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Nella letteratura, la Telemachia è un termine usato per indicare i primi quattro libri dell'Odissea,

poema epico attribuito ad Omero, riguardante il ritorno a casa di Odisseo, chiamato in latino
anche Ulisse, dopo la guerra di Troia. In questa prima parte del racconto il protagonista risulta
essere il figlio di Odisseo, Telemaco, il quale, raggiunta l'età adulta, comprende a pieno la
situazione drammatica che si è ormai creata ad Itaca, a causa della presenza dei Proci e della ormai
decennale assenza del padre, e decide di reagire. La Telemachia è ritenuta il primo Bildungsroman,
"romanzo di formazione", della letteratura occidentale. Telemaco era il figlio di Odisseo e di
Penelope, principe che sentiva la mancanza del padre. Sentendo il regno minacciato decise di
partire, spinto da Atena sotto forma di Mentore, alla ricerca di informazioni sul viaggio di suo
padre dopo la guerra di Troia. Atena aveva consigliato a Telemaco di andare a Pilo da Nestore e a
Sparta da Menelao, perché sono stati gli ultimi, tra gli eroi della guerra di Troia, ad avere contatti
con Odisseo.
Ma la Telemachia non assolve solo a questo compito. È infatti solo una delle numerose sezioni in
cui è diviso il poema, non più centripeto come l’Iliade. Anche nel primo poema esistevano
divagazioni, ma non di così ampio respiro come nell’Odissea. Il poema si apre prima con le
avventure di Telemaco, che quindi ritardano l’entrata in scena di Odisseo; poi Odisseo viene
sballottato presso i Feaci; lì inizia il racconto delle vere avventure dell’eroe, attraverso però un
lungo flashback; infine, l’eroe può tornare a Itaca e affrontare la vendetta e il riconoscimento
finale.
È, come si vede, un intreccio complesso, fatto di anticipazioni e ritardi. Anche la Telemachia è una
sorta di Odissea in piccolo: c’è un eroe che deve affrontare un viaggio e crescere fino alla sua
maturazione, e anch’egli vive un flashback, cioè il racconto a posteriori delle vicende di Troia da
parte di chi vi ha preso parte, Nestore e Menelao.
Questa tecnica, definita felicemente “del romanzesco”, ha permesso di descrivere così l’Odissea
come il primo “romanzo” d’avventura della letteratura europea, nel quale trovano spazio amori,
avventure, pericoli e vendette.

