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BAKHITA

racconta la sua storia


Presentazione
La storia dolorosa, ma anche meravigliosa, di
Madre Giuseppina Bakhita, considerata alla luce
dei provvidenziali disegni di Dio, richiama alla
mente una antica profezia biblica: “Da oltre i
fiumi di Etiopia i miei supplicanti mi porteranno
offerte'” (Sofonia, 3, 10). Proveniente dalla
regione del Darfur, situata al di là dei grandi
fiumi africani la piccola schiava, dopo aver
ricevuto con la libertà la luce della fede, altro non
aveva da offrire a Dio che la propria vita:
consacrandosi con la professione religiosa nel
benemerito Istituto delle Suore Canossiane,
avverava nella propria persona l'antica profezia.
Sradicata con violenza da un villaggio sperduto
nella zona occidentale del vastissimo Sudan, è
seguita a passo a passo dalla Divina Provvidenza
che, proprio attraverso la dolorosissima esperienza della schiavitù, la guida alla fede
cristiana, alla consacrazione religiosa, alla santità. L'itinerario spirituale dell'umile
suora africana viene ora ripresentato al pubblico con fine intuito e viva
partecipazione da Sr Maria Luisa Dagnino. Intenzionalmente ha voluto proporio in
forma nuova, diversa da quella delle altre numerose biografie, già edite in varie
lingue. Infatti, come appare dal titolo, è Bakhita stessa che racconta la sua storia,
scritta nel 1910 per ordine della sua Superiora. Si sa che a suo tempo, la prima
biografa Ida Zanolini ha utilizzato l'intervista fatta a M. Giuseppina Bakhita nel 1929
a Venezia, influendo poi sulle successive biografie. Ma nessuno finora ha attinto dal
manoscritto del 1910, che, cronologicamente più vicino ai fatti narrati si presenta
come documento più genuino e spontaneo, di altissimo valore spirituale, pur nella sua
ingenua e fresca semplicità. Ottima pertanto è stata l'idea di pubblicare l'edizione
integrale del prezioso manoscritto, che occupa la parte centrale di questo pregevole
volumetto: è opportunamente preceduta nella prima parte da una breve ma essenziale
contestuazione storico-geografica; ed è seguita, nella terza parte, da una esauriente e
ordinata raccolta di testimonianze sulla santità di M. Giuseppina Bakhita, desunte
fedelmente dai documenti ufficiali del processo canonico di beatificazione e cano-
nizzazione. (…). P. Aldo Gilli Missionario Comboniano Roma, 8 febbraio 1989.

PARTE PRIMA
L'insidia
Due ragazzine, parlottando fra di loro da vere amiche quali sono, occhi all'erta sul
vasto manto verde, vanno cogliendo piccoli cespi di erba gir-gir che con gesto svelto
mettono in bocca e brucano con gusto innocente. La piu piccola aveva appena scorto a
portata di mano un mazzetto del tenero trifoglio agro-dolce e stava per chinarsi a
coglierlo quando, d'improvviso, lei e la sua compagna vedono pararsi davanti due
stranieri. Uno dice alla più grande: "Lascia che questa piccina vada là, presso il bosco
a prendermi un involto che vi ho dimenticato. Tu, prosegui per la tua strada e ti
raggiungerà subito". La piccola va di corsa verso il bosco. Non trovando l'oggetto
indicato, s'interna nel fitto della sterpaglia. In quella, si trova alle spalle i due stranieri.
Uno l'afferra con violenza per la mano, ed estraendo un coltello dalla cintura, glielo
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punta sul fianco e, "Se gridi, sei morta! avanti, seguici". Impietrita dalla paura, gli
occhi spalancati e tremante da capo a piedi, fa per gridare, ma le rinnovate minacce
glielo impediscono. Costretta a trattenere financo i singhiozzi che tutta la scuotono, la
forzano avanti nel fitto del bosco, finché, decisi, si fermano: "Di' un po', come ti
chiami?". La bambina, traumatizzata dallo spavento e resa muta dai singhiozzi
repressi, non pronuncia parola. I due, irritati, la spintonano per farla parlare. Nulla.
Infine, il più burbero decide: "Bakhita, ti chiameremo 'Bakhita' – “la fortunata!”. E con
questo nome, quella ignota e innocente piccola Africana è arrivata fino a noi. E come?
E quando? E da dove? A questi interrogativi sarà Bakhita stessa a rispondere. Il
racconto dei fatti però è così concatenato e complesso che, per non interromperne la
narrazione, cominciamo con il dare notizie sommarie della patria della piccola rapita:
il Sudan.

