono all’ananke (che impone loro la separazione della morte, radicale e
definitiva) con un contratto di amore eterno, che possa sopravvivere alla morte stessa.
Alcesti chiede, e ottiene, che nessun’altra donna prenda in futuro il suo posto;
Admeto si impegna a vivere nel perenne culto della sposa perduta: una scelta ‘folle’,
che comporta l’autocondanna a una morte artificiale, qual è un’esistenza fatta di
silenzio e di lutto. Admeto, cioè, si illude di poter contrastare il destino con la forza
della mente e del cuore, creando un “mondo perfetto” refrattario all’asprezza del
vivere.
Con l’agone tra Admeto e Ferete si conclude la prima parte del dramma: il
destino dei due sposi si è compiuto, la sventura è consumata. Ma il mathos dià pathos
non scatta: Admeto – il personaggio deputato, secondo le norme della tragedia, ad
apprendere la lezione dolorosa – è arroccato in un’assurda presunzione di
autosufficienza. Gli ingredienti tragici hanno portato la vicenda a un punto morto. A
scena vuota (anche il Coro ha lasciato l’orchestra, per accompagnare il corteo
funebre) si produce uno straordinario colpo di teatro: irrompe nella tragedia un
affamato Pulcinella. La vitalità dell’immaginario comico è chiamata a rimettere in
moto una tragodìa che sembra avere esaurito la sua forza. E gli effetti non si fanno
attendere, anche perché questo Pulcinella – la cui appartenenza comico satiresca è
definita con puntiglio quasi filologico – rivela ben presto una sapienza assolutamente
tragica. Eracle spazza via l’incastellatura ideologica in cui si è rifugiato Admeto,
perché sa che cos’è la vita. E sa che cos’è la morte. La corona di mirto che l’eroe si
pone in testa nel komos (v. 759) corrisponde al mirto con cui Alcesti incorona (v.
172) gli altari domestici quando si prepara a lasciarli per sempre. Eracle, che conosce
la strada per l’Ade, conosce la differenza abissale tra vivi e defunti, quella differenza
che Admeto vorrebbe ignorare: questa consapevolezza – oltre alla forza eroica – gli
permette di liberare Alcesti e di restituire alla vita l’amico.
Euripide chiama in causa la maschera di Eracle, lo stereotipo buffonesco privo
di profondità, per far entrare la verità in un palazzo dominato dalla finzione. Il
“buffone” Eracle diventa così il portatore del principio stesso della tragicità.
L’Alcesti, dunque, è bensì un esempio di intersezione tra tragedia e commedia, ma
non perché sia una “tragedia leggera” o per il lieto fine che la suggella. Euripide
applica una sorta di paratragedismo rovesciato: come in Aristofane l’innesto di
materiali tragici serve per “fare” la commedia, così qui la citazione comica –
introdotta con totale consapevolezza della semiotica teatrale – aiuta la tragedia a
recuperare il proprio senso più profondo.
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Il Filottete (409 a.C.) sembra risentire, in qualche modo, della ideologia politica
“eleusina” di concordia tra le fazioni e superamento della stasis. Naturalmente,
Sofocle è poeta “delfico”, crede negli oracoli e in una verità oracolare spesso
inattingibile alle categorie cognitive umane; quindi, la - eventuale - sensibilità
eleusina del Filottete non deve in nessun modo essere spiegata entro una polemica tra
Delfi ed Eleusi. Semplicemente, il clima politico dell’ultimo decennio del V secolo,
ad Atene, propone il superamento della linea periclea e post-periclea, e Sofocle è
come sempre sensibile al ritmo della polis e allo stato d’animo dei suoi concittadini.
La data del 409 è certa, perché comprovata dall’argumentum: ἐδιδάχθη ἐπὶ
Γλαυκίππου‧ πρῶτος ἦν Σοφοκλῆς (mancano i nomi dei poeti sconfitti e i titoli degli
altri drammi presentati al concorso). Il momento politico era di grande tensione.
L’eco dei successi di Alcibiade, al comando della flotta stanziata a Samo (primavera
410, battaglie di Sesto, Abido e Cizico), doveva essere ancora viva nell’inverno del
409, ed era certamente vivissima nell’estate del 410, quando la preparazione della
nuova stagione teatrale era nella sua fase decisiva. Ad Atene si moltiplicavano le
richieste di quanti volevano che Alcibiade fosse richiamato ad Atene.
Fra il 413 e il 410 Sofocle era stato coinvolto nelle iniziative degli oligarchi. Fu
infatti eletto nel 413 (all’età di 84 anni) membro del collegio dei dieci probuli
incaricati di prendere in mano una situazione gravemente compromessa. Sofocle non
era un oligarca (aveva collaborato con Pericle e con Nicia, era piuttosto un
democratico moderato); e d’altra parte nulla lascia pensare che il collegio, nella sua
conformazione iniziale, mirasse a correggere o alterare la costituzione democratica.
Fatto sta che pochi mesi dopo l’insediamento la commissione dei probuli fu allargata
a 30 membri, e fu approvato un decreto che dava loro mandato di riesaminare anche
le “patrie leggi”, ossia di modificare le istituzioni democratiche fissate da Clistene.
La via per il colpo di stato era aperta. I 30 commissari proposero l’abolizione di tutte
le norme di garanzia del regime democratico (tra cui la γραφὴ παρανόμων e il μισθός
per le cariche pubbliche): le proposte furono approvate dall’assemblea popolare in
una riunione straordinaria, che si tenne a Colono nel recinto sacro di Posidone. Nella
stessa ecclesia fu anche approvata una nuova forma di governo, il governo dei
Quattrocento, che ebbe pieni poteri.
A tutte queste misure Sofocle diede pieno appoggio. Non è facile decidere se lo
facesse per intima adesione o perché convinto che la gravità della situazione non
lasciasse altra via. Comunque, il governo dei Quattrocento dopo pochi mesi di azioni
autoritarie e violente, nel settembre del 411 lasciò il posto a un regime oligarchico più
moderato, il governo dei Cinquemila, e nella primavera del 410 grazie alla pressione
della flotta stanziata a Samo fu ristabilita la democrazia. Seguirono processi contro
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gli oligarchi che più si erano esposti, e molti furono condannati a morte. Anche
Pisandro fu citato in giudizio, e tentò di chiamare in causa Sofocle, forse nell’intento
di dimostrare che il colpo di mano era stato appoggiato anche da cittadini rispettabili,
di comprovata fede democratica. Aristotele nella Retorica (III 18) riporta un breve
scambio di battute tra i due:
Sofocle, quando Pisandro gli domandò se aveva condiviso con gli altri probuli la decisione di
istituire i Quattrocento, rispose di sì. “Perché? Non ti sembravano misure cattive?” Sofocle
disse di sì. “Tu dunque hai compiuto azioni cattive?” “Sì,” rispose “perché non c’erano
alternative migliori”.
Non si sa come si concluse il processo contro Pisandro. Sofocle certamente non subì
alcuna conseguenza, tanto è vero che nell’estate del 410 ottenne il coro dall’arconte e
pochi mesi dopo vinse alle Dionisie con il Filottete. Se si tiene conto di questo
contesto storico, riesce difficile pensare che la scelta del mito (e la sua
rielaborazione) non abbiano nulla a che fare con gli eventi di quei mesi. Nel 409 la
democrazia ateniese, da poco restaurata, è intenta a far giustizia di chi l’ha tradita e
tiene lo sguardo puntato su Alcibiade, in cui ripone tutte le sue speranze. Ma
Alcibiade ancora non si decide a rientrare: è ancora, ufficialmente, un esiliato, per la
condanna inflittagli a causa dello scandalo delle Erme, e teme possibili conseguenze.
È ben vero che un decreto dei Cinquemila (su proposta di Crizia e Teramene) ne
aveva disposto il ritorno già nel settembre 411; ma Alcibiade preferisce agire come
comandante della flotta, tenendosi alla larga da Atene. Il ritorno avviene solo
nell’estate del 408, in un clima di grande entusiasmo popolare (ne abbiamo il
racconto nelle Elleniche di Senofonte).
Quando si parla di un’interpretazione “politica” del Filottete, bisogna peraltro
intendersi. È improponibile una lettura che faccia di Filottete una sorta di doppio di
Alcibiade e che trasformi il dramma in un’allegoria: lo spregiudicato e arrogante
Alcibiade ha poco in comune con il vecchio “atleta della sofferenza” (se mai, il
cinismo della politica è rappresentato da Odisseo). Però la reintegrazione proposta
dalla tragedia (Filottete deporrà ogni proposito di rivalsa, andrà a Troia e sarà guarito
da Asclepio e poi darà un contributo decisivo alla vittoria, Odisseo e gli Achei
dimenticheranno il passato e accoglieranno il reietto come uno di loro, senza riserve)
delinea la speranza di Sofocle per la città: la vittoria nella guerra, dopo i successi di
Alcibiade, sembra di nuovo a portata di mano, ma bisogna che ciascuno faccia la sua
parte in spirito di totale collaborazione. Le parole d’ordine che Eracle pronuncia nel
finale del dramma (guarigione, aiuto reciproco, vittoria) corrispondono al programma
eleusino, condiviso ora da Sofocle dopo la fallita esperienza oligarchica: voltare
pagina, dimenticare tensioni e rancori, pensare solo al bene comune. Bisogna
considerare che la macchia di Alcibiade era di natura religiosa, e che nel dramma la
ferita di Filottete è provocata dal serpente custode del santuario di Crise, ed è una
punizione per il sacrilegio commesso dall’eroe. Insomma, non c’è una
sovrapposizione tra Alcibiade e Filottete, ma una drammatizzazione che utilizza - a
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La presentazione è essenziale, ma contiene già tutti gli elementi di base della saga: la
partecipazione all’impresa troiana, alla testa di abili arcieri, la ferita, l’abbandono a
Lemno. Nessuna menzione è fatta dell’arco donato da Eracle a Filottete; le quattro
città da cui provengono le truppe, sono collocabili subito a nord della Magnesia: più
tardi il regno di Filotette venne spostato più a sud, nella Malide (lungo il corso dello
Spercheo, che sfocia nel golfo Maliaco), per marcare il rapporto dell’eroe con Eracle,
dal momento che il monte Eta (su cui arse il rogo di Eracle, acceso da Filottete) sorge
poco lontano. Nel Catalogo, che è una rassegna degli Achei presenti, il poeta deve
sottolineare l’assenza di Filottete; peraltro, dicendo che gli Achei presto si sarebbero
ricordati di lui, Omero anticipa lo sviluppo della vicenda. Nell’Odissea la
reintegrazione di Filottete tra i combattenti è un elemento scontato, su cui il poeta non
sente neppure il dovere di soffermarsi: in VIII 219-220 Odisseo - quando accetta la
sfida lanciata dai giovani Feaci e dice che si misurerà con loro in tutte le prove -
spiega di essere un arciere provetto e ricorda le sue competizioni con Filottete
E Nestore nel III canto, raccontando a Telemaco il nostos degli Achei, dice che solo
pochi ebbero un lieto ritorno: oltre a Diomede e allo stesso Nestore (che fecero il
viaggio insieme), anche Neottolemo, Filottete (v. 190) e Idomeneo riuscirono a
riportare a casa sani e salvi tutti i compagni.
I poemi del Ciclo aggiungono poco a questa informazione di base. Nei Canti
Cipri (per quanto possiamo ricavare dal riassunto di Proclo) la ferita di Filottete era
prodotta da un serpente a Tenedo durante un banchetto, e per il fetore che ne
emanava i Greci decidevano di abbandonare l’infermo a Lemno:
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Argum. I Il. Parv. (Procl. Chrest. 206) = PEG 74, 6 ss. Bernabé
Seguono i quattro libri della Piccola Iliade di Lesche di Mitilene. Questo è il contenuto. C’è il
giudizio delle armi, e Odisseo vince per volere di Atena; Aiace impazzisce e fa strage del bottino
acheo e poi si uccide. In seguito Odisseo cattura in un’imboscata Eleno; questo fa una profezia sulla
presa della città, e perciò Diomede riporta Filottete da Lemno. Guarito da Macaone, Filottete uccide
in duello Alessandro. Menelao ne oltraggia il cadavere; i Troiani lo raccolgono e lo seppelliscono.
correva già il decimo anno di guerra e i Greci si erano persi d’animo, Calcante predisse che Troia
non avrebbe potuto essere presa se essi non fossero stati soccorsi dall’arco e dalle frecce di Eracle.
Udita la profezia, Odisseo si recò insieme a Diomede presso Filottete a Lemno e, dopo essersi
impadronito con l’inganno dell’arco e delle frecce, lo persuase a seguirli a Troia. E Filottete, giunto
a Troia, dopo essere stato risanato da Podalirio uccise Alessandro.
