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Madonne nere

Il contesto culturale delle due Madonne nere è in entrambi i casi mariano. Procedendo da
Nord a Sud: 1) Il culto della Madonna di Canneto → è tuttora attivo nella Valle di
Canneto (comune di Settefrati), una vallata isolata in provincia di Frosinone, dove ogni
anno si celebra un pellegrinaggio estivo che ha come meta il Santuario dedicato a una
Madonna Nera. Lo spazio sacro della Madonna di Canneto confina con i resti di un antico
santuario italico del V secolo a.C. dedicato alla dea Mefite. L’evento si celebra tra il 18 e il
22 agosto di ogni anno e raccoglie un alto numero di pellegrini che confluiscono dai più
diversi paesi del basso Lazio, della Campania e dell’Abruzzo. L’evento fondativo prende
le mosse dall’incontro prodigioso tra una fanciulla e la Vergine: la pastorella Silvana è
intenta a pascolare i suoi animali, quando appare una signora che le chiede di esortare il
parroco di Settefrati a edificare nel luogo dell’incontro una chiesa dedicata alla Madonna.
Silvana replica che non può raggiungere il paese perché deve portare gli animali a valle
per abbeverarli, allora la Madonna prontamente fa zampillare dell’acqua. La ragazza
allora corre in paese e torna con alcuni compaesani nel luogo dell’apparizione, ma accanto
all’acqua sorgiva troneggia una statua lignea raffigurante una Madonna nera con un
Bambino. I pastori allora tentano di trasferire la statua a Settefrati, ma il tentativo fallisce,
perché allontanata dal luogo in cui si è manifestata, la statua diviene talmente pesante da
dover essere appoggiata a una roccia, sulla quale si produce l’impronta del capo ed è li che
verrà edificata la chiesa in suo onore. Tale mito di fondazione, essendo di contesto
pastorale, connette la venerazione della Madonna con il culto dell’acqua e delle pietre.
L’occasione del pellegrinaggio prescriveva, almeno in passato, l’attraversamento a piedi
nudi delle acque del fiume Melfa e si ricercavano delle pietre filiformi, sottili lamine di
color giallo oro dette “stellucce della Madonna”, in quanto in esse di ravvisavano le tracce
mitiche di un anello d’oro che la Vergine portava al dito, quando, da vera Signora delle
pietre, con la mano tagliò la roccia, facendo sgorgare una vena d’acqua frammista a
polvere d’oro. Per far sì che la Madonna di Canneto esca dallo spazio liminale della vallata
e la sua venerazione si estenda anche nello spazio urbanizzato del paese, si è creata una
copia della Madonna, un doppio, questa volta “bianca”, che ogni anno verrà portata in
processione al santuario per congiungersi temporaneamente con la gemella. Oltre a questa
ci sono altre due copie della Madonna di Canneto: la Madonna della Libera di Aquino,
che i pellegrini denominano “la gemella bianca” di quella di Canneto, e la Madonna delle
Grotte di Rocchetta al Volturno, “sorella” a detta dei fedeli di quella di Canneto.

Mefite → divinità osca (della popolazione italica degli osci) di matrice ctonia (degli inferi).
Protettrice al tempo stesso di acque sorgive, di armenti e di piante, è associata al successo
terapeutico di acque termali, spesso solforose, utilizzate per la cura di malattie umane e
animali. Signora della “medietà” Mefite presiede ai passaggi e vigila sugli opposti (la
vita e la morte, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il regno dei vivi e quello dei morti).
E’ forse in ragione di questa propensione che il culto viene connesso con il successo della
transumanza, del passaggio delle greggi da un pascolo all’altro. Il suo rapporto con gli
elementi naturali e con le forze ultraterrene legittima al tempo stesso giustapposizioni
ellenizzate con i culti di Artemide, di Demetra e di Persefone. A Roma la Dea trova spazio
sul colle Esqulino, in un bosco sacro, accanto a divinità preposte alla cura di malattie
legate a climi paludosi e insalubri. Il culto mefitico è giunto nella valle del Canneto intorno
al VIII secolo a. C. e il tempio e reperti dedicati alla dea erano ubicati alle sorgenti del
fiume Melfa, spazio intermedio che ben si accorda con le condizioni di vita degli
allevatori, di culture ancora non del tutto sedentarizzate. E’ per questo che l’origine stessa
del nome della dea Mefite si attesta nel tempo sulla matrice osca mefiai, che “sta nel
mezzo” e inoltre Mefitis si collega al greco mesitis, “intermediario, mediatore, arbitro”.

Grecia → L’antropologo James Frazer in un suo libro descrive il sito sacro del dio Apollo
come una gola profonda e tenebrose, tanto da ricordare molto l’alta valle di Canneto.
Questo perché lì come a Delfi ricorre il motivo dell’onphalos, cioè dell’ombelico della
terra, una terra-madre che potrebbe in qualsiasi momento risucchiare e riprendersi le sue
creature. Anche a Delfi infatti, prima che l’Apollo Pitico si insediasse con il suo culto,
veniva venerata una grande madre feconda che lasciò il posto a Dioniso Zagreo. Sempre
Frazer ci dice che nella valle della Neda, a ovest di Figalia, è presente la grotta della
Demetra Nera, nella quale è presente anche l’immagine di Cristo e di San Giovanni
Battista. Questo perché man mano che i pastori si sedentarizzano, la figura dell’oscura
“Signora-Silvana”, signora dei boschi e degli animali, si opacizza, fino ad assumere i tratti
rassicuranti di una Vergine, figura esemplare di mediazione del dio-padre. Va poi detto
che il mito vuole che Delfi fosse stata eretta sulle ceneri di Pitone, il mostruoso serpente di
smisurata grandezza, nato dal fango della terra, dopo il diluvio di Deucalione. Pitone
verrà sconfitto da Apollo, che per placare la sua collera tellurica istituirà in suo onore i
giochi pitici. La vittoria di Apollo su Pitone e l’avvio del suo culto a Delfi simboleggia da
una parte il trionfo della luce sulle tenebre nel pantheon greco, dall’altra segna il ruolo
della Pizia, sacerdotessa di Apollo, che trae alimento per le proprie profezie dai vapori
“necrofori” di un arcaico figlio della terra. Dunque una casta vergine, reclusa tra le pareti
di un tempio sacro, luogo esemplare di “intermediarietà” interetnica, si fa interprete dei
saperi di un dio-uomo che si insedia nell’onphalos della terra, tra l’utero di Gea e l’urna di
Pitone: non si può non accostare la candida Pizia alle gemelle bianche della Madonna
nera. Per quanto riguarda Atene invece un racconto ci narra la nascita di un tempio
dedicato alla Madre degli dèi, il Metròon, che fu edificato per tentare di placare l’ira della
Grande Madre, offesa dagli ateniesi che ne avevano scacciato il Gallo-sacerdote. Fu
proprio la Pizia delfica ad ordinare loro di erigere questo tempio, proprio nell’Agorà di
Atene, ovvero nel luogo esemplare della vita politica della democrazia ateniese.
Addirittura nel tempio si accoglie il Bouleuterion, la Sala del Consiglio dove si conservano
gli archivi pubblici della città.
2) Madonna del Tindari: l’evento fondativo prende le mosse dal Mar Tirreno che arresta il
percorso di una nave, dalla quale viene abbandonata l’urna che custodisce la statua. Sul
basamento della statua c’è scritto Nigra sum, sed formosa (frase che è presente nel Cantico
dei Cantici). Il santuario dedicato alla Madonna del Tindari si trova nell’omonima frazione
di Patti, comune della costa nord a 80 km da Messina. Il santuario si anima soprattutto nel
mese di maggio, il mese mariano, e in quello di settembre. La festa in onore di Maria del
Tindari ha luogo ogni anno tra il 6 e l’8 settembre, mentre la processione del simulacro
della Vergine si svolge la sera del 7 settembre. La leggenda vuole che proprio sulle coste
del promontorio su cui si affaccia il santuario (che fronteggia le isole Eolie, dominando la
costa da Capo Milazzo a Capo d’Orlando) una nave di ritorno dall’Oriente si fosse un
tempo arenata per ragioni misteriose. Dopo numerosi tentativi i marinai, seguendo un
presentimento “ispirato dal cielo”, decidono di liberarsi della statua lignea di una Madre
nera. La nave prende subito il largo, i pescatori locali raccolgono la statua della Vergine e
la collocano in un tempio abbandonato della “città del Tindaro”, dove il simulacro, posto
in piedi, imprime con determinazione una pedata di consenso che lascia, inconfondibile,
un’impronta sulla parete. Come la Madonna di Canneto, anche questa statua è
irrecuperabile allo spazio abitato, segnando i confini di uno spazio liminare. Non a caso
anche la Madonna di Tindari si insedia nella topografia mitica di uno spazio oscuro e
viscerale, tra una montagna e un mare che penetra nelle fessure delle scogliere. E inoltre
come nella Valle di Canneto, anche nel territorio circostante Tindari sono presenti faglie e
acque sulfuree, elementi di instabilità del suolo e del sottosuolo. Si dice inoltre che il
colorito scuro della Madonna sia dovuto alla sua permanenza salvifica tra le fiamme
dell’inferno: ecco che allora la donna è dominatrice sia delle acque che delle fiamme,
rafforzando così l’isomorfismo del panorama sotterraneo siciliano, nel quale esiste una
corrispondenza simbolica costante tra caos igneo e caos subacqueo. All’indomani del
radicamento della Vergine nel suo luogo di culto, la folla dei fedeli cominciava a
incrementarsi e la fama del suo potere a diffondersi. Sicchè una donna che aveva fatto voto
alla Madonna, ottenuta la guarigione della figlia si incamminò alla volta del Tindari per
omaggiare la Vergine e portò con sé la sua bambina. Giunta al cospetto della sacra
immagine, di fronte alla inattesa nerezza del volto, pare che la pellegrina abbia esclamato
delusa: Haju vinutu d’una longa via, pri vidiri a una cchiù brutta di mia. A questo punto,
sottratta alla sorveglianza della madre, la bambina precipita in mare e quando la madre la
vede annaspare tra le onde, pentita per il commento sacrilego chiede il perdono della
Vergine, la quale fa ritirare il mare e in luogo delle onde si viene a formare un sottile tratto
di spiaggia contornato da laghetti (Marinello), dove la madre graziata ritrova la bimba
sana e salva, accudita da increduli marinai o intenta a raccogliere conchiglie. Si vuole che
le lingue di sabbia originate dal miracolo, lambite dalle acque stagnanti dei laghetti, si
siano sagomate a imitazione di una figura verginale, e tutt’oggi i fedeli pretendono di
riconoscere nella loro conformazione l’immagine di una Madonna ammantata.
Castore e Polluce → Questo luogo culturale del Tindari è riconducibile alla matrice greca
del paese: sono infatti molte le fonti che concordano su una prima intronizzazione della
Vergine di Tindari nel tempietto greco-romano dedicato alla dea Cerere. Ci sono anche
molte somiglianze estetiche con Demetra. Infatti la nascita della Tindari greca, stando a
quanto attesta Diodoro Siculo, è ascrivibile al 396 a.C., nel quadro di quella imponente
migrazione in area magno-greca e sicula da parte dei cittadini alleati ad Atene, dopo la
sconfitta della guerra del Peloponneso. In accordo con il costume greco di dedicare la città
fondata a una divinità, la scelta cade sui gemelli Tindaridi, Castore e Polluce. I Tindaridi
nascono entrambi da una delle due uova partorite da Leda (sposa di Tindaro, re di Sparta),
che dopo essersi congiunta con Zeus-cigno li generò sotto le cime del Taigeto. Dal primo
uovo nacque Elena, dal secondo i gemelli (saranno tra gli Argonauti, creatori della
costellazione astrale dei Gemelli, protettori dei naviganti). Anche in questo caso c’è il
binomio bianco-nero: i mitici gemelli infatti ascendono dallo statuto di “eroi” di segno
ctonio (come Tindaridi) a quello di “figli” di Zeus Olimpio (come Dioscuri), riscattandosi
progressivamente da un destino notturno in favore di uno diurno, celeste, solare, affidato
alla cifra del “bianco” (vengono infatti chiamati “portatori di luce” e per ingraziarsi la loro
benevolenza i marinai sacrificano in loro onore agnelli bianchi sulla poppa delle
imbarcazioni in pericolo). Di questi Dioscuri bianchi ci sono moltissimi gemelli neri
cristianizzati e che, secondo la tradizione, al pari della Vergine, hanno consumato la loro
catabasi nelle viscere della terra e hanno assunto il colore nero dopo aver combattuto le
fiamme dell’inferno: basti pensare al culto di San Calogero, di San Salvatore di Fitalia, di
San Filippo Neri a Rodì e a Furnari, o quello di San Cono a Naso o a quello di San Leone a
Sinagra.