La sua patria: il Sudan


Il Sudan è la più vasta nazione dell'Africa. Con una superficie di 2.506.813 kmq, è otto
volte più grande dell'Italia. Segnano i suoi confini: l'Egitto, la Libia, il Ciad, la
Repubblica Centro-Africana, lo Zaire, l'Uganda, il Kenya, l'Etiopia e a Est, per 500
km, il Mar Rosso. Questa immensa regione alberga nel suo ambito quasi interamente il
bacino del Nilo, i cui rami, il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, si uniscono a Khartum. Di
lì il fiume, dopo avere aggirato con due grandi anse il deserto di Bayuda e superato
con quattro cataratte un dislivello di oltre 250 m, entra in Egitto a Uadi Halfa. Il clima
e la vegetazione sono varie, come varia è la configurazione del paese: piovosità nulla
nel deserto, ricche culture lungo il Nilo; per tutto il resto steppa e savana. L'esploratore
Guglielmo Godio, che visitò il Sudan nella seconda metà dello scorso secolo, parla
con molta simpatia delle popolazioni sudanesi, che assicura "buone per indole, ospitali
e leali. Gli uomini camminano armati di lunghe lance, di enormi spadoni e di pesanti
scudi confezionati con pelli di bufalo, di ippopotamo o di elefante. Sono assai belli,
dal portamento fiero, con capelli irsuti, acconciati in una foggia tale che, a prima vista,
incutono un senso di rispetto. Le donne pure hanno una certa prestanza, anche se assai
più dimesse; su di loro ricade il faticoso impegno di recarsi al pozzo, spesso assai
lontano, per attingervi acqua con otri di pelle detti ghirbe. La caccia presso queste
popolazioni è in onore e viene praticata con lance e frecce, però l'occupazione
principale è l'allevamento di animali da pascolo!" Nella geografia medioevale,
chiamavano questa regione Bilàd as-Sudàn, cioè "Paese dei Negri". Tribù negroidi
sono di fatto al sud, mentre al nord sono arabizzati anche per i facili rapporti col vicino
Egitto. Le vicende storiche di questo paese sono strettamente collegate con quelle
dell'Egitto, e ciò fin dal 288 a.C. Per mezzo di quella tortuosa e volubile via che è il
corso stesso del Nilo, gli echi delle glorie faraoniche arrivarono fino a questo oscuro
paese: ne fanno testimonianza i monumenti antichissimi, tuttora reperibili nel Sudan.
La storia nota come anche i Romani, divenuti sovrani d'Egitto, tentarono d'intrigarsi
con il Sudan. Verso il 66 d.C., Nerone spedì in esplorazione due centurioni che, al
ritorno, dichiararono il paese troppo povero per essere degno di conquista". Pare però
fossero arrivati non oltre il deserto nubico. Altri furono di differente parere. Nel VII
secolo gli Arabi, preso possesso dell'Egitto, si spinsero sulla Nubia e iniziarono razzie
e regolare commercio di schiavi, imponendo a tutti la religione Islamica. Nel 1805, il
governo turco nominò Khedive (viceré) d'Egitto Mohammed Aly con la missione di
stabilire sul paese l'autorità ottomana. Mohammed invece sogna di fare un impero
personale ed ereditario non solo dell'Egitto, ma anche del Sudan. Per mezzo di mene
non poche, riesce veramente a rendere ereditaria nella sua famiglia la carica di
governatore. Morto lui nel 1849, gli succede il nipote Abbas, poi il figlio Mohammed
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Said e ancora il figlio di questi, Ismail pure lui col titolo di Khedive. Grande pedina
del giuoco di Mohammed Aly è il Sudan che egli fa occupare nel 1820 da un altro suo
figlio, Ibraim. Eliminati i vecchi principati, fa costruire una capitale unica: Khartum,
alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro (1823). Ismail tenta di affermare il
suo potere sul Sudan: a tale scopo, si allea nel 1869 con funzionari europei a cui affida
posti di comando nel Sudan, recentemente conquistato. Trovatosi davanti a difficoltà
finanziarie insormontabili, si vede costretto a subire l'ingerenza francese prima, e poi
l'inglese. Mentre l'Inghilterra s'appresta a intervenire, fa la sua comparsa un sedicente
"inviato da Dio" o Mahdi, certo Mohammed Ahmed ibn Abdullahi che, lasciato il suo
eremitaggio dell'isola di Abba sul Nilo Bianco, si lancia alla conquista del Sudan e del
mondo intero all'ideale islamico. Il Mahdi, con le sue supposte visioni celesti e virtù
taumaturgiche, passa in realtà di vittoria in vittoria. Sulla traiettoria di tanto disastrosa
avanzata si trovano, non a caso, stazioni missionarie cattoliche, impiantate dal
Comboni a Malbes, Delen e ad El Obeid. Tutto fu saccheggiato e distrutto. I missionari
e le suore, fatti prigionieri, furono posti davanti all'alternativa: "Islam o morte". Tutti a
una voce, e anche singolarmente, si dichiararono pronti a morire, piuttosto che
rinnegare la loro fede cattolica. Di fatto, quattro di loro perirono di stenti e di malattie,
lungo una prigionia che durò oltre dieci anni. Caduto El Obeid il 19 gennaio 1883, a
causa soprattutto della defezione degli abitanti del luogo, anche Khartum fu facilmente
accerchiata. Lo stesso valoroso e magnanimo generale Charles George Gordon fu
trucidato. Era il 26 gennaio 1885. La "guerra santa" del Mahdi aveva raggiunta una
agognata meta, anche se non ultima negli ambiziosi piani del suo regista che si era
proposto la conquista del mondo. Con questi e altri apocalittici disegni di gloria, il
Mahdi moriva il 22 giugno 1885. Il califfo Abdullahi, già designato dal Mahdi come
suo successore, si installa al suo posto con pieni poteri. Le guerre e le distruzioni
continuarono ininterrotte, fino a che nel 1898 fu stabilito il dominio anglo-egiziano.
Tramontato il quale, questa grande nazione raggiunge l'indipendenza il 1° gennaio
1956 e da allora è nota come Repubblica Indipendente del Sudan.

