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VIAGGI DI RITORNO

Itinerari antropologici nella Grecia antica

1.In principio era l’oggi: divagazioni antropologiche su due Madonne nere


L’autrice inizia il suo itinerario antropologico con due Madonne nere. Nel tentativo di ricercare le
corrispettive controfigure arcaiche delle Madonne nere, l’autrice intende introdurci sui temi che affronterà
nei capitoli successivi.
Procedendo da nord a sud, iniziamo con il culto della Madonna di Canneto, attivo nel comune di Settefrati,
in provincia di Frosinone, dove ogni anno si tiene un pellegrinaggio che ha come meta il Santuario dedicato
ad una Madonna nera.
Nigra sum…
Segue la leggenda di fondazione da cui si origina il culto della Madonna del Canneto. La pastorella Silvana
è intenta a pascolare i propri animali, quando le appare una signora che le chiede di esortare il parroco di
Settefrati a edificare nel luogo dell’incontro una chiesa dedicata alla Madonna. La ragazza allora corre verso
il suo paese e torna con dei suoi compaesani ma vi trova una statua lignea raffigurante una Madonna nera
con il bambino. La statua è troppo pesante per essere spostata a Settefrati e viene per questo appoggiata ad
una roccia, dove poi verrà edificata una chiesa in suo onore. Dato che la statua non poteva essere spostata, i
fedeli decidono di scolpire un doppio della Madonna, questa volta bianca, da erigere nel cuore del paese a
Settefrati e che ogni anno sarebbe stata portata in processione al santuario per ricongiungersi
temporaneamente con la gemella nera.
Lo spazio sacro della Madonna del Canneto confina con i resti di un antico santuario italico del V secolo
a.C. dedicato alla dea Mefìte. Mefite è una divinità osca di matrice ctonia, protettrice di acque sorgive, di
armenti e piante. Si ripropone dunque lo stesso scenario pastorale ravvisato nella leggenda della Madonna
del Canneto. Il rapporto di Mefite con gli elementi naturali e con le forze ultraterrene legittima
giustapposizioni con le dee greche Artemide, Demetra e Persefone. Il culto mefitico sembra giungere nella
valle del Canneto intorno all’VIII secolo a.C.
Potremmo dunque riconoscere una sorta di prototipo declinabile nel tempo, che raggiunge la sua ultima
fase di sviluppo nella Madonna nera. L’esempio è utile per riflettere sulla nozione di confine, di limen, di
spazio cultuale non abitato, non ancora assoggettato ad un ordine civico e per questo destinato al controllo
di una Signora del Limite.
Una seconda Madonna nera è rintracciabile in Grecia, a Delfi, in cui prima del culto di Apollo, esisteva
quello di Demetra, concepita come una Grande Madre feconda e nera. Seguendo le tracce di Pausania,
potremmo identificare la grotta di Demetra nera con quella che è attualmente la Gola della Vergine.
L’evoluzione dei culti pagani, di matrice ctonia, in culti mariani si fa specchio della conversione di una
comunità verso una sedentarietà più stabile: in altre parole, man mano che i pastori diventano sedentari, la
Potnia, signora dei boschi e degli animali, viene sempre più a scomparire assumendo i tratti più
rassicuranti di una Vergine, che assume un’importante funzione di mediazione.
Un caso ancor più chiaro in questo senso è rappresentato dal Metroon ad Atene. Il Metroon è infatti il tempio
della Madre degli Dei, costruito per placare l’ira della Grande Madre, offesa perché gli Ateniesi avevano
cacciato il suo Gallo-sacerdote. In questo caso, non si incontra una madre selvaggia, legata al mondo
pastorale, bensì una Madre rinnovata, riflesso di una comunità più evoluta. Non a caso, il tempio accoglie il
Bouleuterion, cioè la Sala del Consiglio dove si conservavano gli archivi pubblici di Atene. Possiamo dire
che quella Madre degli dei olimpici, venerata da Solone ancora come “valorosa terra nera”, viene riadattata
allo spazio civico della polis, divenendo una mite custode della memoria scritta.
Sed formosa…
Ben più numerose madri nigrae sed formosae, lungi dall’essere inurbate, continueranno infatti ad abitare
santuari inerpicati sui monti, affacciati su rocce che precipitano a picco sul mare, temute e venerate come
tutte le Madri montane. Veniamo così alla Madonna del Tindari, venerata a pochi km da Messina. La
leggenda vuole che una nave di ritorno dall’Oriente si fosse arenata per ragioni misteriose. I marinai
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decidono così di liberarsi della statua lignea di una Madre nera. La nave così riesce a prendere il largo,
mentre la statua viene raccolta dai pescatori locali e posta in un tempio abbandonato della città di Tindaro.
