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I Luoghi Magici di
TORINO

Morena Poltronieri Ernesto Fazioli

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Indice
Le magiche origini della città p. 7
Il mistero dei templari p. 16
La Sacra di San Michele p. 24
Arcani pellegrinaggi e sacre reliquie: la Sacra Sindone p. 33
L'elemento Acqua nella magia della città p. 45
L'arcano sapere negli studi universitari p. 50
Torino francese p. 56
L'eresia dei catari p. 60
La stregoneria p. 69
I valdesi, eresia tra passato e presente p. 85
I gesuiti e l'ombra inquisitoriale p. 90
La Riforma protestante p. 94
Il segreto della massoneria p. 96
La magia del 1700 e del 1800, gli ultimi fuochi p. 106
Nostradamus e la magica Domus Moruzzo p. 116
La magia di Giacomo Casanova p. 120
L’eterno Conte di Saint Germain p. 123
Cesare Lombroso,
tra spiritismo e Antropologia Criminale p. 126
Friedrich Wilhelm Nietzsche, il superuomo p. 129
Fulcanelli e… breve storia dell’alchimia p. 133
I simboli di Castello di Valentino e Venaria Reale p. 136
Forte di Exilles, la montagna sacra p. 141
Palazzo Reale e… i Dioscuri p. 145
Giardini Reali, le meraviglie della natura p. 152
Palazzo Madama e le Grotte Alchemiche p. 156
La Chiesa della Gran Madre di Dio p. 161
Piazza Statuto, il 45° parallelo p. 164
La Cattedrale di San Giovanni Battista,
lo scrigno magico p. 166

Bibliografia essenziale p. 172

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Le magiche origini della città

Sfogliando un magico libro di storia, tra le pagine antiche di


Plinio il Vecchio, troviamo una Torino celtica, Taurasion, ap-
partenuta ai Galli Taurisci, il popolo dei monti.
L'etimologia del nome di questa popolazione rimanda, infatti,
ai termini indoeuropei che si connettono col significato di
‘monte’, ‘montagna’, intesa come sede degli eletti, degli Dei,
primo fra tutti il grande Thor, il dio del tuono e della forza.
L'idea che gli Dei del cielo scendessero sui monti per abitare e
governare la terra era viva nelle popolazioni antiche, tanto
che le alture furono considerate sacre dimore e ricettacolo di
energie astrali.
La montagna è sempre stata connessa sia a un simbolismo as-
siale, ovvero legato alla centralità, punto sul quale si concen-
trano e partono tutte le energie della vita, sia a un simbolismo
verticale, inteso come ascensione dal basso verso l'alto. In
questo modo, si esprimeva l'idea di stabilità, immutabilità e
anche di purezza.
Questa immagine si connette al concetto di ‘uovo del mondo’,
ovvero embrione e partenza di ogni forma vivente, ma anche
alla raffigurazione del triangolo, inteso come fuoco sacro e po-
tere ascensionale.
Tra le tante festività legate a questa popolazione, alla fine del-
la stagione agricola, all'inizio dell'inverno si celebrava il Sam-
hein, il capodanno celtico, che durava circa dieci giorni dall'i-
nizio di Novembre, in coincidenza con l'attuale festa dei mor-
ti. Era il momento in cui il ricordo degli avi ritornava vivo, in
quanto essi venivano riconosciuti come radice della propria
tribù e punto di origine della stessa. Durante questa festa, gli
sciamani, con uno speciale travestimento, entravano in contat-
to con realtà sottili che permettevano loro il dono della profe-

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zia. Un muto residuo di tale celebrazione è l'attuale festa di
Halloween, la notte del 31 Ottobre.
Questa data rappresentava anche l'apoteosi del Fuoco, perpe-
tuato con la creazione di falò, che dovevano bruciare i mali e
le negatività dell'anno passato. La deità venerata in questa oc-
casione era Odino, il dio dei morti, e la ritualità prevedeva
speciali travestimenti che mettevano in scena i misteri della
vita e della morte, tra questi quello del Cavallo Selvaggio.
Era onorata la figura del cavaliere degli inferi, in grado di
sconfiggere le forze tenebrose e di trionfare sulla morte.
La morte che vince sulla morte diventò una deità della vege-
tazione, in quanto garante della resurrezione della natura do-
po il periodo di stasi invernale, in cui tutto sembra tacere e
soggiacere in un'altra dimensione.
Il Samhein era una delle festività più lunghe insieme allo Yule,
quest’ultimo legato al solstizio d'inverno. L'evento principale
di queste liturgie era il banchetto, il pasto sacro più importan-
te dell'anno.
Il termine Yule deriva dall'anglosassone e significa ‘giogo
dell'anno’, vale a dire il punto di equilibrio della luce solare.
Il primo Febbraio veniva celebrato l'Imbolc o Oimelc, la festa
della luce crescente.
Essa simboleggiava i primi movimenti della natura risorgente
e annunciava l'arrivo della primavera. Con la cristianità di-
venne la festa della purificazione della Beata Vergine, la Can-
delora.
L'equinozio primaverile, Ostara, era il punto di transizione tra
la metà scura e quella chiara dell'anno. Era inteso come il
momento del concepimento, in cui la luce trionfava sull'oscu-
rità. Era la scoperta dell'estate, consacrata a Thor.
Un altro momento importante era Beltane, la festa annuncia-
trice dell'estate, al tramonto del 30 Aprile. Era considerato un
momento magico, il cui rito prevedeva l'accensione dei fuochi:
era la mitica notte di Valpurga. Si saltava attraverso il fumo

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delle fiamme per purificarsi. Il fuoco era fatto con legna di set-
te alberi diversi, su una griglia con nove quadrati più piccoli,
di cui otto cancellati. Si danzava attorno al palo di maggio,
fatto con legno di betulla, albero sacro della tradizione nordi-
ca.
Il solstizio d'estate, Litha, era l'apoteosi dell'anno, in cui
s’incendiavano le ruote solari, che venivano fatte roteare a i-
mitazione del decorso del sole.
Il primo Agosto era celebrata la festività del primo raccolto,
Lughnassadh, che segnalava l'inizio della stagione autunnale.
Era la rievocazione della mietitura del primo raccolto di grano
e della cottura della prima pagnotta fatta col grano nuovo.
L'equinozio autunnale era onorato con la festa Mabon. Il mo-
mento del secondo raccolto, il punto intermedio della stagio-
ne. Da quel momento fino al solstizio d'inverno, l'oscurità era
dominante.
Così, i Taurisci portarono con loro l'epopea della sacralità
nordica sul sacro monte di Thor, condensata nel luogo in cui -
ancora oggi - la moderna Torino estende le sue vie, alla con-
fluenza del Po con la Dora.

Per descrivere l'antica fondazione di Torino, è necessario as-


similare il suo nome a un preciso avvenimento arcaico, legato
alla mitologia greca. Cecrope, primo re di Atene, altrimenti
detto Difie, celebrava le sue funzioni immolando animali, so-
prattutto tori, a Zeus dopo che questi si era unito a Jo, la quale
sarebbe assimilabile alla divina Iside.
Questo contatto tra Jo e Iside era già stato identificato da Ovi-
dio, Tibullo, Properzio e Giovenale e in molti ninfei isiaci era
presente questa connessione.
Il testo di Pingone affermava che l'Italia si chiamasse Apenni-
nia con riferimento al toro Api e che, di conseguenza, la prima
città al di là delle Alpi dovesse essere dedicata al toro e quindi
fosse Torino.

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Tutto ciò è naturalmente è riferito a una leggenda, che fu ri-
presa attraverso Emanuele Tesauro, nella Historia dell'augusta
città di Torino (1679-1712), dove si commenta il destino dell'e-
popea egizia fino al suo tempo.
Forse non è un caso che molti studiosi abbiano definito Iside
Grande Madre e, nel contempo, a Torino vi fosse probabil-
mente un ninfeo dedicato alla Dea, proprio dove oggi c'è la
chiesa della Gran Madre.
Le analogie su questo tema non svaniscono nemmeno con lo
scorrere dei tempi, infatti,
nel 1630, Carlo Emanuele I
acquistò dai Gonzaga la
Mensa Isiaca, tavola bronzea
decorata, ora presente pres-
so il Museo Egizio torinese.
Successivamente, nel XVIII
secolo Carlo Emanuele III
incaricò il professor Vitalia-
no Donati di procurarsi in
Egitto reperti di valore ar-
cheologico.
Inoltre, vicino a Torino, a
Monteu da Po, sono presen-
ti ritrovamenti provenienti
da culti isiaci.

Iside, nei culti europei, si


connette ai ritratti e alle
sculture delle Vergini raffi-
guranti la Madonna nera.
La bruna Dea egizia della
fertilità e dell'agricoltura
veniva rappresentata con le
Iside corna o con il volto di una

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vacca sacra e nel Nord dell'Europa il suo culto veniva celebra-
to sottoterra, con un corteo di persone che reggevano candele
verdi come la natura.
In Egitto, l'uso del colore era molto importante, ed etimologi-
camente la parola aveva lo stesso significato del termine ‘esse-
re’, collegandosi alla divinità.
Il verde nasce dalla mescolanza del blu notturno, simbolo del-
lo spazio infinito, con il giallo solare che matura i frutti della
terra. In questa fusione di valori stava Iside, la perfetta, la Lu-
na personificata.
L'anno solare era importante per l'agricoltura egizia, che si re-
golava sulle inondazioni del Nilo, le cui acque rendevano fer-
tile la Terra.
Era una ‘terra nera’, termine che nel loro antico linguaggio
veniva designato con la parola Al Kimya, da cui sembra essere
derivata la parola ‘alchimia’.
Queste numerose associazioni d’idee fanno quindi coincidere
il concetto di Iside-Luna e terra nera-Alchimia con Iside-Luna-
Vergine, considerata per gli alchimisti materia prima dell'O-
pera, proprio come Torino e come Iside, l'inizio dell'Opera.
A Torino, ancora oggi si conserva una Vergine nera nell'ossa-
rio, collocato nei sotterranei della chiesa della Grande Madre.
Né manca una tradizione che fa di Torino una città creata dal-
la magica cultura egizia.

Con i romani - all'alba del 218 a.C. - la città divenne Julia Au-
gusta Taurinorum, aggrappandosi al reticolato di nuove strade
create sul vecchio insediamento conquistato.
Il tipico impianto cittadino romano riecheggia nella struttura
dell'odierna città, ed era basato sulle indicazioni astrali, che
precedevano la fondazione dell'urbe.
Il rito di fondazione era un momento solenne che era deter-
minato dal sommo sacerdote all'equinozio di primavera,
giorno in cui si poteva tracciare l'omphalos, ‘ombelico’ o punto

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Porta Palatina
quiescente attorno al quale ruotava tutta la vita della città.
Veniva scavato un pozzo, il mundus, che metteva in contatto il
sito con le forze infernali sotterranee da quietare.
Lo facevano in India molto tempo prima, lo facevano gli etru-
schi, qui in Italia, in quell'inspiegabile contatto misterioso che
permette alle stesse situazioni di verificarsi in un luogo o
nell'altro del mondo, senza che vi sia una relazione tra le civil-
tà. Lo copiarono i romani, che spesso avevano al loro seguito
sacerdoti etruschi.
Attorno al pozzo infernale, subito chiuso da una pietra, veni-
va tracciata con i sacri buoi una circonferenza che rappresen-
tava il perimetro entro cui doveva sorgere la nuova città. Era
un segno divino che non poteva essere calpestato dai profani,
un confine magico, come magici erano i limiti.
Venivano poi tracciate le due vie, il cardo e il decumano, se-
guendo i cardini della terra e il decorso del sole, il meridiano e
il parallelo, la latitudine e la longitudine che oggi usiamo nei
nostri calcoli geografici. Le due vie principali creavano lo

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schema di una croce, a rappresentare la vita infinita che si e-
stende al di là del tempo e dello spazio.
La croce inscritta nel cerchio cittadino è la ruota della vita, il
simbolo geroglifico della terra fecondata dal sole. La città ter-
rena diventava il simbolo della città celeste, da essa guidata e
governata con le sue forze sublimi. L'intersecazione delle due
vie era il punto di elevazione verso l'alto.
In questo contesto, si enfatizza il concetto di città quadrata,
figura geometrica connessa al numero quattro, per via delle
sue quattro porte d'ingresso in corrispondenza dei punti car-
dinali, ove trionfava l'elemento solare, in quanto la via princi-
pale seguiva la linea ascendente dell’astro.
Il compito di segnalare la sacralità del luogo è legato architet-
tonicamente alle pietre che costituiscono l'angolo del quadra-
to, sulle quali si fonda tutta la struttura della città. Riflettiamo,
ora, su alcune analogie.
Per esempio, in arabo, la parola ‘angolo’ si traduce rukn, che
assume anche il significato di ’mistero’ e ‘segreto’, come pure
‘base’ e ‘fondamento’, il cui plurale è arkan, in cui è ravvisabile
un contatto col latino arcanum, da ‘arca’, ovvero ‘contenitore
di cose preziose’.
Così la città di Torino diventa la rappresentazione sacra della
centralità, in cui avviene la fusione dei quattro elementi ga-
ranti della vita che alitano come un soffio sulle sue vie.
Appare singolare, a questo proposito, notare che Torino è o-
rientata a Ovest, che per i romani era considerata una posi-
zione negativa, poiché in quella direzione tramonta il sole.

Proseguiamo nella storia quando nel 312 d.C., nei pressi di


Torino, Costantino sconfisse i fedeli di Massenzio, riportando
in questi magici luoghi, la visione della croce col simbolo In
Hoc Signo Vinces. Questo divenne il vessillo della nuova fede,
che portò l'anno successivo a quell'Editto che sancì l'ufficialità
del cristianesimo.

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Misterioso il passaggio dall'età romana all'era cristiana, che si
attesta nel V secolo, quando abbiamo notizie di una Torino
completamente evangelizzata. Sui resti dei templi pagani,
vennero erette le nuove chiese cristiane, che ebbero il privile-
gio di godere di quelle energie cosmiche, le quali sottintende-
vano all'edificazione dei luoghi di culto arcaici.
Torino divenne una grande diocesi, che doveva garantire la
fede anche nelle valli circostanti.

Nel VI secolo, la città fu inglobata come ducato nei domini


longobardi, scrivendo una triste pagina della storia torinese.

L'eresia ariana si sviluppò nel centro piemontese e fece la sua


vittima più nota: Garipaldo, duca longobardo probabilmente
vicino agli ambienti cristiani. Egli fu ucciso, nel 662, nella
chiesa di San Giovanni Battista.
Successivamente la città passò nelle mani dei franchi di Carlo
Magno nell’VIII secolo.
La sacralità del suolo cittadino, come memoria di antiche co-
stumanze magiche raccolte attorno al vessillo cristiano di Co-
stantino, si addensò nella figura del sacro imperatore, Carlo
Magno, di cui ha lasciato un importante contributo l'astrologo
spagnolo Pedro Ciruelo.
Nell'opera Sulle grandi congiunzioni dei tre pianeti superiori, tre
delle quali, la massima, la media e la minore, sono le congiunzioni di
Saturno e Giove, e la quarta è quella di Saturno e Marte in Cancro,
l‘astrologo disquisì sull’importanza delle congiunzioni astrali,
in relazione all’avvento di grandi personaggi ed ere storiche.
La prima congiunzione era avvenuta nel segno astrologico
dell’Ariete e, secondo Ciruelo, segnalò l'avvento di Cristo; la
seconda congiunzione, verso l'anno 800 d.C., avrebbe dovuto
segnalare l’avvento di una seconda ondata di spiritualità, in-
carnata appunto nella figura del re incoronato da Dio, Carlo
Magno.

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A rafforzare questa immagine, Alcuino, il più importante tra
gli intellettuali alla corte dell'imperatore - esperto di retorica,
dialettica, aritmetica e astronomia - lo chiamò, nelle lettere che
gli indirizzava, re Davide, sovrapponendo l’immagine del bi-
blico re a Carlo Magno. In questo modo, egli intese dimostrare
la virtù del re carolingio nel combattere per la fede e contro
l'eresia, e - come Davide che sconfisse il gigante Golia - diven-
tò una sorta di emblema di Cristo che sottomette il male.

Nel secolo successivo, Torino fu annessa alla marca di Ivrea,


all'interno della quale la città rimase - pur divenuta ammini-
strativamente autonoma - fino al 1091, alla morte di Adelaide
degli Arduino.
Poi, nel 1176, si costituì Comune, entrando nella sfera dell'in-
fluenza sabauda per concessione imperiale di Federico II
(1248), al quale la città rese omaggio solo nel 1225.
Federico II fu un altro importante uomo della nostra storia,
erudito in scienza, magia e superstizione; nato per unificare
due regni importanti - quello tedesco e il Regno di Sicilia - e
per ascrivere al suo nome il potere temporale e quello divino,
per riunire in sé le virtù del Cielo e della Terra e affermare la
pace.
Federico Il fu un sovrano molto interessato alle arti ermetiche,
come è documentato dalla presenza a corte di numerosi per-
sonaggi legati all'esoterismo.
A questo proposito, il cronista Matteo da Parigi sosteneva che
Federico II consultasse gli astrologi in ogni momento impor-
tante della sua vita: alla nascita dei figli, prima di unirsi in
nozze - in questo caso si narra esplicitamente del matrimonio
con Isabella - e per sapere in anticipo il successo dei suoi pro-
getti politici e militari, tra cui il momento per attaccare la lega
delle città del Nord.

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Amedeo IV di Savoia si offrì come intermediario tra Federico
Il e il Papa a Lione. Egli aveva assistito sia papa Innocenzo IV
nel corso della sua fuga da Roma, sia lo Svevo in cerca di per-
dono.
Un contatto cittadino avvenne nell'Agosto del 1245, quando
Federico, da Torino, stilò un diploma nel quale dichiarava va-
lida una vendita effettuata da Rolando Bergognino - Maestro
generale dell'Ordine templare dal 1232 al 1244 - nel 1203, e
ordinò che nessuno violasse tale sua disposizione arrecando
danno ai templari della mansione di San Leonardo di Chieri,
pena il pagamento di cento lire d'oro.
Questa azione federiciana consentì, nel mese successivo, a
Giacomo de Bosco, Maestro e precettore di tutte le domus
templari italiane, di raggiungere un accordo con il comune di
Chieri. Tale avvenimento, insieme ad altri contatti che il so-
vrano ebbe con alcune comunità templari in Piemonte, nella
Marca Trevigiana e nell'Emilia, potrebbe indurre a pensare
che, nella prima metà del XIII secolo, fra l'Impero e l'Ordine
templare vi fosse stata un'alleanza, basata su comuni idee di
stampo ghibellino.
Torino rimase fedele a Federico Il, anche dopo la sua scomu-
nica e la morte, occorsa nel 1250. L’artefice di questa strategica
politica fu il conte Tommaso, che sposò la nipote di Innocenzo
IV, ottenendo nuovi diplomi imperiali per la città.
Nel 1255, Torino si ribellò al potere di Tommaso di Savoia,
imprigionandolo e ristabilendo l’indipendenza del Comune.