Plutarco, nelle Quaestiones Graecae 28, dà qualche particolare in più sulla vicenda di
Tenedo, ma sostanzialmente conferma la versione di Apollodoro: Tenes viene ucciso
da Achille, che non tiene conto degli avvertimenti di sua madre. Quindi, possiamo
dedurre che questo fosse un punto fisso della saga: i Greci offrivano un sacrificio ad
Apollo, per placare la sua ira contro Achille, e incaricavano Filottete dell’esecuzione;
ma durante la cerimonia Filottete era morso dal serpente. A seconda delle fonti, il rito
si svolgeva a Tenedo stessa oppure nell’isolotto di Crise, davanti alla statua della dea
Crise [questa è la variante seguita da Sofocle]; altre versioni collocavano il ferimento
a Lemno o a Imbro. Le ragioni per cui i Greci diedero a Filottete il compito di
officiare il rito, non sono ben chiare: forse per la comune origine tessala di Achille e
Filottete, forse per la loro amicizia, forse perché Filottete era già passato per
quell’isola durante la spedizione troiana di Eracle.
Quanto al richiamo di Filottete, le fonti sono concordi nel dire che avvenne
nell’ultimo anno di guerra, in conseguenza di una profezia, di Eleno [Piccola Iliade]
ovvero di Calcante [Apollodoro]; nella profezia, a seconda della versione, il segreto
che avrebbe consentito la vittoria era l’arco di Eracle oppure una combinazione di
elementi, tra cui anche l’arco. I Greci mandarono una delegazione a Lemno, a
prelevare l’infermo: la guidava Diomede [Piccola Iliade] o la collaudata coppia
Odisseo Diomede [Apollodoro]. A Troia Filottete veniva guarito da un Asclepiade
(Macaone, per lo più) e uccideva Paride, dando un contributo importante alla
conquista della città. Si discosta dalle altri fonti il racconto di Filostrato nell’Eroico:
qui si dice [per bocca di Protesilao] che Filottete non venne lasciato solo a Lemno,
ma aveva con sé uomini di Melibea; fu guarito dalla “terra di Lemno” e aiutò i Greci
conducendo una serie di operazioni contro le isole vicine alla Troade; alla fine,
Diomede e Neottolemo lo ricondussero a Troia, dopo avergli letto la profezia che lo
riguardava, e lì Filottete si ricoprì di gloria.
Ciascuno dei tre tragici compose un Filottete (a Lemno): tutti e tre i drammi erano
ancora accessibili a Dione di Prusa, intorno al 100 d.C. Il più antico era quello di
Eschilo (tra il 475 e il 459: la scelta di un soggetto lemnio è da mettere in rapporto
con il rinnovato interesse ateniese per l’isola, tolta ai Persiani nel 475); poi veniva
quello di Euripide (431, lo stesso anno della Medea [nell’hypothesis della Medea si
legge: “Fu rappresentata sotto l’arcontato di Pitodoro, nel primo anno della 87a
Olimpiade. Vinse Euforione; secondo Sofocle; terzo Euripide con Medea, Filottete,
Ditti e il dramma satiresco I mietitori”] e infine quello di Sofocle (409).
L’orazione 52 di Dione di Prusa è la fonte principale per la ricostruzione dei tre
drammi paralleli. Il Filottete di Eschilo è lodato da Dione per la sua semplicità, che
corrisponde alla fierezza rude del protagonista, personaggio elementare e “arcaico”. È
un dramma a due voci: l’interlocutore di Filottete è Odisseo, che pur non ricorrendo
70
episodio entrava Odisseo, che si presentava e spiegava quale fosse la sua missione
(qui si può inserire il fr. 301 Radt, se lo si attribuisce al Filottete: “Il dio apprezza la
menzogna detta a proposito”). Compariva Filottete (entrato nella sua dimora alla fine
del I episodio), che non riconosceva Odisseo, benché questi non fosse travestito né
alterato nella fisionomia (Dione); Odisseo gli si avvicinava e gli rivolgeva un
discorso menzognero, dicendo che Agamennone era morto, Odisseo in disgrazia,
l’esercito sull’orlo della rovina. Filottete si rallegrava delle notizie, dolendosi soltanto
della morte di Aiace (Odisseo ne parlava, per dare un’ulteriore prova della perfidia
degli Achei). Al II stasimo potrebbe essere assegnato un frammento papiraceo
(P.Oxy. 2256, fr. 71) in cui si lamenta la sorte di Aiace: “Il sire della terra battuta dai
flutti, baluardo della città, lo fecero perire i capi della scheira, i condottieri depositari
delle armi che egli sperava. In giudizio furono per Odisseo i capi con animo iniquo
[…] in preda a follia con la spada fece strage (?). Così anche il figlio famoso di
Telamone perì di mano propria”. Il frammento è sicuramente eschileo, Lloyd-Jones lo
assegna al Filottete (anche nel dramma di Sofocle Filottete apprende con dolore la
notizia della morte di Aiace). Nel III episodio Filottete era colto da una crisi del suo
male [forse, dopo che Odisseo aveva promesso di riportarlo in patria], cosa che
consentiva a Odisseo di impadronirsi dell’arco; i frammenti 254 e 255 vanno inseriti
probabilmente qui. Conclusione. Dione parla di una “persuasione costrittiva” che
induce Filottete a seguire Odisseo: così non è in Sofocle (dove interviene Eracle a
persuadere un agguerrito, e armato, Filottete), e perciò si può pensare che Dione si
riferisca ai drammi di Eschilo ed Euripide, in cui Filottete non aveva altra scelta,
dopo essere stato privato dell’arma che gli consentiva di sopravvivere. Si è anche
pensato, in Eschilo, all’intervento di una divinità, per esempio di Atena. Al finale è
assegnabile forse il fr. 251.
La saga di Filottete ispira sia la pittura vascolare attica sia l’arte italica. Ci sono
molti gioielli e manufatti etruschi e romani (anche una pittura pompeiana e statuette
in bronzo), databili tra il IV e il I secolo a.C., che ritraggono l’eroe mentre è morso
dal serpente, oppure seduto in solitudine o in piedi appoggiato a un bastone. A noi,
naturalmente, interessano però soprattutto le raffigurazioni che si riferiscono
all’ambasceria a Lemno e al furto dell’arco, perché possono essere ispirate al dramma
di Euripide. Utili sono in particolare quattro rilievi di urne etrusche da Volterra, tutte
databili alla II metà del II sec. a.C. Due (Volterra, Museo Guarnacci 332 e 426)
presentano Filottete al centro, in piedi davanti alla sua grotta, girato minacciosamente
verso due personaggi sulla destra, dei quali uno porta un berretto frigio [Paride?] e
l’altro uno scudo; sulla sinistra altri due personaggi, uno più anziano con pilos
[Odisseo] e l’altro più giovane [Diomede?]. Gli studiosi pensano, per lo più, che la
scena corrisponda al momento conclusivo dell’agone, con Filottete irato verso i
Troiani (in 332 sembra in procinto di colpirli con una freccia). Altri due rilievi
(Firenze, Museo Archeologico 5765, e Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca 24)
presentano la scena del furto: in 5765 Filottete è seduto al centro, davanti alla grotta,
appoggiato con entrambe le mani al bastone, e conversa con Odisseo sulla sinistra, in
pilos e clamide, mentre sulla destra un giovane ruba l’arco; in 24 Filottete si appoggia
al bastone con una sola mano e parla con Odisseo, che gli solleva il piede ferito,
distraendolo e dando modo al giovane sulla destra di rubare l’arma.
La testimonianza dei rilievi è utile, senza dubbio. Non sono scene teatrali
(raccontano il mito, non una performance), ma si rifanno alla tragedia di Euripide.
Ciò è particolarmente chiaro per i primi due: l’agone tra Odisseo e Paride era un
momento importante della sceneggiatura euripidea. Anche il furto dell’arco rimanda a
Euripide (in Eschilo è Odisseo ad agire, in Sofocle non c’è furto), ma è improbabile
che i due rilievi riproducano un momento dell’azione: il furto doveva avvenire fuori
scena e essere raccontato da un nunzio (Attore); quindi, qui gli artisti si ispirano alla
versione euripidea del mito più che alla drammatizzazione euripidea.
Rimangono problemi aperti, che la documentazione iconografica non è in
grado di risolvere (anzi, in certi casi aggroviglia ancor di più la matassa). Non
sappiamo quando né come si attuasse il riconoscimento di Odisseo. Secondo i più,
avveniva prima dell’agone; ma altre ricostruzioni lo spostano a un momento
successivo. Probabilmente era conseguente all’arrivo di Diomede, ma non sappiamo
come. L’altro grande punto interrogativo riguarda il furto: probabilmente era eseguito
da Diomede, probabilmente era extrascenico, probabilmente era favorito da un
attacco del male che colpiva Filotte, ma dobbiamo riconoscere che qualsiasi
ricostruzione dettagliata è arbitraria [i rilievi etruschi qui sono “esterni” al plot].
del mio arrivo e vada distrutto tutto il piano con il quale conto di impadronirmi ben presto di lui. Il
tuo compito ora è di eseguire il resto, ed esplorare dove sia una caverna con doppia entrata, tale che
in essa d’inverno è possibile sedersi al sole da due parti e d’estate la brezza che circola per entrambe
le aperture favorisce il sonno. Poco più in basso, a sinistra, se c’è ancora, dovresti scorgere una
fonte d’acqua sorgiva. Avvicinati alla rupe e, in silenzio, indicami con un cenno se lui vive ancora
in questo luogo, oppure altrove. Poi potrai udire quel che mi rimane da dirti, ed io ti spiegherò in
modo che tutto fra noi due proceda di comune accordo.
NEOTTOLEMO Odisseo, signore, il compito che mi hai assegnato non mi porterà lontano: credo di
vedere l’antro che hai descritto.
ODISSEO In alto o in basso? Non distinguo nulla.
NEOTTOLEMO Qui sopra, e non si sente nessun rumore di passi.
ODISSEO Bada che non si trovi dentro, immerso nel sonno.
NEOTTOLEMO Vedo un’abitazione vuota, senz’anima viva.
ODISSEO E non c’è all’interno nessun segno che sia abitata?
NEOTTOLEMO Sì, un giaciglio di foglie compresse, come per qualcuno che vi dimori.
ODISSEO Il resto è vuoto? Non c’è nient’altro lì dentro?
NEOTTOLEMO Una ciotola di legno greggio, opera di un inesperto artigiano, e inoltre questi
arnesi per accendere il fuoco.
ODISSEO Sono i suoi beni, quelli che mi indichi!
NEOTTOLEMO Uh, uh! Stesi ad asciugare ci sono anche questi stracci intrisi di un ripugnante
marciume.
ODISSEO Non vi sono dubbi: abita qui e non dev’essere lontano. Come potrebbe spingersi lontano
un uomo sofferente al piede per una antica piaga? Dev’essere uscito in cerca di cibo, o forse di
qualche erba che gli allevia il dolore e che egli sa dove trovare. Metti di guardia quest’uomo che hai
con te, perché non mi piombi addosso di sorpresa: preferirebbe certo mettere le mani su di me più
che su tutti gli altri Greci.
NEOTTOLEMO (Indicando il marinaio) Costui andrà a sorvegliare il passaggio. (Il marinaio esce)
(A Odisseo) Tu, intanto, se vuoi dirmi altro, continua pure.
ODISSEO Figlio di Achille, quanto allo scopo per cui sei venuto, occorre dar prova di valore, e non
soltanto con la forza fisica; ma se sentirai ordini insoliti, mai uditi prima, dovrai obbedire
ugualmente, in quanto sei qui alle mie dipendenze.
NEOTTOLEMO Che mi comandi, dunque?
ODISSΕΟ Devi raggirare la mente di Filottete parlandogli con accorti discorsi. Quando ti chiederà
chi sei e da dove vieni, rispondi pure che sei figlio di Achille: questo non va tenuto nascosto. Ma
dovrai dire che stai navigando verso casa, e che hai lasciato la flotta e l’esercito dei Greci per odio
immenso verso di loro, che prima con preghiere ti fecero venire dalla tua patria, poiché non avevano
altro mezzo per espugnare Troia, e poi, quando arrivasti, non ti ritennero degno delle armi di
Achille, che tu richiedevi con pieno diritto, e le assegnarono ad Odisseo: a questo punto aggiungi
pure contro di me tutte le più atroci ingiurie che vorrai. Non mi darai per questo dolore alcuno,
mentre, se non farai cosi. arrecherai grande pena a tutti i Greci, perché, se non riusciremo a
impadronirci del suo arco, tu non potrai conquistare la terra di Dardano. Ed ora sappi per quale
motivo a me non è possibile, come invece lo è per te, avvicinare costui senza correre rischi e senta
destargli sospetto. Tu ti sei posto in mare da solo, non legato a nessuno per giuramento, né spinto
dalla necessità, e nemmeno hai fatto parte della nostra prima spedizione: tutti fatti che io, invece,
non posso negare. Pertanto, se egli si accorgerà di me quando ha in mano l’arco, io sono perduto e
trascinerò anche te nella mia rovina. Ma questo appunto è lo stratagemma che bisogna escogitare,
perché tu possa rubargli l’arma invincibile. So bene che non sei incline per natura a mentire né a
tramare tali inganni: ma è dolce cosa la conquista della vittoria e tu devi avere questo coraggio.
Giusti ci riveleremo in un’altra occasione. Ora, per il breve spazio di un giorno, concediti a me
scordando il pudore; e poi, per il resto della vita, potrai farti chiamare il più onesto fra tutti gli
uomini.