Il Sudan cristiano
E’ proprio della sapienza di Dio trarre bene dal male. Sembra che i primi
evangelizzatori dell'Egitto e del confinante Sudan fossero Cristiani fuggiaschi, in-
calzati dalla furia delle persecuzioni romane. È storicamente provato che fin dal sesto
secolo vi fosse in Sudan un espansione missionaria bene organizzata. Nel 580 il re di
Soba scriveva al re di Dòngola: "Cristo è con noi". Altri assicuravano: "Nella Nubia vi
sono dappertutto chiese cristiane, dove il Vangelo di Cristo è proclamato". Ma
l'avanzata islamica, di cui abbiamo già parlato, lasciò il deserto sul suo passaggio. Di
un millennio di vita cristiana nulla restava se non "ruderi di chiese, monasteri e
cimiteri" La Chiesa apparentemente sembra perdere le sue battaglie, ma vince la
guerra. Battaglia perduta la prima e la seconda, ingaggiata nel Sudan da missionari
francescani nel XVII secolo; perduta quella di molti altri che seguirono, vari per
nazionalità, ma unici nell'ideale, per il quale tutto diedero di sé fino al sacrificio
supremo della vita. Le tombe di ventidue giovani missionari segnano la via del
Vangelo attraverso il Sudan. Eppure, nessuno di loro mori' "vinto". Don Francesco
Oliboni, così parlava nella sua agonia: "Fratelli, io muoio e sono contento, perché così'
piace a Dio; ma voi non vi dovete perder d'animo. Non lasciatevi smuovere dal vostro
proposito... E se anche uno solo di voi rimanesse, non gli venga meno la fiducia, né si
ritiri... Dio vuole la missione africana e la conversione dei negri, io muoio con questa
certezza. Il grido profetico pronunciato da questo eroico missionario fu colto da Don
Daniele Comboni che tradusse poi il suo impegno apostolico nel motto: "O Nigrizia, o
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morte!". Questo, che suona come grido di guerra, fu di fatto il programma di conquista
dell'Africa a Cristo, sognata e patita dal grande Comboni. Ne comincia la
realizzazione proprio nelle regioni occidentali del Sudan: Kordofan e Gebel Nuba, con
una stazione centrale a Khartum. È a questo punto, e proprio in questi luoghi che la
storia della missione cattolica, se pur tracciata a volo d'uccello, si incrocia con la storia
personale di Bakhita. La sua marcia forzata inizia a Olgossa, villaggio presso il colle
Agilere di fronte al monte Marra. A tappe cariche tutte d'avventure, arriva nel
Kordofan. Nessuno si meravigli però se Bakhita, nelle varie soste della sua servitù,
non ebbe neppure sentore dell'esistenza di una chiesa cattolica neanche nelle capitali.
La sua condizione di schiava la relegava severamente agli ambienti designati dalle sue
padrone. Nel suo racconto Bakhita neppure accenna a una uscita in città: era cosa
impensabile.