Il mistero dei templari

Il nostro libro di storia chiude un capitolo, per aprirne un al-


tro inquieto e denso di fatti misteriosi, legati agli antichi Cu-
stodi del Tempio, i templari appunto, che avrebbero possedu-
to i segreti del mondo orientale, traslati nelle loro realizzazio-
ni architettoniche.

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Ogni castello prendeva corpo da un edificio centrale, per enfa-
tizzare l’idea del centro, che si rifletteva in edifici sacri che ri-
producevano il Santo Sepolcro, il simbolo assiale che collega-
va la vita terrena con il suo ordine soprannaturale.
In Piemonte, le tracce di questo Ordine sono numerose.
A Susa, l'eco dei templari vibra nella chiesa di Santa Maria,
mentre a Villastellone si celebra la loro epopea a San Martino
della Gorra e, in zona San Bartolomeo, c'è ancora una loro ca-
sa-fortezza e una chiesa; a Moncalieri, si afferma che appar-
tenne ai templari il Castello della Rotta e, il loro genio costrut-
tore, sembra essersi concentrato nell'erigere un ponte di pietra
sul Po, poi affidato all'Ordine dei Gerosolimitani e, ora, spari-
to nella distruzione. Altre sedi furono a Chieri, Ivrea e San
Giorgio Canavese.

La notevole presenza in Piemonte di templari trasformò Tori-


no in uno dei punti fondamentali per lo studio di questo mi-
sterioso Ordine.
In città, le principali sedi templari furono le chiese di Santa
Margherita del Tempio, la magione di San Severo e l'abbazia
di San Giacomo di Stura.
La loro presenza appare attestata già dal 1156, anche se il
primo documento ufficiale è datato 9 Giugno 1219.
Con questo atto, la badessa del monastero torinese di San Pie-
tro, Benlivenga, accese un'ipoteca su alcuni beni di proprietà
di Arcimbaldo, tra cui un campo confinante con l’ecclesia di
Santa Margherita del Tempio. Questa chiesa faceva parte di
un più ampio complesso, costituito da un ospedale e da una
domus vera e propria, ricordata in un atto di vendita del 6
Maggio 1234.
I documenti tramandano il nome di un dignitario, frate Oge-
rio, precettore di Santa Margherita del Tempio, nel 1273. Ven-
gono fatti anche i nomi di due templari, ovvero Pagano Cana-
verio, presente nella mansione torinese, nel 1267, e Guglielmo

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de Tempio. Entrambi fecero parte della comunità rossocrociata
di Santa Margherita, nel 1296.
Nella seconda metà del XIII secolo, i Cavalieri ebbero anche la
domus-ecclesia di San Severo, il cui precettore, nel 1274, fu I-
snardo, dopo una precedente reggenza a Chieri nel 1245. Egli
partecipò anche ad alcuni importanti capitoli che si tennero
presso la domus di Santa Maria, a Piacenza, nel 1244.
Secondo un documento del 1418, la fondazione gerosolimita-
na torinese si trovava oltre porta Phibellionis.

La congregazione rappresentò la sintesi suprema di uno dei


movimenti iniziatici più significativi di un’epoca, che anche
dopo il suo scioglimento continuò a influenzare una serie di
correnti sotterranee e misteriose in gran parte ancora da sco-
prire.
Ma partiamo dall’inizio.
L'ordine di distruggere il Santo Sepolcro a Gerusalemme, da
parte dei pagani, fu la scintilla che provocò nel 1095 la prima
crociata, indetta da Urbano II.
Da quel momento l'uomo devoto diventò il crociato, un pelle-
grino armato, che acquisiva meriti e privilegi, partecipando in
prima persona alla guerra o finanziando le spedizioni.
Questo fatto provocò un inaridimento della dimensione spiri-
tuale dei pellegrinaggi, in quanto essi divennero elementi sti-
molatori di energie belliche, all'interno dei quali la funzione
dell'uomo era relegata ai meriti ottenuti in battaglia. Questi
producevano indulgenze troppo indulgenti, sviluppando il
concetto, fino allora sconosciuto, di Purgatorio.
A seguito di questi avvenimenti, a Gerusalemme fu istituito il
primo Ordine religioso/militare: l'Ordine dei Poveri Cavalieri
di Cristo e del Tempio di Re Salomone, in una parola i tem-
plari.
All'inizio della loro storia, intorno al 1118, essi avevano lo
scopo di proteggere i pellegrini in viaggio verso la Terra San-

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ta. I guardiani del Sepolcro, così come vennero anche definiti,
divennero i paladini non solo di questi luoghi sacri, ma anche
dei simboli sotterranei che questi siti rappresentavano.
Il sepolcro era considerato il centro assiale, ovvero il punto ir-
radiante di un'energia profonda e misteriosa, che doveva es-
sere protetta e non divulgata ai profani.
Lo scopo dei templari era quello di mantenere intatta questa
fonte di comunicazione, che non doveva espandersi verso l'e-
sterno, ma rimanere collegata ai soli adepti. Per questo moti-
vo, all'inizio del loro percorso, i cavalieri rimasero in numero
di nove, per circa dieci anni.
Essi vennero accolti da Baldovino Il di Gerusalemme, in un'a-
la del suo palazzo, costruito sulle rovine del tempio del leg-
gendario re Salomone, personaggio legato a profonde cono-
scenze magiche. Nei primi tempi condussero una vita di po-
vertà, infatti, furono spesso ritratti in due su un solo cavallo,
mangiavano in orari prestabiliti e portavano tuniche bianche
tutte uguali.
Dal 1128, il gruppo cominciò a crescere e con ciò anche il loro
patrimonio e le loro ricchezze, che andarono sempre più ad
aumentare, fino al punto da cominciare a interessare potenti
governanti.
Fu proprio uno di loro, Filippo il Bello che utilizzando come
pretesto le usanze misteriose che facevano parte dell'Ordine,
diede il via a una delle più cruente persecuzioni che la storia
abbia mai ricordato.
L'eresia di cui furono accusati riguardava tra l'altro la blasfe-
mia, l'apostasia, la sodomia, e l'infanticidio. Tutti reati che
prevedevano l'intervento della Santa Inquisizione e della tor-
tura, che portarono spesso a confessioni estorte di rinnega-
mento di Cristo e lo sputo sulla Croce ‘di bocca e non di cuo-
re’; l'assoluzione dei peccati impartita dal commendatario, che
non è un sacerdote; il consiglio di sfogare con l'omosessualità

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l'eventuale eccitazione dei sensi; lo scambio di baci osceni al
momento di entrare nell'Ordine.
Si riteneva che essi adorassero un idolo demoniaco, il Bapho-
met, raccontato come una testa barbuta d'uomo che era in
grado di conferire a chi l'adorava poteri occulti enormi, tra cui
il modo per ottenere la ricchezza, fare fiorire e germogliare le
piante, dare fertilità.
Tutti questi attributi erano legati al Graal, sulla cui letteratura
s’innestarono molti temi derivati dai templari.
Secondo alcune fonti, il Baphomet sarebbe associato a una scul-
tura simbolica demoniaca, che si trovava nelle loro sedi. Altri
parlano di un’associazione o deformazione della parola araba
Mohamet in lingua provenzale, Baphomet-Bafometto-Maometto,
che ripeterebbe i contatti con la fede islamica o, ancora, una
derivazione della parola araba abufihamet, nella Spagna more-
sca bufihimat, in altre parole, ‘Padre della Conoscenza o della
Sapienza’, indicando forse un principio divino.
Nell’Opus alchemica, vi è un'operazione che è chiamata Caput
Mortuum, ‘testa di morto’, essa è la Nigredo o Putrefatio; in
questo caso, l'estrema bruttezza della testa richiamerebbe il
momento del distacco della parte materiale da quella spiritua-
le, ravvisata in un'immagine di mostruosità volgare e nause-
ante.
Si può continuare con il lungo elenco di attribuzioni che ve-
dono in esso la venerazione per la testa di Hugues de Payens,
fondatore dei templari; il collegamento con la sacra Sindone
di Torino, che sembra essere stata realmente in possesso
dell'Ordine fra il 1204 e 1307, e poteva essere custodita ripie-
gata su se stessa, per cui mostrare solo la testa.
Si potrebbe proseguire all’infinito, fino a giungere alle tesi del
celebre alchimista Fulcanelli - un uomo che Torino conosce
bene! – per il quale la figura rappresenterebbe la fusione mi-
stica degli elementi dell'Opera, simboleggiati dalle corna, che
evocano la falce lunare, poste sulla testa solare.

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Ciò spiegherebbe le diversità delle descrizioni che sono state
fatte del Baphomet, che lo vedono come testa di morto con
l'aureola, come bucranio, talvolta con la testa dell'egizio Api,
o di un capro o addirittura come Satana e da ciò si collegarono
anche le innumerevoli accuse di stregoneria che dovettero su-
bire gli adoratori di questa strana creatura.
Nella pura espressione ermetica, la parola Baphomet deriva
dalle radici greche ‘tintore’ e ‘luna’. La parola 'luna' è in rela-
zione con il termine greco che significa ‘genitivo’, ‘madre’ o
‘matrice’. Da ciò si evince che la luna è la vera madre e matri-
ce mercuriale che riceve la tintura o ‘sperma dello zolfo’, che
rappresenta il maschio, il tintore, nella generazione metallica.
Ciò si collega al battesimo simbolico di Meti in quanto la pa-
rola latina Bapheus significa ‘tintore’ e il verbo meto, ‘raccoglie-
re’ e ‘mietere’.
Nel loro insieme, indicherebbero, quindi, la capacità del Mer-
curio o Luna dei Saggi di cogliere e captare la tintura prodotta
durante il processo alchemico: una sorta di Graal.

In realtà l’elemento scatenante che fece agire Filippo il Bello,


fu soprattutto legato ai possedimenti che questi avevano gua-
dagnato, e ai debiti che egli aveva contratto con loro, anche
perché dopo un'accusa per eresia, una delle prime condanne
era appunto la confisca dei beni. Per questo, fu ordinato un
arresto in massa, praticate torture ed effettuate giustizie per lo
più sommarie.
Dopo la soppressione dell'Ordine, morì quasi subito Filippo il
Bello, che la tradizione racconta come conseguenza della ma-
ledizione templare.

Gli appartenenti a questo Ordine furono i grandi ricercatori


della leggendaria Arca perduta, che tanto fece fantasticare ar-
tisti, scrittori e pensatori. Il loro pensiero si rifaceva alle anti-
che culture arabe, permeate di valori simbolici ed esoterici.

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La tipologia costruttiva a essi legata aveva come base il nume-
ro otto, in collegamento alla rinascita e al potere di portare le
proprie ideologie all'infinito.
L'ottagono richiama il significato simbolico del numero otto,
collegato alla resurrezione, e ricorre spesso negli impianti oc-
culti dei templari. Esso corrisponde al ritmo perfetto dell'ar-
monia e della felicità che derivano dalla riconquista del Para-
diso. L'iniziato, dopo avere solcato i sette cieli corrispondenti
ai sette pianeti, arriva alla meta, all'ambita rigenerazione, che
è il sintomo di un nuovo inizio su di un piano di coscienza
superiore.
Secondo il punto di vista di Réné Guénon, le costruzioni basa-
te sull'ottagono hanno una valenza cosmica.

Nelle loro sedi adottavano modelli costruttivi che tenevano


presente la pianta di templi più antichi, ove la visione di una
struttura materiale doveva rispecchiare quella celeste e supe-
riore.
Infatti, il linguaggio simbolico dell'antica Libera Muratoria,
già presente dal IV all'VIII secolo e ulteriormente confermato
nei secoli XI-XII-XIII, divenne anche il tesoro dei templari e
delle culture orientali. Per questo, molte di queste corporazio-
ni di Liberi Artigiani si andarono radunando attorno al loro
Ordine.
Si sono voluti rintracciare i primi Muratori tra i membri dei
Collegia Artificum o Fabrorum nell'antica Roma, che hanno la-
sciato una traccia del loro sapere iniziatico nei simboli che de-
coravano le loro opere, come ad esempio la squadra e la livel-
la; i Maestri Comacini, presenti in età longobarda, che defini-
rono maggiormente il carattere di operatività di tale Arte; poi
gli Stenmetzen tedeschi; i Compagnons francesi e i Free-Masons
inglesi e scozzesi.
Alcuni li videro, in seguito, in collegamento con la confrater-
nita dei Rosa+Croce, con lo scopo di compenetrare i misteri

22
dell'alchimia, della magia naturale, della cabala e dell'astrolo-
gia sacra.

Per concludere, riportiamo di seguito una serie di documenti


concernenti donazioni, che attestano una parte importante
della storia dei templari a Torino.
Infatti, all'epoca era d'uso lasciare beneficiari testamentari i
templari, in quanto questi godevano di posizioni talmente
prestigiose, tanto da divenire un tramite importante tra potere
temporale e spirituale.
Tra Gennaio e Luglio 1196, Pietro, cardinale di Santa Cecilia e
legato apostolico in Lombardia, donò ad Alberto, magistro Mi-
litie Templi, l'ospedale del ponte di Testona, il ponte stesso e la
cappella di Sant'Egidio.
Il 21 Ottobre 1203, apparve un atto di consenso relativo ad al-
cuni terreni confinanti con il «monte domus Templi» di Tori-
no.
L'11 Giugno 1208, Giacomo, vescovo di Torino, prese decisio-
ni relative a questioni tra gli Ospitalieri di Chaumont, in dio-
cesi di Torino, e Ugone, prepositus Ulciensis, del quale furono
testimoni due templari, ovvero frate Uberto de Acquis e frate
Ogerio.
Il 7 Maggio 1273, il già nominato frate Ogerio, precettore di
Santa Margherita del Tempio di Torino, apparve quale teste in
un atto di quietanza.
Il 27 Luglio 1310, vi fu un atto inquisitoriale, a proposito del
quale avvenne un interrogatorio presso il palazzo della Rocca
di Palombara Sabina. Gli inquisitori interrogarono frate Gual-
tiero Giovanni di Napoli, servente. Dalla sua deposizione ri-
sultava che egli entrò nell'Ordine, nell'Aprile o Maggio del
1300, insieme con altri personaggi, tra cui spiccava il nome di
Rolando Lombardo di Torino.
Sempre in tema inquisitoriale, il 21 Maggio 1310, a Cipro fu
interrogato frate Nicola de Moncucco, miles della diocesi di

23
Torino, il quale dichiarò di essere stato ricevuto nell’Ordine, il
Venerdì Santo di sette anni prima ad Asti.
Egli presiedette alla cerimonia iniziatica di frate Giacomo de
Montecucco, precettore in Lombardia. Inoltre, dichiarò agli
inquisitori di aver visto fare elemosine nelle domus di Acri e di
Cipro.

La Sacra di San Michele

La Sacra di San Michele

Le pagine incandescenti del passato della città legano i tem-


plari alla Sacra di San Michele, edificata nell'XI secolo in Val
di Susa, a pochi chilometri da Torino.
Le sue decorazioni sembrano avere influenzato l'impianto
scultoreo della chiesa di Saint Denis (1137) nei pressi di Parigi.
Il monastero sorge sul monte Pirchiriano, deformazione
dell'antico Porcarianus, ovvero ‘monte dei porci’, a ricordo del-
la popolazione celtica, che si muoveva portando con sé questi
animali.

24
La Sacra (‘consacrata’) di San Michele potrebbe avere
un’antica origine, posta alla fine del X secolo, su una preesi-
stente chiesa dedicata al culto dell’Arcangelo san Michele. Si è
voluto identificare il primitivo santuario con quello contenuto
all’interno della chiesa, costruito, secondo la leggenda dagli
angeli e da san Giovanni Vincenzo, già vescovo di Ravenna.
Tale racconto è evocato dall’affresco posto a destra, sul Coro
Vecchio (all’interno del complesso), dove angeli e colombe
sono raffigurati all’opera, mentre trasportano i materiali ne-
cessari alla costruzione della chiesa. Nel dipinto appare anche
il vescovo di Torino - Amizzone – ripreso mentre sta salendo
verso l’edificio. Ancora a sinistra, appare Ugo di Montboissier
in cammino verso il monte Pirchiriano, allo scopo di fondare
il Monastero.
La leggenda trova eco nell’immagine dell’eremita san Gio-
vanni Vincenzo che dall’adiacente monte Caprasio, avrebbe
portato qui la sua fede e l’esigenza di riedificare l’antica cap-
pella dell’Arcangelo Michele, dopo le invasioni saracene.
In altri racconti popolari, il santo avrebbe avuto in sogno una
visione di angeli e dell’Arcangelo Michele, che gli avrebbero
indicato il monte Pirchiriano, come sede della chiesa da co-
struire.
Era l’epoca del pontificato di papa Silvestro II, il Papa passato
alla storia per la sua vasta cultura, per alcuni, anticipatrice
della rinascita intellettuale del XII secolo, in quanto estesa fino
ai meandri della conoscenza araba. Per questo - in alcuni au-
tori - egli fu collegato al mondo della magia.
In seguito, nel XII secolo, si rielaborò l’impianto per mezzo
del conte Ugo di Montboisser, barone di Alvernia, bisavolo di
Pietro di Montboisser, abate di Cluny e amico di San Bernardo
di Chiaravalle.
Silvestro e Ugo si incontrarono a Roma, in occasione del viag-
gio di quest’ultimo verso la capitale. I maligni sostengono che
la causa di questo viaggio fu la necessità di espiare un’unione

25
sentimentale al di fuori del matrimonio con Isengarda, che
l’accompagnò in quest’occasione.
Al suo ritorno, Ugo sostò in Val di Susa, dove la sua fede tro-
vò modo di esprimersi dando il compito a un monaco, Aver-
to, di modificare l’antica chiesetta di san Giovanni Vincenzo.
L’edificio acquistò importanza nel XII secolo, divenendo un
luogo di cultura a livello europeo. I lavori all’edificio conti-
nuarono e vi furono altri due interventi, che ampliarono
l’impianto via via che cresceva l’importanza e il richiamo del
sito sacro, divenuto anche ospizio e ricovero.
La Sacra aveva a disposizione vasti possedimenti in tutta Eu-
ropa ed anche una delle più importanti biblioteche dell’epoca.
Il monastero fu protetto e sostenuto dalla Curia pontificia ro-
mana, e questo
creò contrasti con
il vescovo di To-
rino.