79
NEOTTOLEMO Figlio di Laerte, quei discorsi che mi è penoso sentire, a maggior ragione mi
ripugna metterli in atto: non sono nato per imprese che richiedano perfidia, né io né, a quanto di
cono, colui che mi generò. Sono però pronto a portar via quest’uomo con la forza, e non con
l’inganno. Nel suo stato, con un piede solo, non potrà prevalere nella lotta su di noi che siamo in
tanti. Sono stato mandato qui per collaborare con te, è vero: non voglio però passare per traditore.
Preferisco, o signore, fallire agendo rettamente che vincere in modo disonesto.
ODISSEO Figlio di nobile padre, anch’io un tempo, quand’ero giovane, avevo tarda la lingua e
pronto il braccio. Ma ora, alla prova dell’esperienza, vedo che fra gli uomini è la lingua e non
l’azione ad avere il sopravvento in ogni cosa.
NEOTTOLEMO Che altro mi imponi se non di mentire?
ODISSEO Io ti dico di prendere Filottete con l’inganno.
NEOTTOLEMO Perché con l’inganno e non con la persuasione?
ODISSEO Non si lascerà persuadere, e con la forza non riusciresti a prenderlo.
NEOTTOLEMO Possiede una forza così tremenda in cui confidare?
ODISSEO Si, frecce infallibili, che portano la morte.
NEOTTOLEMO Non si può osare nemmeno d’avvicinarlo?
ODISSEO No, se non lo si prende con l’inganno, come ti dico.
NEOTTOLEMO Non ritieni vergognoso dire menzogne?
ODISSEO No, se la menzogna apporta salvezza.
NEOTTOLEMO Ma con che faccia un uomo oserà raccontare simili falsità?
ODISSEO Quando si fa qualcosa in vista di un profitto, non è il caso di esitare.
NEOTTOLEMO Ma che profitto ne traggo io, se costui viene a Troia?
ODISSEO Questo suo arco è l’unico che possa espugnare la città.
NEOTTOLEMO Non dicevate che sarei stato io il vincitore?
ODISSEO Né tu senza l’arco, né l’arco senza di te.
NEOTTOLEMO Se è così, bisogna dargli la caccia.
ODISSEO Se lo farai ne avrai doppia ricompensa.
NEOTTOLEMO Quale? Se lo sapessi, non mi rifiuterei.
ODISSEO Avrai fama di uomo accorto e di valoroso insieme.
NEOTTOLEMO E sia. Lo farò, liberandomi da ogni ritegno.
OD1SSEO Ricordi i consigli che ti ho dato?
NEOTTOLEMO Non temere, una volta che ho dato il mio consenso.
ODISSEO Tu rimani qui ad aspettarlo. Io me ne andrò per non essere visto e rimanderò la nostra
sentinella alla nave. Se mi sembrerà che indugiate troppo, faro tornare lo stesso uomo di nuovo qui,
travestito da mercante in modo da sembrare uno sconosciuto. Egli parlerà abilmente, e tu, figliolo,
sappi cogliere gli utili appigli in ciò che andrà via via dicendo. Ora vado alla nave e ti affido questa
impresa. Siano nostre guide Ermes, dio degli inganni, che accompagna gli uomini nei loro intrighi,
e Atena vittoriosa. protettrice della città, che sempre mi assiste. (Esce)
(Entra il CORO, formato da marinai di Neottolemo)
CORO Che cosa devo nascondere, signore,
che cosa dire.
io straniero in terra straniera.
ad un uomo sospettoso? Spiegami tu.
Un’arte che vince ogni altra arte,
una mente superiore
è in colui che regge nelle sue mani
lo scettro divino di Zeus.
Ora, questo potere supremo si è trasmesso
dagli avi a te, figlio mio:
dimmi dunque
in che cosa devo servirti.
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NEOTTOLEMO Per il momento vuoi forse vedere il luogo in cui abita, in questo estremo lembo di
terra. Guarda pure, senza timore. Quando poi giungerà il tremendo viandante, ti ritirerai dal suo
antro, avanzando ai cenni che di volta in volta ti farò, e cercherai di assecondarmi secondo le
necessità del momento.
CORO Già da tempo mi sta a cuore
ciò che tu mi affidi, signore,
di vegliare con occhio attento
soprattutto sul tuo interesse.
Ma ora dimmi in quale riparo
egli ha fissato la propria dimora
e dove egli si trova in questo momento.
È opportuno che io lo sappia,
perché non ci piombi addosso
di sorpresa da qualche parte.
Dove sta? Qual è la sua abitazione?
Dove muove i suoi passi, dentro o fuori?
NEOTTOLEMO La sua casa è questa che vedi, a due porte, un giaciglio di roccia.
CORIFEO Ma lui, lo sventurato, dov’è?
NEOTTOLEMO Per me è chiaro che in cerca di cibo trascina il suo passo in qualche luogo qui
vicino. Questa, dicono, è la vita che egli, misero, miseramente conduce, andando a caccia con le sue
frecce alate, senza che nessuno gli si avvicini per sanare i suoi mali.
CORO Ho pietà di lui, al pensare come,
senza un uomo al mondo che lo assista,
senza aver accanto a sé uno sguardo amico,
infelice, sempre solo,
soffre per un male selvaggio
ed è in preda alla disperazione
per ogni nuova necessità che insorga.
Come può, come può, infelice, resistere?
O miseri accorgimenti umani,
o sventurate stirpi dei mortali,
la cui vita sfugge alla misura comune!
Quest’uomo, non secondo forse a nessuno
per nobiltà di stirpe,
privo di ogni conforto nella vita,
giace qui solo, abbandonato da tutti,
in compagnia di belve maculate ed irsute,
miserando nelle sofferenze
e nella fame più aspra,
oppresso da angosce senza rimedio.
E l’eco dalla libera voce
va spargendo lontano
i suoi amari lamenti.
NEOTTOLEMO Nulla di tutto questo mi sorprende. Per volere divino, se ben comprendo,
ricaddero su di lui quelle antiche sofferenze inflitte dalla spietata Crise; e anche le pene da cui è ora
tormentato, privo di chi lo assista, non possono non essere nel disegno di un qualche dio, perché
costui non abbia a scagliare contro Troia i suoi invincibili dardi divini, prima che sia giunto il tempo
in cui è destino che la città cada per mano loro.
CORO Silenzio, figliolo!
NEOTTOLEMO Che c’è?
CORO Si è levato improvviso un suono,
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quale si accompagna
a persona che soffre,
da questo, forse, o da quel lato.
Sì, mi percuote, mi percuote
la viva voce di qualcuno
che si trascina a fatica:
non m’inganna, di lontano,
il grido affannoso
di un uomo spossato.
Ecco, risuona distinto.
CORO Rivolgi, figlio, la mente...
NEOTTOLEMO A che cosa?
CORO ... a nuovi pensieri:
non è più lontano, ma qui vicino,
e non modula un canto sulla zampogna
come un pastore errante per i campi,
ma forse inciampando sotto il peso del dolore
lancia un grido che risuona in lontananza,
o forse perché scorge la nave
ormeggiata sul lido inospitale.
Tremendo è il suo urlo.
(Entra FILOTTE TE)
FILOTTETE Stranieri! Chi siete voi che approdaste per nave a questa terra importuosa e deserta?
Da che patria o stirpe dovrei dirvi discesi? L’aspetto delle vostre vesti è quello della Grecia a me
carissima, ma vorrei sentire la vostra voce. Non rimanete esitanti e turbati, per timore del mio
aspetto selvaggio, ma siate mossi a pietà per un uomo infelice, così solo, abbandonato, senza il
conforto di un amico. Parlate, se venite come amici, ad uno sventurato che vi invoca. Rispondete,
dunque. Non è giusto che mi neghiate questo, né che io lo neghi a voi.
NEOTFOLEMO Ebbene, straniero, sappi prima di tutto, poiché tu lo desideri, che siamo greci.
FILOTTETE O suono dolcissimo! O gioia di sentirsi rivolgere la parola, dopo tanto tempo, da un
uomo come te! E quale, figlio mio, quale necessità ti spinse a questa terra, ti fece approdare
qui? quale intento? quale dei venti, caro a me sopra ogni altro? Dimmi ogni cosa, perché io sappia
chi sei.
NEOTTOLEMO Sono nativo di Sciro circondata dal mare, e sto navigando verso casa. Sono il
figlio di Achille, Neottolemo. Ora sai tutto.
FILOTLETE Figlio di un padre a me tanto caro e di una terra anch’essa cara, tu che fosti allevato
dal vecchio Licomede, per quale motivo sei approdato a quest’isola e da dove vieni?
NEOTTOLEMO Sto tornando ora da Ilio.
FILOTTETE Che hai detto? Non ti eri imbarcato con noi all’inizio della spedizione per Troia.
NEOTTOLEMO Prendesti parte anche tu a quell’impresa?
FILOTTETE Figlio mio, non sai chi hai davanti agli occhi?
NEOTTOLEMO Come posso conoscere uno che non ho mai visto?
FILOTTETE Nemmeno il mio nome hai mai sentito? Neppure la fama dei mali in cui mi
consumavo?
NEOTTOLEMO Credimi, non so nulla di ciò che dici.
FILOTTETE Quanto sono sventurato e inviso agli dèi, se nemmeno la notizia dello stato in cui sono
è mai giunta nella mia patria né in altro luogo della Grecia! Coloro che empiamente mi
abbandonarono ridono in silenzio, mentre il mio male è sempre più rigoglioso e va crescendo ogni
giorno. Figlio mio, tu che avesti per padre Achille, io sono colui che forse hai sentito nomina re
come possessore delle armi di Eracle, il figlio di Peante, Filottete. I due comandanti e il re, dei
Cefalleni mi hanno indegnamente gettato qui, in questa solitudine, consumato da un male selvaggio,
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stroncato dal morso rabbioso di una vipera assassina. Solo, con la mia piaga, qui mi lasciarono,
figlio, e partirono, nel giorno in cui dall’isola di Crise con le loro navi approdarono a questa terra.
Con gioia, non appena mi videro dormire, dopo tanti travagli, sulla costa al riparo di una roccia, mi
abbandonarono e presero il mare, lasciandomi accanto, come a un miserabile, pochi stracci e un po’
di cibo, per sostentarmi appena. Possa loro toccare una sorte simile! Figlio, quale pensi che fu il mio
ri sveglio dal sonno, dopo che essi se ne furono andati? Quali lacrime piansi, quali gemiti di
angoscia levai? Vedere le navi, con le quali ero partito, tutte scomparse, e non un uomo qui
nell’isola, nessuno che mi assistesse, nessuno che potesse, quando soffrivo, darmi sostegno nella
mia malattia! Per quanto scrutassi tutt’intorno, non scoprivo nient’altro che dolore: questo sì, in
grande abbondanza, figlio mio. Il tempo passava per me, giorno dopo giorno, e bisognava che
provvedessi a tutto da solo, sotto questo misero tetto. Per la mia fame, quest’arco mi procurava il
necessario, trafiggendo le alate colombe; ma ad ogni preda che la freccia, balzando dalla corda tesa,
colpiva, dovevo io stesso, sciagurato, spingermi arrancando fin li, strascicando il mio povero pie de.
Se avevo bisogno di procurarmi un po’ da bere, oppure di spaccare legna quando s’era sparsa la
brina, come accade in inverno, dovevo trascinarmi penosamente e ingegnarmi in tutto. E poi non
c’era il fuoco; ma sfregando pietra contro pietra, con fatica, feci sprizzare l’occulta scintilla: quella
che mi conserva ancora in vita. L’antro che mi fa da casa mi offre, con il fuoco, tutto il necessario,
tranne la guarigione dal mio male. E ora, figlio, voglio anche parlarti di quest’isola. Nessun
navigante vi Si accosta di sua volontà: non c’è approdo, non c’è possibilità, per chi vi sbarchi, di
vendere e guadagnare, e nemmeno di trovare ospitalità. Questa non è una meta per naviganti
accorti. E naturalmente accaduto che qualcuno vi approdasse suo malgrado: casi di questo genere
possono verificarsi spesso nella lunga vita di un uomo. Costoro, quando arrivano, figlio mio, a
parole mi mostra no compassione, e talvolta mi danno anche, per pietà, un po’ di cibo o qualche
veste. C’è però una cosa che nessuno, quando ne parlo, vuol fare: condurmi in salvo a casa; e io
resto qui a consumarmi, sventurato — questo è ormai il decimo anno — nella fame, nelle
sofferenze, nutrendo il male che mi divora. Questo mi hanno fatto gli Atridi e il forte Odisseo, o
figlio: possano gli dèi del l’Olimpo ripagarli un giorno con altrettante pene.
CORIFEO Come gli altri stranieri che qui giunsero, è naturale che anch’io, figlio di Peante, provi
pietà per te.
NEOTTOLEMO Ed io posso a mia volta testimoniare in favore dei tuoi discorsi. So che sono veri,
per aver io stesso sperimentato la perfidia degli Atridi e del forte Odisseo.
FILOTTETE Hai anche tu motivo di accusare i maledetti Atridi, di essere sdegnato per un torto
subìto?