Elena → La sua bellezza irreale induce gli anziani troiana a comparare la sua bellezza
“terribile” a quella di una dea: una bellezza oscura, una luce dal bagliore sinistro che la
proietta nello stesso campo semantico del binomio buio-luce individuato per i suoi fratelli.
Al motivo dell’ambiguità e dell’erranza si àncora il legame di Elena con l’universo
acquatico, la sua intrinseca vicinanza al mondo delle Sirene, ma anche la sua
predisposizione a un mondo infero che la vuole ora struggente lamentatrice, ora figlia di
una figlia della Notte, cioè partorita da Nemesi “dalle belle chiome”, la nera figlia della
Notte, sorella di Eris. Euripide poi, nella tragedia a lei intitolata, racconta che la ragazza,
esule in Egitto incontra un marinaio acheo, Teucro, figlio di Telamone e fratello di Aiace, al
quale chiede notizie sul destino dei suoi familiari, offrendo in cambio auspici e consigli su
come orientare le sue vele verso Cipro. Dopo aver appreso da Teucro che la madre e i
fratelli sono periti durante il suo confino, che dello sposo Menelao si sono perse le tracce,
sulla via del ritorno, si presume che Elena abbia chiesto alle Sirene di accorre e unirsi al
suo lamento. Questa versione euripidea del mito era certo nota nella Sicilia del IV secolo a.
C. anche perché il tiranno di Siracusa Dionisio, che incoraggio la fondazione di Tindari,
era scrittore di tragedie e fanatico ammiratore di Euripide.
Donna Villa→ Sirena antagonista della Madonna, che abita una grotta sottostante il
promontorio su cui si affaccia il santuario. Si tratta di una grotta quasi inaccessibile, situata
a nord-est della collina. Ci si accede attraverso un piccolo sentiero scavato nella roccia a
picco sul mare. Nelle pareti della grotta ci sono moltissimi microfori creati dai molluschi
marini, ma che secondo la leggenda sarebbero stati provocati dalle unghie della maga, che
così si sarebbe sfogata ogni volta che non riusciva ad attirare il navigatore di passaggio. Di
lei si racconta infatti che, trasformando le sue fattezze in quella di una bellissima fanciulla,
ammaliava naviganti e corsari con un canto melodioso, invitandoli nel suo antro dove i
malcapitati, dopo aver attraversato un cunicolo buio, con un salto nel vuoto precipitavano
in un fosso. Donna Villa a quel punto si cibava voracemente delle loro carni, accumulando
i loro tesori nei recessi della grotta e tappezzando la sua dimora con le loro ossa. Per
questo motivo spesso Donna Villa si associa alle Sirene tirreniche, che miticamente hanno
sede a Capo Peloro. Inoltre come la figura della Sirena tra il IV e il III secolo perde
l’elemento ferino e viene umanizzata, così anche Donna Villa prende le sembianze umane
perdendo la morfologia ibrida della donna-uccello o della donna-pesce. Donna Villa
inoltre è in diretto antagonismo con la Vergine. Si narra infatti che la maga, bellissima e
perversa, piuttosto che i marinai fosse dedita a rapire le spose alla vigilia del matrimonio o
nella prima notte di nozze, inducendole a gettarsi nel precipizio che le avrebbe portate alla
sua grotta, per poi ammaliarle con un canto seduttivo che le faceva cadere in un sonno
profondo, e quindi eliminarle, intonando una struggente nenia funebre. Fin quando una
fanciulla di nome Maria Tindara non viene protetta dalla omonima Regina del Cielo, che
appare in sogno alla madre e le dona un rosario, raccomandandole di apporlo al collo
della figlia il giorno delle nozze. Quando Donna Villa, dopo aver rapito la vergine viene a
contatto con il rosario, si dissolve e scompare con un gemito lungo e disperato.
Guadagnato l’accesso alla grotta e ritrovata la ragazza, il promesso sposo decide allora di
costruire, a eterna memoria dell’evento, un tempio della Madonna nera. La leggenda
ripercorre sia il motivo iniziatico del rapimento e della prova del neofita, sia il motivo
della bambina salvata per intercessione della Vergine. Il grani del rosario inoltre evocano il
melograno o le spighe sacre a Demetra e la cui complicità con una madre mortale
riverbera il proprio dolore di fronte alla perdita di una figlia (basti pensare a Persefone),
anche se Donna Villa perde i tratti salvifici tipicamente demetriaci per vigilare su un rito di
passaggio esemplare, rappresentato dal lancio, dal salto, dal tuffo in acque salmastre, da
quel katapontismos (il tuffo nelle acque) che nella mitologia greca ha assunto le
caratteristiche di un vero e proprio motivo iniziatico connesso con il distacco della
condizione adolescenziale. Tale motivo trova nella tradizione narrativa siciliana modelli
rappresentativi eloquenti: ad esempio quello richiamato da Pitrè che narra come una
fanciulla di nome Diana, sfuggita al padre che la voleva sposa, una volta raggiunta e
messa su una nave per fare ritorno alla casa paterna, presso le coste di Messina,
insofferente a un destino che ne pregiudicava lo statuto verginale, si buttò in mare urlando
né di mè patri, né di nuddu; oppure c’è quello richiamato da Serafino Amabile Guastella
che narra di un’orfana devota alla “gran Signora Maria”, la cui bellezza diventa un giorno
motivo di perdizione e che, giunta al termine di una gravidanza peccaminosa, dopo “tre
giorni di inferno” partorisce un figlio maschio brutto come un serpente e coperto di una
crosta maleodorante, tanto che la stessa madre si rifiuta di baciarlo, pur concedendogli il
seno. La madre allora lo conduce presso lo scoglio altissimo sul quale era stata edificata
una cappella a Maria Santissima Assunta. La giovane inginocchiatasi al cospetto della
sacra immagine, chiede perdono alla Vergine e la implora di purificare il figlio innocente e
trasferire su di lei la lebbra del peccato, ma mentre solleva le braccia al cielo, in un moto di
accorata devozione, il figlio le cade in mare. L’urlo straziato della donna ha un’eco
immediato sulla generosità della madre divina, che non solo prosciuga dalle acque il tratto
di mare in cui il bambino era precipitato e lo salva, ma lo depura dalla crosta fetente
rendendolo “lucente come un cristallo” e bello come il suo stesso figlio. Quel bambino
diventerà poi vescovo di Siracusa.

