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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

4. percorso di lettura: Eracle nella tragedia attica

Eracle è personaggio e figura molto complessa, che si carica nel corso dei secoli di
valenze molteplici, sul piano religioso, cultuale, letterario, culturale. Il territorio di
origine è il mito: Eracle è un personaggio mitico, naturalmente; però, dal mito poi
deborda in altri territori.
Burkert nel suo manuale di storia della religione greca dà un breve profilo di
Eracle, nella categoria degli “esseri doppi ctonio-olimpici”, ossia delle figure che
partecipano sia dello statuto eroico che di quello divino. Eracle è un eroe perché non
si sottrae alla morte: muore, e anzi la sua morte – così dolorosa e ingiusta – è uno dei
suoi “meriti”, concorre a definire quella areté che è la sua massima dote e gli vale poi
la divinizzazione. Una volta assunto in cielo e accolto tra gli dèi, diventa héros theós,
come dice Pindaro (Nemea III 22). Però la tomba di Eracle non c’è, non si mostra da
nessuna parte. Di solito, la tomba di un eroe è anche il suo sacrario: è il punto di
irradiazione del suo culto, che è locale. Eracle è venerato in tutto il mondo greco, è
l’eroe panellenico; e anche il suo culto divino è diffuso ovunque.
Burkert spiega che lo strato più antico del mito eracleo è costruito attorno alla
figura di un eroe cacciatore, che abbatte bestie pericolose (il leone e il serpente). A
questo strato appartengono anche gli episodi che alludono a contatti con il mondo dei
morti e il mondo degli dèi, definiscono cioè la capacita di sconfinare in uno spazio
“diverso”: Eracle va a Erýtheia (l’Isola Rossa al di là dell’Oceano) per impadronirsi
del bestiame di Gerione, scende all’Ade per portarsi via il cane infero Cerbero, si
impadronisce delle mele d’oro che crescono nel giardino degli dèi nel remoto
Occidente. Seguono lotte con creature fantastiche o mostruose: Centauri, Amazzoni.
Poi, quando la figura di Eracle “sale di livello” e dal mito popolare trapassa nell’epos
eroico, gli vengono attribuite gesta eroiche, come la conquista di città (Troia, che
Eracle conquista una prima volta, con la generazione dei “padri”: Ecalia). Nell’VIII
secolo, al tempo della composizione dell’Iliade, gran parte di questi episodi sono
“fissati” e noti; l’Iliade menziona la presa di Troia (V 638-642 e XX 144-148) e la
cattura di Cerbero (VIII 365-369); le avventure con il leone, l’idra, la cerva, gli
uccelli, i Centauri e le Amazzoni compaiono nelle più antiche rappresentazioni
vascolari di scene mitiche. La fissazione del ciclo delle dodici fatiche (áthla) è
attribuita dalla tradizione a un poema epico di Pisandro di Rodi, databile intorno al
600 a.C. Negli stessi anni si definisce l’iconografia di Eracle che indossa la pelle di
leone.
La morte di Eracle è causata dall’azione sconsiderata di sua moglie Deianira
(“colei che combatte gli uomini”) ed è fissata dalla tradizione sul monte Eta, nei
pressi di Trachis. Il luogo è stato scavato e ha rivelato chiare tracce di culto: ogni
quattro anni vi si celebrava una festa del fuoco, con sacrifici cruenti e agoni. L’Iliade
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conosce semplicemente la morte di Eracle (connessa con l’odio di Era); i passi della
nekyia (Odissea XI 601-604) e del Catalogo esiodeo (fr. 25, 20-33) che parlano della
sua divinizzazione erano rigettati dai critici antichi come interpolazioni del VI secolo
(all’inizio del VI secolo, infatti, sembra risalire la tradizione che vuole Eracle assunto
tra gli dèi e ammesso al banchetto degli Olimpi, come compagno di Ebe).
La figura di Eracle, spiega Burkert, è un coacervo di contraddizioni. L’eroe è il
figlio di Zeus, forte e invincibile (è il “signore della vittoria”, invocato prima di ogni
competizione o cimento o prova), ma per tutta la vita deve servire Euristeo, il re di
Micene: la sua condizione quindi è assimilabile a quella di uno schiavo, di un servo.
Eracle è capace di ogni exploit fisico, ed è dotato di straordinaria potenza sessuale;
ma la sua carriera eroica è interamente soggetta ai capricci di una donna, Era, che
gioca con lui a suo piacimento; questa ambivalenza è scritta nel nome stesso Eracle,
che significa “gloria di Era, glorioso per Era”. Anche la schiavitù presso la regina
lidia Onfale si connette all’idea di un maschio fortissimo sottoposto al controllo di
una femmina.
Il culto di Eracle (eroico e divino insieme) è molto diffuso, anche in aree
periferiche (l’eroe è l’eterno girovago). Le cerimonie in suo onore non sono per lo più
feste “ufficiali” della polis, ma manifestazioni organizzate da singole associazioni
cultuali. Ad Atene non c’è traccia di culto eracleo sull’Acropoli, mentre esiste tutta
una serie di santuari, maggiori o minori, sparsi per il territorio dell’Attica. Eracle è
legato ai ginnasi e agli efebi (è l’atleta e il lottatore per antonomasia). Ad Atene il
culto eracleo si afferma soprattutto nel VI secolo, e diventa il culto eroico più diffuso
(ben più diffuso, a livello popolare, di quello di Teseo): Eracle è adottato come
cittadino ateniese (di qui la sua connessione con i Misteri Eleusini, di cui l’eroe si fa
iniziato). Un elemento fisso del culto è il banchetto a base di carne: i devoti
“mimano” il comportamento dell’eroe, che è raffigurato come sacrificatore e vorace
divoratore di carne (un’immagine che poi la commedia fissa). Ci si sente in
confidenza con Eracle: gli si rivolge nelle varie contingenze della vita, poiché l’eroe è
l’Alexìkakos. Sulla casa sta scritto: “Il figlio di Zeus, Eracle dalla bella vittoria, abita
qui: nulla di male può entrare”. Si fabbricano immagini di Eracle come amuleti;
numerosissime sono le rappresentazioni vascolari, che riproducono i vari exploits e in
particolare la lotta col leone.
Eracle però non è solo un eroe popolare, è anche figura di alto rango, al
servizio dell’ideologia ufficiale. Questo si verifica soprattutto a Sparta, dove i re dei
Dori lo adottano come capostipite. La legittimazione della migrazione dorica nel
Peloponneso è nel segno di Eracle: “ritorno degli Eraclidi”; Hyllos, l’eroe eponimo di
una tribù dorica, diventa il figlio di Eracle. In seguito Eracle diventa, oltre che dio-
eroe anche figura spirituale, in due direzioni soprattutto. Diventa “figura” e ipostasi
del buon sovrano che, in virtù della legittimazione divina, agisce irresistibilmente per
il bene dell’umanità e trova poi la propria consacrazione tra gli dèi (Alessandro si
propone come nuovo Eracle, ne fa coniare l’immagine sulle sue monete). Ma è
modello anche dell’uomo comune che, dopo una vita di pene, può sperare di trovare
dopo la morte consolazione e salvezza in un destino che lo avvicini agli dèi, lo renda
commensale degli dèi.
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Eracle in Omero – In Omero Eracle compare in una serie di passi che ne


propongono due immagini abbastanza diverse: un’immagine arcaica, di eroe violento
che non si assoggetta a leggi e limiti, attacca gli dèi e li ferisce (Iliade V), non rispetta
le norme dell’ospitalità (Odissea XXI); e un’immagine di valoroso campione, nato
però per soffrire e destinato a misera morte [come si è visto, solo nella nekyia c’è un
breve accenno alla divinizzazione].
V libro dell’Iliade. Afrodite è stata ferita alla mano da Diomede; sofferente, la
dea lascia la battaglia e torna sull’Olimpo, sul carro di Ares, cercando conforto tra le
braccia della madre Dione. Dione, per consolarla, le racconta i casi di altri dèi che
sono stati feriti da mortali: exempla di Ares, Oto e Efialte [i gemelli Aloadi che
tentano di dare la scalata al cielo e sono uccisi, ancora adolescenti, da Apollo], di
Eracle e Era, di Eracle e Ade.

Omero, Iliade V 381-404


Le rispondeva allora Dione, la divina tra le dee:
“Sopporta, figlia mia, e fatti coraggio, anche se soffri:
in molti abbiamo sofferto, noi che abbiamo casa in Olimpo,
a causa degli uomini, scambiando tra noi duri colpi.
Ha sofferto Ares, allorché Oto e il forte Efialte,
i figli di Aloeo, lo avvinsero in ceppi poderosi:
dentro una giara di bronzo restò legato tredici mesi;
e lì ci moriva, Ares insaziato di guerra,
se non era la loro matrigna, la bellissima Eeribea,
a darne notizia a Ermes; questi sottrasse Ares
ormai sfinito, ché la dura prigionia lo fiaccava.
Ha sofferto Era, quando il poderoso figlio di Anfitrione
alla mammella destra con un dardo a tre punte
l’ebbe colpita; anche lei fu presa allora da un dolore angoscioso.
Ha sofferto il gigantesco Ade, oltre a costoro, per un dardo veloce,
quando quello stesso uomo, il figlio di Zeus portatore dell’egida,
colpitolo a Pilo tra i morti, lo gettò in preda ai dolori;
andò egli allora alla casa di Zeus, sull’alto Olimpo,
sofferente on cuor suo, trafitto dai dolori: infatti la freccia
nella spalla possente s’era infitta, e gli dannava l’anima.
Spargendo sulla sua ferita farmaci lenitivi,
Peone lo guarì: ché non era certo un mortale.
Sciagurato, brutale, che a fare empietà non tremava,
lui che con l’arco affliggeva gli dèi che hanno sede in Olimpo!”

Ancora V libro dell’Iliade: si affrontano in duello Tlepolemo, di Rodi, figlio di


Eracle, e il licio Sarpedone, figlio di Zeus: Tlepolemo ricorda il valore degli “uomini
antichi” (cioè della precedente generazione di eroi) e cita l’esempio della conquista di
Troia compiuta da Eracle, desideroso di vendicarsi di Laomedonte.
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Omero, Iliade V 632-643


Per primo Tlepolemo rivolse all’altro il discorso:
“Sarpedone, consigliere dei Lici, che bisogno hai
di startene qui ad appiattarti, tu uomo inesperto di guerra?
A torto vanno dicendo che sei figlio di Zeus
portatore dell’egida, perché sei molto inferiore a coloro
che furono figli di Zeus fra gli uomini antichi:
ma quanto grande dicono che sia stata la forza
di Eracle, il padre mio impavido, cuor di leone!
Che giunto qui una volta, per i cavalli di Laomedonte,
con sei navi soltanto e con più piccolo esercito,
devastò la città di Troia, spopolò le sue strade;
ma tu hai animo vile, e la tua gente muore”.

Nell’VIII dell’Iliade gli Achei sono sconfitti da Ettore, che infuria; Era e Atena
constatano sconsolate che Zeus è dalla parte dei Troiani, e Atena ne lamenta
l’ingratitudine, visto che fu proprio lei, Atena, a salvare l’amato figlio di Zeus,
Eracle, dalla trappola infernale.

Omero, Iliade VIII 357-370


A lei [sc. Era] disse di rimando la dea dagli occhi azzurri, Atena:
“Magari davvero costui perdesse la forza e la vita,
sotto i colpi degli Argivi, ammazzato nella sua terra!
Ma è mio padre che impazza nel suo cuore non giusto,
spietato, sempre crudele, negatore dei miei desideri:
e non si ricorda di questo, che io moltissime volte
ho tratto in salvo suo figlio, sfinito dai cimenti di Euristeo.
Quello alzava lamenti al cielo, e Zeus allora
mandava proprio me dal cielo, perché gli portassi soccorso.
Ma se questo avessi previsto con mente scaltrita,
allorché lo spedì nella casa di Ade, che tiene serrate le porte,
perché rapisse dall’Erebo il cane dell’odiato Ade
non sarebbe sfuggito alle cupe correnti dell’acqua di Stige!
Ed ecco che ora mi odia, e ha compiuto i voleri di Teti”.

Nel brano di “epos di Pilo” pronunciato da Nestore nel canto XI (il vecchio re ricorda
un episodio glorioso della sua gioventù, quando ancor adolescente portò in città un
ricchissimo bottino, razziato agli Epei, e poi respinse il tentativo di riscossa dei
nemici) affiora il ricordo di un’impresa di Eracle, che devasta Pilo e uccide undici dei
dodici figli di Neleo [un episodio da mettere in rapporto con le incursioni nel
Peloponneso occidentale di un Eracle che è – in queste tradizioni mitiche –
testimonial e figura di legittimazione dell’espansione dorica].
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Teti avverte Achille che, se tornerà a combattere e ucciderà Ettore, dovrà poi lui
stesso morire; Achille si dice pronto ad accettare la sua sorte, com’è toccato a tanti
altri e anche a Eracle, che pure era figlio del dio supremo. La morte di Eracle non è
descritta, ma è messa in rapporto con l’avversione di Era.

Omero, Iliade XVIII 114-121


Adesso andrò a prendere chi mi ha ucciso l’amico più caro,
Ettore; anch’io accetterò la mia sorte, quando
voglia compierla Zeus e gli altri dèi immortali.
Nemmeno la forza di Eracle evitò la sua sorte,
lui che era il più caro a Zeus Cronide sovrano;
ma il destino lo vinse e l’odio accanito di Era.
Così anch’io, se mi tocca simile sorte,
giacerò morto.

Nella scena assembleare del XIX canto, che è simmetrica a quella del I e chiude il
tema dell’ira, Agamennone ammette il suo errore e spiega di essere stato accecato da
Ate. L’exemplum scelto è quello di Zeus che, ingannato da Era e accecato da Ate,
condanna il figlio suo Eracle, ancora prima che sia nato, a una vita di subordinazione
e di servaggio.

Omero, Iliade XIX 95-133


Fu accecato un giorno anche Zeus, che pure il migliore
si dice che sia tra gli uomini e tra gli dèi; eppure anche lui
Era, che è femmina, ingannò con le sue trame,
il giorno in cui Alcmena stava per partorire
la forza di Eracle, a Tebe coronata di torri.
Quello, vantandosi, diceva a tutti gli dèi:
“Prestatemi orecchio, voi tutti dèi , e tutte le dee,
ch’io possa dirvi quanto mi detta il cuore nel petto.
Ilizia, stimolatrice del parto, darà oggi alla luce
Un uomo che regnerà su tutti i vicini,
della stirpe degli uomini che discendono dal mio sangue”.
Ricorrendo all’inganno, gli disse Era sovrana:
“Sarai mentitore, non darai compimento alla tua parola.
Su dunque, Olimpio, fa’ giuramento solenne,
che regnerà su tutti i vicini colui
che cada quest’oggi tra le gambe di una donna
fra quanti sono per sangue della tua stirpe”.
Disse così; e Zeus non comprese l’inganno,
ma fece gran giuramento, fu dunque davvero accecato.
Era lascò con un balzo la cima d’Olimpo,
e subito giunse ad Argo achea, dove sapeva
della nobile figlia di Stenelo Perseide,
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che era incinta di un figlio, ed era il settimo mese:


lo fece venire alla luce, anche se prematuro,
mentre invece sospese il parto di Alcmena, trattenne le Ilizie.
Per annunciarlo lei stessa, disse a Zeus Cronide:
“Zeus padre dal lampo abbagliante, ti darò una notizia:
è già nato l’uomo valente che regnerà sugli Argivi,
Euristeo, fglio di Stenelo Perseide, tua stirpe;
non sarà per lui disdicevole essere re degli Argivi!”
Disse così, e un acuto dolore lo colpì nel fondo del cuore:
afferrò subito Ate per la testa chiomata,
adirato in cuor suo, e giurò solennemente
che mai più sull’Olimpo ed al cielo stellato
avrebbe fatto ritorno Ate, che tutti quanti acceca.
Detto così, la scagliò dal cielo stellato,
roteandola con la sua mano: piombò sui campi degli uomini.
Sempre la malediceva, quando vedeva suo figlio
patire fatica indegna, per le prove imposte da Euristeo.

Tra le ombre che si presentano a Odisseo nella nekyia c’è anche quella di Eracle;
Omero spiega che in realtà nell’Ade c’è solo l’εἴδωλον dell’eroe, perché lui è
nell’Olimpo. Che cosa significhi questo dal punto di vista “teologico” non è chiaro:
tutte le figure che Odisseo incontra sono εἴδωλα. La “storia sacra” del dio viene fuori
comunque con chiarezza: una vita di sofferenza, di continue prove, confortata però
dall’aiuto degli dèi (Zeus, Ermes, Atena). La “passione” di Eracle non è motivata
dall’avversione di Era, ma dalla sudditanza a un uomo ben inferiore. L’impresa di
Cerbero è quella che più chiaramente avvicina Eracle e Odisseo, entrambi costretti
dal destino ad affrontare il rischio tremendo della catabasi all’Ade (entrambi
kàmmoroi, condannati a bere fino in fondo l’amaro calice della vita). La felicità di
Eracle nell’Olimpo e la vicinanza di Ebe sono augurio e prefigurazione del nostos di
Odisseo. La postura di Eracle, arciere torvo e minaccioso, e le incisioni sul balteo
rimandano alle innumerevoli vittorie ma anche alla violenza sottesa al personaggio.

Omero, Odissea XI 601-629


Dopo di lui vidi il fortissimo Eracle, ma era
la sua ombra soltanto: tra gli dèi immortali lui siede
a banchetto, beato, con Ebe dalle belle caviglie,
figlia del sommo Zeus e di Era dai sandali d’oro.
Intorno a lui i morti fuggivano da ogni parte atterriti,
stridendo come uccelli: lui, simile a notte cupa,
impugnava l’arco nudo, la freccia incoccata sul nervo,
guardandosi intorno torvo, come se stesse per colpire.
Aveva sul petto, a tracolla, un balteo d’oro,
mirabile, dove erano incise scene stupende:
orsi, cinghiali selvatici, leoni dagli occhi di fuoco,
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e mischie e battaglie e stragi d’eroi.


Neppure chi incise con la sua arte quel balteo
potrebbe con la sua arte rifarne uno eguale.
Mi riconobbe, non appena mi vide,
e tra i lamenti mi diceva alate parole:
“Divino figlio di Laerte, Odisseo ingegnoso,
davvero hai anche tu una misera sorte,
come fu la mia sotto la luce del sole.
Ero figlio di Zeus Cronide, ma senza tregua
dovetti soffrire. Fui servo di un uomo a me inferiore,
che mi ordinò di compiere crudeli fatiche.
Un giorno mi mandò qui, a prendere Cerbero, il cane:
non c’era impresa più dura di questa, pensava.
Ma io lo portai, lo trascinai fuori dall’Ade:
mi guidavano Ermes e Atena dagli occhi lucenti”.
Disse così, e ritornò nella casa di Ade.
Ma io restavo lì, per vedere se qualcun altro
veniva degli eroi morti in passato.

All’inizio del XXI canto Penelope va a prendere l’arco del marito; il poeta ne
racconta la storia, con un flash-back ricco di motivi poetici: il viaggio iniziatico
adolescenziale; il tema dell’ospitalità, rispettata e violata, la corrispondenza tra padre
e figlio. Eracle è ricordato come il massacratore dell’ospite: torna quindi l’immagine
di violenza e trasgressione che caratterizza l’eroe nella sua versione più arcaica.

Omero, Odissea XXI 11-30


Lì c’era l’arco flessibile e la faretra,
e dentro la faretra molte frecce dolorose:
erano i doni che un ospite gli diede, a Lacedemone,
Ifito figlio di Eurito, simile agli immortali.
Si incontrarono a Messene, in casa del saggio
Ortiloco, dove Odisseo era andato
a causa di un debito che tutto il popolo aveva con lui:
da Itaca infatti i Messeni rapirono trecento pecore
con i pastori, sulle navi dai molti remi.
Per questo andò a trattare Odisseo: un lungo viaggio,
per lui che era un ragazzo: il padre e gli anziani lo mandarono.
Ifito invece cercava le cavalle che aveva perduto:
dodici femmine che nutrivano muli pazienti;
e queste furono causa di morte funesta per lui,
quando andò dal forte figlio di Zeus, da Eracle,
autore di imprese grandissime.
In casa sua lo uccise, benché fosse l’ospite,
il folle, e degli dèi non ebbe rispetto né della mensa
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che quello gli aveva imbandito: lo uccise


e si tenne in casa sua le cavalle solidi zoccoli.

Eracle in Esiodo - Nella Teogonia di Esiodo Eracle è trattato per accenni. Il più
significativo è contenuto nei vv. 950-955, dove si dice che l’eroe, compiute le
dolorose fatiche, fece sua sposa la bella Ebe, figlia di Zeus e di Era, e ora “beato tra
gli immortali ha dimora, privo di affanni e giovane sempre”. Molti studiosi (tra i
quali West) dubitano però dell’autenticità di questi versi: l’intera sezione dei vv. 886-
1022 è per lo più ritenuta un’aggiunta successiva (e tra le ragione della condanna c’è
anche la divinizzazione di Eracle, che a Esiodo non dovrebbe essere nota). Ancora di
passata, il poema cita varie imprese: l’uccisione di Gerione e il furto dei buoi, l’idra
di Lerna (“che Era bianche braccia nutrì contro Eracle forte, spinta da odio
insaziabile”), il leone di Nemea. Narrando di Prometeo e della sua lite con Zeus,
Esiodo ricorda che fu Eracle a uccidere l’aquila che tormentava il Titano, “non contro
il volere di Zeus olimpio che regna dall’alto, perché la fama di Eracle, stirpe di Tebe,
fosse maggiore di quanto era prima sulla terra nutrice” (529-531). Eracle è poi
menzionato in due testi che fanno parte del corpus esiodeo ma sono quasi certamente
spuri. Il primo è un frammento del Catalogo, che racconta nel dettaglio la morte di
Eracle, causata dall’errore fatale di Deianira, e la sua assunzione tra gli dèi: il poeta
precisa che la beatitudine dell’eroe è totale, ed è assicurata dalla benevolenza di Era,
che ha mutato in affetto l’antico odio.

Esiodo, fr. 25, 20-33 M-W


Deianira] li partorì, e fece cose tremende, accecata nel cuore,
quando intrise di veleno il chitone
e lo diede all’araldo Lica; questi lo portò al signore
Eracle, figlio di Anfitrione, distruttore di città, e glielo diede.
Quando l’ebbe indossato, subito la morte lo raggiunse.
Morì, e arrivò alla casa lacrimosa di Ade;
ora però è un dio, libero da ogni pena,
e vive insieme agli altri abitatori dell’Olimpo,
immortale e giovane, sposo di Ebe belle caviglie.
la figlia di Zeus e di Era dai sandali d’oro.
La dea Era candide braccia prima lo odiava,
tra tutti gli dèi beati e gli uomini mortali,
ora lo ama, e lo onora più di ogni altro
immortale, dopo lo stesso figlio di Crono dal vasto potere.

E poi c’è lo Scudo di Eracle, un poemetto in esametri che racconta lo scontro tra
Eracle e Cicno, figlio di Ares, che uccide i pellegrini diretti a Delfi; aiutato da
Apollo, Eracle affronta Cicno in un duello iliadico (carro e tiro di lancia) e l’uccide. Il
violatore dell’ospitalità, l’assalitore degli dèi si è trasformato in un difensore della
pietà e della norma religiosa: Eracle sta assumendo (forse ha già assunto) lo statuto
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del purificatore, che libera la terra da mostri ferini e da uomini empi, alla maniera di
Teseo.

Per concludere il panorama dei testi arcaici, si può ricordare anche l’Inno omerico a
Eracle, un breve componimento (databile al VI secolo), che ricorda i punti
fondamentali della saga: la nascita a Tebe, da Alcmena e Zeus, le lunghe fatiche e gli
interminabili viaggi, agli ordini di Euristeo, la salita al cielo e l’assunzione tra gli dèi.

Inni Omerici 16 (A Eracle Cuor di Leone)


Canterò Eracle, figlio di Zeus, il più forte
dei terrestri, che Alcmena generò nell’ampia Tebe,
dopo essersi unita al Cronide dalle nere nubi.
Dapprima, errando sulla terra infinita e sul mare
agli ordini del re Euristeo, Eracle compì
molte imprese terribili, e patì molti mali;
ma ora, nella bella casa dell’Olimpo nevoso,
vive sereno, ed ha in sposa Ebe dalle belle caviglie.
Salve, signore, figlio di Zeus: dammi valore e ricchezza.

Eracle nella lirica - Nel VI secolo, dunque, la figura di Eracle ha assunto i suoi
contorni definitivi di eroe – dio e si è affermata nel culto e nell’arte. Però
l’evoluzione del personaggio non è affatto terminata: anzi, Eracle deve il suo fascino
proprio alle nuove letture che di lui vengono proposte nel tempo, nella letteratura,
nell’arte, nella filosofia. La tragedia ha un ruolo importante: coglie le contraddizioni
del personaggio, le asprezze della sua storia, e le ripropone dentro lo schema tragico
del conflitto libertà – destino. La tragedia opera uno scavo dentro il personaggio, lo
rilegge dall’interno, lo interiorizza. Ma questo processo è preparato e anticipato dalla
lirica, in particolare dalla lirica corale del primo V secolo (Bacchilide e Pindaro).
Karl Galinsky parla di un “Eracle in transizione”. Sappiamo che altri poeti arcaici
composero carmi su Eracle: Archiloco dopo avere vinto una gara di inni in onore di
Demetra a Paro compose un breve canto in lode di Eracle kallinikos. Stesicoro fu
particolarmente attratto dal mito eracleo, che trattò in opere come Cicno, Gerioneide,
Scilla, Cerbero. Paniassi di Alicarnasso compose un Eraclea in 14 libri; ma con
Paniassi siamo già nel V secolo.
Bacchilide tratta la saga di Eracle nell’Epinicio V, composto per la vittoria
olimpica (476 a.C.) di Ierone nella corsa del cavallo montato. Il mito è introdotto da
una gnome: nessun mortale gode mai di una felicità totale; beato è colui che, con
l’aiuto del dio, coglie un momento di gloria. Esempio di ciò è la vicenda di Meleagro,
ucciso proprio nel momento del trionfo; il caso di Meleagro è filtrato attraverso la
reazione di Eracle, che incontra l’anima dell’eroe defunto mentre si inoltra nell’Ade
alla ricerca di Cerbero. La situazione è vagamente odissiaca, ma a ruoli ribaltati:
Eracle si sostituisce a Odisseo (è lui il vivo), Meleagro si sostituisce a Eracle; anche
in Bacchilide Eracle imbraccia minaccioso l’arco, pronto a colpire (questa anzi è una
chiara “citazione” omerica). Con sapiente gioco letterario, la sventura di Eracle (la
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morte dolorosa, per mano della persona più cara, amaro compenso delle tante
gloriose fatiche) è proiettata su Meleagro; ma le parole finali di Melagro e la
menzione di Deianira gettano un’ombra sinistra e alludono alla triste conclusione
della saga eraclea.

Bacchilide, Epinicio V 56-175


L’invincibile conquistatore,
il figlio di Zeus lampo accecante,
entrò una volta - dicono - nel regno
di Persefone caviglie sottili,
per portare alla luce dall’Ade
il cane dalle zanne appuntite,
figlio dell’orribile Echidna.
Qui sulle rive del Cocito vide
le anime dei mortali infelici,
come foglie che il vento
accumula sulle cime luminose
dell’Ida, pascolo d’armenti.
Tra esse spiccava l’ombra
armata di lancia del valoroso
nipote di Portaone.
Quando il mirabile eroe figlio d’Alcmena
vide il luccichio delle armi,
agganciò all’anello la stridula corda,
scoperchiò la faretra
e ne sfilò una freccia
dalla punta di bronzo. Ma davanti
a lui si parò l’anima di Meleagro,
che lo riconobbe e gli disse:
«Fermo dove sei, figlio
del grande Zeus! Rasserena il tuo cuore.
La mano non lanci a vuoto
l’amara saetta
contro ombre di morti,
che paura non fanno». Disse così. Stupefatto,
il nobile figlio di Anfitrione
rispose: «Quale dio
o quale uomo ha allevato una simile
creatura? In quale terra?
Chi l’uccise? O forse Era, bella cintura,
lo manderà proprio
contro di me? Tocca
alla bionda Pallade difendermi».
Gli parlò Meleagro,
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piangendo: «È difficile
piegare la volontà degli dei,
per chi vive sulla terra.
Anche mio padre Eneo, domatore di cavalli,
avrebbe placato l’ira della venerabile
dea incoronata di fiori, Artemide
braccio bianco, supplicandola
con molti sacrifici di capre
e di buoi rosso mantello.
Ma la dea conservò
implacabile l’ira; scatenò un cinghiale
fortissimo e feroce
contro la bella città di Calidone:
gonfio di forza
devastava le vigne con le zanne,
sgozzava le pecore e chiunque
dei mortali gli capitasse davanti.
Guerra tremenda gli facemmo
noi, i migliori tra i Greci,
per sei giorni di seguito; e quando
il dio offrì la vittoria agli Etoli,
seppellimmo i morti. Tanti ne aveva uccisi
l’impetuoso cinghiale ruggito profondo:
Anceo e Agelado, il migliore
dei miei cari fratelli,
partoriti da Altea
nel nobile palazzo di Eneo.
Una sorte funesta li spense,
tutti: non ancora, infatti, aveva deposto
l’ira la figlia di Letò, la scaltra
cacciatrice. Per la pelle bruna
s’accese un’aspra rissa
tra noi e i Cureti battaglieri.
Fu allora che io uccisi,
tra i molti, anche Ificlo e il nobile
Afarete, i valorosi zii materni;
nella mischia infatti Ares
spietato non distingue l’amico,
ma ciechi escono di mano i colpi
e s’avventano alle vite dei nemici
e portano morte
là dove il dio vuole.
A questo non pensò
l’altera figlia di Testio,
12

madre sciagurata. Quella donna


inflessibile mi tramò la morte;
dalla cassa ben lavorata
prese il tizzone fatale
e lo bruciò: era la misura
della mia vita, come
l’aveva filata la Parca. Io stavo
togliendo le armi a Climeno,
figlio valoroso di Daipilo,
corpo perfetto:
l’avevo raggiunto davanti alle torri,
mentre gli altri fuggivano
verso l’antica Pleurone,
solide mura. Vacillò la dolce vita;
mi sentii mancare, ahimè,
e con l’ultimo respiro piansi, infelice,
mentre lasciavo l’età più bella».
Allora - e fu l’unica volta, dicono -
anche l’intrepido figlio di Anfitrione
bagnò di lacrime le ciglia,
compiangendo la sorte di quello sventurato.
Rispondendogli disse così:
«Per i mortali il meglio è non nascere,
non vedere la luce
del sole. Ma non servono
questi lamenti:
conviene pensare a ciò che è possibile.
Il prode Eneo non ha
in casa sua una figlia vergine,
simile a te nell’aspetto?
Sarebbe una splendida moglie per me».
L’anima di Meleagro,
cuor di leone, rispose così:
«In casa mia ho lasciato
Deianira morbido collo,
ancora inesperta di Cipride
d’oro che incanta i mortali».

Nel Ditirambo XVI (Eracle o Deianira, per i Delfi) Bacchilide tratta il mito in
maniera diretta, selezionando il momento decisivo della saga, ossia quello in cui il
destino di Eracle si compie. L’eroe ha conquistato e distrutto Ecalia e si appresta a
offrire sacrifici di ringraziamento agli dèi: ma proprio quando tutto sembra mettersi al
meglio (successo, favore divino, pietà religiosa), la disgrazia colpisce, grazie
all’ottenebramento che acceca la mente di Deianira. Il testo di Bacchilide mostra
13

chiari punti di contatto con le Trachinie, e si è discusso (e si discute) sulla priorità


dell’uno o dell’altro poeta.

Bacchilide, Ditirambo XVI 13-35


Ma, prima, noi cantiamo come lasciò
Ecalia divorata dal fuoco
il figlio di Anfitrione, l’ere dall’impavido
cuore, e venne alla riva battuta dai flutti:
lì dal bottino volle offrire a Zeus Ceneo
cinto di nembi nove tori dal cupo muggito
e due al signore che scuote la terra e agita
il mare e, alla dea dal terribile sguardo,
alla vergine Atena,
un’intatta giovenca dalle alte corna.
Fu allora che il fato invincibile
tramò per Deianira un piano ingegnoso
e funesto, quando essa
apprese la notizia straziante,
che il figlio di Zeus intrepido in battaglia
recava Iole dal candido braccio
come sposa nella casa fiorente.
Ah, infelice, ah, sventata, cosa non meditò!
Una gelosia prepotente la condusse a rovina,
sotto un velo di tenebra
celando il futuro,
quando sul Licorma fiorito di rose
accolse da Nesso il filtro fatale.

Pindaro parla di Eracle soprattutto nelle Olimpiche, in vari passi in cui


ricostruisce la storia dei giochi e la vicenda della loro istituzione. In un passo famoso
della III Olimpica (14-38 ) il poeta ricorda il mito di fondazione dei giochi, nella sua
versione più diffusa: fu Eracle, l’atleta per eccellenza, a istituirli; fu lui a tracciare il
perimetro del santuario, a consacrare gli altari, a definire tempi e regole delle
competizioni.

Pindaro, Olimpica III 14-38


Per Terone di Agrigento, vincitore col carro (476 a.C.)

Il figlio di Anfitrione lo portò


un giorno – splendido trofeo per le gare d’Olimpia –
dalle sorgenti ombrose dell’Istro,
e persuase con la parola il popolo
degli Iperborei, ministri di Apollo.
Con fede sincera chiedeva per il recinto
14

accogliente di Zeus una pianta, che fosse ombra


comune per tutti e corona al valore.
Per lui, consacrati al padre gli altari,
il plenilunio d’agosto già aveva acceso
di sera il suo occhio rotondo;
e sulle sponde divine dell’Alfeo l’eroe
aveva fissato il sacro giudizio dei grandi giochi
e il ciclo di quattro anni.
Ma d’alberi belli non fioriva
il terreno nella valle di Pelope, sangue di Crono;
nudo e spoglio gli apparve il giardino,
battuto dai raggi aguzzi del sole.
Allora il cuore lo spinse ad andare
alla terra dell’Istro […] oltre i soffi del gelido
Borea; davanti agli alberi si fermò stupefatto.
Di essi un desiderio dolce lo prese:
piantarli alla meta dei dodici giri
per la corsa dei carri. E ora a questa
festa viene benigno, insieme ai gemelli
divini, figli di Leda elegante.
A loro infatti, salendo all’Olimpo, affidò
la custodia dell’agone stupendo,
prova di ardore virile e di accorta condotta sul carro veloce.

Ancora più esplicito è Pindaro nella X Olimpica, dove l’istituzione dei giochi è
conseguenza di una vittoria militare: Eracle uccide il re Augia, che lo aveva
ingannato e derubato, e con il bottino conquistato al nemico celebra la prima edizione
delle gare. La combinazione dei due passi fa capire quale sia la lettura pindarica del
mito di fondazione. Eracle, il figlio di Zeus, arriva a Pisa (questo il nome miceneo di
Olimpia), dove spadroneggiano governanti crudeli, e con la forza del braccio impone
regole nuove, nel nome della giustizia di Zeus. L’istituzione dei giochi diventa la boa
di un passaggio epocale, dalla barbarie alla civiltà. La violenza di Eracle è il mezzo
necessario perché i valori di dike si sostituiscano all’arbitrio

Pindaro, Olimpica X 29-51


Per Agesidamo di Locri, pugile ragazzo

Tendendo un agguato tra i boschi di Cleone,


Eracle li domò sul cammino,
poiché quelli gli avevano annientato
l’esercito tirintio, appostato
nei recessi dell’Elide,
i Molionidi tracotanti. Sì, ma non molto
dopo il re degli Epei, traditore
15

degli ospiti vide la patria


opulenta affondare in un solco
profondo di sventura sotto fuoco impietoso e colpi
d’acciaio: la sua città.
È difficile respingere
L’assalto dei più forti.
E alla fine anche lui sconsiderato
andò incontro a cattura, e non scampò
all’abisso di morte
Il forte figlio di Zeus raccolse a Pisa
tutto il suo esercito e l’intero
bottino. Per il padre eccelso tracciò un sacro recinto,
e sul terreno sgombro segnò il giro
dell’Altis; la pianura all’intorno
la destinò alla gioia dei banchetti,
onorando il corso dell’Alfeo
e i dodici dèi sovrani. Anche al colle
di Crono diede nome, che prima
– al tempo di Enomao – era anonimo
e intriso di guazza nevosa.

L’Eracle di Pindaro è una figura quasi sacerdotale: è un magnifico campione,


massimo interprete della virtù eroica e del sentimento agonale, sensibile ai valori e ai
principi dell’aristocratismo arcaico. Figlio di Zeus, è totalmente devoto alla causa del
padre. Questa interpretazione del personaggio emerge con grande chiarezza dal fr.
169a M., dal quale si evince che Eracle ha svolto un’azione di eroe civilizzatore,
liberando la terra e il mare da ogni sorta di mostri; se anche in questa attività ha
dovuto a volte ricoprire il ruolo, apparentemente ingiusto, dell’aggressore (come nel
caso di Gerione e di Diomede), ciò rispondeva alla necessità di dare compimento alla
volontà di Zeus, cioè alla legge “di tutti sovrana”. Il pio Pindaro in questo modo
compone la contraddizione di fondo tra i due lati contrapposti del personaggio: il
massacratore spietato e il figlio di Zeus che con la sua “passione” si guadagna il
premio eterno.

Pindaro, fr. 169a, 1-13 M.


La legge, di tutti sovrana,
dei mortali come degli immortali,
guida con altissima mano
giustificando la violenza estrema. Ne do prova
dalle fatiche di Eracle,
poiché i buoi di Gerione
al portico ciclopico d’Euristeo
impunemente condusse senz’averli acquistati,
e anche le nobili cavalle di Diomede:
16

alla palude Bistonide infatti


ingannò il sovrano dei Ciconi,
figlio tremendo di Enialio
dalla bronzea corazza,
che aveva levato alto l’orgoglio.

La prima delle Nemee è un epinicio che racconta un’impresa di Eracle: non la


vittoria sul leone nemeo, ma la prima prodezza dell’eroe, che poche ore dopo la
nascita soffocò i due serpenti mandati contro di lui da Era. La scelta del tema è molto
scaltra; la vicenda “allude” infatti al mito di Ofelte, ma cambiandone il segno: il
piccolo Eracle non soccombe alle serpi, ma impone loro la sua forza. Il racconto
alterna momenti drammatici e passaggi giocosi: Alcmena che balza dal letto
seminuda, Anfitrione che accorre trafelato. Peraltro la tonalità apparentemente
leggera non cancella il senso profondo del canto: Eracle è il predestinato alla gloria, il
campione senza macchia e senza paura. Le sue imprese non sono narrate a posteriori,
ma profetizzate da Tiresia, e ciò conferisce alla carriera eroica del personaggio una
sanzione sovrumana: le sue vittorie sono scritte nel libro dei fati. Eracle uccide
mostri, sgomina uomini perversi, si schiera con gli dèi contro i Giganti: è dunque un
difensore della giustizia, che ben si merita la ricompensa di una beatitudine eterna.

Pindaro, Nemea I 33-72


Per Cromio Etneo, vincitore col carro

Io, tra tutte le vette di gesta valorose,


scelgo di cuore Eracle, ricordando un antico racconto.
Come, cioè, quando il figlio di Zeus venne
alla luce del giorno dal ventre materno
sfuggendo al parto con il fratello gemello,
fu subito avvolto in fasce lucenti.
Ma non sfuggì a Era, trono prezioso:
anzi, la regina d’Olimpo, trafitta dall’ira,
gli mandò dei serpenti. E questi per le porte socchiuse
entrarono in fondo alla stanza spaziosa,
vogliosi di stringere i bimbi
dentro le voraci mascelle. Quello alzò la testa
e fece la prova della prima battaglia:
con le sue due mani invincibili
afferrò al collo i due draghi.
La stretta, protratta nel tempo, fece uscire
la vita da quei corpi mostruosi.
Un terrore insopportabile percosse le donne,
quante vegliavano accanto ad Alcmena;
e lei stessa, balzando in piedi seminuda dal letto,
si affannava a scacciare la rabbia dei mostri.
17

Subito i capi Cadmei accorsero in massa


con le armi di bronzo; e venne Anfitrione,
vibrando nel pugno la spada sguainata,
trafitto da acuto dolore […] Si fermò,
sospeso tra gioia e stupore, quando vide
il coraggio smodato e il vigore del figlio:
gli dèi avevano smentito il racconto dei messi.
Chiamò il suo vicino, il profeta eccellente
dell’altissimo Zeus, Tiresia, l’indovino verace;
a lui e a tutta la corte quello predisse
i futuri destini del bimbo: quante fiere selvagge
avrebbe ucciso in terra e quante sul mare,
quanti uomini, traviati da orgoglio perverso,
avrebbe punito con morte penosa.
“E quando gli dèi” – disse – nella pianura
di Flegra daranno battaglia ai Giganti,
sotto i colpi del suo arco costoro insozzeranno
di terra i capelli lucenti. Lui poi,
nelle case immortali, a compenso
delle grandi fatiche, godrà in pace, giorno per giorno,
il privilegio perfetto di una beatitudine eterna;
avrà in sposa la splendida Ebe e, celebrate le nozze,
loderà i venerandi decreti di Zeus figlio di Crono”.

Eracle nella tragedia – Eracle è personaggio attivo di quattro dei 33 drammi che ci
sono pervenuti per tradizione diretta: Trachinie, Filottete, Alcesti, Eracle. Inoltre,
l’eroe aveva un ruolo importante nella trilogia eschilea su Prometeo, di cui
possediamo il primo [verosimilmente] dramma, cioè il Prometeo incatenato.
Sull’allestimento scenico dell’Eracle notizie essenziali sono date da V. Di
Benedetto – E. Medda, La tragedia sulla scena, Torino 1997, pp. 132-135. La
vicenda è ambientata a Tebe, davanti alla casa di Eracle, la cui facciata fa da edificio
scenico. Davanti alla casa c’è l’altare di Zeus Sotér, dedicato un tempo dall’eroe al
padre Zeus per la vittoria contro i Minii di Orcomeno; sull’altare siedono supplici,
all’inizio della tragedia, Anfitrione, Megara e i figli di Eracle. Le due parodoi portano
l’una ai luoghi della città, l’altra al territorio esterno.
L’Eracle apre una vasta finestra sullo spazio retroscenico, ossia sull’interno
della casa: in pochi altri drammi l’interno è “aperto” agli spettatori in misura
altrettanto vistosa. Dopo che Eracle, impazzito, ha sterminato la sua famiglia, e dopo
che un servo è uscito per raccontare l’accaduto, la porta si apre e l’interno della casa
diviene visibile. Lo spettacolo che si presenta agli spettatori è complesso: si vedono i
corpi dei figli, che giacciono in diversi punti, il corpo di Megara e più all’interno un
tronco di colonna spezzata a cui è legato Eracle. Fino alla fine della tragedia la porta
resta aperta. Peraltro lo spazio scenico “esterno” rimane attivo: nel finale infatti
arriva, da una delle parodoi, Teseo; Eracle, dopo avere dialogato con l’amico e averne
18

accettato l’ospitalità, lascia lo spazio interno e sorretto da Teseo si avvia verso Atene.
L’allestimento prevede anche l’uso della mechané, nella scena di Iris e Lissa.
Le due dee compaiono in alto, come si evince dal v. 817 (οἷον φάσμ᾿ ὑπερ δόμων
ὁρῶ): ciò significa che sono portate dalla macchina, della quale Iris si serve anche
per lasciare la scena volando nuovamente verso l’Olimpo, mentre Lissa entra in casa.
Probabilmente le due dee arrivavano sull’alto della casa e si sistemavano su un
piattaforma, dove rimanevano fino al momento dell’uscita (ai vv. 872-873 Lissa dice:
“Va’, nobile Iris, risali sull’Olimpo; io mi introdurrò, invisibile, nella casa di Eracle”).
In che modo, esattamente, Lissa entrasse nella casa, è impossibile dire.
Un altro aspetto singolare dell’allestimento è il sistema delle entrate e delle
uscite di Megara con i suoi figli e di Anfitrione. All’inizio del dramma essi sono
esclusi dalla loro stessa casa per ordine di Lico; poi, alla fine del primo episodio, Lico
concede loro di rientrare, ma solo per dare a Megara la possibilità di far indossare ai
figli gli ornamenti funebri, dal momento che la loro morte è decisa. All’inizio del
secondo episodio tutti e cinque escono di nuovo, pronti a morire; ma rientrano in casa
alla fine dell’episodio, dopo il ritorno di Eracle, quando la salvezza sembra certa
Eracle stesso sottolinea il rovesciamento della situazione ai vv. 622-624: “Ma su,
figli, accompagnate in casa vostro padre: il vostro rientro è certo più bello di quanto
fosse l’uscita”. La casa, quindi, è a lungo sospesa tra un valore positivo (luogo di
rifugio e di salvezza) e un valore negativo (spazio precluso, ovvero luogo di morte);
poi, con l’erompere della pazzia, la casa è distrutta, e nel finale Eracle e Anfitrione
sono privati di un loro proprio spazio. Il dramma racconta la distruzione della casa,
che si traduce anche nella distruzione dello spazio scenico: l’uscita finale di Eracle
suggella questa situazione.
Datazione – Non abbiamo informazioni dirette e oggettive sulla data di
rappresentazione. In questi casi la datazione può essere solo congetturale. Per le
tragedie di Euripide uno strumento efficace è il dato metrico, in particolare il
trattamento del trimetro giambico. Sulla base dei sette drammi databili con certezza,
gli studiosi hanno constatato che negli ultimi venti anni della sua carriera artistica
Euripide divenne sempre più “permissivo” (cioè, meno rigido) nell’uso di piedi
soluti. La proporzione di piedi soluti rispetto al totale dei trimetri giambici è del 6,2%
nell’Alcesti (438), del 6,6% nella Medea (431), del 4,3% nell’Ippolito (428), del
21,2% nelle Troiane (415), del 27,5% nell’Elena (412), del 39,4% nell’Oreste, del
37,6% nelle Baccanti (406). Il dato dell’Eracle corrisponde al 21,5%, il che
suggerisce una datazione vicina alle Troiane, forse il 416. Anche altri aspetti metrici
sembrano confermare questa datazione, in particolare la presenza di una sezione in
tetrametri trocaici (l’antico metro del dialogo tragico): sappiamo che Euripide, per un
vezzo arcaizzante, usò questo metro nei suoi ultimi drammi (non ce n’è traccia prima
delle Troiane).
Alcuni studiosi hanno voluto trovare elementi utili alla datazione anche in
possibili rferimenti agli eventi politici. Così, si è proposto come terminus ante quem
il 415, perché con il 416 (episodio di Milos) Euripide diventa pacifista (ne sarebbe
prova la trilogia delle Troiane, del 415 appunto), abbandonando quella simpatia
patriottica per Atene che fa spesso capolino nei drammi precedenti, nei quali Atene
19

difende la causa dei deboli contro i prepotenti.

Schema del dramma

1-106 prologo
La scena è davanti alla reggia di Tebe. Anfitrione racconta, in una lunga rhesis,
l’antefatto: la decisione di Eracle di mettersi al servizio di Euristeo, re di Argo, per
assicurare a sé e al padre il diritto di tornare nella città da cui Anfitrione proviene.
L’eroe ha portato a termine tutte le fatiche impostegli da Euristeo [fin dall’inizio
Euripide enfatizza la novità mitica adottata: la strage dei figli segue le fatiche, non le
procede], tranne l’ultima, la discesa all’Ade e la cattura di Cerbero. Dall’Ade Eracle
non è ancora tornato; della sua prolungata assenza ha approfittato Lico, un forestiero
arrivato dall’Eubea, per uccidere il re di Tebe, Creonte, padre di Megara e suocero di
Eracle e impadronirsi del potere. Lico, per evitare che i figli di Eracle, diventati
adulti, possano decidere di vendicare il nonno, ha deciso di ucciderli; per impedirlo,
Anfitrione e Megara siedono supplici, con i bimbi, sull’altare di Zeus Sotér, nella
speranza che questo valga a proteggerli dalla violenza del tiranno. Dopo la rhesis, il
prologo è completato da un dialogo tra Anfitrione e Megara: il vecchio esorta la
nuora a nutrire speranze, poiché la condizione degli uomini è mutevole, né il successo
né la sventura durano a lungo.

107-137 parodo: il Coro, composto da vecchi tebani [i coreuti insistono sulla


debolezza fisica cui la vecchiaia ormai li ha consegnati], viene a portare solidarietà e
– se possibile – aiuto ai supplici.

138-347 primo episodio: arriva Lico, con le sue guardie, che rivolge parole sprezzanti
ad Anfitrione e Megara. Lico sostiene che la fama di Eracle è immeritata: non è un
grande eroe chi si è battuto solo con bestie selvagge, non con guerrieri, e usa come
arma preferita l’arco, evitando di battersi in prima fila, come fanno gli opliti.
Anfitrione replica, difendendo il figlio [il coraggio di Eracle è fuori discussione:
l’eroe ne ha dato prova, tra l’altro, combattendo al fianco degli dèi contro i Giganti].
Lico ordina ai suoi di raccogliere legna in quantità e di disporla intorno all’altare, per
dare fuoco poi alla catasta e ardere i supplici. Il Corifeo, con una rhesis insolitamente
lunga, si appella alla tradizione tebana contro il tiranno e proferisce minacce
(destinate a rimanere tali). Megara interviene, riconoscendo che tutto è perduto e
invitando Anfitrione ad accettare di morire con lei e con i suoi figli. Lico accorda ai
supplici il permesso di rientrare in casa (ne erano stati esclusi dal tiranno stesso) per
prepararsi alla morte, poi si allontana con i suoi uomini. Anfitrione (che pronuncia
amare parole all’indirizzo di Zeus, incapace di salvare il suo sangue), Megara e i
bimbi entrano nel palazzo.