Quale religione?
Quale religione professava Bakhita nella sua famiglia? Si sa che anche la regione del
Darfur era sotto potere musulmano, il che significa progressiva islamizzazione dei
sudditi. Data però la posizione isolata sia della regione in generale, come del suo
villaggio in particolare, appare evidente dalle sue stesse parole, ch'ella non avesse idea
alcuna di un Dio unico universale. Disse anzi esplicitamente di "non aver conosciuto
Dio"; però "di non avere adorato idoli". Da ciò si deduce che la sua famiglia e
fors'anche tutto il villaggio, praticavano, da tempi immemori, l'animismo. Tale
religione non ha né fondatore, né profeta, ha un culto: le anime degli antenati; un
ambiente: la famiglia, il villaggio e la tribù; una tradizione: che è saggezza ed
esperienza accumulata lungo i secoli. Gli aspetti specifici dell'animismo cambiano da
luogo a luogo, tanto che la varietà delle espressioni cultuali è pressoché infinita.
Costante però è la tendenza di attribuire un’anima, non solo all'uomo, ma anche agli
animali, alle piante e alla natura inorganica. Rispetto all'uomo, risalta evidente la
credenza nella sopravvivenza dell'anima, distinta dal corpo, come in una vita ultra-
terrena. L'anima è concepita in funzione del processo respiratorio: cessato questo,
cessa la vita. Dalla inafferrabile leggerezza e volatilità del respiro, consegue l'idea di
un' anima immateriale, palpitante però in tutte le manifestazioni pulsanti della natura.
Nella prassi scaturisce un profondo senso cultuale per i morti, grande rispetto per gli
anziani, in quanto sono a loro più vicini, come lo sono i bambini ancora prima di
nascere: da qui l'alto onore in cui è tenuta la maternità; nonché l'idea che la natura tutta
quanta è pervasa dall'influsso delle anime dei morti. Era questa la struttura religiosa e
sociale che ordinava la tribù da cui Bakhita proveniva. Poteva quindi con ragione
asserire di "non' avere mai adorato idoli". D'altra parte era vero anche il suo
rimpianto: "Se durante la mia lunga schiavitù avessi conosciuto Dio, quanto meno
avrei sofferto!"

Che lingua parlava?