Katapontismos → Vediamo alcune figure mitiche che conservano attraverso il tuffo in


acque marine di volta in volta l’ancoramento, il superamento o il distacco iniziatico
dall’imago materna e la conseguente risoluzione di situazioni critiche proprie di un’età
giovanile. Per cominciare, Eumolpo che viene gettato in mare dalla madre Chione
ingravidata dal padre divino Poseidone. Dopo aver partorito in segreto il figlio
dell’incesto, Chione lo gettò tra le onde, dove Poseidone lo raccolse e lo pose in salvo,
consegnandolo ad un’oceanina che lo allevò nella lontana Etiopia, nelle profondità marine.
Eumolpo rimane lì fino all’età adulta, contraendo nozze e incorrendo a sua volta in un
amore incestuoso. La sua emersione coincide con il suo concorso diretto alla fondazione
dei misteri eleusini, quindi con un rapporto di complicità iniziatica con Demetra, che
insegna a lui e ad altri eroi la “norma del sacro rito”. In questo caso quindi il
katapontismos oltre che evento inscrivibile nei riti di passaggio, diventa così anche prova
di una potenza magico-religiosa che consente a chi lo compie la reintegrazione piena e
privilegiata nell’universo di saperi condivisibili con un mondo divino di segno
femminile, un mondo che in questo caso si articola nel polimorfismo di una imago
materna bianca come la neve, avvolgente come un’oceanina e infine ieratica come
Demetra. C’è poi l’esempio di quel dio di soglia, l’abile fabbro divino, cioè Efesto
Aitnasios (l’Etneo), che prima di inabissarsi nei recessi di un vulcano conosce un
apprendistato fabbrile d’eccezione fra le profondità marine, dove la madre Hera lo fa
precipitare dopo averlo partorito da sola e averne constatata la deformità. Accolto nel seno
del mare da Eurinome e da Teti, Efesto vi soggiorna per nove anni, imparando a foggiare
fibbie, bracciali, monili e collane e in segno di gratitudine verso la sua benefattrice marina,
sarà lui a consolare Teti e a predisporre per il figlio Achille un’armatura degna del suo
statuto eroico. Anche Penelope si narra che sia stata gettata in mare dai genitori, ancora
giovinetta, e posta in salvo da uccelli marini, e nella variante tarda di Apollodoro lei, dopo
la morte di Ulisse, raggiunge le cose tirreniche in compagnia di Telemaco e Telegono
(figlio concepito da Ulisse con Circe, che involontariamente mette fine alla vita del padre)
e lì, sul promontorio del Monte Circe, dopo aver sepolto il defunto marito, sposa
Telegono, mentre Circe sposa Telemaco. Il modello simbolico del katapontismos conosce
un significativo prolungamento nella sfera dionisiaca, dove l’immersione nelle acque
diventa strumento rituale risolutivo di conflitti familiari, specie nelle relazioni madre-
figlia, preambolo mistico di un mutamento di stato, di un riscatto dall’oistros (dal pungolo)
dell’amore, di una preparazione lustrale alla vita coniugale: un epilogo rituale del ritorno
a un grembo materno che legittima una rinascita. Il mitema del tuffo suicida non
risparmia neppure le Sirene, che sconfitte da Ulisse (anche se inizialmente lui non vuole
smettere di ascoltare il loro canto e viene incatenato dai compagni all’albero della nave) si
votano volontariamente a una immersione fatale nelle acque marine. L’impulso suicida
verso le acque nell’età critica dell’adolescenza, specie se di segno femminile ha trovato
sede nel mondo greco oltre che nel mondo mitico anche in quello protoclinico nel trattato
pseudo-ippocratico Sulle vergini. Giovani spinte al tuffo da un inspiegabile senso di colpa,
desideri incontenibili di ofelizzarsi in acque che precludano a un temuto destino di spose.
Fanciulle vigilate da protomedici o da divinità tutelari che regolamentano in sede rituale il
disagio.
L’Acqua nella Grecia Antica

Le Sirene siciliane preesistevano già all’arrivo dei Greci e i loro culti furono riadattati e
integrati nel sistema culturale del pantheon greco. Si trattava di Sirene che, prima ancora
di incarnare l’immagine della donna-pesce, erano in grado di volare e sorvegliare le rotte
dei naviganti, in grado di presiedere al controllo delle correnti e garantire la buona riuscita
della pesca. Nei racconti di tradizione orale delle isole Eolie le Sirene sono accomunabili
alla donna eoliana, abile pescatrice e sovrana delle rotte marine e quindi streghe. Le Sirene
in generale alludono alla nostalgia religiosa di figure immaginali arcaiche, ninfe, figlie
della terra, delle acque e del vento. Guardiamo ora i primi versi della Teogonia di Esiodo: si
dice che Gaia da sola generò Urano stellato, le dee Ninfe e anche Ponto, il mare infecondo,
e inoltre giacendo con Urano generò Oceano. L’ambivalenza dell’acqua è evidente: da una
parte ci si chiede che senso abbia l’attributo “infecondo” a Ponto dal momento che la
stessa Gaia genererà con lui i “tre vecchi del mare”, Nereo, Forco e Taumante; dall’altra c’è
il problema di Oceano, che al contrario della tradizione esiodea, quella omerica lo pone
come origine di tutto. Unendosi poi insieme a Teti, Oceano genererà fiumi e ninfe marine:
tra i figli più illustri c’è Stige (da stygein, odiare) la dea fluviale legata al mondo dell’Ade in
quanto compie per nove volte il giro degli inferi con il suo corso d’acqua. Prima ancora
quindi dell’acqua chiara e gioiosa che origina la vita in sede mitica, il mito greco ci
introduce quindi in un’acqua notturna e tenebrosa, in stretto rapporto con il lato oscuro di
una potenza femminile solitaria non ancora assoggettata al potere di un dio-padre: ci basta
evocare Scilla, le Sirene, l’Idra di Lerna, le Arpie, le Graie, le stesse Gorgoni, creature
tutte in stretto rapporto di filiazione con quei tre vecchi del mare a loro volta generati da
Ponto. Queste arcaiche figlie del mare sembrano ratificare in sede mitica l’analogia trai
pericoli dell’onda e quelli della donna: un’analogia rafforzata dai motivi simbolici della
capigliatura come onda, dei tentacoli che intrappolano, delle mascelle tridentate che
divorano. Questo manicheismo dell’acqua andrà sanato nel segno di una rifondazione
mitica che porterà l’archetipo acquatico alla sua vis generativa e alle sue virtù lustrali,
quindi neutralizzandone la cupa potenza ofelizzante di segno femminile: da una parte
dunque l’acqua verrà ricondotta alla vita umida di un corpo di segno maschile (ad
esempio la nascita dell’oceano dalle lacrime di Crono oppure l’inseminazione dell’oceano
attraverso l’evirazione del membro di Urano dal quale nascerà Afrodite), dall’altra
saranno le divinità femminili a rigenerare le acque cupe in una prospettiva lustrale che
cambia di segno la funzione materna (basti pensare a Leto, madre di Artemide e Apollo,
che gelosa della prolificità di Niobe, regina della Lidia, uccide i suoi 12 figli e trasforma in
pietra i sudditi, cosicchè Niobe inizia a piangere ininterrottamente per 9 giorni e allora
Zeus mosso a pietà la trasforma in roccia, ingenerando dalle sue lacrime una corrente
d’acqua).

Achille→ per l’eroe l’acqua è sempre stato un elemento importantissimo. Figlio della
dea Teti e del mortale Peleo, il suo stesso nome è legato a divinità fluviali liminali
(Acheloo, Achele). Nell’Illiade Achille invoca in riva al mare l’emersione della figura
materna piangendo, invoca i suoi lamenti e confida le sue sofferenza, il mare è il luogo in
cui è stato partorito dalla madre prima di essere deposto sulle coste della Tessaglia e
consegnato al padre mortale. Inoltre come è noto Teti immerse il figlio nelle acque dello
Stige per renderlo invulnerabile, eccetto che nel tallone con il quale la madre tratteneva il
neonato al momento dell’immersione. Nell’Illiade è esplicitata la devozione di Achille nei
confronti di un fiume divinizzato, lo Spercheo, il fiume al quale Achille avrebbe dovuto
offrire le sue chiome al ritorno in patria, chiome fluenti che invece donerà all’amico
Patroclo, per favorirne il viaggio nell’oscurità dell’Ade. Il dono votivo era una
consuetudine arcaica nella Grecia antica, per la quale all’età di 18 anni ogni nato di sesso
maschile dedicava un ricciolo della propria chioma al fiume della sua terra in segno di
riconoscenza per esservi stato allevato (i fiumi venivano infatti chiamati kourotrophoi,
allevatori di giovinetti) in quanto attraverso la complicità dell’acqua sacra della propria
terra il liquido seminale preposto alla riproduzione può raggiungere la sua pienezza
generativa. Inoltre Achille offrirà i cadaveri dei suoi nemici al fiume Scamandro e dinanzi
a due sue fonti sacre ucciderà Ettore. Ancora una volta quindi l’acqua come luogo di soglia
tra la vita e la morte.