348-441 primo stasimo: il Coro canta le gesta di Eracle, con un canto che incrocia il
lamento funebre e l’encomio; il corale, per ampiezza e caratteristiche formali, è un
unicum nella produzione euripidea.
20

442-636 secondo episodio: escono dal palazzo Anfitrione, Megara e i figli; tutti in
abiti funebri. C’è prima una rhesis di Megara, che lamenta il doloroso cambiamento
nel corso delle loro vite: nei progetti del padre, i tre ragazzi avrebbero dovuto
diventare i sovrani di Argo, Tebe ed Ecalia; nelle attese della madre, avrebbero
dovuto sposare nobili e belle fanciulle di Atene, di Sparta e di Tebe; tutti questi
progetti si sono rivelati illusori. Anche Anfitrione constata la mutevolezza della sorte,
che in un solo giorno l’ha fatto precipitare nella rovina. Ma ecco arrivare, contro ogni
speranza, Eracle, di ritorno dall’Ade. L’eroe viene rapidamente informato di quanto
sta accadendo: la vicenda che ha portato Lico al potere, l’ingratitudine dei Tebani,
pronti a servire il nuovo padrone. Eracle rincuora i suoi ed entra con loro nel palazzo,
disponendosi allo scontro con Lico.

637-700 secondo stasimo: il Coro lamenta la propria vecchiezza e, dando spazio a un


desiderio irrealizzabile, immagina un mondo diverso, nel quale ai buoni fosse data la
possibilità di vivere una seconda giovinezza. Peraltro, continua il Coro, anche ai
vecchi è concesso il dono del canto e della memoria: i coreuti esprimono allora il
desiderio di intonare un peana e celebrare ancora le lodi di Eracle, che ha reso più
lieta la vita ai mortali, liberando il mondo dai mostri.

701-733 terzo episodio: arriva Lico, con il suo seguito, e dialoga con Anfitrione,
uscito dal palazzo. Il vecchio attira il tiranno nella trappola, dicendogli che Megara e
i figli sono rimasti dentro, distesi come supplici sull’altare di Estia. Lico si precipita
dentro, Anfitrione indugia ancora per qualche secondo, pregustando l’imminente
morte del tiranno, poi rientra anche lui nel palazzo.

734-821 terzo stasimo: il Coro commenta le grida che provengono dall’interno. I


vecchi tebani gioiscono per la morte di Lico, giusta punizione per chi ha insanguinato
la città. Gli dèi, dopo tutto, proteggono i giusti e colpiscono gli ingiusti: questo ha
insegnato la vicenda degli Eraclidi. Il Coro invoca i luoghi sacri di Tebe e di Pito, e
canta la gloria di Eracle, vero figlio di Zeus.

822-873 quarto episodio: sopra il palazzo appaiono Iris e Lissa; Lissa, la dea della
follia, è stata mandata da Era per sconvolgere la mente di Eracle; è un compito che
Lissa esegue controvoglia ma, poiché deve obbedire agli ordini di Era, si mette subito
all’opera e descrive la trasformazione che sconvolge la mente dell’eroe. Poi le due
dee si allontanano: Iris risale all’Olimpo, Lissa entra nella casa.

875-921 serie di canti astrofici: il Coro commenta le grida di Anfitrione, che si odono
dall’interno, e si immagina la scena terribile che si sta svolgendo; entra un
Messaggero, che in preda all’emozione dialoga in metro lirico col Coro.

922-1015 quinto episodio: il Messaggero racconta, con una lunga rhesis, la scena
della follia di Eracle e l’uccisione dei figli e di Megara.
21

1016-1087 intermezzo lirico: il Coro ricorda gli exempla delle Danaidi e di Procne; si
aprono le porte e l’interno diventa visibile, con i corpi degli uccisi, Eracle legato alla
colonna e i segni della distruzione; Anfitrione e il Coro, in dialogo lirico, attendono
con ansia il risveglio dell’eroe.

1088-1428 esodo: Eracle, destatosi, non ricorda ciò che è accaduto e non si rende
conto della sua situazione; è Anfitrione a rivelarglielo, in un dialogo dai toni
strazianti. Eracle vorrebbe uccidersi, ma arriva l’amico Teseo, venuto da Atene con
un esercito allo scopo di portare aiuto contro Lico. Anfitrione spiega a Teseo quel che
è accaduto (Eracle intanto se ne sta muto, con il capo avvolto nel mantello, pieno di
vergogna). Poi, per le insistenze di Teseo, Eracle si scopre il capo e affronta la
situazione. Segue un lungo dialogo tra i due eroi; Eracle racconta la sua carriera
gloriosa, conclusasi così ingloriosamente, e ribadisce che l’unica soluzione per lui è
darsi la morte. Teseo ribatte che sarebbe una scelta disonorevole e vile, poiché la vita,
con tutte le sue pene e le sue brutture, deve essere comunque accettata dai mortali;
invita dunque Eracle a venire ad Atene, dove potrà purificarsi e farsi apprezzare dai
cittadini. Eracle accetta e, dopo avere dato al padre disposizioni per la sepoltura dei
figli e di Megara, si allontana in compagnia dell’amico, cui si è completamente
affidato.

Trattamento del mito – Per certi versi Euripide si attiene a una versione tradizionale
e ormai consolidata del mito di Eracle. Ciò vale in particolare per il primo stasimo,
che contiene il catalogo degli athla: il leone nemeo (“liberò il bosco sacro a Zeus dal
leone”), i Centauri (“abbatté con l’arco la razza montana dei selvaggi Centauri”), la
cerva dalle corna dorate (“uccise la cerva dalle corna dorate e dal dorso maculato,
devastatrice del lavoro agricolo”), le cavalle di Diomede (“domò imbrigliandole le
cavalle di Diomede che, prive di morso, erano solite stritolare tra le mascelle cibo
cruento”), il brigante Cicno (“sulla costa dominata dal Pelio uccise con l’arco Cicno,
assassino di viandanti”), i pomi delle Esperidi (li può cogliere “uccidendo il serpente
dal dorso fulvo che li custodiva”), la liberazione del mare dai mostri (“e scese allora
negli abissi del mare, assicurando la bonaccia ai remi dei mortali”), Atlante (“per
sorreggere con forza di eroe le dimore degli dèi punteggiate di stelle”), la cintura
della regina delle Amazzoni (“ottenne il glorioso trofeo della vergine barbara e lo
custodisce a Micene”), l’idra di Lerna, le mandrie di Gerìone, il viaggio nell’Ade per
la cattura di Cerbero. Elemento comune a tutte le imprese è la tensione civilizzatrice:
Eracle è mosso dal desiderio di liberare la terra e il mare da creature mostruose o
pericolose che possono ostacolare i viaggi e gli spostamenti degli uomini. Il Coro
ribadisce questa idea in ogni strofe, o quasi; e Lissa ai vv. 851-853 la teorizza: “Ha
bonificato le regioni inaccessibili e il mare inospitale e da solo ha ripristinato il culto
divino che era messo in pericolo da uomini empi” (ἄβατον δὲ χώραν καὶ
θάλασσαν ἀγρίαν / ἐξημερώσας θεῶν ἀνέστησεν μόνος / τιμὰς πιτνούσας
ἀνοσίων ἀνδρῶν ὕπο). Non è difficile riconoscere in questo ritratto l’immagine
22

che Pindaro dà di Eracle: una figura quasi sacerdotale, totalmente devoto alla causa di
giustizia propugnata dal padre Zeus (il testo più significativo, cme si è visto, è il fr.
169a M.: “La legge, di tutti sovrana, dei mortali come degli immortali, guida con
altissima mano giustificando la violenza estrema. Ne do prova dalle fatiche di Eracle
[…]”). Anche nelle metope del tempio di Zeus a Olimpia la scelta iconografica è
ispirata alla stessa percezione dell’eroe come collaboratore degli dèi, sempre
impegnato in imprese intese a ristabilire una norma di civiltà.
I commentatori osservano che la formulazione usata da Lissa è molto vicina a
quella che Tucidide mette in bocca a Pericle a proposito della missione civilizzatrice
di Atene in II 41, 4: “Abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro
ardimento” (πᾶσαν μὲν θάλασσαν καὶ γῆν ἐσβατὸν τῇ ἡμετέρᾳ τόλμῃ
καταναγκάσαντες γενέσθαι). Si può pensare che negli anni periclei l’ideologia
democratica si fosse appropriata della figura di Eracle, proponendolo come un
modello dell’azione politica di Atene (“faro dell’Ellade”).
Nel prologo dell’Eracle le fatiche sono riassunte nella frase ἐξημερῶσαι
γαῖαν (v. 20), e la loro causa è la devozione filiale. Anfitrione spiega che suo figlio
ha accettato di mettersi al servizio di Euristeo, signore di Argo, per consentire a lui di
ritornare nella sua città di origine. Ciò è coerente con uno dei grandi temi del
dramma: il sentimento della paternità. Nell’Eracle i personaggi continuamente
discutono sul ruolo di un padre: dei due padri di Eracle, Zeus e Anfitrione, quale si
mostra più degno del proprio nome? Peraltro, a questa spiegazione delle fatiche in
termini squisitamente umani (che potrebbe essere una novità introdotta da Euripide)
Anfitrione ne aggiunge altre due, più tradizionali: l’ostilità di Era e l’inflessibilità del
destino.
In ogni caso, gli studiosi riconoscono nell’Eracle la presenza di tre innovazioni
nel trattamento della saga. La prima è la figura, e il ruolo, di Lico. Non c’è alcuna
menzione di questo personaggio nelle fonti anteriori ad Euripide; la sua presenza in
autori successivi (Igino, Seneca) dipende dal dramma euripideo. Lico viene
presentato ai vv. 26-34: “C’è un vecchio racconto dei Cadmei: che un tale Lico un
tempo era sposo di Dirce e regnava su questa città dalle sette torri prima che i sovrani
di questa terra fossero i due gemelli dai bianchi cavalli, Anfione e Zeto, nati da Zeus
[Anfione e Zeto sono i figli gemelli di Antiope e Zeus: Lico e Dirce perseguitano la
loro madre, Antiope, per molti anni; i due gemelli, allevati da un pastore e diventati
l’uno (Zeto) pastore a sua volta, l’altro (Anfione) musico, ritrovano la madre, la
vendicano e fondano le mura della città]. Suo figlio, che ha lo stesso nome del padre,
non Cadmeo ma originario dell’Eubea, ha ucciso Creonte e, dopo il delitto, regna sul
paese, poiché si è imposto alla città afflitta da una discordia civile”. Euripide
“inventa” Lico (omonimo di suo padre, anche lui avversario dei figli di Zeus) perché
gli serve per creare la situazione di pericolo iniziale: Eracle è assente, impegnato
nell’ultima delle sue fatiche, ma è necessario che i suoi familiari a Tebe siano
minacciati da qualcuni (che non può essere Euristeo, in questo momento della
vicenda).
La seconda, grande, innovazione è l’inversione della sequenza cronologica tra
23

follia e fatiche. Nell’Eracle le fatiche precedono l’attacco di follia e l’uccisione dei


figli, e questa sequenza consente a Euripide di reimpostare completamente il senso
della saga e di esaltarne la dimensione tragica. La follia è il non senso, l’enigma (in
termini umani), l’ingiustizia che travolge ogni possibilità di comprensione: proprio
quando il grande eroe figlio di Zeus ha compiuto vittoriosamente la sua missione ed è
tornato a Tebe giusto in tempo per stornare l’ultima barbarie (la violenza ai supplici
da parte del feroce Lico), un arbitrario, capriccioso gesto di Era annulla ogni gloria,
ogni grandezza, ogni verità. Eracle, senza sua colpa, subisce una trasformazione
radicale: da esecutore della giustizia di Zeus (violento, ma legittimato) decade a
insensato macellaio di persone innocenti. Materia della riflessione tragica diventa
così questa “colpa / non colpa” (simile a quella di Edipo); qual è il vero merito di
Eracle, la virtù che gli vale il premio della beatificazione [con anacronismo cristiano,
la sua “passione”]? La carriera eroica o il coraggio di continuare a vivere dopo
l’immeritata sventura?
Prima di Euripide le testimonianze di questa versione della saga (Eracle
assassino dei figli) sono piuttosto scarse. Pausania (IX 11, 2) descrivendo i resti della
casa di Anfitrione a Tebe, dice: “[I Tebani] mostrano anche il monumento funebre dei
figli che Eracle ebbe da Megara e sulla loro morte non raccontano niente di diverso
rispetto a quanto affermano nei loro versi Stesicoro di Imera e Paniassi. Ma i Tebani
aggiungono anche questo: Eracle, nella sua pazzia, stava per uccidere anche
Anfitrione, ma prima di poterlo fare fu preso dal sonno provocato dal colpo del sasso,
e fu Atena a scagliare contro di lui questo sasso che chiamano Sophronistér”. Quindi,
sembra di capire che in Stesicoro e Paniassi la morte dei figli di Eracle era causata
dalla follia paterna, ma che nel loro racconto mancavano certi dettagli che la versione
tebana conosceva e che corrispondono al racconto di Euripide [qui ci si può chiedere
se sia Euripide ad attingere a questa “versione tebana” o viceversa sia la versione
euripidea a fare scuola]. Ferecide di Atene dice semplicemente che Eracle gettò i suoi
cinque figli nel fuoco. Pindaro dà una versione diversa nell’Istmica IV, ai vv. 55-68. Il
poeta sta lodando Melisso di Tebe, vincitore col carro; spiega che il laudando non è di
altissima statura, ma è “pesante da incontrare in battaglia”. Scatta il confronto con
Eracle, a sua volta “basso d’aspetto, ma inflessibile d’animo”:

Pindaro, Istmica IV, 55-68


E andò in Olimpo, dopo avere esplorato
la distesa di tutta la terra e del mare canuto,
liberando la via ai viaggi per nave.
Ora abita presso l’Egioco, godendo
perfetta felicità; è onorato
come amico dagli immortali, ha Ebe per sposa,
è signore di auree case e genero di Era.
Nell’offrirgli oltre le porte di Elettra il festino e le nuove
corone d’altari, noi cittadini compiamo grandi
sacrifici per gli otto defunti armati di bronzo
che Megara figlia di Creonte gli generò come figli:
sorge per essi al tramonto dei raggi
la fiamma e dura tutta la notte,
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scalciando l’etere col fumo fragrante,


e il giorno dopo, data dei giochi
annuali, c’è la prova di forza.

Il pio Pindaro rifiuta la versione che faceva di Eracle l’assassino dei figli: definendoli
come otto defunti “armati di bronzo”, il poeta li presenta come guerrieri, caduti
gloriosamente in battaglia.
Nelle fonti successive la sequenza follia – fatiche è fissa. I racconti più
dettagliati sono quelli di Diodoro Siculo e di Apollodoro. In particolare, Apollodoro
II 4, 12 spiega che dopo la battaglia contro i Minii l’eroe impazzì per volontà di Era e
gettò nel fuoco i figli avuti da Megara, uccidendoli; “Recatosi poi a Delfi, interrogò
il dio sul luogo in cui avrebbe dovuto prendere dimora. Fu allora che la Pizia per
prima si rivolse a lui col nome di Eracle (in precedenza veniva chiamato Alcide [dal
nonno Alceo, padre di Anfitrione]); essa gli ingiunse di stabilirsi a Tirinto al servizio
di Euristeo per dodici anni compiendo le dieci fatiche che gli sarebbero state imposte,
e predisse che dopo averle portate a compimento sarebbe diventato immortale”. Gli
studiosi sono per lo più d’accordo nel ritenere che questa cronologia follia (e
uccisione dei figli) – fatiche fosse la versione standard in età arcaica e classica, e che
sia stato Euripide a rovesciarla. L’innovazione euripidea avrebbe però trovato scarso
seguito, e la versione tradizionale avrebbe mantenuto la propria forza, anche dopo la
composizione della tragedia
La terza novità (connessa con la seconda, peraltro) è il ruolo di Teseo. Teseo
arriva in scena nel finale, per confortare Eracle e condurlo con sé ad Atene. Gli
studiosi pensano che il coinvolgimento di Teseo nella saga eraclea sia un’invenzione
di Euripide: un’invenzione, beninteso, non rivoluzionaria, ma anzi favorita dalla
tradizione letteraria. Nella tragedia attica la lode di Atene e la celebrazione della sua
identità mitica (di cui Teseo è figura capitale) sono temi ricorrenti. Anche nelle
Supplici (ca. 422) Teseo mette la forza della città al servizio di una causa di giustizia,
sempre in nome di una norma di pietà religiosa. Teseo ha un ruolo simile anche
nell’Edipo a Colono [successivo all’Eracle, naturalmente]: accoglie Edipo ad Atene,
proponendosi come pio mediatore tra piano umano e piano divino. Già ai vv. 618-621
la sua presenza è “caricata” nelle battute di dialogo tra padre e figlio:

Euripide, Eracle 618-621


ANFITRIONE Come mai sei rimasto per tanto tempo sotto terra?
ERACLE Mi sono trattenuto per riportare Teseo fuori dall’Ade.
ANFITRIONE E dove si trova? Forse è tornato nella sua patria?
ERACLE È andato ad Atene, lieto di essere sfuggito agli Inferi.

Nell’esodo ancor più esplicitamente l’arrivo di Teseo è spiegato con il desiderio di


mostrare riconoscenza per il beneficio ricevuto. Ora, è chiaro che questo sviluppo
della vicenda non sarebbe possibile se le fatiche, e in particolare l’ultima, ossia la
discesa all’Ade, non fossero già compiute.
Nel caso dell’Eracle, peraltro, i commentatori insistono sulla sovrapposizione
tra le figure di Eracle e di Teseo che Atene pone in atto nel corso di tutto il V secolo.
25

Teseo viene esaltato perché proposto come “secondo Eracle”, anch’egli impegnato in
una vasta opera di ripulitura del mondo da mostri e criminali. Nelle metope del
Tesoro degli Ateniesi (costruito dopo il 490) erano rappresentate sui lati Nord e Ovest
la fatiche di Eracle, sui lati Sud ed Est l’Amazzonomachia di Teseo. Allo stesso
modo, nel tempio di Efesto (ca. 440) edificato nell’Agorà di Atene (il cosiddetto
Theseion) le metope raffiguravano le fatiche di Eracle e le fatiche di Teseo.
Sostanzialmente, Euripide consolida il radicamento ateniese della figura di
Eracle creando un contatto con Teseo (un Teseo, tra l’altro, in qualche modo
“creditore”, oltre che debitore, nei confronti dell’amico): e dobbiamo pensare che
questa sia un’operazione di politica culturale consapevole e funzionale alla lettura
ideologica dei due eroi propugnata dalla democrazia attica. La datazione al 416 circa
ne risulta confermata (o forse sarebbe meglio dire non ostacolata).

Euripide, Eracle 1-106


ΑΜΦΙΤΡΥΩΝ
Τίς τὸν Διὸς σύλλεκτρον οὐκ οἶδεν βροτῶν,
Ἀργεῖον Ἀμφιτρύων’, ὃν Ἀλκαῖός ποτε
ἔτιχθ’ ὁ Περσέως, πατέρα τόνδ’ Ἡρακλέους;
ὃς τάσδε Θήβας ἔσχον, ἔνθ’ ὁ γηγενὴς
5 σπαρτῶν στάχυς ἔβλαστεν, ὧν γένους Ἄρης
ἔσωσ’ ἀριθμὸν ὀλίγον, οἳ Κάδμου πόλιν
τεκνοῦσι παίδων παισίν· ἔνθεν ἐξέφυ
Κρέων Μενοικέως παῖς, ἄναξ τῆσδε χθονός.
Κρέων δὲ Μεγάρας τῆσδε γίγνεται πατήρ,
10 ἣν πάντες ὑμεναίοισι Καδμεῖοί ποτε
λωτῶι συνηλάλαξαν ἡνίκ’ εἰς ἐμοὺς
δόμους ὁ κλεινὸς Ἡρακλῆς νιν ἤγετο.
λιπὼν δὲ Θήβας, οὗ κατωικίσθην ἐγώ,
Μεγάραν τε τήνδε πενθερούς τε παῖς ἐμὸς
15 Ἀργεῖα τείχη καὶ Κυκλωπίαν πόλιν
ὠρέξατ’ οἰκεῖν, ἣν ἐγὼ φεύγω κτανὼν
Ἠλεκτρύωνα. συμφορὰς δὲ τὰς ἐμὰς
ἐξευμαρίζων καὶ πάτραν οἰκεῖν θέλων
καθόδου δίδωσι μισθὸν Εὐρυσθεῖ μέγαν,
20 ἐξημερῶσαι γαῖαν, εἴθ’ Ἥρας ὕπο
κέντροις δαμασθεὶς εἴτε τοῦ χρεὼν μέτα.
καὶ τοὺς μὲν ἄλλους ἐξεμόχθησεν πόνους,
τὸ λοίσθιον δὲ Ταινάρου διὰ στόμα
βέβηκ’ ἐς Ἅιδου τὸν τρισώματον κύνα
25 ἐς φῶς ἀνάξων, ἔνθεν οὐχ ἥκει πάλιν.
γέρων δὲ δή τις ἔστι Καδμείων λόγος
ὡς ἦν πάρος Δίρκης τις εὐνήτωρ Λύκος
τὴν ἑπτάπυργον τήνδε δεσπόζων πόλιν,
τὼ λευκοπώλω πρὶν τυραννῆσαι χθονὸς
30 Ἀμφίον’ ἠδὲ Ζῆθον, ἐκγόνω Διός.
οὗ ταὐτὸν ὄνομα παῖς πατρὸς κεκλημένος,
Καδμεῖος οὐκ ὢν ἀλλ’ ἀπ’ Εὐβοίας μολών,
κτείνει Κρέοντα καὶ κτανὼν ἄρχει χθονός,
στάσει νοσοῦσαν τήνδ’ ἐπεσπεσὼν πόλιν.
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35 ἡμῖν δὲ κῆδος ἐς Κρέοντ’ ἀνημμένον


κακὸν μέγιστον, ὡς ἔοικε, γίγνεται.
τοὐμοῦ γὰρ ὄντος παιδὸς ἐν μυχοῖς χθονὸς
ὁ καινὸς οὗτος τῆσδε γῆς ἄρχων Λύκος
τοὺς Ἡρακλείους παῖδας ἐξελεῖν θέλει
40 κτανὼν δάμαρτά <θ’>, ὡς φόνωι σβέσηι φόνον,
κἄμ’ (εἴ τι δὴ χρὴ κἄμ’ ἐν ἀνδράσιν λέγειν,
γέροντ’ ἀχρεῖον), μή ποθ’ οἵδ’ ἠνδρωμένοι
μήτρωσιν ἐκπράξωσιν αἵματος δίκην.
ἐγὼ δέ (λείπει γάρ με τοῖσδ’ ἐν δώμασιν
45 τροφὸν τέκνων οἰκουρόν, ἡνίκα χθονὸς
μέλαιναν ὄρφνην εἰσέβαινε, παῖς ἐμός)
σὺν μητρί, τέκνα μὴ θάνωσ’ Ἡρακλέους,
βωμὸν καθίζω τόνδε σωτῆρος Διός,
ὃν καλλινίκου δορὸς ἄγαλμ’ ἱδρύσατο
50 Μινύας κρατήσας οὑμὸς εὐγενὴς τόκος.
πάντων δὲ χρεῖοι τάσδ’ ἕδρας φυλάσσομεν,
σίτων ποτῶν ἐσθῆτος, ἀστρώτωι πέδωι
πλευρὰς τιθέντες· ἐκ γὰρ ἐσφραγισμένοι
δόμων καθήμεθ’ ἀπορίαι σωτηρίας.
55 φίλων δὲ τοὺς μὲν οὐ σαφεῖς ὁρῶ φίλους,
οἱ δ’ ὄντες ὀρθῶς ἀδύνατοι προσωφελεῖν.
τοιοῦτον ἀνθρώποισιν ἡ δυσπραξία·
ἧς μήποθ’ ὅστις καὶ μέσως εὔνους ἐμοὶ
τύχοι, φίλων ἔλεγχον ἀψευδέστατον.

ΜΕΓΑΡΑ
60 ὦ πρέσβυ, Ταφίων ὅς ποτ’ ἐξεῖλες πόλιν
στρατηλατήσας κλεινὰ Καδμείων δορός,
ὡς οὐδὲν ἀνθρώποισι τῶν θείων σαφές.
ἐγὼ γὰρ οὔτ’ ἐς πατέρ’ ἀπηλάθην τύχης,
ὃς οὕνεκ’ ὄλβου μέγας ἐκομπάσθη ποτὲ
65 ἔχων τυραννίδ’, ἧς μακραὶ λόγχαι πέρι
πηδῶσ’ ἔρωτι σώματ’ εἰς εὐδαίμονα,
ἔχων δὲ τέκνα· κἄμ’ ἔδωκε παιδὶ σῶι,
ἐπίσημον εὐνὴν Ἡρακλεῖ συνοικίσας.
καὶ νῦν ἐκεῖνα μὲν θανόντ’ ἀνέπτατο,
70 ἐγὼ δὲ καὶ σὺ μέλλομεν θνήισκειν, γέρον,
οἵ θ’ Ἡράκλειοι παῖδες, οὓς ὑπὸ πτεροῖς
σώιζω νεοσσοὺς ὄρνις ὣς ὑφειμένους.
οἱ δ’ εἰς ἔλεγχον ἄλλος ἄλλοθεν πίτνων
Ὦ μῆτερ, αὐδᾶι, ποῖ πατὴρ ἄπεστι γῆς;
75 τί δρᾶι, πόθ’ ἥξει; τῶι νέωι δ’ ἐσφαλμένοι
ζητοῦσι τὸν τεκόντ’, ἐγὼ δὲ διαφέρω
λόγοισι μυθεύουσα. θαυμάζων δ’ ὅταν
πύλαι ψοφῶσι πᾶς ἀνίστησιν πόδα,
ὡς πρὸς πατρῶιον προσπεσούμενοι γόνυ.
80 νῦν οὖν τίν’ ἐλπίδ’ ἢ πόρον σωτηρίας
ἐξευμαρίζηι, πρέσβυ; πρὸς σὲ γὰρ βλέπω.
ὡς οὔτε γαίας ὅρι’ ἂν ἐκβαῖμεν λάθραι
(φυλακαὶ γὰρ ἡμῶν κρείσσονες κατ’ ἐξόδους)
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οὔτ’ ἐν φίλοισιν ἐλπίδες σωτηρίας


85 ἔτ’ εἰσὶν ἡμῖν. ἥντιν’ οὖν γνώμην ἔχεις
λέγ’ ἐς τὸ κοινόν, μὴ θανεῖν ἕτοιμον ἦι.
88 Αμ. ὦ θύγατερ, οὔτοι ῥάιδιον τὰ τοιάδε
89 φαύλως παραινεῖν σπουδάσαντ’ ἄνευ πόνου·
87 χρόνον δὲ μηκύνωμεν ὄντες ἀσθενεῖς.
90 Με. λύπης τι προσδεῖς ἢ φιλεῖς οὕτω φάος;
Αμ. καὶ τῶιδε χαίρω καὶ φιλῶ τὰς ἐλπίδας.
Με. κἀγώ· δοκεῖν δὲ τἀδόκητ’ οὐ χρή, γέρον.
Αμ. ἐν ταῖς ἀναβολαῖς τῶν κακῶν ἔνεστ’ ἄκη.
Με. ὁ δ’ ἐν μέσωι γε λυπρὸς ὢν δάκνει χρόνος.
95 Αμ. γένοιτο μέντἄν, θύγατερ, οὔριος δρόμος
ἐκ τῶν παρόντων τῶνδ’ ἐμοὶ καὶ σοὶ κακῶν
ἔλθοι τ’ ἔτ’ ἂν παῖς οὑμός, εὐνήτωρ δὲ σός.
ἀλλ’ ἡσύχαζε καὶ δακρυρρόους τέκνων
πηγὰς ἀφαίρει καὶ παρευκήλει λόγοις,
100 κλέπτουσα μύθοις ἀθλίους κλοπὰς ὅμως.
κάμνουσι γάρ τοι καὶ βροτῶν αἱ συμφοραί,
καὶ πνεύματ’ ἀνέμων οὐκ ἀεὶ ῥώμην ἔχει,
οἵ τ’ εὐτυχοῦντες διὰ τέλους οὐκ εὐτυχεῖς·
ἐξίσταται γὰρ πάντ’ ἀπ’ ἀλλήλων δίχα.
105 οὗτος δ’ ἀνὴρ ἄριστος ὅστις ἐλπίσιν
πέποιθεν αἰεί· τὸ δ’ ἀπορεῖν ἀνδρὸς κακοῦ.

Prologo – La scena iniziale sfrutta il modulo della supplica all’altare, usato spesso
nell’incipit tragico. Nell’Andromaca la protagonista, nel momento in cui l’azione si
avvia, ha cercato rifugio insieme al figlio Molosso presso il tempietto di Teti,
costruito in ricordo delle nozze con Peleo (un luogo che ha un valore profondamente
simbolico per Andromaca: è una sorta di sacrario nuziale, che marca l’inizio di una
stirpe). Andromaca si sente infatti minacciata dalla gelosia di Ermione, che
approfittando dell’assenza di Neottolemo è decisa a sbarazzarsi della rivale. Molto
simile è l’incipit degli Eraclidi, in cui i figli di Eracle e Iolao siedono presso gli altari
di Zeus e degli altri dèi a Maratona per cercare protezione dalla violenza di Euristeo.
Questa forma di iketeia va distinta dall’altra, anch’essa tipica della tragedia, in cui il
supplice non cerca riparo fisico immediato per sé (ossia, non usa lo spazio sacro
come un taboo), ma con il richiamo alla sacralità di un luogo cerca di dare forza alla
propria preghiera: le madri dei caduti tebani all’inizio delle Supplici (la scena è a
Eleusi, presso l’altare di Demetra), ovvero la scena iniziale dell’Edipo Re.
I “figli dei figli” sono i nipoti, naturalmente. Ma la formulazione greca παῖδες
παίδων ovvero τέκνα τέκνων ha una grande pregnanza, perché rimanda alla
successione delle generazioni, quindi all’eredità materiale e spirituale che garantisce
agli uomini una forma (minore) di “immortalità”. Nell’epigramma 43 A-B di
Posidippo si dice che la defunta Nicostrata ha avuto la consolazione di “vedere i figli
dei figli” (τέκνων [τέκν’ ἐπ]ιδοῦσαν). La formulazione τέκνων τέκν’ ἐπιδεῖν è una
variazione del topos παῖδας παίδων ἐπιδεῖν che è ricorrente nelle iscrizioni funerarie a
partire dal IV secolo a.C.
Gli Sparti appartengono al ciclo tebano. Cadmo, mentre vagava alla ricerca di
28

Europa, ebbe da Zeus l’ordine di uccidere un drago e di fondare una città (la futura
Tebe) nel luogo dello scontro. Su invito di Atena, Cadmo seminò nella terra i denti
del drago: ne nacquero gli Sparti (i “seminati”), ossia dei guerrieri armati che si
affrontarono in una battaglia sanguinosa quando Cadmo gettò una pietra in mezzo a
loro. Ne sopravvissero solo cinque, che furono i capostipiti delle cinque stirpi
aristocratiche di Tebe. La metafora della “messe” si applica molto facilmente alla
stirpe dei “seminati”. Nell’avvio del De Pythiae oraculis di Plutarco (un beota, al
quale il mito tebano è particolarmente caro) la stessa metafora è usato per i discorsi
che gli amici intrecciano mentre si accingono a visitare il tempio di Apollo: i
visitatori “seminano” i discorsi e poi li “mietono” quando sputano su “gonfi e
combattivi”.
La dualità tra appartenenza umana e destino divino è ciò che rende tragica
(ossia contraddittoria, enigmatica) la figura di Eracle: Eracle può soffrire perché è
uomo, e come tale è soggetto all'ostilità capricciosa degli dèi, e di Era in particolare;
ma, paradossalmente, proprio la sua sofferenza “insensata” gli vale la beatitudine e
l'immortalità. Eracle porta in sé la contraddizione perché ha due padri, uno mortale e
uno immortale. Il dramma dà perciò una parte grandissima ad Anfitrione, che ha
accettato con umiltà l'intromissione di Zeus nella sua vita coniugale e ne ha accolto il
frutto, Eracle appunto, come un suo proprio figliolo. Ciò emerge con chiarezza
proprio nell'incipit della tragedia: Anfitrione si presenta come il “compagno di letto”
di Zeus (σύλλεκτρον, v. 1) e insieme “padre di Eracle” (v. 3). Nella prima parte del
dramma, quando Eracle è lontano e i suoi figli sono minacciati da Lico, Anfitrione si
tiene in equilibrio tra queste due condizioni, accettandone l'ambiguità: così, in
risposta all'attacco verbale di Lico (che ha accusato Eracle di vigliaccheria), replica
“La porzione di paternità che compete a Zeus, sia Zeus stesso a difenderla; per ciò
che riguarda me […] non posso sopportare, Eracle, che si dica male di te” (vv. 170-
173).
Più avanti, quando la situazione sembra ormai senza scampo, Anfitrione
diventa più severo con Zeus, la cui indifferenza gli sembra incomprensibile: vv. 339-
347 “Zeus, invano dunque hai condiviso il mio letto coniugale, invano dichiaravo di
avere in comune con te la paternità di un figlio! Tu eri dunque meno amico di quanto
sembravi! Io, pur essendo un mortale, supero per virtù te, un grande dio: perché non
ho tradito i figli di Eracle. Tu sei stato capace di entrare di nascosto in un letto e di
fare tua la donna di un altro, senza che nessuno ti autorizzasse, ma non sei capace di
salvare i tuoi cari. Non sei un dio saggio, oppure non sei giusto”. Ma Eracle torna,
giusto in tempo utile per salvare i suoi, e la “metà” divina della sua paternità è
riaffermata dal Coro nei versi finali del III stasimo:

Euripide, Eracle 798-804


O duplice unione nuziale e procreazione
comune, di un mortale e di Zeus,
che entrò nel letto della giovane sposa
nipote di Perseo: quanto degna di fede
mi si è rivelata, quando non lo speravo più,
questa tua antica unione, Zeus,
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e la parte che tu hai avuto.

Quando però l’eroe stermina i suoi e minaccia di uccidere anche il padre, per
Anfitrione diventa molto difficile reggere il proprio ruolo paterno: alla gloria di una
“parentela” con Zeus subentra la desolazione, l’angoscia, la disperazione. Ma il
vecchio non abbandona la partita, e anzi riversa tenerezza su Eracle, reclamandolo
come suo: “Figlio, anche se sei nel male, sei mio” (v. 1113). A questo punto, è Eracle
a scegliere: se veramente egli fosse figlio di Zeus, allora l’ingiustizia della sua sorte
sarebbe intollerabile; ma il figlio di un uomo può resistere con fermezza ai mali della
vita, darsi ragione della rovina in cui è precipitato. Nel dialogo con Teseo Eracle
spiega che la causa delle sue sfortune è una condanna che lui, in quanto figlio di
Anfitrione, porta nel sangue: “Sono nato da quest’uomo che, contaminato per avere
ucciso il vecchio padre di mia madre, sposò Alcmena, colei che mi ha messo al
mondo. Quando le fondamenta di una stirpe non sono sane, è destino che i
discendenti subiscano sventure”. Eracle, cioè, ripudia Zeus e abbraccia Anfitrione
perché solo così può accettare e capire quel che gli è successo: “Ma tu, vecchio, non
sentirti offeso: mio padre io considero te, non Zeus” (vv. 1264-1265). Teseo replica
che non c’è vera differenza, nella capacità di fare il male e di sopportarne le
conseguenze, tra gli dèi e gli uomini: anche gli dèi commettono colpe esecrabili, e
tuttavia accettano i loro errori e abitano l’Olimpo; dunque [questo il pensiero
sottinteso] Eracle non deve rinunciare alla paternità divina per continuare a vivere.
Ma Eracle non è d’accordo (vv. 1341-1346): “Io non credo che gli dèi godano di
amplessi che non sono leciti […] Il dio, se veramente è un dio, non ha bisogno di
nulla. Questi sono racconti infami dei poeti”. L'eroe non potrebbe formulare in modo
più chiaro la propria decisione di rinunciare al proprio mito.
Difficilmente però questa è la prospettiva di Euripide, o comunque la lettura
che della vicenda di Eracle il drammaturgo vuole proporre al pubblico. Nel
trattamento della figura di Anfitrione Euripide sembra rifarsi allo schema concettuale
usato da Pindaro per spiegare la forza e la debolezza dell’eroe Eaco, capostipite degli
Egineti. Nell’VIII Olimpica viene evocata la scena della costruzione delle mura di
Troia, commissionata dal re Laomedonte ad Apollo e Poseidone. I due dèi decidono
di chiamare come collaboratore, associandolo all’impresa, il re di Egina Eaco, figlio
di Zeus, che per le sue doti di giustizia e di pietà si è reso degno di questo
grandissimo onore. Mentre i lavori fervono, accade un fatto straordinario: tre serpenti
si avventano contro le mura; due ricadono giù, stroncati, il terzo supera fischiando la
sommità del bastione. Apollo non ha difficoltà a interpretare il prodigio; rivolto a
Eaco gli dice: “Il presagio è per te: la città cadrà due volte, a opera di tuoi
discendenti, della prima e della terza generazione”. Apollo predice ciò che sta per
accadere: il mito infatti racconta che Troia è conquistata prima dalla spedizione
guidata da Eracle (di cui fanno parte anche Peleo e Telamone, figli di Eaco), poi – a
breve distanza di tempo – dagli Achei di Agamennone (e tra loro ci sono Achille e
Aiace, nipoti del re di Egina).
Il senso dell’episodio è facile da capire: Eaco ha il privilegio di cooperare con
gli dèi, ma la sua partecipazione all’impresa è proprio ciò che rende Troia
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vulnerabile. Il re di Egina trasferisce alla città la caducità iscritta in lui, nella sua
condizione di creatura mortale; se le mura fossero interamente manufatto divino,
nessuna mano umana potrebbe abbatterle. D’altra parte, nel momento in cui trasmette
alla rocca il germe della mortalità, l’eroe pone anche le basi per la gloria della sua
stirpe: saranno infatti i suoi discendenti a trarre vantaggio di quella debolezza. Simile
è il ruolo di Anfitrione: associato a Zeus nella procreazione di Eracle, l’eroe trasmette
al figlio la caducità insita in ogni mortale; ma la mortalità (con tutto ciò che alla
mortalità si accompagna) di Eracle è ciò che gli permette, alla fine, di guadagnarsi la
beatitudine eterna.
L’uccisione, anche involontaria, di un parente è nel mito arcaico la colpa che
più spessa spiega la fuga (e l’esilio) di un eroe dalla sua patria: è il caso, per esempio,
di Teoclimeno nel XV dell’Odissea.
Megara rievoca la massima gloria militare di Anfitrione, la vittoriosa
spedizione contro i Tafi. La sede dei Tafi erano le isolette situate tra Leucade e la
costa acarnana, la più grande delle quali è Meganisi, chiamata dalle fonti antiche
Tàphos o Thaphiùssa. I Tafi sono spesso identificati con i Teleboi, abitanti delle
medesime isole. I Teleboi entrano nella saga di Alcmena, Anfitrione ed Eracle:
rubano infatti le mandrie di Elettrione, padre di Alcmena e re di Argo, e le
consegnano a Polisseno, re degli Elei; Elettrione prepara una spedizione punitiva ma
muore (ucciso accidentalmente dal genero Anfitrione) prima di poter partire;
Alcmena impone al marito di portare a termine l’impresa, e Anfitrione con l’aiuto di
vari compagni invade le isole dei Tafi/Teleboi e le devasta, uccidendo il loro re (e si
fa riconsegnare gli armenti da Polisseno). Proprio nella notte successiva al suo ritorno
a Tebe Anfitrione si unisce ad Alcmena e concepisce Eracle. La vittoria, dunque, è
per Anfitrione anche l’origine di tutti i mali: se fosse morto durante la spedizione, lo
sventurato Eracle non sarebbe nato.

Euripide, Eracle 140-347


ΛΥΚΟΣ
140 τὸν Ἡράκλειον πατέρα καὶ ξυνάορον,
εἰ χρή μ’, ἐρωτῶ· χρὴ δ’, ἐπεί γε δεσπότης
ὑμῶν καθέστηχ’, ἱστορεῖν ἃ βούλομαι.
τίν’ ἐς χρόνον ζητεῖτε μηκῦναι βίον;
τίν’ ἐλπίδ’ ἀλκήν τ’ εἰσορᾶτε μὴ θανεῖν;
145 ἦ τὸν παρ’ Ἅιδηι πατέρα τῶνδε κείμενον
πιστεύεθ’ ἥξειν; ὡς ὑπὲρ τὴν ἀξίαν
τὸ πένθος αἴρεσθ’, εἰ θανεῖν ὑμᾶς χρεών,
σὺ μὲν καθ’ Ἑλλάδ’ ἐκβαλὼν κόμπους κενοὺς
ὡς σύγγαμός σοι Ζεὺς τέκνου τε κοινεών,
150 σὺ δ’ ὡς ἀρίστου φωτὸς ἐκλήθης δάμαρ.
τί δὴ τὸ σεμνὸν σῶι κατείργασται πόσει,
ὕδραν ἕλειον εἰ διώλεσε κτανὼν
ἢ τὸν Νέμειον θῆρ’, ὃν ἐν βρόχοις ἑλὼν
βραχίονός φησ’ ἀγχόναισιν ἐξελεῖν;
155 τοῖσδ’ ἐξαγωνίζεσθε; τῶνδ’ ἄρ’ οὕνεκα
τοὺς Ἡρακλείους παῖδας οὐ θνήισκειν χρεών;
ὁ δ’ ἔσχε δόξαν οὐδὲν ὢν εὐψυχίας
31

θηρῶν ἐν αἰχμῆι, τἄλλα δ’ οὐδὲν ἄλκιμος,


ὃς οὔποτ’ ἀσπίδ’ ἔσχε πρὸς λαιᾶι χερὶ
160 οὐδ’ ἦλθε λόγχης ἐγγὺς ἀλλὰ τόξ’ ἔχων,
κάκιστον ὅπλον, τῆι φυγῆι πρόχειρος ἦν.
ἀνδρὸς δ’ ἔλεγχος οὐχὶ τόξ’ εὐψυχίας
ἀλλ’ ὃς μένων βλέπει τε κἀντιδέρκεται
δορὸς ταχεῖαν ἄλοκα τάξιν ἐμβεβώς.
165 ἔχει δὲ τοὐμὸν οὐκ ἀναίδειαν, γέρον,
ἀλλ’ εὐλάβειαν· οἶδα γὰρ κατακτανὼν
Κρέοντα πατέρα τῆσδε καὶ θρόνους ἔχων.
οὔκουν τραφέντων τῶνδε τιμωροὺς ἐμοὶ
χρήιζω λιπέσθαι, τῶν δεδραμένων δίκην.
170 Αμ. τῶι τοῦ Διὸς μὲν Ζεὺς ἀμυνέτω μέρει
παιδός· τὸ δ’ εἰς ἔμ’, Ἡράκλεις, ἐμοὶ μέλει
λόγοισι τὴν τοῦδ’ ἀμαθίαν ὑπὲρ σέθεν
δεῖξαι· κακῶς γάρ σ’ οὐκ ἐατέον κλύειν.
πρῶτον μὲν οὖν τἄρρητ’ (ἐν ἀρρήτοισι γὰρ
175 τὴν σὴν νομίζω δειλίαν, Ἡράκλεες)
σὺν μάρτυσιν θεοῖς δεῖ μ’ ἀπαλλάξαι σέθεν.
Διὸς κεραυνὸν ἠρόμην τέθριππά τε
ἐν οἷς βεβηκὼς τοῖσι γῆς βλαστήμασιν
Γίγασι πλευροῖς πτήν’ ἐναρμόσας βέλη
180 τὸν καλλίνικον μετὰ θεῶν ἐκώμασεν·
τετρασκελές θ’ ὕβρισμα, Κενταύρων γένος,
Φολόην ἐπελθών, ὦ κάκιστε βασιλέων,
ἐροῦ τίν’ ἄνδρ’ ἄριστον ἐγκρίνειαν ἄν·
ἢ οὐ παῖδα τὸν ἐμόν, ὃν σὺ φὴις εἶναι δοκεῖν;
185 Δίρφυν τ’ ἐρωτῶν ἥ σ’ ἔθρεψ’ Ἀβαντίδα,
οὐκ ἄν <σ’> ἐπαινέσειεν· οὐ γὰρ ἔσθ’ ὅπου
ἐσθλόν τι δράσας μάρτυρ’ ἂν λάβοις πάτραν.
τὸ πάνσοφον δ’ εὕρημα, τοξήρη σαγήν,
μέμφηι· κλύων νυν τἀπ’ ἐμοῦ σοφὸς γενοῦ.
190 ἀνὴρ ὁπλίτης δοῦλός ἐστι τῶν ὅπλων
193 θραύσας τε λόγχην οὐκ ἔχει τῶι σώματι
194 θάνατον ἀμῦναι, μίαν ἔχων ἀλκὴν μόνον·
191 καὶ τοῖσι συνταχθεῖσιν οὖσι μὴ ἀγαθοῖς
192 αὐτὸς τέθνηκε δειλίαι τῆι τῶν πέλας.
195 ὅσοι δὲ τόξοις χεῖρ’ ἔχουσιν εὔστοχον,
ἓν μὲν τὸ λῶιστον, μυρίους οἰστοὺς ἀφεὶς
ἄλλοις τὸ σῶμα ῥύεται μὴ κατθανεῖν,
ἑκὰς δ’ ἀφεστὼς πολεμίους ἀμύνεται
τυφλοῖς ὁρῶντας οὐτάσας τοξεύμασιν
200 τὸ σῶμά τ’ οὐ δίδωσι τοῖς ἐναντίοις,
ἐν εὐφυλάκτωι δ’ ἐστί. τοῦτο δ’ ἐν μάχηι
σοφὸν μάλιστα, δρῶντα πολεμίους κακῶς
σώιζειν τὸ σῶμα, μὴ ’κ τύχης ὡρμισμένον.
λόγοι μὲν οἵδε τοῖσι σοῖς ἐναντίαν
205 γνώμην ἔχουσι τῶν καθεστώτων πέρι.
παῖδας δὲ δὴ τί τούσδ’ ἀποκτεῖναι θέλεις;
τί σ’ οἵδ’ ἔδρασαν; ἕν τί σ’ ἡγοῦμαι σοφόν,
εἰ τῶν ἀρίστων τἄκγον’ αὐτὸς ὢν κακὸς
32

δέδοικας. ἀλλὰ τοῦθ’ ὅμως ἡμῖν βαρύ,


210 εἰ δειλίας σῆς κατθανούμεθ’ οὕνεκα,
ὃ χρῆν σ’ ὑφ’ ἡμῶν τῶν ἀμεινόνων παθεῖν,
εἰ Ζεὺς δικαίας εἶχεν εἰς ἡμᾶς φρένας.
εἰ δ’ οὖν ἔχειν γῆς σκῆπτρα τῆσδ’ αὐτὸς θέλεις,
ἔασον ἡμᾶς φυγάδας ἐξελθεῖν χθονός·
215 βίαι δὲ δράσηις μηδὲν ἢ πείσηι βίαν
ὅταν θεοῦ σοι πνεῦμα μεταβαλὸν τύχηι.
φεῦ·
ὦ γαῖα Κάδμου (καὶ γὰρ ἐς σ’ ἀφίξομαι
λόγους ὀνειδιστῆρας ἐνδατούμενος),
τοιαῦτ’ ἀμύνεθ’ Ἡρακλεῖ τέκνοισί τε;
220 Μινύαις ὃς εἷς ἅπασι διὰ μάχης μολὼν
Θήβας ἔθηκεν ὄμμ’ ἐλεύθερον βλέπειν.
οὐδ’ Ἑλλάδ’ ἤινεσ’ (οὐδ’ ἀνέξομαί ποτε
σιγῶν) κακίστην λαμβάνων ἐς παῖδ’ ἐμόν,
ἣν χρῆν νεοσσοῖς τοῖσδε πῦρ λόγχας ὅπλα
225 φέρουσαν ἐλθεῖν, ποντίων καθαρμάτων
χέρσου τ’ ἀμοιβὰς ὧν †ἐμόχθησας χάριν†.
τὰ δ’, ὦ τέκν’, ὑμῖν οὔτε Θηβαίων πόλις
οὔθ’ Ἑλλὰς ἀρκεῖ· πρὸς δ’ ἔμ’ ἀσθενῆ φίλον
δεδόρκατ’, οὐδὲν ὄντα πλὴν γλώσσης ψόφον.
230 ῥώμη γὰρ ἐκλέλοιπεν ἣν πρὶν εἴχομεν,
γήραι δὲ τρομερὰ γυῖα κἀμαυρὸν σθένος.
εἰ δ’ ἦ νέος τε κἄτι σώματος κρατῶν,
λαβὼν ἂν ἔγχος τοῦδε τοὺς ξανθοὺς πλόκους
καθηιμάτωσ’ ἄν, ὥστ’ Ἀτλαντικῶν πέραν
235 φεύγειν ὅρων ἂν δειλίαι τοὐμὸν δόρυ.
Χο. ἆρ’ οὐκ ἀφορμὰς τοῖς λόγοισιν ἁγαθοὶ
θνητῶν ἔχουσι, κἂν βραδύς τις ἦι λέγειν;
Λυ. σὺ μὲν λέγ’ ἡμᾶς οἷς πεπύργωσαι λόγοις,
ἐγὼ δὲ δράσω σ’ ἀντὶ τῶν λόγων κακῶς.
240 ἄγ’, οἱ μὲν Ἑλικῶν’, οἱ δὲ Παρνασοῦ πτυχὰς
τέμνειν ἄνωχθ’ ἐλθόντες ὑλουργοὺς δρυὸς
κορμούς· ἐπειδὰν δ’ ἐσκομισθῶσιν πόλει
βωμὸν πέριξ νήσαντες ἀμφήρη ξύλα
ἐμπίμπρατ’ αὐτῶν κἀκπυροῦτε σώματα
245 πάντων, ἵν’ εἰδῶσ’ οὕνεκ’ οὐχ ὁ κατθανὼν
κρατεῖ χθονὸς τῆσδ’ ἀλλ’ ἐγὼ τὰ νῦν τάδε.
ὑμεῖς δέ, πρέσβεις, ταῖς ἐμαῖς ἐναντίοι
γνώμαισιν ὄντες, οὐ μόνον στενάξετε
τοὺς Ἡρακλείους παῖδας ἀλλὰ καὶ δόμου
250 τύχας, ὅταν πάσχηι τι, μεμνήσεσθε δὲ
δοῦλοι γεγῶτες τῆς ἐμῆς τυραννίδος.
Χο. ὦ γῆς λοχεύμαθ’, οὓς Ἄρης σπείρει ποτὲ
λάβρον δράκοντος ἐξερημώσας γένυν,
οὐ σκῆπτρα, χειρὸς δεξιᾶς ἐρείσματα,
255 ἀρεῖτε καὶ τοῦδ’ ἀνδρὸς ἀνόσιον κάρα
καθαιματώσεθ’, ὅστις οὐ Καδμεῖος ὢν
ἄρχει κάκιστος τῶν ἐμῶν ἔπηλυς ὤν;
ἀλλ’ οὐκ ἐμοῦ γε δεσπόσεις χαίρων ποτὲ
33