Il mito di Proteo porta con se il valore culturale della preistoria e lo proietta nella storia.
Miti di Proteo 1900 a.c, prime trascrizioni 600 a.c , trascrizione definitiva nel 300 ac. Con la
biblioteca di Alessandria
Proteo (in greco antico Πρωτεύς), figlio di Oceano e Teti, è una divinità minore appartenente al
mondo greco, che viene raffigurata come un anziano dio marino con busto d’uomo e coda di
pesce, associato agli altri “vecchi del mare” Nereo e Forco. L’etimologia del suo nome è da
rinvenire dal greco ‘primo nato’. Ottenne da Poseidone il compito di custodire il gregge di foche e
di altre bestie marine.
Il potere di rivestire varie forme era il simbolo della fluidità dell’acqua a cui egli partecipava.
Proteo è il “verace Vecchio del mare”, divinità marina e oracolo, presentato da Omero in un
celebre episodio dell’Odissea (libro quarto, versi 363-569). Egli vive accanto al mare, nell’isola di
Faro, in prossimità dell’Egitto, con la figlia Eidotea e un branco di foche appartenente a Poseidone.
Proteo conosce gli avvenimenti passati, presenti e futuri. Inoltre, è in grado di cambiare aspetto,
assumendo le più svariate sembianze (animali, vegetali, acqua e fuoco), per sottrarsi alle
interrogazioni degli uomini. A lui intende rivolgersi Menelao per avere informazioni e consigli sul
ritorno in patria e superare le perduranti difficoltà del suo viaggio. Eidotea, nome parlante (da
eidos – idea, forma, figura – ed eidesis, conoscenza), istruisce Menelao sul comportamento da
adottare per vanificare la strategia difensiva del padre Proteo e raggiungere l’obiettivo: egli deve
acquattarsi e mimetizzarsi tra le foche, attendere che il Vecchio esca dal mare a mezzogiorno per
riposare tra queste, poi afferrarlo e trattenerlo con forza, ignorando le sue molteplici
trasformazioni.
Quando Proteo si accorgerà dell’intrusione, “tenterà allora – avverte Eidotea – di divenire ogni
cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia, ma voi tanto più tenetelo
fermo e stringetelo”.
L’incursione nell’ambiente abituale, la mimetizzazione, l’immobilizzazione mediante l’uso mirato
della forza, la resistenza a trucchi e artifici: questo è il procedimento prefigurato e suggerito da
Eidotea per vanificare la reazione di Proteo e accedere alla conoscenza vera da lui detenuta.
Quando avrà esaurito il suo repertorio di trasformazioni e tornerà al suo aspetto normale, “lascia
allora la forza – raccomanda Eidotea – libera il Vecchio, o guerriero, e chiedi chi degli dei ti
perseguita, chiedi il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso”.
Menelao mette scrupolosamente in atto le istruzioni ricevute. Proteo, da parte sua, di fronte
all’agguato, utilizza la sua “techne ingannevole” (δόλια τέχνη): “prima divenne leone dalla folta
criniera, e poi serpente e poi pantera e grosso cinghiale, diventò liquida acqua e albero dall’alto
fogliame”. Ma i suoi sforzi trasformistici sono efficacemente contrastati dalla determinazione,
dall’avvedutezza e dalla forza di Menelao e dei suoi compagni: “ma noi tenevamo forte, con cuore
costante”. Cosicché, “quando alla fine fu stanco il maestro d’astuzie”, si rende disponibile alle
richieste e Menelao ottiene ciò che vuole: informazioni e suggerimenti.
All’analisi e all’interpretazione del mito di Proteo ed Eidotea si sono applicati scoliasti e
commentatori di diverse epoche. In questa sede, interessa solo fare qualche riflessione sulla
natura delle due technai esibite da Proteo.
La prima, la divinazione o mantica, è una “prestazione professionale” nota e riconosciuta nella
Grecia antica, consistente nell’interpretazione di segni e nella predizione del futuro.
La seconda, il cambiamento di forma, è definita da Omero techne ingannevole, conformemente a
un giudizio ampiamente diffuso nella cultura greca arcaica e classica che riguarda, in primo luogo,
la techne in quanto tale, associata spesso ad artificio, inganno o apparenza. La medesima
correlazione è peraltro riproposta poco dopo (v. 329), proprio nel racconto di Proteo relativo alla
congiura ordita da Egisto nei confronti di Agamennone e culminato nell’uccisione di questo.
Dal metamorfismo del personaggio mitologico si fa derivare l’aggettivo proteiforme per indicare
qualcuno o qualcosa che, come Proteo, può assumere diversi aspetti. Possiamo per esempio
utilizzarlo per definire una intelligenza particolarmente versatile. Nell’ambito specificamente
letterario, è famosa la formula utilizzata dal critico russo M. Bachtin, che definisce il romanzo
come genere proteiforme, in quanto in esso vengono rielaborati molti generi precedenti, ma
soprattutto nella letteratura moderna diviene l’unico genere sperimentale ed aperto, adatto a
rappresentare le diverse società di cui è l’espressione.

Origine egiziana del mito di Proteo


Cete (in greco Κέτης) era, secondo quanto ci racconta Diodoro Siculo, un re egiziano che aveva la
facoltà di tramutarsi in qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, o cosa inanimata desiderasse.
Possesdeva la cosiddetta "scienza della respirazione" che sarebbe stata all'origine della sua
magia .Per questa sua mistica dote di trasfigurazione è talora da alcune fonti identificato con il dio
marino Proteo.