Ulisse→ Achille e Ulisse fanno il loro ingresso nei rispettivi poemi in uno scenario epico
asperso di acqua e di pianto, Achille piangendo in riva al mare invocando sua madre,
Ulisse disperato per non poter proseguire la via del ritorno in patria per volere di Calipso.
Possiamo considerare l’Odissea come l’epopea della vittoria di un eroe sui pericoli
dell’onda, un’onda marina che rafforza l’immagine già emersa in sede mitica di una
femminilità fatale e inquietante. Confrontando i due eroi, se il dominio sulle acque fluviali
di Achille ne attestava la funzione di eroe culturale che lotta con gli elementi di una natura
indomita, assoggettandola ai principi di un rinnovato equilibrio etico-civile, il viaggio di
Ulisse attraverso le insidie del mare è in qualche modo un percorso epifanico che ratifica la
sua statura legale. Basti pensare all’episodio del riconoscimento dell’eroe fra le pareti del
suo palazzo: incaricata da Penelope di eseguire un lavacro per lo straniero, Euriclea,
l’anziana nutrice di Ulisse, riconosce nel falso-ospite l’amato re, accarezzandolo con
l’acqua calda. L’acqua concorre, assieme al pianto di Euriclea e all’evocazione commossa
del suo latte da parte di Ulisse, alla ripresa di un tempo lineare, un tempo nel quale
“tutto scorre come un fiume”.
Elettra → nelle Coefore di Eschilo, tenta di lavare l’offesa perpetrata da sua madre
Clitemnestra, macchiatasi di uxoricidio, e di risvegliare l’ombra di un padre cui è stata
sottratta, oltre che la vita, la potenza generativa: l’acqua versata sulla tomba di
Agamennone consentirà anzitutto di reidratare un corpo orrendamente mutilato dal
gesto sacrilego dell’evirazione. Tale offerta votiva si accorda peraltro con le consuetudini
più arcaiche relative al culto dei morti, che consentivano anzitutto nel versare acqua sui
loro corpi e sulle tombe: acqua che veniva ricevuta e bevuta direttamente dalla psychè
(anima) disidratata del defunto (tale offerta trova eco in un tributo di lacrime da parte del
coro delle Coefore). Allo stesso modo anche Achille alla tomba di Patroclo e Oreste alla
tomba di Agamennone e anche al fiume Inaco, invece che l’acqua, pongono una ciocca dei
loro capelli. Elettra quindi converte il dono votivo dell’acqua in strumento di vendetta
per placare la sete del padre defunto.

Fedra → nell’ Ippolito di Euripide è l’emblema del desiderio solitario della creatura
femminile di natura equivoca, sensibile al richiamo di una natura ferinica manifestata
dalla brama di acqua “purissima” attinta da sorgenti boschive, metafora del desiderio
sessuale nei confronti del figliastro Ippolito. Nel testo euripideo quindi l’acqua e il liquido
seminale si declinano in un’unica prospettiva metaforica. Alcune ricorrenze etimologiche
ci rendono l’eco: la radice greca del termine libare (versare liquido), leibein, si prolunga
tanto nel leibesthai che presentifica il desiderio sessuale. L’acqua quindi ha questa dualità
di vita e morte, mediato dalla metafora della sessualità come vertigine e inabissamento
(ricordiamo anche il mito di Narciso punito da Nemesi per aver respinto l’amore della
Ninfa e l’esperienza di Tiresia reso ceco per aver sorpreso Atena al bagno).

Atena → Nell’ Inno per il bagno di Pallade Callimaco ci dice che Atena per aver sorpreso un
giorno il proprio volto riflesso nelle acque di un ruscello abbia per sempre rinunciato
all’uso dello specchio, in quanto avesse visto il suo viso sfigurato, deformato dallo sforzo
dell’insufflazione (in quanto suonava spesso il flauto per simulare i suoni striduli emessi
dalle Gorgoni). L’acqua si fa in questo caso elemento di esplicitazione di una verità
tanto folgorante quanto raccapricciante che rinvia a qualcosa di tanto più spaventoso
quanto più ci è noto e familiare: quando il suo sguardo si posa su se stessa, la dea vive il
turbamento di chi si misura con l’immagine inquietante di una femminilità tanto più
temibile quanto più elementare e assoluta. La propria immagine allo specchio la espone al
pericolo di perdersi ella stessa nella visione di un corpo che svela lo spettro greco della
femminilità, l’eidolon della sessualità. Il volto divino della vergine, riflesso nella purezza
dell’acqua sorgiva, slitta verso la rivelazione di una maschera, mostrandosi come una sorta
di viso di Medusa, che è appunto la rappresentazione cruda e brutale del sesso femminile.
Pan

Nella Grecia classica non si dà città senza coscienza del confine, del cippo liminare che
delimita l’oltre e non si dà città senza conoscere questo oltre, un oltre che fonda l’ordine
teogonico, l’armonia tra figure divine che orientano l’uomo verso l’ethos civico. Tutto
questo sarà pensato sotto il passaggio di un dio limite come Pan e delle sue “sorelle”, le
donne, sempre pensate come “straniere” nello spazio civico.

Patria del Sè → Atene, polis per antonomasia, è scandita da tre luoghi solenni: l’Acropoli
(la collina del potere e del sacro), l’Agorà (la piazza pubblica), il Ceramico (il cimitero
nazionale). C’è poi una comunità di cittadini e due categorie di non-cittadini, i meteci e gli
schiavi. I miti ad Atene parlano con grande precisione del presente e del passato della
città. Il genos autoctono della “famiglia ateniese” annovera come antenato mitico
Erittonio, nel cui nome si annida la matrice linguistica che rimanda alla terra (chton).
Erittonio nasce da una terra attica ancora solitaria, non popolata, che viene quasi
casualmente fecondata dal desiderio incontenibile del dio Efesto per la vergine Atena: egli
la insegue per possederla ma la dea scappa, tuttavia nel tentativo di abbracciarla lascia
sulla sua coscia una goccia di sperma che la dea raccoglie con un bioccolo di lana e a
gettare a terra fuggendo spaventata. La terra accoglie e conserva il seme consentendone la
gestazione. Erittonio viene partorito direttamente dalla terra attica e quindi allevato da
Atena, con il concorso della vergine Aglauro, figlia di Cecrope. Erittonio sarà il primo re
della città di Atene. La terra-patria sarà per sempre celebrata come ventre, come madre,
come matrice che feconda e genera per partenogenesi il suo primo figlio. Il fondatore di
Tebe invece fu Cadmo, un pastore errante che approda in Beozia al seguito di una vacca
sacra a cui l’oracolo delfico gli predice di fondare una città in quel suolo nel quale
l’animale si inginocchierà sfinito dalla stanchezza e poi dovrà sacrificarlo. Qui Cadmo
semina i denti di un serpente gigantesco e da essi avrà vita la stirpe degli autoctoni tebani,
gli Spartoi, i Seminati. Gli Elleni invece, antenati dei Greci, nasceranno dalla coppia mitica,
Deucalione (figlio di Prometeo, titanico progenitore del genere umano) e Pirra (figlia di
Pandora, la prima donna). Sono già uniti in nozze quando Zeus scatena un diluvio mitico
che uccide tutta l’umanità ibrida esistente, non ancora connotata da identità locale.
Risparmia però i due grazie a un arca e dopo aver navigato per nove giorni approdano
sulla terraferma. Zeus concede a Deucalione, che ha offerto un sacrificio al dio, la
realizzazione di un desiderio e siccome Deucalione esprime che la terra fosse di nuovo
popolata dagli uomini Zeus concede loro delle pietre che lanciate alle proprie spalle
daranno vita a uomini e donne. Più tardi i due avranno dei figli, tra i quali Elleno,
antenato di tutti i greci. Ancora una volta un riferimento alle pietre, ossa della terra, che
ancorano indissolubilmente i propri figli al luogo natale. Si tratta quindi di un paese da
amare come “patria del Sé”, perché è effettivamente una madre-patria. L’identificazione
del luogo nativo con lo spazio abitato si ritrova anche nella vendetta di Ulisse sui Proci.
Ulisse infatti diventa l’eroe fondatore di un’identità locale che radica nella “petrosa” Itaca
il principio della rigenerazione sedentaria di un regno: la sua vendetta è una sorta di
sacrificio edilizio che permette a un re di superare la forma clanica e conquistare la più
salda dimensione di radicamento mitico in una terra patria, in quanto le mura del palazzo
regale diventano l’archetipo del luogo dell’abitare e Ulisse non è altro che un’erede
rinnovato dell’eroe fondatore. Nella Grecia democratica quindi si esaltano i benefici
dell’autoctonia e il senso dell’identità locale appare inscindibile dalla memoria del
suolo delle origini.