NEOTTOLEMO Mi sia concesso, un giorno, di sfogare il mio sdegno con questo braccio, perché
Sparta e Micene sappiano che anche Sciro è madre di forti!
FILOTTETE Ben detto, figlio mio. Ma perché sei giunto qui con tanta rabbia contro di loro? Di che
cosa li accusi?
NEOTTOLEMO Figlio di Peante, ti dirò, ma mi costerà fatica, gli affronti che ricevetti da loro
dopo il mio arrivo. Quando il fato decise che Achille morisse.
FILOTTETE Ahimè! Non parlare oltre, finché io non abbia bene inteso questa prima notizia: è
morto il figlio di Peleo?
NEOTTOLEMO È morto, per mano non di un uomo, ma di un dio:
abbattuto, come dicono, da un dardo di Febo.
FILOTTETE Nobile l’uccisore, nobile l’ucciso. Non so, figlio, se io debba prima chiederti degli
affronti patiti oppure piangere quell’eroe.
NEOTTOLEMO Penso che ti bastino già le tue disgrazie, o infelice, senza che tu debba piangere
per quelle altrui.
FILOTTETE Hai ragione. Riprendi allora il tuo racconto e dimmi in che cosa ti offesero.
NEOTTOLEMO Vennero un giorno da me, su una nave dai vivi colori, il divino Odisseo e il
precettore di mio padre, dicendo, vero o falso che fosse, che una volta morto mio padre non era
consentito a nessun altro se non a me di conquistare la rocca di Troia. Facendomi questi discorsi, o
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FILOTTETE Ahimè, hai nominato i due uomini che meno di ogni altro avrei voluto sapere morti!
Ah, che cosa ci si deve aspetta re, quando costoro non esistono più, mentre sopravvive Odisseo, che
anche in questo caso avrebbe dovuto essere tra i morti al posto loro?
NEOTTOLEMO È un lottatore scaltro. Ma anche le menti accorte, Filottete, spesso trovano
inciampo.
FILOTTETE E dimmi, per gli dèi: dov’era, in tale circostanza, Patroclo, la persona più cara a tuo
padre?
NEOTTOLEMO Anche lui era morto. Ti dirò in breve: la guerra non si prende mai, di sua scelta,
nessun malvagio, ma sempre i migliori.
FILOTTETE Posso confermarlo anch’io. Per questo appunto voglio chiederti di un uomo indegno,
ma abile nel parlare e scaltro: che ne è di lui?
NEOTTOLEMO Di chi altro parli se non di Odisseo?
FILOTTETE Non mi riferivo a lui. C’era un certo Tersite, che non si sarebbe mai contentato di
parlare una volta soltanto là dove nessuno gli consentiva di aprir bocca. Sai se costui è vivo?
NEOTFOLEMO Io non l’ho visto, ma ho sentito dire che vive ancora.
FILOTTETE Così doveva essere! Nulla di ciò che è spregevole è mai andato in rovina; al contrario,
gli dèi lo circondano di ogni cura, e godono di far risalire dall’Ade quanto c’è di perverso e
disonesto, mentre vi mandano sempre ciò che è giustizia e rettitudine. Come si devono interpretare
queste cose, come approvarle, se, quando voglio lodare le opere divine, trovo che gli dèi sono
malvagi?
NEOTTOLEMO Per quanto mi riguarda, figlio di padre eteo, d’ora in poi starò in guardia e vedrò
solo da lontano Ilio e gli Atridi. Là dove il peggiore ha più potere dell’uomo onesto, dove vien
meno la virtù e trionfa la scaltrezza, con gente simile non mi adatterò mai a vivere. In avvenire mi
basterà la mia pietrosa Sciro, e sarò contento di starmene a casa. Adesso me ne vado alla nave, e a
te, figlio di Peante, dico addio, addio di tutto cuore. Possano gli dèi guarirti dal tuo male, come
desideri. (Al Coro) E noi andiamo, per essere pronti a salpare non appena il dio ci concederà un
vento favorevole.
FILOTTETE Come, figlio, ve ne andate già?
NEOTTOLEMO L’opportunità ci invita ad attendere vicino, e non lontano dai mare, il momento
d’imbarcarci.
FILOTTETE In nome di tuo padre e di tua madre, figlio, in nome di quanto in patria ti è caro, io,
tuo supplice, ti scongiuro di non lasciarmi qui, così solo, abbandonato, in mezzo alle sofferenze che
vedi e a quelle in cui hai sentito che vivo. Considerami come un compito secondario, qualcosa di
accessorio. Il fastidio per questo carico è grande, lo so, ma sopportalo. Per gli animi nobili ogni
viltà è odiosa, mentre una buona azione è motivo di gloria. Se trascurerai quest’opera, ne riceverai
turpe biasimo, ma se la compirai, figlio, ne avrai onore grandissimo, una volta che io giunga vivo
nella terra etea. Suvvia! E il disagio di un sol giorno, e nemmeno intero. Coraggio, portami con te,
gettami dove vuoi, nella stiva, a prua, a poppa, dove io debba riuscire meno molesto ai tuoi
compagni. Dimmi di sì, in nome di Zeus protettore dei supplici, o figlio, acconsenti: ecco, mi getto
davanti a te in ginocchio, debole, disgraziato, zoppo come sono! Non mi lasciare così solo, lontano
da ogni orma d’uomo; conducimi in salvo alla tua casa, oppure alle sedi di Calcodonte in Eubea: da
lì non sarà lungo per me il tragitto fino all’Eta, fino ai monti di Trachis o allo Spercheo dalle belle
correnti; e così potrai restituirmi alla vista di mio padre. Ma da gran tempo io temo che sia morto.
Molte volte, per mezzo di quelli che capitarono qui, gli mandai supplichevoli preghiere, invitandolo
a spedire una sua nave per ricondurmi salvo in patria. Quindi, o è morto, o i miei messi, come è
facile credere, tenendo in poco conto la mia sorte, affrettarono il ritorno alle loro case. Ma ora che
ho trovato in te una guida e un messaggero insieme, salvami tu, abbi pietà di me: vedi come tutto
per i mortali è insidioso ed esposto al rischio, tanto la prosperità quanto la sfortuna. Chi è fuori dai
mali bisogna che pensi alle disgrazie, e quando è felice, allora più che mai deve vegliare sulla
propria vita, perché non vada in rovina senza che egli se ne accorga.
CORO Abbi pietà, signore. Ci ha rivelato
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NEOTTOLEMO Ebbene, andiamo, se credi; ma prima prendi da là dentro ciò di cui hai bisogno e
che più desideri.
FILOTTETE C’è qualcosa che mi occorre, anche se la scelta non è ampia.
NEOTTOLEMO Che cosa, che non ci sia sulla mia nave?
FILOTTETE Ho qui un’erba con la quale, più che con ogni altro rimedio, assopisco sempre questa
piaga, finché essa non si ammansisca del tutto.
NEOTTOLEMO Portala dunque. Che altro desideri prendere, ancora?
FILOTTETE Se per disattenzione mi fosse scivolata a terra qual cuna di queste frecce, non vorrei
lasciarla in mano d’altri.
NEOTTOLEMO E l’arco famoso, quello che hai con te?
FILOTTETE Questo che tengo in mano, e nessun altro.
NEOTTOLEMO Posso vederlo anche da vicino, impugnarlo e adorarlo come un dio?
FILOTTETE A te, figlio, sarà concesso questo e quanto altro ti piaccia, di ciò che è mio.
NEOTTOLEMO Lo desidero, ma a questa condizione: se mi è lecito, lo vorrei; se no, lascia stare.
FILOTTETE Le tue parole sono riverenti: ti è lecito, sì, figlio, poiché mi hai concesso, tu solo, di
contemplare la luce del sole, di rivedere la terra etea, il vecchio padre, i miei amici; tu, mentre
giacevo sotto i piedi dei miei nemici, mi hai sollevato al di sopra della loro portata. Non temere: ti
sarà permesso di maneggiare queste armi, renderle a chi te le ha affidate, e gloriarti di averle potute
toccare, tu solo fra i mortali, in virtù del tuo nobile merito. Anch’io le ho ottenute facendo del bene.
NEOTTOLEMO Non mi pento di averti incontrato ed accolto come amico. Chi sa ricambiare un
beneficio ricevuto dev’essere un amico più prezioso di ogni ricchezza. Entra pure, ora.
FILOTTETE Sì, e ti condurrò con me: la mia infermità desidera il conforto della tua presenza.
(Entrano insieme nella grotta)
Il prologo comprende i vv. 1-134. Si sompone in due parti: i vv. 1-48 e i vv. 49-134.
La prima parte definisce la scena e l’antefatto, presenta i tre personaggi in azione (dei
quali uno muto) e il protagonista, assente. Dal discorso di Odisseo e dalla successiva
sticomitia gli spettatori apprendano che la scena è a Lemno, dove Filottete è stato
abbandonato, e dove Odisseo e Neottolemo sono stati incaricati di venirlo a
riprendere; inoltre, il sopralluogo di Neottolemo “fissa” le coordinate spaziali e
ambientali, con una serie di battute che disegnano una scenografia verbale. La
seconda parte (lanciata dalla domanda di Neottolemo al v. 49) introduce la vicenda
vera e propria e distribuisce i ruoli: Odisseo, che ha la responsabilità dell’impresa e
ha concepito il piano, si terrà lontano (per non essere riconosciuto e ucciso dal suo
nemico), lasciando che sia Neottolemo ad agire, quale fedele esecutore degli ordini
ricevuti. Il secondo scambio di battute chiarisce la differenza di ethos tra i due
personaggi, che sono assolutamente antitetici: Odisseo rappresenta il cinismo della
politica pragmatica, volta al raggiungimento degli obiettivi, anche a prezzo di azioni
moralmente riprovevoli; Neottolemo è il nobile figlio di un nobile padre, sensibile ai
valori di virtù e coraggio.
Il piano di Odisseo prevede una sorta di recita dentro la recita: Neottolemo
dovrà interpretare una parte, che il “regista” Odisseo gli assegna. Come osserva
Pucci, questo dispositivo metateatrale è caro a Sofocle, che lo adotta anche nell’Aiace
e nell’Elettra: serve anche a caricare di “verità” la finzione teatrale, nella misura in
cui include una messainscena e ne ostenta la falsità.
L’abbondanza di elementi deittici (che si accompagnavano alla gestualità
dell’attore) è normale nella fase d’avvio della vicenda. Il prologo, d’altra parte, serve
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anche a definire lo spazio scenico; non si tratta solo di dire, con un processo verbale,
dove si deve supporre che l’azione si svolga, ma è necessario promuovere una
elaborazione mentale degli spettatori: nelle loro mente lo spazio deve acquistare un
significato, in modo che ogni accadimento sia collocato in esso. Le battute con cui
Neottolemo - mentre si muove in su e in giù per il palcoscenico - commenta le sue
evoluzioni, servono appunto a promuovere questa sorta di transfert.
L’insistenza sul paesaggio desolato e inospitale di Lemno attira l’attenzione del
pubblico su questa che è una delle massime innovazioni introdotte da Sofocle nella
mythopoiia. L’isola di Lemno, che Omero definisce “ben abitata” in Il. XXI 40, è
legata nel mito alla saga argonautica e nel V secolo fa parte dell’impero ateniese:
dunque nella percezione dell’uditorio è luogo di vita e di incontri. In Eschilo ed
Euripide Lemno è abitata, tanto che sono proprio i suoi abitanti a comporre il coro;
Sofocle invece ne fa un deserto desolato, in coerenza con la sua scelta di
rappresentare Filottete come un emarginato, un reietto.
Neottolemo è subito presentato come “figlio di Achille”: il patronimico è
lusinghiero in sé (nell’epica definisce l’eroe), ma nel caso di Neottolemo è molto
impegnativo. Neottolemo - che ha avuto pochi contatti diretti col padre - è stato
cresciuto nel culto di Achille: un’eredità pesante, che apparentemente lo esalta, ma
rischia di schiacciarlo. Per tutta la tragedia Neottolemo è costantemente richiamato a
questo suo ruolo di figlio: Odisseo, in particolare, fa chiaramente intendere che lo
statuto “filiale” (quindi subordinato) del giovane gli impone una condotta rispettosa e
obbediente.
La patria di Filottete è (qui) la Malide, una piccola regione a sud della
Tessaglia, solcata dal fiume Spercheo e delimitata dai monti Othrys e Eta. Sull’Eta
Eracle scelse di morire: fu proprio Filottete [secondo un’altra versione, Peante] ad
accendere il rogo; in cambio, ebbe in dono dall’eroe l’arco e le frecce prodigiose.
Odisseo sottolinea di essere stato lui ad abbandonare Filottete in obbedienza agli
ordini degli Atridi: indiretto segnale a Neottolemo, che deve dare prova della stessa
disciplina. Nella tragedia nessuno si chiede perché i Greci non riconducano (o lascino
ricondurre) Filottete in patria, anziché abbandonarlo in un luogo desolato.