La notizia sempre più diffusa che la statua avesse dei poteri attirò folle di fedeli. Una donna aveva fatto
voto alla Madonna per ottenere la guarigione della figlia; ottenuto ciò che aveva richiesto, la donna si reca
nel Tindari per omaggiare la Vergine. Tuttavia, rimase delusa per il colore nero della statua, frustrata
dall’idea di aver fatto tutto quel viaggio per vedere la statua di una cchiù brutta di mia. A questo punto però
la figlia precipita in mare e la madre, pentita per il commento sacrilego, chiede perdono alla Vergine.
Prontamente il mare si ritira e in luogo delle onde si viene a formare un sottile tratto di spiaggia contornato
da laghetti (oggi chiamato Marinello), dove la madre graziata ritrova la bimba sana e salva. La leggenda
vuole che le lingue di sabbia ricostruiscano la sagoma della Madonna, quasi a ricordare: nigra sum sed
formosa.
Impegno dell’autrice è adesso spiegare questo isoformismo tra una Madonna nera e l’acqua stagnante che
la rappresenta, ricorrendo alla controfigura arcaica che ci rimanda ancora una volta nell’ambiente greco. La
città di Tindari nasce infatti come colonia ateniese, al termine della guerra del Peloponneso. Appena
fondata, la città fu dedicata ai due gemelli figli di Tindaro, Castore e Polluce, i quali insieme ad Elena
diventano dei eponimi e tutelari della città. A questo punto l’analisi antropologica acquista interesse perché
ancora una volta sembra essere recuperato il binomio bianco-nero: i mitici gemelli ascendono dallo statuto
di eroi di segno ctonio (come Tindaridi) a quello di figli di Zeus (come Dioscuri, Diòs kouroi), riscattandosi
progressivamente da un destino notturno in favore di uno diurno, celeste, solare, associato alla cifra
cromatica del ‘bianco’. Il passaggio dal buio alla luce è sottolineato anche dal destino riservato ai due
gemelli, che scelsero di godere dell’immortalità a giorni alterni, vivendo un giorno sull’Olimpo e uno
presso la loro tomba eroica. La vicinanza dei Dioscuri ad Elena è stata messa in relazione con lo stretto
rapporto tra la Vergine di Tindari e i santi patroni delle zone limitrofe, che, proprio come la Madonna,
hanno consumato la loro catabasi nelle viscere della terra e hanno assunto il colore nero dopo aver
combattuto le fiamme dell’Inferno (tra questi, San Calogero o San Filippo Neri).
Nota è infine il rapporto di Elena con le acque e le creature che abitano il Mar Tirreno, le ambigue Sirene;
anche lei è definibile nigra sed formosa, per la sua bellezza terribile come quella di una dea, una bellezza
oscura, se Eschilo la definì una luce dal bagliore sinistro: anche per lei si riconosce il binomio buio-luce
riconosciuto per i fratelli.
Donna Villa, signora del limite
È ancora sul registro della specularità che l’oggi ci riverbera un altro “doppio” della Madre Nera, ovvero la
malvagia Donna Villa, sirena antagonista della Madonna, che abita in una grotta sottostante il santuario. Di
lei si racconta che, trasformandosi in bellissima fanciulla, ammaliava naviganti e corsari con un canto
melodioso, invitandoli nel suo antro dove i malcapitati prima attraversavano un cunicolo buio e poi con un
salto nel vuoto, precipitavano in un fosso. Sono molto evidenti le analogie ella Donna Villa con le Sirene
greche: al pari delle Sirene, ha un profondo legame con il mondo sotterraneo, controllando al tempo stesso
le sponde e le faglie; inoltre, coerentemente con il percorso evolutivo che nel IV-III secolo umanizza la
Sirena rimuovendone l’elemento ferino (uccello o pesce che sia) mentre conserva le funzioni del mostro
inghiottitore.