L’accesso alla Sa-


cra è costituito da
un lungo scalone
scavato nella roc-
cia, lo Scalone dei
Morti, così chia-
mato per via delle
tombe che vi si
trovavano accan-
to, dalle quali era
possibile, ancora
fino a poco tempo
fa, vedere gli
scheletri dei mo-
naci morti.
Scalone dei Morti In cima allo scalo-

26
ne, l’ingresso principale è costituito dal Portale dello Zodiaco.
Il Portale dello Zodiaco risale al XII secolo, anche se nella sua
forma attuale ha subito dei rifacimenti, in cui vi sono state col-
locate parti di diversa origine. La realizzazione di questa ope-
ra fu affidata a Nicholaus, e la sua datazione risale tra il 1114 e
il 1125.
In questo periodo, si assistette in Europa a un rifiorire di tutte
le antiche dottrine ermetiche, risorte nella Penisola iberica,
dopo le conquiste arabe del VIII secolo d.C.
L’antico sapere Orientale rese la Spagna un centro
d’importanti studi legati all’alchimia, all’astrologia e alla
scienza esoterica della cabala, tecnica legata al misticismo e-
braico. Da questa terra, la conoscenza s’irradiò e si trapiantò
nell’antico continente, facendo fiorire ricerche basate su testi
antichi.
Attraverso la mediazione della Spagna, l’Islam esportò il gu-
sto per l’ornamento, favorito anche dalle Crociate, dalla rina-
scita del pellegrinaggio verso la Terrasanta e i conseguenti
scambi commerciali tra Oriente e Occidente. Le stoffe, i tappe-
ti, i piccoli oggetti - soprattutto la miniatura - e le ceramiche
dell’Est si riversarono nei mercati occidentali, stimolando la
curiosità attenta degli artefici della rinascita architettonica del
Medioevo, che ne trassero ispirazione per le decorazioni degli
edifici più importanti delle nuove realtà urbane.
Questo fu reso possibile dal principio che poneva
l’architettura come la trama di un tessuto, scolpito sulla pie-
tra, creando un sottile filo conduttore tra gli oggetti importati
e gli edifici in costruzione.
Il decoro fu inoltre caratterizzato da creature mostruose poste
a guardia del sacro. Anche in questo caso, l’origine è da cerca-
re nel mondo magico orientale. Apparvero amuleti con raffi-
gurazioni di divinità dall’aspetto bestiale che avevano il com-
pito, come da millenni, di proteggere e di allontanare le in-
fluenze maligne. Gli artisti della pietra li riprodussero nelle

27
loro opere, favorendo l’integrazione di valori arcaici nel mon-
do medievale, da cui furono assorbite.

Nel XII secolo, dal mondo arabo tornò ad affluire in Europa,


oltre al gusto dell’ornamento, anche il sapere antico, che pro-
babilmente influenzò anche Nicholaus. La chiesa diventò un
luogo di purezza divina, in cui l’altare fu il centro, per poi svi-
luppare la struttura in larghezza, con due assi orientati verso i
punti cardinali. La volta rappresentò il cielo e gli astri.
Spesso i segni dello Zodiaco rappresentarono il decorso del
sole. Queste immagini astrologiche avevano intenti didascalici
o etici, e apparivano nelle decorazioni dei pavimenti e nei
portali, riproducendo i primi esempi di schemi legati al ca-
lendario. Troviamo molto spesso, cicli zodiacali in associazio-
ne con i mesi dell’anno, secondo la tradizione iconografica
diffusa dai calendari manoscritti.
Nel Medioevo occidentale, coesistevano due atteggiamenti nei
confronti della tradizione astrologica pagana. Da una parte i
testi erano recuperati, ricopiati, miniati e conservati nelle bi-
blioteche dei maggiori monasteri d’Europa; dall’altra c’era il
tentativo di cristianizzare il cielo con l’istituzione
dell’equivalenza tra i dodici segni dello zodiaco e gli apostoli
o i personaggi biblici.
Nella Sacra di San Michele, i dodici segni dello Zodiaco sono
contornati da sedici costellazioni e si dipanano nella fascia in-
terna degli stipiti del portale, in senso verticale.
Il ciclo di Nicholaus presenta alcune particolarità. Esso sem-
bra dedotto da un codice miniato, come era d’uso all’epoca, e
più precisamente quello di Arato (315-245 a.C.) che, molto
probabilmente, era custodito all’interno della biblioteca del
monastero.
Le analogie sono messe in evidenza dal fatto che il segno zo-
diacale del Capricorno è alato, mentre lo Scorpione e la Bilan-
cia occupano un unico spazio decorativo.

28
Quest’ultimo or-
namento è spie-
gato dal fatto
che, anticamen-
te, la costellazio-
ne della Bilancia
era inclusa tra le
pinze dello
Scorpione. La Bi-
lancia fu infatti
l’ultimo segno
dello Zodiaco a
essere incluso
nel cerchio astro-
Portale dello Zodiaco, Scorpione-Bilancia logico nel III se-
colo a.C.
Essa era sconosciuta ad Arato e al mondo greco, mentre ebbe
maggiore successo nel mondo romano, dove si affermava, che
lo Scorpione si ripiegò su se stesso, per fare posto al settimo
segno dello Zodiaco, quello in cui la tradizione pone la nascita
del divino Ottaviano Augusto ed anche la posizione della Lu-
na nel cielo natale di Roma. Le costellazioni che circondano i
segni zodiacali sono invece i paranatellonta (Pegaso, Argo,
ecc.), che Arato descrisse nella sua opera.
I paranatellonta sono gli astri o le costellazioni extrazodiacali
che sorgono (paranatéllo in greco significa ‘sorgo’, ‘mi levo’) in
concomitanza a un segno zodiacale, influenzando la sua natu-
ra. Gli egizi, che consideravano l’anno di 360 giorni, lo divi-
devano in dodici mesi di trenta giorni, ciascuno frazionato in
tre decani e trenta paranatellonta, cioè figure dei singoli giorni.
I trentasei decani - ognuno rappresentato come essere ibrido -
comandavano il destino di ogni essere umano, muovendo i
pianeti nel cielo e prendendosi cura del mondo sublunare.

29
L’anno zodiacale del Portale viene sancito dal segno
dell’Aquario, il coppiere degli Dei, che dispensa l’acqua pre-
ziosa, da cui risorgerà la vita a primavera. Questo segno zodi-
acale era connesso al dio Giano, che ha dato il nome al mese
di Gennaio (Ianuarius), il mese che finisce e apre il nuovo an-
no, la porta di un nuovo ciclo.
Giano, l’antico Dio del Tempo, aveva due volti, di cui uno di
uomo anziano che rappresentava il passato e le esperienze già
avvenute, mentre il volto del giovane si legava al futuro e a
tutto ciò che era in divenire, fondendo il passato e la profezia
con il futuro e la tradizione, uniti da un presente atemporale,
ovvero il terzo volto occulto del Dio, sul quale ruotava tutta la
manifestazione divina. Era colui che presiedeva alle porte e
quindi al passaggio inteso come iniziazione.
Per questo il portale è la soglia da oltrepassare per accedere
da un mondo profano esterno a un mondo sacro interno. Esso
riproduce l’unione di due figure geometriche: il cerchio e il
quadrato, la fusione alchemica tra maschile e femminile, pre-
ludio della Grande Opera alchemica.
Esso è la sintesi della quadratura del cerchio, combinazione
tra il dinamico (cerchio) e lo statico (quadrato), metodologia
architettonica che risale ai tempi più antichi di costruzione sa-
cra, nonché alla rappresentazione del ciclo del Tempo.
La parte rettangolare dell’accesso inferiore simboleggia la
Terra, il mondo corporeo in cui l’uomo deve espiare le sue
colpe, per attraversare la soglia e accedere al mondo superio-
re, verso il cielo che è rappresentato dalla lunetta sovrastante,
di forma semisferica e simbolo della perfezione celeste.
Un altro elemento importante nelle proporzioni del vano di
ingresso del Portale dello Zodiaco è relativo alla sua corri-
spondenza con il rapporto aureo.
Questo studio si connette alla figura di Leonardo Fibonacci,
che espose la serie numerica che oggi porta il suo nome. Tra
questi, l’approssimazione del rapporto aureo, modello attra-

30
verso il quale si cercava una completa armonia dell’universo
attraverso i numeri.

Anche la vegetazione, intesa come elemento vivente e sacro,


ebbe largo utilizzo nella pratica architettonica, affermando il
risveglio dell’ornato a intreccio.
I rami carichi di foglie, frutti e animali si riversarono sulla
scultura, intrecciati tra di loro, a formare un vero e proprio la-
birinto di immagini, a rappresentazione delle prove elementa-
li, cui il mago medievale doveva fare fronte.
La magia consisteva nel vincere i quattro elementi della natu-
ra - Fuoco, Terra, Aria e Acqua. Ecco dunque apparire nel
giardino fantastico dell’architetto animali, come la salaman-
dra o il leone, in grado di rappresentare il Fuoco, oppure an-
cora bestie ctonie o mostruose, che sviluppavano un contatto
con la Terra; gli uccelli che volavano nell’Aria, assunsero
l’emblema di questo elemento, mentre ai serpenti, ai draghi e
alle melusine o sirene spettò il compito di entrare in connes-
sione con l’Acqua.
Molti di questi elementi sono ravvisabili nel portale in oggetto
a rappresentazione di un immaginario enciclopedico, che rav-
visava nelle figure anomale la provenienza da paesi lontani o
sconosciuti.
Infatti, accanto ai segni zodiacali e ai paranatellonta, nel portale
appaiono creature mostruose, come donne colte nell’attimo in
cui stanno allattando serpenti, tritoni, leoni con testa e code di
drago, sirene bicodate.
Tutti elementi mutuati dall’immaginario bestiario medievale,
tra fede e magia…

A Nord dell’Abbazia, si notano le vestigia della torre, da dove


la leggendaria bell’Alda si gettò, nel XVII secolo, per sfuggire
a soldati (vuoi francesi, vuoi di ventura, vuoi saraceni), re-

31
stando illesa, salvata dagli angeli, forse quegli stessi angeli
che - secondo la leggenda - edificarono la chiesa.
Si afferma anche che la cupidigia della donna la portò a tale
impresa per ottenere prestigio e ricchezza, ma in questo caso,
nessuno la salvò e morì in fondo al burrone, sfracellandosi tra
le rocce. Questa leggenda fu tramandata anche da Massimo
D’Azeglio, innamorato della Sacra e della sua regione.

Torre della bell’Alda

A partire dal XIV secolo, si assistette a un lento declino. Nel


1381, infatti, l’abbazia smise di essere un ente autonomo. Pas-
sò sotto il protettorato di Amedeo VI di Savoia. Da quel mo-
mento in poi, essa fu governata da abati commendatari, fino
alla definitiva soppressione del 1622, quando si potevano con-
tare solo tre monaci dell’Ordine benedettino.
Fu Carlo Alberto che la riaprì nella prima metà del XIX secolo,
facendola divenire un sepolcro reale e ne affidò la cura ai Pa-

32
dri Rosminiani. L’abbazia contiene le tombe di ventiquattro
principi di casa Savoia.
In seguito ad un violento terremoto, nel 1886, si iniziarono i
restauri al complesso, sotto la direzione di Alfredo
D’Andrade.
Le opere terminarono solo cinquant’anni dopo.
Attualmente la Sacra di San Michele è stata scelta come il
simbolo della regione Piemonte.

Arcani pellegrinaggi e sacre reliquie: la Sacra Sindone

Edificata lungo la Via Francigena, la Sacra di San Michele riu-


nisce idealmente l’abbazia di Mont Saint Michel, in Francia, e
la chiesa di San Michele in Gargano (Puglia) in un importante
reticolo di vie, che costituivano un percorso di fede legato ai
pellegrinaggi che dalla Normandia procedevano fino a Roma
e Gerusalemme. A questo proposito, un cronista dell’XI secolo
riportò:

Sappiamo, in base a molti documenti della sacra scrittura,


che il beato Michele, per volere di Dio, non solo possiede in
cielo il primato tra i cori della milizia celeste, ma anche in
terra possiede, per così dire, un principato [...] soprattutto
nelle plaghe occidentali [...] Infatti nelle regioni occidentali
l’Arcangelo del Signore ha scelto per sé, in modo specia-
lissimo, tre luoghi illustri [...]: il primo è il monte Gargano,
ormai notissimo in tutto il mondo; il secondo, vicino
all’oceano Atlantico, si chiama Presso-il-pericolo-del-mare
(Mont-Saint Michel); il terzo (la Sacra di San Michele), posto
giustamente in mezzo alle cime elevate dei monti [...], dove
si può contemplare più da vicino la maestà divina.

La figura dell’arcangelo Michele fu la guida ai porti pugliesi


per l’Oriente, che permettevano di raggiungere Gerusalemme.

33
Le chiavi, tipico attributo
del Santo, davano l’accesso
all’immagine sublime
dell’arcangelo Michele, il
cui nome in ebraico è Mi ka’
el, in altre parole ‘chi come
Dio’, a rappresentazione
dello stato perfetto di chi,
come Dio, aveva raggiunto
la condizione spirituale più
nobile e pura.
Infatti, fa parte del comples-
so, il Sepolcro dei Monaci,
un’antica cappella (di cui
rimangono solo i resti) che
alcune fonti indicano come
riproduzione del Santo Se-
polcro. In questo modo, a-
Eremita, Tarocco Piemonte vrebbe avuto la funzione di
richiamare alla mente del
pellegrino la passione di
Cristo sulla terra e la promessa di una vita futura all’interno
della biblica Gerusalemme celeste. La Cappella ha forma otta-
gonale. La figura geometrica dell’ottagono è considerata il
termine di mediazione tra cerchio e quadrato, il primo corri-
spondente simbolicamente al cielo, mentre il secondo alla ter-
ra. L’ottagono si riconnette con il numero otto, e compone
l’ideogramma dell’infinito e dell’immortalità, cifra di equili-
brio cosmico. Divenne il numero della rinascita, legato alle
parole di sant’Agostino, che dichiarò l’ottavo giorno - succes-
sivo ai sette occorsi per la Creazione - quello della resurrezio-
ne dell’uomo nuovo, in altre parole il giorno del giudizio.

34
Nel mondo dei Tarocchi, due immagini degli Arcani Maggio-
ri, rappresentano il percorso del pellegrino, l’Eremita, vale a
dire il saggio cosciente del proprio cammino interiore e il
Matto, il vagabondo che si annulla di fronte alle influenze ter-
rene. L’Eremita è raffigurato con il suo bastone, tipico simbolo
del pellegrinaggio, mentre si avvia con una tenue fiaccola su
un sentiero arduo, per ricomporre il dedalo della vita umana
e trovarne il fine ultimo. Il suo viaggio permette di entrare in
contatto con la manifestazione del sacro nel mondo secolare,
innalzandolo a centro cosmico, dove potere acquisire saggez-
za e conoscenza.
Questa via comporta un cambiamento dello stato di coscienza
individuale, nell’intento di trascendere la materialità con il
suo perenne dualismo - rappresentato dal conflitto generato
dalle forze del bene e del male - per ricongiungersi all’unità
primordiale, stato di perfezione assoluta. Questo stato di per-
fezione è rappresentato dal suo Alter Ego, il Matto appunto,
inizio e fine di ogni percorso.
Va considerato che gli edifici sacri, unitamente alle grandi vie
di comunicazione, erano i riferimenti su cui dovevano orien-
tarsi i pellegrini. La selva di chiese nelle città espletavano, ol-
tre che una funzione religiosa, anche un vero e proprio rap-
porto di congiunzione fra i diversi luoghi di culto, creando un
itinerario sacro, salvifico e di guarigione sia fisica che spiritua-
le.
Per questo motivo, l’orientamento delle chiese era di massima
importanza, indicando la via da seguire per raggiungere la
meta sacra.
Verso Nord/Ovest si trovavano i templi dedicati a san Gia-
como (Compostella) e sant’Antonio di Vienne; mentre a
Sud/Est quelli che spingevano a muoversi verso a Roma e a
Gerusalemme.
I poli religiosi di richiamo erano su un’unica via ma percorsi
in senso inverso. La trasformazione della via romea - percorso

35
che conduceva a Roma - in via francigena, legata al pellegri-
naggio verso Santiago di Compostella, alimentò l’homo viator e
donò la forza per affrontare un percorso iniziatico verso la ri-
nascita interiore.
Ogni chiesa conteneva richiami e riferimenti ai vari santuari
incontrati nella via, come ad esempio san Nicola, legato alla
città di Bari, punto di accesso italiano all’Oltremare e al pelle-
grinaggio in Terrasanta, nonché punto di partenza per la via
jacopea, producendo un’assommarsi di significati simbolici, in
base ai quali, ogni luogo di culto legato alle vie del pellegri-
naggio era una sorta di contenitore delle testimonianze prece-
denti.
Molto importanti, in questo ambito, furono le reliquie, di cui
Torino è ricca.

Jacopo da Varazze cita - nella sua Legenda Aurea – l’azione di


evangelizzazione a Torino di Solutore, Avventore e Ottavio,
tutti della milizia di san Maurizio.
Maurizio, soldato tebeo agli ordini di Massimiano (ca. 280
d.C.) si rifiutò di sacrificare agli Dei pagani per propiziarsi la
battaglia. Insieme con alcuni altri compagni cristiani, preferì
immolarsi per difendere la propria fede. Tra gli scampati a
questo delitto, vi furono appunto Solutore, Avventore e Otta-
vio, che si recarono a predicare il credo cristiano a Torino. I
loro corpi, insieme con un braccio, la spada e la croce di san
Maurizio divennero sacre reliquie per i torinesi. Questi resti
esprimono il senso della devozione e si collocano insieme con
altre reliquie al centro della fede torinese.

Torino ha però un privilegio unico al mondo. Possiede la reli-


quia delle reliquie: la Sacra Sindone.
La Sacra Sindone è il lenzuolo che, secondo la tradizione, a-
vrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la crocifissione.

36
Prima del Medioevo, le notizie a questo riguardo non sono
precise e uno dei primi documenti che ne fa menzione risale
al XIV secolo.
Si dice che la reliquia fu portata a Torino dai templari quando,
dopo molte traversie, venne perso il controllo della Terrasan-
ta.
Adesso, la Sacra Sindone si trova nel Duomo di Torino, dove
fu portata nel 1578, dopo essere stata riparata dalle monache
in conseguenza dell’incendio di Chambery.
Attraverso la cronologia degli spostamenti della Sacra Reli-
quia, tenteremo di rintracciare un percorso cultuale, che ana-
lizzeremo prendendo come spunto l’iconografia degli Arcani
Maggiori dei Tarocchi che rappresentano tappe evolutive,
spesso mutuate da correnti iniziatiche, che hanno fatto di que-
ste lamine un vero simbolo del viaggio verso le mete sublimi
del mondo superiore.
In quest’accezione, i Tarocchi sono una serie di immagini,
propizie all’uomo per meditare sui misteri della natura e

Sacra Sindone

comprendere il senso dell’esistenza e del mondo, di cui anche


lo gnosticismo cristiano si è occupato.