οὐδ’ ἁπόνησα πόλλ’ ἐγὼ καμὼν χερὶ


260 ἕξεις. ἀπέρρων δ’ ἔνθεν ἦλθες ἐνθάδε
ὕβριζ’. ἐμοῦ γὰρ ζῶντος οὐ κτενεῖς ποτε
τοὺς Ἡρακλείους παῖδας· οὐ τοσόνδε γῆς
ἔνερθ’ ἐκεῖνος κρύπτεται λιπὼν τέκνα.
ἐπεὶ σὺ μὲν γῆν τήνδε διολέσας ἔχεις,
265 ὁ δ’ ὠφελήσας ἀξίων οὐ τυγχάνει·
κἄπειτα πράσσω πόλλ’ ἐγὼ φίλους ἐμοὺς
θανόντας εὖ δρῶν, οὗ φίλων μάλιστα δεῖ;
ὦ δεξιὰ χείρ, ὡς ποθεῖς λαβεῖν δόρυ,
ἐν δ’ ἀσθενείαι τὸν πόθον διώλεσας.
270 ἐπεί σ’ ἔπαυσ’ ἂν δοῦλον ἐννέποντά με
καὶ τάσδε Θήβας εὐκλεῶς ὠνήσαμεν,
ἐν αἷς σὺ χαίρεις. οὐ γὰρ εὖ φρονεῖ πόλις
στάσει νοσοῦσα καὶ κακοῖς βουλεύμασιν·
οὐ γάρ ποτ’ ἂν σὲ δεσπότην ἐκτήσατο.
275 Με. γέροντες, αἰνῶ· τῶν φίλων γὰρ οὕνεκα
ὀργὰς δικαίας τοὺς φίλους ἔχειν χρεών.
ἡμῶν δ’ ἕκατι δεσπόταις θυμούμενοι
πάθητε μηδέν. τῆς δ’ ἐμῆς, Ἀμφιτρύων,
γνώμης ἄκουσον, ἤν τί σοι δοκῶ λέγειν.
280 ἐγὼ φιλῶ μὲν τέκνα· πῶς γὰρ οὐ φιλῶ
ἅτικτον, ἁμόχθησα; καὶ τὸ κατθανεῖν
δεινὸν νομίζω· τῶι δ’ ἀναγκαίωι τρόπωι
ὃς ἀντιτείνει σκαιὸν ἡγοῦμαι βροτῶν.
ἡμᾶς δ’, ἐπειδὴ δεῖ θανεῖν, θνήισκειν χρεὼν
285 μὴ πυρὶ καταξανθέντας, ἐχθροῖσιν γέλων
διδόντας, οὑμοὶ τοῦ θανεῖν μεῖζον κακόν.
ὀφείλομεν γὰρ πολλὰ δώμασιν καλά·
σὲ μὲν δόκησις ἔλαβεν εὐκλεὴς δορός,
ὥστ’ οὐκ ἀνεκτὸν δειλίας θανεῖν σ’ ὕπο,
290 οὑμὸς δ’ ἀμαρτύρητος εὐκλεὴς πόσις,
ὃς τούσδε παῖδας οὐκ ἂν ἐκσῶσαι θέλοι
δόξαν κακὴν λαβόντας· οἱ γὰρ εὐγενεῖς
κάμνουσι τοῖς αἰσχροῖσι τῶν τέκνων ὕπερ·
ἐμοί τε μίμημ’ ἀνδρὸς οὐκ ἀπωστέον.
295 σκέψαι δὲ τὴν σὴν ἐλπίδ’ ἧι λογίζομαι·
ἥξειν νομίζεις παῖδα σὸν γαίας ὕπο;
καὶ τίς θανόντων ἦλθεν ἐξ Ἅιδου πάλιν;
ἀλλ’ ὡς λόγοισι τόνδε μαλθάξαιμεν ἄν;
ἥκιστα· φεύγειν σκαιὸν ἄνδρ’ ἐχθρὸν χρεών,
300 σοφοῖσι δ’ εἴκειν καὶ τεθραμμένοις καλῶς·
ῥᾶιον γὰρ αἰδοῖ σ’ ὑποβαλὼν φίλ’ ἂν τέμοις.
ἤδη δ’ ἐσῆλθέ μ’ εἰ παραιτησαίμεθα
φυγὰς τέκνων τῶνδ’· ἀλλὰ καὶ τόδ’ ἄθλιον
πενίαι σὺν οἰκτρᾶι περιβαλεῖν σωτηρίαν,
305 ὡς τὰ ξένων πρόσωπα φεύγουσιν φίλοις
ἓν ἦμαρ ἡδὺ βλέμμ’ ἔχειν φασὶν μόνον.
τόλμα μεθ’ ἡμῶν θάνατον, ὃς μένει σ’ ὅμως.
προκαλούμεθ’ εὐγένειαν, ὦ γέρον, σέθεν·
τὰς τῶν θεῶν γὰρ ὅστις ἐκμοχθεῖ τύχας
34

310 πρόθυμός ἐστιν, ἡ προθυμία δ’ ἄφρων·


ὃ χρὴ γὰρ οὐδεὶς μὴ χρεὼν θήσει ποτέ.
Χο. εἰ μὲν σθενόντων τῶν ἐμῶν βραχιόνων
ἦν τίς σ’ ὑβρίζων, ῥαιδίως ἔπαυσά τἄν·
νῦν δ’ οὐδέν ἐσμεν. σὸν δὲ τοὐντεῦθεν σκοπεῖν
315 ὅπως διώσηι τὰς τύχας, Ἀμφιτρύων.
Αμ. οὔτοι τὸ δειλὸν οὐδὲ τοῦ βίου πόθος
θανεῖν ἐρύκει μ’, ἀλλὰ παιδὶ βούλομαι
σῶσαι τέκν’· ἄλλως δ’ ἀδυνάτων ἔοικ’ ἐρᾶν.
ἰδού, πάρεστιν ἥδε φασγάνωι δέρη
320 κεντεῖν φονεύειν ἱέναι πέτρας ἄπο.
μίαν δὲ νῶιν δὸς χάριν, ἄναξ, ἱκνούμεθα·
κτεῖνόν με καὶ τήνδ’ ἀθλίαν παίδων πάρος,
ὡς μὴ τέκν’ εἰσίδωμεν, ἀνόσιον θέαν,
ψυχορραγοῦντα καὶ καλοῦντα μητέρα
325 πατρός τε πατέρα. τἄλλα δ’, εἰ πρόθυμος εἶ,
πρᾶσσ’· οὐ γὰρ ἀλκὴν ἔχομεν ὥστε μὴ θανεῖν.
Με. κἀγώ σ’ ἱκνοῦμαι χάριτι προσθεῖναι χάριν,
<ἡμῖν> ἵν’ ἀμφοῖν εἷς ὑπουργήσηις διπλᾶ·
κόσμον πάρες μοι παισὶ προσθεῖναι νεκρῶν,
330 δόμους ἀνοίξας (νῦν γὰρ ἐκκεκλήιμεθα),
ὡς ἀλλὰ ταῦτά γ’ ἀπολάχωσ’ οἴκων πατρός.
Λυ. ἔσται τάδ’· οἴγειν κλῆιθρα προσπόλοις λέγω.
κοσμεῖσθ’ ἔσω μολόντες· οὐ φθονῶ πέπλων.
ὅταν δὲ κόσμον περιβάλησθε σώμασιν
335 ἥξω πρὸς ὑμᾶς νερτέραι δώσων χθονί.
Με. ὦ τέκν’, ὁμαρτεῖτ’ ἀθλίωι μητρὸς ποδὶ
πατρῶιον ἐς μέλαθρον, οὗ τῆς οὐσίας
ἄλλοι κρατοῦσι, τὸ δ’ ὄνομ’ ἔσθ’ ἡμῶν ἔτι.
Αμ. ὦ Ζεῦ, μάτην ἄρ’ ὁμόγαμόν σ’ ἐκτησάμην,
340 μάτην δὲ παιδὸς κοινεῶν’ ἐκλήιζομεν·
σὺ δ’ ἦσθ’ ἄρ’ ἧσσον ἢ ’δόκεις εἶναι φίλος.
ἀρετῆι σε νικῶ θνητὸς ὢν θεὸν μέγαν·
παῖδας γὰρ οὐ προύδωκα τοὺς Ἡρακλέους.
σὺ δ’ ἐς μὲν εὐνὰς κρύφιος ἠπίστω μολεῖν,
345 τἀλλότρια λέκτρα δόντος οὐδενὸς λαβών,
σώιζειν δὲ τοὺς σοὺς οὐκ ἐπίστασαι φίλους.
ἀμαθής τις εἶ θεὸς ἢ δίκαιος οὐκ ἔφυς.

I episodio - I vv. 138-139 sono due trimetri pronunciati dal Corifeo per annunciare
l’arrivo in scena di Lico. Questo è normale nella tragedia attica (se ne occupano Di
Benedetto – Medda): quando un personaggio arriva da una parodos, è necessario
“coprire” il tempo che il personaggio impiega per raggiungere la scena.
Con il v. 140 inizia l’agone tra Lico e Anfitrione, che ha per tema la gloria di
Eracle (negata da Lico, affermata da Anfitrione. La definizione di “agone” sembra
l’unica possibile, anche se ci sono evidenti anomalie strutturali. La prima, e la più
evidente, è la clamorosa differenza nell’estensione delle due rheseis: il discorso di
Lico occupa 30 versi, quello di Anfitrione 66 (di norma, c’è un equilibrio molto
maggiore). Inoltre lo scontro verbale tra Lico e Anfitrione scatta ex abrupto, con le
35

prime parole pronunciate dal tiranno subito dopo il suo ingresso in scena, e si
esaurisce nella coppia delle rheseis contrapposte (poiché le battute successive non
alimentano ulteriormente il dibattito, ma spostano l’attenzione sulla sorte dei
supplici). Lo schema dell’agone (un modulo scenico molto caro a Euripide e
applicato in quasi tutte le sue tragedie) prevede nella sua configurazione standard una
coppia di rheseis, pronunciate dai due interlocutori, con commenti intercalari del
Corifeo, una seconda coppia di interventi più brevi (che può anche mancare) e quindi
uno scambio di battute a botta e risposta, di solito con tono concitato o persino iroso.
Per esempio, l’agone dell’Alcesti vede contrapposti Admeto e Ferete, in occasione dei
funerali di Alcesti. Il vecchio dice di volere rendere onore alla donna che ha salvato la
vita di suo figlio, ma Admeto lo attacca duramente, con un lungo discorso di accusa;
Ferete replica, con altrettanta durezza (tra le due rheseis una coppia di versi
pronunciati dal Corifeo); seguono altri due versi del Corifeo, e poi una feroce
sticomitia, al termine della quale Ferete si allontana con parole di oscura minaccia, e
Admeto gli urla dietro insulti.
L’agone dell’Eracle è anomalo anche per la sua collocazione: non occupa il
centro del dramma, ma ne segna l’incipit. Non investe, inoltre, il nucleo problematico
della tragedia (qual è il destino di Eracle? o meglio: esiste un destino di Eracle?), ma
tocca un punto che può sembrare secondario, ossia il grado di coraggio che le dodici
fatiche hanno richiesto. In realtà però il discorso di Lico suggerisce, a suo modo, una
soluzione del problema. Mentre gli altri personaggi oscillano tra la “lettura” divina e
quella umana dell’eroe (Eracle glorioso figlio di Zeus, Eracle sventurato figlio di
Anfitrione), Lico afferma semplicemente che Eracle è un vigliacco buono a nulla;
quindi, non vale neanche la pena di preoccuparsi troppo di lui. La soluzione del
problema è posta nella negazione del problema stesso: Eracle non è nessuno, la sua
figura non suscita nessun dilemma.
La rhesis di Lico è articolata in tre momenti: ironica apostrofe ai supplici,
derisi per il loro assurdo e ingiustificato attaccamento alla vita (hanno riempito la
Grecia di vani lai, presentandosi l’uno come il glorioso padre e l’altra come la
gloriosa sposa di un grande eroe); sistematica denigrazione dell’areté di Eracle, che
ha combattuto contro animali, non contro guerrieri, e si è servito non della lancia ma
dell’arco, l’arma dei vigliacchi; difesa della propria scelta di uccidere gli Eraclidi
(che una volta cresciuti potrebbero decidere di vendicare la morte di Creonte).
Al v. 150 ἀρίστου φωτὸς ἐκλήθης δάμαρ è un riferimento al makarismòs, cioè
al momento del rito nuziale in cui la sposa è “chiamata felice” per la sorte che le è
toccata (anche Anfitrione ai vv. 10-12 ricorda le grida di giubilo con cui i Tebani
hanno accompagnato in corteo Megara alla casa di Eracle). Bond cita il passo delle
Troiane (v. 311) in cui Cassandra chiama “beata” (μακαρία) se stessa per le sue nozze
regali.
Lico argomenta che Eracle non è un campione invincibile (il kallinikos), ma un
vigliacco. È una sorta di epideixis, di esercizio retorico giocato sul paradosso, sulla
difesa di una tesi apparentemente insostenibile. Analoghe prove retoriche sono il
discorso di Cassandra nelle Troiane (i Troiani, vinti, sono stati più fortunati dei Greci,
vincitori) e la rhesis di Melanippe nel fr. 494 Ka. della Melanippe prigioniera (le
36

donne sono meglio degli uomini).


La lode dell’oplita versus l’arciere è già un tema omerico. Il passo più
significativo è il discorso di Diomede a Paride, che appostato dietro una colonna del
sepolcro di Ilo ha lanciato una freccia contro il nemico, intento a spogliare un
guerriero da lui ucciso, e l’ha ferito al piede destro; Diomede irride e insulta Paride,
un damerino che non ha il coraggio di affrontare da uomo l’avversario, in un duello
ravvicinato.

Omero, Iliade XI 385-392


Arciere vigliacco, ricciolino, femminiere,
se faccia a faccia ti cimentassi in armi,
non gioverebbe a te né arco né sciame di frecce:
per avermi graffiato il tarso del piede ora ti vanti così!
Non me ne curo, come se mi avesse colpito una donna o un bambino:
spuntata è la freccia d’un uomo vigliacco e da nulla.
Ben altrimenti puntuto, anche se appena scalfisce,
parte il dardo dalla mia mano, e subito annienta.

Nell’Iliade, in generale, gli arcieri sono personaggi negativi: è il caso soprattutto di


Pandaro che nel IV canto violando la tregua scaglia una freccia contro Menelao e lo
ferisce. Nell’Odissea la figura dell’arciere non è soggetta alla stessa censura: è con
l’arco (nel giorno della festa di Apollo, l’arciere divino) che Odisseo fa strage dei
proci.
Quando Lico dice che il vero coraggio sta nel rimanere al proprio posto sul
campo di battaglia, con lo scudo tenuto dal braccio sinistro e la lancia nella mano
destra, fa riferimento alla battaglia oplitica e all’immaginario ad essa connesso. La
tecnica oplitica si sviluppa in Grecia a partire dall’VIII secolo: vi accenna già
Archiloco nel fr. 3; Tirteo è il grande cantore della tattica oplitica spartana. Ad Atene
l’immagine dell’arciere risente, in negativo, della presenza di un corpo di polizia
formato dai τοξόται (non molto amati dalla popolazione).

Archiloco, fr. 3 West


οὔτοι πόλλ’ ἐπὶ τόξα τανύσσεται, οὐδὲ θαμειαὶ
σφενδόναι, εὖτ’ ἂν δὴ μῶλον Ἄρης συνάγηι
ἐν πεδίωι· ξιφέων δὲ πολύστονον ἔσσεται ἔργον·
ταύτης γὰρ κεῖνοι δάμονές εἰσι μάχης
δεσπόται Εὐβοίης δουρικλυτοί.
Non più molti archi si tenderanno, né numerose
fionde, quando Ares radunerà la battaglia
nella pianura; di spade sarà opera luttuosa.
Quelli infatti sono esperti di questo genere di lotta,
i signori dell’Eubea, valenti con le lance.

Tirteo, fr. 10 West


37

Bello morire combattendo tra i guerrieri in prima fila


per un uomo valoroso che si batte per la sua patria,
ma lasciare la proprio città e i pingui campi
e mendicare è la cosa più penosa di tutte,
vagando con la cara madre e il vecchio padre
e i figli piccoli e la sposa legittima:
sgradito a chi incontra, dovunque vada,
e stretto dal bisogno e dalla miseria odiosa,
disonora la sua stirpe, deturpa lo splendido aspetto,
e ogni infamia e sventura lo incalza.
Se dunque dell’uomo disperso non c’è alcuna cura,
né riguardo per la stirpe a venire,
battiamoci con coraggio per questa terra e per i figli
moriamo, senza risparmiare la vita.
Su giovani, combattete e restate fermi fianco a fianco,
non date inizio alla fuga vigliacca né alla rotta,
ma fate grande e coraggioso il cuore nel petto
e non risparmiate la vita nello scontro con il nemico.
E i più vecchi, quelli che non hanno più le gambe veloci,
gli anziani, non lasciateli soli dandosvi alla fuga.
Questa è una vergogna, quando cade in prima fila
e giace a terra davanti ai giovani un uomo più vecchio
che ha già la testa bianca e la barba grigia,
e spira l’anima coraggiosa nella polvere,
tenendo tra le mani le vergogne insanguinate
– uno spettacolo turpe e odioso a verdersi –
e nudo nelle membra. Per i giovani invece tutto va bene:
finché ha lo splendido fiore di giovinezza amabile,
è ammirato dagli uomini ed è desiderabile per le donne,
finché vive, ed è bello quando cade in prima file.
Allora resista ognuno, a gambe larghe e ben piantato a terra
con tutti e due i piedi, mordendosi le labbra coi denti.

Ai vv. 163-164 μένων βλέπει τε κἀντιδέρκεται δορὸς ταχεῖαν ἄλοκα τάξιν


ἐμβεβώς la traduzione può essere “stando saldo al suo posto guarda dritto davanti a sé
fissando il rapido solco della lancia”. ἄλοκα dipende apò koinoù sia da μένων che da
βλέπει τε κἀντιδέρκεται. Con ἄλοκα si intende il solco della ferita lasciata dalla punta
della lancia (in una prospettiva, dunque, individuale) oppure il solco che si apre tra le
le due sciere contrapposte. I commentatori citano la similitudine di Iliade XI 67-71,
in cui le due schiere nemiche sono paragonate a due squadre di mietitori che
avanzano dalle estremità opposte del campo. L’immagine però non è chiarissima:
forse Lico pensa alla lotta scudo contro scudo delle due prime file contrapposte, e al
solco che si apre tra le file mano a mano che i soldati colpiti (“mietuti”) cadono a
terra.
38

Omero, Iliade XI 67-71


Come i mietitori d’orzo o di grano
gli uni di fronte agli altri seguono il solco sul campo
del ricco padrone, e cadono fitti i mannelli,
così Troiani e Achei, balzando gli uni sugli altri,
s’ammazzavano, e nessuno pensava alla fuga nefasta.

La replica di Anfitrione si articola in quattro punti: a) premessa (la difesa di


Eracle compete in parte a Zeus in parte ad Anfitrione, cui spetta di rispondere
all’accusa di codardia); b) Eracle non è un codardo, come possono testimoniare gli
dèi stessi (con i quali collaborò nella Gigantomachia) e i centauri, da lui sconfitti
(Lico, invece, non è in grade di citare nessun testimone di suoi atti di valore);
l’arciere non è un vigliacco, ma un combattente scaltro e “moderno”, che non si
consegna alla “bella morte” gratuitamente, ma cerca di infliggere il massimo danno al
nemico e di proteggere contemporanemante la propria incolumità; c) Lico ha certo
ragione nel temere la possibile vendetta degli Eraclidi; ma può limitarsi a mandarli in
esilio, senza ucciderli, mettendosi così al riparo dalla punizione divina; d) Tebe e la
Grecia intera dovrebbero, per gratitudine nei confronti di Eracle, accorrere in aiuto
dei suoi figli; così purtroppo non è, e gli Eraclidi pongono le loro speranze proprio in
Anfitrione, che però ormai è un vecchio privo di forze (la chiusa della rhesis ricorda i
discorsi di Nestore: “Oh, se fossi giovane e forte come un tempo!”).
La partecipazione di Eracle, armato d’arco e frecce, alla battaglia degli dèi
contro i Giganti (nella pianura di Flegre, in Tracia) è un soggetto tradizionale
dell’arte greca, fin dal VI secolo. Uno dei primi esempi è il fregio del Tesoro dei Sifni
a Delfi. Nello Ione (di poco successivo all’Eracle) l’impresa di Eracle, assistito da
Iolao, contro l’Idra di Lerna è oggetto di ammirazione nella parodo da parte delle
fanciulle ateniesi (che stanno osservando le decorazioni del tempio di Apollo): le
ragazze ne parlano come di un tema ben noto, di cui discorrono spesso quando
lavorano al telaio. Questo fa capire quanto sia sorprendente e paradossale per il
pubblico la critica di Lico (l’Idra diventa, per lui, una “biscia di palude”). Il Foloe è
un altopiano dell’Arcadia dove il Centauro Folo ospita Eracle; gli altri Centauri
aggrediscono l’eroe (vorrebbero bere anche loro il vino che Folo riserva all’ospite),
ed Eracle li sgomina. Nel I stasimo lo scontro tra Eracle e i Centauri è collocato in
Tessaglia, dove tradizionalmente si svolge la battaglia tra Centauri e Lapiti:
l’incongruenza si può spiegare o pensando a episodi diversi oppure a versioni mitiche
diverse.
Ai vv. 185-186 Δίρφυν τ’ ἐρωτῶν … οὐκ ἄν <σ’> ἐπαινέσειεν è un chiaro
esempio di anacoluto. Al v. 197 ἄλλοις ammette due interpretazioni: “con altre
frecce” (quelle rimaste, dopo che molte sono già state usate), oppure “per gli altri”
(ossia, “difende il corpo degli altri, preservandoli da morte”), ma questa seconda
interpretazione sarebbe meglio sostenuta da un particpio presente piuttosto che
dall’aoristo ἀφεὶς.
Al v. 205 τῶν καθεστώτων πέρι significa “riguardo a opinioni tradizionali”
39

(ossia, il valore dell’oplita e la codardia dell’arciere). L’idea che sia importante


salvare la vita in battaglia, perché chi è morto non combatte più e non può causare
danno al nemico, è già presente nell’elegia arcaica e in particolare in Archiloco (cfr.
fr. 4 West: “ho abbandonato lo scudo, ma ho salvato la vita”; elegia di Telefo: “c’è
anche il momento di fuggire, e di essere contenti se si salva la pelle”). In fondo,
anche nell’epica non è del tutto assente l’idea che, almeno in certe circostanze, si
possa anche fuggire e salvarsi. Ovviamente, la norma eroica prescrive il coraggio
nell’affrontare la “bella morte” (l’eroe deve “dare gloria o conquistarsi gloria”); e
l’idea della “bella morte” viene ripresa dalla retorica patriottica di V e IV secolo. Ma
ci sono eccezioni.
Al v. 216 la formulazione ὅταν θεοῦ σοι πνεῦμα μεταβαλὸν τύχηι applica la
metafora del “vento del destino” mandato dal dio, ora favorevole ora contrario. È
un’immagine tradizionale, che da qualche anno possiamo ricondurre al Carme dei
fratelli di Saffo.

Saffo, Carme dei fratelli 9-16


κἄμμ’ ἐπεύρην ἀρτέ̣μ̣εας· τὰ δ’ ἄλλα
πάντα δαιμόνεσσι̣ν ἐπι̣τ̣ρόπωμεν·
εὐδίαι̣ γὰ̣ρ̣ ἐκ μεγάλαν ἀήτα̣ν̣
αἶψα πέλ̣ο̣ ̣νται·
τῶν κε βόλληται βασίλευς Ὀλύμπω
δαίμον’ ἐκ πόνων ἐπάρ{η}`ω ́γον ἤδη
περτρόπην, κῆνοι μ̣άκαρες πέλονται
καὶ πολύολβοι.

[bisogna pregare Era perché Carasso possa tornare con la nave intatta]
e trovare noi in buona salute. Tutto
il resto affidiamolo agli dèi:
i venti impetuosi, infatti, si placano
presto nella bonaccia;
quelli a cui il re dell’Olimpo, divenuto
propizio, decide di girare il destino
via dagli affanni, questi sono felici
e fortunati.

Al v. 226 ..il tràdito ὧν †ἐμόχθησας χάριν† appare debole, perché introduce


una subitanea apostrofe a Eracle e perché è pleonastico dopo καθαρμάτων ἀμοιβὰς.
La correzione più probabile è ὧν ἐμόχθησεν χερί.
Nella battuta intercalare del Corifeo (“gli uomini perbene hanno solidi
argomenti per i loro discorsi, anche se uno è lento a parlare”) si coglie una “didascalia
scenica”, ossia un’indicazione di regia per l’attore che interpreta la parte di
Anfitrione.
L’ordine di Lico ai servi perché facciano provvista di legna sui monti e la
portino in città, per innalzare una catasta di legna e ardere i supplici, evoca situazioni
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epiche, in particolare i preparativi per i funerali di Patroco in Iliade XXIII 110-126:


Agamennone chiama a raccolta uomini e muli, e Merione li guida nei boschi dell’Ida,
dove i taglialegna abbattono alte querce, le fanno a pezzi e portano il legname sulla
riva del mare. Peraltro, le parole di Lico suonano grottesche, perché presuppongono
un vasto dispiegamento di forze, del tutto sproporzionato al risultato che si vuole
ottenere (vincere la resistenza di tre bambini, una donna e un vecchio); il Parnaso,
poi, è molto lontano da Tebe, e la sua menzione dà alla scena una cifra iperbolica,
creando ulteriore contrasto con la situazione reale. Bruciare un supplice è un gesto
orrendo, naturalmente: minaccia di farlo Ermione, in Andromaca 257 (“Ti darò fuoco,
per te non avrò alcun riguardo”. Un fatto storico è narrato da Erodoto VI 80: il re di
Sparta Cleomene, alle prese con un folto gruppo di Aregivi che si sono rifugiati in un
boschetto scaro, ne attira fuori con l’inganno alcuni, e li uccide, e poi dà ordine agli
iloti di accatastare legna tutto attorno e di dare fuoco al bosco.
La trasposizione comica di questo gesto si ritrova nelle Tesmoforiazuse, quando
il Parente per salvarsi dall’ira della donne strappa una bambina dalle braccia della
madre e si rifigia persso l’altare (è la parodia di una famosa scena del Telefo); la
Corifea allora dice: “Ecco cosa ci vuole: tu e le altre, tirate fuori la legna e bruciate
quello scellerato, incendiatelo immediatamente”; e la Donna risponde: “Andiamo a
prendere le fascine. (al Parente) Ti faccio diventare un tizzone, oggi” (vv. 726-729).
Anche nella Perinthia di Menandro (ne abbiamo un frammento papiraceo di
una certa estensione) si può ricostruire una situazione simile: il padrone Lachete,
stanco dei trucchi del servo Davo, si prepara a infliggergli una punizione esemplare;
il servo si rifugia presso l’altare di Apollo Agyieus (?), ma Lachete dà ordine agli altri
servi di portare legna e accendere un fuoco, in modo da costringere Davo a lasciare il
suo rifugio. La scena è divertente perché Lachete irride Davo, sfidandolo a dar prova
adesso del suo proverbiale ingegno e a trovare una scappatoia; Davo, spaventato, si
appella ai compagni di schiavitù, invoca la loro solidarietà; ma non sembra che quelli
gli diano retta, anzi uno di loro gli chiede “Ti punge?”, quasi godendo delle
sofferenze del collega.
Può sembrare strano che un’azione percepita come il chiaro esempio di una
violenza scellerata possa essere ospitata dalla commedia e usata per “far ridere” il
pubblico. Si è visto che atti di violenza dispiegata (con versamento di sangue) non
sono ammessi dalla drammaturgia tragica, sono taboo. Ci sono nella tragedia greca
scena di colluttazione, di contatto fisico tra i personaggi: per esempio nell’ultimo
episodio delle Supplici di Eschilo l’Araldo degli Egizi vuole costringere le Danaidi a
lasciare gli altari e a venire con lui alle navi, dove le aspettano gli Egizi; le ragazze
gridano, protestano, pregano, l’Araldo tenta di trascinarle via con la forza
prendendole per i capelli e per le vesti. Sopraggiunge Pelasgo con un corpo di armati,
affronta l’Araldo e lo allontana. In questo episodio la violenza fisica (peraltro
limitata: non c’è ferimento) ha una valenza “didattica”: mette in chiaro che gli Egizi
sono votati all’hybris, e quindi rompe l’equilibrio delle due posizioni in conflitto.
Molto simile è la valenza della scena dell’Edipo a Colono in cui Creonte afferra
Antigone e minaccia di portarla via con la forza, provocando la reazione sdegnata del
Coro e poi di Teseo.
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La commedia dà uno spazio piuttosto ampio alla violenza fisica, naturalmente


in una prospettiva diversa. Il fatto è che la violenza fa ridere, non c’è dubbio; purché,
chiaramente, risponda a certe caratteristiche. Deve essere contenuta (una strage o una
spietata tortura hanno poco di divertente) e deve essere “morale”; cioè deve essere
percepita come una punizione meritata, per un comportamento disdicevole,
sanzionato dal giudizio collettivo. Semplificando un po’, si può dire che la violenza
sulla scena fa ridere se lo spettatore è portato a identificarsi con colui che la
somministra, se cioè quella violenza rientra nelle sue fantasie recondite: il riso, a quel
punto, è catartico, liberatorio. Se cerchiamo un archetipo moderno, lo possiamo forse
trovare in una scena famosa di The Pilgrim (Il pellegrino), film muto di Charlie
Chaplin girato nel 1923. Chaplin, che si fa passare per pastore protestante, è alle
prese con un bimbo pestifero che, approfittando della disattenzione della madre, gli fa
ogni sorta di dispetti (lo prende ripetutamente a schiaffi, lo punzecchia con uno
spillone, lo inonda d’acqua); il sedicente pastore sopporta con stoica pazienza, ma
quando rimane finalmente solo con il piccolo tiranno, gli tira un calcio nello stomaco.
Picchiare un bambino è, nella coscienza comune, qualcosa di orrendo; ma la scena è
costruita in modo tale che la reazione di Chaplin suscita piena approvazione: lo
spettatore non solo ride, ma applaude.
Aristofane è ben consapevole del potenziale comico che la violenza fisica
contiene. Lo ammette lui stesso, quando in un passo famoso della parabasi della Pace
si vanta di avere liberato la commedia da forme di comicità basse, legate a scenette
buffonesche già viste mille volte. Tra gli esempi, il poeta cita appunto la situazione
del servo preso a bastonate e deriso da un altro servo (esattamente la scenetta
riproposta da Menandro nella Perinthìa).

Aristofane, Pace 741-750


Fu lui [cioè Aristofane] il primo a bollare d’infamia e a mettere al bando il personaggio di Eracle
che impasta e ha sempre fame; fu lui a togliere di scena il personaggio dello schiavo che se ne
scappa, che imbroglia e che prende bastonate, e così un altro schiavo può prenderlo in giro per le
percosse ricevute chiedendogli: “Disgraziato, cosa ti è capitato alla pelle? Una frusta ha invaso con
grande spiegamento di forze i tuoi fianchi e ha abbattuto la tua schiena, quasi fosse un albero?”.
Eliminato questo genere di volgari trivialità e di buffonerie plebee, ha costruito per noi una grande
arte e ha innalzato torri edificate con grandi parole e pensieri e battute non triviali.

Aristofane sfrutta la carica comica contenuta nella violenza fisica soprattutto


nella seconda parte della commedia, quando il progetto comico si è realizzato e l’eroe
comico è ormai padrone dello spazio. In questa fase spesso accade che arrivino in
scena personaggi che cercano di intrufolarsi nel progetto, di trarne vantaggio senza
averne diritto; sono gli “intrusi”, che l’eroe respinge in vario modo, anche
prendendoli a botte e inseguendoli per lo spazio scenico. Questi episodi risultano
comici, perché gli intrusi sono individui poco credibili, o goffi o supponenti, in ogni
caso incongrui: cacciandoli via, l’eroe interpreta i sentimenti del pubblico, che ormai
è tutto dalla sua parte.
Per esempio, negli Acarnesi dopo la parabasi Diceopoli sfrutta il suo privilegio
(l’essere in pace, lui solo, con Sparta) per allestire un suo mercato privato in cui può
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commerciare con persone provenienti da tutta la Grecia, mentre per gli altri Ateniesi
vige ancora l’embargo. Arrivano prima un Megarese e poi un Tebano, ma le trattative
sono disturbate da due sicofanti: il primo è cacciato via in malo modo, minacciato di
botte (vv. 827-828 “Ti spacco la faccia! Vattene a fare il sicofante da un’altra parte”);
il secondo, Nicearco, è addirittura legato, imbavagliato e impacchettato come se fosse
un vaso. Il testo qui lascia capire come si svolge la scenetta; Diceopoli picchia
Nicearco, che protesta e si appella ai testimoni; poi con l’aiuto del Tebano lo
imbavaglia, per impedirgli di urlare, e lo avvolge stretto, così che non si possa
muovere. I segnali testuali fanno intendere che al malcapitato toccano altre botte in
testa. Un altro esempio è la parata dei cinque intrusi degli Uccelli. Appena costruita la
città celeste, arrivano personaggi che vorrebbero approfittare del nuovo mercato che
si è aperto: il poeta, l’oracolista, Metone, l’ispettore, il mercante di decreti. L’eroe
reagisce in maniera estremamente aggressiva, perché deve difendere lo spazio di
Nubicuculia (che gli appartiene) da estranei che mirano a colonizzarlo. Con l’unica
eccezione del poeta, gli intrusi vengono cacciati via in malo modo: il testo non ci
mette in condizione di ricostruire esattamente la gestualità, ma si può immaginare che
si ripeta la stessa dinamica, con il malcapitato che viene percosso e inseguito per lo
spazio scenico da un Pisetero sempre più indignato.
La formulazione del v. 251 δοῦλοι γεγῶτες τῆς ἐμῆς τυραννίδος è una sorta di
“sigillo” che sancisce lo statuto tirannico di Lico. Che un monarca consideri i
cittadini, e persino gli anziani dignitari della città, suoi schiavi, è la palese
dimostrazione della sua hybris. Lico considera tutti Tebani suoi schiavi perché si
attende che eseguano i suoi ordini; ma sente anche di poter “fare quello che vuole” di
loro, esattamente come un padrone dispone dei suoi servi a suo piacimento. È quello
che Polo nel Gorgia di Platone (469C) ribadisce a Socrate: “Io per tiranno intendo
quello che dicevo un attimo fa: è uno che in città può fare quel che gli piace:
uccidere, esiliare, tutto quello che gli viene in mente”.
I vv. 252-274 sono assegnati ad Amfitrione dal codice L, ma tutti gli editori
moderni ritengono che sia il coro a pronunciarli (possono essere solo i coreuti a dire,
per esempio, al v. 258 che Lico non sarà mai il loro padrone; e al v. 270 il coro
ricorda con sdegno il nome di “schiavo” che il tiranno ha usato nei suoi confronti al v.
251). Ciò significa che abbiamo a che fare con una sequenza di 17 trimetri giambici
recitati da coro: è la rhesis corale più lunga in tutto il corpus tragico (di solito il coro
interviene nelle parti cantate o nelle sticomitie). Tono e contenuti ricordano la scena
finale dell’Agamennone, in cui Egisto rivendica con orgoglio l’uccisione di
Agamennone e si presenta come il nuovo “padrone” della città, minacciando i vecchi
del coro che lo rimproverano per quel che ha fatto e per le intenzioni dispotiche che
manifesta.
Al v. 252 il coro sembra seguire una versione alternativa del mito, secondo la
quale è Ares a seminare i denti del serpente. Nella versione più diffusa, la semina è
opera di Cadmo (Ares ha comunque un ruolo, poiché è il dio a cui è consacrata la
fonte custodita dal serpente, ovvero è il padre del serpente).
Al v. 257 τῶν ἐμῶν è una congettura moderna (ce ne sono anche altre) al posto
del tràdito τῶν νέων: che Lico per attuare il suo colpo di Stato di sia appoggiato sui
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“giovani” non è impossibile (l’Adrasto delle Supplici si è “lasciato trascinare dai


giovani” quando ha deciso improvvidamente di dare l’assalto a Tebe); però non ha
molto senso che il coro degli anziani riconosca a Lico un ascendente sui giovani.
A proposito della formulazione ai vv. 262-263 οὐ τοσόνδε γῆς ἔνερθ’ ἐκεῖνος
κρύπτεται (che di solito viene interpretata come la speranza che Eracle possa tornare,
dopo tutto, dall’Ade: è sì sotto terra, ma non tanto da non potersi “disseppellire”), la
Mirto pensa che il coro possa alludere all’evocazione di un fantasma. Nelle Coefore,
in tutta la prima parte del dramma, viene ribadita l’idea che il morto, cioè
Agamennone, possa venire in soccorso dei suoi figli, perché “la vorace mascella del
fuoco non consuma lo spirito di un defunto” (“i morti uccidono i vivi” è la frase
gridata dal Servo a Clitennestra: una frase che è il motto del dramma). Anche nei
Persiani l’ombra di Dario viene evocata, perché porti soccorso ai suoi.
Al v. 271 la lezione tràdita è ᾠκήσαμεν (“abiteremmo”), mentre ὠνήσαμεν è
una congettura: è curioso che la Mirto stampi ὠνήσαμεν e traduca “noi potremmo
risiedere”.
La rhesis di Megara si estende dal v. 275 a v. 311. La donna si oppone, nella
sostanza, al tentativo di mediazione di Anfitrione (che ha chiesto a Lico di
trasformare la condanna a morte in esilio). Il primo punto è l’idea che, se bisogna
morire, è meglio morire con onore, accettando coraggiosamente il proprio destino:
questo vale per gli Eraclidi, ma deve valere anche per Anfitrione. Il secondo punto è
il riconoscimento che le speranza di Anfitrione sono vane: né Eracle potrà mai tornare
dall’Ade (mai nessun uomo c’è riuscito) né Lico potrà essere persuaso con parole. Il
terzo punto è che l’esilio non è comunque una vera via di scampo: l’esule conduce
una vita miserabile, è privo di risorse e privo di amici. La conclusione è l’invito ad
Anfitrione ad accettare serenamente la morte, condividendola con la nuora e i nipoti.
Bond osserva che la rhesis è caratterizzata da un guizzo di involontaria ironia:
Megara si esprime in modo grave, quasi constatando dati di fatto irrefutabili, e mette
in campo argomenti solidi e ragionevoli, mentre i discorsi di Anfitrione possono
sembrare le farneticazioni di un vecchio che ha perso il controllo della realtà. Ma poi
il ritorno di Eracle dà ragione ad Anfitrione. Euripide si compiace – si direbbe – di
simili giochi: anche nell’Elettra la protagonista respinge le prove portate dal Vecchio
per suggerire la possibilità che Oreste sia tornato (ciocca di capelli, orma del piede,
abito), dicendo che sono discorsi insensati; ma poi la realtà le dà torto, e dà ragione
all’altro.
Al v. 283 è usato l’aggettivo σκαιός, che in Euripide torna con una certa
frequenaa. Ha tre significati: a) ripugnante, orribile (sul piano estetico); b) stupido,
ottuso (sul piano intellettuale); c) insensibile, gretto (sul piano morale). Al v. 299 è
usato di nuovo σκαιός, ancora nel senso di “ottuso”.
L’idea che non si debba fornire materia di riso alla gente (ossia che non si
debba dare occasione agli altri, e soprattutto ai nemici, di godere dei nostri errori o
delle nostre disgrazie) è profondamente radicata nella mente greca fin dall’età
arcaica: un esempio famoso è nell’Epodo di Colonia di Archiloco, quando il poeta
spiega alla ragazza che se si prendesse Neobule in moglie diventerebbe lo zimbello
dei vicini ὅπως ἐγὼ γυναῖκα τοιαύτην ἔχων γείτοσι χάρμ’ ἔσομαι (vv. 33-34).
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Al v. 290 ἀμαρτύρητος ha una valenza polemica nei confronti di Anfitrione: il


padre di Eracle ha usato buona parte del suo discorso per dimostrare il valore del
figlio, chiamando a testimoni gli dèi e i nemici sconfitti: Megara obietta che il valore
di Eracle è scontato, senza bisogno di testimonianze. Nei due personaggi opera una
diversa nozione di “nobiltà”: per Anfitrione la nobiltà di Eracle, riconosciuta da
uomini e dèi, ha un valore oggettivo, è una sorta di sanzione pubblica che dovrebbe
garantire agli Eraclidi una protezione fisica; per Megara la nobiltà è una qualità
personale, indipendente dal riconoscimento pubblico, e deve ispirare tout court una
condotta coraggiosa, eroica.
Ai vv. 300-301 (σοφοῖσι δ’ εἴκειν καὶ τεθραμμένοις καλῶς· / ῥᾶιον γὰρ αἰδοῖ σ’
ὑποβαλὼν φίλ’ ἂν τέμοις) il senso è questo: è inutile tentare di commuovere nemici
rozzi e ottusi, mentre è giusto εἴκειν (ossia “venire a patti”, “fare concessioni”) con
un nemico saggio, poiché con lui è più facile raggiungere un accordo amichevole
(φίλα τέμνειν: cfr. Iliade III 73 φιλότητα καὶ ὅρκια πιστὰ ταμόντες) sottomettendosi
al suo sentimento di rispetto. Il testo tràdito αἰδοῦς ὑπολαβὼν è di solito corretto
dagli editori; se si accetta la correzione αἰδοῖ σ’ ὑποβαλὼν ovvero αἰδοῦς σ’
ὑποβαλὼν l’ αἰδώς di cui si parla è quella del nemico (il supplice “attiva” il senso di
rispetto del supplicato umiliandosi davanti a lui). La Mirto accoglie invece la
correzione αἰδοῦς ὑποβαλὼν (con αἰδοῦς genitivo partitivo) e intende “mettendo ai
suoi piedi una parte della tua αἰδώς”; ossia, il supplice umiliandosi davanti al
supplicato offre il suo proprio pudore, lo “porge” al supplicato (e in questo modo
attiva un meccanismo di reciprocità, poiché ottiene dall’altro una risposta
equivalente, una risposta ispirata dal rispetto verso il supplicante).
Ai vv. 302-307 Megara considera per un attimo la possibilità di chiedere per sé
e per i figli l’esilio, come pena alternativa alla morte, ma poi scarta questa opzione.
Simile il discorso di Macaria negli Eraclidi: la ragazza si domanda se l’esilio possa
essere una soluzione, ma poi lo nega, perché teme l’accusa – per lei insopportabile –
di vigliaccheria. In Euripide, d’altra parte, non sono pochi i personaggi femminili
che, messi in condizione di dover morire, non esitano né cercano scappatoie né si
abbandonano a lamenti, ma accettano la morte con dignità e coraggio. Alcesti e
Macaria sono esempi molto chiari. Alcesti, quando la tragedia ha inizio, ha già fatto
la sua scelta (che quindi non viene drammatizzata). Negli Eraclidi quando Demofonte
spiega che, in base ai responsi divini, si deve immolare ad Artemide una vergine nata
da nobile padre (questo sacrificio darà la vittoria agli Ateniesi attaccati dagli Argivi e
salverà la città), Macaria – che ha sentito il dialogo tra Demofonte e Iolao – esce fuori
dal tempio di Zeus a Maratona, dove è supplice con i suoi fratelli, e si offre
volontariamente. La sua lunga rhesis spiega i motivi della scelta: uno di questi è che
una vita da esule, senza alcuna speranza di diventare sposa e madre, le sarebbe
intollerabile.
Altre due eroine euripidee che accettano con coraggio la morte sono Polissena
e Ifigenia. Nell’Ecuba Polissena, quando la madre le dice che i Greci hanno decisa di
sacrificarla sulla tomba di Achille, si abbandona a un pianto disperato. Segue l’agone
tra Odisseo e Ecuba; la donna ricorda all’eroe che. se è vivo, lo deve a lei, e gli
chiede di ricambiare il favore ricevuto salvando sua figlia; ma Odisseo spiega di non
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poterlo fare, e invita Ecuba a rassegnarsi. Polissena, che ha assistito al dialogo,


prende la parola e, con una lucida rhesis, dice di essere pronta a morire, e spiega anzi
che la morte è per lei, ridotta a schiava da principessa che era, la scelta di gran lunga
preferibile. Molto simile il comportamento di Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide: la
ragazza quando scopre che Agamennone l’ha ingannata e l’ha fatta venire in Aulide
per sacrificarla ad Artemide e rendere possibile la partenza della flotta, tenta
dapprima di convincere il padre a risparmiarla; ma poi si rassegna al suo destino e
con un discorso molto fiero illustra con eloquenza le ragioni che rendono per lei la
morte desiderabile e gloriosa.
A proposito del triste quadro dell’esule, dipinto dalle parole di Megara, la
Mirto osserva che nell’età classica i tradizionali legami tra i γένη aristrocratici delle
diverse città si sono allentati, o comunque sono subordinati ai rapporti politico-
economici: quindi situazioni come quelle descritte in Omero (l’esule che trova stabile
e dignitosa ospitalità in una casa amica) appartengono ormai al passato.
La gnome finale di Megara (vv. 309-311) è simmetrica (e opposta) rispetto a
quella di Anfitrione ai vv. 101-106 (tutto cambia a questo mondo, non c’è nulla di
fisso e di stabile: anche le fortune e le sfortune degli uomini si alternano). Megara la
pensa come il coro degli Eraclidi (vv. 615-617) : “Non è concesso fuggire il destino,
non v’è artificio che lo possa allontanare: chi ci prova (ὁ πρόθυμος) avrà sempre vana
la fatica”. Il v. 311 ha il sapore di un proverbio (torna, praticamente identico, in un
frammento tragico adespoto).
Anfitrione vuol mettere bene in chiaro che il suo attendismo non è ispirato da
un esagerato attaccamento alla vita (cfr. v. 90: “A tal punto ti piace la luce del sole?”,
gli chiede Megara). Nell’agone dell’Alcesti Ferete spiega ad Admeto che anche per
lui, pur vecchio, la vita è un bene prezioso; nella sticomitia finale Admeto gli dice che
i suoi sono sentimenti meschini e lo avverte che, dimostrando un attaccamento così
forte alla vita, si coprirà di disnore, ma Ferete replica che una volta morto non gli
importerà nulla di avere cattiva fama.
Il tricolon usato da Anfitrione per offrirsi ai colpi del tiranno (ἰδού, πάρεστιν
ἥδε φασγάνωι δέρη κεντεῖν φονεύειν ἱέναι πέτρας ἄπο) ricorda molto da vicino la
battuta di Andromaca in Andromaca 411-412 ἰδού, προλείπω βωμὸν ἥδε χειρία
σφάζειν φονεύειν δεῖν ἀπαρτῆσαι δέρην (“Ecco, lascio l’altare, mi consegno a voi:
sgozzatemi, uccidetemi, legatemi, impiccatemi”), Andromaca, pronunciando queste
parole, lascia l’altare di Teti e perde l’intangibilità garantita dalla condizione di
supplice; si deve pensare che anche Anfitrione e Megara lascino l’altare di Zeus.
Lico e le sue guardie escono di scena, per la parodos, al v. 335; Megara e i figli
entrano nel palazzo al v. 338. Anfitrione rimane solo in scena e pronuncia il suo breve
monologo. L’accusa al dio di non curarsi dei suoi figli è tradizionale: ce n’è un
esempio già in Omero, quando Glauco dopo la morte di Sarpedone invoca Apollo e
chiede al dio di guarirlo, perché possa battersi a protezione del cadavere dell’amico,
visto che Zeus non ha inteso difendere suo figlio (Iliade XVI 522). Le parole di
Anfitrione ricordano però soprattutto l’accusa che Ione lancia ad Apollo in Ione 435-
443, quando dice che il dio “Devo disapprovare Febo. Come può comportarsi così?
Violenta delle fanciulle e poi le abbandona? Fa nascere dei figli di nascosto e non si
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preoccupa se muoiono? Se un mortale è malvagio, gli dèi lo puniscono. Come può


essere giusto che vi comportiate illegalmente, proprio voi che prescrivete le leggi ai
mortali?”