Naturalmente, un simile dibattito non ha senso, nella prospettiva del dramma (anche
se Filottete proprio di questo rimprovera gli Atridi e Odisseo). Il fatto è che Filottete
“deve” essere lasciato solo, per diventare un eroe sofocleo. Tutti i protagonisti delle
tragedie di Sofocle (Pucci) vivono un’esperienza di umiliazione, di degradazione (una
colpa, una contaminazione familiare o personale): l’eroe sofocleo ne è profondamente
scosso e assume una posizione solitaria, esce quasi dal novero dei comuni mortali per
adottare una prospettiva “esterna” alla vita, di profeta o veggente o creatura votata
alla morte. Filottete è il reietto, il contaminato, l’impuro, il rifiuto dell’umanità: è un
pharmakòs, che catalizza su di sé tutto il male della collettività. Come tale, è figura
“sacra” (nell’ambivalenza tipica del termine): riceve male (maltrattamenti, disprezzo)
e dà bene (chi lo allontana da sé, si sente meglio). Filottete è una figura che acquista
senso nella sfera del religioso primordiale: è la vittima sacrificale.
Odisseo giustifica l’abbandono di Filottete con ragioni religiose: le grida
rabbiose rompono il silenzio sacro e rendono impossibile l’esecuzione dei riti.
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Filottete più avanti denuncia la falsità di queste motivazioni (vv. 1031-34 “Come
potrete ora fare libagioni e sacrificare vittime, se io verrò con voi? Un pretesto, solo
un pretesto era”); peraltro, la tabe dell’eroe - in tutta la sua storia complessa - entra
nella sfera del sacro, del contaminante e dell’espiatorio. Odisseo ha paura di Filottete,
sa bene che in un incontro con lui rischia la vita: questo motivo emerge anche nel
prologo del dramma euripideo.
Odisseo descrive una grotta con due ingressi e una fonte. La battuta concorre
alla costruzione dello spazio, tanto più che subito dopo Neottolemo muovendosi per
la scena individua i punti che corrispondono ai vari “puntatori” spaziali (trova
l’ingresso, entra, poi ne esce e descrive i panni stesi ad asciugare). Non sappiamo
come tutto ciò fosse rappresentato a livello di scenografia: si può immaginare una
“roccia” su cui Neottolemo sale, mentre Odisseo si tiene più in basso e defilato. Ma il
tentativo di ricostruire la scena “giusta” è vano, in questi casi (e anche un poco
grottesco).
La grotta di Filottete ha qualcosa in comune con la grotta del Ciclope.
Entrambi sono fisicamente ripugnanti (sia pure in modo diverso), vivono in una sorta
di tana, al di fuori di ogni consorzio civile, e il loro statuto è quasi ferino, con una
manualità ridotta al minimo. Anche Polifemo dorme su un rozzo giaciglio o in mezzo
alle sue bestie, ha attrezzi rudimentali (nel Ciclope di Euripide c’è lo stesso dettaglio
del bicchiere di legno). Inoltre sia nel dramma di Sofocle sia nel IX dell’Odissea è
applicato lo stesso modulo: il covile di una singolare (e temibile) creatura è
perlustrato da stranieri, che progressivamente “prendono le misure” del padrone di
casa, finché questi arriva.
Il discorso di Odisseo è sapientemente intessuto. Peraltro, secondo la norma
dell’ironia tragica, porta al fallimento: come nell’ambasceria ad Achille dell’Iliade il
capolavoro retorico del “consigliere frodolento” non ha efficacia. Pucci insiste
sull’elemento metateatrale: Odisseo istruisce Neottolemo, come un regista che affida
una parte a un attore e gli fa sentire come vanno pronunciate le battute, perché quello
poi le ripeta con l’intonazione giusta. Paduano, d’altra parte, sottolinea come già in
questa scena si delineano i caratteri dei due personaggi. Odisseo è il tipico Ulisse
tragico: cinico, pragmatico, teso all’obbiettivo. Ormai estraneo alla “civiltà della
vergogna”, si rapporta ad essa con atteggiamento da antropologo: ne cita i valori
(nobiltà, coraggio, dirittura morale, opposizione apparenza - realtà) come argomenti
da sfruttare ai propri fini. Odisseo parla a Neottolemo non da pedagogo (non vuole
essere suo “maestro”): non gli importa coltivarne le doti, farne emergere la natura,
potenziarne le qualità. Non cerca infatti di entrare in rapporto profondo con la
“persona” dell’altro; quel che gli preme, è toccarne le corde sensibili per catturarne il
consenso e la condiscendenza: è un atteggiamento da capo politico o militare.
Neottolemo è un giovane che non ha ancora misurato se stesso: dunque, è impettito e
affettato, ostenta un’immagine di sé, che è esito di una costruzione culturale,
l’applicazione di una ideologia. Proprio per questo, è in prima istanza pronto per
svolgere la parte assegnatagli. In seguito l’incontro sconvolgente con Filottete fa
scattare in lui una nuova consapevolezza, una ricerca di verità, che collide con la
lezione di Odisseo.
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ha raccontato la sua storia e ha spiegato quanto sia stata triste la prigionia nell’isola
deserta - crede alle menzogne del ragazzo, si convince che l’altro sia come lui una
vittima di Odisseo e degli Atridi e concepisce una forte simpatia. Lo supplica di
portarlo in patria, e Neottolemo acconsente. A questo punto arriva il falso mercante,
che porta le novità: Neottolemo è ricercato, e anche Filottete sta per ricevere la visita
di Odisseo, incaricato di riportarlo a Troia (secondo la profezia di Eleno). Filottete
insiste perché si parta al più presto; Neottolemo si dice d’accordo, e i due entrano
nella grotta.
La prima battuta di Filottete ricorda - almeno esternamente - le prime parole
che Polifemo rivolge a Odisseo e ai compagni in Odissea IX 252-55:
D’altra parte, già si è visto che l’episodio del Ciclope è un modello letterario attivo in
questa prima parte del dramma: si è caricato un meccanismo d’attesa, che prelude
all’irruzione in scena di un mostro, di un uomo selvaggio orrido e pauroso. Sofocle
gioca abilmente con le aspettative dell’uditorio: quando Filottete prende a parlare, le
primissime parole sembrano confermare la sua assimilazione a Polifemo. Ma ben
presto il personaggio si rivela ben diverso: l’aspetto selvaggio nasconde una umanità
profonda, che si traduce in un desiderio incoercibile di contatto, di homilìa, di
amicizia. Pucci ha ragione quando osserva che la reazione di Filottete alle prime
parole greche pronunciate da Neottolemo è commovente. La segregazione disumana
che l’eroe ha dovuto subire per tanti anni, fa sì che il suono della lingua materna gli
appaia dolcissimo, un balsamo per le ferite dell’anima. E questo, per contrasto,
evidenza il cinismo con il quale Odisseo e Neottolemo - parlando la medesima lingua
- hanno ordito una congiura ai danni dell’infermo. Filottete per tutto l’arco della
vicenda crede con fede ingenua e totale nella “verità” della lingua: la parola, di cui è
stato così a lungo privato, è per lui medium di condivisione, di conforto, di
interscambio umano. Per i suoi carnefici il linguaggio è invece uno strumento
infinitamente più ambiguo: è un sòphisma infido, malizioso, potenzialmente
distruttivo. L’intera drammaturgia di Sofocle è giocata sull’opposizione verità /
apparenza e sul tema della ricerca del vero: l’eroe sofocleo è appassionato alla verità,
anela ad essa a prezzo di ogni sacrificio; e si oppone a chi vuole spegnere questa sua
ricerca, estinguendola nel comodo abbandono a un’apparenza condivisa. Nel
Filottete, peraltro, l’apparenza è particolarmente negativa, perché non è determinata
dal contesto politico e familiare, quale si è venuto a creare per un concorso
incontrollabile di circostanze, ma è il prodotto consapevole della malizia umana.
La prima risposta di Neottolemo (“siamo greci”) e la successiva domanda di
Filottete (“per quale ragione sei venuto? quale vento e quale rotta ti hanno portato
qui?”) ancora giocano sul modello odissiaco. Ma l’emozione che traspare dalle parole
di Filottete è naturalmente ben diversa dalla sorda minaccia insita nelle domande di
Polifemo. Ai vv. 239-41 Neottolemo dice il suo nome, la sua patria e il nome di suo
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l’isoletta di Crise è vicina a Tenedo, quindi vicina alla Troade, mentre Lemno è
decisamente più a ovest. Il testo peraltro sembra suggerire un’altra versione: Filottete
non arriva a Troia, perché dopo la sosta a Crise la flotta approda direttamente a
Lemno, e lì lo abbandona. Certo, si tratta di una rotta inverosimile, perché non tiene
conto della reale posizione di Lemno; ma la Lemno di Sofocle è quasi un luogo
dell’immaginario: quest’isola deserta e “lontana” è così straniata dalla Lemno reale
che può essere piazzata là dove è più utile alle ragioni dell’arte. La scena
dell’abbandono ha un modello letterario, ancora una volta odissiaco: l’arrivo di
Odisseo a Itaca nel canto XIII. Quando la nave feace raggiunge il porto di Itaca,
Odisseo dorme profondamente. I marinai lo trasportano sulla spiaggia senza
svegliarlo, gli depongono accanto i beni preziosi donatigli da Alcinoo e dagli altri
principi, e riprendono il mare. Al suo risveglio, Odisseo non riconosce la patria e
teme che i Feaci l’abbiano ingannato, abbandonandolo su un’isola sperduta: reagisce
con rabbia e disperazione, lanciando anche maledizioni a quelli che considera dei
traditori (vv. 128-38). Nella scena dell’Odissea Odisseo dorme profondamente sulla
spiaggia; il sonno di Filottete, che è modellato su quello di Odisseo, ha come sfondo
il mare, anche se è collocato nella grotta, perché quella sarà poi la sua casa.
I vv. 285-299 contengono il racconto del ménage faticosamente elaborato da
Filottete per sopravvivere, pur nelle condizioni disperate in cui si è venuto a trovare. I
commentatori hanno messo in rapporto questi versi con altri passi tragici in cui si
parla dell’umanità primitiva e della sua lotta per la sopravvivenza. In effetti, la
cultura greca della seconda metà del V secolo elabora un modello che descrive la
storia dell’umanità in termini di “progresso” tecnologico; il modello arcaico di una
“decadenza” rispetto a una remota - e felice - età dell’oro (Esiodo, mito delle cinque
età) si indebolisce, e viene sostituito da una teoria evoluzionistica. Per la verità, l’idea
del progresso sembra un’invenzione di Senofane: nel fr. 18 D-K (= 20 G-P) si dice
“Non tutte le cose sono state mostrate agli uomini dagli dèi; piuttosto, quando fu il
tempo, gli uomini seppero migliorarsi grazie alla ricerca costante”. Anche l’Inno
Omerico a Efesto (il numero 20 della raccolta, di datazione incerta ma di ambiente
attico) elabora concetti analoghi: vv. 3-7 “Prima essi vivevano sui monti, dentro
caverne, come le fiere; ma ora, grazie agli insegnamenti di Efesto, l’artefice insigne,
conducono una vita facile e serena dentro le loro case, dal principio alla fine
dell’anno”. L’evoluzionismo greco è però sviluppato dalla sofistica: ci sono
significativi frammenti di Anassagora, per esempio. E poi c’è la tragedia attica. I testi
più significativi sono la rhesis di Prometeo nel Prometeo incatenato, il cosiddetto
“inno all’uomo” dell’Antigone, e la rhesis di Teseo nelle Supplici. Nel Prometeo il
protagonista spiega al Coro di avere insegnato lui agli uomini primitivi l’uso delle
arti, favorendone la crescita in consapevolezza e civiltà (“Essi avevano occhi e non
vedevano, avevano orecchie e non udivano, somigliavano a immagini di sogno […]
ignoravano le case di mattoni, le opere del legno; vivevano sotterra come labili
formiche, in grotte fonde, senza sole; ignari dei certi segni dell’inverno o della
primavera che fioriva o dell’estate che portava i frutti, operavano sempre e non
sapevano, finché indicai come sottilmente si conoscono il sorgere e il calare degli
astri”, vv. 447-58; nel seguito della rhesis Prometo elenca l’allevamento del
95
che vi sono approdati hanno rifiutato di accoglierlo sulla loro nave e riportarlo in
patria (si sono comportati come gli Atridi, lasciandogli un po’ di cibo e qualche
straccio, e affrettandosi a ripartire). Implicitamente, Filottete chiede a Neottolemo che
cosa è venuto a fare, e che intenzioni ha nei suoi confronti.
Una suggestione odissiaca si può cogliere nel v. 301. Nessuno viene volentieri
a Lemno, come - nelle parole di Ermes - nessuno affronterebbe mai di sua volontà il
lungo viaggio per Ogigia: “Zeus m’ha costretto a venire quaggiù, contro voglia. E chi
mai volentieri traverserebbe tant’acqua marina, infinita? Non è neppura evicina
qualche città di mortali, che fanno offerte ai numi, elette ecatombi” (Odissea V 99-
102). In effetti l’Odisseo di Ogigia è un altro “doppio” di Filottete: vive anche lui da
anni segregato in un’isola remota, dentro una grotta; ed entrambi sono attesi da un
destino che li riconsegna alla gloria.