37
La Sacra Sindone ha in sé, come affermano molti ermetisti, il
potere dei quattro elementi. È un prodotto della Terra, consi-
derando che si tratta di una fibra ottenuta dal fiore di lino; è
stata lavorata dall’uomo; ha attraversato l'Acqua, l'Aria, ovve-
ro il tempo, ma anche la comunicazione non verbale di un
messaggio antico di fede e tradizione. Ha in sé la potenza del
Fuoco, ovvero il Sole supremo rappresentato dallo stesso Cri-
sto. Fuoco che, nonostante mille attentati, non è mai riuscito a
distruggerne la materia.
Questi quattro elementi sono il dominio della prima carta
numerata degli Arcani Maggiori, il Bagatto, che deve utilizza-
re la loro sapienza per iniziare a muoversi nel mondo.
A lui, segue la Papessa, la sacerdotessa seduta sul trono, sim-
bolo della Sapienza infinita e del mistero. Ella cela tutti i mi-
steri della vita.
La Sacra Sindone fu, infatti, tenuta nascosta fino almeno al
524. La mancanza di documenti e il fiorire di molte leggende
attorno a questa reliquia, ricalca il significato della seconda
lamina dei Tarocchi.
Se i tessuti sepolcrali erano ritenuti impuri dalle comunità
giudaiche, la Sacra Sindone - forse per volere di Giuseppe
d’Arimatea - fu necessariamente celata ai credenti, per preser-
varne il valore e l’immagine sacra.
Nel 525, nella chiesa di Santa Sofia in Edessa, l’immagine sa-
cra riapparve. La successiva immagine dei Tarocchi è
l’Imperatrice, non esattamente una donna carnale, ma un an-
gelo, che ha il compito di realizzare la sapienza della lamina
precedente e, nella moderna iconografia, viene spesso rappre-
sentata con l’immagine della Vergine. Così, anche la terza
tappa della Sindone si unisce al nostro percorso, rimanendo
all'interno della chiesa, fino al X secolo. Nel 944, l’impero bi-
zantino conquistò Edessa, che era stata presa dai Turchi. Con
questo avvenimento, il Telo prezioso tornò in mani cristiane,
riconquistando in pieno il suo ruolo di reliquia. È interessante

38
notare, che la quarta tappa del mondo dei Tarocchi corri-
sponde all’Imperatore, colui che ristabilisce un ordine terreno,
attraverso il suo potere d'azione.
In quel periodo, si scoprì che la reliquia non era un fazzoletto,
come si reputava fino ad allora - in quanto era esposta ripie-
gata in otto parti - ma un vero Sudario. Da quel momento, fu
spesso messa in mostra a Costantinopoli.
Il passo successivo si connette alla quinta lamina dei Tarocchi,
il Papa, in quanto il nostro viaggio alla scoperta dei misteri
della Sindone, si sposta nel 1204, il periodo segnato dalla
Quarta Crociata.
Il Papa in questione è Innocenzo IV, che proibì furti e ruberie
nei territori di una Costantinopoli liberata da Ottone de la Ro-
che, il futuro governatore e duca di Atene.
Nonostante il divieto, la Sindone fu rubata da Ottone e custo-
dita segretamente da questa famiglia, che - per l’oltraggio fat-
to - poteva subire la condanna alla pena capitale.
Un altro riferimento che riconduce al Papa dei Tarocchi è l'i-
potesi che la Sindone fosse custodita, in quel periodo,
dall’Ordine religioso dei Templari.
Secondo altre fonti, la reliquia passò, nel 1208, al vescovo di
Besancon e fu conservata fino al 1349, nella chiesa di Santo
Stefano, il martire della religiosità cristiana.
A queste peregrinazioni, tra storia e leggenda, s’incastona,
negli anni che vanno dal 1292 al 1295 un fatto curioso: la Sin-
done viene indirettamente ritrovata. Un artista afferma di a-
vere visto la reliquia e la disegna in una miniatura sul Codice
Pray. L'opera presenta, per la prima volta, i segni del fuoco,
attribuibili a un incendio misterioso, ancor oggi visibili sul Te-
lo sacro.
L'indeterminatezza di questo periodo si accosta all’incertezza
che esprime la sesta lamina del mondo dei Tarocchi, l'Inna-
morato, che - lungi dall’essere solo una carta rappresentativa

39
del sentimento amoroso - incarna il principio del dubbio e
dell'indefinito.
Il Carro, settimo protagonista dei Tarocchi, attesta la funzione
del movimento e della crescita.
Di questo concetto abbiamo riscontro nel percorso della reli-
quia, verso il 1350, che - per alcuni - la portò al possesso del
Conte Goffredo de Charny, che la condusse nel suo castello in
Lirey. La custodia nel castello si inserisce nell’immaginario
mondo laico del guerriero, che guida il Carro dei Tarocchi. In
questo caso, vi sarebbero documentazioni del 1353, che ne at-
testano la proprietà. Il devoto proprietario fece comunque un
voto, quello di cedere il Telo ai canonici di Lirey, se la guerra
in cui si stava battendo l’esercito francese fosse stata vinta. Al-
la vittoria della Francia, seguì la donazione nel 1356, ristabi-
lendo il giusto contatto della reliquia con il mondo religioso,
cui apparteneva. Questo passaggio si ricollega all'ottava carta
dei Tarocchi, la Giustizia, che è il simbolo del ripristino degli
equilibri sacri.
La venerazione della Sacra Sindone ne aumentò la fama.
Iniziò, in questo modo, un periodo difficile per il sacro Len-
zuolo, periodo che si colloca cronologicamente tra il 1356 e il
1452.
In analogia all'Eremita dei Tarocchi, simbolo di umiltà e spo-
liazione, la Sindone fu bersagliata da molte critiche, motivate
dall’eccessivo sfarzo e fama, con la quale si adorava la reli-
quia.
Pietro d’Arcis, vescovo della Troyes (regione in cui si trova
Lirey), si scagliò contro l'immagine, senza averla vista, consi-
derandola una falsa icona.
La seguente proibizione del suo culto fece ritornare la Sindo-
ne ai vecchi proprietari, la famiglia de Charny, che la sposta-
rono, nel 1449, in Borgogna, in una piccola cappella.

40
La Ruota della Fortuna, il decimo Arcano, troneggia nel 1453,
quando, Margherita di Charny cedette la Sindone ad Anna di
Lusignano, moglie del Duca Ludovico I di Savoia.
La Ruota della Fortuna è il simbolo del destino, il movimento
incessante della vita, che porta a raggiungere la propria meta,
indicando la via, una via che legherà la reliquia ai Savoia e,
poi, a Torino.
A Chambery, per onorarla, fu costruita una grande cappella.
Fu quello il periodo della Forza, l’undicesima tappa del nostro
viaggio, in cui si cercò di comprovare l'autenticità della Sin-
done.
Bagni nell'olio di lino bollente diedero a tutti la prova che cer-
cavano: l’impressione dell'orma del corpo non scompariva,
per questo, fu ritenuta credibile e riparata in un contenitore di
prezioso argento.
La reliquia si salvò anche da un gravoso incendio, occorso
nella notte fra il 3 e il 4 Dicembre 1532, e fu riparata dall’opera
pia delle Clarisse del convento di Chambery, con rammendi,
che sono stati restaurati e tolti solo nel 2002. Alle vicende che
seguirono, dense di miracoli, guarigioni, furti e angelici salva-
taggi, si attesta un fatto storico importante. Nel 1572, Torino
divenne la capitale del Ducato di Savoia e, con questo, la Sin-
done - nel 1578 - raggiunse la città piemontese, custodita nella
chiesa di Santa Maria, in piazza Castello, divenuta in seguito
chiesa e cappella di San Lorenzo.
Fu uno stratagemma che permise di cambiare la storia della
Sindone, in analogia alla carta XII dei Tarocchi, l’Appeso,
l'immagine connessa a un significato spirituale molto profon-
do in grado di modificare il corso degli eventi. L’espediente
del passaggio è legato a Carlo Borromeo, divenuto, in seguito
Santo, che promise di recarsi in pellegrinaggio a Chambery,
per visitare la Sindone, se l'epidemia di peste che imperversa-
va a Milano, fosse cessata. Al termine dell’epidemia, il Duca -

41
per alleggerire il percorso di Borromeo - fece spostare la Sin-
done a Torino.
Da quel giorno, la Sindone è divenuta il simbolo della città,
dove ancora oggi risiede e, nel 1694, fu traslata in una cappel-
la, che fu costruita appositamente per contenerne la sua es-
senza sacra.
L’innominabile Arcano XIII, porta il germe del mutamento e
della trasformazione. Nel 1706, occorse un altro spostamento
temporaneo a Genova, in seguito ad un assedio di Torino da
parte dell’esercito francese.
Al suo ritorno a Torino, alla fine dello stesso anno, riacquistò
la sua posizione di prestigio, acquisendo un ruolo centrale di
un Ducato, che divenne Regno sette anni più tardi.
I primi documenti fotografici del Telo risalgono al 1898,
quando, in occasione della celebrazione del matrimonio di
Vittorio Emanuele, erede al trono, Secondo Pia effettuò le sue
riprese.
Le dichiarazioni del fotografo furono impressionanti: egli
scoprì che il negativo della foto della Sindone era in realtà un
positivo dell'immagine del Corpo sacro, mentre tutti i succes-
sivi interventi sul lenzuolo apparivano - come doveva essere -
al negativo.
Il genio della Temperanza affermava se stesso. La XIV lamina,
infatti, governa il polo positivo che si mescola col polo negati-
vo, nel tentativo di dare una spiegazione alla Verità ricercata e
di affermare la sacralità della ricerca. Come sostiene lo studio-
so Peter Rinaldi:

quella della Sindone è un’immagine negativa - un’immagine


cioè in cui i valori di luminosità del corpo sono capovolti.

Questo fatto eliminava il dubbio che la Sindone fosse solo un


‘sudario dipinto’, come aveva già affermato nel passato il ve-
scovo Pierre d’Arcis - nel 1389 - quando assicurò che aveva

42
saputo, da una confessione al vescovo precedente, che
l’immagine era stata dipinta da un pittore.
La ricerca scientifica proseguì con altre fotografie, nel 1931, e,
otto anni più tardi, con il primo Congresso di Studi sulla Sin-
done.
È il Diavolo quello che segue, il simbolo del potere e
dell’aggressività, che si espresse con la seconda guerra mon-
diale, quando la Sindone fu necessariamente salvata dalla di-
struzione, portandola nel santuario di Montevergine, vicino
ad Avellino.
La Sacra Immagine fece ritorno a Torino solo nel 1946.
La ricerca scientifica proseguì i suoi studi verso la fine degli
anni Sessanta, fino a giungere al 1973, quando sembrò che la
Torre - l'Arcano XVI della distruzione e della cancellazione
del mito - si abbattesse sul Telo.
L’analisi di un campione della Sindone, col metodo di radio-
datazione carbonio 14, portò alla conclusione che una parte
del telo risultava del 200 e un’altra del 1000, mettendo in crisi
il valore e l’antichità della reliquia. Allo stesso tempo, alcune
polveri prelevate dal lenzuolo dimostrarono che contenevano
elementi botanici fossili di vegetali provenienti dalla Palestina
e dall’Anatolia.
Fino al 1978, il Telo fu studiato con dovizia, soprattutto in oc-
casione della celebrazione dei 400 anni di presenza della Sin-
done a Torino. Dopo tante analisi, nel cielo di Torino apparve
una Stella, il diciassettesimo Arcano della serie, quello che in-
dica la via e promuove il ritorno delle cose nel loro ambiente
naturale.
Nel 1983, infatti, il legittimo proprietario della reliquia, l’ex re
d’Italia Umberto II, morì, lasciando il Telo a papa Giovanni
Paolo II, che lasciò alla città di Torino il privilegio di custodir-
lo per sempre.
La Luna, il simbolo della notte e dell’inganno, produsse nel
1997, un effetto devastante: un incendio della cappella che cu-

43
stodiva la reliquia. La Luna, però, occulta e nasconde: la Sin-
done non era nella cappella, pur custodita nel Duomo, fu sal-
vata da un vigile del fuoco, che intervenne prontamente pri-
ma che l’incendio divampasse nel resto dell’edificio sacro e la
Sindone non riportò alcun danno. Le successive ostensioni del
Lenzuolo, nel 1998, in occasione della celebrazione dei 100
anni dalla prima fotografia e nel 2000 per l’Anno Santo, rap-
presentano il Sole, l’immagine della ritrovata fede e della sal-
vazione.
Il Giudizio, penultimo Arcano della serie dei Tarocchi, si af-
ferma nel 2002, quando - come abbiamo già visto - i restauri
della Sindone eliminarono le scorie e gli interventi successivi
(rattoppi e rammendi), riportando il Telo alla sua purezza, al-
la purezza del Giudizio, l’arcano della purificazione e della
spiritualità massima. Anche se, fino a poco tempo fa, si rite-
neva che l’immagine della figura al negativo potesse essere
dovuta a sostanze chimiche contenute nel corpo venute a con-
tatto con spezie - quali l’aloe - che si usavano abitualmente in
occasione dei rituali funebri, l’immagine che impressiona la
Sindone appare come l'espressione di un’energia radiante che
ha lasciato la sua magica impronta nel mondo. E oggi, la Sin-
done è il Mondo, l’ultima lamina dei Tarocchi, quella che rap-
presenta il compimento e la realizzazione, il potere della città,
in tutto il mondo. Il Mondo utilizza tutti gli elementi del Ba-
gatto (Fuoco, Terra, Aria, Acqua) in modo completo e diventa
una protezione suprema della vita.
Così un’infinita serie di persone (il Matto dei Tarocchi, ovvero
il pellegrino della vita) prosegue il suo atto di devozione, con-
tinuando a visitarla, per esprimere la fede che brilla nel cuore,
lasciando intatto un mistero che affascina.

44
L'elemento Acqua nella magia della città

Le reliquie, i pellegrinaggi e la spiritualità si raccordano all'e-


lemento Acqua alla quale tutto torna, nella quale tutto si dis-
solve.
L'Acqua è, infatti, visualizzata in una fonte mistica di vita e di
potenza ed è l'archetipo della creazione.
Molte sono le ritualità antiche legate a quest'elemento prezio-
so, tra queste le abluzioni sacre e il battesimo.
La Rugiada divina è la celebrazione dell'incarnazione dell'a-
nima spirituale nel mondo terreno, conferma della sua im-
mortalità nella creazione e della sua essenza divina, è l'ele-
mento dell'eterno divenire.
Teofrasto Paracelso scrisse che il Paradiso era nell'acqua, dove
ancora oggi si trova e questa è la ragione per cui si battezzano
i neonati. Il collegamento naturale tra Acqua e Paradiso, ac-
qua e vita, nasce dal presupposto che l'embrione umano si
muove nel liquido dell'utero materno, centro della vita e del
mondo. La femminilità e la fertilità s'identificano con la Luna,
il principio acqueo per eccellenza e a tutto ciò a essa collegato:
grazia, percezione, ricettività, intuizione, comprensione, realtà
emozionale interiore, anima, cuore.
L'Acqua è passiva, come passiva è la forza della Luna che at-
tende il raggio di Sole per dare forma materiale al mondo cre-
ativo; ma è anche reattiva nel suo potere vivificante, che offre
vita alla materia e la forza per facilitare la via del ritorno allo
stato superiore.
È l'energia della temperanza che porta alla visione reale delle
proprie potenzialità e alla libertà dal desiderio.
Il soffio, lo spirito dell'Acqua dà capacità introspettive e medi-
tative, per questo collegabile alla spiritualità.
La Luna e l'Acqua sono collegate allo specchio divinatorio, al-
la sfera di cristallo che permette di entrare in contatto con al-

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tre dimensioni o stati di coscienza; ma anche al passato, ai ri-
cordi, alle memorie e alla memoria.
Dal passato l'esperienza ritorna, per alleviare il presente e
preparare un futuro migliore, anche attraverso il risveglio spi-
rituale e psichico, che permette di entrare in contatto con il
mondo dell'ignoto e dell'inconoscibile.
Per questo motivo, il nostro libro magico sulla storia della cit-
tà si apre su un'altra pagina dell'antichità. Si ritorna al mitico
tempo in cui nella zona in cui sorge attualmente Torino, il Po -
l'Acqua sacra della città, unitamente a quella della Dora - cre-
ava molte più anse rispetto a quelle odierne. Per questo, si
formò un primo nucleo abitato, presso cui si riunivano,
all'approssimarsi dei solstizi, i sacerdoti celti delle regioni vi-
cine e meno vicine, per celebrare solenni ritualità estive e in-
vernali. La posizione geografica, alla confluenza di due fiumi
rappresenta la sacralità di un luogo, cui spesso gli antichi
propendevano.

Il Po a Torino

46
Il Po e la Dora formano un anello d'acque attorno alla città. Il
Po rappresenta il Sole, la parte maschile, la Dora è la Luna,
quella femminile. Se la Dora riecheggia il Dio dei fulmini nor-
dico - Thor, appunto - altra storia è il Po, l'antico Eridano.
Eridano era in collegamento con il mito astrale di Fetonte, con
il quale si spiega l'origine leggendaria della città di Torino.
I racconti su Aralio e Beloch, re di Babilonia, che appaiono nel
quinto libro dello pseudo Beroso, trattano i viaggi di Fetonte,
detto anche Eridano, in Italia.
La tradizione tramanda che nell'anno 1529 a.C. furono fonda-
te colonie di liguri da Eridano, per alcuni proveniente dalla
Grecia, secondo altri dall'Egitto.
Secondo le concordanze di Eusebio da Cesarea, il principe Fe-
tonte, figlio del Sole e di Iside, avrebbe fondato, con l'aiuto del
figlio Genuino o Ligurio, alcune colonie in Italia e, soprattut-
to, avrebbe dato origine alla città di Torino.
Seguendo le Metamorfosi di Ovidio, invece, Fetonte sarebbe fi-
glio del Sole e dell'oceanina Climene.
Ed ecco la storia di Fetonte.
La madre aveva allevato Fetonte senza mai rivelargli il nome
del padre e, quando il ragazzo lo scoprì, si rivolse a lui per un
desiderio: guidare il carro solare. Il padre, dopo molte incer-
tezze, acconsentì con molte raccomandazioni. Quando Fetonte
prese la guida del carro, i cavalli, non abituati all'inesperto au-
riga, cominciarono a scorrazzare nel cielo. Lo sprovveduto Fe-
tonte rimase bloccato e non riuscì a muoversi, né tirando le
redini, né lasciandole andare. Così, il carro si spinse fino al
Polo Nord Celeste, una zona del mondo poco avvezza a senti-
re il calore dell'astro diurno. Questo fatto inquietò un Drago e
destò le stelle dell'Orsa Maggiore. Alla vista della costellazio-
ne dello Scorpione, infine, Fetonte lasciò le briglie dei cavalli.
In ebraico, la costellazione dell'Orsa Maggiore è legata alla
radice etimologica che indica il verbo ‘salvare’. Inoltre, la co-

47
stellazione contiene il riferimento per giungere alla Stella Po-
lare, il Polo Nord, il Settentrione. Utilizzando lo schema ebrai-
co, il Nord rappresenta il crogiolo, il luogo all'interno del qua-
le è possibile permutare l'uomo-piombo in uomo-oro, ovvero
il posto in cui è possibile avvicinarsi al divino e permearsi
della sua energia.