Euripide, Eracle 701-733


Λυ. ἐς καιρὸν οἴκων, Ἀμφιτρύων, ἔξω περᾶις·
χρόνος γὰρ ἤδη δαρὸς ἐξ ὅτου πέπλοις
κοσμεῖσθε σῶμα καὶ νεκρῶν ἀγάλμασιν.
ἀλλ’ εἶα παῖδας καὶ δάμαρθ’ Ἡρακλέους
705 ἔξω κέλευε τῶνδε φαίνεσθαι δόμων,
ἐφ’ οἷς ὑπέστητ’ αὐτεπάγγελτοι θανεῖν.
Αμ. ἄναξ, διώκεις μ’ ἀθλίως πεπραγότα
ὕβριν θ’ ὑβρίζεις ἐπὶ θανοῦσι τοῖς ἐμοῖς·
ἃ χρῆν σε μετρίως, κεἰ κρατεῖς, σπουδὴν ἔχειν.
710 ἐπεὶ δ’ ἀνάγκην προστίθης ἡμῖν θανεῖν,
στέργειν ἀνάγκη· δραστέον δ’ ἃ σοὶ δοκεῖ.
Λυ. ποῦ δῆτα Μεγάρα; ποῦ τέκν’ Ἀλκμήνης γόνου;
Αμ. δοκῶ μὲν αὐτήν, ὡς θύραθεν εἰκάσαι
Λυ. τί χρῆμα; δόξης τίνος ἔχεις τεκμήριον;
715 Αμ. ἱκέτιν πρὸς ἁγνοῖς Ἑστίας θάσσειν βάθροις
Λυ. ἀνόνητά γ’ ἱκετεύουσαν ἐκσῶσαι βίον.
Αμ. καὶ τὸν θανόντα γ’ ἀνακαλεῖν μάτην πόσιν.
Λυ. ὁ δ’ οὐ πάρεστιν οὐδὲ μὴ μόληι ποτέ.
Αμ. οὔκ, εἴ γε μή τις θεῶν ἀναστήσειέ νιν.
720 Λυ. χώρει πρὸς αὐτὴν κἀκκόμιζε δωμάτων.
Αμ. μέτοχος ἂν εἴην τοῦ φόνου δράσας τόδε.
Λυ. ἡμεῖς <δ’>, ἐπειδὴ σοὶ τόδ’ ἔστ’ ἐνθύμιον,
οἱ δειμάτων ἔξωθεν ἐκπορεύσομεν
σὺν μητρὶ παῖδας. δεῦρ’ ἕπεσθε, πρόσπολοι,
725 ὡς ἂν σχολὴν λεύσσωμεν ἄσμενοι πόνων.
Αμ. σὺ δ’ οὖν ἴθ’, ἔρχηι δ’ οἷ χρεών· τὰ δ’ ἄλλ’ ἴσως
ἄλλωι μελήσει. προσδόκα δὲ δρῶν κακῶς
κακόν τι πράξειν. ὦ γέροντες, ἐς καλὸν
στείχει, βρόχοισι δ’ ἀρκύων κεκλήισεται
730 ξιφηφόροισι, τοὺς πέλας δοκῶν κτενεῖν
ὁ παγκάκιστος. εἶμι δ’, ὡς ἴδω νεκρὸν
πίπτοντ’· ἔχει γὰρ ἡδονὰς θνήισκων ἀνὴρ
ἐχθρὸς τίνων τε τῶν δεδραμένων δίκην.

III episodio – La scena ha stretti punti contatto con Elettra 998-1171 (uccisione di
Clitennestra). a) Lico e Clitennestra sono fatti entrare in casa con dei pretesti (Elettra,
che sostiene di avere partorito da poco, chiede a sua madre di entrare per celebrare il
sacrificio per il decimo giorno del bimbo); b) le ultime parole rivolte alle vittime
designate sono simili (“Entra nella mia povera casa […] Offrirai agli dèi i sacrifici
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che devi”; “Tu dunque entra, dirigiti dove è destino”); c) breve canto corale; d) le
vittime gridano da dentro la casa; e) il coro commenta e si rivolge con un’apostrofe
diretta al morente.
Anfitrione attira nella trappola Lico facendogli credere che Megara abbia
cambiato idea, non voglia più consegnarsi spontaneamente alla morte ma ricorra di
nuovo alla supplica presso un luogo sacro (questa volta sedendo sui gradini del
focolare, consacrato a Estia). Nel dialogo col tiranno, Anfitrione è molto ambiguo,
finge sottomissione, rassegnazione, ma manda anche segnali (quasi a provocare
l’altro, nella certezza che l’ottuso Lico non capisca). Così, parla di Eracle come di un
defunto, vanamemnte invocato dalla sposa (καὶ τὸν θανόντα γ’ ἀνακαλεῖν μάτην
πόσιν) e impossibilitato a soccorrere i suoi, a meno di una – evidentemente
impossibile – resurrezione (εἴ γε μή τις θεῶν ἀναστήσειέ νιν). Anfitrione si rifiuta di
condurre fuori di casa Megara dicendo che, se lo facesse, si renderebbe complice di
un omicidio (μέτοχος ἂν εἴην τοῦ φόνου δράσας τόδε): anche in questa frase si
nasconde un doppio senso, perché Anfitrione sta, di fatto, collaborando all’uccisione
di Lico.
Al v. 711 δραστέον δ’ ἃ σοὶ δοκεῖ è beffardo: Lico ha presentato se stesso come
il padrone della città, capace di imporre ai cittadini / servi la sua volontà, di
costringerli a fare qual che più gli piace; Anfitrione finge di assecondare questa
presunzione.
La supplica presso il focolare ha precedenti omerici: nel VII dell’Odissea
Odisseo dopo avere abbracciato le ginocchia di Arete e averla pregata, si siede
supplice sopra la cenere del focolare. Anche Temistocle (Tucidide I 136), inseguito da
emissari degli Spartani e degli Ateniesi, si rifugia presso Admeto re dei Molossi:
supllica la moglie del re e poi, su consiglio della donna, prende tra le braccia il bimbo
del re e si pone a sedere presso il focolare.
Il verso di uscita di Lico (le ultime parole che il tiranno pronuncia in scena),
ossia ὡς ἂν σχολὴν λεύσσωμεν ἄσμενοι πόνων, ha un doppio senso sinistro: Lico
vuole trovare pace alle preoccupazioni, e in effetti la troverà, ma sarà la pace della
morte.
I vv. 726-727 sono pronunciati da Anfitrione mentre Lico lascia la scena e poi
scompare dentro il palazzo. Il seguito della battuta non è più destinato alle orecchie
del tiranno: Anfitrione si rivolge ai vecchi del coro e pregusta il piacere della
vendetta. I commentatori osservano che la prima frase (“va’ dove il destino ti
chiama”) è estremanente ambigua, e richiama situazioni simili, in cui una vittima
designata è oggetto di espressioni a doppio senso, comprensibili per il pubblico che
ha un’informazione completa, incomprensibili per la vittima (“ironia tragica”). In
Baccanti 965-971 Dioniso invita Penteo a seguirlo sul monte, e pronuncia frasi che
alludono all’imminente triste fine del suo nemico: “Seguimi, io sono la tua scorta.
Qualcun altro ti ricondurrà da lassù”. “Mia madre, vuoi dire”. “E sarai sotto gli occhi
di tutti”. “Proprio a questo mi avvio”. “Ritornerai trasportato …”. “Che finezza!”.
“… dalle braccia di tua madre”. “Che delizie!”. “Delizie, davvero”. “Quelle che mi
merito”. “Sei un uomo tremendo (δεινός), e ti avvi a cose tremende”. In Ecuba 1018-
1022 Ecuba invita Polimestore a entrare nella sua capanna, con il pretesto di
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consegnargli oggetti preziosi destinati a Polidoro, ma in realtà per vendicarsi con agio
di lui e dei suoi figli: “Vieni in casa; infatti gli Achei sono impazienti di sciogliere le
vele delle navi e tornare da Troia verso la patria. Fai quello che devi e così ritornerai
con i tuoi figli alla dimora in cui hai condotto il mio”. Anche nell’Agamennone ( vv.
958-974) Clitennestra dopo avere convinto il marito a entrare nel palazzo calpestando
i tappeti di porpora, lo accompagna con parole che possono sembrare bene auguranti
(“quando eri lontano, molti voti avevo fatto per te; ora che sei qui, è come se
l’inverno fosse rotto da un improvviso tepore”); poi, quando Agamennone non può
più sentire, dice “Zeus, Zeus che tutto compi: esaudisci la mia preghiera: fa’ che ciò
che deve accadere, accada”.
A proposito dell’espressione βρόχοισι δ’ ἀρκύων κεκλήισεται ξιφηφόροισι dei
vv. 729-730 (“sarà attratto nelle maglie di una rete irta di spade”) i commentatori
osservano che il termine di confronto più vicino è Medea 1277 ὡς ἐγγὺς ἤδη γ’ ἐσμὲν
ἀρκύων ξίφους: qui siamo nel momento della teknophonìa, e si ode da dentro la voce
di uno dei bimbi che grida “Ormai stiamo per essere trafitti dalla spada”. La Mirto
suggerisce che si alluda a una tecnica di caccia per la quale la preda viene catturata
dentro una rete e poi, mentre le maglie della rete la immobilizzano, viene trafitta con
la spada; qualcosa del genere succede anche ad Agamennone, come Clitennestra
stessa racconta:

Eschilo, Agamennone 1381-1392


Perché lui non possa fuggire, non possa sottrarsi alla morte,
gli avvolgo intorno un ricco, pericoloso mantello,
una rete senza scampo, come per i pesci.
Lo colpisco due volte e due volte
lui geme; cade e, quando è a terra,
gli infliggo ancora un terzo colpo, offerta votiva
al dio di sotterra, salvatore dei morti.
Così cadendo lui esala l’anima;
e soffiando fuori un violento getto di sangue,
mi colpisce con un nero spruzzo di sanguigna rugiada.
E io ne godo, come un campo seminato
che sui germogli accoglie la pioggia ristoratrice di Zeus.

La Mirto osserva che la Schadenfreude, cioè la gioia che si preva nel vedere un
nemico soffrire o morire, è un’idea molto radicata nel sentimento greco (la sapienza
arcaica spiega che la felicità consiste nl far bene agli amici e male ai nemici), e
ampiamente presente nella tragedia: cfr. per esempio Eraclidi 938-940 (parla il Servo,
che conduce Euristeo in catene alla presenza di Alcmena) “A me hanno dato ordine di
condurre costui al tuo cospetto, perché il tuo cuore si riempia di gioia: non c’è cosa
più dolce che vedere un nemico, un tempo fortunato, colpito dalla sventura”; Aiace
79 (Atena a Odisseo, a proposito dello spettacolo di Aiace folle) “Ridere dei nemici
non è la cosa più bella?”
Grida retrosceniche di Lico – Il Coro intona un canto, in cui manifesta la gioia
per il ritorno di Eracle e l’attesa per la punizione del tiranno, Proprio quando il
corifeo si avvicina alla porta del palazzo per capire meglio quanto sta accadendo
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dentro, si odono dall’interno prima i lamenti di Lico (v. 750), poi il suo grido (v. 754)
“Popolo di Cadmo, sono ucciso a tradimento!”; i Coreuti rispondono (vv. 755-756)
“E tu uccidevi a tua volta: rassegnati a subire la vendetta, a pagare la pena dei tuoi
misfatti”. Situazioni simili non sono infrequenti nella tragedia. Nell’Agamennone,
dopo che Cassandra è scomparsa dentro il palazzo, c’è una battuta gnomica del
Corifeo, poi si odono dall’interno le grida di Agamennone, colpito da Clitennestra:
“Ah! Sono colpito a morte” (v. 1343), “Ahimè, un altro, un altro colpo ancora” (v.
1345); il Coro reagisce con commenti diversi, pronunciati dai singoli coreuti. Nella
Medea, quando la protagonista entra in casa, determinata ormai a uccidere i figli, c’è
un breve canto in cui il Coro invoca il Sole perché intervenga a fermare la mano della
mostruosa erinni, poi si sentono dall’interno le grida dei due bimbi.

Euripide, Medea 1273-1281


CORIFEA Lo senti il grido dei figli? Lo senti? Ah, infelice, sventurata donna!
PRIMO FIGLIO (da dentro) Ahimè, che posso fare? Come sfuggire alle mani della mamma?
SECONDO FIGLIO (da dentro) Non lo so, fratello carissimo, siamo perduti.
CORIFEA Che faccio? Entro in casa? Bisogna evitare la strage dei bimbi.
PRIMO FIGLIO (da dentro) In nome degli dèi, salvateci! Fate presto!
SECONDO FIGLIO (da dentro) Ormai stiamo per essere trafitti dalla spada.
CORIFEA Infelice, sei fatta di ferro o di acciaio? Vuoi uccidere, con le tue mani, il frutto delle tue
viscere, i figli che tu hai partorito.

Anche nell’Ippolito la voce della Nutrice, dal retroscena, informa il Coro del suicidio
di Fedra; la scena è molto vivace perché tra interno e esterno si instaura un vero e
proprio dialogo, molto curioso e anomalo.

Euripide, Ippolito 776-789


NUTRICE (da dentro) Povera me! C’è qualcuno qui? Aiuto, correte tutti! La moglie di Teseo si è
impiccata
CORIFEA Ahimè! È la fine! La nostra regina è morta: è là che pende da un cappio legato alla
trave.
NUTRICE (da dentro) Venite, presto! Qualcuno porti un coltello, liberatele il collo dal laccio.
CORIFEA
- Che facciamo, amiche? Andiamo dentro e sciogliamo la regina dal cappio?
- Ma non ci sono giovani ancelle nel palazzo? Impicciarsi è sempre sbagliato.
NUTRICE (da dentro) Stendete il suo povero corpo … sistematelo per bene … Che tristezza! Ecco
quel che resta di chi doveva custodire la casa del mio padrone!
CORIFEA Sventurata! Allora è morta: stanno già stendendo la salma sul letto.

Euripide, Eracle 922-1015


ΑΓΓΕΛΟΣ
ἱερὰ μὲν ἦν πάροιθεν ἐσχάρας Διὸς
καθάρσι’ οἴκων, γῆς ἄνακτ’ ἐπεὶ κτανὼν
ἐξέβαλε τῶνδε δωμάτων Ἡρακλέης·
925 χορὸς δὲ καλλίμορφος εἱστήκει τέκνων
πατήρ τε Μεγάρα τ’, ἐν κύκλωι δ’ ἤδη κανοῦν
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εἵλικτο βωμοῦ, φθέγμα δ’ ὅσιον εἴχομεν.


μέλλων δὲ δαλὸν χειρὶ δεξιᾶι φέρειν,
ἐς χέρνιβ’ ὡς βάψειεν, Ἀλκμήνης τόκος
930 ἔστη σιωπῆι. καὶ χρονίζοντος πατρὸς
παῖδες προσέσχον ὄμμ’· ὁ δ’ οὐκέθ’ αὑτὸς ἦν,
ἀλλ’ ἐν στροφαῖσιν ὀμμάτων ἐφθαρμένος
ῥίζας τ’ ἐν ὄσσοις αἱματῶπας ἐκβαλὼν
ἀφρὸν κατέσταζ’ εὔτριχος γενειάδος.
935 ἔλεξε δ’ ἅμα γέλωτι παραπεπληγμένωι·
«Πάτερ, τί θύω πρὶν κτανεῖν Εὐρυσθέα
καθάρσιον πῦρ καὶ πόνους διπλοῦς ἔχω;
ἔργον μιᾶς μοι χειρὸς εὖ θέσθαι τάδε.
ὅταν δ’ ἐνέγκω δεῦρο κρᾶτ’ Εὐρυσθέως
940 ἐπὶ τοῖσι νῦν θανοῦσιν ἁγνιῶ χέρας.
ἐκχεῖτε πηγάς, ῥίπτετ’ ἐκ χειρῶν κανᾶ.
τίς μοι δίδωσι τόξα; τίς <δ’> ὅπλον χερός;
πρὸς τὰς Μυκήνας εἶμι· λάζυσθαι χρεὼν
μοχλοὺς δικέλλας θ’ ὥστε Κυκλώπων βάθρα
945 φοίνικι κανόνι καὶ τύκοις ἡρμοσμένα
στρεπτῶι σιδήρωι συντριαινῶσαι πάλιν».
ἐκ τοῦδε βαίνων ἅρματ’ οὐκ ἔχων ἔχειν
ἔφασκε δίφρου τ’ εἰσέβαινεν ἄντυγα
κἄθεινε, κέντρωι δῆθεν ὡς θείνων, χερί.
950 διπλοῦς δ’ ὀπαδοῖς ἦν γέλως φόβος θ’ ὁμοῦ,
καί τις τόδ’ εἶπεν, ἄλλος εἰς ἄλλον δρακών·
«Παίζει πρὸς ἡμᾶς δεσπότης ἢ μαίνεται;»
ὁ δ’ εἷρπ’ ἄνω τε καὶ κάτω κατὰ στέγας,
μέσον δ’ ἐς ἀνδρῶν’ ἐσπεσὼν Νίσου πόλιν
955 ἥκειν ἔφασκε, δωμάτων τ’ ἔσω βεβὼς
κλιθεὶς ἐς οὖδας ὡς ἔχει σκευάζεται
θοίνην. διελθὼν δ’ ὡς βραχὺν χρόνον μονῆς
Ἰσθμοῦ ναπαίας ἔλεγε προσβαίνειν πλάκας.
κἀνταῦθα γυμνὸν σῶμα θεὶς πορπαμάτων
960 πρὸς οὐδέν’ ἡμιλλᾶτο κἀκηρύσσετο
αὐτὸς πρὸς αὑτοῦ καλλίνικος οὐδενός,
ἀκοὴν ὑπειπών. δεινὰ δ’ Εὐρυσθεῖ βρέμων
ἦν ἐν Μυκήναις τῶι λόγωι. πατὴρ δέ νιν
θιγὼν κραταιᾶς χειρὸς ἐννέπει τάδε·
965 «Ὦ παῖ, τί πάσχεις; τίς ὁ τρόπος ξενώσεως
τῆσδ’; οὔ τί που φόνος σ’ ἐβάκχευσεν νεκρῶν
οὓς ἄρτι καίνεις;» ὁ δέ νιν Εὐρυσθέως δοκῶν
πατέρα προταρβοῦνθ’ ἱκέσιον ψαύειν χερὸς
ὠθεῖ, φαρέτραν δ’ εὐτρεπῆ σκευάζεται
970 καὶ τόξ’ ἑαυτοῦ παισί, τοὺς Εὐρυσθέως
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δοκῶν φονεύειν. οἱ δὲ ταρβοῦντες φόβωι


ὤρουον ἄλλος ἄλλοσ’, ἐς πέπλους ὁ μὲν
μητρὸς ταλαίνης, ὁ δ’ ὑπὸ κίονος σκιάν,
ἄλλος δὲ βωμὸν ὄρνις ὣς ἔπτηξ’ ὕπο.
975 βοᾶι δὲ μήτηρ· «Ὦ τεκών, τί δρᾶις; τέκνα
κτείνεις;» βοᾶι δὲ πρέσβυς οἰκετῶν τ’ ὄχλος.
ὁ δ’ ἐξελίσσων παῖδα κίονος κύκλωι
τόρνευμα δεινὸν ποδός, ἐναντίον σταθεὶς
βάλλει πρὸς ἧπαρ· ὕπτιος δὲ λαΐνους
980 ὀρθοστάτας ἔδευσεν ἐκπνέων βίον.
ὁ δ’ ἠλάλαξε κἀπεκόμπασεν τάδε·
«Εἷς μὲν νεοσσὸς ὅδε θανὼν Εὐρυσθέως
ἔχθραν πατρώιαν ἐκτίνων πέπτωκέ μοι».
ἄλλωι δ’ ἐπεῖχε τόξ’, ὃς ἀμφὶ βωμίαν
985 ἔπτηξε κρηπῖδ’ ὡς λεληθέναι δοκῶν.
φθάνει δ’ ὁ τλήμων γόνασι προσπεσὼν πατρὸς
καὶ πρὸς γένειον χεῖρα καὶ δέρην βαλὼν
«Ὦ φίλτατ’», αὐδᾶι, «μή μ’ ἀποκτείνηις, πάτερ·
σός εἰμι, σὸς παῖς· οὐ τὸν Εὐρυσθέως ὀλεῖς».
990 ὁ δ’ ἀγριωπὸν ὄμμα Γοργόνος στρέφων,
ὡς ἐντὸς ἔστη παῖς λυγροῦ τοξεύματος
μυδροκτύπον μίμημ’ ὑπὲρ κάρα βαλὼν
ξύλον καθῆκε παιδὸς ἐς ξανθὸν κάρα,
ἔρρηξε δ’ ὀστᾶ. δεύτερον δὲ παῖδ’ ἑλὼν
995 χωρεῖ τρίτον θῦμ’ ὡς ἐπισφάξων δυοῖν.
ἀλλὰ φθάνει νιν ἡ τάλαιν’ ἔσω δόμων
μήτηρ ὑπεκλαβοῦσα καὶ κλήιει πύλας.
ὁ δ’ ὡς ἐπ’ αὐτοῖς δὴ Κυκλωπίοισιν ὢν
σκάπτει μοχλεύει θύρετρα κἀκβαλὼν σταθμὰ
1000 δάμαρτα καὶ παῖδ’ ἑνὶ κατέστρωσεν βέλει.
κἀνθένδε πρὸς γέροντος ἱππεύει φόνον·
ἀλλ’ ἦλθεν εἰκών, ὡς ὁρᾶν ἐφαίνετο
Παλλάς, κραδαίνουσ’ ἔγχος †ἐπὶ λόφω κέαρ †,
κἄρριψε πέτρον στέρνον εἰς Ἡρακλέους,
1005 ὅς νιν φόνου μαργῶντος ἔσχε κἀς ὕπνον
καθῆκε· πίτνει δ’ ἐς πέδον πρὸς κίονα
νῶτον πατάξας, ὃς πεσήμασι στέγης
διχορραγὴς ἔκειτο κρηπίδων ἔπι.
1010 ἡμεῖς δ’ ἐλευθεροῦντες ἐκ δρασμῶν πόδα
1009 σὺν τῶι γέροντι δεσμὰ σειραίων βρόχων
ἀνήπτομεν πρὸς κίον’, ὡς λήξας ὕπνου
μηδὲν προσεργάσαιτο τοῖς δεδραμένοις.
εὕδει δ’ ὁ τλήμων ὕπνον οὐκ εὐδαίμονα
παῖδας φονεύσας καὶ δάμαρτ’. ἐγὼ μὲν οὖν
52

1015 οὐκ οἶδα θνητῶν ὅστις ἀθλιώτερος.

V episodio – Col v. 910 entra in scena il servo che fa da Messaggero: si esprime in


metro giambico (il v. 916, in particolare, è un trimetro), mentre il Coro replica in
ritmo lirico. I commentatori citano, come termine di confronto, il V episodio delle
Baccanti: qui arriva in scena il Messaggero che ha assistito alla morte di Penteo, e
nella sua prima battuta (vv. 1024-1028, trimetri giambici) compiange la casa di
Cadmo, un tempo felice e ora travolta dalla sventura; la Corifea chiede, anch’essa in
recitativo, che cosa è accaduto, e il Messaggero annuncia (v. 1030) “Penteo, il figlio
di Echione, è morto”; qui comincia uno scambio nel quale il Messaggero continua a
esprimersi in trimetri, mentre il Coro giubilante risponde cantando.
vv. 922-1015 (la pazzia di Eracle, descritta dal Messaggero) – I primi versi si
riferiscono alla situazione di pace apparente che regna in casa, dopo l’uccisione di
Lico. Bond cita i versi iniziali del racconto del secondo Messaggero nelle Baccanti:
sul monte tutto è pace e serenità, le baccanti sono intente a pratiche devote; la scena
cambia di colpo quando si produce il prodigio del pino piegato a terra (cioè
l’intervento divino).
Euripide, Baccanti 1048-1057
Prima sostammo in una valle erbosa,
soffocando il rumore dei passi, in silenzio,
per spiare senza essere visti.
Era una conca circondata da rocce, percorsa da torrenti,
ombreggiata da pini. Lì stavano le menadi,
occupate in piacevoli fatiche.
Alcune inghirlandavano il tirso
che aveva perduto le sue chiome di edera,
altre, come puledre lasciate libere dai gioghi,
cantavano a voci alterne un inno bacchico.

Il sacrificio si svolge secondo la prassi rituale, come nella scena di Pace 956-
962: Trigeo ha sistemato l’altare davanti alla porta, mentre il Servo è andato a
prendere il canestro con l’orzo, le bende e il coltello; Trigeo ordina al Servo di fare il
giro dell’altare, da destra, con il canestro e la brocca, poi dice: “Ecco, prendo il
tizzone e lo immergo” [l’immersione del tizzone, preso dal fuoco acceso sull’altare,
ha lo scopo di consacrare l’acqua, che viene poi usata per aspergere la vittima e i
partecipanti a rito].
A partire dal v. 930 c’è la descrizione dell’attacco di follia. I primi sintomi sono
fisici: il silenzio improvviso di Eracle e la sua immobilità, gli occhi stravolti e
iniettati di sangue, la bava alla bocca. Questa sintomatologia coincide con quella
descritta nel De morbo sacro 7: “[il malato] perde la parola, soffoca, gli esce schiuma
dalla bocca, i denti sono serrati, le braccia si contraggono con spasmi, gli occhi si
stravolgono”. I commentatori osservano che la pazzia di Eracle ha chiari punti di
contatto con altre scene tragiche, in cui pure sono descritti attacchi di follia. In
Baccanti 1118-1124 Penteo, caduto dal pino dove l’ha fatto salire Dioniso e catturato
53

dalle baccanti inferocite, cerca di farsi riconoscere da sua madre Agave, ma questa ha
la mente dominata dalla follia, come dimostra l’aspetto stravolto del viso:
Euripide, Baccanti 1118-1124
“Madre, sono tuo figlio Penteo,
che hai generato nella casa di Echione.
Abbi pietà di me, mamma, non uccidere
tuo figlio per le sue colpe”.
Lei aveva la bava alla bocca, roteava
le pupille, era fuori di sé,
posseduta da Bacco: non l’ascoltava.

Descrizioni simili riguardano la follia di Oreste, assalito dalle Erinni. In Oreste 219-
220 il protagonista (che si è appena risvegliato da un breve sonno, dove ha trovato un
poco di requie) chiede a Elettra “Sostienimi, sì, sostienimi, e asciuga dalla mia povera
bocca e dai miei occhi la bava sanguinosa”; ma pochi attimi dopo un nuovo attacco di
follia lo investe, ed Elettra se ne rende subito conto (vv. 253-254): “Ahimè, fratello
mio, il tuo sguardo è stravolto; sei cambiato, sei di nuovo in preda alla follia, mentre
poca fa eri in te”. Nell’Ifigenia in Tauride il Bovaro racconta a Ifigenia la scena cui
ha assistito: lui e i suoi compagni hanno visto due stranieri, nascosti in una grotta in
riva al mare, e hanno pensato di prenderli per consegnarli alla dea. Ma uno spettacolo
straordinario si è offerto ai loro occhi: uno dei due stranieri (Oreste, naturalmente) ha
cominciato a scuotere il capo in su e in giù, ad agitare le braccia, percorse da un
tremito incontrollabile, a gridare frasi inconsulte, dicendosi perseguitato da belve
orribili. Poi si è lanciato contro i vitelli, colpendoli con la spada, nella convinzione di
difendersi dalle Erinni. I mandriani si sono disposti ad affrontarlo, per difendere le
loro bestie, ma lo straniero d’improvviso si è accasciato al suolo, col mento
gocciolante di bava (v. 308).
I sintomi descritti dal Messaggero si combinano con quelli “visti” da Lissa: i
sussulti del capo, il respiro irregolare, l’emissione di suoni simili a muggiti. Il riso
isterico (v. 935) ricorda i vv. 301-304 dell’Aiace: Tecmessa sta raccontando l’attacco
di follia dell’eroe che, dopo avere massacrato molti capi di bestiame, “balza fuori
dalla porta e rivolgendosi a un’ombra lancia insulti contro gli Atridi, contro Odisseo,
con grandi scoppi di risa perché ha saputo fargliela pagare”. Eracle non ha acora
perduto completamente il senno, quando si rivolge ad Anfitrione (riconoscendolo) e
gli dice di voler completare l’opera uccidendo anche il suo grande nemico, Euristeo.
Ma subito dopo ai sintomi fisici subentra la perdita del senno e lo stato allucinatorio:
Eracle crede di essere in viaggio per Micene, su un carro che esiste soltanto nella sua
immaginazione, e durante il fantomatico viaggio si illude di partecipare ai giochi
Istmici e di riportare una serie di vittorie. Bond propone un confronto con le
allucinazioni di Aiace, che insulta le ombre, o con la terribile scena delle Baccanti in
cui Agave, tenendo in mano la testa del figlio da lei massacrato, ne parla come se
fosse la testa di un leone. Se le prime allucinazioni di Eracle sono quasi comiche
(tanto che i servi ne ridono, pur provando anche paura), poi la scena si fa sempre più
cupa, fino a diventare atroce al momento dell’uccisione dei figli. A far precipitare la
54

situazione è, sia pur inconsapevolmente, Anfitrione, che nel tentativo di richiamare


Eracle alla ragione gli tocca la mano; questo contatto fisico scatena la furia omicida
dell’eroe, che si convince di avere davanti a sé Euristeo supplice e i suoi figli. La
strage dei figli è descritta con crudo realismo: la macabra danza attorno alla colonna,
che poi si bagna del sangue del bimbo, trafitto al fegato; la supplica disperata del
secondo bambino, che implora il padre di non ucciderlo (come Penteo con Agave
nelle Baccanti) e poi riceve sul biondo capo il colpo della clava che gli fracassa il
cranio; la fuga di Megara, che si barrica col terzo figliοletto dietro una porta chiusa,
ma viene uccisa da una freccia, che con un solo colpo trafigge i due corpi. Si avverte
una ricerca dell’orrido, che in Euripide non è senza esempi: i commentatori citano,
oltre al passo delle Baccanti in cui viene narrato lo smembramento di Penteo, il
racconto del Messaggero della Medea che riferisce l’orrida morte di Creusa e Creonte
[Creusa, dopo avere indossato il peplo e il diadema, ne rimane avvelenata:
ammutolisce, è presa da un violento tremito, che la costringe ad abbandonarsi su un
seggio, impallidisce, mentre gli occhi si stravolgono e bava cola dalla bocca].
Al v. 933 ῥίζας τ’ ἐν ὄσσοις αἱματῶπας ἐκβαλὼν significa “producendo [cioè,
“mostrando, facendo vedere”] strisce di sangue negli occhi”; al v. 943 λάζυσθαι
significa “prendere” (è un intensivo di λαμβάνω), mentre al v. 945 si fa riferimento ai
segni tracciati in rosso sulle pietre, per indicare le linee di connessione (una
traduzione libera può essere “le mura dei Ciclopi, sapientemente squadrate e
sgrossate”).
Ai vv. 951-952 compare il modulo della “τις Rede” (di nobile ascendenza
omerica): un pensiero o un commento è attribuito a un imprecisato τις, all’interno di
un gruppo più ristretto o di una moltitudine, e le sue parole interpretano il sentimento
comune; chiunque altro potrebbe dire le stesse cose. Il modulo è efficace, perché dà
voce al gruppo. Un esempio molto famoso è nella scena dell’homilìa tra Ettore e
Andromaca, nel canto VI dell’Iliade:

Omero, Iliade VI 456-463


Allora, vivendo in Argo, dovrai per altra tessere tela,
e portar acqua di Messeìde o Iperéa,
costretta a tutto: grave destino sarà su di te.
E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa:
“Ecco la sposa d’Ettore, ch’era il più forte a combattere
fra i Troiani domatori di cavalli, quando lottavano per Ilio!”
Così dirà allora qualcuno; sarà strazio nuovo per te,
priva dell’uomo che schiavo giorno avrebbe potuto tenerti lontano.

Le reazione dei servi sono spesso sfruttate da Euripide per dare profondità a una
narrazione. Un esempio è il racconto del Messaggero nella Medea; all’inizio i servi si
allietano per quella che sembra essere una riconciliazione familiare: vv. 1136-1143
“Quando i tuoi figli arrivarono col padre ed entrarono nella casa della sposa, noi
servi, che soffrivamo per i tuoi mali, ci rallegrammo […] uno baciava la mano dei
bambini, un altro il loro biondo capo; io stesso, con gioia, seguii i tuoi figli nelle
stanze delle donne”. Poi c’è invece la reazione d’orrore: vv. 1171-1173 “Una vecchia
55

ancella, fοrse credendo che le fosse sopraggiunto il furore di Pan o di qualche altra
divinità, emise un grido”.
Ai vv. 961-962 καλλίνικος οὐδενὸς ἀκοὴν ὑπειπών è preferibile far dipendere
οὐδενὸς da ἀκοὴν: “dopo avere imposto il silenzio a nessuno [cioè, a un pubblico
immaginario]”. Al v. 975 ὦ τεκών è molto forte (molto più forte di quanto sarebbe ὦ
πάτερ): “tu che li hai messi al mondo”; Eracle riprende la stessa formulazione, per
marcare la sua colpa, ai vv. 1367-1368, in cui si rivolge ai figli uccisi dicendo ὦ
τέκν’, ὁ φύσας καὶ τεκὼν ὑμᾶς πατὴρ ἀπώλεσε.
Eracle colpisce il primo figliolo al fegato, cioè nel punto dove Odisseo ferisce
mortalmente Euriloco (la seconda vittima, dopo Antinoo) con una freccia in Odissea
XXII 83; nel IX canto Odisseo vorrebbe colpire al fegato Polifemo addormentato, ma
si trattiene pensando all’immane pietra che chiude la caverna. Il fegato è una sede
d’elezione per le ferite, nella poesia epica. Non esistono punti del corpo dove la
morte non possa “domare” il guerriero: il collo, il ventre, la fronte, la tempia, il
fianco, il petto, il polmone, l’inguine. E poi c’è il fegato, dove il colpo è sicuramente
mortale, nell’epica come nella tragedia. Non è solo una questione anatomica, ma è
qualcosa che appartiene all’“anatomia dell’immaginario”. Il fegato è organo vitale, e
in particolare è sede degli affetti: nella tragedia, quando un’emozione colpisce con
violenza un personaggio, si usa spesso la metafora del “colpo al fegato”; Platone, nel
Timeo, traccia una fantastica tripartizione del corpo, per la quale la testa è la sede
dell’anima razionale, il cuore è la sede dell’anima irascibile e il fegato la sede
dell’anima passionale (e il diaframma, i precordi, ha la funzione di tenere chiuse le
spinte della concupiscenza, così come l’istmo del collo divide il cuore dalla ragione).
È chiaro che il colpo al fegato non è un colpo come gli altri: non solo perché è
particolarmente efficace [Eracle stesso, quando decide di suicidarsi, immagina questo
tipo di morte: v. 1148 “affondare la spada nel fegato”; la stessa cosa pensano Oreste
nell’Oreste e Menelao nell’Elena], ma anche perché esprime la volontà di colpire
dove fa più male, dove l’annientamento del nemico è certo. Si colpisce al fegato colui
che più si odia, e il colpo è veicolo dell’avversione. Nelle Fenicie Polinice morente
riesce a colpire lì il fratello Eteocle; nella Medea la protagonista vuole annientare i
suoi nemici, il re di Corinto Creonte, sua figlia Creusa e Giasone, colpendoli al
fegato. Quindi, il colpo vibrato al fegato del figlioletto è un segno evidente dello
stravolgimento prodotto dalla pazzia. Nicole Loraux, Come uccidere tragicamente
una donna, considera il caso di Deianira nelle Trachinie, vv. 930-931: Deianira “si
trafigge il fianco con un pugnale a doppio taglio, ficcato tra il fegato e il diaframma”.
È una “morte virile”, per una donna che in tutta la prima parte del dramma ha
proposto se stessa come l’icona della femminilità (Deianira è colei che custodisce la
casa, nella trepida attesa del ritorno del marito); nel momento della morte, Deianira
ed Eracle si scambiano le parti: lei muore virilmente di lama, lui muore come una
donnicciola, agitandosi e piagnucolando sul letto.
Il nome μύδρος indica la massa di metallo (incandescente), il verbo
μυδροκτυπέω significa “battere il ferro incandescente” e μυδροκτύπος è l’aggettivo
derivato dal verbo; quindi al v. 992 μυδροκτύπον μίμημ’ vuol dire “al modo del
fabbro che batte il ferro”. Le ultime due “prodezze” di Eracle sono azioni egualmente
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smodate, perché mettono in campo forze e mezzi del tutto sproporzionati


all’obbiettivo: la clava, l’arma delle lotte affannose contro avversari formidabili, se
vibrata sul biondo capo di un bambino è un’arma grottescamente eccessiva; allo
stesso modo, lo slancio con cui Eracle abbatte la porta di casa, immaginando di usare
leve e picconi contro le ciclopiche mura di Micene, è tragicamente incongruo. La
narrazione è studiata per suscitare sgomento e orrore in chi ascolta: Eracle è il
fantoccio spettrale di se stesso, è una caricatura orrida. Come osserva anche Serena
Mirto, per il terzo figlio e per Megara si usano parole del lessico sacrificale (Eracle si
volge alla terza “vittima”, per “immolarla” sopra le altre due); è un mezzo effiace per
mostrare il totale ribaltamento della situazione: l’eroe interrompe il sacrificio
purificatorio, in cui ha ruolo sacerdotale, per diventare assassino. Anche Megara al v.
451 aveva usato il lessico del sacrificio (“Chi è il sacerdote, chi immolerà gli
sventurati”) per denunciare la brutalità di Lico: ora Eracle si sostituisce al tiranno, fa
ciò che Lico non è riuscito a fare. Al v. 1001 il verbo ἱππεύει è un altro segnale del
ribaltamento prodottosi nel personaggio: Eracle è ora simile a quei pazzi Centauri che
in passato ha combattuto (per liberare la terra dalla loro violenza).
I vv. 1014-1015 (ἐγὼ μὲν οὖν οὐκ οἶδα θνητῶν ὅστις ἀθλιώτερος) sono il
commento finale del Messaggero, la sua sphraghìs. I messi euripidei di norma
concludono i loro racconti con frasi gnomiche: per es. in Medea 1224-1230 il messo
che ha portato la notizia della morte dei due sovrani si congeda con una lunga battuta
sentenziosa: “Non ora per la prima volta considero le cose umane un’ombra: senza
tremare potrei dire che quanti tra i mortali sembrano essere sapienti e indagatori di
ragioni, questi meritano la più grave accusa di follia. Fra i mortali nessuno è felice:
quando il benessere scorre copioso, uno potrebbe essere più fortunato di un altro, ma
felice mai”. La gnome dell’Eracle sancisce la rhopé dell’eroe: il più grande eroe della
Grecia, il migliore tra i mortali, è ora l’uomo più sventurato. È la lezione di ogni
tragedia, ma la formulazione οὐκ οἶδα θνητῶν ὅστις ἀθλιώτερος ricorda da vicino
Edipo re 813-815, in cui Edipo, dopo avere rievocato l’antico fatto di sangue di cui fu
protagonista in Focide, tira una conclusione sconsolata: “Ma se c’è qualche legame
tra questo straniero e Laio, chi allora è più sventurato di me? (τίς τοῦδέ γ᾽ ἀνδρὸς νῦν
ἔτ᾽ ἀθλιώτερος;)”.

La figura di Eracle nell’Alcesti - L’Alcesti fu rappresentata nel 438. Il mito è quello di


Admeto e Alcesti, in cui si riconoscono due mitologemi principali: quello del mortale
amato e privilegiato dal dio (in questo caso Apollo, che aiuta Admeto a superare la
prova imposta da Pelia e a conquistare la mano della ragazza) e quello dell’amante
che accetta di morire in cambio dell’amato. Il primo nucleo è ampiamente
rappresentato nel mito greco (per esempio, nella vicenda di Pelope e Ippodamia); il
secondo ha chiari connotati folklorici. Susanetti cita una ballata popolare neogreca,
diffusa nell’area del Ponto, il cui protagonista si chiama Jannis: questi, figlio unico,
sta per sposare la donna amata, quando alla porta di casa bussa Caronte, che è venuto
a prendersi la sua vita. Jannis sfida Caronte a lottare con lui sull’aia, ma l’altro rifiuta.
Jannis prega allora San Giorgio, che ottiene da Dio la grazia: Jannis si potrà salvare,
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se qualcuno rinuncerà ai suoi giorni per lui; soltanto la sposa si offre per questo
sacrificio.
Nel dramma di Euripide il primo tema è sullo sfondo, appartiene all’antefatto,
mentre centrale è il secondo. Pare che Euripide sia stato l’unico dei tra grandi a
drammatizzare questo mito. Abbiamo invece notizia di una Alcesti del vecchio
Frinico, che dovette servirgli da modello: sappiamo che anche in Frinico compariva
Thanatos con la spada in pugno, pronto a tagliare i capelli di Alcesti. Della Alcesti di
Frinico abbiamo un solo frammento, molto esiguo, che sembra tratto dalla
descrizione dello scontro tra Eracle e il demone della morte. Se è davvero così, allora
anche l’intervento di Eracle non è una novità euripidea, ma un elemento ormai
tradizionale. Certo, il trattamento che Euripide fa del personaggio di Eracle, nel
contesto di una vicenda drammatica come quella di Alcesti, è una scelta molto
innovativa: è l’Eracle comico decontestualizzato e reimpiantato.
Alcuni passi famosi di Aristofane mostrano come l’Eracle morto di fame fosse
un personaggio fisso della commedia (e della tradizione letteraria) greca. Lo si
deduce, per esempio, dalla parabasi della Pace, dove il poeta esalta la novità della sua
arte comica:

Aristofane, Pace 741-742


Lui per primo ha buttato fuori a calci i soliti Eracli mangiapagnotte, eternamente affamati

Anche nel prologo delle Vespe tornano formulazioni simili: il servo Xantia si rivolge
direttamente al pubblico per introdurre l’argomento della commedia e spiega che non
ci saranno schiavi che buttano noci agli spettatori, né il solito Eracle a pancia vuota o
Euripide messo alla berlina, e neppure un furioso attacco contro Cleone:

Aristofane, Vespe 54-63


Ora vorrei rivelare agli spettatori la trama della commedia. Con una breve premessa: che non si
aspettino da noi niente di troppo ambizioso, ma neppure battute rubate a Megara. Non presentiamo
un paio di schiavi che da un cesto lanciano noci agli spettatori, né Eracle defraudato del pranzo, e
neppure Euripide maltrattato ancora una volta; se Cleone brilla grazie ad un colpo di fortuna, non ne
faremo di nuovo un pesto.

È ben noto come, in realtà, anche Aristofane ricorra in più occasioni allo
stereotipo dell’Eracle affamato; in ogni caso, i versi della Pace e delle Vespe non
avrebbero senso se Eracle non fosse ormai diventato una sorta di maschera, un po’
come il Pulcinella eternamente affamato della tradizione popolare italiana. E in
effetti, i frammenti e le testimonianze vanno esattamente in questa direzione. La
nostra documentazione non ci consente di ricostruire nel dettaglio l’origine e lo
sviluppo della maschera di Eracle ghiottone: una storia del personaggio è impossibile.
Emerge però – in chiara filigrana – il ritratto del mangiatore impenitente, del
parassita che crede solo nella religione del ventre; o peggio, del furfante pronto a
tutto, a ogni forma di rapina e soperchieria, pur di riempirsi la pancia. La commedia,
nelle sue varie forme (siceliota, megarese, attica) e il dramma satiresco ripropongono
questo Eracle per tutto l’arco del V e del IV secolo.
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Si comincia da Epicarmo. Nel Busiride compariva un servo che descriveva al


re d’Egitto il formidabile appetito di Eracle, da poco arrivato alla reggia:
Epicarmo, fr. 18 K-A
Anzitutto, a vederlo mangiare ti verrebbe un colpo: sfrigola la strozza, strepita la mascella, stride il
molare, cigola il canino, le narici fischiano e sventolano le orecchie.

In un altro frammento (Epicarmo, fr. 32 K-A, dalla commedia La speranza o La


ricchezza) un parassita spiega in che cosa consiste la sua arte; i primi due versi
(“Pranzo con chiunque lo voglia, basta che mi inviti; e anche con chi non vuole, e
non cè bisogno di invito”) furono probabilmente ripresi da Aristofane e usati per
descrivere la disinvoltura con cui Eracle si presenta, invitato o no, dovunque ci sia da
mangiare:

Aristofane, fr. 284 K-A (da I drammi o Il centauro)


Anche se non lo invitano, lui si presenta sempre per banchettare.

Nel dramma satiresco Eracle è un personaggio ricorrente: si presta molto,


infatti, per interpretare il ruolo dell’eroe positivo, che con la forza dei muscoli e il
coraggio fanciullesco spazza via orchi e mostri. Le vicende del dramma satiresco
sono costruite in modo da dare ampio spazio alla naturalità, alle pulsioni primarie: la
voglia di libertà e di liberazione, e un vitalismo prorompente, volto alla libido
sessuale e agli altri appetiti corporei. È l’universo mentale dei satiri, che si trasferisce
alle situazioni e ai personaggi. Eracle, in questa prospettiva, diventa una sorta di
super-satiro, gigantesco e interessato al cibo, più che al vino (che peraltro non gli
dispiace).
Nell’Onfale di Ione di Chio Eracle era prigioniero della regina di Lidia e però
aveva occasione anche lì di dare prova della sua ghiottoneria, come si evince dal fr.
29 (in cui un personaggio descrive il comportamento dell’eroe durante un festino):

Ione di Chio, TrGF I2, 19 F 29 (= 31 Leurini)


Circondato da religioso silenzio, anche la legna e il carbone si pappò.

Della trama del Sileo di Euripide siamo informati da varie fonti, che ci
consentono di ricostruirne, almeno a grandi linee, la vicenda. Particolarmente utile è
un passo dei Prolegomena de comoedia Aristophanis di Tzetze:

Tzetze, Prolegomena de comoedia Aristophanis XIa II 62-70 Koster


Eracle, venduto a Sileo come schiavo di campagna, fu mandato nel podere a lavorare la vigna.
Estirpò allora con la zappa tutte le viti e le trasportò nella masseria; fece grandi pagnotte, sacrificò il
bue più grosso e si preparò il banchetto: sfondò la cantina, aprì la botte migliore e, usando la porta
come tavola, mangiava e beveva, cantando. Lanciando un’occhiata severa al custode del podere, gli
ordinava di portare frutta e focacce. Alla fine deviò un intero fiume dentro il cortile e sommerse
ogni cosa, quello schiavo, quel furbissimo contadino.
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Il pantagruelico banchetto con ogni probabilità non era rappresentato sulla scena, ma
raccontato da un personaggio che vi aveva assistito (Sileno, o forse Sileo stesso).
Appunto a questa rhesis può essere assegnato il fr. inc. fab. 907 Kannicht (la cui
appartenenza al Sileo lascia in realtà pochi dubbi):

Euripide, fr. inc. fab. 907 Kn.


Con la carne di bue mangiava fichi verdi, ululando canzoni stonate (stonate anche per le orecchie di
un barbaro).

Non contento di avere preso a Sileo il miglior bue e il miglior vino, Eracle si
prendeva forse anche sua figlia Xenodice (con il pretesto di consolarla); perlomeno,
questa è la situazione che sembra suggerita dal fr. 694 Kannicht:

Euripide, fr. 694 Kn.


Entriamo e corichiamoci: asciugati le lacrime.

Anche nella commedia del IV secolo la fame di Eracle è tema frequente. Nella
Esione Alessi metteva in scena la vicenda di questa figlia di Laomedonte, che il padre
dovette offrire in pasto – incatenata a uno scoglio – a un mostro marino: Eracle la
vide e la salvò, dopo che Laomedonte gli promise di dargliela in moglie. Nel fr. 88 un
personaggio (che rifaceva il verso al messaggero tragico, probabilmente) descrive la
smodatezza alimentare di Eracle; nel fr. 89 parla Esione stessa che, con comico
disappunto, deve constatare come la vista di una tavola imbandita per Eracle sia più
seducente di quella di una bella fanciulla.

Alessi, fr. 88 K-A


Tornato in sé, chiese una coppa e, avutala, in breve tempo la svuotò più volte a grandi sorsate.
Davvero, come dice il proverbio, quest’uomo è un otre e un sacco [cioè, è un gran bevitore e un
gran mangiatore].

Alessi, fr. 89 K-A


Ma quando vide due uomini portare dentro la tavola brulicante di pietanze disposte in bell’ordine,
non ebbe più occhi per me.

In un’altra commedia di Alessi intitolata Lino c’è una scena spassosa in cui il
precettore di Eracle porta l’allievo in biblioteca e lo esorta a scegliersi un volume, a
suo piacere: la scelta, inevitabilmente, è un manuale di cucina.

Alessi, fr. 140 K-A


LINO Va’ lì, prendi il libro che vuoi e poi siediti a leggere. Considera bene i titoli, con calma: c’è
Orfeo, c’è Esiodo, la tragedia, Cherilo, Omero, Epicarmo, ogni tipo di prosa. Con la tua scelta mi
farai capire dove inclina la tua natura. ERACLE Prendo questo. LINO Fa’ prima vedere che cos’è.
ERACLE Il titolo è “L’arte della cucina”. LINO Sei un filosofo, è chiaro: hai lasciato perdere tutto
il resto e ti sei preso il manuale di Simo. ERACLE Ma chi è questo Simo? LINO Un bravo tipo.
Ora si è dato alla tragedia, ed è il miglior cuoco tra gli attori e il miglior attore tra i cuochi, a
giudizio di chi se ne intende.
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D’altra parte, gli esempi che siamo venuti considerando danno solo una pallida
idea di quello che doveva essere il trattamento comico di Eracle. A questo pulviscolo
di frammenti si aggiungono però le scene godibilissime di Uccelli e Rane in cui
Aristofane, smentendo se stesso, sfrutta a fondo il tema della fame di Eracle, per la
delizia del pubblico.
Nel finale degli Uccelli arriva l’ambasceria divina, di cui fanno parte
Poseidone, Eracle e il dio barbaro Triballo. Pisetero ha buon gioco nel vincere la
resistenza dell’altero Poseidone, facendo leva sulla fame di Eracle, esasperata dal
lungo digiuno: davanti allo spettacolo dell’arrosto di uccelletti che Pisetero sta
preparando, Eracle è disposto ad accettare qualsiasi condizione (e a imporla ai
compagni di ambasceria) pur di essere invitato a pranzo.

Aristofane, Uccelli 1574-1692


ERACLE Te l’ho detto e te lo ripeto. Voglio strangolare l’uomo che ha fatto costruire il muro e
tagliato fuori gli dèi.
POSEIDONE Ma, caro amico, ci hanno mandato qui come ambasciatori per trattare l’armistizio.
ERACLE Ragione di più per strangolarlo.
PISETERO (ai servi) Qualcuno mi passi la grattugia. Ci vuole il silfio. Portatemi il formaggio. Ehi,
tu, attizza il fuoco... Ecco, intanto io ci grattugio sopra il silfio.
POSEIDONE Uomo, salute a te. Noi siamo dèi, tutti e tre.
PISETERO (ai servi) Ecco, una bella grattatina di silfio.
ERACLE Questa che carne è?
PISETERO Uccelli riconosciuti colpevoli di ribellione contro gli uccelli democratici.
ERACLE Ma guarda. Prima tu ci gratti sopra il silfio.
PISETERO Ah sei tu, Eracle? Salve, che c’è?
POSEIDONE Siamo venuti come ambasciatori da parte degli dèi, per concludere un armistizio.
PISETERO (ai servi) Non c’è olio nell’ampollina.
ERACLE Eh no, gli uccelli devono essere ben unti...
[…]
PISETERO […] Questa è la giusta soluzione: che Zeus restituisca lo scettro a noi uccelli. Se vi va
questo tipo di accordo, invito subito a pranzo gli ambasciatori.
ERACLE A me sta bene: voto a favore.
POSEIDONE Ma cosa dici, disgraziato? Sei uno stupido pancione. Vuoi togliere il regno a tuo
padre?
[…]
ERACLE Volete che rimanga qui io a cuocere l’arrosto? Intanto voi potete andare.
POSEIDONE Tu a cuocere l’arrosto? Senti un po’ che ghiottone! Su, vieni con noi.
ERACLE Peccato: me la sarei cavata benissimo.