Riassunto:
Dopo aver fatto visista a Nestore, Telemaco si dirige a Sparta per incontrare Menelao. Il suo
biettivo è sempre quello di ottenere informazioni sul padre Odisseo. Quando arriva alla dimora di
Menelao, un grande palazzo, lo trova intento a tenere un banchetto per le nozze di sua figlia
Ermione e di suo figlio Megapente. Telemaco, accompagnato da Pisistrato (figlio di Nestore), arriva
a palazzo di Menelao con i suoi cavalli e si ferma. Menelao lo accoglie perché rispetta il principio
d’ospitalità e ricorda anche come durante il suo ritorno dalla guerra di Troia egli sia stato più volte
da altri uomini generosi e ospitali. La casa di Menelao è caratterizzata da un enorme ricchezza ed
imponenza, e una volta entrati ,a Telemaco e Pisistrato vengono offerti tutti i servigi ospitali
dell’etichetta (vengono lavati, cambiati e invitati alla mensa della casa). Nel suo discorso, Menelao
accenna ad Agamennone e ad Odisseo, e questo porta il giovane Telemaco a piangere per il padre.
Dopo una serie di discorsi Pisistrato presenta a Menelao Telemaco come figlio di Odisseo, anche se
Menelao l’aveva già sospettato. Egli gioisce perché ospita il figlio del suo caro compagno e amico e
allora si commuove anche lui per il destino di Odisseo. Elena decide allora di mischiare nel vino un
farmaco (una pozione magica) che non permetta ai commensali di piangere o infuriarsi per nessun
motivo, e poi i servi distribuiscono la bevanda ai vari partecipanti alla mensa di Menelao. Elena poi
racconta di Odisseo, in particolare, di come quest’ultimo sia entrato di nascosto nella città, abbia
schivato le sue domande astutamente e si sia rivelato a lei solo dopo averle fatto fare un solenne
giuramento. Menelao continua poi narrando l’episodio del cavallo di Troia, dell’inganno vincente
pensato da Odisseo per far penetrare gli achei dentro la città e di come Elena abbia cercato di
tentare gli argivi nascosti nella pancia del cavallo incitata da un dio che simpatizzava per i troiani e
seguita da Deìfobo. In quell’occasione Odisseo capì l’inganno di Elena e trattenne gli achei dal
gridare o uscire una volta che questi ebbero udito le voci delle loro mogli simulate da Elena.
Odisseo salvò quindi tutti gli argivi e Elena si allontanò. La serata si conclude, Telemaco e Pisistrato
vengono ospitati per la notte e dormono in dei letti sistemati nell’attico della casa, mentre
Menelao ed Elena dormirono nel talamo (stanza del letto nuziale). La mattina dopo Menelao e
Telemaco si incontrano e Telemaco spiega al re di sparta che è venuto a trovarlo per conoscere
informazioni sul padre e per ricevere dei consigli su cosa fare con la minaccia incombente dei
Proci, desiderosi di sposare Penelope per diventare i regnanti di Itaca. Così Menelao inizia il suo
racconto: in particolare narra di quando egli era impedito in egitto e fu aiutato dalla dea Eidotea. Il
racconto di Menelao si svolge presso l’isola di Faro, siamo in Egitto. Menelao si trovava
impossibilitato a lasciare l’Egitto perché gli dei non permettevano alle sue navi di tornare in patria,
negandogli il vento. Mentre le provviste si esaurivano e il morale dei compagni di Menelao calava
una dea, Eidotea, prese a cuore la loro situazione e si palesò a Menelao. Allora Menelao
chiedendole aiuto, riceve da lei un consiglio. La Dea consigliava a Menelao e ai suoi compagni di
catturare con l’inganno il dio Proteo, una divinità del mare incaricata da Poseidone di custodire il
suo gregge sacro di foche. A mezzogiorno egli è solito uscire dal mare, contare le foche del suo
gregge e ,a lavoro finito, è solito riposarsi sulla riva o nelle grotte marine. In quel momento chi è
desideroso di conoscere il suo destino o ha bisogno di un consiglio può tentare di catturare il dio,
egli però comincerà a trasformarsi in tutte le creature e le forme più impensabili (vortice
metamorfico divino di Proteo). Questa sua capacità è collegata all’elemento in cui Proteo vive,
l’acqua. Egli è infatti in grado di assumere queste forme con la stessa fluidità dell’acqua. Una volta
che Proteo esaurisce le sue forze e si arrende tornerà alla sua forma originaria e allora potrà
essere interrogato dal suo fortunato assalitore. Egli risponderà alle domande con il massimo della
sua sincerità e con grande completezza. Allora il mattino dopo, Menelao sceglie tre compagni e si
avvia da Eidotea, la quale riemerge dall’acqua con quattro pelli di foca appena scuoiate. Menelao e
i suoi compagni devono mimetizzarsi tra le foche coprendosi con le loro pelli, essere contati dal
vecchio e dopo che quest’ultimo si sia coricato, potevano procedere ad assalirlo e a bloccarlo.
Indossate le pelli, si accorgono del forte odore delle foche ma il problema viene subito risolto da