Lo straniero → Erodoto ci racconta che l’araldo Filippide, cittadino di Atene, inviato a


chiedere l’aiuto dei Lacedemoni nell’assedio di Maratona, incontrò il dio Pan sul monte
Partènion, fra l’Argolide e l’Arcadia. Pan chiede a Filippide per quale motivo gli ateniesi
non si curavano di lui che tanto era stato loro favorevole e tanto ancora lo sarebbe stato.
Dopo la vittoria di Atene gli ateniesi fondarono ai piedi dell’Acropoli un sacrario dedicato
a Pan e in seguito lo propiziarono con sacrifici annuali e con una corsa di fiaccole. Da
allora Pan garantirà alla collettività che ne legittima il culto il controllo degli spazi
“liminari”. Il suo antro sull’Acropoli è situato accanto a quello di Aglauro, figlia del primo
autoctono imperfetto della città, metà uomo metà serpente. Aglauro, che farà da nutrice al
primo vero autoctono della città, Erittonio, è quindi una figura intermediaria tra il mondo
divino e quello umano e occuperà nel pantheon ateniese un posto esemplare e al tempo
stesso “liminale”. Pan quindi incontra così il mondo delle città, le quali grazie a lui
potranno dare abilità mitica e storica alle figure dell’alterità. La città insinua quindi nella
purezza mitica dell’autoctonia l’intrusione di un altro, appunto Pan, il cui prestigio
concorre a rinnovare la gloria del Sé. La presenza di Pan ai piedi dell’Acropoli attesta e
ratifica sul piano del discorso mitico l’”estraneità familiare” dello stato selvaggio nella
città. Inoltre l’inclusione di uno “straniero eccellente” dai connotati divini consentirà ad
Atene il riconoscimento e il controllo anche ideologico di un prototipo di straniero (xènos
prima ancora che barbaros), che, per analogia con il dio-capro, porterà nei suoi tratti
somatici lo stigma dell’alterità. Persino Erodoto, primo etnografo della storia occidentale
(un asiatico transfugo, accolto ad Atene), concorra all’edificazione di un immaginario
paradossale e deviante dello straniero, tanto più vicino a una morfologia mostruosa
quanto più lontano dalla terra greca e dal modello fisiognomico del cittadino ateniese (i
calvi Agrippei, gli acefali Libici, i Tauri impalatori di teste, gli Sciti che usano i teschi come
coppe e fanno pellicce di pelle umana).

La donna → Nelle Opere e giorni e nella Teogonia di Esiodo la prima donna appare come la
capostipite di una razza a sé, appunto la razza delle donne: Pandora infatti, la “tutta-
dono”, sarebbe la madre del gènos femminile. Pandora inoltre sa parlare e il dono della
parola è di per sé indice dell’inganno ed è per questo associata alla cagna, paradigma
animale che inaugura l’intrinseca comunione simbolica tra la razza delle donne e la natura
selvaggia ferinica, indomabile. Per questo il primo binomio fondante l’equilibrio di una
polis risiede nel processo lento e faticoso di domesticazione di un “panico” primordiale
associato all’immagine selvaggia di una razza straniera, una razza che in sede mitica
coincide implicitamente con la razza delle donne. Esiodo ci parla poi delle figlie della dea
Notte, che, come Gea, dà vita alla sua stirpe per partenogenesi: Apate (Inganno), Philotes
(Amore fisico), Eris (Discordia), e Thanatos (Morte), tutte creature femminili che
anticipano su un orizzonte teogonico connotazioni negative della donna mortale.
Abbandonando anche l’orizzonte esiodeo numerose sono le figure mostruose di sesso
femminile: Sfingi, Arpie, Gorgoni, Sirene, Chimere, la coppia Scilla-Cariddi, le Moire, le
Ecati, le Empuse, le Erinni. Inoltre va detto che nell’antica Grecia si cercava di evitare il
matrimonio esogamico, in quanto la donna, anche dopo il matrimonio, continua ad essere
parte integrante del clan paterno, quindi pur sempre una straniera.

Medea → A prima vista il dramma di Medea poggia sulla reciproca contrapposizione di


due culture, quello ieratico e arcaico di Medea e quello razionale e pragmatico di
Giasone. La storia di Medea si inquadra nel ciclo mitico degli Argonauti. Guidati da
Giasone sulla nave Argo, i 55 mitici eroi si muovono dalla Tessaglia alla Colchide, alla
ricerca del vello d’oro. Il viaggio ha inizio dal porto di Pàgase (in Tessaglia) ed è costellato
da numerose avventure. Gli Argonauti fanno sosta a Lemno e a Samotracia, penetrano
nell'Ellesponto, giungono all’isola di Cizico, poi in Bitinia, poi ancora in Tracia, quindi nel
ponte Eusino (Mar Nero) e alle estreme pendici del Caucaso, fino a giungere ad Ea, città
capitale della Colchide (Georgia). Il ritorno prevede un altro tragitto di tipo fluviale.
Risalendo il corso dell’Istro, l’odierno Danubio, si spingono verso l’Adriatico e
traversando l’Eridano (il Po) e il Rodano, sfociano nel Mediterraneo, doppiano la Sardegna
e approdano nel regno di Circe (Circeo), che purifica Giasone, resosi complice
dell’assassinio e dello smembramento di Absirto, il giovane fratello di Medea. Superato il
pericolo di Scilla e Cariddi, i naviganti trovano ospitalità alla corte di Alcinoo, nell’isola
dei Feaci e dopo altri ostacoli riapprodano infine a Pàgase. Quattro mesi, il tempo
trascorso dalla partenza. L’amore di Giasone per Medea lo porta al cammino verso la
conoscenza, che è anzitutto cammino di affermazione di un nuovo ordine virile e che
quindi esige la destituzione del potere della donna, inteso come emanazione del potere
della dea-madre. Le varie tappe del mito sono esplicite a questo riguardo: Giasone che si
addentra nel mondo “barbaro” non è lo straniero nomade, che per esautorare il re lo
uccide e si congiunge con la regina, secondo un’usanza neolitica; ma è piuttosto un eroe
rinnovato che, ribaltando arcaiche consuetudini, sposa Medea mettendo in pratica
l’istituto del “matrimonio per ratto” e la porta con sé, cercando di legittimare il tratto
ereditario della sua regalità. Dal canto suo Medea, durante i dieci anni di gioie coniugali
ha messo a tacere le sue potenzialità magiche, ha occultato nel silenzio dell’oikos i saperi
arcani e temibili di cui è custode, scegliendo di condividere in una nuova patria i saperi
di una sposa fedele e di una madre amorevole. E’ a causa del tradimento di Giasone che
Medea, risvegliata dal rimorso al ruolo tradito di figlia e sorella, restituita a quel “clan
paterno” cui non ha mai cessato di appartenere, si vede costretta a riesumare la natura
ferinica della “straniera”. Appellandosi alle “care Moire”, ritrovata la sua matrice ctonia
ordisce una vendetta terribile, che priverà Giasone della sua stirpe. Le versioni più tarde
del mito narrano di come in seguito fosse fuggita ad Atene e sposato Egeo, da cui ebbero
un figlio, Medo, ma tentando di avvelenare il marito, fu cacciato insieme al figlio che
proclamò una sua terra, Media, poi lui morì e lei tornò in Colchide.

Aspasia Milesia → amante di Pericle, fu anzitutto un’appassionata intellettuale e una


brillante maestro di retorica. Dal 450 a.C e per i 30 anni successivi, dominerà nell’Agorà
di Atene come una straniera eccellente. Nata a Mileto, in Asia Minore, nella sua posizione
di meteca non potè mai contrarre nozze con Pericle, nonostante la passione e il legame che
li univa e il figlio che concepirono insieme. Probabilmente Aspasia quando incontrò
Pericle era un’etera, cioè una cortigiana, che al contrario della pornè, la prostituta che dà
piacere per denaro, era piuttosto una “compagna”, una donna spesso colta e raffinata
frequentata non tanto per i suoi favori erotici, quanto soprattutto per la sua eleganza e il
suo spirito. Aspasia porta impressa nel nome la forza del suo potere erotico: Aspasia viene
del verbo aspazesthai, abbracciare. E dell’amore incontrollabile di Pericle per Aspasia si
narra dello smarrimento e del “panico” che coglie il primo cittadino quando si vede
costretto a difenderla in un processo intentatole con l’accusa di empietà, o forse di
fomentazione della guerra, o forse di propaganda filopersiana. Nel dialogo platonico del
Menesseno Socrate chiama in causa Aspasia come la sua maestro di retorica, competente
senza rivali nell’arte oratoria tanto da formarne uno statista come Pericle. Il figlio di
Aspasia e Pericle, Pericle il giovane, non poteva rivestire nessuna carica perché era per
nascita escluso dalla cittadinanza, in virtù di un decreto del 450 voluto proprio da Pericle,
che definiva cittadino ateniese solo chi era tale per parte di madre e di padre. Tuttavia in
seguito gli ateniesi (per pietà visto che uno dei suoi figli avuti con un’altra donna morì in
seguito alla peste) gli permisero di iscrivere suo figlio illegittimo tra i membri della sua
fratria e di dargli il suo nome. In seguito, Pericle il giovane, dopo aver sconfitto i
Peloponnesiaci nella battaglia navale delle Arginuse, fu messo a morte dal popolo perché
accusato di non aver prestato soccorso ai naufraghi per le cattive condizioni del mare. La
sorte del figlio “straniero” di Aspasia richiama quella prefigurata da Medea per i suoi
figli.
Il viaggio

Achille, Ulisse, Edipo, prima ancora che eroi epici sono volti, corpi, storie, emozioni e
destini che ci guideranno verso un ritorno che ci consentirà di decifrare la consistenza
dell’oltre attraverso la coscienza della separazione. Ancoreremo la propedeuticità di
questo cammino ai tre paradigmi scenici della tragedia classica: il prologo (l’esposizione
dei fatti per Achille), la parodo (l’ingresso di una voce corale per Ulisse) e l’esodo (il
momento finale per Edipo). Saranno quindi loro i protagonisti di questo viaggio, inteso
soprattutto come ritorno, e le donne-madri che li accompagnano. I loro viaggi infatti
saranno soprattutto metafore di una separazione primaria che li fa prigionieri e li àncora
al tema natale e in nome della quale ogni ritorno (nostos) al tempo reale presuppone un
dolore (algos), una nost-algia.