C’è un episodio leggendario che vede Donna Villa diretta antagonista della Vergine: la maga piuttosto che i
marinai era dedita a rapire le spose poco prima del loro matrimonio, portandole nella sua grotta dove le
avrebbe fatte cadere nel sonno e poi uccise, intonando una nenia funebre. Tuttavia, una fanciulla di nome
Maria Tindara riesce a sottrarsi alle magie di Donna Villa grazie all’intercessione della Vergine che appare
in sogno alla madre della fanciulla, la quale a sua volte mette in guardia la figlia e le consegna un rosario, lo
stesso rosario di fronte al quale Donna Villa si dissolve e scompare con un gemito lungo e disperato.
Donna Villa ricalca anche con inversione di senso e analogia di significato il motivo narrativo della
bambina salvata dalla Madonna del Tindari. Qui però perde i suoi connotati salvifici un rito di passaggio
costituito dal tuffo in acque salmastre, il katapontismos (il tuffo nelle acque), che nella mitologia greca aveva
un vero e proprio valore iniziatico connesso con il distacco dalla condizione adolescenziale. Coerentemente
con i repertori mitologici greci, questo motivo trova spazio anche nella narrativa siciliana. Ad esempio,
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Guastella narra di un’orfana devota che tuttavia da una relazione peccaminosa ha un figlio brutto come un
serpente e pieno di croste dalla testa ai piedi. La ragazza si reca su uno scoglio altissimo, presso la cappella
di Maria Santissima Assunta, dove in ginocchio di fronte al simulacro della Vergine chiede il perdono e la
purificazione del bambino innocente. Tuttavia, mentre solleva le braccia in cielo, in un moto di accorata
devozione, il figlio le scivola in mare; la Madonna ha pietà della madre addolorata e ritrae le acque
salvando il bambino e depurandolo dalla fetida crosta.
In questo caso, il katapontismos, il tuffo restituisce il bambino alla vita e lo avvia ad una purezza degna di un
fonte battesimale. L’elemento caratterizzante di questo motivo mitico risiede nell’ambiguità di una figura
materna che al tempo stesso perde e salva. Il mare si connota come abitato da figure femminili dal potere
ora benigno ora mortifero al punto da legittimare la metafora che associa il tuffo nelle onde al ‘seno di Teti’.
Il tuffo in mare rappresenta nelle varie figure mitiche di volta in volta l’ancoramento, il superamento o il
distacco iniziatico dalla figura materna e la conseguente risoluzione di situazioni critiche proprie dell’età
giovanile. Per menzionare solo un esempio: Eumolpo viene gettato in mare dalla madre Chione,
ingravidata dal padre divino Poseidone. Dopo aver partorito in segreto il figlio dell’incesto, Chione lo gettò
tra le onde, dove però Poseidone lo porta in salvo e lo consegna ad un’oceanina, che lo alleva nella lontana
Etiopia, nelle profondità marine. Sotto le cure di una nutrice che attenua il distacco dalla madre naturale,
Eumolpo si prepara ad un destino eroico, contraendo nozze e incorrendo anche lui in un amore incestuoso.
La sua complicità con Demetra lo rende complice nella fondazione dei misteri eleusini. Dunque, nel caso di
Eumolpo, il katapontismos, oltre che rito di passaggio, diventa anche prova di una potenza magico-religiosa
che consente a chi lo compie (o subisce) la reintegrazione piena e privilegiata nell’universo di saperi
condivisibili con un mondo divino di segno femminile.

2.Tutto scorre. Simbologie dell’acqua nella Grecia antica


Le acque nei miti di fondazione cosmogonica
Nella Teogonia di Esiodo, l’ambivalenza dell’acqua si esplicita immediatamente in uno iato generativo: da
una parte, il gesto partenogenico di Gaia, che dà vita a Ponto, infecondo e furente; dall’altra, l’unione di
Gaia con Urano, che genera Oceano dai gorghi profondi.
In seguito, Ponto (pur essendo infecondo) genera con la madre i “tre vecchi” del mare, divinità originate in
un regno ctonio e tenebroso, che danno vita a loro volta a figure femminili potenti e terrifiche, come Scilla,
le Sirene, le Arpie e le Gorgoni. Oceano, invece, genererà ninfe benevole e generose, custodite con amore
negli abissi paterni.
Il mito greco, dunque, prima dell’acqua chiara e gioiosa, ci introduce in un’acqua notturna e tenebrosa,
abitata da creature della femminilità fatale e teriomorfa. Queste arcaiche figlie del mare sembrano ratificare
in sede mitica l’analogia tra i pericoli dell’onda e quelli della donna: un’analogia rafforzata dai motivi
simbolici della capigliatura (che richiama l’acqua ondeggiante), dei tentacoli e intrappolano e delle mascelle
tridentate.