Caduta di Fetonte, opera di Antonio Caron

48
Dal momento in cui Fetonte lasciò le redini, si incendiarono
montagne e città. Madre Terra levò faticosamente il volto, ari-
da fino al collo, chiamando in aiuto gli Dei, mentre il fumo
causato dall'incendio provocò la nascita della Via Lattea.
Zeus fu costretto a colpire Fetonte, facendolo precipitare sul
fiume Eridano, ovvero il Po che, secondo alcune concordanze,
sarebbe stato in connessione alla città di Torino.
Tornando al discorso mitologico e astronomico, Eridano pro-
verrebbe dall'antico arabo Al-Nahr. Da notare che Achenar de-
riva dall'arabo Akher-al-Nahr, ovvero la ‘foce del fiume’. Que-
sta stella figurava già nel catalogo di Tolomeo, sebbene non
fosse visibile ad Alessandria d'Egitto, a causa della precessio-
ne degli equinozi, che tende a farla salire verso Nord.
Si tratta di un lungo fiume di stelle che si estende da Orione
fino all'Idra Maschio, la sorgente è sotto la costellazione del
Toro (Toro=Torino).

Seguendo la Teogonia esiodea, Fetonte è lo splendido figlio di


Aurora e di Cefalo ma, in un altro poema minore, attribuito
allo stesso Esiodo, si trova la prima rappresentazione che si
conosca della leggenda, dove Fetonte è figlio di Elio.
Per l'autore de Le opere e i giorni, l'Eridano è il fiume «dai pro-
fondi vortici», che scorre nell'estremo Nord, ai confini del
mondo dove abita la «schiatta degli Iperborei valenti a caval-
lo, che la Terra nutrice dai molti pascoli aveva generato molto
numerosi, lungi presso le correnti precipitose dell'Eridano dal
letto profondo».
Con i celti, il Po divenne Padus, il fiume in cui scorre la gloria
del Padre, ma anche il fiume dei pioppi, per la presenza co-
spicua di questi alberi sulle sue rive.

L'immagine della confluenza di questi due fiumi rimanda a


un altro simbolo esoterico: il bivio, la ipsilon Y, concepito co-
me termine di giudizio e di scelta, la strada di destra è diretta

49
verso il cielo, la strada di sinistra agli inferi. Ancora in epoca
rinascimentale, la rappresentazione di due fiumi aveva questo
significato, essa evoca il momento cruciale in cui l'uomo, o
meglio l'iniziato, deve consapevolmente decidere il proprio
percorso individuale e solo dopo ciò potrà fruire dell'aiuto del
cielo.
Questo significato affonda le radici nell’antico concetto esote-
rico che vede l'adepto percorrere, da un punto di vista inizia-
tico, le acque per reintegrarsi con lo stato divino degli antena-
ti, o per raggiungere la montagna sacra, sede dell'immortalità.
Oltre a ciò, Torino è alla confluenza di tre nazioni, la Francia
l'Italia e la Svizzera. Tre culture che si incontrano in questa cit-
tà.
Da questi presupposti, non poteva che sorgere un grande cen-
tro, che lega indissolubilmente a sé i valori ultraterreni conna-
turati nei monti che la circondano, sede della divinità, e
nell'acqua che l'abbraccia, il simbolo potente della memoria e
della percezione, la soglia per accedere ai misteri insondabili
che guidano l'universo, attraverso una misteriosa legge che
coordina il creato.

L'arcano sapere negli studi universitari

La storia magica della città riparte dalla metà del XIII secolo,
quando, Torino si ribellò ai Savoia.
Questa indipendenza non durò a lungo e già nel 1280 la città
fu riconsegnata nelle mani di Tomasino di Savoia, figlio di
quel Tommaso che fu imprigionato nel 1255. Questa data se-
gnò lo stabilizzarsi di un nome che, da allora in poi, fu sensi-
bilmente legato alla città: Savoia. Il ramo Savoia-Acaja gover-
nò a Torino fino al 1418.
Questo era sorto quando Filippo sposò Isabella di Villehar-
douin, erede del principato di Acaja.

50
Estinguendosi i Savoia-Acaja, la città e tutti i domini sabaudi
passarono ad Amedeo VIII, che ancora oggi protegge la città
nel monumento ottocentesco che svetta sulla cattedrale di To-
rino.
Egli fu il primo duca di Savoia e stabilì in città la sede del
Consiglio ducale, enfatizzando Torino, esaltandone la supe-
riorità culturale.

Palazzo Madama o Casaforte degli Acaja

Nei primi anni del XV secolo, il principe Ludovico di Savoia-


Acaja diede origine all'università di Torino, centro vescovile e
incrocio di grande importanza per le comunicazioni con la Li-
guria, la Lombardia e la Francia. La nuova Università fu uffi-
cializzata nell'autunno del 1404 da una bolla di Benedetto XIII
e da successivi atti: un diploma dell'imperatore Sigismondo

51
nel 1412, una bolla di Giovanni XXIII l'anno seguente e un'ul-
teriore bolla di Martino V, forse nel 1419.
In questo modo, furono istituzionalizzati i corsi di Teologia,
Diritto Canonico e Civile, Medicina e Arti liberali.
Il primo periodo di attività dello Studio fu travagliato e incer-
to a causa di guerre, epidemie, crisi congiunturali e rapporti
difficili con il Comune. Tutto questo provocò notevoli difficol-
tà di funzionamento, che causarono il trasferimento a Chieri,
fra il 1427 e il 1434, e a Savigliano dal 1434 al 1436, quando
Ludovico di Savoia, successore di Amedeo VIII, stabilì nuovi
ordinamenti volti al controllo dell'Università, da parte del go-
verno sabaudo.
L'Università torinese non ebbe un largo seguito, per questo
Amedeo VIII, nel 1424, tentò di estenderne la fama. Nonostan-
te ciò gli studenti torinesi preferivano altre sedi come Bolo-
gna, Padova, Pavia, Tolosa e altri.
Tuttavia, appaiono alcuni personaggi importanti, tra cui spic-
ca la figura di Erasmo da Rotterdam che vi si laureò il 4 Set-
tembre 1506.
L'attività di Erasmo fu considerata spesso in odore di eresia.
Infatti, la sua colpa fu di essere sospettato di aderire alle idee
riformate, anche in virtù della traduzione che egli fece dei te-
sti greci dell'Antico Testamento, per renderli più comprensibi-
li.
Egli difese l'astrologia naturale o fisica, sostenendo che la na-
tura e i suoi eventi erano regolati dal flusso astrale, che pro-
voca una sorta di fatalità naturale.
All'epoca del Concilio di Trento venne redatto un elenco di
libri proibiti, sospetti di eresia, tra questi furono sequestrati o
calcinati tutti quelli su cui aveva studiato Erasmo - in quanto
egli aveva l'abitudine di fare annotazioni personali ai margini
dei testi - ritenuti da Martin Lutero anticipatori della sua Ri-
forma. Inoltre, le idee di Erasmo da Rotterdam influenzarono

52
in Spagna un fervore religioso al limite dell'ortodossia, che
contagiò molte donne in odore di santità, le beate.
Nel solco di questa tradizione, si inserisce - durante il XVII se-
colo - la condanna nei confronti dei mistici quietisti e dei loro
testi scritti. Il quietismo fu un movimento religioso che fonda-
va la sua dottrina su di un giuramento scritto, chiamato «pro-
testa», nel quale il devoto affermava la sua rassegnazione a
Dio.

si prometteva a Dio di amarlo come Egli ama se stesso, e si


rimetteva a Lui la propria volontà ed il proprio libero arbi-
trio, per «quietare» la coscienza, liberandosi da scrupoli e
timori di peccare. La «protesta», infatti, avrebbe reso impos-
sibile il peccato, se non dopo aver rinnegato il giuramento
prestato in maniera deliberata ed esplicita: facendo tre atti
distinti «con il cuore, con la lingua e con la penna».
(Adelisa Malena, Inquisizione, «finte sante», «nuovi mistici».
Ricerche sul Seicento, in Atti dei Convegni Lincei 162 L'In-
quisizione e gli storici, un cantiere aperto, Roma, 2000)

Questo atteggiamento destò ben presto dei sospetti da parte


del Tribunale dell'Inquisizione, che non mancò di produrre in
tutta Italia dei processi nei confronti dei quietisti, soprattutto
nella pratica dell'orazione mentale, che in questa corrente re-
ligiosa sostituiva la preghiera «con la lingua».
Infatti, essi sostenevano che la preghiera vocale fosse di mino-
re efficacia rispetto quella mentale e quindi di minore intensi-
tà mistica. Questa inefficacia si estendeva a tutti gli atti reli-
giosi e alle cerimonie esterne: l’uomo era assolutamente impo-
tente nel mondo terreno e la soluzione era intravista in un to-
tale affidamento al volere di Dio. Tra i quietisti, vi erano rap-
porti di figliolanza e si riteneva di dovere cieca obbedienza al
proprio confessore.
Nel 1674, a Torino, fu pubblicato il testo Stati di orazione men-
tale per arrivare in breve tempo a Dio della Rev. Madre Maria Bon

53
dell'Incarnazione, scritto dall'orsolina francese Marie Guyard
(1599-1672).
Le notizie su questo testo affermano che il libro fosse in circo-
lazione, sotto forma di manoscritto già dal 1671, e aveva avuto
una notevole diffusione nei territori dei Savoia.
L’indicazione giunge da un medico francese giunto in Savoia,
tal Antonio G., che aveva creato una Congregazione nella dio-
cesi di Alba, insieme con il conte Maurizio Scarampo. In que-
sta comunità religiosa era d'uso seguire la tecnica nuova
dell'orazione mentale.
Fu proprio l'attività del medico Antonio a produrre la pubbli-
cazione del testo dell'orsolina francese a Torino, anche se il
manoscritto fu inviato a Roma, per essere sottoposto a un e-
same e a una correzione, visto l'allarme che la congrega aveva
suscitato nel vescovo di Alba.
Il Sant'Uffizio - dopo gli opportuni aggiustamenti al testo -
diede il permesso di editarlo, ma proibì al medico di continu-
are la sua opera religiosa, consigliandolo di proseguire nella
sua attività di medico.
Se nella zona piemontese la questione fu risolta in questo mo-
do, è da specificare che né Antonio, né il conte Scarampo si
sottomisero al volere dell'Inquisizione e continuarono la loro
opera mistica nel territorio ligure, tanto da creare affiliazioni
fino in Corsica.
Nel 1675, il vescovo di Savona proibì l'uso dell'orazione men-
tale e il clamore fu tanto, che dovette intervenire l'Inquisitore
di Genova, Tommaso Mazza, il quale acquietò gli animi, af-
fermando che non si intendeva condannare l'orazione mentale
come pratica, ma l'abuso che ne derivava e la credenza che
questa potesse assicurare la salvazione per tutti coloro che la
praticavano.
Nel 1676, il testo dell'orsolina francese fu condannato dalla
Congregazione dell'Indice.

54
Tornando allo Studio piemontese, questo non riuscì nel corso
dei primi secoli di attività a essere considerato tra le principali
Università italiane. Nei primi mesi del 1536, con l'occupazione
francese del Ducato, lo Studio venne chiuso in quanto focolaio
di tumulti. Solo nel 1558, dopo alcuni vani tentativi di riaper-
tura, l'Università riprese la sua attività a Mondovì con lettori
di una certa levatura, come il pavese Giacomo Menochio e il
portoghese Antonio Goveano. Venne riaperta definitivamente
nell'autunno del 1566 e alla città di Torino fu concesso il dirit-
to esclusivo di essere sede dello Studio.
Emanuele Filiberto rifece l'ordinamento istituzionale sul mo-
dello di Bologna, mutando anche la funzione del Rettore.
La riforma imposta da Emanuele Filiberto rimase tale fino al
primo Settecento.
Nei primi anni del XVIII secolo, iniziò un nuovo ciclo nella
storia dell'Università. Tra le riforme più significative delle Co-
stituzioni del 1729, vi fu l'apertura del Collegio delle Province,
che avrebbe ospitato cento giovani di modeste condizioni so-
ciali, affinché potessero completare gli studi universitari a to-
tale carico dello Stato.
Altra importante innovazione, intorno agli anni Trenta fu una
Cattedra di Eloquenza Italiana accanto a quella Latina, che in-
fluenzò particolarmente gli schemi culturali e linguistici del
Ducato.
In questo periodo, lo Studio piemontese divenne il modello di
riferimento per le riforme universitarie a Parma e a Modena e,
nei primi anni Sessanta, servì a riorganizzare le due Universi-
tà di Cagliari e di Sassari, creando la base per una nuova vi-
sione legata allo Studio, tale da proseguire e approfondirsi nel
corso degli anni.

55
Torino francese

Con un colpo di bacchetta magica, torniamo nel 1494, quando


arrivò dalla Francia, re Carlo VIII, deciso a conquistare il re-
gno di Napoli. Nello stesso anno, egli aveva lanciato un'inter-
dizione a tutti gli astrologi, che reputava in contrasto con le
proprie convinzioni.
La querelle era sorta quattro anni prima, quando fece scalpore
un suo spostamento da Parigi a Lione, per consultare un a-
strologo.
Se l'astrologia era accettata come dato di fatto, da tenere co-
munque il più possibile celato, un viaggio così eclatante mise
in subbuglio la curia, che si vide costretta ad agire contro Si-
mon de Phares, l'astrologo di Carlo VIII, ricordando al sovra-
no - che doveva giudicare l'uomo - il divieto di ricorrere all'ar-
te divinatoria per chiunque. L'astrologo preparò la sua difesa
in carcere, ma non ebbe mai la possibilità di presentarla al re,
che morì nel 1498.
La venuta di Carlo VIII in Italia vide prostrati ai suoi piedi i
marchesi di Monferrato e di Saluzzo; ma se egli non poté con-
servare a lungo il regno, fu il successore Luigi XII a rivolgere
le proprie attenzioni al Ducato di Milano e a porre gli stati
piemontesi in un periodo di sudditanza verso la Francia. A
questa sottomissione, si opposero i Savoia e il duca Filippo,
pur rispettoso della monarchia francese, si mosse per conqui-
stare il Ducato di Milano, ai danni della Francia.
I giochi di strategia che seguirono - tra cui il matrimonio tra il
Filiberto II e Margherita d'Austria - non diedero il risultato
sperato e, nel 1536, Torino fu occupata dai francesi di France-
sco I. Egli pretendeva di essere padrone della città rivendi-
cando il diritto di sua madre Luisa di Savoia.
Torino divenne una provincia francese.
Conobbe il genio di Leonardo da Vinci, che portò con sé in
Francia nel maniero di Clos-Lucé, ove un sotterraneo collega-

56
va la dimora del Fiorentino con il castello d'Admoise, permet-
tendo al re di incontrarlo quando voleva.
Con questo sovrano, l'astrologia riacquistò un ruolo di pre-
dominanza, inserendosi nell'ambito del potere politico. Inol-
tre, la madre Luisa di Savoia era sensitiva e si circondò di di-
versi astrologi. Ella entrò in relazione anche con una delle
menti più eccelse dell'epoca, Cornelio Agrippa di Nettesheim
(1486-1535). Nel 1509, Agrippa fu nella contea di Borgogna,
dove redasse per Margherita d'Austria - tutrice di colui che
sarebbe divenuto Carlo V - il libello Trattato della preminenza
del sesso femminile.
Qui, egli fu lettore universitario, ma ben presto fu segnalato
all'Inquisizione e dovette lasciare la città, con l'accusa di instil-
lare negli studenti idee proibite. Da quel momento egli girò
per tutta Europa. Una delle tante mete fu Lione, in cui egli co-
nobbe Luisa di Savoia, trasferitasi in questa città per volere di
Francesco I. Ella lo portò all'interno del Consiglio del Re,
smaniosa di apprendere cosa il futuro avesse riservato per lei
e per il suo Delfino, ma fu poco attenta alle idee filosofiche ed
esoteriche di Agrippa.
Questo atteggiamento infastidì Agrippa, che divenne sempre
più restio a fornire oroscopi alla donna. La sua situazione, a
Lione peggiorò quando un filosofo e astrologo di Digione,
Pierre Turreau, inviò una missiva a Luisa che preannunciava
una grossa disgrazia.
La disgrazia era nell'aria: Francesco I - nel 1525 - subì una
grossa disfatta a Pavia, per merito di Carlo V e fu imprigiona-
to a Madrid. Questo avvenimento portò Agrippa a rinnegare
apparentemente la sua fede astrologica, mentre continuava -
in realtà - a esercitare l'arte per un nemico di Francesco I, Car-
lo di Borbone.
Quando Francesco I fu liberato, nel 1526, l'ambiguità in cui
versava Agrippa era giunta al massimo e, prossimo al falli-
mento, scrisse una lettera a Jean Chapelain, medico del re, in

57
cui sottolineava la stupidità di coloro che continuavano a
chiedergli insistentemente pronostici - riferendosi chiaramen-
te alla madre di Francesco I. Lo scritto fu intercettato dalla po-
lizia e consegnato a Luisa di Savoia. La corrispondenza tra
Agrippa e Chapelain continuò con toni sempre più pericolosi,
considerato l'aumentare della collera dell'uomo e i suoi insulti
nei confronti di Luisa. I rapporti tra i due degenerarono e la
Regina Madre convinse il figlio del tradimento di Cornelio,
che fu convocato a Tours e considerato un sostenitore dei
Borboni.
Riuscì a fuggire da Lione, nutrendo la segreta speranza di ot-
tenere riscatto presso Carlo di Borbone. Alla morte di questi,
Cornelio divenne lo storiografo di Carlo V.
Da Carlo V, Cornelio Agrippa ottenne il privilegio imperiale
che gli diede la possibilità di stampare quattro suoi testi per
sei anni, salvaguardando i diritti di autore. I testi in questione
erano il De Occulta Philosophia, De Incertitudine et Vanitas Scien-
tianim atque Artium Declanatio, In Artem Brevem Raimundi Lullii
Commentaria et Tabula Abbreviata e Quaedem Orationes et Eplsto-
lae.
In questo privilegio, vi è anche chi ha voluto vedere la possi-
bilità di Agrippa di proteggere le proprie idee, considerato
che l'avvallo imperiale poteva difenderlo dalle accuse relative
ai temi trattati nelle opere, prettamente a carattere magico. In-
fatti, dopo la concessione del privilegio, la prima opera pub-
blicata fu il De Incertudine, nella quale egli si scagliò contro la
Chiesa di quel periodo, attirandosi le ire del clero, che - a Pa-
rigi e Lovanio - condannò il testo al fuoco, aggravando l'incer-
ta situazione di Agrippa, per via della simpatia che egli aveva
per le nuove idee riformate, dei suoi studi cabalistici e alche-
mici e per la furia con la quale si scagliò contro il Tribunale
dell'Inquisizione, difendendo e salvando dal rogo una donna
accusata di stregoneria.