Eidotea che mette sotto il naso di Menelao e compagni un’ambrosia che neutralizza l’odore della
foca. Menelao attua il suo piano e attacca Proteo che si trasforma in Leone, serpente, pantera ,
cinghiale e poi persino in acqua e albero (da ricordare che non si tratta di trasformazioni reali,
bensì di inganni, illusioni). Proteo consiglia a Menelao di risalire il Nilo e compiere lì delle ecatombi
perfette per gli dei, dopo di che gli dei lo avrebbero scortato sano e salvo fino alla sua patria.
Menelao sa che è un viaggio lungo e penoso ma decide che seguirà il consiglio del vecchio del
mare, poi, non contento, domanda a Proteo cosa ne è stato degli altri suoi compagni achei di
ritorno dalla guerra. Proteo racconta allora a Menelao del destino dei suoi tre compagni: Aiace,
Agamennone e Odisseo. I primi due hanno trovato la morte mentre Odisseo vaga ancora per i mari
senza poter far ritorno a Itaca. Aiace morì perché dopo essere stato salvato da Poseidone che lo
accostò alle rupi Giree, egli si vantò di esserci riuscito con le sue sole forze. Allora Poseidone decise
di punirlo scagliando il suo tridente sulle rupi, spezzandole in due e facendo cadere Aiace in mare,
uccidendolo. Le cause della morte di Agamennone, fratello di Menelao, sono da ricercare in una
faida famigliare interna alla famiglia dell’eroe. Iniziata alla morte di Pelope, il conflitto vede
opporsi la famiglia di Atreo (padre di Agamennone e Menelao) e Tieste (lo zio). Per invidia e
desideroso di salire al trono, Tieste seduce la moglie di Atreo, Erope , e le ruba con l’inganno il
vello d’oro di un montone magico allevato da Atreo. Tieste diventa re ma Zeus, che simpatizza per
Atreo, invia a Tieste Ermes facendo promettere al re di cedere il trono qualora il sole avesse
cambiato il suo corso. Zeus realizza il prodigio e Tieste perde il trono e viene esiliato dal nuovo re,
Atreo. Una volta appreso dell’adulterio, Atreo invita Tieste a un banchetto con la scusa di
riconciliarsi ma lì fa mangiare con l’inganno i suoi figli a Tieste, che maledice il fratello e viene
nuovamente esiliato. Tieste si reca dall’oracolo di Delfi e gli viene consigliato di concepire un figlio
con la figlia Pelopia. Tieste violenta sua figlia, che verrà poi sposata da Atreo. Pelopia partorisce il
figlio di Tieste (Egisto) ma Atreo pensa sia figlio suo. Atreo ordina a Egisto di uccidere Tieste ma il
giovane scopre che il suo bersaglio è in realtà suo padre e uccide invece Atreo. Ora, la moglie di
Agamennone, Clitennestra, serba rancore verso il marito in quanto egli ha sacrificato la figlia
Ifigenia agli dei prima di partire per la guerra di Troia. Clitennestra si accorda con Egisto (Cugino di
Agamennone) per uccidere il marito, e dopo averlo accolto in bagno uccide sia lui che Cassandra
(indovina che profetizzava sempre il vero ma che aveva la maledizione di non essere creduta da
nessuno, aveva avvisato Agamennone del suo imminente Assassinio ma egli non le crede). Oreste,
figlio di Agamennone, vendicherà poi il padre uccidendo Egisto e la madre. Al sentire queste
notizie Menelao piange e si dispera, poi chiede di Odisseo. Odisseo è trattenuto su un’isola dalla
ninfa Calipso e lì si dispera. Proteo spiega poi a Menelao che lui ha un destino privilegiato perché è
lo genero di Zeus, avendo sposato Elena, sua figlia. Menelao è destinato ai campi elisi, un luogo
dove la vita per gli uomini è facilissima e priva di dolori. Finisce il dialogo con Proteo, che si
immerge e Menelao parte alla volta del Nilo dove compie i sacrifici agli dei e, grazie al loro favore,
torna a Sparta. Così si conclude il racconto di Menelao, egli poi propone a Telemaco di rimanere
qualche giorno in più e gli parla di cosa vuole regalargli. Prima gli propone un cavalli e un carro ma
Telemaco risponde dicendo che ad Itaca non crescono trifogli e biada. Allora il re spartano sorride
e gli dona un preziosissimo cratere di Efesto, il dio del fuoco e fabbro. Mentre si prepara il pranzo
a casa di Menelao, la scena si sposta ad Itaca e sui Proci. I capi dei pretendenti erano Antinoo ed
Eurimaco, che pianificano di uccidere Telemaco che ritorna a Itaca tendendogli un’imboscata. Un
araldo all’interno del palazzo sente il piano dei proci e corre a riferire il tutto a Penelope che
comincia ad affliggersi per il destino del figlio. Una delle serve aveva giurato a Telemaco di non
dire nulla della sua partenza alla madre Penelope ma la serva consiglia a Penelope di fare una
preghiera ad Atena e allora il figlio sarà salvo.
Mentre Penelope si tormenta, Atena invia al suo palazzo la sorella Iftima sotto forma di fantasma.
Il fantasma la rassicura poiché gli Achei hanno preceduto i proci e stanno per tendergli un agguato
sull’isola di Asteride.