Nelle Rane Dioniso è vestito da Eracle, per meglio affrontare il viaggio verso
l’Ade. Lo sfruttamento comico del personaggio comincia già nel prologo, quando
Dioniso va dal fratello per avere informazioni. Gli deve spiegare il motivo del
viaggio, che è il desiderio di richiamare in vita Euripide. Per Euripide Dioniso prova
un vero e proprio †meroj, e poiché l’altro non capisce in che senso è usata la parola,
Dioniso glielo spiega ricorrendo a un esempio alimentare:

Aristofane, Rane 61-65


DIONISO Proverò a dirtelo con un esempio. Ti è mai venuta una voglia improvvisa di minestrone?
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ERACLE Minestrone? Un sacco di volte, dacché campo.


DIONISO Rendo bene l’idea, o devo spiegartelo in un altro modo?
ERACLE No no, col minestrone ho capito benissimo.

Poi, quando Dioniso e Xantia arrivano all’Ade, il travestimento da Eracle (che i due
si scambiano) garantisce a chi lo porta un’accoglienza buona o cattiva, a seconda
dell’interlocutore e della traccia lasciata in lui dalla precedente venuta del vero
Eracle. Terrorizzato dalle minacce e dagli insulti di Eaco, Dioniso rifila la divisa di
Eracle a Xantia, il quale però ne sperimenta i vantaggi quando il Servo di Plutone lo
colma di cortesie e di moine; Dioniso, indispettito, si riappropria del travestimento,
ma deve affrontare la rabbia delle ostesse che Eracle aveva derubato e insolentito.
Aristofane rivela qui tutto il suo genio di drammaturgo; l’intera sequenza di queste
scene è una abilissima forma di metateatro: Xantia e Dioniso ‘interpretano’ a turno il
ruolo di Eracle, scambiandosene la maschera. Con un procedimento per molti versi
simile a quello degli Acarnesi, in cui Euripide è chiamato in scena, a mostrare in
presa diretta i ‘trucchi’ della drammaturgia tragica, Aristofane disvela qui i
procedimenti dell’arte comica, rendendo queste gags doppiamente godibili per il
pubblico.

Aristofane, Rane 503-576


SERVO Carissimo Eracle, sei qui? Entra, entra. Persefone, appena ha saputo che arrivavi, ha
infornato subito il pane, ha messo sul fuoco due o tre pentoloni col passato di legumi, ha arrostito
un bue intero, ha preparato torte e focaccine. Su, entra.
XANTIA (travestito da Eracle, senza muoversi) Grazie, grazie tante.
SERVO Per Apollo. Figurati se ti lascio andare. Persefone ha messo a bollire i pollastri, sta
facendo dorare i dolci, c’è un vino squisito. Dai, vieni con me....
XANTIA (senza muoversi) Ti ringrazio.
SERVO Stai scherzando; ma io non ti mollo! In casa ti aspettano una bellissima flautista e due o tre
ballerine.
XANTIA Cosa dici? Ballerine?
SERVO Sì, tenerelle e appena depilate. Su, entra: il cuoco ha appena tolto il pesce dal fuoco e
stanno apparecchiando la tavola...
[…]
OSTESSA Ehi, Platane, Platane. Eccolo qui quel mascalzone che quella volta è entrato nella mia
locanda e si è ingoiato sedici pagnotte.
PLATANE (uscendo) Per Zeus, è proprio lui!
XANTIA (a parte) Per qualcuno si mette male.
OSTESSA E poi venti porzioni di lesso, da mezzo obolo l’una.
XANTIA (a parte) Qualcuno la pagherà.
OSTESSA E tanto di quell’aglio…
DIONISO Sciocchezze, donna, non sai cosa dici!
OSTESSA Credevi di non farti riconoscere, perché ti sei messo i coturni? Ma va’… Per non parlare
di tutte quelle acciughe.
PLATANE E i formaggi freschi, povera te, che si è pappato, trangugiandoli con i cestini che li
contenevano...
OSTESSA E poi, mentre gli preparavo il conto, mi ha guardato storto con certi occhiacci!
XANTIA Proprio così: è il suo modo di fare, dappertutto.
OSTESSA E voleva tirare fuori la spada, con l’aria di un matto.
XANTIA Sì, cara: fa sempre così.
62

[…]
OSTESSA Boccaccia schifosa, quanto mi piacerebbe spaccarti con una pietra quei denti che hanno
distrutto le mie provviste.
PLATANE Io invece ti scaraventerei volentieri in un burrone.
OSTESSA E io ti taglierei con la falce quel gargarozzo che si è trangugiato le mie trippe.

Veniamo ora più direttamente all’Alcesti di Euripide, che è sempre chiamata in


causa quando si parla della fortuna comica di Eracle. Infatti proprio il trattamento che
Euripide fa di Eracle è l’elemento che più induce i commentatori a considerare
l’Alcesti una ‘tragedia leggera’, un dramma prosatiresco (sappiamo che occupava il
quarto posto della tetralogia). Nell’Alcesti Eracle affronta Thanatos e lo sconfigge,
restituendo la donna ad Admeto, ed esibisce una vitalità prorompente che lo
apparenta moltissimo all’Eracle bionico del satyrikòn.
L’eroe arriva al palazzo di Admeto durante il suo viaggio verso la Tracia, dove
deve affrontare il re Diomede e impadronirsi delle sue cavalle. Admeto decide di
ospitarlo, nonostante il lutto che lo ha colpito; per evitare che l’amico rifiuti, gli tace
la morte di Alcesti. Dopo l’agone tra Admeto e Ferete, che chiude la prima parte del
dramma (il Coro si unisce alla processione funebre, lasciando l’orchestra), l’azione
riparte con una sorta di secondo prologo. Il Servo cui Admeto ha affidato l’ospite,
esce fuori e pronuncia un monologo, in cui descrive l’indecente ingordigia di Eracle a
tavola.

Euripide, Alcesti 747-766


Ospiti arrivati alla reggia di Admeto ne ho conosciuti e serviti a tavola tanti, ma sinora non me n’era
capitato nessuno peggiore di questo. Aveva ben visto la tristezza del mio padrone, ma ha avuto lo
stesso la faccia tosta di entrare, di oltrepassare le soglie del palazzo. E poi, pur conoscendo la
situazione, non si è accontentato dei cibi che gli venivano imbanditi, no, quello zotico se qualcosa
mancava ce la chiedeva con insistenza. Agguantata †con le mani† una coppa di edera, tracanna vino
puro, così com’è prodotto dalla nera terra, ne tracanna finché il calore fiammeggiante del vino non
gli si diffonde per tutte le vene. E poi si ficca in testa una corona di mirto, ululando canzoni stonate.
Così, si sentiva una duplice musica: lui berciava indifferente alle disgrazie familiari di Admeto, e
noi servi piangevamo Alcesti, nascondendo all’ospite le nostre lacrime, perché così ci aveva
ordinato Admeto. E ora io rifocillo in casa lo straniero, un ladro, un mascalzone, un predone.

Per lo più, si ritiene che questa scena tra il Servo ed Eracle sia un espediente
buffonesco, usato da Euripide per allentare la tensione e creare le condizioni migliori
per una ripartenza drammatica, con l’epiparodo, il monologo di Admeto, lo stasimo e
la scena finale. Ma in realtà c’è molto di più. Consideriamo il discorso che Eracle
rivolge al Servo e la lezione di vita e di saggezza che vi è contenuta.
Euripide, Alcesti 779-802
Vieni qui, che penserò io a educarti meglio. Lo sai come vanno le cose per i mortali? Credo di no:
come potresti? E allora, stammi a sentire. Tutti i mortali li attende la morte, e non ce n’è uno che
sappia se domani sarà ancora vivo. Come sarà la nostra sorte, non si sa: è un gioco che non si
impara, non c’è arte che tenga. Dunque, ora che ti ho detto come stanno le cose, goditela, bevi,
pensa a vivere giorno per giorno, e affidati alla sorte. E poi onora Afrodite, la divinità più dolce per
i mortali: è una che ci vuole davvero bene! Lascia perdere tutto il resto e credi alle mie parole, se ti
sembra che dica cose giuste. Io sono convinto di sì. E allora dimentica i dispiaceri, mettiti una
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corona in testa e vieni a bere con noi; getta alle spalle l’infelicità. Sono sicuro che lo spumeggiare
del vino nella coppa ti farà navigare lontano da questi cupi pensieri che ti si leggono in viso. I
mortali devono avere pensieri mortali. Per la gente troppo seriosa e accigliata, a mio giudizio, la
vita non è una vera vita, ma una disgrazia!

Nella concatenazione di gnomai sono riconoscibili alcuni principi fondamentali della


sapienza greca arcaica, ampiamente elaborati dalla poesia lirica e ripresi anche dalla
tragedia: al centro di essi sta l’idea che gli uomini, data la loro condizione limitata ed
effimera, devono rifuggire dalle ambizioni smodate e perseguire i modesti diletti che
la vita, nel flusso dei giorni, offre loro. Peraltro, è soprattutto nell’ultimo Euripide che
la norma del ‘vivere giorno per giorno’ acquista un rilievo più marcato, nel segno di
un edonismo soffuso di religiosità. Nelle Baccanti questa norma viene applicata in
modo particolarmente accentuato, come necessaria conseguenza della fede dionisiaca
e della “salvezza” in essa contenuta. Dioniso, il giovane dio che dà letizia ai mortali,
è il portatore di una verità che rende liberi (e felici, per quanto è possibile agli uomini
esserlo). Ma la verità di Dioniso non è quella, tutta intellettuale, dei sapienti: è invece
l’umile fede di chi si abbandona con semplicità alle gioie del momento, consapevole
che pretese più alte sono vanità e follia. Già Tiresia, nel primo episodio, propone la
dolcezza del vino come rimedio ai dolori:

Euripide, Baccanti 280-283


[Il vino] che libera gli infelici mortali dai loro dolori, quando si inebriano con l’umore della vite, e
concede il sonno e l’oblio dei mali che ci seguono giorno per giorno, e non c’è altra medicina per
gli affanni.

Nei suoi canti, poi, il Coro delle Menadi più volte sottolinea la necessità per gli
uomini di rinunciare ad assurde velleità, per rifugiarsi nella fede serena di Bromio e
nella quotidianità gioiosa che il dio indica ai suoi fedeli.

Euripide, Baccanti 395-401


Non è sapienza il sapere, l’avere pensieri superiori all’umano. Breve è la vita, chi insegue troppo
grandi destini non gode il momento presente. Costumi stolti di uomini dissennati stiano lontano da
me.

Euripide, Baccanti 910-911


Beato chi giorno dopo giorno sa vivere la sua gioia.

Euripide, Baccanti 1005-1010


Non voglio una sottile sapienza, mia gioia è cercare altri beni, grandi e chiari: vivere in serenità, i
giorni e le notti, in purezza, evitare ciò che va oltre giustizia e rendere onore agli dèi.

Tre sono i punti della sapienza dionisiaca: l’accettazione del contingente (secondo il
principio del vivere “giorno per giorno”); la rinuncia a quanto supera la misura di un
mortale; l’abbandono a ciò che ‘scioglie i dolori’, cioè le dolcezze di Dioniso e
Afrodite. Non è difficile vedere che esattamente identica è la lezione impartita da
Eracle al Servo nel komos dell’Alcesti. Che cosa possiamo dedurne? Evidentemente,
il poeta intende caricare il suo personaggio con valori e significati ben precisi. Eracle
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non è solo il portatore di una naturalità sfrenata: è depositario di una sophìa, è colui
che conosce il ritmo della vita umana e la sua esatta misura. Come tale, è adatto a
neutralizzare l’astratta affettazione di Admeto.
Ciò ci riconduce alla natura dell’Alcesti, che è a tutti gli effetti una tragedia,
anche se molto particolare per tonalità e impianto. Il dramma è infatti costruito
sull’impossibile conflitto che marito e moglie ingaggiano col destino. I due coniugi
rispondono all’ananke (che impone loro la separazione della morte, radicale e
definitiva) con un contratto di amore eterno, che possa sopravvivere alla morte stessa.
Alcesti chiede, e ottiene, che nessun’altra donna prenda in futuro il suo posto;
Admeto si impegna a vivere nel perenne culto della sposa perduta: una scelta ‘folle’,
che comporta l’autocondanna a una morte artificiale, qual è un’esistenza fatta di
silenzio e di lutto. Admeto, cioè, si illude di poter contrastare il destino con la forza
della mente e del cuore, creando un “mondo perfetto” refrattario all’asprezza del
vivere.
Con l’agone tra Admeto e Ferete si conclude la prima parte del dramma: il
destino dei due sposi si è compiuto, la sventura è consumata. Ma il mathos dià pathos
non scatta: Admeto – il personaggio deputato, secondo le norme della tragedia, ad
apprendere la lezione dolorosa – è arroccato in un’assurda presunzione di
autosufficienza. Gli ingredienti tragici hanno portato la vicenda a un punto morto. A
scena vuota (anche il Coro ha lasciato l’orchestra, per accompagnare il corteo
funebre) si produce uno straordinario colpo di teatro: irrompe nella tragedia un
affamato Pulcinella. La vitalità dell’immaginario comico è chiamata a rimettere in
moto una tragodìa che sembra avere esaurito la sua forza. E gli effetti non si fanno
attendere, anche perché questo Pulcinella – la cui appartenenza comico satiresca è
definita con puntiglio quasi filologico – rivela ben presto una sapienza assolutamente
tragica. Eracle spazza via l’incastellatura ideologica in cui si è rifugiato Admeto,
perché sa che cos’è la vita. E sa che cos’è la morte. La corona di mirto che l’eroe si
pone in testa nel komos (v. 759) corrisponde al mirto con cui Alcesti incorona (v.
172) gli altari domestici quando si prepara a lasciarli per sempre. Eracle, che conosce
la strada per l’Ade, conosce la differenza abissale tra vivi e defunti, quella differenza
che Admeto vorrebbe ignorare: questa consapevolezza – oltre alla forza eroica – gli
permette di liberare Alcesti e di restituire alla vita l’amico.
Euripide chiama in causa la maschera di Eracle, lo stereotipo buffonesco privo
di profondità, per far entrare la verità in un palazzo dominato dalla finzione. Il
“buffone” Eracle diventa così il portatore del principio stesso della tragicità.
L’Alcesti, dunque, è bensì un esempio di intersezione tra tragedia e commedia, ma
non perché sia una “tragedia leggera” o per il lieto fine che la suggella. Euripide
applica una sorta di paratragedismo rovesciato: come in Aristofane l’innesto di
materiali tragici serve per “fare” la commedia, così qui la citazione comica –
introdotta con totale consapevolezza della semiotica teatrale – aiuta la tragedia a
recuperare il proprio senso più profondo.
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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

5. percorso di lettura: Filottete nella tragedia attica

Il Filottete (409 a.C.) sembra risentire, in qualche modo, della ideologia politica
“eleusina” di concordia tra le fazioni e superamento della stasis. Naturalmente,
Sofocle è poeta “delfico”, crede negli oracoli e in una verità oracolare spesso
inattingibile alle categorie cognitive umane; quindi, la - eventuale - sensibilità
eleusina del Filottete non deve in nessun modo essere spiegata entro una polemica tra
Delfi ed Eleusi. Semplicemente, il clima politico dell’ultimo decennio del V secolo,
ad Atene, propone il superamento della linea periclea e post-periclea, e Sofocle è
come sempre sensibile al ritmo della polis e allo stato d’animo dei suoi concittadini.
La data del 409 è certa, perché comprovata dall’argumentum: ἐδιδάχθη ἐπὶ
Γλαυκίππου‧ πρῶτος ἦν Σοφοκλῆς (mancano i nomi dei poeti sconfitti e i titoli degli
altri drammi presentati al concorso). Il momento politico era di grande tensione.
L’eco dei successi di Alcibiade, al comando della flotta stanziata a Samo (primavera
410, battaglie di Sesto, Abido e Cizico), doveva essere ancora viva nell’inverno del
409, ed era certamente vivissima nell’estate del 410, quando la preparazione della
nuova stagione teatrale era nella sua fase decisiva. Ad Atene si moltiplicavano le
richieste di quanti volevano che Alcibiade fosse richiamato ad Atene.
Fra il 413 e il 410 Sofocle era stato coinvolto nelle iniziative degli oligarchi. Fu
infatti eletto nel 413 (all’età di 84 anni) membro del collegio dei dieci probuli
incaricati di prendere in mano una situazione gravemente compromessa. Sofocle non
era un oligarca (aveva collaborato con Pericle e con Nicia, era piuttosto un
democratico moderato); e d’altra parte nulla lascia pensare che il collegio, nella sua
conformazione iniziale, mirasse a correggere o alterare la costituzione democratica.
Fatto sta che pochi mesi dopo l’insediamento la commissione dei probuli fu allargata
a 30 membri, e fu approvato un decreto che dava loro mandato di riesaminare anche
le “patrie leggi”, ossia di modificare le istituzioni democratiche fissate da Clistene.
La via per il colpo di stato era aperta. I 30 commissari proposero l’abolizione di tutte
le norme di garanzia del regime democratico (tra cui la γραφὴ παρανόμων e il μισθός
per le cariche pubbliche): le proposte furono approvate dall’assemblea popolare in
una riunione straordinaria, che si tenne a Colono nel recinto sacro di Posidone. Nella
stessa ecclesia fu anche approvata una nuova forma di governo, il governo dei
Quattrocento, che ebbe pieni poteri.
A tutte queste misure Sofocle diede pieno appoggio. Non è facile decidere se lo
facesse per intima adesione o perché convinto che la gravità della situazione non
lasciasse altra via. Comunque, il governo dei Quattrocento dopo pochi mesi di azioni
autoritarie e violente, nel settembre del 411 lasciò il posto a un regime oligarchico più
moderato, il governo dei Cinquemila, e nella primavera del 410 grazie alla pressione
della flotta stanziata a Samo fu ristabilita la democrazia. Seguirono processi contro
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gli oligarchi che più si erano esposti, e molti furono condannati a morte. Anche
Pisandro fu citato in giudizio, e tentò di chiamare in causa Sofocle, forse nell’intento
di dimostrare che il colpo di mano era stato appoggiato anche da cittadini rispettabili,
di comprovata fede democratica. Aristotele nella Retorica (III 18) riporta un breve
scambio di battute tra i due:

Sofocle, quando Pisandro gli domandò se aveva condiviso con gli altri probuli la decisione di
istituire i Quattrocento, rispose di sì. “Perché? Non ti sembravano misure cattive?” Sofocle
disse di sì. “Tu dunque hai compiuto azioni cattive?” “Sì,” rispose “perché non c’erano
alternative migliori”.

Non si sa come si concluse il processo contro Pisandro. Sofocle certamente non subì
alcuna conseguenza, tanto è vero che nell’estate del 410 ottenne il coro dall’arconte e
pochi mesi dopo vinse alle Dionisie con il Filottete. Se si tiene conto di questo
contesto storico, riesce difficile pensare che la scelta del mito (e la sua
rielaborazione) non abbiano nulla a che fare con gli eventi di quei mesi. Nel 409 la
democrazia ateniese, da poco restaurata, è intenta a far giustizia di chi l’ha tradita e
tiene lo sguardo puntato su Alcibiade, in cui ripone tutte le sue speranze. Ma
Alcibiade ancora non si decide a rientrare: è ancora, ufficialmente, un esiliato, per la
condanna inflittagli a causa dello scandalo delle Erme, e teme possibili conseguenze.
È ben vero che un decreto dei Cinquemila (su proposta di Crizia e Teramene) ne
aveva disposto il ritorno già nel settembre 411; ma Alcibiade preferisce agire come
comandante della flotta, tenendosi alla larga da Atene. Il ritorno avviene solo
nell’estate del 408, in un clima di grande entusiasmo popolare (ne abbiamo il
racconto nelle Elleniche di Senofonte).
Quando si parla di un’interpretazione “politica” del Filottete, bisogna peraltro
intendersi. È improponibile una lettura che faccia di Filottete una sorta di doppio di
Alcibiade e che trasformi il dramma in un’allegoria: lo spregiudicato e arrogante
Alcibiade ha poco in comune con il vecchio “atleta della sofferenza” (se mai, il
cinismo della politica è rappresentato da Odisseo). Però la reintegrazione proposta
dalla tragedia (Filottete deporrà ogni proposito di rivalsa, andrà a Troia e sarà guarito
da Asclepio e poi darà un contributo decisivo alla vittoria, Odisseo e gli Achei
dimenticheranno il passato e accoglieranno il reietto come uno di loro, senza riserve)
delinea la speranza di Sofocle per la città: la vittoria nella guerra, dopo i successi di
Alcibiade, sembra di nuovo a portata di mano, ma bisogna che ciascuno faccia la sua
parte in spirito di totale collaborazione. Le parole d’ordine che Eracle pronuncia nel
finale del dramma (guarigione, aiuto reciproco, vittoria) corrispondono al programma
eleusino, condiviso ora da Sofocle dopo la fallita esperienza oligarchica: voltare
pagina, dimenticare tensioni e rancori, pensare solo al bene comune. Bisogna
considerare che la macchia di Alcibiade era di natura religiosa, e che nel dramma la
ferita di Filottete è provocata dal serpente custode del santuario di Crise, ed è una
punizione per il sacrilegio commesso dall’eroe. Insomma, non c’è una
sovrapposizione tra Alcibiade e Filottete, ma una drammatizzazione che utilizza - a
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proposito della vicenda di Filottete - vari elementi dello scenario politico


contemporaneo.

Le fonti su Filottete. Bisogna partire da Omero, come sempre. Filottete è menzionato


nel Catalogo delle navi iliadico:

Omero, Iliade II 716-725


Di quanti abitavano poi Metone e Taumacia
e tenevano Melibea e Olizone sassosa,
Filottete esperto nell’arco guidava le loro sette
navi; e si erano in ciascuna imbarcati cinquanta rematori
esperti nell’arco a combattere senza quartiere.
Ma egli giaceva in un’isola, soffrendo atroci dolori,
nella sacra Lemno, dove lasciato l’avevano i figli degli Achei
infermo per il morso velenoso di un serpente malefico;
lì giaceva dolorante, ma ricordarsi dovevano presto
gli Argivi presso le navi di Filottete sovrano.

La presentazione è essenziale, ma contiene già tutti gli elementi di base della saga: la
partecipazione all’impresa troiana, alla testa di abili arcieri, la ferita, l’abbandono a
Lemno. Nessuna menzione è fatta dell’arco donato da Eracle a Filottete; le quattro
città da cui provengono le truppe, sono collocabili subito a nord della Magnesia: più
tardi il regno di Filotette venne spostato più a sud, nella Malide (lungo il corso dello
Spercheo, che sfocia nel golfo Maliaco), per marcare il rapporto dell’eroe con Eracle,
dal momento che il monte Eta (su cui arse il rogo di Eracle, acceso da Filottete) sorge
poco lontano. Nel Catalogo, che è una rassegna degli Achei presenti, il poeta deve
sottolineare l’assenza di Filottete; peraltro, dicendo che gli Achei presto si sarebbero
ricordati di lui, Omero anticipa lo sviluppo della vicenda. Nell’Odissea la
reintegrazione di Filottete tra i combattenti è un elemento scontato, su cui il poeta non
sente neppure il dovere di soffermarsi: in VIII 219-220 Odisseo - quando accetta la
sfida lanciata dai giovani Feaci e dice che si misurerà con loro in tutte le prove -
spiega di essere un arciere provetto e ricorda le sue competizioni con Filottete

Omero, Odissea VIII 219-220


Solo Filottete mi superava, nella terra di Troia,
quando noi Achei ci esercitavamo con l’arco.

E Nestore nel III canto, raccontando a Telemaco il nostos degli Achei, dice che solo
pochi ebbero un lieto ritorno: oltre a Diomede e allo stesso Nestore (che fecero il
viaggio insieme), anche Neottolemo, Filottete (v. 190) e Idomeneo riuscirono a
riportare a casa sani e salvi tutti i compagni.
I poemi del Ciclo aggiungono poco a questa informazione di base. Nei Canti
Cipri (per quanto possiamo ricavare dal riassunto di Proclo) la ferita di Filottete era
prodotta da un serpente a Tenedo durante un banchetto, e per il fetore che ne
emanava i Greci decidevano di abbandonare l’infermo a Lemno:
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Argum. Cypr. (Procl. Chrest. 80) = PEG 41, 50 ss. Bernabé


Poi sbarcano a Tenedo e Filottete, ferito da un serpente d’acqua durante un banchetto, è
abbandonato a Lemno per il fetore.

La Piccola Iliade di Lesche di Mitilene (sempre nel riassunto di Proclo) ci informa


che i Greci, messi in guardia da una profezia di Eleno, mandarono Diomede a Tenedo
a recuperare Filottete, che a Troia fu guarito da Macaone, poté tornare a combattere e
uccise in duello Paride:

Argum. I Il. Parv. (Procl. Chrest. 206) = PEG 74, 6 ss. Bernabé
Seguono i quattro libri della Piccola Iliade di Lesche di Mitilene. Questo è il contenuto. C’è il
giudizio delle armi, e Odisseo vince per volere di Atena; Aiace impazzisce e fa strage del bottino
acheo e poi si uccide. In seguito Odisseo cattura in un’imboscata Eleno; questo fa una profezia sulla
presa della città, e perciò Diomede riporta Filottete da Lemno. Guarito da Macaone, Filottete uccide
in duello Alessandro. Menelao ne oltraggia il cadavere; i Troiani lo raccolgono e lo seppelliscono.

Nel V secolo la vicenda di Filottete è toccata anche da Pindaro, nella Pitica I,


dedicata a Ierone di Siracusa:

Pindaro, Pitica I 52-55


Il figlio di Peante, l’arciere, divorato
com’era dalla piaga, a Lemno vennero
a cercarlo - dicono - eroi simi agli dei.
Ed egli distrusse la città di Priamo, e pose fine
alle fatiche dei Danai,
pur col suo corpo malato: così voleva il destino.

Anche Bacchilide (stando a uno scolio pindarico) connetteva il richiamo di Filottete


con una profezia di Eleno:

Schol. in Pind. Pyth. I 52


Si attiene alla stessa versione anche Bacchilide nei ditirambi, e cioè che i Greci mandarono a
prendere Filottete da Lemno in seguito al vaticinio di Eleno; era destino infatti che senza l’arco di
Eracle non si potesse prendere Ilio.

I tragici dovevano certo conoscere - attraverso il Ciclo - i dettagli sul ferimento di


Filottete, sul suo richiamo, sulla sua guargione a Troia e sul contributo che l’eroe
diede alla vittoria. Noi ne siamo informati da fonti tardive (Plutarco, Apollodoro e
altri), che però dipendono verisimilmente dai modelli antichi.

Apollodoro, Biblioteca epit. 3, 26; 5, 8


Tenes vide i Greci che facevano vela verso Tenedo e cercò di respingerli bersagliandoli con pietre,
ma morì colpito al petto dalla spada di Achille, sebbene Teti avesse avvertito Achille di risparmiare
Tenes, perché se lo avesse ucciso sarebbe poi morto per mano di Apollo. E mentre i Greci offrivano
un sacrificio ad Apollo, un serpente d’acqua sbucato dall’altare morse Filottete. Giacché la ferita era
insanabile e maleodorante e l’esercito non sopportava il fetore, Odisseo per disposizione di
Agamennone lo abbandonò sull’isola di Lemno con l’arco di Eracle che gli apparteneva. E in quel
luogo disabitato egli si procurava il sostentamento abbattendo gli uccelli con l’arco. […] Quando
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correva già il decimo anno di guerra e i Greci si erano persi d’animo, Calcante predisse che Troia
non avrebbe potuto essere presa se essi non fossero stati soccorsi dall’arco e dalle frecce di Eracle.
Udita la profezia, Odisseo si recò insieme a Diomede presso Filottete a Lemno e, dopo essersi
impadronito con l’inganno dell’arco e delle frecce, lo persuase a seguirli a Troia. E Filottete, giunto
a Troia, dopo essere stato risanato da Podalirio uccise Alessandro.

Plutarco, nelle Quaestiones Graecae 28, dà qualche particolare in più sulla vicenda di
Tenedo, ma sostanzialmente conferma la versione di Apollodoro: Tenes viene ucciso
da Achille, che non tiene conto degli avvertimenti di sua madre. Quindi, possiamo
dedurre che questo fosse un punto fisso della saga: i Greci offrivano un sacrificio ad
Apollo, per placare la sua ira contro Achille, e incaricavano Filottete dell’esecuzione;
ma durante la cerimonia Filottete era morso dal serpente. A seconda delle fonti, il rito
si svolgeva a Tenedo stessa oppure nell’isolotto di Crise, davanti alla statua della dea
Crise [questa è la variante seguita da Sofocle]; altre versioni collocavano il ferimento
a Lemno o a Imbro. Le ragioni per cui i Greci diedero a Filottete il compito di
officiare il rito, non sono ben chiare: forse per la comune origine tessala di Achille e
Filottete, forse per la loro amicizia, forse perché Filottete era già passato per
quell’isola durante la spedizione troiana di Eracle.
Quanto al richiamo di Filottete, le fonti sono concordi nel dire che avvenne
nell’ultimo anno di guerra, in conseguenza di una profezia, di Eleno [Piccola Iliade]
ovvero di Calcante [Apollodoro]; nella profezia, a seconda della versione, il segreto
che avrebbe consentito la vittoria era l’arco di Eracle oppure una combinazione di
elementi, tra cui anche l’arco. I Greci mandarono una delegazione a Lemno, a
prelevare l’infermo: la guidava Diomede [Piccola Iliade] o la collaudata coppia
Odisseo Diomede [Apollodoro]. A Troia Filottete veniva guarito da un Asclepiade
(Macaone, per lo più) e uccideva Paride, dando un contributo importante alla
conquista della città. Si discosta dalle altri fonti il racconto di Filostrato nell’Eroico:
qui si dice [per bocca di Protesilao] che Filottete non venne lasciato solo a Lemno,
ma aveva con sé uomini di Melibea; fu guarito dalla “terra di Lemno” e aiutò i Greci
conducendo una serie di operazioni contro le isole vicine alla Troade; alla fine,
Diomede e Neottolemo lo ricondussero a Troia, dopo avergli letto la profezia che lo
riguardava, e lì Filottete si ricoprì di gloria.

Ciascuno dei tre tragici compose un Filottete (a Lemno): tutti e tre i drammi erano
ancora accessibili a Dione di Prusa, intorno al 100 d.C. Il più antico era quello di
Eschilo (tra il 475 e il 459: la scelta di un soggetto lemnio è da mettere in rapporto
con il rinnovato interesse ateniese per l’isola, tolta ai Persiani nel 475); poi veniva
quello di Euripide (431, lo stesso anno della Medea [nell’hypothesis della Medea si
legge: “Fu rappresentata sotto l’arcontato di Pitodoro, nel primo anno della 87a
Olimpiade. Vinse Euforione; secondo Sofocle; terzo Euripide con Medea, Filottete,
Ditti e il dramma satiresco I mietitori”] e infine quello di Sofocle (409).
L’orazione 52 di Dione di Prusa è la fonte principale per la ricostruzione dei tre
drammi paralleli. Il Filottete di Eschilo è lodato da Dione per la sua semplicità, che
corrisponde alla fierezza rude del protagonista, personaggio elementare e “arcaico”. È
un dramma a due voci: l’interlocutore di Filottete è Odisseo, che pur non ricorrendo
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ad alcun travestimento non è riconosiuto. Dione minimizza (spiega che la solitudine e


la malattia possono indebolire certe facoltà dello spirito), e passa sopra anche certi
altri elementi inverosimili, come un coro di Lemni che in dieci anni non si sono mai
avvicinati all’esule: l’impianto eschileo, così forte ed essenziale, cancella queste
incongruenze e fa emergere la figura grandiosa del vecchio campione. Euripide si
preoccupa, invece, di elaborare una trama credibile: nella sua versione, da un lato i
Lemni tentano di spiegare la loro indifferenza, dall’altro compare la figura di Attore,
che ha dimestichezza con Filottete in virtù di una lunga frequentazione; inoltre, Atena
maschera l’identità di Odisseo. La novità maggiore introdotta da Euripide è però il
dibattito tra Troiani e Greci: il talismano (arco e frecce) è una sorta di premio a
disposizione di chi riuscirà ad impadronirsene; di qui l’agone tra Paride e Odisseo,
con giudice Filottete, secondo la miglior tradizione euripidea dei dissoì lògoi.
Odisseo è coadiuvato da Diomede (altro tratto omerico): ma soprattutto Odisseo -
come Dione osserva - è un personaggio complesso, scavato, sospeso tra un’immagine
pubblica di furbo matricolato e una grande insicurezza interiore. Dione, che procede
rispettando l’ordine cronologico, analizza per terza la tragedia di Sofocle: evidenzia
le due novità, Neottolemo e un coro non isolano, e loda la nobiltà e la grandiosità
dell’impianto. Dione nota anche che l’Odisseo di Sofocle è molto meno tormentato di
quello euripideo, mentre Neottolemo è splendidamente delineato. Insomma, benché
Dione non proceda a un confronto sistematico e si limiti a esprimere dei giudizi
letterari, l’orazione coglie molto bene gli elementi essenziali delle tre opere e i tratti
spaianti: semplificando, si può dire che il protagonista in Eschilo è Filottete (cui un
Odisseo mariolo fa da sponda), in Euripide è Odisseo (mentre Filottete è una sorta di
idolo, un greve relitto da smuovere), in Sofocle è Neottolemo.

Filottete di Eschilo – Scena a Lemno (Dione), nella vicinanze della dimora di


Filottete (una capanna?). I personaggi attestati da Dione sono Filottete, Odisseo e il
coro del Lemni; se nel fr. 251 si accetta la lezione κρεμάσασα anziché κρεμάσας, si
avrebbe un personaggio femminile (forse Atena, come si è proposto per Euripide).
Intreccio. Il personaggio prologante non è Odisseo, come in Sofocle e in
Euripide: ce lo dice uno scolio al v. 1 di Sofocle e anche Dione (cap. 15) sembra
confermarlo, quando commenta la soluzione sofoclea in rapporto a quella euripidea.
In Eschilo, se c’era un prologo giambico, doveva essere pronunciato da Filottete:
potrebbe farne parte il fr. 249, l’apostrofe allo Spercheo (“Fiume Spercheo e dimora
di pascoli bovini”). Aristofane fa declamare questo verso a Eschilo nell’agone delle
Rane (v. 1383), in risposta a Euripide che ha appena pronunciato l’incipit della
Medea (“Oh se mai la nave Argo avesse solcato il mare!”), e dunque si è indotti a
pensare che anche Eschilo pronunci l’incipit [tra l’altro, nel 431 Euripide rappresentò
il suo Filottete subito dopo la Medea: Aristofane sembra parodiare anche la sequenza
dei due drammi]. Il coro dei Lemni entrava alla fine della rhesis in trimetri di
Filottete. I episodio: Filottete raccontava la sua storia al coro (Dione, cap. 9, osserva
che la cosa non è impropria, anche se verisimilmente i Lemni quella storia l’avevano
già sentita mille volte!), citando Agamennone e Odisseo come colpevoli delle sue
sofferenze. A questa sezione del dramma vanno assegnati 250, 252-253. Nel II
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episodio entrava Odisseo, che si presentava e spiegava quale fosse la sua missione
(qui si può inserire il fr. 301 Radt, se lo si attribuisce al Filottete: “Il dio apprezza la
menzogna detta a proposito”). Compariva Filottete (entrato nella sua dimora alla fine
del I episodio), che non riconosceva Odisseo, benché questi non fosse travestito né
alterato nella fisionomia (Dione); Odisseo gli si avvicinava e gli rivolgeva un
discorso menzognero, dicendo che Agamennone era morto, Odisseo in disgrazia,
l’esercito sull’orlo della rovina. Filottete si rallegrava delle notizie, dolendosi soltanto
della morte di Aiace (Odisseo ne parlava, per dare un’ulteriore prova della perfidia
degli Achei). Al II stasimo potrebbe essere assegnato un frammento papiraceo
(P.Oxy. 2256, fr. 71) in cui si lamenta la sorte di Aiace: “Il sire della terra battuta dai
flutti, baluardo della città, lo fecero perire i capi della scheira, i condottieri depositari
delle armi che egli sperava. In giudizio furono per Odisseo i capi con animo iniquo
[…] in preda a follia con la spada fece strage (?). Così anche il figlio famoso di
Telamone perì di mano propria”. Il frammento è sicuramente eschileo, Lloyd-Jones lo
assegna al Filottete (anche nel dramma di Sofocle Filottete apprende con dolore la
notizia della morte di Aiace). Nel III episodio Filottete era colto da una crisi del suo
male [forse, dopo che Odisseo aveva promesso di riportarlo in patria], cosa che
consentiva a Odisseo di impadronirsi dell’arco; i frammenti 254 e 255 vanno inseriti
probabilmente qui. Conclusione. Dione parla di una “persuasione costrittiva” che
induce Filottete a seguire Odisseo: così non è in Sofocle (dove interviene Eracle a
persuadere un agguerrito, e armato, Filottete), e perciò si può pensare che Dione si
riferisca ai drammi di Eschilo ed Euripide, in cui Filottete non aveva altra scelta,
dopo essere stato privato dell’arma che gli consentiva di sopravvivere. Si è anche
pensato, in Eschilo, all’intervento di una divinità, per esempio di Atena. Al finale è
assegnabile forse il fr. 251.

Filottete di Euripide - Frammenti

Argumentum anonimo (P.Oxy 2455, fr. 17)


[…] Filottete […] nel luogo dove era stato morso (?); in preda al male, lo traghettarono fino alla
vicina Lemno, dove lo abbandonarono. Qui visse dieci anni di sofferenze, avendo per unico
sostegno la pietà di chi casualmente lo incontrasse […] Eleno disse ai Troiani che la città sarebbe
stata salva con l’arco e le frecce di Eracle; fatto prigioniero, convinse gli Achei a cercare quel
medesimo appoggio […] A prendere (?) Filottete fu mandato […] Odisseo [… contraffatto?] per
volere di Atena [lunga lacuna] la sicurezza [… lo] costringe a seguirlo sulla nave.

Argumentum metrico preposto al Filottete di Sofocle ma pertinente al dramma euripideo


L’altare di Atena a Crise, fatto di sassi ammucchiati,
dove l’oracolo aveva prescritto agli Achei di sacrificare, solo
il figlio di Peante lo conosceva, poiché vi era stato con Eracle.
Ferito da una vipera mentre lo indicava all’armata
venuta dal mare, fu lasciato a Lemno, malato.
Ma Eleno disse agli Achei che Ilio sarebbe stata presa
dall’arco di Filottete e dal figlio di Achille.
L’arco era proprietà del solo Filottete;
Odisseo fu mandato e portò a Troia entrambi.
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Dione di Prusa, Orazione 59 (Filottete. Parafrasi)


[1] ODISSEO Per saggezza il più dotato tra i Greci, io! Si vedrà, temo, che i miei compagni nutrono
un’opinione infondata. Che saggezza, che accortezza è mai questa, che ti costringe a faticare più
degli altri per il bene comune e la vittoria, quando, se rimanessi confuso nella massa, ne avresti
parte non meno dei migliori? Ma forse è difficile trovare una cosa impastata d’orgoglio com’è
l’uomo: tutti ammiriamo le personalità di spicco e chi affronta i rischi più alti; quelli per noi sono
uomini davvero. [2] Da questa ambizione sono spinto anch’io a una quantità di imprese e a vivere
più faticosamente di ogni altro, accollandomi sempre nuovi rischi per il timore di dissipare la fama
costruita sulle gesta passate,
Per un compito davvero ingrato giungo ora a Lemno, per portare ai miei compagni Filottete
e l’arco di Eracle. Già, perché Eleno, quando la sorte volle che lo catturassimo, lui, il più versato tra
i Frigi nella profezia, ci rivelò che senza di quelli la città non avrebbe potuto esser presa. [3] Sulle
prime non accondiscesi ai Re, su questa missione: so bene l’odio di Filottete; sono stato io a
proporne l’abbandono quando l’odiosa vipera lo morse senza lasciare speranza di guarigione.
Pensavo che mai avrei potuto trovare un argomento per indurlo ad accogliermi benevolmente, anzi
mi avrebbe ucciso senza indugi. Poi, invece, mi apparve Atena, in sogno, come è solita
manifestarsi, e mi esortò a farmi coraggio e a presentarmi da Filottete; avrebbe provveduto lei a
contraffare le mie sembianze e la mia voce, così non si sarebbe accorto di avermi davanti. Ho preso
coraggio, ed eccomi qui. [4] Ho sentito dire che anche i Frigi hanno inviato un’ambasceria segreta,
per cercare di convincere Filottete con profferte di doni, oltre che per il rancore verso di noi, e
portare lui e il suo arco a Troia. Se questa è la partita, come non essere intrepidi? Perché se fallirò in
quest’impresa, tutto ciò che ho fatto in passato, è chiaro, sarà fatica sprecata,
[5] Oimè! Si avvicina. È lui, il figlio di Peante, lo riconosco dalla sua disgrazia; avanza a
stento e con pena. Oh vista terribile! Com’è spaventoso il suo aspetto sofferente, com’è strano il suo
vestire! Pelli di fiera lo coprono. Difendimi, Atena Signora! Che la tua promessa di salvezza non si
riveli vana!
[6] FILOTTETE Che cerchi mai, chiunque tu sia e qualunque ardire ti animi? A questo misero tetto
sei per rapina o per spiare la mia sventura?
ODISSEO Davanti a te non è chi ti faccia oltraggio
FILOTTETE Ma certo questa non è la tua strada!
ODISSEO La mia strada, no. Ma forse il mio arrivo non è inopportuno.
FILOTTETE Parole senza senso! Non mi spiegano perché sei qui.
ODISSEO Sappi, allora, che sono qui non senza ragione, e proverò di non esserti estraneo.
[7] FILOTTETE E come? Voglio saperlo, subito!
ODISSEO Argivo sono, di quelli che presero il mare verso Troia.
FILOTTETE Di dove sei? Ripeti, che possa capire meglio.
ODISSEO T’accontento: uno di quegli Achei che si armarono contro Troia. Uno di quelli, ti dico,
FILOTTETE Hai detto bene: un amico, davvero! ed ecco chi sei: un Argivo, uno dei miei nemici
peggiori. Della loro ingiustizia pagherai il fio, ora.
ODISSEO Oh, per gli dèi, non scoccare il dardo!
FILOTTETE Greco sei, e non potrai evitare la morte oggi stesso!
[8] ODISSEO Ma da quelli ho sofferto talmente che devo esserti amico, e nemico loro!
FILOTTETE Cos’è mai, che hai sì crudamente sofferto?
ODISSEO Odisseo mi costrinse al bando dall’armata.
FILOTTETE Che hai fatto, per incappare in questa condanna?
ODISSEO Conosci, credo, il figlio di Nauplio, Palamede…
FILOTTETE Non uno dappoco, veramente; un camerata con meriti non piccoli, nei confronti
dell’esercito e dei capi.
ODISSEO …un uomo così, il gran corruttore dei Greci l’ha fatto perire!
FILOTTETE Superandolo in uno scontro aperto, o con qualche imbroglio?
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ODISSEO Con l’accusa d’aver venduto l’esercito alla gente di Priamo.


FILOTTETE Ma era vero, o era una calunnia?
ODISSEO Ma come potrebbe essere secondo giustizia un’azione qualunque di Odisseo?
[9] FILOTTETE Ah tu, che non risparmi alcuna delle tue azioni più odiose, nelle parole e nei fatti il
più furfante degli uomini, tu, Odisseo, che uomo hai tolto di mezzo, ancora una volta! Uno che ai
compagni non era meno utile di te, un ideatore e realizzatore di invenzioni splendide e
ingegnosissime. Me pure hai bandito, quando per la salvezza e la vittoria ebbi questo disgraziato
incontro, nell’atto d’indicare l’ara di Crise: là dovevamo sacrificare per vincere i nemici, altrimenti
la spedizione sarebbe stata inutile. Ma tu, tu che c ‘entri con la fine di Palamede?
[10] ODISSEO Sappi che la disgrazia colpì tutti gli amici suoi; tutti perirono, quelli che non
riuscirono a sottrarsi. E cosi anch’io, intrapresa stanotte, da solo, la traversata, ho trovato rifugio
qui. Perciò sono quasi nel tuo stesso stato. Se hai un piano, adoperandoti per favorire il mio ritorno
in patria non soltanto sarai mio benefattore, ma insieme invierai a quelli di casa tua chi li informi
dei tuoi mali presenti.
[11] FILOTTETE Sventurato, giungi a tenere compagnia a un altro come te, gettato anche lui senza
mezzi e privo di amici su questa spiaggia, a guadagnarsi con quest’arco un cibo e un abito meschini,
come vedi - l’abito che avevo il tempo l’ha sfatto. Se vuoi dividere con me questa vita, qui, finché ti
si presenti un’altra occasione di salvezza, non avrò niente in contrario. Ma t’avverto, straniero, sono
ripugnanti le cose che puoi vedere qui dentro, le bende intrise e altri oggetti col segno del mio male.
E poi, non ti sarà piacevole starmi accanto quando il dolore mi assale, anche se col tempo gli
accessi si sono per la maggior parte alleviati - perché all’inizio non era proprio possibile sopportarli.

fr. 787 Kannicht


Io, furbo? Figuriamoci! Io che avrei potuto
starmene tranquillo tra la massa dell’esercito
e avere la stessa parte di fortuna del più furbo.

fr. 788 Kannicht


Perché niente è impastato d’orgoglio quanto l’uomo:
se uno eccelle, se fa qualcosa di grande,
ecco che lo onoriamo e lo chiamiamo uomo, in città.

fr. 789 Kannicht


Temo di rovinare il credito delle antiche imprese:
perciò non rifiuto nuove fatiche.

fr. 789a Kannicht


‘Beato chi se ne sta felice a casa sua’.
Poi, appena il carico è a terra, riprende il mare!

fr. 790 Kannicht


È penoso da vedere quello che sta dentro, straniero.

fr. 792 Kannicht


Una cancrena che banchetta con la carne del mio piede.

fr. 792a Kannicht


Basta, vita mia, basta!
prima che una sventura
si abbatta sui miei beni o su questo corpo.
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fr. 794 Kannicht


PARIDE Vedi bene che anche tra gli dèi è bello guadagnare,
ed è ammirato chi possiede più oro
nel tempio. Allora, perché non dovresti trarre
guadagno, se hai la possibilità di eguagliare gli dèi?

fr. 795 Kannicht


Perché dunque assisi su seggi profetici
giurate di conoscere chiaramente il volere divino?
Gli uomini non sanno maneggiare questi discorsi:
chi si vanta di sapere tutto degli dèi,
non sa altro che imporre le sue ciance.

fr. 796 Kannicht


ODISSEO Per chi rappresenta l’intero esercito dei Greci,
è una vergogna tacere e lasciar parlare i barbari.

fr. 797 Kannicht


Perlerò, sì, anche se lui ha fatto il furbo
anticipando i miei argomenti, per indebolirli.
Ma se lascerai che sia io a dire le mie ragioni,
poi pure lui dovrà scoprire le sue carte.

fr. 798 Kannicht


mentre una patria malandata rende più deboli.

fr. 799 Kannicht


E come per natura è mortale il nostro corpo,
così chi sa controllare se stesso non deve
nutrire un’ira immortale.

fr. 799a Kannicht


Quando uno ha cattiva fortuna, gli amici si allontanano.

fr. 800 Kannicht


Ah! Altro non voglio che essere caro agli dèi:
essi tutto compiono, anche se lenta è l’azione.