Achille → Oltre all’etimologia acquatica della quale già abbiamo parlato, c’è un’altra
etimologia che ascrive il suo nome al motivo dell’ira, dell’astio (chole) o del dolore
luttuoso, del travaglio, dell’afflizione per una perdita (achos). E’ la stessa madre Teti
infatti che presagisce per il figlio un doppio destino: se resta a Troia morirà, ma la sua
gloria sarà imperitura, se torna a casa, la terra del padre l’eccelsa gloria è perduta ma vivrà
per lungo tempo. Due disegni contrapposti quindi vincolano il viaggio iniziatico dell’eroe
all’opzione fra due desideri inconciliabili: quello di un padre che si aspetta da un figlio la
continuità del nome la rigenerazione e quello di una madre che continua a tessere il filo
del suo destino come una Moira dolente che ne piange anzitempo la morte. Il viaggio di
Achille consiste quindi nell’ossimoro nostalgico di un desiderio rivelato (il ritorno a una
terra paterna che deporti il tema natale nel principio riproduttivo) che si impiglia nel
nodo originario, nel laccio virtuale che rese vulnerabile il suo tallone (l’imperdonabile
disattenzione amorosa di una dea-madre). Così Achille non potrà che viaggiare
nostalgicamente tra un lido, una spiaggia, una risacca marina che evoca l’alveo materna e
una tenda, un campo di battaglia, le mura di città che preludono a una gloria senza
ritorno, senza casa, senza patria Da una parte quindi la sua vita corta e sempre in corsa,
dall’altra la sua ansia nostalgica immobile, profondissima ed estesa. E’ come se Teti
dovesse scontare la sua colpa di essersi unita con una mortale, Peleo, con il sacrificio di
suo figlio, Achille, che dovrà accettare di morire nel fiore della sua giovinezza (ricordiamo
che Teti avrebbe sposato Zeus se questi non avesse temuto che il figlio generato dalla loro
unione potesse detronizzarlo). Nel XVIII libro dell’Illiade Teti accosta Achille all’immagine
di un germoglio e ciò avvicina l’eroe omerico alla figura del siriaco Adone, il fanciullo
partorito da “corteccia materna” che cresce senza padre e muore prima che sopraggiunga
l’età adulta ( nato dall’amore incestuoso della madre Mirra per il padre, il re del Libano,
Adone germoglia dalla corteccia dell’albero di mirra in cui sua madre è stata trasformata
da Afrodite); al culto di Adone le donne greche assimilavano ritualmente la breve vita dei
germogli raccolti appunto nei giardini di Adone. Per legittimare il tempo “predatorio”
dell’eroe omerico dovuto a un breve viaggio che lo ucciderà prematuramente, Achille
deve poter riscattare il proprio “piè veloce” dall’ossimoro nostalgico di una voce divina
che in ultima istanza coincide con l’imago materna. Così il suo viaggio reale si arresta su
una nave in secca, per dare corso a un viaggio onirico nel mondo dell’aldilà e per
consentirgli di misurarsi “corpo a corpo” con l’abbraccio e con l’ombra dell’amico
Patroclo. Analogo io, incarnazione del doppio, maschera perturbante dell’eroe (che non a
caso perderà la vita travestito da Achille, imbracciando la sua armatura), Patroclo ha il
compito di deportare la coscienza del compagno verso una nuova sponda psichica, di
indirizzarlo verso un comune destino di morte che ratifichi il distacco definitivo dal
cerchio ancestrale del potere materno. In sogno Patroclo infatti gli appare, chiedendogli
degne esequie e dicendogli di disporre un urna che possa accogliere anche le proprie: lo
invita perciò a prepararsi al viaggio estremo. Ma il viaggio di Achille continuerà nell’Ade
durante la discesa di Ulisse negli inferi. Nel suo discorso con quest’ultimo c’è il desiderio
di un nuovo orizzonte, un’ideale di vita del tutto anti-eroico: gli dice infatti che
preferirebbe essere il servo di un uomo qualsiasi sulla terra, che dominare su tutti i morti.
Achille poi chiede notizie di suo figlio Neottolemo (avuta con la principessa Deidamia):
dopo aver appreso da Ulisse che il figlio si dimostra audace e la sua gloria fa rivivere
quella paterna, la sua ombra si allontana a “grandi passi” per il prato di asfodeli. Il viaggio
nell’Ade legittima il suo ritorno a quella casa del padre che in vita gli fu negata, dove
ancora dimora Peleo e Neottolemo, un padre fiaccato dagli anni e un figlio che ha iscritto
nel nome il rinnovamento dell’azione eroica ( neos-polemos, nuova battaglia).