Neottolemo arma la trappola presentandosi come vittima, a sua volta, degli
Atridi e di Odisseo: poiché ha ragione di odiarli, è spiritualmente vicino a Filottete,
quindi pronto a fare amicizia con lui. Fraenkel osserva che l’Odisseo di Euripide
applica la stessa tattica (cfr. Dione di Prusa 59, 8 “Ma da quelli ho sofferto talmente
che devo esserti amico, e nemico loro!”) e ne deduce che era un topos della trama di
ogni Filottete destinato alla scena tragica. Ai vv. 324-26 il ragazzo esagera un po’:
quest’altro sbuffo d’ira è molto goffo, e rasenta il ridicolo. Sciro nel V secolo è
un’isoletta quasi insignificante: nell’Andromaca di Euripide Ermione, quando vuole
marcare la sua superiorità sul marito Neottolemo, gli rinfaccia appunto l’abissale
sproporzione di forze tra Sparta, sua patria, e Sciro (vv. 209-10). Che Micene e
Sparta debbano temere le armi di Sciro, è una vanteria sguaiata e quasi grottesca:
Neottolemo recita qui la sua parte con troppa foga.
Nell’Iliade (XXII 359-60) Ettore morente avverte Achille che anche per lui è
vicina la morte, presso le porte Scee, per mano di Paride e di Apollo; e anche il
cavallo Xanto in XIX 416-17 fa riferimento a un doppio uccisore, un dio e un uomo.
Peraltro, in XXI 278 Achille riferisce la profezia di sua madre, secondo la quale gli è
destino morire per le rapide frecce di Apollo. In realtà le due versioni non sono
contrapposte, se si considera che in molte fonti la freccia fatale è scoccata da Paride e
guidata da Apollo. Qui la morte di Achille è attribuita al solo Apollo, perché la gloria
dell’uccisore va a vantaggio della gloria dell’ucciso.
Il racconto di Neottolemo si estende per i vv. 343-90. Sofocle si stacca dalla
versione seguita da Lesche di Mitilene nella Piccola Iliade, secondo la quale Odisseo
e Diomede prelevano da Lemno Filottete prima che Neottolemo arrivi a Troia da
Sciro. Nel racconto, ci sono parti evidentemente false, che sono lo sviluppo dei
suggerimenti dati da Odisseo nel prologo (lo scontro con gli Atridi e con Odisseo,
l’alterco violento, la decisione di tornarsene in patria); ma ci sono anche notizie che
possono corrispondere a verità, nel senso che Neottolemo non avrebbe motivo di
mentire su questi punti (la venuta a Sciro di Odisseo e Fenice, l’amichevole
accoglienza in Troade). Certo, la narrazione nel suo complesso è bugiarda: è una rete
di menzogna, tesa per carpire la buona fede di Filottete. Quindi, è molto difficle
sceverare il vero dal falso, e non è neanche molto sensato tentarne una mappatura
precisa. Entro un discorso intenzionalmente menzognero, è come se la bugia
97
Invece di un vero e proprio canto lirico, il Coro esegue una breve strofe in ritmo
giambo-docmiaco. Nella strofe il Coro avalla la bugia di Neottolemo, con una forte
amplificazione sentimentale: il canto è rivolto a Filottete, un uomo abbrutito dai mali,
per il quale sembrano necessarie tonalità intense. I coreuti levano le loro invocazioni
alla Dea Madre, identificata in Grecia con Cibele, divinità frigia, e con Rea, madre di
Zeus.
La preghiera dei coreuti ha una sua coerenza: i fatti di Troade sono messi in
rapporto con il culto frigio e lidio di Cibele. Peraltro, ad Atene il culto della Madre
degli Dei venne introdotto ufficialmente - a quanto pare - nell’ultimo quarto del V
secolo, quando il cosiddetto “Vecchio Buleutérion” dell’agorà fu riadattato, in modo
da ospitare insieme l’archivio di Stato e un tempio della Madre, che potesse anche
servire da telestérion (sala per cerimonie misteriche). La statua di culto, destinata a
98
essere venerata fino alla tarda antichità, era opera di Fidia o forse del suo allievo
prediletto Agoracrito. E in effetti le fonti letterarie testimoniano un crescente
interesse per la Madre degli Dei a partire dal 428 (Ippolito di Euripide): si tratta di
drammi di Aristofane, Sofocle ed Euripide, databili tra 415 e 406. C’è un importante
studio di G. Cerri (La Madre degli Dei nell’Elena di Euripide: tragedia e rituale,
“QS” pp. 155-195), in cui - partendo da un corale dell’Elena in cui alla Madre degli
Dei è attribuita una vicenda molto simile a quella tradizionalmente associata a
Demetra (ricerca affannosa della figlia perduta) - lo studioso ipotizza che
l’introduzione del culto della Madre ad Atene si sia tradotto in una audace operazione
di politica religiosa, con importanti novità anche “teologiche” [“… il secondo stasimo
dell’Elena, tragedia rappresentata nel 412 a.C., acquista automaticamente il carattere
e la funzione del manifesto eatrale di un culto nuovo e controverso, si configura come
intervento scenico nel vivo di una polemica appassionata …”]. Ossia, la Madre degli
Dei ad Atene sarebbe diventata una divinità misterica e salvifica molto vicina - nelle
cerimonie e nella percezione dei fedeli - alla Demetra eleusina. Cerri sottolinea che il
telestérion dell’agorà è uno dei pochissimi edifici sacri di età arcaica e classica che si
affianchi al telestérion di Eleusi e ne imiti struttura e funzioni (l’unico altro caso è il
santuario dei Cabiri a Samotracia). Il senso dell’operazione può essere discusso: ma è
molto difficile pensare che l’assimilazione della Madre a Demetra sia da intendere in
chiave anti-elusina. Al contrario, è più probabile che si inquadri in quel
rafforzamento della religiosità eleusina che dopo l’inizio della guerra del
Peloponneso va a sostenere l’identità ateniese.
Il Pattolo è un fiume ricco di sabbie aurifere: sulle sue rive sorgeva Sardi,
centro del culto di Cibele (come i Greci chiamavano la Grande Madre frigia, o Madre
Montana o Madre degli Dei). L’inno omerico alla Madre degli Dei (numero 14 della
raccolta) la saluta come la dea “cui piacciono il grido dei crotali e dei timpani, lo
strepito degli auli, l’urlo dei lupi e dei torvi leoni, i monti echeggianti e le valli
coperte di boschi”. È una divinità legata alla sfera della natura selvaggia, alle forze
della generazione, ai rituali orgiastici. Ha punti di contatto con la Signora degli
Animali cretese, con Demetra (alla quale è avvicinata nel culto, benché il ruolo
civilizzatore di Demetra Thesmophoros sia un netto elemento spaiante), con
Artemide. I coreuti la rappresentano “seduta sui leoni”: ciò corrisponde
all’iconografia consueta, seconda la quale la dea è circondata da leoni, che tirano il
suo carro oppure sono accucciati ai suoi piedi oppure affiancano simmetricamente il
trono su cui è assisa.
I vv. 403-452 contengono un nuovo dialogo tra Neottolemo e Filottete, dopo
che i due si sono reciprocamente raccontati le loro vicende e hanno trovato un punto
di contatto nella comune avversione per gli Atridi e per Odisseo. Il tema è il destino
degli eroi greci impegnati nell’impresa troiana: rispondendo alle domande di
Filottete, Neottolemo traccia una sorta di catalogo dei caduti (e dei sopravvissuti),
che attinge ai poemi omerici e ai poemi del ciclo. Filottete reagisce alle notizie fornite
dall’interlocutore con commenti, che esprimono la sua simpatia o antipatia. La
simpatia si rivolge verso Aiace, Nestore, Antiloco: tutti costoro sono stati colpiti da
sventure, mentre prosperano, accanto a Odisseo, Diomede e Tersite. Si stabilisce così
99
un’antitesi tra giustizia e felicità, che viene proposta in prima battuta da Neottolemo
(vv. 435-37) e poi teorizzata da Filottete, che ne trae anche inquietanti consequenze
in termini di scetticismo religioso (gli dei sono ingiusti, perché proteggono i malvagi
e perseguitano i buoni).
La scena ha una sua suggestione letteraria, perché cita e “corregge”
ampiamente i testi epici (quindi, gioca con ciò che il pubblico sa o crede di sapere,
ora confermando ora deludendo). Sul piano drammatico, serve a stringere ancor più il
rapporto di simpatia e fiducia che si è venuto a creare tra i due personaggi, ed è
dunque funzionale al piano astuto. Peraltro, non ha torto Paduano nell’osservare che
queste battute finiscono per sortire anche un altro effetto, non previsto. Neottolemo,
adeguandosi in tutto all’intenzione di Odisseo, si è accostato a Filottete come a un
reietto, a un relitto umano che non fa più parte del consorzio degli Achei: gli è
sembrato ovvio (e facile) sottoporlo a ogni sorta di costrizione, per il bene
dell’esercito, cioè della collettività eroica. Ora invece, con le sue domande e i suoi
commenti, Filottete recupera il suo posto dentro quella collettività eroica, di cui viene
predicata la vocazione all’infelicità, ma viene anche riaffermato con orgoglio il
valore: Neottolemo non può non condividere - e sinceramente - i sentimenti del suo
interlocutore. Pucci cita, oltre al fr. 1 dei Canti Cipri, il fr. 204, 93-106 M-W (Eoe) di
Esiodo:
da Atena, che gli ha spezzato il giogo], e cioè la cavalla inizialmente proposta come
premio per il secondo classificato; Antiloco protesta, dice di non voler rinunciare al
suo premio [Eumelo è stato sfortunato, ma la colpa è sua: “doveva pregare gli dèi, e
non sarebbe arrivato ultimo”]. Achille sorride, perché prova molta simpatia per il
giovane, che è un suo caro amico: risolve il problema dando a Eumelo un altro
oggetto, una preziosa corazza tolta a un nemico vinto. Però c’è un’ulteriore
complicazione: Menelao protesta vivacemente, dicendo che Antiloco è stato scorretto
e lo sfida a giurare che così non è stato. Antiloco allora riconosce il suo torto, lo
attribuisce alla sventatezza della sua giovane età, si dice pronto a dare la cavalla a
Menelao e ad aggiungere anche un indennizzo maggiore, purché l’altro receda
dall’ira e si riappacifichi con lui. Il cuore di Menelao si scioglie: l’Atride prontamente
concede il suo perdono e lascia la cavalla ad Antiloco (“nessun altro tra gli Achei mi
avrebbe persuaso: ma tu, insieme a tuo padre, hai molto faticato e sofferto per me”).
Questa scena del XXIII canto, pur essendo per certi versi “anomala” (non fa
parte della guerra in senso stretto), ha grande importanza per la “fissazione” del
personaggio: Antiloco è il giovane generoso e impulsivo, cuore limpido, a cui tutti i
compagni vogliono bene. Muore per mano di Memnone [era un episodio della
Etiopide di Arctino di Mileto]. Paride colpisce uno dei cavalli di Nestore, che si viene
a trovare in grave pericolo, perché viene attaccato da Memnone e non ha la possibilità
di fuggire. Il vecchio invoca il giovane figlio, che accorre per proteggere il padre e lo
salva a prezzo della vita (Pindaro, Pitica VI). Nel XXIV dell’Odissea l’anima di
Agamennone rievoca il funerale di Achille e ricorda che le sue ceneri furono versate
in un’anfora d’oro, insieme a quelle di Patroclo, e accanto quelle di Antiloco (che
Achille “sommamente onorava tra tutti i compagni, dopo la morte di Patroclo”, vv.
78-79). Nella scena della Telemachia in cui Nestore racconta a Telemaco il triste
ritorno degli Achei, c’è un commosso ricordo di Antiloco (Odissea III 108-112): “Là
tutti i migliori furono uccisi, là Aiace guerriero è sepolto, là Achille, e Patroclo, il
consigliere simile ai numi, là il caro mio figlio forte e senza rimprovero, Antiloco,
velocissimo a correre e forte guerriero”. Non sfugge come questi versi, questo
“catalogo” di valorosi caduti, siano il modello di Sofocle: i nomi sono gli stessi, e
viene ripresa l’idea che a morire sono i migliori, i più valorosi.
I commentatori notano che al v. 432 Neottolemo chiama per la prima volta
Filottete per nome (prima gli si è sempre rivolto con il vocativo “straniero”): non è un
fatto casuale, ma il segno di una nuova confidenza, o comunque il tentativo di
accorciare le distanze. Neottolemo cerca di far breccia nell’animo di Filottete
suggerendogli, con tono confidenziale, che anche un furbo matricolato come Odisseo
prima o poi incappa in ostacoli insuperabili: quindi, è solo questione di avere un po’
di pazienza. Certo, la battuta di Neottolemo è una forma di ironia tragica: il
personaggio non sta parlando della sua astuzia, ma il pubblico sa bene che il progetto
di Odisseo è destinato a fallire.