Quello che emerge, insomma, alle origini del cosmo e della vita è un manicheismo 1 dell’acqua, che verrà
sanato solo nella stagione delle divinità olimpiche (Zeus e co.). Saranno infatti le nuove divinità femminili a
rigenerare le acque cupe in una prospettiva lustrale, che cambia di segno la funzione materna. Prima fra
tutte Leto, madre di Artemide e di Apollo, implacabile nella vendetta nei confronti di Niobe, la fiera regina
della Lidia che osa dichiararsi più fertile della dea: i suoi dodici figli vengono uccisi da Apollo e Artemide e
i suoi sudditi tramutati in pietra. Inconsolabile nel lutto, Niobe piange ininterrottamente per nove giorni,
fin quando Zeus, impietositosi, non la tramuta in rocca, trasformando le sue lacrime in sorgente.
Azioni eroiche e percorsi iniziatici
L’acqua mescolata pianto appare così come principio liquido della vita ma al tempo stesso, segnala la
dialettica vita-morte a cui sarà possibile ricondurre le azioni memorabili e i percorsi iniziatici degli eroi
omerici.

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Manicheismo: dottrina che crede nella compresenza dei principi complementari di Bene e Male.
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È fin troppo noto il rapporto di Achille (figlio della dea Teti e del mortale Peleo) con le acque marine. L’eroe
torna costantemente al mare per invocare piangendo la figura materna, è ad esso che confida le sue
sofferenze. Inoltre, nell’acqua avrebbe subito la sua prima prova iniziatica quando Teti lo immerse nello
Stige per renderlo invulnerabile, tralasciando però il tallone, dal quale teneva il neonato. Già nell’Iliade è
esplicitata la devozione dell’eroe per il fiume Spercheo, al quale per volere del padre avrebbe dovuto offrire
le sue chiome, al rientro dalla guerra; chiome che invece donerà all’amico Patroclo, per favorirne il viaggio
nell’oscurità dell’Ade. Il dono votivo mancato si colloca nell’ambito di un rito di passaggio, previsto in età
arcaica, secondo il quale ogni nato maschio dedicava, appena raggiunta l’efebia, un ricciolo della propria
chioma al fiume della sua terra in segno di riconoscenza per esservi stato allevato. Tali fiumi venivano
chiamati kourotrophoi, allevatori di giovinetti. È grazie alla locale divinità fluviale che il corpo del giovane
alle soglie della pubertà e il suo liquido seminale, preposto alla riproduzione, raggiungono la loro
pienezza. È in nome di una temeraria dimestichezza con il mondo fluviale che Achille può compiere a
Troia una strage di nemici, affidando i loro cadaveri alle acque sacre del fiume Scamandro. Proprio davanti
alle due sorgenti dello Scamandro, Achille porterà a compimento la sua vendetta, uccidendo Ettore. E solo
allora, disteso sulla riva del mare, consegnando il proprio corpo stremato al ritmo regolare dei flutti delle
onde, Achille cadrà in un sonno avviluppante che promuoverà l’incontro onirico con l’amico Patroclo.
Nel segno dell’acqua, la statura eroica di Achille si prolunga in quella di Ulisse, infatti entrambi compaiono
nei rispettivi poemi in uno scenario epico asperso di acqua e pianto. Achille fa la sua prima comparsa
nell’Iliade, mentre piange e chiede il conforto della madre Teti; Ulisse in Odissea V piange seduto sulla riva
del mare, desiderando di tornare a casa. L’intera Odissea potrebbe poi essere interpretata come l’epopea di
un eroe sui pericoli dell’onda; un’onda marina che rafforza l’immagine della donna fatale e inquientante.
Non a caso, Ulisse affronta Scilla e Cariddi, le Sirene, Circe. Grazie a quest’ultima, Ulisse può attraversare il
fiume Oceano e scendere nell’Ade, dove percorrendo acque nictomorfe, contemplerà per l’ultima volta il
volto materno.
Nel segno di un’acqua domesticata e lustrale, si colloca invece il riconoscimento di Ulisse da parte di
Euriclea.