Ulisse → Se è vero che nell’epos omerico viaggia chi vince (nella stessa Illiade, la cui
azione si muove tutta su un campo di battaglia, sono i Greci ad aver varcato il mare per
riprendersi Elena) appare significativo che Ulisse è l’unico eroe investito dalla necessità di
viaggiare già sul campo di Troia e che il suo viaggio si ponga già in quel contesto come
momento di mediazione tra il sentiero umano e quello divino, collocando l’eroe nella
sfera degli iniziati: è lui che infatti porta la vergine Criseide dal padre Crise, per placare
l’ira di Apollo, né va dimenticato che Troia fu espugnata grazie al suo stratagemma. Il
viaggio di Ulisse è quindi prima di tutto viaggio della metis, dell’astuzia, della capacità di
raggiungere una meta affidandosi alle vie traverse e tortuose che coniugano azione e
intelletto, che legittimano trucchi e stratagemmi, che convertono la nostalgia regressiva in
nostalgia come trascendimento orientato. Il viaggio di Ulisse, rivelandoci le fatiche
dell’eroe e il suo progressivo disvelamento, ci restituirà, più che un soggetto univoco, una
domanda: chi sono io veramente? Infatti Ulisse si chiede che senso può avere aver
conosciuto le insidie dei Ciconi, dei Lotofagi e dei Ciclopi, l’ospitalità del dio Eolo, la
violenza dei Lestrigoni, i favori di Circe, le ombre dell’Ade, le vacche del sole, le Sirene, i
gorghi di Scilla e Cariddi e infine la potenza seduttiva di Cariddi, se alla fine non c’è un
approdo finale alla sua terra, alla terra di suo padre, che lo identifica come persona, come
uomo “figlio di padre”. La ricerca del sé eroico di Ulisse muta di segno rispetto al percorso
di Achille, in quanto, saggio e paziente, innanzitutto egli ci appare del tutto riscattato dalla
nostalgia ripetitiva del legame inalienabile con la madre, legame che il verso omerico fa
rivivere nel regno di Ade. Anticlea si rivela infatti nel fiume Lethe e al figlio che le chiede
ragione di una morte inattesa la madre risponde che fu il dolore per la sua assenza a
mettere fine alla sua vita. Il suo corpo si è dissolto nel dolore della perdita, le sofferenze
dell’anima lo hanno deprivato di una vita che si nutriva dell’amore per il figlio e che si
spegne a causa della sua assenza: come a dire che il corpo di una madre ha ragione di
esistere finchè si fa materia nutritiva di un destino certo per il figlio. Ma anche se il
desiderio di un ultimo abbraccio è inesaudibile, il colloquio tra un uomo vivo e l’imago
incorporea della donna che lo ha partorito rimemora il vissuto fusionale dell’infanzia
(teknon emon, figlio mio, lo chiama la madre, meter eme, madre mia, replica il figlio) e al
tempo stesso si rafforza in una progettualità enunciabile: all’ansia di Ulisse per il destino
della sposa, per la sorte del figlio e per quella del padre, Anticlea sa replicare con la
saggezza delle parole materne, comunicandogli che Penelope è fedele e sempre in lacrime,
Telemaco amministra e banchetta, mentre Laerte se ne sta nei campi. Le sue parole
dunque gli danno la certezza di una continuità regale e di un universo patrilineare,
confermando la profezia di Tiresia sul destino che lo attende (gli dice che lui tornerà in
patria anche se sarà assediata da nemici ma avrà la sua vendetta). In generale comunque le
donne dell’Odissea assorbono Ulisse per un tempo clamorosamente ampio, se si considera
che dei dieci anni di presunte peregrinazioni, prima del rientro in patri, ben otto vengono
trascorsi dall’eroe nelle dimore delle due grandi seduttrici ( un anno con Circe e sette con
Calipso). Circe, che fa di Ulisse il suo amante, è figlia di Helios (il dio-Sole) e di Perseide
(figlia a sua volta di Oceano) e quindi ha radici pre-olimpiche e non teme il potere di Zeus.
E’ zia di Medea (figlia di suo fratello Eete), che da lei eredita i saperi magici, il controllo
del mondo vegetale, l’abilità retorica e forse quel potenziale erotico che irretirà l’altro eroe
mitico, Giasone. Circe è signora delle arti magiche. Appena arrivati sull’isola di Eea, Ulisse
manda i suoi uomini in avanscoperta: trovano una donna che canta come saprebbe fare
ogni seduttrice ma al tempo stesso tesse, come farebbe ogni mogli e madre. Circe quindi
incarna la straordinaria bellezza e le ineguagliabili qualità di un’amante divina che
rigenera e fa rivivere l’imago infantile della madre. Come a dire che con Circe affiorano
nella coscienza dell’eroe omerico tanto il desiderio interdetto di una tentazione “edipica”
quanto i rischi connessi con l’eventuale realizzazione di tale desiderio. Li trasforma il
maiali quindi per punirli nel modo più consono alla loro natura, per aver sollecitato in loro
stessi un desiderio incestuoso verso una madre. Quello che bevono è una pozione fatta di
cacio (derivato del latte), farina d’orzo, miele e vino, con l’aggiunta di quello che Circe
chiama un “farmaco triste”. Dissetarsi e saziarsi con la bevanda offerta da Circe equivale
quindi a riprovare l’ebbrezza primaria per un corpo che nutre e che, prima di essere
incluso in ogni ordine sociale, sottende l’ordine di un desiderio: “allattati” da Circe, gli
Achei dimenticano così la legge dei padri e la loro terra. Quanto a Ulisse, per fronteggiare
le provocazioni e le insidie della maga egli verrà dotato dal dio Ermes di un antidoto che
vanifica gli effetti del farmaco e lo sottrae all’incantesimo della metamorfosi, così che la
dea riconosca in lui l’eroe annunciato e gli si offra senza veli. Ma l’eroe sa bene che, prima
di abbandonarsi a un’unione di cui non gli sfugge il rischio e la natura, è necessario anche
una rassicurazione suffragata da un giuramento solenne. Una volta che Circe trasforma di
nuovo i compagni di Ulisse in uomini, tutti iniziano a piangere e la dea, mossa da pietà,
diventa un’instancabile dispensatrice di cibo per quest’ultimi. Si avvia così la lunga
permanenza di Ulisse nella dimora di Circe, tanto che vivrebbe con lei per il resto dei suoi
giorni dimentico del tempo eroico che ne reclama un ritorno, dimentico del suo nome e
della sua patria. Saranno i suoi compagni che lo rimporteranno ai suoi doveri. Quando
Ulisse chiederà alla sua amante divina di concedere a lui e ai suoi compagni la via del
ritorno troverà una Circe magnanima e generosa, del tutto pacificata con uomo al quale
darà consigli e ammonimenti preziosi e che orienterà prima nel regno delle ombre e poi
nei prati fioriti dove il canto delle Sirene promette nuove conoscenze. Qui sta l’ambiguità
nella generosità di Circe, dal momento che Omero la appella appunto come deine theos
audessa (terribile dea dalla voce umana). Il motivo probabilmente sta nel fatto che nel
momento in cui si separa da Ulisse il corpo della dea riflette l’appagamento conquistato
nell’anno di amore in quanto è gravido. Telegono è il figlio di cui Ulisse ignorerà la sorte e
che conoscerà quando il giovane, inviato dalla madre, solca il mare alla ricerca del padre,
approda a Itaca e fa razzia di alcuni capi di bestiame. Ulisse comunque parte e dopo aver
passato l’Ade, le Sirene, Scilla e Cariddi, giunge, unico naufrago all’isola di Ogigia, dove
incontra Calipso, altra “terribile dea dalla voce umana”. A prima vista meno pericolosa di
Circe, Calipso (figlia di Atlante e Pleione, a sua volta figlia di Oceano e Teti), è una ninfa
benefica anche se il suo nome ci rimanda etimologicamente al verbo kalypto (celo, occulto,
oscuro, copro, avvolgo, avviluppo). Ogigia si trova a sud dello stretto di Gibilterra, rivolta
verso l’Africa: deserta e lontana dal mondo urbano, la sua isola appare remota e difficile
da raggiungere persino a un dio come Ermes, che ne lamenta la distanza da “città
mortali”. Calipso è quindi collocata, anche geograficamente, in uno spazio “di soglia”, al
limite estremo di un Mediterraneo esplorabile, proiettata e irretita dal destino mitico del
padre (Atlante, che aveva patria ad Atlantide, nei pressi del monte Atlante) verso quelle
terre oscure che custodiscono, nel giardino delle Esperidi (sul monte Atlante) i pomi d’oro
dell’immortalità. Non è un caso che Calipso pretende di sedurre il suo amante
promettendogli una vita immortale e che Ulisse la tema per i suoi riccioli belli, per la sua
carica erotica e per il potere ammaliante delle sue parole. La genealogia proposta da
Esiodo vuole invece Calipso direttamente annoverata tra le Oceanine (le figlie che Teti
genera con il fiume Oceano) e la descrive come la “più antica” delle figlie. Ulisse darà
ostaggio di Calipso per 7 anni, e dice di lei che si unisce in amore con lui come
nessun’altra donna e tesse per lui “vesti immortali” inumidite dal suo pianto
inconsolabile. A differenza di Circe o delle Sirene, a Calipso manca la promessa di un
“sapere esoterico” attraverso un canto che trasmetta un sapere precluso ai mortali. La
voce di Calispo invece è pura phonè, un suono in eccedenza ormai prosciugato dal logos
mantico e narrativo proprio delle voci delle Sirene e di Circe. Certo le sue parole hanno un
potere incantatorio, e ripropongono quella prima voce e quella prima acqua (siamo in una
terra avvolta dalle acque marine) in cui si situa l’icona di un corpo materno che funge da
culla e tomba, origine e fine del corpo vivo. Ma il suo canto, accompagnato al ritmo di una
spola e di un telaio, risuona come litania struggente nel momento in cui Ermes si reca da
lei per comunicarle che Zeus vuole il ritorno di Ulisse in patria. La ninfa si comporta
quindi come una sposa e al tempo stesso una madre accudente e generosa. Ulisse, che ha
già superatole insidie per l’amore di una madre perduta (Anticlea) e l’abbraccio spaesante
per un’amante divina (Circe), dice di voler tornare da Penelope, benchè afferma lui stesso
che Calipso è molto più bella della moglia, in quanto ormai l’eroe ha rinunciato alla cifra
del godimento come regressione nostalgica nell’ebbrezza dell’ascolto di quella prima
voce che incorpora un figlio nella propria interezza maternale. Ulisse che va verso
Penelope è uno sposo, un padre, un figlio adulto che ha compiuto fino all’ultima tappa
“l’itinerario del Sé attraverso i miti”. In contrapposizione a Calispo che canta, Penelope
aspetta e tesse in silenzio, tanto che ad un certo punto invita al silenzio anche il cantore
Femio. Sarà allora il figlio Telemaco che reagisce alla madre dicendo “torna alla tue stanze
e pensa alle opere tue […] al canto pensino gli uomini”. Questo perché in questo mondo
omerico che si prepara a un nuovo ordine civico è la legge maschile a sanzionare le regole
di ogni attività, anche quelle dell’oikos. In generale comunque si può dire che Ulisse che
va verso Penelope va verso la coscienza della propria finitudine. Ultimi elementi: 1)
Penelope non riconosce nello straniero Ulisse, ma lo riconosce la nutrice nel momento in
cui vede il vulnus (cicatrice) sul viso di Ulisse, provocato da bambino a causa di un
cinghiale, prima rappresentazione del suo coraggio e della sua virilità; 2) è Autiloco,
nonno di Ulisse e padre di Anticlea, a dargli il nome da odyssamenos (“colui che odia” e
allo stesso tempo “l’odiato”) o perché Autiloco provava odio verso una terra nutrice che lo
accoglie come straniero in quanto lui era originario del monete Parnaso e si recò a Itaca
dalla figlia, o come nome profetico di un destino che porterà Ulisse ad essere odiato come
straniero e come uomo dalle donne. I figli di Ulisse, come ci dice Esiodo nella Teogonia
furono moltissimi, ma uno di questi, Telegono “nato lontano” è quello a portargli la morte
profetizzata da Tiresia, una morte che giunge dal mare, l’elemento in cui ha giocato per
l’intera esistenza la sua essenza virile. Sarà poi Apollodoro a narrarci come Telegono,
avendo appreso da Circe di essere figlio di Ulisse, si fosse mosso in mare per ritrovare il
padre ma una volta approdato a Itaca, inconsapevolmente si scontrò con lui, lo ferì con
un’asta che aveva come punta la spina di una tracina e così Ulisse morì avvelenato. La
morte di Odisseo. La morte di Ulisse venne raccontata anche da una delle tragedie di
Sofocle andata perduta e dal poema epico la Telegonia, di cui Proclo nella sua Crestomazia
ricostruisce gli eventi principali. Articolato su due episodi distinti il poema si apre con il
ritorno di Ulisse a Itaca, la vendetta sui Proci, il breve viaggio in Elide e la partenza per la
Tesprozia (ai confini dell’odierna Albania), dove l’eroe vive una nuova storia d’amore con
la regina dei Tesproti, Callidice, che gli dà un altro figlio, Polipete, per poi ritornare
nuovamente ad Itaca, dove ancora Penelope lo attende. In seguito si parla appunto del
viaggio di Telegono verso Itaca, l’approdo inconsapevole nell’isola dopo una violenta
tempesta, il furto di bestiame nelle terre del padre e lo scontro finale. Accompagnato da
Penelope farà restituirà le spoglie di Ulisse a Circe e sposato Penelope. Penelope e
Telegono poi vengono invitati dalla maga sull’isola dei Beati, dove verranno resi
immortali insieme a Telemaco, che a sua volta si unisce in amore con Circe. Quindi tutti
divinizzati e resi immortali sono stati gli eredi di un eroe che ha rinunciato all’immortalità
per consegnare la propria storia al principio di “successione”, ma fatalmente tutti apolidi e
privi di una patria.