L’idea che in guerra cadano i valorosi e non i vili è una gnome di consolidata
tradizione. Pucci cita il fr. 724 Radt di Sofocle (“Ares, ragazzo, ama eliminare i i
bravi e i valorosi. Quelli invece che sono bravi a parlare, scampano alla rovina e si
tirano fuori dai guai. Ares infatti non vuole nulla dai vili”) e il fr. 728 Kannicht di
102
Euripide (“La guerra non ama prendere tutti, ma gode della morte dei giovani
coraggiosi, mentre odia i vili”). Neottolemo butta lì la frase soprattutto perché è un
motto che retoricamente ben si inserisce nel discorso; Filottete la riprende con piena
convinzione (è un po’ il motto della sua vita, il proverbio con cui ha cercato di darsi
una spiegazione per quanto gli è accaduto), e le dà un respiro quasi cosmico.
La menzione di Tersite è un’altra reminiscenza iliadica. Qui però Sofocle - o
meglio il suo personaggio - “corregge” la tradizione epica: nell’Etiopide Achille,
dopo la morte di Pentesilea, uccideva Tersite che aveva osato prenderlo in giro per il
suo amore per l’Amazzone (e l’uccisione di Tersite portava scompiglio nel campo
acheo: Achille doveva andare a Lesbo, fare sacrifici ad Apollo, Artemide e Letò e
farsi poi purificare da Odisseo); secondo un’altra versione (scolio omerico), Achille
avrebbe ucciso Tersite perché questi aveva colpito all’occhio Pentesilea ferita a
morte. In ogni caso, Tersite è morto; Neottolemo mente consapevolmente, perché la
sopravvivenza di Tersite gli fa comodo: è un’ulteriore conferma della regola che
vuole i buoni morire e i malvagi restare in vita.
Alla fine del “catalogo” Filottete si conferma nella sua idea (sulla quale,
evidentemente, ha elucubrato a lungo negli anni di solitudine e di disperazione) che
gli dèi sono ingiusti. Pucci fa notare che altri personaggi di Sofocle arrivano alle
stesse conclusioni. Antigone, nel momento in cui sta per essere chiusa viva nella
tomba per ordine di Creonte, dice: “Ho forse violato la giustizia divina? Ma perché
un’infelice come me dovrebbe ancora rivolgersi agli dei? E a chi domanderò aiuto, se
per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia?” (Antigone 921-924). Illo, nel
finale delle Trachinie (vv. 1264-1269), vedendo il terribile spettacolo del padre
morente, fa riflessioni simili: “Sollevatelo, amici, e mostratemi simpatia per quanto
avviene, consapevoli che in tutti questi eventi grande è l’insensibilità degli dei. Essi
generano figli, si fanno chiamare padri, e stanno a guardare dall’alto tali sofferenze”.
Pucci vede peraltro una differenza tra le tre situazioni. Illo e Antigone pervengono a
queste conclusioni alla fine della vicenda: il giudizio dunque è definitivo. Filottete
invece (che reagisce a notizie in parte false) è destinato a ricredersi, nel prosieguo
della storia.
Nei vv. 453-506 scatta la trappola predisposta da Odisseo e Neottolemo.
Neottolemo annuncia di voler riprendere il mare, per completare il viaggio e
riguadagnare la sua Sciro, dove in futuro starà ben in guardia dalle insidie degli
Atridi; Filottete allora, convinto che l’altro dica sul serio, lo supplica di ospitarlo a
bordo della sua nave e di riportarlo in patria. La rhesis di Filottete è lunga e
appassionata: il vecchio guerriero si attacca al filo di speranza che Neottolemo
rappresenta per lui, non esita a umiliarsi, stringendo le ginocchia di un ragazzino che
potrebbe essere suo figlio. È una scena che può suscitare imbarazzo nel pubblico, il
quale sa bene che lo scopo delle bugie di Neottolemo è appunto quello di indurre
Filottete a imbarcarsi con lui: Filottete, dunque, si danna l’anima per nulla. Il disagio
di Neottolemo cresce: il ragazzo comincia a capire la crudeltà dell’azione sua e di
Odisseo. Non ha davanti a sé né una creatura deumanizzata, ridotta a uno stato ferino,
né uno scarto umano, un pharmakòs repellente e straniato: Filottete è un uomo che
soffre, e per di più è totalmente alla sua mercé.
103
Abbiamo visto che anche in altri passi Neottolemo parla come Achille; certo, qui la
situazione è paradossale, perché il ragazzo usa argomenti della più nobile tradizione
eroica per ingannare un povero infelice, che si affida a lui. La ripresa iliadica,
piuttosto evidente, fa dunque scattare una forma di ironia tragica: gli spettatori si
rendono conto che Neottolemo usa frasi prese dalla rhesis di Achille nella présbeia,
ma in realtà interpreta il ruolo dell’interlocutore di Achille, cioè Odisseo.
Interessante l’uso di καιρός al v. 466. Il termine torna ai vv. 837-838, in un
intervento cantato del Coro, che incoraggia Neottolemo ad approfittare dell’occasione
favorevole (Filottete dorme profondamente, dopo l’attacco del male) per afferrare
l’arco e andare via: “L’occasione propizia è arbitra di tutti i disegni e può darci il
successo, ora, subito”. Se ne occupa Pucci nel commento, facendo notare che il
termine in Sofocle è usato con accezioni diverse, ma già può essere associato a quella
connotazione “cinica” che poi si afferma in età preellenistica ed ellenistica.
Nella seconda metà del IV secolo lo scultore Lisippo eseguì in onore di
Alessandro Magno la statua del Kairos (Καιρός), ossia un’allegoria dell’attimo
fuggente, dell’occasione da cogliere al volo. Verosimilmente, Lisippo produsse due
originali dell’opera, uno destinato a Sicione, patria dell’artista, l’altro a Pella, capitale
104
del regno macedone: entrambi sono perduti, ma una ricostruzione è possibile grazie ai
molti rifacimenti che ci sono pervenuti e grazie alle descrizioni di poeti e retori. Il
Kairos di Lisippo è un giovane alato, che ha un piede appoggiato su una sfera e l’altro
proiettato in avanti nell’aria; con la mano sinistra regge un rasoio, su cui è allibrata
una bilancia. È evidente il codice simbolico a cui è ispirata la figurazione:
l’iconografia del Kairos rimanda a una rappresentazione dinamica e cangiante della
vita, concepita come una sequenza di attimi rapidi a presentarsi e ancora più rapidi a
svanire; anche la chioma, rasa sulla nuca e allungata a ciuffo sulla fronte, allude alla
fugacità dell’occasione, che deve essere colta quando si presenta, senza ripensamenti.
Tutto ciò corrisponde a un’ideologia che si diffonde rapidamente nel IV secolo,
ma ha già precedenti nel V. Alla base c’è una Weltanschauung che legge la realtà non
più come il campo d’azione di forze divine, ma l’esito di vettori poltici (del nomos
umano, dunque) applicati alla magmatica e imprevedibile massa dei fattori casuali,
della tyche. Il politico di successo quindi (e in generale l’uomo di successo) non è più
l’individuo pio e virtuoso, ma colui che sa leggere i flussi della tyche e assecondarli
con azione decisa. Alessandro è l’assoluto signore della tyche e del kairos (e
l’iconografia ufficiale corrisponde a questa sua immagine), ma già Filippo - nella
lettura che ne dà Demostene, per esempio - è il politico sagace e disincantato che sa
assecondare gli eventi, sa sfruttare a proprio vantaggio le combinazioni favorevoli,
quando si presentano.
Al v. 470 Filottete si definisce “supplice” di Neottolemo: la parola usata è
hikétes, che è termine tecnico. L’hikétes è colui che “arriva” in un luogo dove non si
sente sicuro, e cerca perciò protezione affidandosi alla pietas di quelli che incontra. È
una nozione che fa parte del “prediritto” di epoca arcaica. In età classica lo straniero
che arriva in una città è protetto - o può essere protetto - da leggi statali che
riconoscono e garantiscono il suo diritto di soggiorno (è il caso dei meteci ad Atene,
per esempio). Esiste anche l’istituto della prossenia, che pure può intervenire per
garantire la sicurezza di uno straniero. In epoca arcaica c’è l’ospitalità privata (che è
un legame familiare ereditario: un esempio famoso è quello di Glauco e Diomede nel
VI canto dell’Iliade), e c’è l’hiketeia, che afferisce alla sfera del religioso. Ad
Odisseo capita continuamente di trovarsi nella condizione di hiketes, è una situazione
ricorrente (una “scena tipica”).
Nella scena tipica di supplica l’hikétes compie un gesto formale che definisce il
suo stato: si prostra ad abbracciare o baciare le ginocchia della persona cui si rivolge
(è una forma di autoumiliazione e una dimostrazione di non pericolosità), e poi gli
parla, spiegando il proprio stato di bisogno e facendo appello a valori quali l’aidòs
dell’interlocutore e la norma divina che protegge i supplici. Se l’altro riconosce il
buon diritto dell’hiketes, lo fa alzare e lo accoglie come ospite. Tra i gesti rituali che
esprimono simbolicamente la condizione dello straniero bisognoso di aiuto (ossia di
“non nemico”), il tocco delle ginocchia è ricorrente. Nel racconto del falso Cretese a
Eumeo in Odissea XIV il protagonista abbraccia e bacia le ginocchia del re nemico,
nel mezzo della battaglia (prima ha gettato via le armi); in Odissea VI Odisseo
medita di stringere le ginocchia di Nausicaa, poi decide che invece è meglio parlarle
di lontano. La documentazione non si limita alle situazioni letterarie; Tucidide I 136-
105
137 racconta che Temistocle, inseguito da soldati ateniesi e spartani, cerca rifugio
presso il re dei Molossi Admeto e, su consiglio della regina, supplica protezione e
ospitalità prendendo in braccio il figlioletto di Admeto e sedendosi sul focolare. In
una regione eccentrica, l’istituto arcaico della hiketeia di tipo omerico [Temistocle
segue il modello di Odisseo, che nel VII canto, entrato nel palazzo del re dei Feaci
Alcinoo, stringe le ginocchia di Arete e si siede sopra il focolare] si mantiene anche
in epoca storica.
Nel caso di Filottete, la sua supplica riproduce il modello omerico, ma con un
ribaltamento di ruoli: in effetti, è Neottolemo colui che “è arrivato” nella terra di
Filottete, ma è questi che si affida all’altro, perché Lemno rappresenta il pericolo,
mentre la “casa” di Neottolemo - cioè la sua nave - è la salvezza, a cui Filottete
chiede di essere associato.
Al v. 492 Filottete, che sta disperatamente cercando di rendere sempre più
patetica e suasiva la sua supplica, evoca l’immagine del padre, il vecchio Peante, che
forse si tortura nell’attesa del figlio o forse è morto. Anche qui c’è una imitatio
omerica: Filottete applica al figlio di Achille la stessa retorica usata da Priamo con
Achille. Nel XXIV canto dell’Iliade Priamo, entrato con l’aiuto di Ermes nel campo
greco, si getta ai piedi del suo nemico e gli chiede la restituzione del corpo di Ettore;
per dare più forza alla preghiera, ricorda ad Achille il padre Peleo, certo preoccupato
per la sorte del figlio lontano.
Alla rhesis di Filottete non c’è da parte di Neottolemo alcuna risposta. È, come
sempre, inane cercare di ricostruire le dinamiche sceniche. Filottete senza dubbio
sostiene le sue parole con una serie di gesti: tende le mani, tocca Neottolemo, gli si
getta ai piedi, gli si stringe alle ginocchia; non possiamo dire quando esegua ciascuno
di questi gesti (e se li esegua tutti), ma ci sono passaggi che hanno valore di
didascalia scenica. È più difficile immaginare i movimenti di Neottolemo: può fare
gesti che esprimono sorpresa, fastidio, incertezza, ma può anche limitarsi a tacere,
assumendo un atteggiamento impenetrabile. Rispondono invece i coreuti, che cantano
una strofe metricamente responsiva (quindi un’antistrofe) a quella intonata alla fine
della rhesis di Neottolemo (vv. 391-402).
Il Coro esprime - ancora una volta - pietà per le sofferenze di Filottete, ed
esorta il suo sovrano a fare ciò che il supplice chiede. Sarebbe vano chiedersi se la
pietà professata dai coreuti sia sincera o fittizia: di fatto, anche queste parole del Coro
sono funzionali all’inganno, perché servono a confermare Filotette nell’idea che
Neottolemo stia davvero salpando per Sciro e possa quindi davvero - se lo vuole -
ricondurre il malato a casa sua. Questo corale aggiunge altri pezzi al castello di bugie.
Il pubblico lo percepisce con chiarezza e non può non reagire con fastidio, persino
con sdegno, a una pietà che contraddice se stessa, perché nasconde la spietata volontà
di circuire un infelice. Cinica anche la menzione finale degli dei: il Coro
disinvoltamente riprende la perorazione finale di Filottete (chi gode di buona fortuna
deve sapere che la sorte umana è instabile, che la sventura è dietro l’angolo), per
sostenere l’opportunità di non tradire il supplice; ma proprio questa ostentazione di
bontà e pietas è un trucco per catturare Filottete, per prenderlo a tradimento.