L’acqua torna persino nelle Coefore di Eschilo, in cui Elettra nel tentativo di risvegliare l’anima del padre,
versa sulla sua tomba dell’acqua votiva. Ciò si accorda con le consuetudini arcaiche che consistevano nel
versare acqua sui corpi dei morti e sulle loro tombe; acqua che veniva ricevuta e bevuta direttamente dalla
psyche disidratata del defunto. Il rinvenimento di una ciocca di capelli deposta da Oreste sulla tomba del
padre proietta il gesto votivo di Elettra nel circuito esemplare di una rinascita simbolica. Tenendo fede ad
un obbligo rituale, di cui già il Pelide avvertiva la sacralità, anche Oreste, arrivato ad Argo, dona una ciocca
di capelli al padre defunto e un’altra al fiume Inaco, kourotrophos della sua regione. In altre parole, acqua e
capelli si trovano associati in questo percorso di morte-rinascita.
Specchi d’acqua come presagi dell’abisso
L’acqua invocata da Fedra, consunta d’amore per Ippolito in Euripide, torna a riassumere sulla scena
tragica lo specchio deformante di una potenza nefasta, associata a creature femminili. Fedra reclama il
refrigerio di una rorida fonte nella quale l’uditorio greco non può che riconoscere il richiamo alla linfa del
giovane amante. La metafora acquatica diventa nelle parole di Fedra allusione all’amplesso mancato.
Tutto scorre e nello specchio immaginale in cui scorre la vita gli opposti si toccano, si lambiscono, si
inseguono e sfuggono. Passeremo dunque in rassegna altre tre miti: Narciso, Tiresia accecato per aver visto
Atena nuda e infine Atena intenta a specchiarsi nelle acque di un ruscello.
Narciso viene punito da Nemesi per aver rifiutato la ninfa Eco e si innamora della sua stessa immagine
riflessa nell’acqua, in cui egli vede una fanciulla bellissima che risponde con un sorriso al suo sorriso. La
fanciulla non uscirà mai in superficie e Narciso si consuma d’amore trasformandosi in fiore. Secondo
un’altra versione del mito, si era innamorato invece della sua sorella gemella. In ogni caso, l’acqua torna a
riflettere l’archetipo esemplare della potenza femminile.
Tiresia, per aver visto accidentalmente Atena nuda, pagherà con la sua vista ciò che non è concesso ad un
mortale di vedere ma ottiene in questo modo l’arte della preveggenza.

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Nell’Inno per i lavacri di Pallade, Callimaco ci lascia forse intendere la portata di tale disvelamento,
ricordandoci come la stessa Atena di come rimase inorridita vedendosi riflessa nell’acqua mentre soffiava
in un flauto (usato per simulare le Gorgoni), a tal punto da non voler più usare lo specchio: lo sforzo
dell’insufflazione ha deformato il suo volto sostituendo la solennità del volto divino con il ghigno di
Medusa.
In questo caso, l’acqua si fa elemento di esplicitazione di una verità tanto folgorante quanto raccapricciante.

3.Sulle tracce di Pan: la democrazia ateniese a prova di straniere


Nell’introduzione a questo capitolo, l’autrice rivela che il suo tentativo sarà quello di “storicizzare alcuni
processi di demarcazione della cittadinanza democratica, alcune aporie identitarie prolungabili nelle nostre
attuali esperienze di cittadinanza multietnica” (p.67).
La patria del Sé
Partiamo prendendo in analisi il caso di Atene e segnaliamo innanzitutto come il linguaggio del mito in
questa polis sia presente ovunque a scandire lo spazio pubblico. Lo spazio urbano, sede della vita civica è
scandito in tre luoghi solenni: 1) Acropoli -> collina del potere e del sacro; 2) Agorà -> piazza pubblica; 3)
Ceramico -> il cimitero nazionale. La società, dall’altra parte, si rivela composta dai cittadini ateniesi
maschi, con le loro donne (ateniesi ma non cittadine) e da due categorie di non cittadini, cioè i meteci (gli
stranieri) e gli schiavi.
Come altre città, anche Atene ha i suoi miti che narrano l’origine della polis e le gesta degli eroi nazionali.
Prima di tutto, una città antica ha un mito che le consenta di vantare la propria autoctonia. In questi miti,
gli autoctoni nascono direttamente dalla terra, come una pianta esce dal suolo. In questo modo, la patria si
configura come terra madre, che ha dato vita essa stessa vita ai primi uomini. Il genos autoctono degli
Ateniesi annovera come antenato mitico Erittonio, nel cui nome sarà rilevante notare che si annidi la radice
di χθών, terra. Il mito vuole che Efesto, infiammato di desiderio per Atena, abbia cercato di possederla. In
questo tentativo, che tuttavia fallì, lasciò il suo seme sulla coscia della dea, la quale a sua volta lo raccolse in
un bioccolo di lana e lo gettò a terra. La terra accolse il seme del dio e portò avanti la gestazione dalla quale
nacque Erittonio. Quest’ultimo fu allevato da Atena e divenne il primo re di Atene.