Edipo→ Il mito che riguardo Edipo si svolge nel conflitto tra padre e figlio e nella
instabilità del principio di successione. Gli antefatti mitici che la tragedia sofoclea
sottintende partono dalla “colpa di Laio”, padre di Edipo e dalla maledizione che abbattè
su di lui, ad opera del re Pelope, quando scoprì l’amore omosessuale che lo univa la figlio
Crisippo e che lo portò a rapire il giovinetto: per questa offesa si narra che Pelope avrebbe
ingiunto a Laio di astenersi dal procreare avvertendolo che nel caso avesse avuto un figlio,
questi sarebbe stato il suo assassino. Va quindi specificato il fatto che il viaggio che àncora
Edipo a una colpa pre-esiste alla sua stessa nascita, si insedia nella sua casa natale come
un morbo e si viene delucidando nel corso degli eventi come un daimon, un genio
maligno che corrompe ogni equilibrio genealogico e minaccia l’intelligenza dell’eroe,
nonché il suo prestigio regale. In seguito quindi Laio, re di Tebe, contravviene al divieto
impostogli e mette al mondo un figlio che senza esitazione condanna a morte imponendo a
un suo servo pastore di eseguire la sentenza. Il “primo” viaggio di Edipo, potremmo dire
quello iniziatico, si esplicita in diverse tappe: 1) la separazione dal corpo materno, 2) i
legacci (o i chiodi di ferro) imposti dal padre che imprimeranno sui piedi una cicatrice
indelebile (che lo renderanno zoppo a vita), 3) la consegna al servo che per ucciderlo dovrà
condurlo lontano, in uno spazio liminare dalla città, 4) l’arrivo sul monte Citerone e la fine
del viaggio e della vita stessa. Il “secondo” viaggio di Edipo ha diversi incipit: la versione
più corrente del mito (quella appunto adottata da Sofocle) lo vuole in uno spazio montano
e isolato passato da un pastore all’altro, Euripide (nella tragedia Fenicie) narra che fu
posto, come Dioniso o Perseo, in un’arca e approdato sulle acque del golfo di Corinto e qui
fu la regina Merope a raccoglierlo sulla riva, Aristofane racconta invece che in una
tragedia di Eschilo andata perduta (Laio) Edipo fu esposto ai rigori dell’inverno dentro un
vaso di terracotta. Per tornare alla tragedia di Sofocle Edipo viene consegnata dalla
sciagurata madre Giocasta che si nega come madre al servo di Laio per sacrificarlo in una
terra ancestrale, ma lui ha pietà del bambino e lo affida ad un pastore, servo di Polibo, re
di Corinto, il quale lo offrirà alla famiglia reale, privata fino a quel momento del dono dei
figli. Edipo sarà quindi allevato con amore e dedizione da Polibo e la sua sposa Merope
finchè un giorno qualcuno insinua sulla verità della sua nascita quindi, di fronte alle
risposte evasive dei genitori, si reca dall’oracolo di Delfi, dove la Pizia in nome del dio
Apollo gli dice che sarà assassino del padre e sposo della madre. Sconvolto si allontana da
Delfi per sfuggire all’infausto destino, ma durante il suo viaggio, giunto ad un trivio si
scontra con Laio, nasce una disputa sulla precedenza nel passaggio, e Edipo uccide Laio.
Giunto a Tebe, apprende che la città viene vessata da un orrendo mostro, la Sfinge, che
divora quanti fra i cittadini falliscono la sfida di un enigma (“chi è quell’essere che nella
sua vita ha quattro, due e tre piedi?”). Edipo (la cui etimologia viene o da oida, quindi
“colui che sa” o da oideo e pous cioè “dai piedi gonfi) risolve l’enigma e la Sfinge muore. I
cittadini gli chiedono quindi di sposare la vedova del re di Tebe, a titolo di risarcimento
per aver liberato la città dal mostro. A distanza di anni, quando ormai la coppia ha
procreato quattro figli ed Edipo regna su Tebe come il più saggio e il più giusto trai re, il
morbo della peste attenta nuovamente la vita della città, quindi Creonte, fratello di
Giocasta, consulta l’oracolo di Delfi che dice che per porre fine alla peste bisogna liberare
Tebe dalla presenza occulta dell’assassino di Laio. Qui inizia il dramma sofocleo, che si
basa principalmente su un viaggio di ritorno da parte di Edipo e sulla sua condanna al
ruolo di pharmakos, di incolpevole capro espiatorio. L’ Edipo re si apre con la
presentazione di fronte ai cittadini di Tebe, presentazione simile a quella di Ulisse ai Feaci,
ma ciò che manca a Edipo rispetto a Ulisse il Laertide è proprio il patronimico. Edipo dice
infatti “figli miei”, lasciando che il pubblico recuperi la memoria mitica del suo rapporto
con l’antichissimo Cadmo (Edipo infatti appartiene alla stirpe di Cadmo, fondatore della
città di Tebe) e con il mito di fondazione della città. Quindi da una parte Ulisse il
Laertide, dall’altra Edipo senza padre: Ulisse infatti invoca il ritorno alla patria, Edipo va
verso un padre denegato, Ulisse affronta le insidie e i pericoli di un Mediterraneo instabile,
Edipo guadagna la geografia simbolica che separa lo spazio urbano da quello solitario e
inabitato. Il viaggio di Edipo inoltre è cortissimo rispetto a quello di Ulisse, come a dire
che lo spazio fisico rispetto alla vertigine simbolica del viaggio iniziatico che congiunge
una città a una madre: così Edipo si illude di sfuggire a un incesto annunciato con la
madre presunta allontanandosi da quella che crede la città natale, ma non potrà sottrarsi
alla frenesia che annienta il suo sentire, saldandolo nella nuova patria alla “zolla
materna”, al letto di una madre-amante. La metafora agricola dell’unione fra Edipo e sua
madre è già presente nella più antica tragedia di Eschilo, Sette contro Tebe, in cui gli esiti
tragici della discendenza corrotta di Edipo danno vita ad un altro dissidio, al conflitto
genealogico di Eteocle e Polinice, suoi figli-fratelli, vittime del danno di un atto
procreativo che ne pregiudica la successione al regno. I fratelli si daranno morte a vicenda
dal momento che l’aratro paterno che ha solcato il terreno arabile della madre era
destinato ad affondare in un solco da cui sarebbe germogliata solo morte. Il viaggio di
Edipo è quindi il più emblematico tra i regressus ad uterum. Per quanto riguarda
Giocasta, la sua genealogia si combina significativamente con il mito di fondazione della
città di Tebe. Figlia di Menecco, nipote di Penteo, pronipote di Echione, Giocasta discende
in linea paterna dagli Spartoi, ovvero gli autoctoni tebani, in seguito alla semina mitica
operata da Cadmo. La discendenza di Edipo viene da ciò: da una parte Cadmo il fenicio,
eroe fondatore che viene da lontano, con la sua condizione nomadica, dall’altra
Giocasta, autoctona tebana, che enfatizza nella sua discendenza il tema dell’ancoraggio
a una terra fertile. Tale contraddizione genealogica va oltre: infatti i miti di autoctonia
declinavano il principio dell’eugeneia sempre al maschile, ma in questo caso la potenza del
genos di Giocasta fa sì che lei appaia più stabile nel diritto alla trasmissione del potere
regale, tanto che in una fonte più tarda si dichiara che Laio abbia ritenuto di rafforzare la
propria posizione uccidendo il suocero Meneceo, prima di dare alla luce Edipo. E quando
Creonte, suo fratello, resse temporaneamente il regno, incoraggiò a una successione
affidata al matrimonio della sorella con un eroe intrepido e coraggioso “venuto da
lontano”: in altri termini quella continuità generativa interdetta a Laio avrebbe potuto
essere ripristinata se la regina a lui sopravvissuta fosse approdata a un matrimonio
esogamico. Sulla figura di Giocasta il passo dell’eroe si arresta: rimane infatti incagliato tra
il desiderio di una patria e il bisogno di una madre. Giocasta quindi non può non
manifestarsi agli occhi degli spettatori come controfigura tragica di un’ennesima amante
divina che impone la messa al bando definitiva della passione erotica, infatti la sua
presenza sulla scena prende corpo sul calco mitico perturbante di una Grande Madre
fedele al principio del piacere. La Giocasta tratteggiata da Sofocle muore infine suicida, si
impicca soccombendo alla verità, dentro la camera nuziale, e quando Edipo vede il suo
corpo esamine si acceca con le fibbie del cadavere e continua il suo viaggio verso la morte.
Nelle Fenicie di Euripide (tragedia successiva a quella di Sofocle, del 409 a.C. , anno in cui
Atene era provata dalla guerra fratricida con Sparta in Sicilia) l’attenzione si sposta sui
figli di Edipo, Eteocle e Polinice, impegnati nella lotta per la successione al regno e su
Giocasta, che in questo contesto tragico sopravvive all’orrore dell’incesto e appare come
una madre liberata da ogni colpa. Prosciugata da ogni richiamo erotico, ripiegata su un
amore filiale che insiste sulla rimozione di un’indole incestuosa, Giocasta esordisce sulla
scena come una vecchia provata dagli eventi. Anzi insiste sulle ferite inferte sul corpo di
Edipo, secondo la retorica di un corpo eroico che va opacizzandosi nella sua funzionalità
simbolica: le carni di Edipo infatti più che “lacerate” nel segno dell’andreia ( del valore
del guerriero) sono “trafitte”, punte, penetrate da chiodi o fibulae che ne enfatizzano la
vulnerabilità. Edipo invece ha cessato di viaggiare e viene segregato dai figli nei recessi di
una reggia contesa, occultato come la colpa che è all’origine delle sventure familiari.
L’evento della sua cecità è questo: dopo aver conosciuto la natura incestuosa delle sue
nozze egli avrebbe inflitto ai suoi occhi uno strazio tremendo, conficcandovi le fibbie d’oro
sottratte alle vesti della madre-sposa. Giocasta muore impadronendosi della spada dei figli
(che si sono uccisi a vicenda) e conficcandola nelle sue carni come farebbe ogni donna
disposta a sacrificare la sua vita per rigenerare la patria.

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