Filottete di Euripide: ricostruzione - La scena è a Lemno, vicino alla dimora di


Filottete (che vi fa entrare Odisseo, dopo averlo avvertito dello squallido spettacolo
che vedrà dentro = fr. 790). Potrebbe essere una capanna, o più probabilmente una
grotta, come suggeriscono varie raffigurazioni - in particolare le urne volterrane e il
vaso siracusano del Pittore di Dirce - che sono certamente ispirate al dramma
euripideo.
I personaggi sono Odisseo, Filottete, Diomede [la cui presenza è confermata
anche dall’iconografia], Attore (il buon lemnio, contrapposto alla comunità isolana,
più fredda: ma il personaggio assolve anche una funzione tecnica, di nunzio tragico),
Paride, forse una figura divina nel finale; il coro è composto da Lemni (Dione).
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Intreccio - Prologo. Uno scolio al v. 1 del Filottete sofocleo dice: “Odisseo


apre il prologo, proprio come in Euripide, ma con questa differenza, che Euripide
assegna tutta la parte a Odisseo, mentre Sofocle introduce Neottolemo e divide la
parte con lui”. Odisseo, che Atena ha reso irriconoscbile, sbarca a Lemno e spiega la
sua missione in una lunga rhesis. Filottete esce dalla sua grotta, c’è un dialogo tra i
due: Filottete sulle prime vorrebbe uccidere l’altro, sapendo che è un greco, ma
Odisseo gli fa credere di essere un compagno di sventure, e i due entrano insieme
nella grotta. Tutta la scena è parafrasata da Dione, quindi possiamo ricostruirla con
assoluta precisione. Inoltre, abbiamo anche alcuni frammenti di tradizione indiretta: i
frr. 787, 788, 789 si lasciano inserire nella prima parte della rhesis (il fr. 787 potrebbe
essere l’incipit); il fr. 789a è più difficile da interpretare (il primo verso potrebbe
essere lo sfogo di un navigante in un momento di stanchezza, il secondo verso la
constatazione che però la realtà è ben diversa). Il fr. 790 si inserisce nel finale del
dialogo, quando Filottete fa entrare Odisseo nella grotta; a questo momento potrebbe
riferirsi anche il fr. 792.
Parodo. Il coro dei Lemni entrava, giustificandosi di non aver assistito a
dovere Filottete (Dione 7). I episodio. Qui doveva esserci l’esposizione della triste
storia di Filottete al Coro e a Odisseo (il fr. 792, in alternativa, potrebbe inserirsi qui).
I stasimo. Si può immaginare (ma è un semplice congettura) che il Coro
commiserasse Filottete: e allora, il fr. 792a - in metro lirico - potrebbe far parte di
questo corale. II episodio. In questa sezione del dramma [una sorta di “proagone”,
per usare una terminologia comica] dovevano essere poste le premesse per l’agone tra
la parte troiana e quella greca. Un ruolo dovevano averlo anche Diomede e Attore,
benché sia davvero difficile indovinare quale. Ad Attore si può assegnare la funzione
del mediatore tra lo spazio chiuso dell’infermo (la grotta) e il mondo circostante:
quindi, poteva essere lui ad annunciare l’arrivo dei Troiani e a preparare Filottete a
questo inatteso incontro. L’arrivo di Diomede poteva essere l’occasione per uno
snodo nell’azione: per esempio, possiamo immaginare che il riconoscimento di
Odisseo (inevitabile ormai, data l’imminenza dell’agone) ne fosse una conseguenza.
III episodio. La scena centrale del dramma, secondo la tipica maniera euripidea, era
l’agone tra Odisseo e Paride, capo dell’ambasceria troiana. Paride parlava per primo,
e il fr. 794 conserva l’esordio della sua rhesis, nella quale la forza suasiva era affidata
alla promessa di grandi ricompense; il troiano, d’altra parte, doveva anche solleticare
l’amor proprio di Filottete ed evocare il miele della vendetta (e tentare di anticipare le
argomentazioni dell’avversario, visto quel che dice Odisseo nella replica). I frr. 796 e
797 si possono invece attribuire all’esordio di Odisseo: il fr. 796 fa pensare che
Odisseo, a questo punto, avesse disvelato ormai la sua identità e parlasse quale
rappresentante ufficiale degli Achei (come nell’ambasceria ad Achille iliadica). Il fr.
797 è citato da Anassimene di Lampsaco, nella Retorica ad Alessandro, come
esempio di antikatàlepsis dell’antagonista: se l’avversario, parlando per primo, ha
anticipato i nostri argomenti, indebolendoli, noi possiamo ribaltare la situazione
facendo presente che spetta a noi esprimere le nostre idee. Quali erano gli argomenti
di Odisseo? Si può pensare che, prendendo le distanze da Paride, Odisseo non
insistesse tanto sui benefici materiali che Filottete poteva sperare di ottenere, ma
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sull’idea del bene comune e della necessità di contribuirvi: il prologo fa capire,


d’altra parte, che Odisseo è sì disincantato e “cinico”, ma pur sempre un patriota (un
“ingenuo di secondo grado”, per cinismo, come direbbe Hemingway). Della sua
rhesis faranno parte, allora, anche il fr. 798 e il fr. 799 (quest’ultimo sarà da collocare
nella perorazione finale: monito a Filottete a non alimentare un rancore infinito). La
risposta di Filottete era certamente negativa: l’eroe era durissimo con Paride (urne
volterrane), ma poco accondiscendente anche con Odisseo. Il fr. 800 fa certo parte
della sua rhesis, come forse anche il fr. 795 (dove si polemizza contro oracoli e
profezie: tutto lascia pensare che si alluda a Eleno); peraltro, alcuni studiosi
preferiscono assegnare il fr. 795 a Odisseo. Il fr. 799a è una sorta di massima, così
generica che riesce difficile trovarle una collocazione precisa. IV episodio. Qui c’era
la crisi di Filottete, colto da un assalto del male; l’eroe si assopiva e qualcuno
(Diomede, probabilmente) gli rubava l’arco. Il furto avveniva dentro la grotta ed era
raccontato da Attore. Epilogo. La situazione di stallo (l’arco era in mano ai Greci, ma
Filottete rifiutava di seguirli) era risolta probabilmente dall’intervento ex machina di
una divinità, Atena o Peithò (o Apate). Il dramma euripideo ebbe grande fortuna:
gran parte delle raffigurazioni ispirate alla vicenda di Filottete riprende la versione di
Euripide (nettamente caratterizzata: Odisseo “straccione”, Attore, Diomede, agone tra
le due delegazioni).
Fonti iconografiche. Anche nel caso del Filottete vale la regola consueta: le
fonti iconografiche possono dare un contributo importante, ma devono essere usate
con molta cautela. In primo luogo, anche quando possiamo essere ragionevolmente
certi che una immagine sia ispirata a un mito tragico, è molto raro che ci sia un chiaro
riferimento alla performance teatrale. I vasi non sono “foto di scena”, si potrebbe
dire. Quindi, il rapporto con il modello è incerto, sfuggente: è impossibile dire se
l’artista si ispiri al testo scritto, a una rappresentazione cui ha assistito o a una sua
conoscenza indiretta del mito tragico filtrata dai mediatori culturali (recitazioni
parziali, simposio) o dal background collettivo (quel repertorio di immagini e
racconti che ogni greco si costruisce crescendo). Naturalmente, un artista prende
spunto anche dalla tradizione iconografica e figurativa della sua arte: come dice
Taplin, c’è una “paraiconografia”. Inoltre - e di conseguenza - se abbiamo una
rappresentazione ispirata a un dramma di cui ci è pervenuto il testo, abbiamo
elementi per valutare se ci sia un rapporto diretto, cioè se l’artista abbia in mente la
vicenda o una scena di “quella” tragedia. Ma se il dramma è perduto, e la sua
ricostruzione è ipotetica, lo sfruttamento delle testimonianze iconografiche è molto
più problematico. [Esempi: due vasi di produzione lucana, databili al 400 a.C. circa
(cioè alla fase più antica della ceramica magno-greca), che rappresentano la fuga di
Medea dopo l’uccisione dei figli. I due ceramografi si riservano un ampio margine di
libertà rispetto alla Medea di Euripide, e rifiutano il contesto “teatrale” (i protagonisti
non sono vestiti da attori; non c’è alcun riferimento alla “scena”), ma l’aura euripidea
è evidente e assolutamente innegabile. Un caso clamoroso è il cratere decorato dal
Pittore di Capodarso (terzo quarto del IV secolo a.C.), che ritrae la scena più
drammatica dell’Edipo Re di Sofocle].
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La saga di Filottete ispira sia la pittura vascolare attica sia l’arte italica. Ci sono
molti gioielli e manufatti etruschi e romani (anche una pittura pompeiana e statuette
in bronzo), databili tra il IV e il I secolo a.C., che ritraggono l’eroe mentre è morso
dal serpente, oppure seduto in solitudine o in piedi appoggiato a un bastone. A noi,
naturalmente, interessano però soprattutto le raffigurazioni che si riferiscono
all’ambasceria a Lemno e al furto dell’arco, perché possono essere ispirate al dramma
di Euripide. Utili sono in particolare quattro rilievi di urne etrusche da Volterra, tutte
databili alla II metà del II sec. a.C. Due (Volterra, Museo Guarnacci 332 e 426)
presentano Filottete al centro, in piedi davanti alla sua grotta, girato minacciosamente
verso due personaggi sulla destra, dei quali uno porta un berretto frigio [Paride?] e
l’altro uno scudo; sulla sinistra altri due personaggi, uno più anziano con pilos
[Odisseo] e l’altro più giovane [Diomede?]. Gli studiosi pensano, per lo più, che la
scena corrisponda al momento conclusivo dell’agone, con Filottete irato verso i
Troiani (in 332 sembra in procinto di colpirli con una freccia). Altri due rilievi
(Firenze, Museo Archeologico 5765, e Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca 24)
presentano la scena del furto: in 5765 Filottete è seduto al centro, davanti alla grotta,
appoggiato con entrambe le mani al bastone, e conversa con Odisseo sulla sinistra, in
pilos e clamide, mentre sulla destra un giovane ruba l’arco; in 24 Filottete si appoggia
al bastone con una sola mano e parla con Odisseo, che gli solleva il piede ferito,
distraendolo e dando modo al giovane sulla destra di rubare l’arma.
La testimonianza dei rilievi è utile, senza dubbio. Non sono scene teatrali
(raccontano il mito, non una performance), ma si rifanno alla tragedia di Euripide.
Ciò è particolarmente chiaro per i primi due: l’agone tra Odisseo e Paride era un
momento importante della sceneggiatura euripidea. Anche il furto dell’arco rimanda a
Euripide (in Eschilo è Odisseo ad agire, in Sofocle non c’è furto), ma è improbabile
che i due rilievi riproducano un momento dell’azione: il furto doveva avvenire fuori
scena e essere raccontato da un nunzio (Attore); quindi, qui gli artisti si ispirano alla
versione euripidea del mito più che alla drammatizzazione euripidea.
Rimangono problemi aperti, che la documentazione iconografica non è in
grado di risolvere (anzi, in certi casi aggroviglia ancor di più la matassa). Non
sappiamo quando né come si attuasse il riconoscimento di Odisseo. Secondo i più,
avveniva prima dell’agone; ma altre ricostruzioni lo spostano a un momento
successivo. Probabilmente era conseguente all’arrivo di Diomede, ma non sappiamo
come. L’altro grande punto interrogativo riguarda il furto: probabilmente era eseguito
da Diomede, probabilmente era extrascenico, probabilmente era favorito da un
attacco del male che colpiva Filotte, ma dobbiamo riconoscere che qualsiasi
ricostruzione dettagliata è arbitraria [i rilievi etruschi qui sono “esterni” al plot].

Sofocle, Filottete 1-675


ODISSEO Questa è la costa, non calpestata da piede umano, disabitata, della terra di Lemno,
circondata all’intorno dal mare. Qui, o Neottolemo, nato dal più forte dei Greci, da Achille, io
abbandonai un giorno per ordine dei capi l’eroe maliaco, il figlio di Peante, piagato al piede da un
male divoratore. Era diventato impossibile per noi attendere indisturbati alle libagioni e ai sacrifici:
sempre egli riempiva tutto il campo di grida selvagge ed infauste, di urla, di lamenti. Ma a che serve
parlare di questo? Non è per noi il momento di fare lunghi discorsi, col rischio che egli si accorga
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del mio arrivo e vada distrutto tutto il piano con il quale conto di impadronirmi ben presto di lui. Il
tuo compito ora è di eseguire il resto, ed esplorare dove sia una caverna con doppia entrata, tale che
in essa d’inverno è possibile sedersi al sole da due parti e d’estate la brezza che circola per entrambe
le aperture favorisce il sonno. Poco più in basso, a sinistra, se c’è ancora, dovresti scorgere una
fonte d’acqua sorgiva. Avvicinati alla rupe e, in silenzio, indicami con un cenno se lui vive ancora
in questo luogo, oppure altrove. Poi potrai udire quel che mi rimane da dirti, ed io ti spiegherò in
modo che tutto fra noi due proceda di comune accordo.
NEOTTOLEMO Odisseo, signore, il compito che mi hai assegnato non mi porterà lontano: credo di
vedere l’antro che hai descritto.
ODISSEO In alto o in basso? Non distinguo nulla.
NEOTTOLEMO Qui sopra, e non si sente nessun rumore di passi.
ODISSEO Bada che non si trovi dentro, immerso nel sonno.
NEOTTOLEMO Vedo un’abitazione vuota, senz’anima viva.
ODISSEO E non c’è all’interno nessun segno che sia abitata?
NEOTTOLEMO Sì, un giaciglio di foglie compresse, come per qualcuno che vi dimori.
ODISSEO Il resto è vuoto? Non c’è nient’altro lì dentro?
NEOTTOLEMO Una ciotola di legno greggio, opera di un inesperto artigiano, e inoltre questi
arnesi per accendere il fuoco.
ODISSEO Sono i suoi beni, quelli che mi indichi!
NEOTTOLEMO Uh, uh! Stesi ad asciugare ci sono anche questi stracci intrisi di un ripugnante
marciume.
ODISSEO Non vi sono dubbi: abita qui e non dev’essere lontano. Come potrebbe spingersi lontano
un uomo sofferente al piede per una antica piaga? Dev’essere uscito in cerca di cibo, o forse di
qualche erba che gli allevia il dolore e che egli sa dove trovare. Metti di guardia quest’uomo che hai
con te, perché non mi piombi addosso di sorpresa: preferirebbe certo mettere le mani su di me più
che su tutti gli altri Greci.
NEOTTOLEMO (Indicando il marinaio) Costui andrà a sorvegliare il passaggio. (Il marinaio esce)
(A Odisseo) Tu, intanto, se vuoi dirmi altro, continua pure.
ODISSEO Figlio di Achille, quanto allo scopo per cui sei venuto, occorre dar prova di valore, e non
soltanto con la forza fisica; ma se sentirai ordini insoliti, mai uditi prima, dovrai obbedire
ugualmente, in quanto sei qui alle mie dipendenze.
NEOTTOLEMO Che mi comandi, dunque?
ODISSΕΟ Devi raggirare la mente di Filottete parlandogli con accorti discorsi. Quando ti chiederà
chi sei e da dove vieni, rispondi pure che sei figlio di Achille: questo non va tenuto nascosto. Ma
dovrai dire che stai navigando verso casa, e che hai lasciato la flotta e l’esercito dei Greci per odio
immenso verso di loro, che prima con preghiere ti fecero venire dalla tua patria, poiché non avevano
altro mezzo per espugnare Troia, e poi, quando arrivasti, non ti ritennero degno delle armi di
Achille, che tu richiedevi con pieno diritto, e le assegnarono ad Odisseo: a questo punto aggiungi
pure contro di me tutte le più atroci ingiurie che vorrai. Non mi darai per questo dolore alcuno,
mentre, se non farai cosi. arrecherai grande pena a tutti i Greci, perché, se non riusciremo a
impadronirci del suo arco, tu non potrai conquistare la terra di Dardano. Ed ora sappi per quale
motivo a me non è possibile, come invece lo è per te, avvicinare costui senza correre rischi e senta
destargli sospetto. Tu ti sei posto in mare da solo, non legato a nessuno per giuramento, né spinto
dalla necessità, e nemmeno hai fatto parte della nostra prima spedizione: tutti fatti che io, invece,
non posso negare. Pertanto, se egli si accorgerà di me quando ha in mano l’arco, io sono perduto e
trascinerò anche te nella mia rovina. Ma questo appunto è lo stratagemma che bisogna escogitare,
perché tu possa rubargli l’arma invincibile. So bene che non sei incline per natura a mentire né a
tramare tali inganni: ma è dolce cosa la conquista della vittoria e tu devi avere questo coraggio.
Giusti ci riveleremo in un’altra occasione. Ora, per il breve spazio di un giorno, concediti a me
scordando il pudore; e poi, per il resto della vita, potrai farti chiamare il più onesto fra tutti gli
uomini.
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NEOTTOLEMO Figlio di Laerte, quei discorsi che mi è penoso sentire, a maggior ragione mi
ripugna metterli in atto: non sono nato per imprese che richiedano perfidia, né io né, a quanto di
cono, colui che mi generò. Sono però pronto a portar via quest’uomo con la forza, e non con
l’inganno. Nel suo stato, con un piede solo, non potrà prevalere nella lotta su di noi che siamo in
tanti. Sono stato mandato qui per collaborare con te, è vero: non voglio però passare per traditore.
Preferisco, o signore, fallire agendo rettamente che vincere in modo disonesto.
ODISSEO Figlio di nobile padre, anch’io un tempo, quand’ero giovane, avevo tarda la lingua e
pronto il braccio. Ma ora, alla prova dell’esperienza, vedo che fra gli uomini è la lingua e non
l’azione ad avere il sopravvento in ogni cosa.
NEOTTOLEMO Che altro mi imponi se non di mentire?
ODISSEO Io ti dico di prendere Filottete con l’inganno.
NEOTTOLEMO Perché con l’inganno e non con la persuasione?
ODISSEO Non si lascerà persuadere, e con la forza non riusciresti a prenderlo.
NEOTTOLEMO Possiede una forza così tremenda in cui confidare?
ODISSEO Si, frecce infallibili, che portano la morte.
NEOTTOLEMO Non si può osare nemmeno d’avvicinarlo?
ODISSEO No, se non lo si prende con l’inganno, come ti dico.
NEOTTOLEMO Non ritieni vergognoso dire menzogne?
ODISSEO No, se la menzogna apporta salvezza.
NEOTTOLEMO Ma con che faccia un uomo oserà raccontare simili falsità?
ODISSEO Quando si fa qualcosa in vista di un profitto, non è il caso di esitare.
NEOTTOLEMO Ma che profitto ne traggo io, se costui viene a Troia?
ODISSEO Questo suo arco è l’unico che possa espugnare la città.
NEOTTOLEMO Non dicevate che sarei stato io il vincitore?
ODISSEO Né tu senza l’arco, né l’arco senza di te.
NEOTTOLEMO Se è così, bisogna dargli la caccia.
ODISSEO Se lo farai ne avrai doppia ricompensa.
NEOTTOLEMO Quale? Se lo sapessi, non mi rifiuterei.
ODISSEO Avrai fama di uomo accorto e di valoroso insieme.
NEOTTOLEMO E sia. Lo farò, liberandomi da ogni ritegno.
OD1SSEO Ricordi i consigli che ti ho dato?
NEOTTOLEMO Non temere, una volta che ho dato il mio consenso.
ODISSEO Tu rimani qui ad aspettarlo. Io me ne andrò per non essere visto e rimanderò la nostra
sentinella alla nave. Se mi sembrerà che indugiate troppo, faro tornare lo stesso uomo di nuovo qui,
travestito da mercante in modo da sembrare uno sconosciuto. Egli parlerà abilmente, e tu, figliolo,
sappi cogliere gli utili appigli in ciò che andrà via via dicendo. Ora vado alla nave e ti affido questa
impresa. Siano nostre guide Ermes, dio degli inganni, che accompagna gli uomini nei loro intrighi,
e Atena vittoriosa. protettrice della città, che sempre mi assiste. (Esce)
(Entra il CORO, formato da marinai di Neottolemo)
CORO Che cosa devo nascondere, signore,
che cosa dire.
io straniero in terra straniera.
ad un uomo sospettoso? Spiegami tu.
Un’arte che vince ogni altra arte,
una mente superiore
è in colui che regge nelle sue mani
lo scettro divino di Zeus.
Ora, questo potere supremo si è trasmesso
dagli avi a te, figlio mio:
dimmi dunque
in che cosa devo servirti.
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NEOTTOLEMO Per il momento vuoi forse vedere il luogo in cui abita, in questo estremo lembo di
terra. Guarda pure, senza timore. Quando poi giungerà il tremendo viandante, ti ritirerai dal suo
antro, avanzando ai cenni che di volta in volta ti farò, e cercherai di assecondarmi secondo le
necessità del momento.
CORO Già da tempo mi sta a cuore
ciò che tu mi affidi, signore,
di vegliare con occhio attento
soprattutto sul tuo interesse.
Ma ora dimmi in quale riparo
egli ha fissato la propria dimora
e dove egli si trova in questo momento.
È opportuno che io lo sappia,
perché non ci piombi addosso
di sorpresa da qualche parte.
Dove sta? Qual è la sua abitazione?
Dove muove i suoi passi, dentro o fuori?
NEOTTOLEMO La sua casa è questa che vedi, a due porte, un giaciglio di roccia.
CORIFEO Ma lui, lo sventurato, dov’è?
NEOTTOLEMO Per me è chiaro che in cerca di cibo trascina il suo passo in qualche luogo qui
vicino. Questa, dicono, è la vita che egli, misero, miseramente conduce, andando a caccia con le sue
frecce alate, senza che nessuno gli si avvicini per sanare i suoi mali.
CORO Ho pietà di lui, al pensare come,
senza un uomo al mondo che lo assista,
senza aver accanto a sé uno sguardo amico,
infelice, sempre solo,
soffre per un male selvaggio
ed è in preda alla disperazione
per ogni nuova necessità che insorga.
Come può, come può, infelice, resistere?
O miseri accorgimenti umani,
o sventurate stirpi dei mortali,
la cui vita sfugge alla misura comune!
Quest’uomo, non secondo forse a nessuno
per nobiltà di stirpe,
privo di ogni conforto nella vita,
giace qui solo, abbandonato da tutti,
in compagnia di belve maculate ed irsute,
miserando nelle sofferenze
e nella fame più aspra,
oppresso da angosce senza rimedio.
E l’eco dalla libera voce
va spargendo lontano
i suoi amari lamenti.
NEOTTOLEMO Nulla di tutto questo mi sorprende. Per volere divino, se ben comprendo,
ricaddero su di lui quelle antiche sofferenze inflitte dalla spietata Crise; e anche le pene da cui è ora
tormentato, privo di chi lo assista, non possono non essere nel disegno di un qualche dio, perché
costui non abbia a scagliare contro Troia i suoi invincibili dardi divini, prima che sia giunto il tempo
in cui è destino che la città cada per mano loro.
CORO Silenzio, figliolo!
NEOTTOLEMO Che c’è?
CORO Si è levato improvviso un suono,
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quale si accompagna
a persona che soffre,
da questo, forse, o da quel lato.
Sì, mi percuote, mi percuote
la viva voce di qualcuno
che si trascina a fatica:
non m’inganna, di lontano,
il grido affannoso
di un uomo spossato.
Ecco, risuona distinto.
CORO Rivolgi, figlio, la mente...
NEOTTOLEMO A che cosa?
CORO ... a nuovi pensieri:
non è più lontano, ma qui vicino,
e non modula un canto sulla zampogna
come un pastore errante per i campi,
ma forse inciampando sotto il peso del dolore
lancia un grido che risuona in lontananza,
o forse perché scorge la nave
ormeggiata sul lido inospitale.
Tremendo è il suo urlo.
(Entra FILOTTE TE)
FILOTTETE Stranieri! Chi siete voi che approdaste per nave a questa terra importuosa e deserta?
Da che patria o stirpe dovrei dirvi discesi? L’aspetto delle vostre vesti è quello della Grecia a me
carissima, ma vorrei sentire la vostra voce. Non rimanete esitanti e turbati, per timore del mio
aspetto selvaggio, ma siate mossi a pietà per un uomo infelice, così solo, abbandonato, senza il
conforto di un amico. Parlate, se venite come amici, ad uno sventurato che vi invoca. Rispondete,
dunque. Non è giusto che mi neghiate questo, né che io lo neghi a voi.
NEOTFOLEMO Ebbene, straniero, sappi prima di tutto, poiché tu lo desideri, che siamo greci.
FILOTTETE O suono dolcissimo! O gioia di sentirsi rivolgere la parola, dopo tanto tempo, da un
uomo come te! E quale, figlio mio, quale necessità ti spinse a questa terra, ti fece approdare
qui? quale intento? quale dei venti, caro a me sopra ogni altro? Dimmi ogni cosa, perché io sappia
chi sei.
NEOTTOLEMO Sono nativo di Sciro circondata dal mare, e sto navigando verso casa. Sono il
figlio di Achille, Neottolemo. Ora sai tutto.
FILOTLETE Figlio di un padre a me tanto caro e di una terra anch’essa cara, tu che fosti allevato
dal vecchio Licomede, per quale motivo sei approdato a quest’isola e da dove vieni?
NEOTTOLEMO Sto tornando ora da Ilio.
FILOTTETE Che hai detto? Non ti eri imbarcato con noi all’inizio della spedizione per Troia.
NEOTTOLEMO Prendesti parte anche tu a quell’impresa?
FILOTTETE Figlio mio, non sai chi hai davanti agli occhi?
NEOTTOLEMO Come posso conoscere uno che non ho mai visto?
FILOTTETE Nemmeno il mio nome hai mai sentito? Neppure la fama dei mali in cui mi
consumavo?
NEOTTOLEMO Credimi, non so nulla di ciò che dici.
FILOTTETE Quanto sono sventurato e inviso agli dèi, se nemmeno la notizia dello stato in cui sono
è mai giunta nella mia patria né in altro luogo della Grecia! Coloro che empiamente mi
abbandonarono ridono in silenzio, mentre il mio male è sempre più rigoglioso e va crescendo ogni
giorno. Figlio mio, tu che avesti per padre Achille, io sono colui che forse hai sentito nomina re
come possessore delle armi di Eracle, il figlio di Peante, Filottete. I due comandanti e il re, dei
Cefalleni mi hanno indegnamente gettato qui, in questa solitudine, consumato da un male selvaggio,
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stroncato dal morso rabbioso di una vipera assassina. Solo, con la mia piaga, qui mi lasciarono,
figlio, e partirono, nel giorno in cui dall’isola di Crise con le loro navi approdarono a questa terra.
Con gioia, non appena mi videro dormire, dopo tanti travagli, sulla costa al riparo di una roccia, mi
abbandonarono e presero il mare, lasciandomi accanto, come a un miserabile, pochi stracci e un po’
di cibo, per sostentarmi appena. Possa loro toccare una sorte simile! Figlio, quale pensi che fu il mio
ri sveglio dal sonno, dopo che essi se ne furono andati? Quali lacrime piansi, quali gemiti di
angoscia levai? Vedere le navi, con le quali ero partito, tutte scomparse, e non un uomo qui
nell’isola, nessuno che mi assistesse, nessuno che potesse, quando soffrivo, darmi sostegno nella
mia malattia! Per quanto scrutassi tutt’intorno, non scoprivo nient’altro che dolore: questo sì, in
grande abbondanza, figlio mio. Il tempo passava per me, giorno dopo giorno, e bisognava che
provvedessi a tutto da solo, sotto questo misero tetto. Per la mia fame, quest’arco mi procurava il
necessario, trafiggendo le alate colombe; ma ad ogni preda che la freccia, balzando dalla corda tesa,
colpiva, dovevo io stesso, sciagurato, spingermi arrancando fin li, strascicando il mio povero pie de.
Se avevo bisogno di procurarmi un po’ da bere, oppure di spaccare legna quando s’era sparsa la
brina, come accade in inverno, dovevo trascinarmi penosamente e ingegnarmi in tutto. E poi non
c’era il fuoco; ma sfregando pietra contro pietra, con fatica, feci sprizzare l’occulta scintilla: quella
che mi conserva ancora in vita. L’antro che mi fa da casa mi offre, con il fuoco, tutto il necessario,
tranne la guarigione dal mio male. E ora, figlio, voglio anche parlarti di quest’isola. Nessun
navigante vi Si accosta di sua volontà: non c’è approdo, non c’è possibilità, per chi vi sbarchi, di
vendere e guadagnare, e nemmeno di trovare ospitalità. Questa non è una meta per naviganti
accorti. E naturalmente accaduto che qualcuno vi approdasse suo malgrado: casi di questo genere
possono verificarsi spesso nella lunga vita di un uomo. Costoro, quando arrivano, figlio mio, a
parole mi mostra no compassione, e talvolta mi danno anche, per pietà, un po’ di cibo o qualche
veste. C’è però una cosa che nessuno, quando ne parlo, vuol fare: condurmi in salvo a casa; e io
resto qui a consumarmi, sventurato — questo è ormai il decimo anno — nella fame, nelle
sofferenze, nutrendo il male che mi divora. Questo mi hanno fatto gli Atridi e il forte Odisseo, o
figlio: possano gli dèi del l’Olimpo ripagarli un giorno con altrettante pene.
CORIFEO Come gli altri stranieri che qui giunsero, è naturale che anch’io, figlio di Peante, provi
pietà per te.
NEOTTOLEMO Ed io posso a mia volta testimoniare in favore dei tuoi discorsi. So che sono veri,
per aver io stesso sperimentato la perfidia degli Atridi e del forte Odisseo.
FILOTTETE Hai anche tu motivo di accusare i maledetti Atridi, di essere sdegnato per un torto
subìto?
NEOTTOLEMO Mi sia concesso, un giorno, di sfogare il mio sdegno con questo braccio, perché
Sparta e Micene sappiano che anche Sciro è madre di forti!
FILOTTETE Ben detto, figlio mio. Ma perché sei giunto qui con tanta rabbia contro di loro? Di che
cosa li accusi?
NEOTTOLEMO Figlio di Peante, ti dirò, ma mi costerà fatica, gli affronti che ricevetti da loro
dopo il mio arrivo. Quando il fato decise che Achille morisse.
FILOTTETE Ahimè! Non parlare oltre, finché io non abbia bene inteso questa prima notizia: è
morto il figlio di Peleo?
NEOTTOLEMO È morto, per mano non di un uomo, ma di un dio:
abbattuto, come dicono, da un dardo di Febo.
FILOTTETE Nobile l’uccisore, nobile l’ucciso. Non so, figlio, se io debba prima chiederti degli
affronti patiti oppure piangere quell’eroe.
NEOTTOLEMO Penso che ti bastino già le tue disgrazie, o infelice, senza che tu debba piangere
per quelle altrui.
FILOTTETE Hai ragione. Riprendi allora il tuo racconto e dimmi in che cosa ti offesero.
NEOTTOLEMO Vennero un giorno da me, su una nave dai vivi colori, il divino Odisseo e il
precettore di mio padre, dicendo, vero o falso che fosse, che una volta morto mio padre non era
consentito a nessun altro se non a me di conquistare la rocca di Troia. Facendomi questi discorsi, o
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straniero, non mi trattennero un momento dall’imbarcarmi prontamente, soprattutto per il desiderio


di vedere prima della sepoltura il padre morto, dal momento che non l’avevo mai visto; ma era
allettante anche il motivo che si aggiungeva: se fossi andato, avrei espugnato la rocca di Troia. Ero
in mare già da due giorni, quando approdai con vento favorevole all’amaro capo Sigeo. Non appena
sbarcai, tutto l’esercito fece cerchio intorno a me e mi accolse festoso, giurando di rivedere vivo,
davanti ai propri occhi, il morto Achille. Egli, dunque, giaceva morto: ed io, sventurato, dopo averlo
pianto, andai di lì a poco, com’era naturale, a trovare amichevolmente gli Atridi, e chiesi loro le
armi di mio padre e le altre cose che gli erano appartenute. Mi risposero, ahimè, con le più
impudenti parole: «Figlio di Achille, tutto il resto ti è lecito prendere di tuo padre; ma quanto alle
armi, le possiede ora un altro uomo, il figlio di Laerte. Io in lacrime balzai in piedi all’istante, con
fiero sdegno, e dissi ferito dal dolore: «Infami! Avete osato assegnare a un altro invece che a me le
armi che mi appartenevano, senza prima consultarmi?» E Odisseo, che si trovava lì vicino, rispose:
«Sì, ragazzo, sono state assegnate a me, ed in piena giustizia, perché io ero presente e sono stato io
a salvarle, insieme al suo cadavere». Preso dall’ira, non esitai ad aggredirlo con ogni sorta di
ingiurie, senza risparmiarne nessuna, se si fosse rifiutato di darmi le armi. A questo punto egli, pur
non facile alla collera, sentendosi mordere per ciò che aveva udito, così rispose: «Tu non eri con
noi, ma te ne stavi lontano dal luogo in cui non avresti dovuto mancare; e queste armi, dato che
parli anche con tanta arroganza, non sarà mai che le porti con te nel viaggio di ritorno a Sciro».
Udite queste ingiurie e offeso dall’oltraggio, me ne torno a casa derubato in ciò che era mio dal più
perfido e figlio di perfidi, Odisseo. Eppure non accuso tanto lui quanto coloro che sono al comando:
una città, un esercito dipendono interamente dai capi, e gli uomini che sconvolgono l’ordine non
diventano malvagi se non per gli insegnamenti dei loro maestri. Ho detto tutto. Chi odia gli Atridi
sia caro agli dèi così come lo è per me.
CORO O signora dei monti,
Terra che tutto nutri,
madre dello stesso Zeus,
tu che governi
il grande Pattolo ricco d’oro,
anche laggiù, madre veneranda, t’invocai,
quando su questo giovane si riversava
tutta la prepotenza degli Atridi,
allorché assegnarono le armi di suo padre,
supremo onore, al figlio di Laerte:
o divina,
tu che siedi sui leoni
uccisori di tori!
FILOTTETE A quanto pare, ospiti, siete giunti da me con un chiaro contrassegno di dolore: la
vostra esperienza concorda con la mia, tanto che riconosco in questa vicenda l’opera degli Atridi e
di Odisseo. So bene come costui abbia sempre la lingua pronta ad ogni discorso malvagio, ad ogni
scelleratezza, con cui poter raggiungere un fine iniquo. Ma non è questo che mi sor prende, quanto
piuttosto il fatto che il maggiore degli Aiaci, se era presente, abbia potuto tollerare di vedere tali
cose.
NEOTTOLEMO Non era più in vita, straniero. Se fosse stato vivo, non sarei mai stato derubato.
FILOTTETE Che hai detto? Anche lui è morto?
NEOTTOLEMO Non vede più la luce, sappilo.
FILOTTETE Ahimè, infelice! Ma il figlio di Tideo e il figlio di Sisifo comprato da Laerte, loro che
non dovrebbero essere in vita, non c’è alcun rischio che siano morti!
NEOTTOLEMO No di certo, stanne sicuro: anzi, prosperano ora rigogliosi nell’esercito argivo.
FILOTTETE E dimmi: il vecchio e valente amico mio, Nestore di Pilo, vive? Egli almeno tentava
di ostacolare, con i suoi saggi consigli, i loro malvagi disegni.
NEOTTOLEMO Una misera vita egli conduce, da quando gli è morto Antioco, suo figlio.
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FILOTTETE Ahimè, hai nominato i due uomini che meno di ogni altro avrei voluto sapere morti!
Ah, che cosa ci si deve aspetta re, quando costoro non esistono più, mentre sopravvive Odisseo, che
anche in questo caso avrebbe dovuto essere tra i morti al posto loro?
NEOTTOLEMO È un lottatore scaltro. Ma anche le menti accorte, Filottete, spesso trovano
inciampo.
FILOTTETE E dimmi, per gli dèi: dov’era, in tale circostanza, Patroclo, la persona più cara a tuo
padre?
NEOTTOLEMO Anche lui era morto. Ti dirò in breve: la guerra non si prende mai, di sua scelta,
nessun malvagio, ma sempre i migliori.
FILOTTETE Posso confermarlo anch’io. Per questo appunto voglio chiederti di un uomo indegno,
ma abile nel parlare e scaltro: che ne è di lui?
NEOTTOLEMO Di chi altro parli se non di Odisseo?
FILOTTETE Non mi riferivo a lui. C’era un certo Tersite, che non si sarebbe mai contentato di
parlare una volta soltanto là dove nessuno gli consentiva di aprir bocca. Sai se costui è vivo?
NEOTFOLEMO Io non l’ho visto, ma ho sentito dire che vive ancora.
FILOTTETE Così doveva essere! Nulla di ciò che è spregevole è mai andato in rovina; al contrario,
gli dèi lo circondano di ogni cura, e godono di far risalire dall’Ade quanto c’è di perverso e
disonesto, mentre vi mandano sempre ciò che è giustizia e rettitudine. Come si devono interpretare
queste cose, come approvarle, se, quando voglio lodare le opere divine, trovo che gli dèi sono
malvagi?
NEOTTOLEMO Per quanto mi riguarda, figlio di padre eteo, d’ora in poi starò in guardia e vedrò
solo da lontano Ilio e gli Atridi. Là dove il peggiore ha più potere dell’uomo onesto, dove vien
meno la virtù e trionfa la scaltrezza, con gente simile non mi adatterò mai a vivere. In avvenire mi
basterà la mia pietrosa Sciro, e sarò contento di starmene a casa. Adesso me ne vado alla nave, e a
te, figlio di Peante, dico addio, addio di tutto cuore. Possano gli dèi guarirti dal tuo male, come
desideri. (Al Coro) E noi andiamo, per essere pronti a salpare non appena il dio ci concederà un
vento favorevole.
FILOTTETE Come, figlio, ve ne andate già?
NEOTTOLEMO L’opportunità ci invita ad attendere vicino, e non lontano dai mare, il momento
d’imbarcarci.
FILOTTETE In nome di tuo padre e di tua madre, figlio, in nome di quanto in patria ti è caro, io,
tuo supplice, ti scongiuro di non lasciarmi qui, così solo, abbandonato, in mezzo alle sofferenze che
vedi e a quelle in cui hai sentito che vivo. Considerami come un compito secondario, qualcosa di
accessorio. Il fastidio per questo carico è grande, lo so, ma sopportalo. Per gli animi nobili ogni
viltà è odiosa, mentre una buona azione è motivo di gloria. Se trascurerai quest’opera, ne riceverai
turpe biasimo, ma se la compirai, figlio, ne avrai onore grandissimo, una volta che io giunga vivo
nella terra etea. Suvvia! E il disagio di un sol giorno, e nemmeno intero. Coraggio, portami con te,
gettami dove vuoi, nella stiva, a prua, a poppa, dove io debba riuscire meno molesto ai tuoi
compagni. Dimmi di sì, in nome di Zeus protettore dei supplici, o figlio, acconsenti: ecco, mi getto
davanti a te in ginocchio, debole, disgraziato, zoppo come sono! Non mi lasciare così solo, lontano
da ogni orma d’uomo; conducimi in salvo alla tua casa, oppure alle sedi di Calcodonte in Eubea: da
lì non sarà lungo per me il tragitto fino all’Eta, fino ai monti di Trachis o allo Spercheo dalle belle
correnti; e così potrai restituirmi alla vista di mio padre. Ma da gran tempo io temo che sia morto.
Molte volte, per mezzo di quelli che capitarono qui, gli mandai supplichevoli preghiere, invitandolo
a spedire una sua nave per ricondurmi salvo in patria. Quindi, o è morto, o i miei messi, come è
facile credere, tenendo in poco conto la mia sorte, affrettarono il ritorno alle loro case. Ma ora che
ho trovato in te una guida e un messaggero insieme, salvami tu, abbi pietà di me: vedi come tutto
per i mortali è insidioso ed esposto al rischio, tanto la prosperità quanto la sfortuna. Chi è fuori dai
mali bisogna che pensi alle disgrazie, e quando è felice, allora più che mai deve vegliare sulla
propria vita, perché non vada in rovina senza che egli se ne accorga.
CORO Abbi pietà, signore. Ci ha rivelato
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molti e intollerabili travagli


che ha dovuto affrontare,
quanti vorrei non toccassero mai
a nessuno dei miei cari.
Se hai in odio gli aspri Atridi,
o signore, io volgerei
il male che essi hanno commesso
a vantaggio di quest’uomo,
e sull’agile veloce nave
lo condurrei là dove egli desidera,
in patria, sfuggendo così
alla vendetta degli dèi.
NE0TTOLEMO Bada di non essere condiscendente adesso, e poi, quando sarai nauseato dalla sua
malattia, vivendoci a contatto, mostrarti diverso da quanto hai ora detto.
CORIFEO Certamente no: non accadrà mai che tu abbia il diritto di muovermi questo rimprovero.
NEOTTOLEMO Sarebbe vergognoso che mi mostrassi meno disponibile dite nell’adoperarmi in
favore di questo straniero, quando se ne presenta il momento. Ebbene, se è questo che volete,
mettiamoci in mare e che costui venga, presto: la nave di sicuro lo accoglierà, né opporrà rifiuto. Mi
auguro soltanto che gli dèi ci portino in salvo da questa terra fin là dove intendiamo andare.
FILOTTETE Oh, giorno a me caro più di ogni altro! E tu, uomo fra tutti il più amato! Ah, miei cari
marinai, come potrei mostrarvi con i fatti quanto mi avete reso a voi amico? Partiamo, figlio mio,
ma prima salutiamo questa dimora inabitabile, per ché tu possa sapere di che vivevo e quanto forte
era il mio cuore. Credo che nessun altro all’infuori di me avrebbe resistito a tanto, nemmeno a
sostenerne solamente la vista. Ma io ho imparato per necessità ad adattarmi alle sventure.
CORIFEO Fermatevi! Sentiamo prima: stanno arrivando due uomini, l’uno è della tua nave, l’altro
uno straniero. Ascoltateli, e poi entrerete.
(Entra il falso MERCANTE, seguito da un MARINAIO)
MERCANTE Figlio di Achille, a questo compagno, che era con altri due a guardia della tua nave,
ho chiesto di indicarmi dove tu fossi, dal momento che mi sono imbattuto in te, non di proposito,
ma il caso ha voluto che gettassi l’ancora a questa stessa terra. Quale mercante, con non molta
ciurma facevo vela da Ilio alla volta di casa, a Pepareto ricca di vigneti; non appena ho inteso che
questi marinai sono tutti venuti qui con te, mi è sembrato bene di non proseguire il mio viaggio in
silenzio, senza prima averti parlato e ricevuto da te un adeguato compenso. Tu, forse, non sai nulla
di ciò che ti riguarda, dei nuovi propositi che gli Argivi hanno sul tuo conto, e non solo propositi,
ormai, ma azioni in via di compimento, che non conoscono più indugio.
NEOTTOLEMO Il favore che io devo alla tua premura, straniero, se è vero che non sono un vile,
mi resterà caro. Ma spiegami ciò a cui hai accennato, perché io possa sapere qual è questo nuovo
progetto da parte degli Atridi che tu mi rechi.
MERCANTE Il vecchio Fenice e i figli di Teseo sono partiti al tuo inseguimento con una
spedizione navale.
NEOTTOLEMO Per ricondurmi indietro a forza o con la persuasione?
MERCANTE Non so: vengo a riferirti ciò che intesi.
NEOTTOLEMO Fenice e gli altri che lo accompagnano fanno questo, con tanto zelo, per
compiacere agli Atridi?
MERCANTE Sappi che quanto ho detto si sta compiendo senza più indugio.
NEOTTOLEMO E come mai, per questo scopo, Odisseo non è stato pronto a mettersi in mare e a
portare lui stesso il messaggio? Qualche timore lo tratteneva?
MERCANTE Lui e il figlio di Tideo, quando io salpavo, partivano alla ricerca di un altro.
NEOTFOLEMO Chi è quest’uomo per il quale Odisseo in persona si è posto in mare?
MERCANTE È un certo... Ma prima dimmi chi è costui (indicando Filottete). Se mi rispondi, non
parlare ad alta voce.
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NEOTTOLEMO Straniero, quest’uomo che ti sta davanti è il famoso Filottete.


MERCANTE Non farmi più domande, ma vattene, salpa al più presto da questa terra.
FILOTTETE (A Neottolemo) Che dice, figlio mio? Perché quel mercante con le sue parole sta
trafficando con te sul mio conto, nell’ombra?
NEOTTOLEMO (A Filottete, accennando al falso Mercante) Non ho ancora inteso quel che dice,
ma se ha da dire qualcosa, deve parlare in piena luce, davanti a te, a me e costoro.
MERCANTE Figlio di Achille, non denunciarmi all’esercito dei Greci, se rivelo ciò che non dovrei.
Da loro, in ricompensa dei miei servigi, ricevo molti vantaggi, da pover’uomo qual sono.
NEOTTOLEMO Io sono nemico degli Atridi, e quest’uomo, dal momento che odia gli Atridi, è il
mio più grande amico. Se sei venuto da me con benevole intenzioni, non devi nasconderci nulla di
ciò che hai sentito.
MERCANTE Bada a quello che fai, figliolo!
NEOTTOLEMO E da molto tempo che vi sto riflettendo.
MERCANTE Ti riterrò responsabile di quanto avverrà.
NEOTTOLEMO Fallo pure, ma parla.
MERCANTE Ebbene, parlo. È lui l’uomo per il quale quei due che ti dicevo, il figlio di Tideo e il
forte Odisseo, sono ora in mare, e hanno giurato che lo porteranno con sé, o persuadendolo con la
parola o costringendolo a forza. Tutti gli Achei hanno sentito Odisseo proclamare apertamente
questo: lui, infatti, più dell’altro, aveva fiducia di riuscire nell’impresa.
NEOTTOLEMO Per quale motivo, dopo un così lungo tempo, gli Atridi hanno rivolto la loro
attenzione con tanta sollecitudine a quest’uomo che avevano scacciato ormai da molti anni? Quale
desiderio li ha presi — o quale imposizione e vendetta ad opera degli dèi, che puliscono le azioni
malvagie?
MERCANTE Ti dirò ogni cosa, dal momento che non hai probabilmente sentito nulla. C’era un
indovino di nobile stirpe, figlio di Priamo: si chiamava Eleno. L’uomo al quale si dà ogni titolo
infamante ed ingiurioso, il perfido Odisseo, nel corso di una sortita notturna, da solo, riuscì a
catturarlo. Lo spinse in catene in mezzo agli Achei e lo mostrò ad essi, quale magnifica preda.
Eleno, fra tutti gli altri responsi che diede loro, rivelò in parti colare che non avrebbero mai distrutto
la rocca di Troia, se prima non avessero persuaso e portato via quest’uomo dall’isola in cui ora vive.
Non appena il figlio di Laerte sentì l’indovino parlare così, prontamente promise di ricondurlo e di
presentar lo agli Achei: molto probabilmente con il suo consenso — riteneva —, ma anche a viva
forza, se l’altro si fosse rifiutato. E aggiungeva che se avesse fallito nel suo proposito, si sarebbe
lasciato tagliare il capo da chiunque lo desiderasse. Ho detto tutto, figlio mio. Ti consiglio di fare
presto per il bene tuo e di chi altro ti sta a cuore.
FILOTTETE Ahimè, infelice! Quell’uomo, che è la rovina fatta persona, ha giurato di condurmi
dagli Achei con la persuasione? Sarebbe più facile convincermi a ritornare, dopo la morte, dall’Ade
alla luce, come accadde a suo padre!
MERCANTE Di questo non so nulla. Faccio ritorno alla mia nave, e che un dio vi assista nel
migliore dei modi. (Esce)
FILOTTETE Non è inconcepibile, figlio mio, che il Laerziade abbia potuto sperare, con blande
parole, di mostrarmi in mezzo agli Achei, sbarcandomi dalla sua nave? No, no: darei piuttosto
ascolto all’odiosissima vipera che mi ha reso così storpio. Ma non c’è nulla che quell’uomo non
sarebbe capace di dire o di osare; ed ora sono certo che verrà. Figlio mio, andiamocene: che molto
mare ci separi dalla nave di Odisseo! Partiamo; la fretta al momento opportuno suole poi arrecare,
quando cessa la fatica, sonno e riposo.
NEOTTOLEMO Partiremo non appena si sarà placato il vento da prora; ora soffia contrario.
FILOTTETE La navigazione è sempre propizia, quando si fugge dalle disgrazie.
NEOTTOLEMO Non in questo caso: il vento è contrario anche per loro.
FILOTTETE Non esiste vento contrario per i predoni, quando ci sia da rubare e da saccheggiare
con violenza.
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NEOTTOLEMO Ebbene, andiamo, se credi; ma prima prendi da là dentro ciò di cui hai bisogno e
che più desideri.
FILOTTETE C’è qualcosa che mi occorre, anche se la scelta non è ampia.
NEOTTOLEMO Che cosa, che non ci sia sulla mia nave?
FILOTTETE Ho qui un’erba con la quale, più che con ogni altro rimedio, assopisco sempre questa
piaga, finché essa non si ammansisca del tutto.
NEOTTOLEMO Portala dunque. Che altro desideri prendere, ancora?
FILOTTETE Se per disattenzione mi fosse scivolata a terra qual cuna di queste frecce, non vorrei
lasciarla in mano d’altri.
NEOTTOLEMO E l’arco famoso, quello che hai con te?
FILOTTETE Questo che tengo in mano, e nessun altro.
NEOTTOLEMO Posso vederlo anche da vicino, impugnarlo e adorarlo come un dio?
FILOTTETE A te, figlio, sarà concesso questo e quanto altro ti piaccia, di ciò che è mio.
NEOTTOLEMO Lo desidero, ma a questa condizione: se mi è lecito, lo vorrei; se no, lascia stare.
FILOTTETE Le tue parole sono riverenti: ti è lecito, sì, figlio, poiché mi hai concesso, tu solo, di
contemplare la luce del sole, di rivedere la terra etea, il vecchio padre, i miei amici; tu, mentre
giacevo sotto i piedi dei miei nemici, mi hai sollevato al di sopra della loro portata. Non temere: ti
sarà permesso di maneggiare queste armi, renderle a chi te le ha affidate, e gloriarti di averle potute
toccare, tu solo fra i mortali, in virtù del tuo nobile merito. Anch’io le ho ottenute facendo del bene.
NEOTTOLEMO Non mi pento di averti incontrato ed accolto come amico. Chi sa ricambiare un
beneficio ricevuto dev’essere un amico più prezioso di ogni ricchezza. Entra pure, ora.
FILOTTETE Sì, e ti condurrò con me: la mia infermità desidera il conforto della tua presenza.
(Entrano insieme nella grotta)