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Fortunatamente, Cornelio Agrippa poteva vantare degli ap-
poggi religiosi molto potenti, che lo protessero e incoraggia-
rono a proseguire la sua carriera letteraria.
Nonostante i pericoli inquisitoriali, Cornelio Agrippa insistet-
te nel volere pubblicare il De Occulta Philosophia, ove delineò i
contorni del mago, inteso come una sorta di sacerdote iniziato
alla religione e ai suoi misteri, per cui, uomo pio e in grado di
operare solo positivamente:

Coloro dunque che vorranno dedicarsi allo studio della Ma-


gia, dovranno conoscere a fondo la Fisica, che rivela le pro-
prietà delle cose e le loro virtù occulte; dovranno essere dot-
ti in Matematica, per scrutare gli aspetti e le immagini degli
astri, da cui traggono origine le proprietà e le virtù delle co-
se più elevate; e infine dovranno intendere bene la Teologia
che dà la conoscenza delle cose immateriali che governano
tutte coteste cose. Perché non vi può essere alcuna opera
perfetta di Magia, e neppure di vera Magia, che non rac-
chiuda tutte e tre queste facoltà.

Da queste parole si osserva la prudenza con la quale si muo-


veva Agrippa in campo religioso. Questo atteggiamento atte-
sta una vivace simpatia per le idee riformate e nel contempo
l'esigenza di non abbandonare la trazione della Chiesa cattoli-
ca, da cui, i suoi studi iniziatici trassero ispirazione e nei quali
egli volle infondere quella conoscenza segreta, frutto dell'e-
sperienza di anni di lavoro a contatto con l'alchimia e la caba-
la.

Nel 1536, durante l'occupazione di Torino da parte di France-


sco I, questi aveva intrecciato un'altra relazione con il mondo
dell'occulto, nella persona di Guillame Postel (1510-1581).
Francesco I nominò Postel lettore reale, nonché lettore di ma-
tematica e lingue orientali al Collegio Reale.

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Postel era esperto di astrologia e usò questa tecnica per an-
nunciare a Francesco I, nel 1538, il ruolo che il monarca a-
vrebbe avuto nell'ambito della restaurazione di una mitica Età
dell'Oro, di cui la Francia e Francesco I erano - secondo Postel
- i custodi. Il sovrano non era molto convinto di questa rivela-
zione e preferì rimandare Postel a Costantinopoli.
Lo studioso rifiutò l'offerta, l'insegnamento e iniziò a redigere
il testo Le ragioni della monarchia, in cui affermava il suo con-
cetto di Monarchia Assoluta, nonché Universale.
Se l'idea non piacque affatto a Francesco I, affascinò l'ambi-
ziosa Luisa di Savoia. Postel fu però accusato di frode e co-
stretto a riparare in Germania.
Gli intrighi esoterici del sovrano non toccarono il ruolo della
città piemontese, che perdeva sempre più la speranza di ritor-
nare autonoma. Nel 1557, avvenne un fatto che sigillò un
nuovo destino per Torino. La battaglia di San Quintino, vinta
dai Savoia, stabilì il ritorno a Emanuele Filiberto dei domini
sabaudi e Torino fu riconsegnata nel 1562.
Con Emanuele Filiberto si apre un nuovo capitolo della storia
torinese, fortemente influenzato in campo religioso dalle di-
rettive del Concilio di Trento; in campo culturale dall'incenti-
vo che egli diede agli studi universitari.
Questo periodo offre lo spunto per analizzare alcune tra le e-
resie, che hanno caratterizzato il contado di Torino.

L'eresia dei catari

Nel 1028, presso il castello di Monforte (vicino Torino), esiste-


va un gruppo ereticale capeggiato da tal Gerardo. Questi fu
interrogato dal vescovo di Milano, dove affermò la necessaria
esaltazione della pratica della verginità o in alternativa di una
vita coniugale basata sull’astinenza, lasciando trapelare il suo
disprezzo per le cose materiali: l'applicazione della dottrina
avrebbe favorito la scomparsa del genere umano.

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A questo proposito, Gerardo aggiunse che sarebbe giunta
un'epoca in cui gli uomini sarebbero nati come api, senza bi-
sogno di alcun contatto carnale.
Gli eretici di Monforte si astenevano anche dall'assunzione di
carne, ovvero di alimenti originati da rapporti sessuali e pre-
gavano ininterrottamente, alternandosi giorno e notte, soprat-
tutto i maiores.
Un'altra caratteristica era la rinuncia alla proprietà privata,
per cui vigeva la comunione dei beni. Il disprezzo per l'esi-
stenza umana portava necessariamente a una morte tormenta-
ta a causa di nemici o di fedeli che interrompevano così il de-
corso della vita del moribondo. Vi era un pontefice a capo del-
la setta non appartenente a un Ordine religioso.
Raniero Orioli afferma che:

Dal punto di vista teologico a Monforte si professa la fede in


una Trinità che non ha nulla a che vedere con il simbolo Ni-
ceno. Il Padre è il Creatore del mondo; ma il Figlio rappre-
senta l'animo umano che, grazie a Maria, può direttamente
attingere dalle Sacre Scritture i mezzi per la propria reden-
zione; e lo Spirito Santo altro non è che la comprensione del-
la Scrittura stessa.

Ariberto, vescovo di Milano, arrestò un certo numero di ereti-


ci e la contessa del luogo, trasferendoli a Milano, anche se
sembra che qui godessero di ampie libertà, tanto che si de-
scrivono impegnati con le loro predicazioni nel contado.
Se Ariberto fu piuttosto liberale nei confronti di questo grup-
po, non lo fu la classe nobiliare che, nel rifiuto della ricchezza
proposto dagli eretici a favore della comunione dei beni e nel-
la pratica della castità, vedeva una minaccia al proprio potere.
Questa classe fece pressioni sul vescovo, che fu costretto a di-
chiarare eretici i seguaci di Monforte, ponendoli di fronte alla
scelta di convertirsi o di affrontare il rogo. Pochi abiurarono,

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molti si gettarono volontariamente nel rogo, che pose fine a
questa devianza religiosa.

Con il fuoco, non si perse l'eco della loro predicazione, che li


avvicinava ai catari, ma fu alla base del movimento patarino a
Milano, dove i laici si proclamarono giudici della corruzione
della Chiesa.
La corrente ereticale catara si sviluppò nel XII secolo nella
Francia Meridionale. Una delle figure più importanti di que-
sto periodo fu Pietro di Bruis, che predicava contro il sacra-
mento del battesimo e dell'eucarestia, rifiutava il concetto di
Chiesa come edificio sacro e non portava alcun rispetto al
simbolo della croce. L'insegnamento di questo eretico si pro-
poneva di esaltare una responsabilità individuale di fronte a
Dio e alla propria fede, tanto da condurre l'essere umano alla
scelta di essere battezzato da adulto.
I sacramenti potevano essere praticati dagli appartenenti alla
setta, anche se il battesimo autentico era attuato col fuoco e
l'aria, intesi come principi vitali di ogni cosa, il cosiddetto
Consolament cataro. Se un uomo peccava in vita e moriva nella
perdizione, a nulla valevano le indulgenze che i vivi potevano
acquistare per lui. Di conseguenza erano considerate inutili le
pratiche funebri e proprio per queste idee, Pietro fu bruciato
al rogo, verso il 1130.
L'erede spirituale fu il benedettino Enrico di Tolosa che ab-
bandonò la sua carriera ecclesiastica per la predicazione er-
rante, caratteristica di questo movimento. Fu arrestato e pro-
cessato a Pisa, nel 1135, ma la sua cattura definitiva fu solo
dieci anni dopo. Alla dottrina sopra esposta, Enrico aggiunse
una veemente polemica contro la corruzione della Chiesa e un
altrettanto forte invito a unioni matrimoniali prive di interessi
materiali. Inoltre, rifiutò la trasmissibilità della colpa del pec-
cato.

62
La dottrina confluì nell'immagine che prevedeva il sacerdozio
anche per le donne. Queste potevano ricevere il battesimo e
divenire ‘perfette’, nome con cui si designavano gli alti digni-
tari della setta. Successivamente questo fattore permise le ac-
cuse di promiscuità sessuale, tipico delle imputazioni inquisi-
toriali.
In seguito, un'altra forte differenziazione tra i catari e il clero
secolare, fu la condizione di lavoratori dei primi, che - se-
guendo i precetti del Vangelo - non smettevano di praticare la
propria attività, anche se coinvolti in ruoli religiosi. I catari
venivano denominati Boni Homines, in quanto erano dei lavo-
ratori artigiani bene accettati dalla popolazione, che in un pe-
riodo di difficoltà, vide in questa nuova fede la possibilità di
una propria identità, al di là dei soprusi. Essi credevano alla
reincarnazione e al fatto di dover tornare sulla terra nei «vesti-
ti di pelle», le «tuniche» o «carceri» - come definivano il corpo
umano - per livellare antichi debiti contratti in altre vite e
giungere in questo modo al completo distacco fisico.

In seguito al successo delle predicazioni di Enrico, Bernardo


di Chiaravalle si recò nei luoghi in cui il focolaio eretico era
più forte (1145), rendendosi conto di persona della degradante
situazione del clero e della simpatia che i catari riscuotevano
per il loro comportamento integerrimo. Nel 1165, gli eretici
furono in grado di organizzare un concilio (Lombers) con di-
gnitari ecclesiastici cattolici e, nel 1167, tennero un concilio au-
tonomo a Saint-Félix-de Lauragais, che nominò i primi vesco-
vi catari. A quest’ultimo era presente Marco, ex-becchino, il
primo vescovo cataro italiano, proveniente dalla Lombardia.
Le idee dualistiche che nutrivano la dottrina catara erano en-
trate in Italia, verso la metà del XII secolo.
Esse divulgavano un dualismo manicheo costruito su due
principi, eternamente in lotta tra loro. Secondo queste creden-
ze, da un albero buono non possono crescere frutti cattivi, per

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Catari, stampa

cui il Dio creatore dell'uomo corrotto e iniquo, non poteva es-


sere che un Dio cattivo e usurpatore. Seguendo le loro con-
vinzioni, il Dio buono non aveva niente a che vedere con il
creatore del mondo, ma rappresentava un'altra figura pura e
positiva verso la quale, l'uomo corretto doveva protendere at-
traverso un cammino retto e comportamenti adeguati.
Per risanare la critica situazione venutasi a creare nella Fran-
cia del Sud, Innocenzo III decise di affidare la predicazione ai
monaci cistercensi che fallirono il loro tentativo.

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Per alcuni, cataro deriva dal greco katharos, cioè ‘puro’, e più
tardi, in Germania il termine derivato Ketzer rappresenterà l'e-
retico come concetto generale. Essi s’imposero una vita di po-
vertà simile a quella degli apostoli, nel corso della quale oc-
correva trascendere la materialità per favorire lo sviluppo del-
la spiritualità e giungere al completo distacco dal mondo ter-
reno e dal corpo fisico, ottenendo il ricongiungimento col Dio
buono. Per questo motivo, li chiamarono in senso dispregiati-
vo, ‘perfetti’ e il loro comportamento integerrimo mise in ri-
salto la corruzione della Chiesa romana e anche per questo fu-
rono pesantemente perseguiti.
Nel 1209, in Francia era iniziata una crociata nei confronti de-
gli eretici catari a causa anche dell'appoggio dei signorotti lo-
cali, che vedevano nel movimento una sorta di riscatto dalla
tirannia del Nord.
Nel frattempo, nel 1233, era sorto un ente speciale preposto a
combattere l'eresia: il Tribunale della Santa Inquisizione, uffi-
cializzato in Occitania da Gregorio IX. La persecuzione dei ca-
tari era mirata all'eliminazione della setta, per cui gli arrestati
o abiuravano - promettendo di non cadere in apostasia - o e-
rano destinati alla pena capitale.
La labile situazione di pace fu interrotta nel 1243 dalla richie-
sta del re di Francia di abbattere il castello di Montségur, rite-
nuto covo di eretici. Al rifiuto di eseguire l'ordine, seguì l'as-
sedio alla roccaforte catara, che terminò alla fine dell'inverno
del 1244, quando i crociati entrarono nel castello. La conse-
guenza fu il rogo di tutti i 200 catari trovati all'interno e l'ini-
zio della decadenza per questa corrente religiosa.
L'Italia e le sue chiese offrirono un rifugio agli scampati.
Nel 1271, le alte gerarchie eretiche erano riparate a Sirmione
insieme a molti altri esuli, creando un bersaglio facile da con-
quistare.

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Nel 1276, l'Inquisizione irruppe nel paese sul lago di Garda,
catturando molti catari che furono arsi al rogo due anni più
tardi, all'interno dell'Arena di Verona.
Gli ultimi focolai sopravvissero sui Pirenei e in Catalogna, fin
verso i primi decenni del XIV secolo.

All'inizio del XIII secolo, si espansero in Italia e soprattutto


nelle valli intorno a Torino. Si ebbero due tendenze: la prima
professava un dualismo di tipo assoluto, in cui si affermava
l'esistenza di due entità contrapposte tra loro (Dio buono e
Dio cattivo, l'uno creatore delle cose spirituali e l'altro di quel-
le materiali e terrene); la seconda era più moderata, sostenitri-
ce di un unico principio creatore, tradito da una sua creatura -
Lucifero - che scacciato infettò la terra per cui la creazione era
ritenuta opera di Dio, mentre la corruzione della materia era
imputata a Lucifero o Satana.
Nella zona torinese, i catari erano soprattutto dediti alla cura
della terra e furono provetti artigiani. Per questo, erano ben
inseriti e accettati dalla popolazione, anche se dovettero spo-
starsi di frequente a causa delle imperanti persecuzioni.

Chieri, feudo del vescovo di Torino, fu un luogo cataro anche


oltre il periodo più scottante di questa eresia.
Nel Medioevo, Piazza Mazzini, l'antica piazza del mercato,
era il luogo ove si tennero i roghi catari.
Nel XIV secolo, era ancora presente in città un folto gruppo di
eretici e venne condannato al rogo Giacomo Ristolassio, che
ebbe il beneficio di essere strozzato prima che fosse appiccato
il fuoco.
Il fabbro - questa era la professione di Ristolassio - fu inquisito
per ben nove giorni e negli atti del processo che lo riguardano
la sua posizione peggiorava di giorno in giorno, fino alla con-
danna definitiva sancita da un'invocazione a Dio e sottoscritta
dal notaio Percevallo Raschiero.

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Anche Antonio Galosna (che ritroveremo nel capitolo dedica-
to alla stregoneria) fu reputato simpatizzante cataro, ma que-
sta attribuzione potrebbe confondersi nelle nebbie di un peri-
odo in cui il termine ‘cataro’ era un generico sinonimo di ere-
tico.

Duomo di Chieri

Sotto tortura, egli fece il nome di molti miscredenti, pensando


così di avere salva la vita. L'inquisitore Antonio da Settimo
invece preferì sbarazzarsi dell'uomo infedele mandandolo al
rogo nel 1388, insieme con un amico sospetto Giacomo Bech.
Il rogo fu eseguito a Torino in piazza Castello.
Tra gli accusati di Galosna figurava anche un canonico Rufi-
nus Decenas, di cui non si conoscono le sorti, anche se è inte-
ressante notare il fatto che fu contemporaneamente canonico
regolare ed eretico.

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Anche il compare di Antonio Galosna, Giacomo Bech fece
molti nomi di eretici nelle sue deposizioni, tra cui quella av-
venuta nel Palazzo Vescovile di Torino, sempre nel 1388, in
cui egli confessò di conoscere alcuni influenti abitanti di Chie-
ri che, per approfondire le loro conoscenze ereticali, si sareb-
bero recati in Slavonia. Tuonò il nome di Bernardo Raschieri,
che fu arrestato ma assolto dal tribunale: questo fu uno dei
pochissimi casi in cui un sospettato simpatizzante di eresia fu
scagionato.
Chieri si attesta così come una città ricca di fermenti ereticali,
ristagnanti soprattutto nel ceto aristocratico, di cui abbiamo
ancora un'eco nei nomi di famiglia: Balbo, Merlo, Tana e Vi-
gnola.
Se nel XIV secolo non vi furono molti dissidi, la persecuzione
fu fortemente incentivata all'alba del XV secolo, con l'inquisi-
tore Giovanni di Susa.
Si arrivò ad affermare che a Chieri erano sepolti i corpi di ben
quindici persone ritenute eretici in vita, per cui si pensò di rie-
sumarli e di bruciarne i resti.
Era il 1423, quando fu consumato questo scempio di resti u-
mani, in piazza Mercadillo, con la presenza di Ludovico di
Savoia e di una folla numerosa.
A nulla valsero le abiure dei discendenti, come ad esempio
Guglielmone Vignola e Margherita, signora di Ponticelli, non-
ché sua moglie.

I catari furono anche in stretta relazione all'importante lingua


d'oc. I primi documenti in tale lingua risalgano al X secolo e,
nel secolo successivo, nacque la poesia dei Trovatori, poeti
che cantavano l'amore per la dama molte volte interpretabile
come un'allegoria della scienza sacra da perseguire a qualsiasi
prezzo.
Attraverso questa letteratura, la lingua d'oc acquistò grande
prestigio in tutta Europa. Molti poeti italiani, catalani e fran-

68
cesi scrivevano in occitano e la poesia trobadorica influenzò
artisti di ogni zona.
La decadenza dell'occitano ebbe inizio nel XIII secolo, proprio
con la Crociata contro i catari. Il crollo apparve irreversibile e
nel 1539 il re di Francia Francesco I bandì l'occitano dagli atti
amministrativi.
I primi lavori letterari in lingua d'oc delle Valadas Occitanas
apparvero nel XV secolo e provenivano dalle vallate di reli-
gione valdese, Pellice, Germanasca e Chisone.
Nonostante tutto, la storia proseguì e nell'Ottocento Frederic
Mistral con altri poeti, fondò il Felibrige, movimento mirato a
rivalutare questa lingua. L'identità occitana continuò a deca-
dere fino a metà del Novecento, anche se lo studioso di etnie
Francois Fontan (1929-1979) affermò che l'Occitania è una na-
zione avente diritto di essere stato autonomo.
Grazie a lui, partendo dagli anni '70, si fondarono movimenti
e partiti politici che raggrupparono migliaia di giovani, in
modo tale da ricreare una vera e propria forza politica e socia-
le che ancora oggi prosegue.