Le implicazioni antropologiche del mito sono evidenti: quell’evento e quella nascita marchieranno con un
segno indelebile i suoi discendenti, i suoi cittadini e nessun processo di secolarizzazione potrà sbiadirne
l’autorità. La terra patria, prima ancora che come suolo civico, verrà celebrata come ventre, come madre che
feconda e genera per partenogenesi il suo primo figlio, l’antenato primordiale.
Un altro esempio è costituito dalla città di Tebe, il cui fondatore, Cadmo vive inizialmente da nomade e
approda in Beozia, stando al seguito di una vacca sacra. L’oracolo delfico gli aveva infatti predetto che
avrebbe fondato una città nel suolo nel quale l’animale si sarebbe inginocchiato, sfinito dalla stanchezza.
Prima di procedere all’edificazione della città, l’eroe dovrà uccidere l’animale-guida e offrirlo quale vittima
del sacrificio edilizio. Anche Cadmo fonda Tebe in uno spazio ancora inabitato; fondata la città, bisognerà
dar vita ai primi uomini, gli Spartoi, i Seminati. Al pari di Erittonio, questi esseri primordiali svetteranno
dalla terra nella quale Cadmo ha seminato i denti di un serpente gigantesco.
Ultimo esempio sarà il mito che sta alla base degli Elleni, antenati comuni a tutti i Greci (per questo è un
primo esempio di koinonia). Deucalione (figlio di Prometeo) e Pirra (figlia di Pandora, la prima donna) sono
uniti in nozze quando l’ira di Zeus scatena un diluvio universale, voluto da Zeus per azzerare un’umanità
ancora non connotata e radicata ad alcuna città-patria (una razza per così dire “imperfetta”). Deucalione e
Pirra vengono risparmiati e per nove giorni si rifugiano dentro un’arca. Alla fine del cataclisma, i due
creeranno una nuova umanità lanciando delle pietre alle loro spalle. Quelle tirate da Deucalione si
trasformeranno in uomini e quelle tirate da Pirra in donne. Più tardi, la coppia primitiva avrà dei figli, tra i
quali Elleno, antenato di tutti i Greci. Con Deucalione e Pirra l’umanità non nasce, piuttosto rinasce dalla
morte di una prima razza, attraverso delle pietre che non sono altro che le ossa della Terra; una terra natale
che sa fare proprio il principio universale della Grande Madre, autofecondandosi e dando vita ai primi
autoctoni, i suoi primi veri figli.
Uno straniero nella città
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Veniamo al momento in cui nella città fa il suo ingresso uno straniero. Andiamo sempre ad Atene per
introdurre finalmente la figura del dio Pan. Secondo Erodoto, l’araldo ateniese Filippide – inviato a
chiedere l’aiuto degli Spartani, ai tempi dell’assedio di Maratona – incontrò il dio Pan che gli ordinò di
chiedere agli Ateniesi per quale motivo non si curavano affatto di lui, nonostante fosse loro favorevole. Per
tale ragione, dopo la vittoria, gli Ateniesi fondarono ai piedi dell’Acropoli un sacrario dedicato a Pan. In
altri termini, nella purezza dell’autoctonia si intromette un Altro, il cui prestigio aiuta a ritrovare la gloria
del Sé. La presenza di Pan ai piedi dell’Acropoli di Atene ratifica l’estraneità dello stato selvaggio nella
città. Insomma, reintegrare il panico è un gesto fondativo necessario per l’edificazione di una polis
democratica. Pan rappresenta lo “straniero eccellente” e con le sue fattezze di dio-capro, contribuirà alla
creazione di un prototipo deviante di straniero caratterizzato da connotati “mostruosi”, che diventano i
tratti somatici stigmatizzati dell’alterità.
Questo ci permette di introdurre una svolta nella nostra argomentazione, che dal binomio alterità-
mostruosità passerà al binomio conseguente mostruosità-identità femminile e infine a quello di sintesi alterità-
femminilità. In altre parole “dovremo ricostruire quel processo occultato dalla prosa storica grazie al quale,
per un cittadino greco, la prima immagine di perturbante estraneità familiare, la prima vera
presentificazione dello stato selvaggio nell’ordine della polis è data dalla donna greca” (p.77).