Il prologo comprende i vv. 1-134. Si sompone in due parti: i vv. 1-48 e i vv. 49-134.
La prima parte definisce la scena e l’antefatto, presenta i tre personaggi in azione (dei
quali uno muto) e il protagonista, assente. Dal discorso di Odisseo e dalla successiva
sticomitia gli spettatori apprendano che la scena è a Lemno, dove Filottete è stato
abbandonato, e dove Odisseo e Neottolemo sono stati incaricati di venirlo a
riprendere; inoltre, il sopralluogo di Neottolemo “fissa” le coordinate spaziali e
ambientali, con una serie di battute che disegnano una scenografia verbale. La
seconda parte (lanciata dalla domanda di Neottolemo al v. 49) introduce la vicenda
vera e propria e distribuisce i ruoli: Odisseo, che ha la responsabilità dell’impresa e
ha concepito il piano, si terrà lontano (per non essere riconosciuto e ucciso dal suo
nemico), lasciando che sia Neottolemo ad agire, quale fedele esecutore degli ordini
ricevuti. Il secondo scambio di battute chiarisce la differenza di ethos tra i due
personaggi, che sono assolutamente antitetici: Odisseo rappresenta il cinismo della
politica pragmatica, volta al raggiungimento degli obiettivi, anche a prezzo di azioni
moralmente riprovevoli; Neottolemo è il nobile figlio di un nobile padre, sensibile ai
valori di virtù e coraggio.
Il piano di Odisseo prevede una sorta di recita dentro la recita: Neottolemo
dovrà interpretare una parte, che il “regista” Odisseo gli assegna. Come osserva
Pucci, questo dispositivo metateatrale è caro a Sofocle, che lo adotta anche nell’Aiace
e nell’Elettra: serve anche a caricare di “verità” la finzione teatrale, nella misura in
cui include una messainscena e ne ostenta la falsità.
L’abbondanza di elementi deittici (che si accompagnavano alla gestualità
dell’attore) è normale nella fase d’avvio della vicenda. Il prologo, d’altra parte, serve
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anche a definire lo spazio scenico; non si tratta solo di dire, con un processo verbale,
dove si deve supporre che l’azione si svolga, ma è necessario promuovere una
elaborazione mentale degli spettatori: nelle loro mente lo spazio deve acquistare un
significato, in modo che ogni accadimento sia collocato in esso. Le battute con cui
Neottolemo - mentre si muove in su e in giù per il palcoscenico - commenta le sue
evoluzioni, servono appunto a promuovere questa sorta di transfert.
L’insistenza sul paesaggio desolato e inospitale di Lemno attira l’attenzione del
pubblico su questa che è una delle massime innovazioni introdotte da Sofocle nella
mythopoiia. L’isola di Lemno, che Omero definisce “ben abitata” in Il. XXI 40, è
legata nel mito alla saga argonautica e nel V secolo fa parte dell’impero ateniese:
dunque nella percezione dell’uditorio è luogo di vita e di incontri. In Eschilo ed
Euripide Lemno è abitata, tanto che sono proprio i suoi abitanti a comporre il coro;
Sofocle invece ne fa un deserto desolato, in coerenza con la sua scelta di
rappresentare Filottete come un emarginato, un reietto.
Neottolemo è subito presentato come “figlio di Achille”: il patronimico è
lusinghiero in sé (nell’epica definisce l’eroe), ma nel caso di Neottolemo è molto
impegnativo. Neottolemo - che ha avuto pochi contatti diretti col padre - è stato
cresciuto nel culto di Achille: un’eredità pesante, che apparentemente lo esalta, ma
rischia di schiacciarlo. Per tutta la tragedia Neottolemo è costantemente richiamato a
questo suo ruolo di figlio: Odisseo, in particolare, fa chiaramente intendere che lo
statuto “filiale” (quindi subordinato) del giovane gli impone una condotta rispettosa e
obbediente.
La patria di Filottete è (qui) la Malide, una piccola regione a sud della
Tessaglia, solcata dal fiume Spercheo e delimitata dai monti Othrys e Eta. Sull’Eta
Eracle scelse di morire: fu proprio Filottete [secondo un’altra versione, Peante] ad
accendere il rogo; in cambio, ebbe in dono dall’eroe l’arco e le frecce prodigiose.
Odisseo sottolinea di essere stato lui ad abbandonare Filottete in obbedienza agli
ordini degli Atridi: indiretto segnale a Neottolemo, che deve dare prova della stessa
disciplina. Nella tragedia nessuno si chiede perché i Greci non riconducano (o lascino
ricondurre) Filottete in patria, anziché abbandonarlo in un luogo desolato.
Naturalmente, un simile dibattito non ha senso, nella prospettiva del dramma (anche
se Filottete proprio di questo rimprovera gli Atridi e Odisseo). Il fatto è che Filottete
“deve” essere lasciato solo, per diventare un eroe sofocleo. Tutti i protagonisti delle
tragedie di Sofocle (Pucci) vivono un’esperienza di umiliazione, di degradazione (una
colpa, una contaminazione familiare o personale): l’eroe sofocleo ne è profondamente
scosso e assume una posizione solitaria, esce quasi dal novero dei comuni mortali per
adottare una prospettiva “esterna” alla vita, di profeta o veggente o creatura votata
alla morte. Filottete è il reietto, il contaminato, l’impuro, il rifiuto dell’umanità: è un
pharmakòs, che catalizza su di sé tutto il male della collettività. Come tale, è figura
“sacra” (nell’ambivalenza tipica del termine): riceve male (maltrattamenti, disprezzo)
e dà bene (chi lo allontana da sé, si sente meglio). Filottete è una figura che acquista
senso nella sfera del religioso primordiale: è la vittima sacrificale.
Odisseo giustifica l’abbandono di Filottete con ragioni religiose: le grida
rabbiose rompono il silenzio sacro e rendono impossibile l’esecuzione dei riti.
89

Filottete più avanti denuncia la falsità di queste motivazioni (vv. 1031-34 “Come
potrete ora fare libagioni e sacrificare vittime, se io verrò con voi? Un pretesto, solo
un pretesto era”); peraltro, la tabe dell’eroe - in tutta la sua storia complessa - entra
nella sfera del sacro, del contaminante e dell’espiatorio. Odisseo ha paura di Filottete,
sa bene che in un incontro con lui rischia la vita: questo motivo emerge anche nel
prologo del dramma euripideo.
Odisseo descrive una grotta con due ingressi e una fonte. La battuta concorre
alla costruzione dello spazio, tanto più che subito dopo Neottolemo muovendosi per
la scena individua i punti che corrispondono ai vari “puntatori” spaziali (trova
l’ingresso, entra, poi ne esce e descrive i panni stesi ad asciugare). Non sappiamo
come tutto ciò fosse rappresentato a livello di scenografia: si può immaginare una
“roccia” su cui Neottolemo sale, mentre Odisseo si tiene più in basso e defilato. Ma il
tentativo di ricostruire la scena “giusta” è vano, in questi casi (e anche un poco
grottesco).
La grotta di Filottete ha qualcosa in comune con la grotta del Ciclope.
Entrambi sono fisicamente ripugnanti (sia pure in modo diverso), vivono in una sorta
di tana, al di fuori di ogni consorzio civile, e il loro statuto è quasi ferino, con una
manualità ridotta al minimo. Anche Polifemo dorme su un rozzo giaciglio o in mezzo
alle sue bestie, ha attrezzi rudimentali (nel Ciclope di Euripide c’è lo stesso dettaglio
del bicchiere di legno). Inoltre sia nel dramma di Sofocle sia nel IX dell’Odissea è
applicato lo stesso modulo: il covile di una singolare (e temibile) creatura è
perlustrato da stranieri, che progressivamente “prendono le misure” del padrone di
casa, finché questi arriva.
Il discorso di Odisseo è sapientemente intessuto. Peraltro, secondo la norma
dell’ironia tragica, porta al fallimento: come nell’ambasceria ad Achille dell’Iliade il
capolavoro retorico del “consigliere frodolento” non ha efficacia. Pucci insiste
sull’elemento metateatrale: Odisseo istruisce Neottolemo, come un regista che affida
una parte a un attore e gli fa sentire come vanno pronunciate le battute, perché quello
poi le ripeta con l’intonazione giusta. Paduano, d’altra parte, sottolinea come già in
questa scena si delineano i caratteri dei due personaggi. Odisseo è il tipico Ulisse
tragico: cinico, pragmatico, teso all’obbiettivo. Ormai estraneo alla “civiltà della
vergogna”, si rapporta ad essa con atteggiamento da antropologo: ne cita i valori
(nobiltà, coraggio, dirittura morale, opposizione apparenza - realtà) come argomenti
da sfruttare ai propri fini. Odisseo parla a Neottolemo non da pedagogo (non vuole
essere suo “maestro”): non gli importa coltivarne le doti, farne emergere la natura,
potenziarne le qualità. Non cerca infatti di entrare in rapporto profondo con la
“persona” dell’altro; quel che gli preme, è toccarne le corde sensibili per catturarne il
consenso e la condiscendenza: è un atteggiamento da capo politico o militare.
Neottolemo è un giovane che non ha ancora misurato se stesso: dunque, è impettito e
affettato, ostenta un’immagine di sé, che è esito di una costruzione culturale,
l’applicazione di una ideologia. Proprio per questo, è in prima istanza pronto per
svolgere la parte assegnatagli. In seguito l’incontro sconvolgente con Filottete fa
scattare in lui una nuova consapevolezza, una ricerca di verità, che collide con la
lezione di Odisseo.
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Odisseo fa riferimento alla fase preparatoria della guerra: il giuramento fatto


dai principi greci a Tindaro, il suo tentativo di sottrarsi alla guerra (stornato da
Palamede). Neottolemo “viene dopo”: dunque può accostarsi con libertà a tutti, libero
da quella rete di compromessi e di rancori che avviluppa i Greci dopo anni di
convivenza. In questo senso, è vicino a Filottete. Il giudizio delle armi è un momento
che molto contribuisce al deterioramento dei rapporti. Odisseo qui lo inserisce nel suo
“copione” con leggerezza quasi frivola: non si capisce bene come siano andate
veramente le cose, ma l’amicizia che sembra regnare tra i due fa pensare che Odisseo
abbia ceduto le armi di Achille al ragazzo (questa, d’altra parte, è la versione di gran
parte delle fonti antiche).
Odisseo ricorda l’assoluta necessità, per i Greci, di poter contare sull’arco di
Eracle: nel corso del dramma, questo è un punto fisso, ma non si precisa mai se possa
bastare l’arma in se stessa o se anche la presenza di Filottete sia indispensabile. Su
questo c’è ambiguità: Odisseo al v. 14 dice di avere architettato un piano per
“prendere” l’arciere, mentre al v. 77 avverte Neottolemo che dovrà essere “ladro”
dell’arco fatale. Più avanti nella vicenda, quando l’arco è ormai nelle mani di
Neottolemo (cui Filottete stesso l’ha consegnato), Odisseo dichiara che Filottete può
anche starsene a Lemno, se vuole, dal momento che a Troia vi sono arcieri bravi
quanto lui. Peraltro, queste parole vanno intese nel contesto della scena: Odisseo sta
esercitando la massima pressione per convincere (quasi costringere) l’altro a cedere.
In linea di massima, la spedizione a Lemno sembra avere come obiettivo il recupero
della coppia uomo - arma: a seconda dei momenti, Odisseo è indotto a pensare ora
che si debba “prendere” l’uomo (con minacce, promesse, blandizie) per avere l’arma,
ora che il furto dell’arma sia il mezzo più spiccio per avere l’uomo. Proprio per avere
la massima libertà d’azione, Odisseo ha cura di non citare mai la profezia: gli è più
comodo esserne l’interprete assoluto. Paradossalmente, anche per Neottolemo la
coppia arco - arciere non deve essere scissa, ma le sue motivazioni sono diverse:
Neottolemo si preoccupa della persona di Filottete, ed è convinto che il senso
profondo dell’oracolo chieda ai Greci un atto di riparazione nei suoi confronti.
Pucci osserva che Odisseo, quando sottolinea l’ingiustizia del suo piano e
riconosce che esso è difficilmente compatibile con la nobile natura del figlio di
Achille, non è sincero: vuole solo essere condiscendente con Neottolemo, vuole
blandirlo per persuaderlo a eseguire i suoi ordini. Odisseo è una sorta di sofista che
usa le categorie della morale aristocratica per dare forza suasiva alle sue parole. Ma
subisce una doppia sconfitta: sul piano degli argomenti, perché Neottolemo dimostra,
alla prova dei fatti, di racchiudere davvero dentro di sé una nobile “natura”, ai cui
imperativi non può sottrarsi; sul piano degli eventi, perché i suoi calcoli si rivelano
errati e il progetto fallisce miseramente. Odisseo, cioè, è un furbo matricolato, che
alla fine troppo furbo non è.
Sofocle è un assoluto maestro nell’uso della sticomitia, che corrisponde bene a
una drammaturgia interessata a mettere in evidenza l’ethos dei personaggi, anche
attraverso forti polarizzazioni. In Sofocle la sticomitia si libera della severe e rigida
simmetria che è tipica di Eschilo, e si adatta con maggiore libertà allo sviluppo
dell’intreccio e della sceneggiatura. Per esempio, il ritmo monostico può essere
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interrotto da battute distiche o tristiche, per rimarcare i passaggi salienti o le cerniere


dialettiche. Sofocle introduce poi l’antilabé (cioè la spezzatura del verso in due
battute) e la sticomitia a tre. Euripide segna, rispetto a Sofocle, un ritorno alla
tradizione: nei suoi drammi lo schema monostico è di gran lunga prevalente.
Al v. 116 l’uso del verbo θηρατέα da parte di Neottolemo fa capire che il suo
atteggiamento sta cambiando: ai propositi di lotta diretta e aperta si sostituisce l’idea
della “caccia”, cioè di un percorso più tortuoso e mediato (come da tempo Odisseo gli
va suggerendo). Ermes e Atena sono le due divinità più vicine a Odisseo nell’epica:
Ermes lo libera da Calipso in Odissea V e lo soccorre nella terra di Circe (Odissea
X); Atena è la sia fedele consigliera. Fraenkel però ritiene che il v. 134 sia da
eliminare perché la combinazione di due epiteti di Atena così diversi (Nike e Polias)
è un monstrum che il pio Sofocle mai avrebbe potuto concepire.

Parodo - Struttura metrica: la parodo ha forma epirrematica, perché alterna strofe


liriche, cantate dal Coro, e parti recitative in anapesti, pronunciate da Neottolemo
(con l’unica eccezione del v. 161, detto dal Corifeo). Le parti anapestiche sono in
dimetri, intercalati da monometri: ciascuna sequenza è chiusa da una clausola
catalettica (dimetro catalettico). Si distinguono tre momenti: vv. 135-168 (prima
coppia strofica, con coppia di recitativi anapestici), in cui il Coro chiede che cosa
deve fare; vv. 169-200 (seconda coppia strofica, seguita da periodo anapestico), in cui
i coreuti commiserano Filottete; vv. 201-218 (terza coppia strofica), in cui il Coro
annuncia l’entrata in scena di Filottete. Pucci osserva che Sofocle fin dalla Parodo
attribuisce al Coro le due funzioni che avrà per tutto il dramma: sostenere l’azione di
Neottolemo, corroborandone le bugie, e compiangere Filottete (quindi, un’alternanza
di consonanza e dissonanza rispetto al piano dell’azione).

Neottolemo si dice certo che le sofferenze di Filottete rientrino in un piano


divino, inteso ad assicurare la rovina di Troia e il trionfo dei Greci. Pucci è molto
scosso da queste parole, e si chiede come interpretarle: oscilla tra una lettura
“psicologica” (Neottolemo parla con leggerezza adolescenziale, per mondarsi la
coscienza da quanto ha accettato di fare, cioè mentire a Filottete e ingannarlo) e una
lettura “teologica” (Sofocle cioè metterebbe in bocca al personaggio la sua
concezione provvidenziale della storia umana); confessa però di trovare
agghiacciante una simile teologia, che attribuisce agli dei un disegno assurdo e
crudele, cioè una immeritata prigionia inflitta a Filottete al solo scopo di tenerlo di
riserva per dieci anni. Peraltro, ogni teodicea è “assurda”, in termini umani, poiché il
male del mondo è sempre - in termini umani - ingiustificato. Non c’è dubbio che
Sofocle creda in una provvidenza divina, e la vicenda di Filottete è concepita dal
poeta appunto in questa prospettiva. Peraltro, la battuta di Neottolemo è solo il primo
avvio di una riflessione intesa a “caricare di senso” la lunga sofferenza del
protagonista; le parole del ragazzo non vanno prese alla lettera, semplicemente
aprono la possibilità che l’intera vicenda si inscriva in un disegno più vasto.
I vv. 219-675 costituiscono il I episodio: lungo dialogo tra Filottete e
Neottolemo, il quale esegue il piano suggeritogli da Odisseo; Filottete - che all’inizio
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ha raccontato la sua storia e ha spiegato quanto sia stata triste la prigionia nell’isola
deserta - crede alle menzogne del ragazzo, si convince che l’altro sia come lui una
vittima di Odisseo e degli Atridi e concepisce una forte simpatia. Lo supplica di
portarlo in patria, e Neottolemo acconsente. A questo punto arriva il falso mercante,
che porta le novità: Neottolemo è ricercato, e anche Filottete sta per ricevere la visita
di Odisseo, incaricato di riportarlo a Troia (secondo la profezia di Eleno). Filottete
insiste perché si parta al più presto; Neottolemo si dice d’accordo, e i due entrano
nella grotta.
La prima battuta di Filottete ricorda - almeno esternamente - le prime parole
che Polifemo rivolge a Odisseo e ai compagni in Odissea IX 252-55:

Forse per qualche commercio, o andate errando così, senza meta


sul mare, come i predoni che errano
giocando la vita, danno agli altri portando?

D’altra parte, già si è visto che l’episodio del Ciclope è un modello letterario attivo in
questa prima parte del dramma: si è caricato un meccanismo d’attesa, che prelude
all’irruzione in scena di un mostro, di un uomo selvaggio orrido e pauroso. Sofocle
gioca abilmente con le aspettative dell’uditorio: quando Filottete prende a parlare, le
primissime parole sembrano confermare la sua assimilazione a Polifemo. Ma ben
presto il personaggio si rivela ben diverso: l’aspetto selvaggio nasconde una umanità
profonda, che si traduce in un desiderio incoercibile di contatto, di homilìa, di
amicizia. Pucci ha ragione quando osserva che la reazione di Filottete alle prime
parole greche pronunciate da Neottolemo è commovente. La segregazione disumana
che l’eroe ha dovuto subire per tanti anni, fa sì che il suono della lingua materna gli
appaia dolcissimo, un balsamo per le ferite dell’anima. E questo, per contrasto,
evidenza il cinismo con il quale Odisseo e Neottolemo - parlando la medesima lingua
- hanno ordito una congiura ai danni dell’infermo. Filottete per tutto l’arco della
vicenda crede con fede ingenua e totale nella “verità” della lingua: la parola, di cui è
stato così a lungo privato, è per lui medium di condivisione, di conforto, di
interscambio umano. Per i suoi carnefici il linguaggio è invece uno strumento
infinitamente più ambiguo: è un sòphisma infido, malizioso, potenzialmente
distruttivo. L’intera drammaturgia di Sofocle è giocata sull’opposizione verità /
apparenza e sul tema della ricerca del vero: l’eroe sofocleo è appassionato alla verità,
anela ad essa a prezzo di ogni sacrificio; e si oppone a chi vuole spegnere questa sua
ricerca, estinguendola nel comodo abbandono a un’apparenza condivisa. Nel
Filottete, peraltro, l’apparenza è particolarmente negativa, perché non è determinata
dal contesto politico e familiare, quale si è venuto a creare per un concorso
incontrollabile di circostanze, ma è il prodotto consapevole della malizia umana.
La prima risposta di Neottolemo (“siamo greci”) e la successiva domanda di
Filottete (“per quale ragione sei venuto? quale vento e quale rotta ti hanno portato
qui?”) ancora giocano sul modello odissiaco. Ma l’emozione che traspare dalle parole
di Filottete è naturalmente ben diversa dalla sorda minaccia insita nelle domande di
Polifemo. Ai vv. 239-41 Neottolemo dice il suo nome, la sua patria e il nome di suo
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padre, attenendosi scrupolosamente alle istruzioni di Odisseo (vv. 56-57 “Quando ti


chiederà chi sei e da dove vieni, digli pure che sei il figlio di Achille, non
nasconderglielo”).
Filottete è felice di sapere che Neottolemo è figlio di Achille. Achille, eroe
senza macchia e senza paura, gli corrisponde, perché rappresenta lo stesso tipo di
eroe “ingenuo” pronto a pagare di persona. Inoltre, la saga stabilisce un legame
diretto tra i due: Filottete è ferito mentre si adopera per un rito che dovrebbe attenuare
l’ira di Apollo per l’uccisione di Tenes ad opera di Achille.
Neottolemo finge di non conoscere il suo interlocutore. Questa è una decisione
sua, non un suggerimento di Odisseo, e ha lo scopo di mostrarsi a Filottete come una
figura neutra, estranea a ogni questione; quindi, è una scelta funzionale al piano
astuto, che garantisce agli occhi di Filottete l’assenza nel giovane di ogni pregiudizio
e gli lascia l’illusione - gratificante - di fornirgli di prima mano ogni informazione. La
prima reazione di Filottete è però di delusione: il fatto che Neottolemo, il primo vero
interlocutore dopo anni di solitudine, mostri di non conoscerlo, acuisce in lui il senso
di abbandono, la paura di essere stato davvero dimenticato da tutti. Come osserva
Paduano, si sommano due elementi: l’etica omerica della fama (l’eroe omerico esiste
nella misura in cui gli altri parlano di lui e delle sue imprese) ma anche un senso
smarrito della propria sopravvivenza nel mondo. Sperduto per anni nella propria
solitudine, Filottete ha bisogno di sentirsi confermare la sua identità, la sua stessa
esistenza: Neottolemo, disconoscendolo, gli nega questo conforto.
Filottete soffre per la malattia e l’abbandono, ma soffre anche al pensiero che i
suoi nemici si prendano gioco di lui. Questo è un tratto arcaico, riconducibile alla
“civiltà di vergogna” omerica. Archiloco nell’Epodo di Colonia spiega alla ragazza
che non vuole sposare Neobule, perché se lo facesse si coprirebbe di ridicolo (vv. 33-
34 “Con una moglie così sarò oggetto di riso per i vicini”; per la verità qui si parla di
vicini, non di nemici). Anche nell’Aiace il protagonista freme al pensiero che Odisseo
stia ridendo di lui (v. 382). La massima felicità, secondo la Weltanschauung
aristocratica, è beneficare gli amici (“farli ridere”) e danneggiare i nemici (“farli
piangere”); far ridere i nemici è evidentemente il risultato opposto. Quindi il massimo
dell’infelicità.
Il racconto che Filottete fa del suo abbandono (vv. 264-284) è interessante,
anche per come è strutturata la narrazione. Come Pucci osserva, si torna tre volte
sulla stessa idea: subito dall’incipit si dice “quei farabutti mi hanno lasciato qui, solo
e malato”; poi la scena dell’abbandono viene ripercorsa, con dovizia di particolari,
dal punto di vista degli Achei, che colgono il momento favorevole e se ne vanno, ben
contenti di potersi liberare del fardello; poi di nuovo il narrante torna sul quel
momento drammatico, questa volta nella sua personale prospettiva, e quindi
rivivendone il dolore cocente.
Gli Achei sono “contenti” di potersi disfare di Filottete (v. 271). I
commentatori si chiedono come siano andati esattamente i fatti. Filottete, ferito,
potrebbe essere arrivato a Troia con gli altri; una volta presa la decisione di
liberarsene, gli Atridi potrebbero averlo condotto a Lemno, con una spedizione di
poche navi. Questa ricostruzione tiene conto di una verosimiglianza geografica:
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l’isoletta di Crise è vicina a Tenedo, quindi vicina alla Troade, mentre Lemno è
decisamente più a ovest. Il testo peraltro sembra suggerire un’altra versione: Filottete
non arriva a Troia, perché dopo la sosta a Crise la flotta approda direttamente a
Lemno, e lì lo abbandona. Certo, si tratta di una rotta inverosimile, perché non tiene
conto della reale posizione di Lemno; ma la Lemno di Sofocle è quasi un luogo
dell’immaginario: quest’isola deserta e “lontana” è così straniata dalla Lemno reale
che può essere piazzata là dove è più utile alle ragioni dell’arte. La scena
dell’abbandono ha un modello letterario, ancora una volta odissiaco: l’arrivo di
Odisseo a Itaca nel canto XIII. Quando la nave feace raggiunge il porto di Itaca,
Odisseo dorme profondamente. I marinai lo trasportano sulla spiaggia senza
svegliarlo, gli depongono accanto i beni preziosi donatigli da Alcinoo e dagli altri
principi, e riprendono il mare. Al suo risveglio, Odisseo non riconosce la patria e
teme che i Feaci l’abbiano ingannato, abbandonandolo su un’isola sperduta: reagisce
con rabbia e disperazione, lanciando anche maledizioni a quelli che considera dei
traditori (vv. 128-38). Nella scena dell’Odissea Odisseo dorme profondamente sulla
spiaggia; il sonno di Filottete, che è modellato su quello di Odisseo, ha come sfondo
il mare, anche se è collocato nella grotta, perché quella sarà poi la sua casa.
I vv. 285-299 contengono il racconto del ménage faticosamente elaborato da
Filottete per sopravvivere, pur nelle condizioni disperate in cui si è venuto a trovare. I
commentatori hanno messo in rapporto questi versi con altri passi tragici in cui si
parla dell’umanità primitiva e della sua lotta per la sopravvivenza. In effetti, la
cultura greca della seconda metà del V secolo elabora un modello che descrive la
storia dell’umanità in termini di “progresso” tecnologico; il modello arcaico di una
“decadenza” rispetto a una remota - e felice - età dell’oro (Esiodo, mito delle cinque
età) si indebolisce, e viene sostituito da una teoria evoluzionistica. Per la verità, l’idea
del progresso sembra un’invenzione di Senofane: nel fr. 18 D-K (= 20 G-P) si dice
“Non tutte le cose sono state mostrate agli uomini dagli dèi; piuttosto, quando fu il
tempo, gli uomini seppero migliorarsi grazie alla ricerca costante”. Anche l’Inno
Omerico a Efesto (il numero 20 della raccolta, di datazione incerta ma di ambiente
attico) elabora concetti analoghi: vv. 3-7 “Prima essi vivevano sui monti, dentro
caverne, come le fiere; ma ora, grazie agli insegnamenti di Efesto, l’artefice insigne,
conducono una vita facile e serena dentro le loro case, dal principio alla fine
dell’anno”. L’evoluzionismo greco è però sviluppato dalla sofistica: ci sono
significativi frammenti di Anassagora, per esempio. E poi c’è la tragedia attica. I testi
più significativi sono la rhesis di Prometeo nel Prometeo incatenato, il cosiddetto
“inno all’uomo” dell’Antigone, e la rhesis di Teseo nelle Supplici. Nel Prometeo il
protagonista spiega al Coro di avere insegnato lui agli uomini primitivi l’uso delle
arti, favorendone la crescita in consapevolezza e civiltà (“Essi avevano occhi e non
vedevano, avevano orecchie e non udivano, somigliavano a immagini di sogno […]
ignoravano le case di mattoni, le opere del legno; vivevano sotterra come labili
formiche, in grotte fonde, senza sole; ignari dei certi segni dell’inverno o della
primavera che fioriva o dell’estate che portava i frutti, operavano sempre e non
sapevano, finché indicai come sottilmente si conoscono il sorgere e il calare degli
astri”, vv. 447-58; nel seguito della rhesis Prometo elenca l’allevamento del
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bestiame, la marineria, la medicina, la mantica, la metallurgia). Nell’Antigone il


primo episodio si conclude con l’ordine rivolto da Creonte alla sentinella di scoprire
ad ogni costo il colpevole (prima, Creonte ha respinto l’ipotesi del Coro che possa
trattarsi di un’azione divina); il Coro intona allora un canto dove è celebrata la
potenza dell’uomo, che sa attraversare il mare su navi, arare la terra con la forza degli
animali aggiogati all’aratro, sa cacciare pescare, sa ripararsi dal freddo e dalla
pioggia, sa curare le malattie, sa parlare e pensare (vi sono stretti punti di contatto con
il passo suddetto del Prometeo, perché in entrambi i testi c’è una sorta di klimax
ascendente, e l’elenco delle technai coincide quasi completamente). Nei vv. 195-213
delle Supplici Teseo spiega quale sia la sua opinione circa la condizione dell’uomo
nel mondo (Teseo sta rispondendo ad Adrasto, che gli ha chiesto aiuto per costringere
i Tebani a restituire i corpi degli Argivi caduti); Teseo esordisce ricordando
l’opinione tradizionale, secondo la quale i mali prevalgono sui beni, per le creature
umane, e assume una posizione opposta, ricordando gli enormi progressi segnati
dall’uomo nel suo cammino (l’intelligenza, il linguaggio, il nutrimento, la costruzione
di case, la navigazione, la mantica).
Peraltro, ha ragione Pucci nel rilevare che Sofocle qui va in una direzione
opposta: la sopravvivenza di Filottete è la lotta faticosa e monotona (aliena da ogni
progresso) di chi strappa a fatica alla natura il minimo indispensabile per tirare
avanti. Filottete non è un Robinson Crusoe, non è un homo faber: al contrario, è un
uomo retrocesso a condizione di fiera, che striscia sul terreno e arranca penosamente,
spezzando la legna con le mani; l’unico suo strumento è l’arco, che però non è
prodotto del suo ingegno fabbrile, ma magico dono del dio. Una civilizzazione a
rovescio, dunque: tanto più che manca la medicina, anzi la ferita inguaribile è il
segno di una pena di vivere senza rimedio. Filottete non nutre speranze: il tempo non
gli si apre davanti con promesse, ma è congelato in un presente eterno (come per
Prometeo, cui ogni giorno l’aquila rode il fegato). Un chiaro segnale è la grotta:
Filottete vive in quel “covile di pietra” che gli uomini progrediti hanno abbandonato,
per trasferirsi in più comode abitazioni.
Pucci osserva che l’arco non è percepito qui come attrezzo tecnologico, non è
lo strumento dell’ingegno umano, proiettato a dominare la natura: è piuttosto un
talismano, un oggetto magico che “produce” da sé la preda. C’è una netta differenza
con l’immaginario sviluppato da Brecht in Gli Orazi e i Curiazi, dove la lancia
dell’oplita si adatta a sette usi diversi (bastone per la salita, ponte per il crepaccio,
asta per il salto, barra equilibratrice, leva per spostare massi, pertica per manovrare la
zattera, arma per colpire il nemico: “molte cose sono in una cosa”); Filottete sfrutta il
suo arco semplicemente lasciando che eserciti la sua azione. Ci sono punti di contatto
con la rhesis del Ciclope, dove Polifemo traccia un quadro della sua vita e presenta la
sua grotta come un luogo di serenità e beatitudine: che sia una grotta, cioè una tana
d’animali, a “dare tutto” è il segno di una ferinità, di una primordialità (che in
Polifemo corrisponde alla sua natura subumana, in Filottete è una recessione imposta
dalla disgrazia).
I vv. 300-316 sono l’ultima sezione della lunga battuta: Filottete chiude il
cerchio, spiegando che a Lemno nessuno arriva mai, se non per caso; di fatto, i pochi
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che vi sono approdati hanno rifiutato di accoglierlo sulla loro nave e riportarlo in
patria (si sono comportati come gli Atridi, lasciandogli un po’ di cibo e qualche
straccio, e affrettandosi a ripartire). Implicitamente, Filottete chiede a Neottolemo che
cosa è venuto a fare, e che intenzioni ha nei suoi confronti.
Una suggestione odissiaca si può cogliere nel v. 301. Nessuno viene volentieri
a Lemno, come - nelle parole di Ermes - nessuno affronterebbe mai di sua volontà il
lungo viaggio per Ogigia: “Zeus m’ha costretto a venire quaggiù, contro voglia. E chi
mai volentieri traverserebbe tant’acqua marina, infinita? Non è neppura evicina
qualche città di mortali, che fanno offerte ai numi, elette ecatombi” (Odissea V 99-
102). In effetti l’Odisseo di Ogigia è un altro “doppio” di Filottete: vive anche lui da
anni segregato in un’isola remota, dentro una grotta; ed entrambi sono attesi da un
destino che li riconsegna alla gloria.
Neottolemo arma la trappola presentandosi come vittima, a sua volta, degli
Atridi e di Odisseo: poiché ha ragione di odiarli, è spiritualmente vicino a Filottete,
quindi pronto a fare amicizia con lui. Fraenkel osserva che l’Odisseo di Euripide
applica la stessa tattica (cfr. Dione di Prusa 59, 8 “Ma da quelli ho sofferto talmente
che devo esserti amico, e nemico loro!”) e ne deduce che era un topos della trama di
ogni Filottete destinato alla scena tragica. Ai vv. 324-26 il ragazzo esagera un po’:
quest’altro sbuffo d’ira è molto goffo, e rasenta il ridicolo. Sciro nel V secolo è
un’isoletta quasi insignificante: nell’Andromaca di Euripide Ermione, quando vuole
marcare la sua superiorità sul marito Neottolemo, gli rinfaccia appunto l’abissale
sproporzione di forze tra Sparta, sua patria, e Sciro (vv. 209-10). Che Micene e
Sparta debbano temere le armi di Sciro, è una vanteria sguaiata e quasi grottesca:
Neottolemo recita qui la sua parte con troppa foga.
Nell’Iliade (XXII 359-60) Ettore morente avverte Achille che anche per lui è
vicina la morte, presso le porte Scee, per mano di Paride e di Apollo; e anche il
cavallo Xanto in XIX 416-17 fa riferimento a un doppio uccisore, un dio e un uomo.
Peraltro, in XXI 278 Achille riferisce la profezia di sua madre, secondo la quale gli è
destino morire per le rapide frecce di Apollo. In realtà le due versioni non sono
contrapposte, se si considera che in molte fonti la freccia fatale è scoccata da Paride e
guidata da Apollo. Qui la morte di Achille è attribuita al solo Apollo, perché la gloria
dell’uccisore va a vantaggio della gloria dell’ucciso.
Il racconto di Neottolemo si estende per i vv. 343-90. Sofocle si stacca dalla
versione seguita da Lesche di Mitilene nella Piccola Iliade, secondo la quale Odisseo
e Diomede prelevano da Lemno Filottete prima che Neottolemo arrivi a Troia da
Sciro. Nel racconto, ci sono parti evidentemente false, che sono lo sviluppo dei
suggerimenti dati da Odisseo nel prologo (lo scontro con gli Atridi e con Odisseo,
l’alterco violento, la decisione di tornarsene in patria); ma ci sono anche notizie che
possono corrispondere a verità, nel senso che Neottolemo non avrebbe motivo di
mentire su questi punti (la venuta a Sciro di Odisseo e Fenice, l’amichevole
accoglienza in Troade). Certo, la narrazione nel suo complesso è bugiarda: è una rete
di menzogna, tesa per carpire la buona fede di Filottete. Quindi, è molto difficle
sceverare il vero dal falso, e non è neanche molto sensato tentarne una mappatura
precisa. Entro un discorso intenzionalmente menzognero, è come se la bugia
97

permeasse di sé l’intero tessuto verbale. Pucci però propone un criterio di


valutazione, basato sul chiaroscuro retorico: lo stile infatti è diverso nelle parti in cui
Neottolemo lascia filtrare il suo vissuto (vv. 344-51 e 356-60) e le parti in cui
interpreta la finzione assegnatagli da Odisseo (vv. 361-81). Negli episodi “vissuti” il
racconto fluisce neutro, in discorso indiretto, mentre gli episodi inventati cercano una
patina di verità nella vivacità del discorso diretto, in una verbalità mossa e irregolare.
I commentatori osservano che questa è anche una caratteristica del racconto
menzognero fatto dal Pedagogo nell’Elettra: il narratore, nello sforzo di dare verità a
ciò che in realtà è un castello di bugie, addensa dettagli, entra nei particolari più
minuti, va in cerca di elementi patetici. Paduano vede nel discorso menzognero di
Neottolemo un “meccanismo di validazione”, che dà corpo a una realtà alternativa,
capace di sovrapporsi gradualmente alla realtà oggettiva. Ciò che non è vero, avrebbe
però potuto benissimo esserlo (anzi, sembra più verosimile di ciò è accaduto); quindi,
anche se Neottolemo è convinto di fingere fino in fondo, la storia che “indossa” - così
credibile - gli lavora dentro, tanto che nel finale del dramma non smentisce Filottete
quando questi gli ricorda (vv. 1363-65) l’affronto fattogli dagli Atridi. Come a dire
che il falso nell’esperienza è diventato vero, dentro di lui.
Che il figlio sia simile in tutto al padre, anche fisicamente, è un topos
dell’epica, e corrisponde all’ideale aristocratico della contonuità di sangue. Un
esempio famoso in Odissea IV 141-150 “Mai, vi dico, ho visto qualcuno così
somigliante, né uomo né donna - stupore mi prende a guardarlo - come costui sembra
il figlio di Odisseo magnanimo, Telemaco […] Adesso penso anch’io, donna, come
tu credi: così aveva i piedi, così le mani anche lui, e il muover degli occhi, e la testa, e
sopra i capelli”.
La difesa del corpo di Achille è tradizionalmente un merito di Aiace (il topos è
diffuso anche nella pittura vascolare); peraltro, Omero stesso ricorda la
collaborazione data da Odisseo (in Odissea V 306-310 Odisseo, mentre la zattera è
trascinata dalla tempesta, teme di dover morire in mare e dice: “Tre volte beati i
Greci che morirono nell’ampia Troade, combattendo per gli Atridi. Così fossi morto
anch’io, il giorno che in folla i Troiani mi incalzavano con le lance di bronzo intorno
al morto Pelide”).

Invece di un vero e proprio canto lirico, il Coro esegue una breve strofe in ritmo
giambo-docmiaco. Nella strofe il Coro avalla la bugia di Neottolemo, con una forte
amplificazione sentimentale: il canto è rivolto a Filottete, un uomo abbrutito dai mali,
per il quale sembrano necessarie tonalità intense. I coreuti levano le loro invocazioni
alla Dea Madre, identificata in Grecia con Cibele, divinità frigia, e con Rea, madre di
Zeus.
La preghiera dei coreuti ha una sua coerenza: i fatti di Troade sono messi in
rapporto con il culto frigio e lidio di Cibele. Peraltro, ad Atene il culto della Madre
degli Dei venne introdotto ufficialmente - a quanto pare - nell’ultimo quarto del V
secolo, quando il cosiddetto “Vecchio Buleutérion” dell’agorà fu riadattato, in modo
da ospitare insieme l’archivio di Stato e un tempio della Madre, che potesse anche
servire da telestérion (sala per cerimonie misteriche). La statua di culto, destinata a
98

essere venerata fino alla tarda antichità, era opera di Fidia o forse del suo allievo
prediletto Agoracrito. E in effetti le fonti letterarie testimoniano un crescente
interesse per la Madre degli Dei a partire dal 428 (Ippolito di Euripide): si tratta di
drammi di Aristofane, Sofocle ed Euripide, databili tra 415 e 406. C’è un importante
studio di G. Cerri (La Madre degli Dei nell’Elena di Euripide: tragedia e rituale,
“QS” pp. 155-195), in cui - partendo da un corale dell’Elena in cui alla Madre degli
Dei è attribuita una vicenda molto simile a quella tradizionalmente associata a
Demetra (ricerca affannosa della figlia perduta) - lo studioso ipotizza che
l’introduzione del culto della Madre ad Atene si sia tradotto in una audace operazione
di politica religiosa, con importanti novità anche “teologiche” [“… il secondo stasimo
dell’Elena, tragedia rappresentata nel 412 a.C., acquista automaticamente il carattere
e la funzione del manifesto eatrale di un culto nuovo e controverso, si configura come
intervento scenico nel vivo di una polemica appassionata …”]. Ossia, la Madre degli
Dei ad Atene sarebbe diventata una divinità misterica e salvifica molto vicina - nelle
cerimonie e nella percezione dei fedeli - alla Demetra eleusina. Cerri sottolinea che il
telestérion dell’agorà è uno dei pochissimi edifici sacri di età arcaica e classica che si
affianchi al telestérion di Eleusi e ne imiti struttura e funzioni (l’unico altro caso è il
santuario dei Cabiri a Samotracia). Il senso dell’operazione può essere discusso: ma è
molto difficile pensare che l’assimilazione della Madre a Demetra sia da intendere in
chiave anti-elusina. Al contrario, è più probabile che si inquadri in quel
rafforzamento della religiosità eleusina che dopo l’inizio della guerra del
Peloponneso va a sostenere l’identità ateniese.
Il Pattolo è un fiume ricco di sabbie aurifere: sulle sue rive sorgeva Sardi,
centro del culto di Cibele (come i Greci chiamavano la Grande Madre frigia, o Madre
Montana o Madre degli Dei). L’inno omerico alla Madre degli Dei (numero 14 della
raccolta) la saluta come la dea “cui piacciono il grido dei crotali e dei timpani, lo
strepito degli auli, l’urlo dei lupi e dei torvi leoni, i monti echeggianti e le valli
coperte di boschi”. È una divinità legata alla sfera della natura selvaggia, alle forze
della generazione, ai rituali orgiastici. Ha punti di contatto con la Signora degli
Animali cretese, con Demetra (alla quale è avvicinata nel culto, benché il ruolo
civilizzatore di Demetra Thesmophoros sia un netto elemento spaiante), con
Artemide. I coreuti la rappresentano “seduta sui leoni”: ciò corrisponde
all’iconografia consueta, seconda la quale la dea è circondata da leoni, che tirano il
suo carro oppure sono accucciati ai suoi piedi oppure affiancano simmetricamente il
trono su cui è assisa.
I vv. 403-452 contengono un nuovo dialogo tra Neottolemo e Filottete, dopo
che i due si sono reciprocamente raccontati le loro vicende e hanno trovato un punto
di contatto nella comune avversione per gli Atridi e per Odisseo. Il tema è il destino
degli eroi greci impegnati nell’impresa troiana: rispondendo alle domande di
Filottete, Neottolemo traccia una sorta di catalogo dei caduti (e dei sopravvissuti),
che attinge ai poemi omerici e ai poemi del ciclo. Filottete reagisce alle notizie fornite
dall’interlocutore con commenti, che esprimono la sua simpatia o antipatia. La
simpatia si rivolge verso Aiace, Nestore, Antiloco: tutti costoro sono stati colpiti da
sventure, mentre prosperano, accanto a Odisseo, Diomede e Tersite. Si stabilisce così
99

un’antitesi tra giustizia e felicità, che viene proposta in prima battuta da Neottolemo
(vv. 435-37) e poi teorizzata da Filottete, che ne trae anche inquietanti consequenze
in termini di scetticismo religioso (gli dei sono ingiusti, perché proteggono i malvagi
e perseguitano i buoni).
La scena ha una sua suggestione letteraria, perché cita e “corregge”
ampiamente i testi epici (quindi, gioca con ciò che il pubblico sa o crede di sapere,
ora confermando ora deludendo). Sul piano drammatico, serve a stringere ancor più il
rapporto di simpatia e fiducia che si è venuto a creare tra i due personaggi, ed è
dunque funzionale al piano astuto. Peraltro, non ha torto Paduano nell’osservare che
queste battute finiscono per sortire anche un altro effetto, non previsto. Neottolemo,
adeguandosi in tutto all’intenzione di Odisseo, si è accostato a Filottete come a un
reietto, a un relitto umano che non fa più parte del consorzio degli Achei: gli è
sembrato ovvio (e facile) sottoporlo a ogni sorta di costrizione, per il bene
dell’esercito, cioè della collettività eroica. Ora invece, con le sue domande e i suoi
commenti, Filottete recupera il suo posto dentro quella collettività eroica, di cui viene
predicata la vocazione all’infelicità, ma viene anche riaffermato con orgoglio il
valore: Neottolemo non può non condividere - e sinceramente - i sentimenti del suo
interlocutore. Pucci cita, oltre al fr. 1 dei Canti Cipri, il fr. 204, 93-106 M-W (Eoe) di
Esiodo:

Ma prima l’ebbe in sposa Menelao caro ad Ares.


Ed Elena generò nel palazzo Ermione belle caviglie,
prodigiosa. Ma gli dei divisero i cuori
in contesa; Zeus infatti, tuono profondo, meditava
un progetto grandioso, agitare tumulti
sulla terra infinita. Annientare voleva
la stirpe dei mortali, col pretesto di estinguere
la vita dei semidei, perché i figli degli dei
non si unissero ai mortali, contemplando il destino,
ma i beati, come sempre in passato,
avessero vita e costumi lontano dagli uomini;
mentre agli eroi nati da immortali e da umani
Zeus scagliò contro dolori e dolori,
e cancellò quella stirpe gloriosa.

