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Manicheismo: dottrina che crede nella compresenza dei principi complementari di Bene e Male.
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È fin troppo noto il rapporto di Achille (figlio della dea Teti e del mortale Peleo) con le acque marine. L’eroe
torna costantemente al mare per invocare piangendo la figura materna, è ad esso che confida le sue
sofferenze. Inoltre, nell’acqua avrebbe subito la sua prima prova iniziatica quando Teti lo immerse nello
Stige per renderlo invulnerabile, tralasciando però il tallone, dal quale teneva il neonato. Già nell’Iliade è
esplicitata la devozione dell’eroe per il fiume Spercheo, al quale per volere del padre avrebbe dovuto offrire
le sue chiome, al rientro dalla guerra; chiome che invece donerà all’amico Patroclo, per favorirne il viaggio
nell’oscurità dell’Ade. Il dono votivo mancato si colloca nell’ambito di un rito di passaggio, previsto in età
arcaica, secondo il quale ogni nato maschio dedicava, appena raggiunta l’efebia, un ricciolo della propria
chioma al fiume della sua terra in segno di riconoscenza per esservi stato allevato. Tali fiumi venivano
chiamati kourotrophoi, allevatori di giovinetti. È grazie alla locale divinità fluviale che il corpo del giovane
alle soglie della pubertà e il suo liquido seminale, preposto alla riproduzione, raggiungono la loro
pienezza. È in nome di una temeraria dimestichezza con il mondo fluviale che Achille può compiere a
Troia una strage di nemici, affidando i loro cadaveri alle acque sacre del fiume Scamandro. Proprio davanti
alle due sorgenti dello Scamandro, Achille porterà a compimento la sua vendetta, uccidendo Ettore. E solo
allora, disteso sulla riva del mare, consegnando il proprio corpo stremato al ritmo regolare dei flutti delle
onde, Achille cadrà in un sonno avviluppante che promuoverà l’incontro onirico con l’amico Patroclo.
Nel segno dell’acqua, la statura eroica di Achille si prolunga in quella di Ulisse, infatti entrambi compaiono
nei rispettivi poemi in uno scenario epico asperso di acqua e pianto. Achille fa la sua prima comparsa
nell’Iliade, mentre piange e chiede il conforto della madre Teti; Ulisse in Odissea V piange seduto sulla riva
del mare, desiderando di tornare a casa. L’intera Odissea potrebbe poi essere interpretata come l’epopea di
un eroe sui pericoli dell’onda; un’onda marina che rafforza l’immagine della donna fatale e inquientante.
Non a caso, Ulisse affronta Scilla e Cariddi, le Sirene, Circe. Grazie a quest’ultima, Ulisse può attraversare il
fiume Oceano e scendere nell’Ade, dove percorrendo acque nictomorfe, contemplerà per l’ultima volta il
volto materno.
Nel segno di un’acqua domesticata e lustrale, si colloca invece il riconoscimento di Ulisse da parte di
Euriclea.
L’acqua torna persino nelle Coefore di Eschilo, in cui Elettra nel tentativo di risvegliare l’anima del padre,
versa sulla sua tomba dell’acqua votiva. Ciò si accorda con le consuetudini arcaiche che consistevano nel
versare acqua sui corpi dei morti e sulle loro tombe; acqua che veniva ricevuta e bevuta direttamente dalla
psyche disidratata del defunto. Il rinvenimento di una ciocca di capelli deposta da Oreste sulla tomba del
padre proietta il gesto votivo di Elettra nel circuito esemplare di una rinascita simbolica. Tenendo fede ad
un obbligo rituale, di cui già il Pelide avvertiva la sacralità, anche Oreste, arrivato ad Argo, dona una ciocca
di capelli al padre defunto e un’altra al fiume Inaco, kourotrophos della sua regione. In altre parole, acqua e
capelli si trovano associati in questo percorso di morte-rinascita.
Specchi d’acqua come presagi dell’abisso
L’acqua invocata da Fedra, consunta d’amore per Ippolito in Euripide, torna a riassumere sulla scena
tragica lo specchio deformante di una potenza nefasta, associata a creature femminili. Fedra reclama il
refrigerio di una rorida fonte nella quale l’uditorio greco non può che riconoscere il richiamo alla linfa del
giovane amante. La metafora acquatica diventa nelle parole di Fedra allusione all’amplesso mancato.
Tutto scorre e nello specchio immaginale in cui scorre la vita gli opposti si toccano, si lambiscono, si
inseguono e sfuggono. Passeremo dunque in rassegna altre tre miti: Narciso, Tiresia accecato per aver visto
Atena nuda e infine Atena intenta a specchiarsi nelle acque di un ruscello.
Narciso viene punito da Nemesi per aver rifiutato la ninfa Eco e si innamora della sua stessa immagine
riflessa nell’acqua, in cui egli vede una fanciulla bellissima che risponde con un sorriso al suo sorriso. La
fanciulla non uscirà mai in superficie e Narciso si consuma d’amore trasformandosi in fiore. Secondo
un’altra versione del mito, si era innamorato invece della sua sorella gemella. In ogni caso, l’acqua torna a
riflettere l’archetipo esemplare della potenza femminile.
Tiresia, per aver visto accidentalmente Atena nuda, pagherà con la sua vista ciò che non è concesso ad un
mortale di vedere ma ottiene in questo modo l’arte della preveggenza.
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Nell’Inno per i lavacri di Pallade, Callimaco ci lascia forse intendere la portata di tale disvelamento,
ricordandoci come la stessa Atena di come rimase inorridita vedendosi riflessa nell’acqua mentre soffiava
in un flauto (usato per simulare le Gorgoni), a tal punto da non voler più usare lo specchio: lo sforzo
dell’insufflazione ha deformato il suo volto sostituendo la solennità del volto divino con il ghigno di
Medusa.
In questo caso, l’acqua si fa elemento di esplicitazione di una verità tanto folgorante quanto raccapricciante.
4.Viaggiare altrimenti
Giunti a questo punto, intraprenderemo un viaggio di ritorno sulle tracce di Achille, Ulisse e Edipo.
Faremo questo cammino, scandendolo secondo i tre paradigmi scenici della tragedia classica: il prologo
(l’esposizione degli antefatti per Achille), la parodo (l’ingresso di una voca corale per Ulisse) e l’esodo (il
momento finale per Edipo). Cercheremo di intendere i loro viaggi anzitutto come metafore di una
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separazione primaria che li fa prigionieri, li àncora al tema natale e in nome della quale ogni ritorno (nostos)
al tempo reale presuppone un dolore (algos), una nost-algia.
Prologo: Achille e l’ossimoro nostalgico