Ambigui malanni
Come sappiamo dal racconto di Esiodo, Pandora fu un astuto malanno introdotto da Zeus per punire i suoi
figli ma resta da spiegare come e perché costei assume la funzione, d’ora in poi, di riprodurre l’umanità. La
sua funzione generatrice, del resto, può considerarsi rivelata dal suo stesso nome, “tutto dono” o “che tutto
dona”, che la associa alle capacità produttive della terra e della Grande Madre. Eppure, Pandora non è la
madre del genere umano, bensì solo delle donne. In altre parole, la prima donna appare come la capostipite
di una razza a sé, quella delle donne, appunto. Degno di nota è il fatto che Pandora sappia parlare, in
quanto la parola è lo strumento dell’inganno e non sorprende perché ella sia accostata ad una cagna, a
rimarcare quindi lo stretto legame tra razza delle donne e la loro natura selvaggia, ferinica e indomabile.
L’esempio di Pan ci è servito per intuire la necessità di integrazione di un’alterità che rafforza l’immagine e
l’equilibrio della comunità, come se l’equilibrio di una polis risieda nel processo lento e faticoso di
domesticazione di un “panico” primordiale, associato all’immagine selvaggia di una razza straniera. Nella
stessa direzione simbolica va la natura femminile, i cui segni ferinici e selvaggi devono essere intesi non
solo come pericolose deviazioni ma anche come necessarie fonti di fertilità e abbondanza. Le donne, in altri
termini, sono figure costitutivamente ambigue: seppure domesticate nell’ordine della coniugalità, esse
conservano nella propria natura lo stigma dell’animalità.
Andare lontano
Proviamo a questo punto a ripercorrere il destino di Medea per capirne la sua inclusione nel patrimonio
mitico ateniese. Il dramma di Medea sembra poggiarsi sulla contrapposizione tra due culture, quella
ieratica e arcaica di Medea e quella razionale e pragmatica di Giasone. Tuttavia, questa contrapposizione
non è poi tanto irriducibile se pensiamo che alla fine, Medea verrà ospitata ad Atene da Egeo, il quale è
deciso a rispettare il vincolo dell’ospitalità e a non ignorare il principio dell’inclusione dell’Altro. A bene
vedere, inoltre, durante i dieci anni di matrimonio con Giasone, Medea si è dimostrata pronta a dimenticare
le sue potenzialità magiche oltre che i suoi saperi arcani e temibili, per condividere in una nuova patria i
saperi di una sposa fedele e di una madre amorevole. È il tradimento di Giasone a risvegliare la sua natura
ferinica di straniera. Il dolore scaturito dal tradimento lascia riaffiorare la temibilità del corpo femminile,
tanto più perché è un corpo segnato dalla violenza dell’eros. Avvolta da una nube nera, con occhi torvi e
impietriti, Medea patisce ed esibisce sul proprio corpo le stigmate di una passione tradita. La collera di un
corpo tradito si traduce in vendetta spietata contro i propri figli. Per Medea il suo diritto materno si
trasforma in diritto di vita e di morte sui suoi figli, tanto da arrivare a giustificare il suo gesto come atto ad
evitare che la sua prole venga uccisa da mano ancor più nemica. Al termine della tragedia euripidea,
Medea si allontana sul carro del Sole e si reca ad Atene, dove viene accolta, al pari di Pan, come straniera
perfetta. Infatti, ricevette da Egeo non solo il calore dell’ospite ma anche nuove nozze, dalle quali genera
Medo. Ancora una volta però Medea non riesce a reintegrarsi nello spazio civico e viene esiliata insieme al
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figlio, che aveva cercato di uccidere il fratellastro Teseo. Ma è dopo essere cacciato da Atene che Medo si
pone a capo di una moltitudine di barbari in Media, fino a quando viene ucciso in una spedizione contro gli
Indi. Fu allora, invece, che Medea decise di tornare in patria, nella Colchide.
Una straniera nell’Agorà
Passiamo adesso ad esaminare un esempio storico: Aspasia. Amante di Pericle ma nata a Mileto, in Asia
Minore, non poté mai sposarsi con il grande statista. Forse però fu proprio questo che le permise di essere
una donna libera e in quanto tale, brillare sulla scena pubblica per le sue doti strategiche e intellettuali.