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Pucci osserva che nel teatro greco ci sono altri casi in cui il Coro intercede a
favore di un supplice. L’esempio più chiaro è offerto dagli Eraclidi: la scena è nella
piana di Maratona, dove Iolao e gli Eraclidi sono supplici presso l’altare di Zeus; il
messo degli Argivi arriva, pronto a trascinare via con la forza i supplici, ma il Coro
composto da vecchi ateniesi si oppone, e chiede poi al re Demofonte di avere pietà
dei figli di Eracle e di accogliere le loro richieste. La situazione, peraltro, è diversa:
nel dramma euripideo i coreuti hanno già discusso con i supplici e con l’araldo argivo
prima dell’arrivo di Demofonte, e hanno già maturato la decisione di sostenere la
causa degli Eraclidi. Nel Filottete la preghiera del supplice si rivolge al solo
Neottolemo, non al Coro, che ha un ruolo meno incisivo: i coreuti non hanno il
compito di fare da mediatori tra Filottete e Neottolemo, il cui contatto è molto stretto,
fin dal primo episodio. Dunque, l’intercessione del Coro è sorprendente. L’altra
differenza, ovviamente, è che la pietà dei coreuti è simulata: l’intero episodio è un
esempio di “teatro nel teatro”, molto insistito e protratto. Perciò, in ultima analisi, la
scena di supplica del Filottete, pur prestandosi al confronto con varie situazioni
simili, rimane un unicum nel teatro tragico attico.
Neottolemo, che non ha risposto per primo alla supplica di Filottete, lasciando
che fosse il Coro a reagire, quando incomincia a parlare si rivolge al Coro, non al
supplice: il suo tono è quasi seccato, e le sue parole sono un rimprovero ai coreuti,
che si mostrano troppo facili a una pietà forse inopportuna. La decisione di accettare
a bordo l’infermo arriva a fatica: Neottolemo la comunica ai suoi uomini, non al
diretto interessato, e lascia capire che l’ha presa solo perché praticamente costretto
dalle circostanze. I commentatori si chiedono le ragioni di una simile
comportamento: che Filottete salga sulla nave, è lo scopo stesso dell’intera manovra;
perché allora manifestare incertezza e indecisione? Le ipotesi sono due. Una prima
possibilità è che Neottolemo reciti, finga renitenza solo per rendere ancora più
credibile la manfrina e ottenere quindi che Filottete - il quale peraltro non chiede di
meglio - non esiti un istante di più. Un’altra spiegazione è che la (almeno apparente)
svogliatezza del ragazzo sia il segnale di un disagio spirituale: Neottolemo avverte la
malizia e il cinismo della ostentata pietà dei suoi uomini, e ha uno scatto brusco,
stizzito. Se è così, l’abbozzato rifiuto di prendere a bordo Filottete è in realtà il rifiuto
- che dura solo un attimo, naturalmente - della messainscena predisposta da Odisseo,
e la stizza contro i coreuti nasconde la stizza contro se stesso, per aver accettato di
farne parte. È una spiegazione tutto sommato suggestiva, anche se forse un po’ troppo
inclino a uno “psicologismo” moderno. Invece, è improbabile che Neottolemo esiti
perché teme il pericolo rappresentato dall’arco (che è ancora sotto il controllo di
Filottete); questa è una spiegazione razionalistica, che non tiene conto del ritmo
scenico: in questa fase della vicenda l’arco non è in questione, Neottolemo è tutto
teso a “prendere” l’arciere (quanto all’arco, poi si vedrà).
Ai vv. 528-29 Neottolemo prega che gli dei lo conducano sano e salvo alla
meta dove è diretto. La formulazione è ambigua, volutamente: il giovane lascia che
Filottete pensi a una rotta verso la Grecia, mentre la nave salperà alla volta di Troia.
Peraltro, Pucci osserva che scatta una forma di ironia tragica: il viaggio sarà
veramente affidato alla volontà degli dei, ma non nel senso inteso da Neottolemo (al
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quale l’intervento divino, nella persona di Eracle, toglierà ogni controllo degli
eventi). Pucci fa anche un’altra osservazione: l’intervento inatteso dei coreuti, e poi
l’arrivo del falso Mercante e l’attacco della malattia, sono successivi anelli di una
catena di eventi che sembrano far precipitare la situazione nel senso auspicato da
Neottolemo (e da Odisseo). In realtà, producono alla lunga una virata assolutamente
contraria. E anche questo è un esempio di quella “drammaturgia della casualità” che
Sofocle pratica spesso. Puicci cita l’episodio dell’ubriaco nell’Edipo Re: il commento
sentito per caso a banchetto induce Edipo a consultare l’oracolo di Delfi, e quindi ad
avviarsi su quella strada che il destino gli ha assegnato dalla nascita. Ancor più
clamoroso, sempre nell’Edipo Re, l’intervento di Giocasta, che racconta al marito
dell’oracolo di Laio per dimostrargli che gli oracoli non meritano fede, e così facendo
fa precipitare la crisi. Alla base di tutto ciò c’è una confusione (o sovrapposizione) di
“sorte” e “destino”: ciò che può sembrare fortuito, si inserisce in realtà in un
misterioso disegno, di cui solo gli dei conoscono i tempi e reggono le fila.
La felicità di Filottete si esprime nella triplice apostrofe iniziale. La gioia rende
Filottete magnanimo, lo fa uscire dal guscio dell’autocensura e dell’autoumiliazione:
l’eroe proclama la sua gloria di “eroe tragico”, capace di affrontare con coraggio la
sventura; Neottolemo è invitato a entrare nella caverna, per misurare con gli occhi la
prova che Filottete ha affrontato e vinto. La testimonianza di Neottolemo è essenziale
perché il kleos di Filottete prenda consistenza: equivale a ciò che per l’eroe epico è il
canto dei poeti.
Come di regola, l’arrivo di un nuovo personaggio passa attraverso una battuta
di presentazione del Coro. La scena del falso Mercante è oggetto di molte
discussioni: i commentatori si chiedono quale sia il suo significato, sia in termini
drammaturgici (ossia come contribuisce allo sviluppo dell’azione) sia in termini più
generalmente “letterari” (quali sono, cioè, le sue suggestioni, le sue valenze
simboliche o allusive). Per certi versi, l’intervento del falso Mercante è inutile: il
nuovo venuto porta la notizia che gli Atridi hanno mandato Fenice, Acamanto e
Demofonte a riportare indietro Neottolemo, nonché Odisseo e Diomede a prelevare
Filottete. La notizia è falsa (anche se contiene alcuni elementi di verità: la profezia di
Eleno, la missione a Lemno di Odisseo) e ottiene il risultato di avvicinare
ulteriormente Neottolemo e Filottete, sempre più accomunati dalla condizione di
nemici degli Atridi, “braccati” da loro emissari; e infatti Filottete reagisce
stringendosi a Neottolemo e chiedendogli di affrettare al massimo la partenza. D’altra
parte, quando i due entrano nella caverna, dopo che il falso Mercante se ne è andato,
la situazione non è cambiata rispetto a pochi minuti prima: i due si preparano a
partire. Alcuni studiosi puntano l’attenzione sull’arco: l’accresciuta solidarietà,
prodotta dalle rivelazioni del Mercante, fa sì che Filottete sia ora disposto ad affidare
la sua arma a Neottolemo, e questo è - dal punto di vista di Odisseo - un passo avanti.
Peraltro finora né Odisseo né Neottolemo hanno mostrato di considerare l’arco come
un pericolo, una volta “preso” con l’inganno Filottete [arco e arciere sono come una
sola cosa: è Odisseo a rompere questa simbiosi, nella seconda parte del dramma,
quando vorrebbe lasciare a Lemno Filottete e andarsene con l’arma]. Inoltre, quando
l’arco passa nelle mani di Neottolemo, ciò avviene non perché la messainscena di
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aveva mandato splendidi doni a sua madre Astioche), venne in soccorso dei Troiani:
si batté da prode, uccidendo Macaone e Nireo, ma fu a sua volta ucciso da
Neottolemo (la vicenda era narrata nella Piccola Iliade, altro poema del Ciclo).
Un Telefo fu composto da Eschilo: nel dramma eschileo doveva già esserci la
scena del piccolo Oreste preso come ostaggio (è riprodotta su vasi della metà del V
secolo). Del Telefo di Euripide abbiamo un certo numero di frammenti, sia di
tradizione indiretta sia papiracei, tra cui uno – proveniente dal prologo – in un papiro
di Milano (P.Mil.Vogl. 1). La trama è grosso modo ricostruibile: prologo pronunciato
dal protagonista, che è arrivato ad Argo travestito da mendicante [Telefo si presenta,
riferisce dell’oracolo e della sua intenzione di chiedere l’aiuto di Agamennone,
promettendogli in cambio di guidare la flotta in Troade]; incontro con Clitennestra,
che gli suggerisce di prendere in braccio il piccolo Oreste, nel momento della
supplica; ma Telefo è scoperto e minacciato di morte, e per salvarsi afferra Oreste
[non sappiamo il motivo della presenza in scena del piccolo] e si rifugia presso un
altare, minacciando di uccidere l’ostaggio; poi fa il suo discorso coram populo, in cui
rivendica il suo diritto di parlare “pur essendo un mendicante” [perché non lo è, in
realtà] e spiega che è sì un nemico degli Achei, ma ha avuto le sue buone ragioni per
combattere gli Achei, e poi chiede un rimedio per la ferita che gli Achei gli hanno
inflitto, facendo presente che solo con la sua guida gli Achei potranno arrivare a
destinazione; nella seconda parte della tragedia arriva Achille (prima assente, perché
a Sciro), che viene convinto da Odisseo a guarire Telefo; il finale propone i
preparativi per la partenza [handout]. Il “messaggio” del dramma euripideo si può
riassumere in due punti fondamentali: non sempre il “nemico” ha torto, anzi può
avere le sue buone ragioni; il “nemico” non è un mostro alieno, ma un uomo da cui si
può imparare e trarre anche vantaggio (quindi, molte volte è più saggio smettere di
fare la guerra e venire a patti).
Fonti importanti per la ricostruzione del Telefo sono le parodie di Aristofane,
negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse. Negli Acarnesi il tema di Telefo innerva la
vicenda a un livello molto profondo: ne parleremo più avanti. Nelle Tesmoforiazuse
la parodia diretta ed esplicita del Telefo riguarda i vv. 689-764 (la cosiddetta “scena
dell’ostaggio”). Il Parente di Euripide è stato scoperto e deve fronteggiare l’ira delle
donne. Per salvarsi, adotta lo stesso espediente prestato a Telefo dalla πολυμηχανία
euripidea: cattura la bimba di una delle donne presenti nel tempio e minaccia di
ucciderla, se le donne non lo lasceranno in pace. Ma, comicamente, la bimba alla
prova dei fatti si rivela essere un otre di vino. Abbiamo un cratere a campana apulo
databile intorno al 370 a.C., ora conservato al Museo Martin von Wagner
dell’Università di Würzburg, che riproduce appunto questa scena delle
Tesmoforiazuse. Fa parte della serie dei vasi cosiddetti “fliacici”, che risalgono agli
anni tra il 400 e il 325 e sono decorati con scene ispirate alla drammaturgia comica.
La matrice teatrale di queste raffigurazioni è evidente: i personaggi molto spesso
sono su un palcoscenico, indossano il tipico costume comico con calzamaglia e fallo
che ci è ben noto anche da terrecotte comiche attiche e da alcuni vasi ateniesi, e il
loro viso corrisponde alle maschere comiche che conosciamo. In questo caso il
ceramografo dimostra di conoscere bene il testo aristofanesco: lo si deduce da due
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il bene della sua città; questo preteso “nemico” è in realtà la guida indispensabile a
cui affidarsi se si vuole arrivare alla meta. L’identificazione con Telefo riguarda
dunque sia Diceopoli sia Aristofane: la vicenda dell’eroe comico, ossia la trama del
dramma, si sovrappone all’azione del poeta, e questo è possibile proprio grazie alla
presenza unificante del modello euripideo.
Il Telefo di Euripide
ACHILLE Anche tu arrivi ora dalla tua isola, Odisseo? Dov’è il punto di raduno
degli amici? Che cosa si aspetta? Non è il momento di starsene con le mani in mano.
ODISSEO Si parte, è deciso: i capi non pensano ad altro. E tu sei arrivato proprio al
momento giusto, figlio di Peleo.
ACHILLE Però, i marinai della flotta non sono agli imbarchi, e non vedo l’esercito
schierato per la rassegna.
ODISSEO È questione di poco:
ACHILLE Siete sempre i soliti, pigri e perdigiorno: ciascuno se ne sta seduto, a
parlare, parlare; ma nessuno fa nulla. Io però e l’esercito dei Mirmidoni, come vedete,
siamo venuti qui decisi ad agire, e prenderò il mare senza aspettare i comodi degli
Atridi.
Cratere lucano a figure rosse, 400 a.C. ca. – Cratere attico a figure rosse, 400-375 a.C. – Berlin,
Cleveland, Museum of Art 1991.1 Antikensammlung 3974
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Cratere apulo a figure rosse, 370 a.C. ca. – Würzburg, Martin von Wagner Museum (H 5697)