Da questi testi si ricostruisce un piano concepito da Zeus, che avrebbe progettato la


guerra di Troia per distruggere la stirpe degli eroi. E anche in Odissea XI 558-60 si
parla dell’odio di Zeus per l’esercito acheo. Peraltro, non è il caso di esagerare: le
parole desolate di Filottete sono lo sfogo di un uomo che si sente ingiustamente
punito dal destino e che cerca conforto accusando e maledicendo gli dei. Sarebbe,
credo, sbagliato cercarvi le tracce di una cosmogonia negativa o di uno scetticismo
teologico. D’altra parte, Filottete riceve una chiara risposta da Eracle nella scena
finale.
100

Al v. 403 il “contrassegno” è ciascuna delle due parti di una moneta o di un


coccio o di un altro oggetto che due amici o due ospiti o i due contraenti di un
accordo spezzano e si spartiscono, per potersi ritrovare e riconoscere. In questo caso,
i due fanno combaciare i pezzi di un identico dolore, inflitto dai comuni nemici.
Pucci trova che la domanda di Filottete (“Come poté Aiace permettere tutto questo?”)
sia irrealistica, dal momento che né Aiace né gli altri erano intervenuti a sua difesa,
quando si decise di abbandonarlo a Lemno. In realtà, è attivo un modello odissiaco:
in Odissea III 249-252 Telemaco chiede a Nestore come Egisto abbia potuto uccidere
Agamennone (“E Menalao dov’era? Che morte gli macchinò Egisto ingannatore, da
uccidere uno tanto più forte? O forse non era in Argo d’Acaia, ma altrove errava tra
gli uomini e quello, imbaldanzito, l’uccise?”); e Nestore risponde che certo, se
Menelao avesse trovato Egisto vivo nel palazzo, l’avrebbe ucciso senza pietà.
Una versione del mito, già antica, fa di Odisseo il figlio di Sisifo. Sisifo, figlio
di Eolo e signore di Efira (Corinto), in Iliade VI 153 è detto il più furbo degli uomini
(in Odissea XI 593-600 figura tra i grandi peccatori puniti nell’Ade con pene
esemplari: deve rotolare su un pendio una grande pietra, che poi di nuovo piomba
giù). La pittoresca storia dell’astuta ribalderia con cui mise in scacco persino la
morte, era oggetto di tragedie perdute dei tre tragici: prima di morire, Sisifo ordinò
alla moglie di non tributargli onori funebri; sceso all’Ade, ottenne di poter tornare
sulla terra - promettendo che si sarebbe trattenuto là solo per breve tempo - per punire
la donna e provvedere di persona ai propri funerali, ma una volta tornato non
mantenne la promessa e visse fino a tarda età (e questo sarebbe il motivo della sua
punizione terribile, che Omero peraltro sottace). Le nostre fonti sono soprattutto scoli
ad Omero. Nel Giudizio delle armi di Eschilo e nel Simposio di Sofocle la proverbiale
astuzia di Odisseo era spiegata con la sua nascita: Autolico mise sua figlia Anticlea
nel letto di Sisifo e la diede in sposa a Laerte quando era già incinta di Odisseo
(quindi Laerte “comprò” una sposa che era già stata di un altro; questo spiega la
sprezzante definizione di Odisseo data da Filottete: “il figlio di Sisifo affibbiato a
Laerte”). Anche nel Ciclope di Euripide Sileno saluta Odisseo (v. 104) come “figlio
di Sisifo, lingua tagliente”; e il coro dell’Aiace al v. 189 lo definisce “un discendente
della funesta stirpe di Sisifo”. Una tragedia intitolata Sisifo compose anche Crizia, lo
zio di Platone: ne abbiamo un lungo frammento, che spiega in termini “illuministici”
l’umana credenza negli dei. Odisseo, avendo nelle sue vene il sangue di un Sisifo (e
di un Autolico, illustre mentitore e spergiuro), non può essere che un poco di buono.
Antiloco è il giovane figlio di Nestore che muore nella fase finale della guerra
di Troia. Nell’Iliade viene menzionato varie volte, in diverse fasi della battaglia; ma
la scena in cui svolge una parte più significativa è la gara dei carri, nel XXIII canto.
Vi prendono parte Eumelo, Diomede, Menelao, Merione e Antiloco, al quale il padre
dà affettuosi e trepidi consigli prima della partenza: gli ricorda la lentezza dei suoi
cavalli, e quindi la necessità per lui, se vuole ottenere il premio, di supplire con la
destrezza e l’abilità (métis è la parola usata). Alla fine Antiloco si piazza secondo (il
primo è Diomede), dopo avere superato con una manovra spericolata Menelao. Al
momento della premiazione ha luogo un siparietto: Achille dichiara di voler dare a
Eumelo, arrivato ultimo, un premio di consolazione [il poveretto è stato danneggiato
101

da Atena, che gli ha spezzato il giogo], e cioè la cavalla inizialmente proposta come
premio per il secondo classificato; Antiloco protesta, dice di non voler rinunciare al
suo premio [Eumelo è stato sfortunato, ma la colpa è sua: “doveva pregare gli dèi, e
non sarebbe arrivato ultimo”]. Achille sorride, perché prova molta simpatia per il
giovane, che è un suo caro amico: risolve il problema dando a Eumelo un altro
oggetto, una preziosa corazza tolta a un nemico vinto. Però c’è un’ulteriore
complicazione: Menelao protesta vivacemente, dicendo che Antiloco è stato scorretto
e lo sfida a giurare che così non è stato. Antiloco allora riconosce il suo torto, lo
attribuisce alla sventatezza della sua giovane età, si dice pronto a dare la cavalla a
Menelao e ad aggiungere anche un indennizzo maggiore, purché l’altro receda
dall’ira e si riappacifichi con lui. Il cuore di Menelao si scioglie: l’Atride prontamente
concede il suo perdono e lascia la cavalla ad Antiloco (“nessun altro tra gli Achei mi
avrebbe persuaso: ma tu, insieme a tuo padre, hai molto faticato e sofferto per me”).
Questa scena del XXIII canto, pur essendo per certi versi “anomala” (non fa
parte della guerra in senso stretto), ha grande importanza per la “fissazione” del
personaggio: Antiloco è il giovane generoso e impulsivo, cuore limpido, a cui tutti i
compagni vogliono bene. Muore per mano di Memnone [era un episodio della
Etiopide di Arctino di Mileto]. Paride colpisce uno dei cavalli di Nestore, che si viene
a trovare in grave pericolo, perché viene attaccato da Memnone e non ha la possibilità
di fuggire. Il vecchio invoca il giovane figlio, che accorre per proteggere il padre e lo
salva a prezzo della vita (Pindaro, Pitica VI). Nel XXIV dell’Odissea l’anima di
Agamennone rievoca il funerale di Achille e ricorda che le sue ceneri furono versate
in un’anfora d’oro, insieme a quelle di Patroclo, e accanto quelle di Antiloco (che
Achille “sommamente onorava tra tutti i compagni, dopo la morte di Patroclo”, vv.
78-79). Nella scena della Telemachia in cui Nestore racconta a Telemaco il triste
ritorno degli Achei, c’è un commosso ricordo di Antiloco (Odissea III 108-112): “Là
tutti i migliori furono uccisi, là Aiace guerriero è sepolto, là Achille, e Patroclo, il
consigliere simile ai numi, là il caro mio figlio forte e senza rimprovero, Antiloco,
velocissimo a correre e forte guerriero”. Non sfugge come questi versi, questo
“catalogo” di valorosi caduti, siano il modello di Sofocle: i nomi sono gli stessi, e
viene ripresa l’idea che a morire sono i migliori, i più valorosi.
I commentatori notano che al v. 432 Neottolemo chiama per la prima volta
Filottete per nome (prima gli si è sempre rivolto con il vocativo “straniero”): non è un
fatto casuale, ma il segno di una nuova confidenza, o comunque il tentativo di
accorciare le distanze. Neottolemo cerca di far breccia nell’animo di Filottete
suggerendogli, con tono confidenziale, che anche un furbo matricolato come Odisseo
prima o poi incappa in ostacoli insuperabili: quindi, è solo questione di avere un po’
di pazienza. Certo, la battuta di Neottolemo è una forma di ironia tragica: il
personaggio non sta parlando della sua astuzia, ma il pubblico sa bene che il progetto
di Odisseo è destinato a fallire.
L’idea che in guerra cadano i valorosi e non i vili è una gnome di consolidata
tradizione. Pucci cita il fr. 724 Radt di Sofocle (“Ares, ragazzo, ama eliminare i i
bravi e i valorosi. Quelli invece che sono bravi a parlare, scampano alla rovina e si
tirano fuori dai guai. Ares infatti non vuole nulla dai vili”) e il fr. 728 Kannicht di
102

Euripide (“La guerra non ama prendere tutti, ma gode della morte dei giovani
coraggiosi, mentre odia i vili”). Neottolemo butta lì la frase soprattutto perché è un
motto che retoricamente ben si inserisce nel discorso; Filottete la riprende con piena
convinzione (è un po’ il motto della sua vita, il proverbio con cui ha cercato di darsi
una spiegazione per quanto gli è accaduto), e le dà un respiro quasi cosmico.
La menzione di Tersite è un’altra reminiscenza iliadica. Qui però Sofocle - o
meglio il suo personaggio - “corregge” la tradizione epica: nell’Etiopide Achille,
dopo la morte di Pentesilea, uccideva Tersite che aveva osato prenderlo in giro per il
suo amore per l’Amazzone (e l’uccisione di Tersite portava scompiglio nel campo
acheo: Achille doveva andare a Lesbo, fare sacrifici ad Apollo, Artemide e Letò e
farsi poi purificare da Odisseo); secondo un’altra versione (scolio omerico), Achille
avrebbe ucciso Tersite perché questi aveva colpito all’occhio Pentesilea ferita a
morte. In ogni caso, Tersite è morto; Neottolemo mente consapevolmente, perché la
sopravvivenza di Tersite gli fa comodo: è un’ulteriore conferma della regola che
vuole i buoni morire e i malvagi restare in vita.
Alla fine del “catalogo” Filottete si conferma nella sua idea (sulla quale,
evidentemente, ha elucubrato a lungo negli anni di solitudine e di disperazione) che
gli dèi sono ingiusti. Pucci fa notare che altri personaggi di Sofocle arrivano alle
stesse conclusioni. Antigone, nel momento in cui sta per essere chiusa viva nella
tomba per ordine di Creonte, dice: “Ho forse violato la giustizia divina? Ma perché
un’infelice come me dovrebbe ancora rivolgersi agli dei? E a chi domanderò aiuto, se
per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia?” (Antigone 921-924). Illo, nel
finale delle Trachinie (vv. 1264-1269), vedendo il terribile spettacolo del padre
morente, fa riflessioni simili: “Sollevatelo, amici, e mostratemi simpatia per quanto
avviene, consapevoli che in tutti questi eventi grande è l’insensibilità degli dei. Essi
generano figli, si fanno chiamare padri, e stanno a guardare dall’alto tali sofferenze”.
Pucci vede peraltro una differenza tra le tre situazioni. Illo e Antigone pervengono a
queste conclusioni alla fine della vicenda: il giudizio dunque è definitivo. Filottete
invece (che reagisce a notizie in parte false) è destinato a ricredersi, nel prosieguo
della storia.
Nei vv. 453-506 scatta la trappola predisposta da Odisseo e Neottolemo.
Neottolemo annuncia di voler riprendere il mare, per completare il viaggio e
riguadagnare la sua Sciro, dove in futuro starà ben in guardia dalle insidie degli
Atridi; Filottete allora, convinto che l’altro dica sul serio, lo supplica di ospitarlo a
bordo della sua nave e di riportarlo in patria. La rhesis di Filottete è lunga e
appassionata: il vecchio guerriero si attacca al filo di speranza che Neottolemo
rappresenta per lui, non esita a umiliarsi, stringendo le ginocchia di un ragazzino che
potrebbe essere suo figlio. È una scena che può suscitare imbarazzo nel pubblico, il
quale sa bene che lo scopo delle bugie di Neottolemo è appunto quello di indurre
Filottete a imbarcarsi con lui: Filottete, dunque, si danna l’anima per nulla. Il disagio
di Neottolemo cresce: il ragazzo comincia a capire la crudeltà dell’azione sua e di
Odisseo. Non ha davanti a sé né una creatura deumanizzata, ridotta a uno stato ferino,
né uno scarto umano, un pharmakòs repellente e straniato: Filottete è un uomo che
soffre, e per di più è totalmente alla sua mercé.
103

Col v. 453 Neottolemo cambia registro. Sa che è arrivato il momento di


colpire: dopo avere catturato la simpatia di Filottete, ora deve dare uno strappo,
indurire i toni, raffreddare il calore dell’homilia, in modo tale che l’altro si senta
perduto e si getti supplice ai suoi piedi. Dunque, non più apostrofe col nome (come al
v. 432), ma con un patronimico artificioso (“prole di padre eteo”) che esprime
freddezza e affettazione. Il monte Eta definisce il territorio della Malide, patria di
Filottete (cfr. v. 4): come si è visto, è il monte dove Eracle andò a morire; dunque, la
menzione dell’Eta collega Peante (e Filottete stesso) con Eracle e le sue imprese.
Il discorso di Neottolemo (“non voglio avere più alcun contatto con persone
che non sanno distinguere tra furbi e valorosi”, “d’ora innanzi me ne starò a casa mia,
alla larga da Troia e dagli Atridi”) ricorda da vicino alcuni passi della risposta di
Achille ad Odisseo nel IX canto dell’Iliade:

Iliade IX 318-320; 356-363


Parte uguale al poltrone e a chi combatte con forza,
è nella stessa stima il codardo e il gagliardo,
muore chi non fa nulla come chi molto s’adopra.
[...............................]
Ma adesso non voglio combattere più con Ettore glorioso:
domani, fatte le offerte a Zeus e a tutti i numi,
caricate le navi, dopo che le avrò spinte nel mare,
tu vedrai, se vorrai, se te ne importa qualcosa,
sull’Ellesponto pescoso navigare all’aurora
le mie navi, e dentro uomini ardenti a remare;
e se il buon viaggio ci dona Ennosigeo glorioso,
al terzo giorno saremo a Ftia fertile zolla.

Abbiamo visto che anche in altri passi Neottolemo parla come Achille; certo, qui la
situazione è paradossale, perché il ragazzo usa argomenti della più nobile tradizione
eroica per ingannare un povero infelice, che si affida a lui. La ripresa iliadica,
piuttosto evidente, fa dunque scattare una forma di ironia tragica: gli spettatori si
rendono conto che Neottolemo usa frasi prese dalla rhesis di Achille nella présbeia,
ma in realtà interpreta il ruolo dell’interlocutore di Achille, cioè Odisseo.
Interessante l’uso di καιρός al v. 466. Il termine torna ai vv. 837-838, in un
intervento cantato del Coro, che incoraggia Neottolemo ad approfittare dell’occasione
favorevole (Filottete dorme profondamente, dopo l’attacco del male) per afferrare
l’arco e andare via: “L’occasione propizia è arbitra di tutti i disegni e può darci il
successo, ora, subito”. Se ne occupa Pucci nel commento, facendo notare che il
termine in Sofocle è usato con accezioni diverse, ma già può essere associato a quella
connotazione “cinica” che poi si afferma in età preellenistica ed ellenistica.
Nella seconda metà del IV secolo lo scultore Lisippo eseguì in onore di
Alessandro Magno la statua del Kairos (Καιρός), ossia un’allegoria dell’attimo
fuggente, dell’occasione da cogliere al volo. Verosimilmente, Lisippo produsse due
originali dell’opera, uno destinato a Sicione, patria dell’artista, l’altro a Pella, capitale
104

del regno macedone: entrambi sono perduti, ma una ricostruzione è possibile grazie ai
molti rifacimenti che ci sono pervenuti e grazie alle descrizioni di poeti e retori. Il
Kairos di Lisippo è un giovane alato, che ha un piede appoggiato su una sfera e l’altro
proiettato in avanti nell’aria; con la mano sinistra regge un rasoio, su cui è allibrata
una bilancia. È evidente il codice simbolico a cui è ispirata la figurazione:
l’iconografia del Kairos rimanda a una rappresentazione dinamica e cangiante della
vita, concepita come una sequenza di attimi rapidi a presentarsi e ancora più rapidi a
svanire; anche la chioma, rasa sulla nuca e allungata a ciuffo sulla fronte, allude alla
fugacità dell’occasione, che deve essere colta quando si presenta, senza ripensamenti.
Tutto ciò corrisponde a un’ideologia che si diffonde rapidamente nel IV secolo,
ma ha già precedenti nel V. Alla base c’è una Weltanschauung che legge la realtà non
più come il campo d’azione di forze divine, ma l’esito di vettori poltici (del nomos
umano, dunque) applicati alla magmatica e imprevedibile massa dei fattori casuali,
della tyche. Il politico di successo quindi (e in generale l’uomo di successo) non è più
l’individuo pio e virtuoso, ma colui che sa leggere i flussi della tyche e assecondarli
con azione decisa. Alessandro è l’assoluto signore della tyche e del kairos (e
l’iconografia ufficiale corrisponde a questa sua immagine), ma già Filippo - nella
lettura che ne dà Demostene, per esempio - è il politico sagace e disincantato che sa
assecondare gli eventi, sa sfruttare a proprio vantaggio le combinazioni favorevoli,
quando si presentano.
Al v. 470 Filottete si definisce “supplice” di Neottolemo: la parola usata è
hikétes, che è termine tecnico. L’hikétes è colui che “arriva” in un luogo dove non si
sente sicuro, e cerca perciò protezione affidandosi alla pietas di quelli che incontra. È
una nozione che fa parte del “prediritto” di epoca arcaica. In età classica lo straniero
che arriva in una città è protetto - o può essere protetto - da leggi statali che
riconoscono e garantiscono il suo diritto di soggiorno (è il caso dei meteci ad Atene,
per esempio). Esiste anche l’istituto della prossenia, che pure può intervenire per
garantire la sicurezza di uno straniero. In epoca arcaica c’è l’ospitalità privata (che è
un legame familiare ereditario: un esempio famoso è quello di Glauco e Diomede nel
VI canto dell’Iliade), e c’è l’hiketeia, che afferisce alla sfera del religioso. Ad
Odisseo capita continuamente di trovarsi nella condizione di hiketes, è una situazione
ricorrente (una “scena tipica”).
Nella scena tipica di supplica l’hikétes compie un gesto formale che definisce il
suo stato: si prostra ad abbracciare o baciare le ginocchia della persona cui si rivolge
(è una forma di autoumiliazione e una dimostrazione di non pericolosità), e poi gli
parla, spiegando il proprio stato di bisogno e facendo appello a valori quali l’aidòs
dell’interlocutore e la norma divina che protegge i supplici. Se l’altro riconosce il
buon diritto dell’hiketes, lo fa alzare e lo accoglie come ospite. Tra i gesti rituali che
esprimono simbolicamente la condizione dello straniero bisognoso di aiuto (ossia di
“non nemico”), il tocco delle ginocchia è ricorrente. Nel racconto del falso Cretese a
Eumeo in Odissea XIV il protagonista abbraccia e bacia le ginocchia del re nemico,
nel mezzo della battaglia (prima ha gettato via le armi); in Odissea VI Odisseo
medita di stringere le ginocchia di Nausicaa, poi decide che invece è meglio parlarle
di lontano. La documentazione non si limita alle situazioni letterarie; Tucidide I 136-
105

137 racconta che Temistocle, inseguito da soldati ateniesi e spartani, cerca rifugio
presso il re dei Molossi Admeto e, su consiglio della regina, supplica protezione e
ospitalità prendendo in braccio il figlioletto di Admeto e sedendosi sul focolare. In
una regione eccentrica, l’istituto arcaico della hiketeia di tipo omerico [Temistocle
segue il modello di Odisseo, che nel VII canto, entrato nel palazzo del re dei Feaci
Alcinoo, stringe le ginocchia di Arete e si siede sopra il focolare] si mantiene anche
in epoca storica.
Nel caso di Filottete, la sua supplica riproduce il modello omerico, ma con un
ribaltamento di ruoli: in effetti, è Neottolemo colui che “è arrivato” nella terra di
Filottete, ma è questi che si affida all’altro, perché Lemno rappresenta il pericolo,
mentre la “casa” di Neottolemo - cioè la sua nave - è la salvezza, a cui Filottete
chiede di essere associato.
Al v. 492 Filottete, che sta disperatamente cercando di rendere sempre più
patetica e suasiva la sua supplica, evoca l’immagine del padre, il vecchio Peante, che
forse si tortura nell’attesa del figlio o forse è morto. Anche qui c’è una imitatio
omerica: Filottete applica al figlio di Achille la stessa retorica usata da Priamo con
Achille. Nel XXIV canto dell’Iliade Priamo, entrato con l’aiuto di Ermes nel campo
greco, si getta ai piedi del suo nemico e gli chiede la restituzione del corpo di Ettore;
per dare più forza alla preghiera, ricorda ad Achille il padre Peleo, certo preoccupato
per la sorte del figlio lontano.
Alla rhesis di Filottete non c’è da parte di Neottolemo alcuna risposta. È, come
sempre, inane cercare di ricostruire le dinamiche sceniche. Filottete senza dubbio
sostiene le sue parole con una serie di gesti: tende le mani, tocca Neottolemo, gli si
getta ai piedi, gli si stringe alle ginocchia; non possiamo dire quando esegua ciascuno
di questi gesti (e se li esegua tutti), ma ci sono passaggi che hanno valore di
didascalia scenica. È più difficile immaginare i movimenti di Neottolemo: può fare
gesti che esprimono sorpresa, fastidio, incertezza, ma può anche limitarsi a tacere,
assumendo un atteggiamento impenetrabile. Rispondono invece i coreuti, che cantano
una strofe metricamente responsiva (quindi un’antistrofe) a quella intonata alla fine
della rhesis di Neottolemo (vv. 391-402).
Il Coro esprime - ancora una volta - pietà per le sofferenze di Filottete, ed
esorta il suo sovrano a fare ciò che il supplice chiede. Sarebbe vano chiedersi se la
pietà professata dai coreuti sia sincera o fittizia: di fatto, anche queste parole del Coro
sono funzionali all’inganno, perché servono a confermare Filotette nell’idea che
Neottolemo stia davvero salpando per Sciro e possa quindi davvero - se lo vuole -
ricondurre il malato a casa sua. Questo corale aggiunge altri pezzi al castello di bugie.
Il pubblico lo percepisce con chiarezza e non può non reagire con fastidio, persino
con sdegno, a una pietà che contraddice se stessa, perché nasconde la spietata volontà
di circuire un infelice. Cinica anche la menzione finale degli dei: il Coro
disinvoltamente riprende la perorazione finale di Filottete (chi gode di buona fortuna
deve sapere che la sorte umana è instabile, che la sventura è dietro l’angolo), per
sostenere l’opportunità di non tradire il supplice; ma proprio questa ostentazione di
bontà e pietas è un trucco per catturare Filottete, per prenderlo a tradimento.
106

Pucci osserva che nel teatro greco ci sono altri casi in cui il Coro intercede a
favore di un supplice. L’esempio più chiaro è offerto dagli Eraclidi: la scena è nella
piana di Maratona, dove Iolao e gli Eraclidi sono supplici presso l’altare di Zeus; il
messo degli Argivi arriva, pronto a trascinare via con la forza i supplici, ma il Coro
composto da vecchi ateniesi si oppone, e chiede poi al re Demofonte di avere pietà
dei figli di Eracle e di accogliere le loro richieste. La situazione, peraltro, è diversa:
nel dramma euripideo i coreuti hanno già discusso con i supplici e con l’araldo argivo
prima dell’arrivo di Demofonte, e hanno già maturato la decisione di sostenere la
causa degli Eraclidi. Nel Filottete la preghiera del supplice si rivolge al solo
Neottolemo, non al Coro, che ha un ruolo meno incisivo: i coreuti non hanno il
compito di fare da mediatori tra Filottete e Neottolemo, il cui contatto è molto stretto,
fin dal primo episodio. Dunque, l’intercessione del Coro è sorprendente. L’altra
differenza, ovviamente, è che la pietà dei coreuti è simulata: l’intero episodio è un
esempio di “teatro nel teatro”, molto insistito e protratto. Perciò, in ultima analisi, la
scena di supplica del Filottete, pur prestandosi al confronto con varie situazioni
simili, rimane un unicum nel teatro tragico attico.
Neottolemo, che non ha risposto per primo alla supplica di Filottete, lasciando
che fosse il Coro a reagire, quando incomincia a parlare si rivolge al Coro, non al
supplice: il suo tono è quasi seccato, e le sue parole sono un rimprovero ai coreuti,
che si mostrano troppo facili a una pietà forse inopportuna. La decisione di accettare
a bordo l’infermo arriva a fatica: Neottolemo la comunica ai suoi uomini, non al
diretto interessato, e lascia capire che l’ha presa solo perché praticamente costretto
dalle circostanze. I commentatori si chiedono le ragioni di una simile
comportamento: che Filottete salga sulla nave, è lo scopo stesso dell’intera manovra;
perché allora manifestare incertezza e indecisione? Le ipotesi sono due. Una prima
possibilità è che Neottolemo reciti, finga renitenza solo per rendere ancora più
credibile la manfrina e ottenere quindi che Filottete - il quale peraltro non chiede di
meglio - non esiti un istante di più. Un’altra spiegazione è che la (almeno apparente)
svogliatezza del ragazzo sia il segnale di un disagio spirituale: Neottolemo avverte la
malizia e il cinismo della ostentata pietà dei suoi uomini, e ha uno scatto brusco,
stizzito. Se è così, l’abbozzato rifiuto di prendere a bordo Filottete è in realtà il rifiuto
- che dura solo un attimo, naturalmente - della messainscena predisposta da Odisseo,
e la stizza contro i coreuti nasconde la stizza contro se stesso, per aver accettato di
farne parte. È una spiegazione tutto sommato suggestiva, anche se forse un po’ troppo
inclino a uno “psicologismo” moderno. Invece, è improbabile che Neottolemo esiti
perché teme il pericolo rappresentato dall’arco (che è ancora sotto il controllo di
Filottete); questa è una spiegazione razionalistica, che non tiene conto del ritmo
scenico: in questa fase della vicenda l’arco non è in questione, Neottolemo è tutto
teso a “prendere” l’arciere (quanto all’arco, poi si vedrà).
Ai vv. 528-29 Neottolemo prega che gli dei lo conducano sano e salvo alla
meta dove è diretto. La formulazione è ambigua, volutamente: il giovane lascia che
Filottete pensi a una rotta verso la Grecia, mentre la nave salperà alla volta di Troia.
Peraltro, Pucci osserva che scatta una forma di ironia tragica: il viaggio sarà
veramente affidato alla volontà degli dei, ma non nel senso inteso da Neottolemo (al
107

quale l’intervento divino, nella persona di Eracle, toglierà ogni controllo degli
eventi). Pucci fa anche un’altra osservazione: l’intervento inatteso dei coreuti, e poi
l’arrivo del falso Mercante e l’attacco della malattia, sono successivi anelli di una
catena di eventi che sembrano far precipitare la situazione nel senso auspicato da
Neottolemo (e da Odisseo). In realtà, producono alla lunga una virata assolutamente
contraria. E anche questo è un esempio di quella “drammaturgia della casualità” che
Sofocle pratica spesso. Puicci cita l’episodio dell’ubriaco nell’Edipo Re: il commento
sentito per caso a banchetto induce Edipo a consultare l’oracolo di Delfi, e quindi ad
avviarsi su quella strada che il destino gli ha assegnato dalla nascita. Ancor più
clamoroso, sempre nell’Edipo Re, l’intervento di Giocasta, che racconta al marito
dell’oracolo di Laio per dimostrargli che gli oracoli non meritano fede, e così facendo
fa precipitare la crisi. Alla base di tutto ciò c’è una confusione (o sovrapposizione) di
“sorte” e “destino”: ciò che può sembrare fortuito, si inserisce in realtà in un
misterioso disegno, di cui solo gli dei conoscono i tempi e reggono le fila.
La felicità di Filottete si esprime nella triplice apostrofe iniziale. La gioia rende
Filottete magnanimo, lo fa uscire dal guscio dell’autocensura e dell’autoumiliazione:
l’eroe proclama la sua gloria di “eroe tragico”, capace di affrontare con coraggio la
sventura; Neottolemo è invitato a entrare nella caverna, per misurare con gli occhi la
prova che Filottete ha affrontato e vinto. La testimonianza di Neottolemo è essenziale
perché il kleos di Filottete prenda consistenza: equivale a ciò che per l’eroe epico è il
canto dei poeti.
Come di regola, l’arrivo di un nuovo personaggio passa attraverso una battuta
di presentazione del Coro. La scena del falso Mercante è oggetto di molte
discussioni: i commentatori si chiedono quale sia il suo significato, sia in termini
drammaturgici (ossia come contribuisce allo sviluppo dell’azione) sia in termini più
generalmente “letterari” (quali sono, cioè, le sue suggestioni, le sue valenze
simboliche o allusive). Per certi versi, l’intervento del falso Mercante è inutile: il
nuovo venuto porta la notizia che gli Atridi hanno mandato Fenice, Acamanto e
Demofonte a riportare indietro Neottolemo, nonché Odisseo e Diomede a prelevare
Filottete. La notizia è falsa (anche se contiene alcuni elementi di verità: la profezia di
Eleno, la missione a Lemno di Odisseo) e ottiene il risultato di avvicinare
ulteriormente Neottolemo e Filottete, sempre più accomunati dalla condizione di
nemici degli Atridi, “braccati” da loro emissari; e infatti Filottete reagisce
stringendosi a Neottolemo e chiedendogli di affrettare al massimo la partenza. D’altra
parte, quando i due entrano nella caverna, dopo che il falso Mercante se ne è andato,
la situazione non è cambiata rispetto a pochi minuti prima: i due si preparano a
partire. Alcuni studiosi puntano l’attenzione sull’arco: l’accresciuta solidarietà,
prodotta dalle rivelazioni del Mercante, fa sì che Filottete sia ora disposto ad affidare
la sua arma a Neottolemo, e questo è - dal punto di vista di Odisseo - un passo avanti.
Peraltro finora né Odisseo né Neottolemo hanno mostrato di considerare l’arco come
un pericolo, una volta “preso” con l’inganno Filottete [arco e arciere sono come una
sola cosa: è Odisseo a rompere questa simbiosi, nella seconda parte del dramma,
quando vorrebbe lasciare a Lemno Filottete e andarsene con l’arma]. Inoltre, quando
l’arco passa nelle mani di Neottolemo, ciò avviene non perché la messainscena di
108

Odisseo sia risultata particolarmente efficace, ma per l’imprevisto - e casuale -


attacco del male; e proprio quando ha finalmente in mano l’arma invincibile (e
dunque è in grado di disporre a suo piacimento dell’infermo), Neottolemo cambia
atteggiamento e decreta il definitivo fallimento del piano di Odisseo.
Il senso della scena va cercato nei suoi contenuti teatrali. Anzitutto, permette
l’impiego del terzo attore, che senza questa scena interverrebbe solo al v. 994
(quando Odisseo ricompare). Inoltre, richiama la presenza incombente di Odisseo,
che ha anticipato nel prologo la sua intenzione di mandare un emissario, per dar man
forte a Neottolemo. Il ruolo di Odisseo, motore di tutta la vicenda, metafora del
nomos e della sua pretesa di controllare il mondo, deve essere riproposto, per evitare
che il duetto Neottolemo - Filottete occupi l’intero orizzonte del dramma e del
pubblico. Infine, l’introduzione di un secondo personaggio che, al pari di Neottolemo,
interpreta una parte assegnatagli, rimarca l’artificiosità del momento, quel “teatrino
della politica” messo in scena da Odisseo che dovrebbe, nelle intenzioni del suo
regista, controllare le reazioni di Filottete e pilotare la vicenda alla conclusione
programmata. In questo modo, lo scoppio di drammatica verità contenuto nella scena
della malattia e nella reazione di Neottolemo, acquista un rilievo straordinario. Quella
polarità apparenza / verità che è alla base della drammaturgia sofoclea, nel Filottete
prende le forme di una opposizione tra recitazione e vita vissuta: la scena del
Mercante dà più rilievo a questa opposizione.
Pucci sottolinea l’impaccio col quale il falso Mercante prende a parlare: ci
mette cinque versi a spiegare che è capitato per caso lì, che non ne aveva intenzione;
e altrettanto lungo è il giro di parole per giustificare il suo desiderio di incontrare
Neottolemo.
Al v. 574 il Mercante chiede a Neottolemo di parlare a bassa voce, ma
Neottolemo pronuncia il v. 575 con tono alto, dal momento che Filottete ai vv. 578-
79 chiede che cosa si stia tramando alle sue spalle (evidentemente ha sentito fare il
suo nome). Invece il Mercante pronuncia la battuta dei vv. 576-77 ancora a bassa
voce, e infatti Filottete non la intende. Anche questo gioco rivela la teatralità del
momento: il Mercante e Neottolemo sono impegnati in una commedia (poiché è nel
dialogo comico che le battute “a parte” hanno un ruolo importante), di cui Filottete è
il destinatario. Si può pensare che i due attori accompagnino le parole con dei gesti,
per scambiarsi informazioni e “controllare” il dosaggio delle bugie senza che Filottete
se ne accorga: il Mercante non sa infatti, quando entra in scena, a che punto è
Neottolemo nella sua azione persuasiva, e Neottolemo deve contemporaneamente
fare da “spalla” al nuovo venuto, sostenendone la parte, e continuare a recitare il
ruolo di nemico degli Atridi e amico di Filottete.
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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

6. percorso di lettura: Il Telefo di Euripide

Il Telefo fu rappresentato alle Dionisie del 438: la tetralogia era composta da Le


Cretesi, Alcmeone a Psofide, Telefo, Alcesti (ce ne informa la didascalia dell’Alcesti,
aggiungendo che Euripide ottenne il secondo posto, preceduto da Sofocle). Nelle
Cretesi la scena è ad Argo, il coro è di prigioniere cretesi; Tieste seduce la moglie del
fratello Atreo, e questi si vendica uccidendo i figli di Tieste e facendogli mangiare le
loro carni. Nell’Alcmeone a Psofide la scena è in Arcadia; il matricida Alcmeone [è il
figlio di Anfiarao, e ha ucciso la madre Erifile che, presa dal desiderio di avere la
collana di Armonia offertale da Polinice, ha causato la morte del marito e la rovina
dell’esercito argivo] è inseguito dalle Erinni e si rifugia a Psofide; qui sposa la figlia
del re e le regala la collana di Armonia; ne viene sventura per la coppia e (forse)
morte per il protagonista.
Il Telefo drammatizzava un momento della saga di questo eroe, figlio di Eracle
e nativo di Tegea, in Arcadia. Telefo già in età arcaica è figura importante, soprattutto
nelle tradizioni mitiche di Paros (come ci fa capire, ora, la cosiddetta “Elegia di
Telefo” di Archiloco): è un eroe greco, figlio di Eracle, che va in Misia e diventa
signore della Misia; combatte contro gli Achei che hanno invaso la sua terra, ma poi
dà loro un aiuto decisivo per la conquista di Troia. Suo figlio Euripilo muore
combattendo per Priamo, ma un figlio di Euripilo, Grynos, dopo la fine della guerra
di Troia fonda varie città, insieme al figlio di Neottolemo, Pergamo. Quindi, Telefo –
per la sua personale vicenda e per la linea di discendenza che da lui origina – è figura
di contatto, svolge un ruolo simile a quello degli “eroi coloniali” d’occidente: i Parii,
che a lui si collegano, ne traggono legittimazione per la loro penetrazione in Asia
Minore e nell’Egeo settentrionale. Più tardi, in età ellenistica, Telefo torna a essere
figura ideologicamente importante per gli Attalidi di Pergamo: dinastia greca in terra
“barbara”, gli Attalidi traggono vantaggio dalla loro discendenza da Telefo, di cui si
presentano come emuli (portatori della grecità oltre l’Egeo, ma anche intimamente
fusi con la cultura anatolica). Eumene II fa costruire l’altare di Zeus, nel cui progetto
figurativo il ciclo di Telefo ha una parte rilevante (con la Gigantomachia).
Prima di Euripide, sappiamo che la vicenda di Telefo fu tratttata nel Catalogo
delle donne (fr. 165 M.-W.) di Esiodo e nelle Ciprie (un poema del cosiddetto Ciclo
Troiano, quasi completamente perduto). Esiodo narrava la nascita di Telefo da Auge
ed Eracle, il suo trasferimento in Misia e lo scontro con gli Achei (il fr. 165 è
leggibile soprattutto per la parte relativa alla nascita):

Esiodo, fr. 165, 8-17 M.-W.


Auge generò Telefo, discendente di Arcade, re dei Misi,
unita in amore al forte Eracle,
110

quando si pose dietro ai cavalli del nobile Laomedonte,


] i migliori che erano allevati nella terra d’Asia;
] dei Dardanidi animosi la stirpe
] da quella terra intera la cacciò.
Telefo poi mise in fuga degli Achei chitoni di bronzo
] sulle nere navi
] accostò alla terra nutrice di uomini
] la violenza e la distruzione

Della narrazione contenuta nelle Ciprie abbiamo il riassunto di Proclo:

Proclo, Chrest. 125-134


E poi, salpati di lì, arrivano in Teutrania e la saccheggiano come se fosse Ilio. Telefo
allora li affronta e uccide il figlio di Polinice, Tersandro, e viene a sua volta ferito da
Achille. Gli Achei lasciano la Misia, ma una tempesta investe le navi e le disperde.
Achille approda a Sciro e sposa la figlia di Licomede, Deidamia. Poi Telefo,
seguendo un oracolo, arriva ad Argo e Achille lo guarisce, in cambio della promessa
di guidarli sulla rotta per Troia.

P.Oxy. LXIX 4708, fr. 1 (Archiloco, Elegia di Telefo)


].........[
εἰ δὲ] . [ . . . . ] . [ . ] . . θεοῦ κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγκης
οὐ χρὴ ἀν]αλ[κείη]ν καὶ κακότητα λέγει[ν·
π]ήμ[α]τ’ εὖ [εἵμ]εθα δ[ῆι]α φυγεῖν· φεύγ[ειν δέ τις ὥρη·
5 καί ποτ[ε μ]οῦνος ἐὼν Τήλεφος Ἀρκα[σίδης
Ἀργείων ἐφόβησε πολὺν στρα[όν,] ο[ἱ δὲ φέβοντο
ἄλκιμ[οι,] ᾖ τόσα δὴ μοῖρα θεω̂ν ἐ̣φόβει,
αἰχμηταί̣ περ ἐόντε[ς.] ἐϋρρείτης δὲ Κ[άϊκος
π]ιπτό̣ντων νεκύων στείνετο καὶ [πεδίον
10 Μ̣ύσιον, οἱ̣ δ’ ἐπὶ θῖνα πολυφλοίσβοι[ο θαλάσσης
χέρσ’] ὑ̣π’ ἀμειλίκτου φωτὸς ἐναιρό[μενοι
προ]τροπάδην ἀπέ̣κλινον ἐϋκνήμ[ιδες Ἀχαιοί·
ἀ]σπάσιοι δ’ ἐς νέας ὠ[κ]υπόρ[ο]υς [ἐσέβαν
παῖδές τ’ ἀ̣θανάτων καὶ ἀδελφεφοί̣, [οὓς Ἀγαμέμνων
15 Ἴ̣λιον εἰς ἱερὴν ἦγε μαχησομένο[υς·
ο]ἱ̣ δὲ τότε βλαφθέντες ὁδοῦ παρὰ θ[ῖν’ ἀφίκοντο·
Τε]ύθραντος δ’ ἐ̣ρατὴν πρὸς πόλιν [ἐ]ξ[έπεσον
ἔ]νθα [μ]ένος πνείοντες ὅμως αὐτο[ί τε καὶ ἵπποι
ἀ]φρ[αδί]ῃ μεγάλως θυμὸν ἀκηκέ̣[δατο·
20 φ]ά̣ντο γὰρ ὑψίπυλον Τρώων πόλιν εἰσ[ἀναβαίνειν
κα]λλι[φ]υὴν δ’ἐπάτεον Μυσίδα πυροφόρο[ν.
̔Ηρακλ]έης δ’ ἤντησ[ε] βοῶν ταλ[α]κάρδιον [υἱόν,
οὖ]ρον ἀ̣μ[εί]λικ[τον] δηΐῳ ἐν [πολ]έμ[ῳ
Τ]ήλεφον ὃς Δαναοῖσι κακὴν [τ]ό[τε φύζαν ἐνόρσας
111

25 ἤ]ρειδε [πρό]μαχος, πατρὶ χαριζό̣μ[ενος.


. . .] . . . . . . . . . [ . ] . . . . . [
Se [si deve ripiegare?] costretti dalla potenza di un dio,
non è il caso di parlare di vigliaccheria o codardia.
A ragione volemmo fuggire da aspre pene: c’è il momento di fuggire.
5 Una volta, pur essendo solo, l’arcade Telefo
mise in fuga la grande armata degli Argivi; e quelli fuggivano
(così grande era il fato degli dèi, che li incalzava),
benché fossero valorosi combattenti. Il Caico dalla bella corrente
e la pianura di Misia erano pieni di corpi
10 di caduti. Alla riva del mare risonante,
massacrati dalle mani dell’eroe spietato,
a precipizio si volsero gli Achei dai begli schinieri.
Pieni di gioia sulle rapide navi salirono
i figli e fratelli di immortali, che Agamennone
15 a Ilio sacra conduceva a combattere.
Ma quella volta persero la rotta e arrivarono alla spiaggia:
piombarono contro l’amabile città di Teutrante,
dove, pur spirando furore come i loro cavalli (?),
per ignoranza una grave pena patirono in cuore.
20 Credettero infatti di arrivare alla città di Troia dalle alte porte,
e invece calcavano la bella terra di Misia produttrice di grano.
Ed Eracle venne, incitando con urla il figlio suo coraggioso,
difensore spietato nella battaglia violenta,
Telefo, che costrinse i Danai allora a una fuga rovinosa
25 e avanzava in prima fila, riempiendo di gioia il padre.

[Un’altra fonte letteraria importante, ma molto più tarda, è l’Eroico di Filostrato, in


cui viene enfatizzato il ruolo di Protesilao (23, 24)]. Il mito di Telefo si può
riassumere nei termini seguentì. Telefo era figlio di Eracle e della principessa arcade
Auge, che dopo la nascita del bimbo fu cacciata da suo padre Aleo (il re di Tegea) e
divenne la moglie del re di Misia Teutrante. Telefo fu adottato da Teutrante e guidò
l’esercito dei Misi quando gli Achei attaccarono la loro città, nella falsa convinzione
che si trattasse di Troia. Nello scontro Telefo si batté con straordinario valore e
costrinse gli Achei a una fuga precipitosa, tanto che l’intera flotta dovette rientrare in
Grecia per riorganizzarsi. Ma, mentre inseguiva alle navi i nemici, Telefo fu ferito da
Achille; poiché la ferita non guariva, consultò l’oracolo di Apollo, dal quale apprese
che “solo chi l’aveva ferito avrebbe potuto risanarlo”. Andò allora ad Argo, dove
l’esercito acheo era riunito, e riuscì con uno stratagemma ad ottenere udienza da
Agamennone, che lo fece guarire (grazie a un nuovo contatto con la lancia di Achille)
in cambio della promessa di fare da guida agli Achei verso la Troade. Appunto questo
segmento del mito era oggetto della drammatizzazione di Euripide. Poco prima che
Troia cadesse il figlio di Telefo, Euripilo, dando ascolto agli appelli di Priamo (che
112

aveva mandato splendidi doni a sua madre Astioche), venne in soccorso dei Troiani:
si batté da prode, uccidendo Macaone e Nireo, ma fu a sua volta ucciso da
Neottolemo (la vicenda era narrata nella Piccola Iliade, altro poema del Ciclo).
Un Telefo fu composto da Eschilo: nel dramma eschileo doveva già esserci la
scena del piccolo Oreste preso come ostaggio (è riprodotta su vasi della metà del V
secolo). Del Telefo di Euripide abbiamo un certo numero di frammenti, sia di
tradizione indiretta sia papiracei, tra cui uno – proveniente dal prologo – in un papiro
di Milano (P.Mil.Vogl. 1). La trama è grosso modo ricostruibile: prologo pronunciato
dal protagonista, che è arrivato ad Argo travestito da mendicante [Telefo si presenta,
riferisce dell’oracolo e della sua intenzione di chiedere l’aiuto di Agamennone,
promettendogli in cambio di guidare la flotta in Troade]; incontro con Clitennestra,
che gli suggerisce di prendere in braccio il piccolo Oreste, nel momento della
supplica; ma Telefo è scoperto e minacciato di morte, e per salvarsi afferra Oreste
[non sappiamo il motivo della presenza in scena del piccolo] e si rifugia presso un
altare, minacciando di uccidere l’ostaggio; poi fa il suo discorso coram populo, in cui
rivendica il suo diritto di parlare “pur essendo un mendicante” [perché non lo è, in
realtà] e spiega che è sì un nemico degli Achei, ma ha avuto le sue buone ragioni per
combattere gli Achei, e poi chiede un rimedio per la ferita che gli Achei gli hanno
inflitto, facendo presente che solo con la sua guida gli Achei potranno arrivare a
destinazione; nella seconda parte della tragedia arriva Achille (prima assente, perché
a Sciro), che viene convinto da Odisseo a guarire Telefo; il finale propone i
preparativi per la partenza [handout]. Il “messaggio” del dramma euripideo si può
riassumere in due punti fondamentali: non sempre il “nemico” ha torto, anzi può
avere le sue buone ragioni; il “nemico” non è un mostro alieno, ma un uomo da cui si
può imparare e trarre anche vantaggio (quindi, molte volte è più saggio smettere di
fare la guerra e venire a patti).
Fonti importanti per la ricostruzione del Telefo sono le parodie di Aristofane,
negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse. Negli Acarnesi il tema di Telefo innerva la
vicenda a un livello molto profondo: ne parleremo più avanti. Nelle Tesmoforiazuse
la parodia diretta ed esplicita del Telefo riguarda i vv. 689-764 (la cosiddetta “scena
dell’ostaggio”). Il Parente di Euripide è stato scoperto e deve fronteggiare l’ira delle
donne. Per salvarsi, adotta lo stesso espediente prestato a Telefo dalla πολυμηχανία
euripidea: cattura la bimba di una delle donne presenti nel tempio e minaccia di
ucciderla, se le donne non lo lasceranno in pace. Ma, comicamente, la bimba alla
prova dei fatti si rivela essere un otre di vino. Abbiamo un cratere a campana apulo
databile intorno al 370 a.C., ora conservato al Museo Martin von Wagner
dell’Università di Würzburg, che riproduce appunto questa scena delle
Tesmoforiazuse. Fa parte della serie dei vasi cosiddetti “fliacici”, che risalgono agli
anni tra il 400 e il 325 e sono decorati con scene ispirate alla drammaturgia comica.
La matrice teatrale di queste raffigurazioni è evidente: i personaggi molto spesso
sono su un palcoscenico, indossano il tipico costume comico con calzamaglia e fallo
che ci è ben noto anche da terrecotte comiche attiche e da alcuni vasi ateniesi, e il
loro viso corrisponde alle maschere comiche che conosciamo. In questo caso il
ceramografo dimostra di conoscere bene il testo aristofanesco: lo si deduce da due
113

dettagli, fedelmente riprodotti. 1) La donna, che evidentemente ama l’otre come se


fosse una sua creatura, lo ha vestito come una bambina (si vedono le scarpine sui
“piedi” dell’otre). 2) La sedicente mamma si avvicina con un vaso, pronta a
raccogliere il “sangue” (cioè, il vino), se il Parente/Telefo lo verserà. Il vaso sembra
dunque ispirata a una rappresentazione delle Tesmoforiazùse in Italia meridionale,
negli anni settanta del quarto secolo o poco prima, comunque molto tempo dopo la
prima messa in scena del dramma ad Atene.
Abbiamo però anche vasi “tragici” in cui la vicenda di Telefo è trattata in modo
serio: non possiamo essere sicuri che alla base ci sia proprio il Telefo euripideo, ma la
cosa è probabile [ed è la prova che la performance del 438 lasciò il segno]. Nella
maggior parte dei casi il ceramografo riproduce la scena della supplica all’altare,
secondo un’iconografia fissa: Telefo, con la ferita alla gamba ben visibile, tiene
stretto il piccolo Oreste, mentre con il ginocchio dell’altra gamba si appoggia
all’altare; Agamennone accorre, con la spada sguainata (o con altra arma), e
Clitennestra fa gesti disperati o fugge sgomenta. Due esempi sono il “Telefo di
Cleveland” (cratere lucano a figure rosse, databile al 400 a.C. ca., conservato al
Museum of Art di Cleveland) e il “Telefo di Berlino” (cratere attico a figure, databile
al 400-375 a.C., conservato alla Antikensammlung di Berlino).
Negli Acarnesi il tema di Telefo è il filo conduttore della vicenda: ne
costituisce anzi il modello generativo. Le allusioni alla tragedia sono concentrate
soprattutto nel proagone, nell’agone e nella parabasi. C’è il motivo del “parlare con la
testa sul ceppo” [in Euripide Telefo dice ad Agamennone che non rinuncerebbe a
replicare se anche uno minacciasse di colpirlo al collo con una scure], la minaccia di
uccidere il figlioletto dell’interlocutore [negli Acarnesi è una cesta di carbone, in
realtà], poi l’intera scena a casa di Euripide, con una serie di riprese verbali, il
discorso agonale con l’incipit “anche un mendicante ha cose importanti da dire” e
l’invito a considerare anche le ragioni del nemico [handout], l’affermazione
parabatica che la guida del poeta è indispensabile, se si vuole arrivare alla meta.
Siamo nel 425, la guerra infuria da sei anni: Diceopoli (ma anche Aristofane) è
convinto che sia una guerra sbagliata, portata avanti da politici che non hanno a cuore
il bene della città ma il loro personale tornaconto. La prima cosa da fare, se si vuole
che le cose cambino, è denunciare la natura ideologica della propaganda di guerra,
per far capire ai cittadini che la versione ufficiale dei fatti non corrisponde a verità. Il
Telefo euripideo fornisce, da questo punto di vista, un aiuto formidabile. Cosa si dice,
infatti, nel Telefo? Due cose, essenzialmente: 1. il nemico non è, necessariamente,
l’ipostasi del male (gli argomenti dei nemici possono essere fondati, le loro ragioni
possono essere buone ragioni); 2. dal nemico non vengono solo danni: talvolta,
scendendo a patti con esso, è anzi possibile dare e ricevere aiuto. La “lezione” di
Diceopoli / Aristofane sviluppa esattamente questi punti. Nel discorso agonale l’eroe
spiega che gli Spartani sono stati costretti a entrare in guerra, per il comportamento
dissennato di Pericle: dopo la promulgazione del decreto megarese, non restava loro
altra scelta che soccorrere gli alleati (anche gli Ateniesi avrebbero fatto lo stesso, a
parti invertite). Nella parabasi il corifeo pronuncia un elogio del poeta –
ingiustamente colpito da Cleone, ma anche dagli Ateniesi tutti – mentre si batteva per
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il bene della sua città; questo preteso “nemico” è in realtà la guida indispensabile a
cui affidarsi se si vuole arrivare alla meta. L’identificazione con Telefo riguarda
dunque sia Diceopoli sia Aristofane: la vicenda dell’eroe comico, ossia la trama del
dramma, si sovrappone all’azione del poeta, e questo è possibile proprio grazie alla
presenza unificante del modello euripideo.

Il Telefo di Euripide

a) prologo (pronunciato da Telefo)

Euripide, fr. 696 Ka.


Salve, terra dei miei padri, recinto di Pelope; salve, Pan, signore dell’Arcadia fredda e
pietrosa, di cui io mi vanto figlio. Auge infatti, la figlia di Aleo, mi partorì a Eracle di
Tirinto, in segreto; ben lo sa il monte Partenio, dove Ilizia liberò mia madre dalle
doglie e fece nascere me. Molte traversie ho dovuto affrontare; ma dirò in breve la
mia storia. Arrivai nella pianura di Misia, dove ritrovai mia madre; mi stabilii lì e il
Misio Teutrante mi lasciò in eredità il regno. In terra di Misia la gente mi chiama
Telefo, perché abitavo lontano quando andai a vivere lì. Ero un greco che regnava su
barbari, e molte fatiche affrontai con le armi in pugno, prima che l’armata degli
Achei invadesse la pianura di Misia.

Euripide, fr. 697 Ka.


… prendendo stracci da mendicante e indossandoli come protezione †dalla sorte†

Euripide, fr. 698 Ka.


Oggi infatti bisogna che io sembri uno straccione, che sia quello che sono, ma non lo
dia a vedere.

b) scena successiva al prologo (diverbio tra Agamennone e Menelao)

Euripide, fr. 722 Ka.


Va’ dove ti pare: non voglio morire per la tua Elena!

Euripide, fr. 723 Ka.


A te è toccata Sparta, governa quella; Micene è mia e ci penserò io.

c) discorso (o discorsi) di Telefo “mendico” agli Achei

Euripide, fr. 703 Ka.


Non prendetevela con me, capi greci, se pur essendo un mendico ho l’ardire di
parlare a dei nobili.

Euripide, fr. 705 Ka.


Ero marinaio e, sbarcato in Misia, fui ferito dal braccio di un nemico.
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Euripide, fr. 706 Ka.


Agamennone, è giusto che io replichi, e non starò zitto, neppure se qualcuno tenesse
in mano una scure e minacciasse di staccarmi il collo.

Euripide, fr. 708 Ka.


Qualcuno dirà: “Non si doveva fare”.

Euripide, fr. 708a Ka.


Ecco, mettiamo il caso che uno fosse salpato su una nave …

Euripide, fr. 709 Ka.


Ve ne sareste stati tranquilli a casa? Ma figuriamoci!

Euripide, fr. 710 Ka.


E ci illudiamo che Telefo non l’avrebbe fatto?

Euripide, fr. 711 Ka.


E poi ce la prendiamo, quando ci restituiscono pan per focaccia.

d) accordo tra Telefo e gli Achei, arrivo di Achille

Euripide, fr. 727c Ka.


CORO Il soffio di noto o di zefiro ci spingerà alle coste della Troade; e tu, sedendo
al timone, insegnerai all’uomo di prua a riconoscere, per gli Atridi, la rotta che porta
dritto a Troia. Non è stata una Misia, ma una Greca di Tegea a partorirti, perché tu
fossi – così vogliano gli dèi – marinaio e nocchiero dei nostri legni marini.

ACHILLE Anche tu arrivi ora dalla tua isola, Odisseo? Dov’è il punto di raduno
degli amici? Che cosa si aspetta? Non è il momento di starsene con le mani in mano.
ODISSEO Si parte, è deciso: i capi non pensano ad altro. E tu sei arrivato proprio al
momento giusto, figlio di Peleo.
ACHILLE Però, i marinai della flotta non sono agli imbarchi, e non vedo l’esercito
schierato per la rassegna.
ODISSEO È questione di poco:
ACHILLE Siete sempre i soliti, pigri e perdigiorno: ciascuno se ne sta seduto, a
parlare, parlare; ma nessuno fa nulla. Io però e l’esercito dei Mirmidoni, come vedete,
siamo venuti qui decisi ad agire, e prenderò il mare senza aspettare i comodi degli
Atridi.

Euripide, fr. 724 Ka.


(La piaga?) è curata con la ruggine raschiata dalla punta della lancia.

Telefo negli Acarnesi


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Aristofane, Acarnesi 535-556


E allora i Megaresi, dopo avere a lungo sofferto la fame,
pregarono gli Spartani perché venisse annullato
il decreto, quello emanato per colpa delle sgualdrine.
Ma noi non accettammo, benché quelli insistessero.
E di qui scoppiò uno strepito di scudi.
Si dirà: “Non era il caso”. Ma che cosa avrebbero dovuto fare?
Se uno spartano si fosse imbarcato su una nave
e avesse denunciato e messo in vendita un cagnolino di Serifo,
voi ve ne sareste restati a casa? Certo che no!
Subito, ma proprio subito, avreste tirato giù
trecento navi, e la città si sarebbe riempita
di grida di soldati, di urla e comandi,
di paghe da distribuire, di statuette di Atena;
e poi il portico che rimbomba, viveri razionati,
otri, stroppi, gente che compra vasi,
agli, olive, cipolle nelle reti,
corone, acciughe, flautiste, occhi pesti;
e l’arsenale pieno di manici lucidati,
di cerniere che cigolano, di remi stroppati,
di flauti, di grida dei capivoga, di trilli e di fischi.
So bene che avreste fatto tutto questo. E pensiamo che Telefo
non l’avrebbe fatto? E allora non abbiamo buon senso.

Telefo nella pittura vascolare

Cratere lucano a figure rosse, 400 a.C. ca. – Cratere attico a figure rosse, 400-375 a.C. – Berlin,
Cleveland, Museum of Art 1991.1 Antikensammlung 3974
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Cratere apulo a figure rosse, 370 a.C. ca. – Würzburg, Martin von Wagner Museum (H 5697)

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