Sono però gli stessi anni in cui, per l’equilibrio della polis democratica, il silenzio della donna diventa
precetto assoluto; un silenzio di cui Pericle si fa assertore convinto quando nell’encomio ai caduti del primo
anno di guerra nel II libro di Tucidide, afferma che la gloria più grande di una donna è che non si parli di
lei. Non è certo il caso di Aspasia, di cui si parlava molto nelle pubbliche piazze e nei simposi filosofici.
Aspasia era una hetaira, “compagna”, un termine che sintetizza le doti di una donna spesso colta e raffinata,
che gli uomini greci frequentavano non tanto per i suoi favori erotici, quanto soprattutto per la sua
eleganza e il suo spirito. Possiamo dire che l’Atene del V secolo vede la figura della donna scomposta in
moglie e cortigiana: una moglie relegata nel silenzio domestico, madre di figli legittimi, priva di personalità
giuridica e di qualsiasi autonomia personale; viceversa, una cortigiana sempre disponibile, esperta nei
piaceri dell’amore, intelligente e buona consigliera; tacita e muta, la prima, intellettuale, libera e licenziosa
la seconda.
“E sebbene il prestigio della colta milesia passi attraverso le sue doti intellettuali, non meno di quelle
seduttive, sua vicenda umana, con le sue luci e le sue ombre, finisce per associarla più che non si creda a
quelle donne mitiche tollerate per l’equilibrio della vita sociale, ma sulle quali la paideia civica segna,
indelebile, il marchio della colpa” (p.88).
Circa le sue doti seduttive, occorrerà sottolineare che Aspasia porta già nel nome la forza del suo potere
erotico: il verbo aspazomai significa infatti “abbracciare, baciare”. Una prova del suo amore incrollabile
diede Pericle quando Aspasia fu processata per empietà, o forse fomentazione della guerra, o forse ancora
propaganda filopersiana (si fa sempre fatica a ricostruire i fatti di una storia al femminile). In questa
occasione si dice che il grande statista pianse senza pudore davanti ai giudici, chiedendone l’assoluzione.
Quanto alla fama delle sue doti intellettive, basterà qui ricordare il passo del Menesseno di Platone, in cui
Socrate parla di Aspasia come maestro di retorica (e non maestra! Forse perché l’idea di maestro al
femminile per i Greci era intraducibile? O forse perché Socrate quasi stenta a riconoscerle la paternità
sull’epitafio che le viene attribuito?).
Pericle e Aspasia ebbero un figlio, Pericle il Giovane, che tuttavia, essendo per metà straniero, non avrebbe
mai potuto ricevere la cittadinanza e quindi ricoprire una benché minima carica ad Atene. Un decreto fatto
approvare dallo stesso Pericle nel 450 infatti limitava la cittadinanza solo a chi era di padre e madre
ateniese. Ma la peste che decimò la popolazione si era portata via i figli legittimi che Pericle aveva avuto
dalla sua prima moglie e affinché per la mancanza di eredi, non si estinguesse il suo ghenos, chiese e ottenne
l’abrogazione di quella legge. Ciò nonostante, un brutto destino perseguitò Pericle il Giovane, che fu
condannato a morte, insieme agli altri strateghi, in quel processo che ci fu dopo le Arginuse contro chi non
prestò soccorso ai naufraghi per le cattive condizioni del mare. Di certo, la sorte del “figlio straniero” di
Aspasia ricorda quella prefigurata da Medea per i suoi figli. Recuperato alla vita civica con una legge
voluta dal padre, verrà messo a morte da quella stessa madre-patria che lo aveva ammesso alla vita sociale.
È evidente che la storia ha preso il sopravvento sulla parola mitica.

4.Viaggiare altrimenti
Giunti a questo punto, intraprenderemo un viaggio di ritorno sulle tracce di Achille, Ulisse e Edipo.
Faremo questo cammino, scandendolo secondo i tre paradigmi scenici della tragedia classica: il prologo
(l’esposizione degli antefatti per Achille), la parodo (l’ingresso di una voca corale per Ulisse) e l’esodo (il
momento finale per Edipo). Cercheremo di intendere i loro viaggi anzitutto come metafore di una

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separazione primaria che li fa prigionieri, li àncora al tema natale e in nome della quale ogni ritorno (nostos)
al tempo reale presuppone un dolore (algos), una nost-algia.
Prologo: Achille e l’ossimoro nostalgico

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