METI, DEA POLIMORFA


Secondo il mito è stata anche la prima amante (e forse la prima moglie) di Zeus, il padre di tutti gli
dei, ma la donna non si consegnò facilmente al dio, trasformandosi in mille modi cercando di
sfuggirgli, prima di arrendersi. Un altro oracolo aveva previsto che Zeus sarebbe stato detronizzato
da un figlio avuto da Meti e quindi dopo aver giaciuto con lei, decise di divorarla (tecnicamente la
profezia riguardava tutta la genìa degli olimpici, fin dai tempi di Urano e si riferiva al fatto che il
primogenito maschio avrebbe detronizzato il padre, come Crono con Urano, e Zeus con Crono.
Nonostante gli sforzi del dio, nacque Atena, dea femmina, ma dalle prerogative mascoline).
Zeus la indusse quindi a trasformarsi in una goccia d'acqua (nella mitologia greca l'intelligenza e
l'astuzia erano rappresentate come poliformi e in continuo cambiamento: Meti, infatti, è in grado
di assumere ogni forma desideri) e la inglobò bevendola. Secondo un'altra versione, fu trasformata
in una cicala o in una mosca e inghiottita da Zeus, il quale affermava che talvolta sentiva la voce di
Meti che gli dava suggerimenti. A questo punto venne al dio un fortissimo mal di testa e, grazie
all'aiuto di Efesto o Prometeo, si riuscì a spaccare con un'ascia il cranio immortale di Zeus, e dalla
ferita uscì Atena.
PERSONALITà MULTIFORME,POLIEDRICA E PROTEIFORME PROPRIA DI MENELAO E ODISSEO.
Grazie al consiglio di Proteo Menelao può sperimentare il nostos (ritorno, ritorno a casa in questo
caso), come Proteo attua delle metamorfosi divine (in realtà inganni) Menelao e Odisseo sono in
grado di assumere molteplici aspetti, mimetizzarsi e tessere inganni e piani, sono poliedrici e
proteiformi e compiono delle metamorfosi di adattamento sociale e situazionale.