La stregoneria

Fino all'anno Mille, l'immagine della strega e dello stregone


sembrano avere rivestito un ruolo marginale all'interno del
sistema sociale. Erano condannate dalla Chiesa le pratiche
magiche, ma - allo stesso tempo - erano tollerate, in quanto l'i-
stituzione religiosa doveva cercare di sconfiggere le pratiche
pagane, ancora molto diffuse, e le insorgenti eresie.
Era vigente un certo scetticismo nei confronti di queste tecni-
che, negate dall'evidenza del fatto che solo Dio avrebbe avuto
il potere sugli elementi.
Nel 1233, papa Gregorio IX aveva emesso una Bolla, Vox in
Rama, in cui - a seguito del clamore suscitato dalla cattura e
dell'assassinio del capo di una setta luciferina tedesca - si ini-

69
ziò a delineare il percorso della strega. In questo documento,
l'immagine della stregoneria è già abbozzata. In alcuni passi,
si legge la descrizione dell'iniziazione dell'adepto al sabba:

da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di que-


ste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane dì
media taglia, che viene avanti camminando all'indietro e
con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo ba-
cia sulle parti posteriori, poi fanno lo stesso il capo e tutti gli
altri, ognuno osservando il proprio turno, ma solo quelli che
lo hanno meritato [...] Terminata questa cerimonia si spen-
gono le luci e i presenti si abbandonano alla lussuria più
sfrenata, senza distinzione di sesso.

Il sabba - il raduno delle streghe - potrebbe trovare una spie-


gazione nelle antiche cerimonie sciamaniche, i cui attributi
principali potrebbero essere compenetrati nel mondo dell'oc-
culto. Il volo sciamanico avrebbe incarnato la capacità di vola-
re con le scope magiche; la capacità di trasformarsi in animale
potrebbe essere stata traslata nella mutazione della strega in
bestia; lo stato di trance allucinata dello sciamano, provocata
da erbe e funghi velenosi, avrebbe perso la connotazione di
utilità che la caratterizzava per accentuarne negativamente le
peculiarità antisociali.
Di queste mutazioni della strega in animale, la tradizione
piemontese ne è ricca: dai mosconi - simboli demoniaci - che
svolazzavano sulla salma della strega, ai gatti, che in epoca
medievale acquisirono una valenza nefasta connessa al mon-
do infero, credenza che in alcune zone è attestata ancora oggi,
soprattutto nel caso dei temibili gatti neri!
Nel contado attorno a Torino, sono molti i riferimenti del pas-
sato legati alle pratiche stregonesche.
Un esempio si trova nella deposizione dell'eretico Antonio
Galosna e nel gruppo di Andezeno che egli frequentava.

70
A Torino, l'inquisitore Antonio di Settimo di Savigliano ordi-
nò che fosse consumato il rogo in piazza Castello nel 1388,
dell'eretico cataro Antonio Galosna insieme con un suo com-
pare Giacomo Bech.
Antonio fu torturato e testimoniò di alcuni ritrovi occorsi anni
addietro, in cui si praticavano riti magici culminanti con la
classica orgia satanica. Forse non si trattava esattamente di
pratiche stregonesche, ma di eresia legata al dualismo cataro.
In ogni caso il potere della tortura aveva la capacità di tra-
sformare magicamente ogni dichiarazione in ciò che l'inquisito-
re voleva sentirsi dire. Così si interrogò Antonio sul nome del-
la donna che teneva tali congreghe, e presto fu fatto il nome
della defunta Bilia la Castagna. Oltre al nome della donna,
Antonio Galosna riferì di molte altre fanciulle, tra cui quella
che aveva il compito di iniziarsi alle arti magiche e prendere il
posto della Bilia. Comunque, la Bilia intratteneva i suoi com-
mensali con pozioni che avevano il potere di legare per sem-
pre l'adepto alla setta!
A chi fosse interessato alla ricetta di questo beverone, le cro-
nache riportano l'ingrediente principale: gli escrementi di un
grosso rospo che la Bilia nutriva con i migliori alimenti; né po-
tevano mancare i ‘testimoni’ della strega, ovvero capelli e peli
del suo pube.
Il rospo ha una lunga tradizione simbolica a cavaliere tra ere-
sia e stregoneria. Come animale notturno fu relegato al domi-
nio delle tenebre, come la civetta e il gufo, perdendo l'arcaico
connotato di positività, che lo rivestiva di grande forza, tanto
da essere un attributo di Iside, la grande Dea Madre del baci-
no mediterraneo. Come anfibio, ebbe numerosi contatti con
l'acqua che, per magia omeopatica, richiamava il suo corpo
essiccato, nell'intento di apportare piogge benefiche ai raccol-
ti. Il rospo velenoso suscitò inquietanti assonanze, tanto da es-
sere immaginato come un animale il cui sguardo poteva ucci-
dere un uomo. Se però l'uomo aveva la forza spirituale di so-

71
stenere la visione, il rospo si gonfiava a dismisura fino a mori-
re. Questa descrizione si allinea con gli effetti della pozione di
Bilia, che poteva portare - se consumata in eccesso - a questo
medesimo risultato.
Essendo un animale che vive nel fango fu paragonato agli ere-
tici, che blaterano senza senso le loro teorie e vivono nella
melma della società.
Un assioma legato agli eretici fu utilizzato anche per questi
animali, se gli eretici erano necessariamente orgiastici e lussu-
riosi, anche il rospo dovette addossarsi tali colpe fino a rap-
presentare tutti i peggiori vizi.
Inoltre, fu ravvisato nell'animale l'emblema dell'ingiustizia.
Da qui, si speculò un'altra equazione, legata al concetto che la
donna è portatrice di tentazione e di peccato. Per questo mo-
tivo, il rospo andò a rappresentare anche la donna e in parti-
colare i suoi organi genitali e, tra questi, l'utero. Tutto ciò fa
capo a una concezione demoniaca dell'animale, incarnazione
del Diavolo stesso, così che il rospo acquisì connotazioni ne-
gative nel Medioevo, tanto da essere frequentemente rappre-
sentato e citato nel fatidico sabba, dove accompagnava la
strega. Questo anche perché il suo veleno può provocare - se
ingerito - una visione allucinatoria.

Le pratiche del pagus contadino convivevano - o perlomeno


erano tollerate - con la fede cristiana, spesso confinate
nell'ambito della superstizione, ma comunque seguite anche
dal clero secolare. Un esempio furono i talismani contro il ma-
locchio che papa Giovanni XXII (Papa dal 1316 al 1334, ex-
inquisitore, vescovo di Linguadoca) usava portare, affascinato
dalle pratiche magiche, che reputava efficaci.
Nonostante ciò, fu attraverso le parole di Giovanni XXII che si
iniziò a demonizzare propriamente le arti magiche.

72
Essi sacrificano ai demoni, rendono loro atto di adorazione,
costruiscono e fanno costruire immagini, anelli, specchi o
vasi o altri oggetti con cui evocare e legare i diavoli; a questi
chiedono responsi, li accettano e per dar sfogo ai loro desi-
deri malvagi domandano loro aiuto dando loro in cambio
l'omaggio vassallatico... E poiché è giusto che costoro... sia-
no colpiti con le debite pene per le loro colpe, noi scomuni-
chiamo immediatamente, sia in singolare che in collettivo
coloro che abbiano avuto l'ardire di mettere in atto qualcuna
delle predette cose [...] sicché incorrano in scomunica ipso
facto.

La possessione diabolica, che colpì larghi strati della popola-


zione, è da ascrivere - secondo lo scrittore Piero Camporesi - a
«intossicazioni, in parte volute e in parte subite, di tipo scia-
manico, col delirante transfert collettivo, a sfondo mistico e
nevrotico delle masse alloiate, abbalordite, drogate, rese for-
sennate e demenziali dai semi e dalle erbe, oltre che dalla
sbornia del sacro e la tentazione, sempre incombente del rove-
sciamento sacrilego».
Parte rilevante di queste storie, spettava all'uso di semi, erbe o
polveri vegetali. Tra queste, da ricordare l'uso della segale.
Questa pianta poteva venire aggredita da un fungo (Segale
cornuta), i cui effetti sono simili a una droga allucinogena con
stati di allucinazione collettivi, che potevano essere confusi
con la presenza del demonio.
Vi fu anche un indice di erbe che furono utilizzate per com-
battere gli influssi nefasti delle streghe. In Piemonte, si utiliz-
zavano la ruta, l'ortica, la verbena, l'artemisia, la malva e l'uli-
vo (benedetto).
Nel Medioevo, le corone di ruta sulle tombe servivano per
scacciare gli spiriti maligni e fu usata, fino poco tempo fa, nel-
le pratiche esorcistiche. Questa funzione potrebbe essere ispi-
rata dalla forma a croce dei petali. Fu un amuleto contro le

73
streghe, il malocchio, l'invidia e tutti gli influssi negativi in
genere.
L'ortica fu ritenuta invece una pianta solare e in tutte le tradi-
zioni antiche ha una valenza positiva. È una pianta che pro-
tegge dai malefici e dai fulmini.
Dal mondo nordico, la verbena ha ereditato il valore di tali-
smano, annoverato tra gli unguenti contro i demoni delle ma-
lattie. La pianta ha un duplice ruolo, in quanto, nei grimori di
stregoneria la si descrive in termini prettamente diabolici.
L'artemisia è uno dei fiori più sacri nelle celebrazioni legate a
San Giovanni e al solstizio d'estate. Essa preserva dai malanni,
forse perché stimola il sistema nervoso e dona allegria. Le se-
crezioni emesse dalla radice nella notte di San Giovanni pre-
servano dai fulmini e dalla peste. Per questo, era intrecciata
una ghirlanda che veniva sistemata dietro l'uscio di casa. Pre-
servava dalla cattiva sorte, ma bisognava sostituirla ogni anno
il 24 Giugno, bruciando la vecchia coroncina. Polverizzata e
sparsa in direzione dei quattro punti cardinali, questa proteg-
geva dagli spiriti maligni e neutralizzava ogni influsso nefan-
do.
La malva aveva il potere di guarire qualsiasi malanno, mentre
l'ulivo, soprattutto se benedetto, evocava il potere del sacro, e
salvaguardava da qualsiasi inconveniente derivante dal mali-
gno.

In Piemonte, la strega veniva combattuta anche con un ceppo


bruciato a Natale, che originariamente aveva la funzione di
allontanare le tempeste. L'equazione strega-carestia mutò la
sua finalità, facendolo divenire un potente talismano per al-
lontanare i malefici.
Se ciò non bastava, si ricorreva alla benedizione degli oggetti
ritenuti infettati dal male delle mosche o ci si nutriva con pane
benedetto nel corso della festività di san Giorgio.

74
Una ritualità particolare consisteva nel fare benedire per tre
volte, da tre differenti ecclesiastici, i bambini affatturati, i qua-
li ogni volta dovevano passare un corso d'acqua, immagine
della purificazione e del battesimo.
Allo scopo di ripararsi dai malefici era utile bruciare legna e le
catene del ricovero degni animali, percuotendole con una
verga, costringendo così le mosche a rivelarsi.
La saggina era un'erba dai poteri soprannaturali, in quanto
sarebbe stata la prima a essere calpestata da Gesù Bambino,
oppure, quando Egli resuscitò. Le vacche che si accoppiavano
con un toro, nel cui zoccolo era stato incastrato un rametto di
saggina, partorivano vitellini esenti da malattie.
Un mazzetto di saggina appeso alla soglia della casa garantiva
la protezione dalle streghe che, fermandosi a contare i fili
d'erba, avrebbero perduto il computo del tempo e ciò rendeva
possibile il loro smascheramento, con le prime luci dell'alba.
Per ultimo, un altro dei tanti rimedi antistrega fu il circondare
la propria abitazione con un filo di canapa, naturalmente fila-
to da una ragazza pura e alla prima esperienza di filatura.

Nel Medioevo, le accuse di evocazioni demoniache, di rappor-


ti sessuali sfrenati e contro natura, nonché le più turpi e inna-
turali pratiche furono attribuite, però, agli eretici, nel preciso
intento di screditare la loro immagine e potersene liberare nel
modo più semplice.
Fu soltanto nel XIII-XIV secolo che queste imputazioni furono
sovrapposte al mondo della stregoneria, cercando di assimila-
re le deviazioni religiose con il mondo della magia.
Gli eretici divennero la personificazione e la giustificazione
sociale del male, fungendo da capro espiatorio, attraverso il
quale si rendeva tollerabile ciò che emotivamente non lo era,
attribuendo la nascita del male a una fonte esteriore, opposta
a quella che era la religione imperante, simbolo del bene,
dell'abbondanza e della fertilità.

75
Così le streghe diventarono la personificazione di un modello
ateo col quale spiegare ogni negatività intervenuta nella vita
politica o sociale. Spesso, nell'immaginario medievale, l’eretica
pravità si confuse con la stregoneria, come nel caso della Rival-
tella, molto probabilmente legata alla professione di fede val-
dese ma accusata a Chieri di appartenere alla schiera delle
donne in grado di provocare malefici incantamenti.
Nel 1472, si attestano altri processi a Forno Rivara, dove furo-
no arse tre donne, mentre nel 1474 nel Canavese, furono accu-
sate, processate e bruciate altre quattro donne (due delle quali
a Prà Quazzoglio).
L'elenco prosegue con Rivara, dove le accuse di stregoneria si
indirizzarono verso cinque donne e altre due a Ciriè.

Per estorcere confessioni, venivano usati strumenti come ca-


valietti, stivaletti di costrizione, pinze e tenaglie.
All'inizio furono adottate alcune norme per limitare la severi-
tà e la durata delle sevizie, mentre successivamente si comin-
ciò a praticare la tortura, non solamente sulle persone real-
mente colpevoli, ma anche sui sospettati.
Un altro abuso venne attuato nel consentire la ripetizione di
questa pratica, senza alcuna disciplina.
Nel 1376, il domenicano spagnolo Nicolas Eymerich eliminò il
divieto di ripetere la tortura, permettendone l'uso a discrezio-
ne dell'Inquisitore. Ciò determinò un utilizzo indiscriminato
di questa procedura che giunse a livelli estremi.
Inoltre gli interrogatori, che all'origine non avrebbero dovuto
suggestionare l'imputato, divennero fortemente condizionan-
ti, al punto da estorcere notizie e nomi di presunti eretici o
streghe dando adito a reazioni a catena.
In altri casi, si operava un esorcismo teso a trovare i segni
dell'appartenenza al discepolato di Satana: emissione di un
lungo elenco di oggetti reputati negativi come trecce, capelli,
chiodi, pietre e animali vivi.

76
In Piemonte, le streghe furono le masche, le strie. Quest'ultimo
termine deriva dal latino striga che indicava gli uccelli nottur-
ni, soprattutto gufo e civetta che erano animali connessi alle
tenebre e asserviti al male.
La masca, invece, è un termine di derivazione provenzale, con
probabili origini longobarde, come attesta l'editto di Rotari
del VII secolo, dove si afferma «Stria quae est Masca».
Innegabili i contatti con la parola ‘maschera’, proibita dalla
Chiesa, in quanto scindeva l'immagine del creatore con la cre-
atura, fatta a sua immagine e somiglianza. La maschera met-
teva in luce perciò un contatto con il mondo satanico. Prima
della maschera, nel Medioevo, vi era l'usanza di annerire il vi-
so con la fuliggine - tipico attributo della morte - proiettando
il mascherato nella dimensione dell'aldilà.
Le masche erano una sorta di streghe di quartiere, i cui poteri
erano tramandati in linea matriarcale, al punto di morte. La
donna morente lasciava il suo insegnamento alla nuova strega
prescelta, sul letto di morte con una stretta di mano. Questo
gesto rituale ricorre in una tradizione di Reano, dove per im-
pedire il passaggio dei poteri dalla Munda (l'ultima strega del
paese, morente) alla nuova adepta, il parroco del paese le mi-
se in mano un manico di scopa, così da annullare il passaggio
magico ed eliminare il problema alla radice.
Altre tradizioni affermano il passaggio dei poteri attraverso
un gomitolo magico, un mestolo, un bastone gettato dalla mo-
rente per le vie del paese, una scopa o un libro del comando.
L'oggettistica appartenuta alla strega aveva il potere di trasfe-
rire sulla nuova adepta il potere magico.
Un’antica tradizione vuole le masche riunite al bivio della fra-
zione Cacceri di Poirino, là dove oggi spicca un pilone - eretto
probabilmente a uso apotropaico - dedicato a una santa, Eu-
rosia di Jaca, una località dei Pirenei legata alla via del pelle-
grinaggio per Santiago di Compostella.

77
Eurosia era una giovane nobile di Bayonne, voluta come spo-
sa da un saraceno. Il suo rifiuto portò all'uccisione della don-
na, nel 714. Secondo la tradizione, ebbe le mani e i piedi ta-
gliati, divenendo uno dei simboli della resistenza ai mori, po-
polazione che ha incarnato - come le streghe medievali - il
principio del male. Essa fu poi invocata come protettrice delle
messi (la sua festa cade in prossimità del solstizio d'estate, il
25 Giugno) e il suo culto si propagò in Italia, irraggiandosi
dalla Lombardia; oggi la sua immagine si trova in buona parte
dell'Italia del Nord.
Un'altra località di riunione delle masche fu Usseglio, dove esi-
ste una rocca che viene denominata Il ballo delle streghe, per via
dell'antica credenza che vuole le fattucchiere di Chieri radu-
nate in questo luo-
go per le loro con-
greghe.
Le Valli di Lanzo e
Val Soana sono al-
tri luoghi in cui è
attestata la tradi-
zione delle masche.
Queste furono
immaginate come
donne all'apparen-
za normali, che di Roc delle Masche
notte avevano il
potere di trasformarsi in orribili animali e la capacità di nuo-
cere a cose e persone.
Se percossa di notte, al mattino la masca riportava sul corpo i
segni della colluttazione, per cui era facilmente riconoscibile
l'appartenenza alla magica setta.
A Vonzo, esiste ancora il Roc delle Masche, un sasso sul quale
le streghe avevano l'abitudine di danzare durante il sabba.

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Si dice che sul sasso siano ancora impresse le forme delle loro
teste, quando - in una leggenda locale - decisero di trasportare
il sasso sul Ponte del Diavolo a Lanzo, per stupire la popola-
zione e dimostrare il loro grande potere. Eseguito il trasferi-
mento, si scontrarono con il Diavolo in persona che non gradì
la nuova collocazione del sasso, in quanto avrebbe messo in
pericolo il suo Ponte e la sua potenza. Il Diavolo costrinse, co-
sì, le streghe a riportare il blocco di pietra al suo posto, opera-
zione che costò molta fatica alle masche e la sensazione di fon-
dere il loro capo con la pietra.
Forse fu quello stesso Diavolo che incise la Porta del Diau, a
Torino. Nella parte superiore di questo portone, in Via XX Set-
tembre è infatti scolpita la faccia del Diavolo. La leggenda
narra che questa sia stata costruita direttamente all'Inferno.