Si sa che in Africa, come in altre parti del mondo, ognuno parla la lingua propria della
sua tribù, casta o regione. Fu così anche per Bakhita: fino all'età di otto anni, cioè fino
a quando fu catturata, parlò la lingua della sua tribù Dagiù. Dopo, come ella stessa
narra, pur passando da padrone a padrone, visse per quasi dieci anni in ambienti
arabizzati; giovane com era, avrà quindi facilmente appresa la lingua araba. Dal
momento però che entrò nella casa dell'agente consolare italiano, deve aver
cominciato ad apprendere la lingua che si parlava nel nuovo ambiente, dove visse per
due anni. Assunta poi come bambinaia dalla signora Turina Michieli, deve avere
senz'altro parlato l'italiano, come lo esigeva la sua posizione presso la figlioletta della
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signora. Entrata nella Casa dei Catecumeni di Venezia, ben si suppone che la sua
catechista e maestra - Sr Marietta Fabretti - le impartisse ogni lezione in italiano. Chi
scrive può attestare che Bakhita sapeva parlare e leggere passabilmente l'italiano.
Avendo però passati tanti anni in ambiente veneto (Schio), il dialetto locale le divenne
assai familiare; perché, sembra, nel Veneto la lingua parlata è il... veneto! Tanto è vero
che certe testimonianze, che riempiono volumi e volumi, presentate alla Congregazio-
ne per le Cause dei Santi, sono riportate in dialetto veneto. Fatto constatato: a tutt'oggi,
la vita di questa umile figlia d'Africa è stata narrata in una ventina di lingue diverse fra
europee, africane e asiatiche. E ben a ragione! perché la sua, fu si una vita, per dieci
anni, carica di dolorose avventure; però quanto evidenti appaiono gli interventi della
provvidenza! Ogni incidente è un passo verso la luce.

Vita semplice e beata


È scontato che Bakhita appartiene a una tribù negroide e, come ella stessa ci informa,
la regione da cui proviene è il Darfur, Olgossa il suo villaggio [Ms(a)]. Aloysius
Roche, nella sua biografia di Bakhita, ci dà una descrizione delle abitazioni della tribù
Dagiù, potente dinastia, da cui Bakhita proveniva, con un'arte che potremmo chiamare
pittorica. "In quest'area del Sudan, nei pressi del monte Agilere, le abitazioni dei
paesani hanno caratteristiche talmente simili che, quando ne hai vista una, le hai viste
tutte. Un cortile, campo di giuoco per i bambini, luogo d'incontro per gli adulti e,
importantissimo per i Dagiù, spiazzo da ballo per tutti. Perché questa gente tanto gode
la vita, da doverlo esprimere nel gesto e nel ritmo: si potrà saltare un pasto, ma non
un'allegra ballata. Ben sistemate, attorno al cortile, sorgono le capanne degli abitanti,
due per famiglia: una per i genitori e i bambini piccoli, l'altra come cucina e dispensa;
i ragazzi e le ragazze grandi dormono in ambienti separati. Le capanne hanno forma
circolare: sulla parete di fango è sovrapposto il tetto di paglia, molto simile a un
ombrellone, tenuto sollevato da un palo centrale e da altri laterali per assicurarne
l'aerazione. Se osservi da certa altezza un villaggio dagiù, hai l'impressione di vedere
una enorme fungaia. E pure, ciò che appare così primitivo, ha particolari che arrestano
la tua attenzione. Il tetto di paglia è intessuto in modo così elaborato, da far pensare
che l"'architetto" abbia preso per modello il nido dell'uccello tessitore - un vero pezzo
d'arte! Le peculiarità della capanna dagiù non sono ancora finite. Osservatene l'entrata:
è quasi una fessura per permettere a una persona di passare di fianco. E con ragione!
perché anche in Africa ci sono ladri, non solo, ma terribili bestie feroci e, non meno
terribili, razziatori. Allora era facile, non chiudere la porta che non c'era, ma bloccare
la fessura con cespugli spinosi. Era proprio così. In quel periodo storico, il Sudan in
generale, e la regione Darfur in particolare, erano esposti, di giorno e di notte, a questo
terribile pericolo: bande di negrieri piombavano all'improvviso sui villaggi, involando
uomini, donne e bambini per il mercato umano.