MARE COME ALDILà


Proprio in quanto simbolo delle forze nascoste della natura, Posidone è, nel mito, padre di
numerose creature terribili. Tritone, concepito con la divinità marina Anfitrite, è per metà uomo e
per metà pesce. Abita in una reggia d’oro nelle profondità dell’oceano, capriccioso agitatore delle
onde e temuto dai marinai.Polifemo, ciclope gigantesco con un solo occhio in mezzo alla fronte,
pascola le sue capre e vive in un’enorme caverna. Quando Ulisse vi si imbatte, nelle sue
peregrinazioni, rischia di morire insieme ai suoi compagni, fatti prigionieri; facendo però ubriacare
Polifemo, che non ha mai assaggiato il vino, Ulisse riesce a fuggire dopo averlo accecato. Il gigante
grida vendetta e invoca il padre: da allora Posidone sarà sempre ostile a Ulisse e lo terrà lontano
dalla patria per molti anni. Divinità del mare e di tutte le acque, ma anche dei terremoti, il greco
Posidone è simbolo delle forze oscure e pericolose della natura: genera creature mostruose e
spesso è irascibile e vendicativo. Il mare è insidioso di pericoli e vi risiedono vari mostri, ma è
anche simbolo di nascita poiché dal mare nasce Afrodite e l’acqua è simbolo di vita.
Quindi si intuisce come fin dall'antichità il mare era sì percepito come punto e luogo di origine
della vita, ma soprattutto come luogo dell'ignoto e delle mille possibilità.
Ovviamente ritroviamo in esso anche tutte le caratteristiche dell'acqua (Vedi voce Acqua) da
quelle legate all'archetipo della madre che nutre, rigenera e rinnova a quelle della madre
distruttrice dalla forza incontrollabile.

Anche l’isola di Faro rappresenta l’aldilà perché si trova in Egitto e gli egizi basavano la loro
intera cultura sul culto dei morti:
Vivere nell'aldilà era semplice e non si faticava:
gli Egizi ritenevano che nell'aldilà la vita si svolgesse in una specie di paradiso rurale,
nei campi di papiro, governati dal dio Osiride.
Essi pensavano che dopo la morte, l’anima, dopo essere rimasta qualche tempo nella tomba,
ne uscisse e si recasse al cospetto del dio Osiride.
Se il parere di questo dio era favorevole, l’anima poteva entrare nei campi delle fave
che sono di una fertilità inesauribile dove i morti potevano lavorare e,
quando erano stanchi potevano essere sostituiti dai loro “rispondenti”
cioè delle statuine che per questo scopo venivano messe nelle loro tombe
Prima di raggiungere la vita eterna, però, il defunto doveva sconfiggere i mostri
e attraversare i laghi di fuoco; ma se aveva il libro dei morti
che racchiudeva le preghiere per esorcizzarli, gli ostacoli venivano superati facilmente.
La prova più difficile da superare era l'ultima:
Anubis portava il morto da Osiride e dai suoi 42 giudici,
che pesavano il cuore del morto con la piuma della Dea Maat.
Se il cuore pesava più della piuma il defunto veniva divorato da Ammut, un mostro terrificante,
se il cuore pesava come la piuma andava verso la vita eterna.

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