La ricostruzione dell'ambiente stregonesco è molto difficile,


per via delle fonti che lo descrivono. Queste sono solamente
legate ai diari inquisitoriali, oppure ai sinodi ecclesiastici, e
manca sempre il punto di vista della cosiddetta strega.
La colpa più grande attribuita a questa classe sociale fu l'esse-
re in grado di lanciare il malocchio, una sorta di maledizione
che poteva colpire persone o cose, generando malanni o steri-
lità dei campi.
In questo contesto, occorre fare una breve parentesi sulla me-
dicina ufficiale medievale. Questa era piuttosto lacunosa, per
via dell'assioma che rendeva la vita dell'uomo pio un vero
calvario di sofferenze sulla terra; per questo, la malattia che
sopravveniva, altro non era che un metodo garantito per otte-
nere un premio nell'aldilà.
Gli studi medici era bloccati a Galeno e Ippocrate, e quando si
studiava medicina, essa non era mai sconnessa alla teologia.
L'evoluzione dell'arte medica fu strettamente legata all'aristo-
telismo averroista del XIII secolo, che permise il distacco tra la
materia teologica, basata sulla rivelazione del Verbo divino, e

79
la filosofia, fondata sulla ragione. La separazione di questi
due ambiti si riflesse anche nel distacco tra le facoltà delle arti
e medicina e quella di teologia.
Gli artisti leggevano Aristotele, Avicenna, Averroè, Galeno,
Tolomeo e studiavano tra le altre materie astrologia, alchimia
e magia. Come afferma Bruno Nardi:

il loro sviluppo [astrologia, alchimia e magia] ha concorso in


larga misura allo sviluppo del sapere scientifico e al pro-
gresso dello spirito umano. Per mezzo di esse si inaugurò
nell'occidente cristiano il metodo della ricerca filosofica e si
iniziò la libera indagine delle cause naturali dei fenomeni
del mondo terrestre... portando libera ricerca di cause natu-
rali, affermazioni di leggi ed esclusione dell'arbitrario dal
mondo dell'esperienza. E intanto quell'astrologia, quell'al-
chimia, la vecchia medicina e la stessa magia venivano rac-
cogliendo da ogni parte ed accumulando preziose osserva-
zioni ed esperienze, che, nella Rinascenza, doveva portare al
superamento dei vecchi pregiudizi e concetti metafisici e
contribuire direttamente al rinnovamento della scienza.

Prima di questo secolo, a queste mancanze sopperiva la tradi-


zione orale - trasmessa da generazione a generazione - che di-
veniva spesso l'unica alternativa alla sofferenza fisica.
L'immagine della guaritrice fu sovraccaricata della potenza
evocatrice della magia araba antica, che tornò ad affluire in
Europa all'alba del XII secolo, insieme con le valenze negative
delle teorie dualistiche gnostiche delle eresie valdesi e catare.
I retaggi di queste influenze contagiarono anche i secoli a ve-
nire, divenendo parte integrante della tradizione rurale, che
soprattutto nelle regioni più isolate - come le zone montane -
ebbe una grande eco nelle pratiche di recupero della salute,
perpetuate dai guaritori, che spesso erano preferiti ai medici.
Fino a poco tempo fa, in Valsesia, l'assunzione di medicinali
era assoggettata al ciclo lunare, mentre alcuni tipi di febbre

80
erano curati con ritualità mutuate dall'antica magia. Alcune
erbe erano legate agli alluci ed ai pollici del malato con un filo
di seta rossa, poi seguivano le formule magiche, tramandate
oralmente, insieme con una serie di gesti atti a scongiurare il
male.
L'affermarsi di una nuova concezione magica portò ad au-
mentare la credenza del Diavolo, sia come incubo sia come
succube, con la naturale conseguenza discriminatoria di con-
giungimenti o patti che prevedevano un'alleanza con le forze
del male.
Con Innocenzo VIII (papa dal 1484 al 1492) ebbe inizio una
crociata più cruenta nei confronti della magia nera, tesa ad ac-
certare il carattere demoniaco di certe pratiche.
Il 5 Dicembre 1484, con la bolla Summis Desiderantes Affectibus,
il Papa autorizzò due domenicani, Jakob Sprenger e Heinrich
Institoris Kramer, a ricercare e quindi «punire, incarcerare e
correggere» le persone imputate di stregoneria.
Nell'inverno del 1486, i due inquisitori stamparono il Malleus
Maleficarum, in cui le accuse di pratiche magiche, di evocazio-
ni demoniache, di rapporti sessuali sfrenati e contro natura,
nonché le più turpi e innaturali usanze furono attribuite al
mondo della stregoneria. Questo testo fu la guida degli inqui-
sitori per almeno due secoli.
Dalla lettura del testo si evince che la donna era ritenuta infe-
riore all'uomo, per cui più debole e facile a cedere alla tenta-
zioni di Satana:

Primariamente sono le donne più inclini a credere, e il de-


monio, che cerca principalmente di corrompere la fede, più
facilmente riesce ad aggredirle. In secondo luogo, per la na-
tura medesima della loro complessione nervosa sono più fa-
cilmente ricettive delle impressioni che vengono da spiriti
separati [...] In terzo luogo hanno la lingua lubrica e non rie-
scono a mantenere nascosto alle altre donne loro simili le
cose malvagie che hanno appreso, e, quando non hanno for-

81
ze sufficienti per vendicarsi, facilmente cercano di procurar-
si vendetta a mezzo di maleficio [...] La donna, cattiva per
natura, cade presto nei dubbi sulla fede, presto rinnega la
fede medesima, nel che è il fondamento dei malefici [...] In
conclusione tutto dipende dalla concupiscenza carnale che,
nelle donne, è insaziabile [...] onde si danno da fare con i
demoni per soddisfare la loro libidine.

Da questa lettura, si rilevano tre cause principali ascrivibili al-


la donna-strega: mancanza di fede, ambizione e lussuria, tutti
temi che comparteciparono dell'accusa di eresia. Non è da
dimenticare, che questo periodo contrassegnò i primi fermenti
al femminile, in cerca di rivalutazione e una conseguente crisi
del ruolo maschile; basti ricordare che spesso le streghe furo-
no donne vedove, private della loro funzione produttiva so-
ciale. Era sufficiente cambiare spesso dimora per essere in o-
dore di stregoneria. Da qui, l'estensione del potere di inter-
vento del Tribunale dell'Inquisizione - sorto per combattere le
deviazioni religiose - anche nella sfera stregonesca, per rinne-
gamento del cristianesimo.
La magia era considerata come un pericolo sociale, che mina-
va la stabilità politica, e l'eresia, alla quale fu equiparata, fu
intesa come una minaccia alla conservazione dell'ordine reli-
gioso. Unificare le due accuse aveva voluto significare riunire
le forze del potere temporale e del potere spirituale verso un
unico avversario: il mago eretico.
La magia e l'eresia furono, per questo motivo, perseguitate
con un impeto tale, da fare accrescere nell'immaginario popo-
lare l'interesse e la paura verso queste pratiche oscure.
Lo Stato cercava, a tutti i costi, di imporre la sua vigilanza sui
sudditi, per consolidare il suo potere, criminalizzando le tra-
dizioni e le consuetudini popolari, al fine di creare gerarchie
sociali rigidamente inserite in uno schema da rispettare.
A questo riguardo, riportiamo una leggenda che chiarisce la
visione negativa di queste donne.

82
Si narra che una valle del monte Ciabergia, sia chiamata la
valle delle Ciuane, per via della forte presenza di salamandre
(ciuan è la riduzione del termine dialettale piuvane, ovvero ‘sa-
lamandre’).
Da un punto di vista esoterico, le salamandre sono le espres-
sioni di uno dei quattro elementi che caratterizzano la vita,
Fuoco, Terra, Aria e Acqua. Questi elementi erano considerati
indivisibili e gli spiriti che incarnavano queste qualità erano
classificati in Salamandre, legate all'elemento Fuoco; Gnomi,
connessi con la Terra; Ondine, legate all'elemento Acqua e Sil-
fi, in analogia con l'Aria.
Come afferma lo studioso Paolo Lorenzi:

Per questi esseri l'elemento in cui vivono è permeabile esat-


tamente come per noi lo è l'atmosfera. Nel loro elemento, in-
fatti, essi si muovono con destrezza e agilità. Gli gnomi
dunque riescono a penetrare nelle rocce e a muoversi nel
sottosuolo come se questo fosse vuoto. Lo stesso concetto ri-
guarda le altre tre tipologie. Le Ondine percepiscono l'acqua
come vuoto e in essa si muovono senza problemi, le Sala-
mandre non hanno alcun problema a vivere tra le fiamme e i
Silfi si spostano nell'aria come facciamo noi.

Paracelso riteneva che gli Elementali non possedessero


un'anima e che, il loro desiderio più grande, fosse proprio
quello di averne una. Per farlo cercano la compagnia degli
esseri umani e in particolare desiderano ardentemente spo-
sarsi con membri della nostra razza, poiché il vincolo sacro
del matrimonio può fornire loro un 'anima immortale.

Così nell'immaginario magico del passato, non fu difficile so-


vrapporre le salamandre della valle, con le streghe che si riu-
nivano da queste parti. Queste donne potevano mutarsi in sa-
lamandre di giorno e acquisire la loro vera identità di notte. In

83
questo modo, la visione delle salamandre ebbe una connota-
zione negativa.
Infatti, la pericolosità della presenza delle streghe si è incasto-
nata nella leggenda di una bambina, che perdutasi nella valle,
non fece più ritorno a casa. Ella fu ritrovata morta, presso la
pietra che custodiva questi animaletti, con una ferita al collo.
Questa scintilla provocò l'ira degli abitanti che si scagliarono
contro le salamandre, fino quasi a farle scomparire dalla zona.

La leggenda nera s'impadronì delle streghe, che utilizzavano


per le pozioni magiche erbe con proprietà farmacologiche par-
ticolari unite a parti del corpo come capelli, unghie o peli; og-
getti che dovevano agire attraverso il loro valore simbolico.
Per esempio, chiodi, coltelli o croci portavano ferite o morte;
bende, corde e legacci determinavano unioni sentimentali e
legamenti di tipo sessuale. Erano poi costruite statuette di ce-
ra con l'effigie della persona che doveva essere colpita, mesco-
late con parti del suo corpo (unghie, peli, capelli), poi, si agiva
magicamente sacrificando piccoli animali.

A Corbiglia, infatti, vicino Villarbasse, una vecchia contadina


fu impressionata dai misteriosi rumori provenienti dalla stalla
e dall'inquietudine che dimostrava il bestiame. Per questo mo-
tivo si recò dalla saggia del paese per ottenere responsi.
La vecchia signora confermò ciò che era solo un sospetto, i
rumori di catena e i muggiti delle mucche dipendevano da
una fattura di una masca. La risoluzione stava nel bollire una
calza, che la donna doveva rubare alla strega, e questo avreb-
be impedito l'effetto indesiderato del sortilegio. Fatto questo,
come per magia... si presentò alla porta della contadina la ma-
lefica megera, che - in preda ai tremori - chiese perdono alla
donna e promise, come nelle migliori favole, di non commet-
tere altro danno.

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Queste tradizioni, affondavano le radici nella classificazione
della donna che, già dal 1100, vedeva al ruolo di moglie, ver-
gine o prostituta affiancata l'immagine di strega in opposizio-
ne a quella della santa.
Entrambe operavano nell'ambito medico, la strega con chiare
finalità malefiche - presupposto il patto con Satana, simbolo
degli Inferi e della materialità, ovvero la magia nera - la santa
a fin di bene, considerata la sua mistica unione con il divino e
lo spirito. Quest'ultima figura doveva mettere particolare en-
fasi nel manifestare visibilmente questo contatto, tramite fe-
nomeni come l'estasi e le visioni, che creavano un indiscutibile
fascino attorno alla sua persona, catalizzando l'attenzione e la
devozione popolare. Le guarigioni miracolose fecero il resto,
attestandosi come unico prodigio ammesso dalla Chiesa.
Infatti, non bisogna dimenticare la scarsa tolleranza sessuale,
che all'epoca imponeva un regime piuttosto rigido, soprattut-
to se riferito al femminile.
Architettonicamente questa figura fu utilizzata come simbolo
di perfezione, omne trinun est perfectum, richiamando le teorie
classiche che vedevano tutti gli elementi legati a un numero,
senza l'espressione del quale non sarebbe stato possibile com-
prendere l'essenza e conoscere il mondo ed i suoi segreti.
Il marmo nero e il grigio della pietra scandiscono il percorso
di questa Cappella a rappresentare il punto di partenza
dell'Opera alchemica, ove la materia grezza e imperfetta deve
essere calcinata e disgregata attraverso il Fuoco sacro della
Sindone affinché l'essenza possa liberarsi dalle scorie che la
trattengono e volare verso l'alto, raggiungendo la cupola della
Cappella, dove la fantasia e la sapienza di Guarini hanno la-
vorato con soluzioni insolite, quasi orientali.
Così, dall'alto della Cupola, riusciamo a scorgere il simbolo
universale di Torino, la Mole antonelliana.

Così in alto come in basso…

85
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M. Poltronieri, E. Fazioli, Bologna magica, Stupor Mundi, 1999
M. Poltronieri, E. Fazioli, I Misteri dell’Alchimia, Stupor Mundi, 2000
M. Poltronieri, E. Fazioli, E Dante scrisse di Magia, Hermatena, 2001
M. Scaduto, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, Roma 1964
A. Soprani, L'Astrologia dei Re, MEB, Padova, 1991
R.A. Staccioli, Gli Etruschi, Newton, 1994
M. Torelli, Storia degli Etruschi, CDE, 1995
G. Tourn, I Valdesi. La singolare vicenda di un popolo-chiesa, Claudiana,
Torino, 1999
C.Vasoli, Magia e scienza nella civiltà umanistica, Il Mulino, 1976
L. Viazzo, Miti e leggende dello spazio siderale, Demetra, 1998
R. Viel, Le origini simboliche del blasone, Arkeios, 1972, Roma
L. Vignali, Diagrammazione esoterismo architettura, Grafis, Bologna,
1994

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MUSEODEI by Hermatena Edizioni
Il cammino di Museodei è quello di una piccola casa editrice, ma come tutte le piccole
cose possiede una grande libertà, ovvero quella di non dover rispondere a schemi o
aspettative di nessun tipo. Le parole che narra sono legate alla sola pul-sione del cuo-
re che attraverso l’analisi dei simboli vuole spingere a compiere il primo ed impor-
tante viaggio. Quello dentro se stessi. Che importa vedere il mondo se in ogni sua
differenza non riusciamo a scorgere parti di noi e sensazioni personali? Sarebbe
guardare, senza vedere. Così, conoscere un luogo attraverso il linguaggio dei simboli
è vedere l’incanto della creazione nel momento stesso in cui si genera. L’invito è allo-
ra quello di partire, aiutati dal patrimonio simbolico del passato, attraverso le vie ar-
dite del presente, verso i sentieri misteriosi del futuro. Poi, aprire gli occhi e… scopri-
re se stessi come parte integrante del viaggio.
 I luoghi magici di… Federico II - M. Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Parma - M. Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Santiago di Compostella - E. Fazioli
 I luoghi magici di… Ferrara – M. Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Praga - M. Poltronieri
 I luoghi magici di… Parigi - E. Fazioli
 I luoghi magici di… Pisa - E. Fazioli
 I luoghi magici di… India del Nord Jain e Buddhismo - M. Poltronieri ed E.
Fazioli
 I luoghi magici di… Londra - M. Poltronieri
 I luoghi magici di… Bologna Vol. I La Piazza e i suoi simboli segreti - M.
Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Bologna Vol. II I Templari e il mistero del Graal -
M. Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Bologna Vol. III Demoni, streghe e vampiri - M. Pol-
tronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Bologna Vol. IV Le vie dei condannati al rogo - M.
Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Bologna Vol. V … a luci rosse - M. Poltronieri ed E. Fa-
zioli
 I luoghi magici di… Modena - M. Poltronieri ed E. Fazioli
 I luoghi magici di… Torino - M. Poltronieri ed E. Fazioli
 Voci dall’Hoggar – M. Ag Amastan, C. de Foucauld, D. Oult Yemma - A cura di A.
Chieregatti
 Sulla strada – A. Chieregatti
 Milano, Segreti e Meraviglie nell’Arte, Andrea Bianchi detto il Vespino -
C. Dorsini
 Pinocchio in arte mago - M. Poltronieri, E. Fazioli Appendici di G. Pelosini
 Lungo i sentieri dei bisonti – F. Finardi (romanzo storico)
 Siena e altri misteri – M. Poltronieri
 Salento, Grotte e altri misteri – E. Fazioli
 Lecce… Il lato splendente della magia – M. Poltronieri
 Malta l’Isola della magia – E. Fazioli
 Magico viaggio nella Libia romana - E. Fazioli
 In viaggio con la Dea - F. Coletti, M. Poltronieri, E. Fazioli

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 I segni della Dea Madre, da Malta al deserto libico – M. Poltronieri
 L’eros della Dea, nelle misteriose Dākinī – M. Poltronieri
 Amedeo Modigliani, La magia al femminile tra Cabala e Alchimia - C.
Dorsini e M. Poltronieri
 Il male non esiste – F. Coletti
 Evil does not exist – F. Coletti
 Satiro Demone Folletto, I mille volti dell'Incubo – S. Renda
 Revenant, Il ritorno dei vampiri – S. Renda
 Tarocchi Sola Busca, Storia Segreti Alchimia – C. Dorsini e M. Poltronieri
 Sola Busca Tarot, History, Mysteries, Alchemy – C. Dorsini e M. Poltronieri
 Le Voci degli Arcani – G. Pelosini con CD di Giovannimparato
 Emi nel paese delle Emi-raviglie, una fiaba attraverso gli Arcani Maggio-
ri dei Tarocchi – F. Coletti
 Un Dio qualunque, Sguardi e attraversamenti dal Niger – M. Armanino
 Odissea nel Gilgamesh, IO & L’Io – J. Casagrande

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Museodei by Hermatena Edizioni
Via Palmieri 5/1 - 40038 Riola (Bo)
Tel. 051 916563
www.museodei.com
hermatena@libero.it

Prima edizione: 2003, Hermatena Edizioni


Seconda edizione: rivista, corretta e correlata di immagini,
2013, Museodei

Finito di stampare nel mese di Maggio 2013


Presso Universal Book - Rende (Cs)

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