La schiavitù
La schiavitù pare vada al passo con la storia dell'uomo. Non vi è popolo che, in una
forma o l'altra, non si sia reso colpevole di questo magnum scelus, grave delitto, come
lo chiamò Pio Il nella sua riprovazione della pratica, nel 1462. Capi di stato
emanarono leggi, organizzarono persino spedizioni punitive per arginare il dilagare di
tanto grave aberrazione umana, ma con scarsi risultati. "Si deve onestamente prendere
atto e dar lode ai missionari e ai pontefici che agirono in modo decisivo contro la tratta
degli schiavi". Figure di primo piano, come gli spagnoli Bartolomeo Las Casas (1474-
1566) e Pietro Claver (1580-1664), il francese Charles Lavigerie (1825-1892) fon-
datore dei Padri Bianchi; gli italiani Massaia (1809-1886), Don Biagio Verri (1819-
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1884) con Nicolò Olivieri (1792-1838) e mons. Daniele Comboni (1831-1881),
diedero tutto di sé per la redenzione degli schiavi. Papi di tutti i tempi alzarono la loro
voce in difesa dei diritti e uguaglianza di tutti gli uomini, monito che, sotto molti
aspetti, è valido tuttora, perché vari sono i modi di schiavizzare l'uomo. Riferendoci
ancora alla storia del Sudan, si sa di certo che il Darfur, patria di Bakhita, era stato
conquistato e annesso all'Egitto nel 1874. Con tale politica di espansione si aveva di
mira anche l'abolizione della tratta degli schiavi. Ciò si verificò in modo chiaramente
evidente quando furono messi in carica amministratori europei, come l'inglese Charles
George Gordon (1833 - 1885) e il ravennate Romolo Gessi (1831 - 1881), i quali
intrapresero una decisa lotta contro lo schiavismo. La completa abolizione della
schiavitù africana però risultò problema di non facile soluzione. È vero che alla
formale legislazione inglese del 1833, seguì, al Congresso di Parigi del 1856, la
sanzione della schiavitù, sottoscritta dalle potenze europee e dallo stesso Egitto. Allora
ci si chiede: come mai dopo tanti formali trattati, si verificarono ancora, come nel
villaggio di Bakhita, razzie schiaviste, a così breve distanza l'una dall'altra? La risposta
a tale interrogativo si legge in una lettera che Mons. Comboni scrive nel 1873 da El
Obeid. "Il governo islamico che aderì al trattato del 1856, vi aderì sulla carta", per cui
nell'Africa centrale la schiavitù è ancora "nel massimo vigore" e "il grido di dolore di
questi popoli non giunge in Europa... Così la desolazione di queste contrade continua e
continuerà per molto tempo".

La fonte storica
Che ciò succedesse e come, lo sappiamo dalla viva voce di una delle vittime, la quale,
religiosa canossiana ormai da quattordici anni, ne fece la narrazione quando era
membro della comunità canossiana di Schio, dietro invito della sua superiora Sr
Margherita Bonotto. "Dalla fotocopia del testo, redatto in una grafia da alunna poco
più su della terza elementare, disseminato di errori di ortografia e di grammatica,
emerge un candore che avalla la verità del contenuto" . Questa verità integrale
intendiamo comunicare ai lettori senza interpolazioni e "sfronzoli", direbbe Bakhita.
L'unico ritocco, per rendere il racconto leggibile, si limiterà alla correzione delle
sgrammaticature e a inserire parole che la narratrice, nell'emozione del momento, ha
omesso e quelle saranno evidenziate da parentesi. I nomi dei luoghi di cui Bakhita dà
la pronuncia che le era rimasta nell'orecchio da quando era bambina o aveva colto
lungo la via, saranno scritti nell'ortografia geografica corrente italiana. E.g. Cortonfan
sarà, evidentemente, Kordofan. L'incidentato itinerario da Olgossa, villaggio d'origine,
fino a Khartum, ha quattro soste, di cui Bakhita dà un solo nome. Né ci dà i nomi delle
sue compagne di schiavitù; quindi noi non intendiamo né tirare a indovinare, né
affibbiare nomi a chi, pur svolgendo un ruolo di certa importanza nella vita di questa
eletta figlia d'Africa, resta nell'anonimato. Carta geografica alla mano, possiamo solo
calcolare che dal suo villaggio di Olgossa, nell'estremo sud della regione del Darfur,
fino al Kordofan, Bakhita ha percorso a piedi, a passo di marcia forzata, 600 km, senza
contare la corsa fuori pista della fuga che durò tutta una notte e un giorno. Il viaggio
dal Kordofan a Khartum, fu a dorso di cammello e durò "vari giorni". A questo punto
lasciamo la parola a Madre Giuseppina Bakhita e seguiamo a passo a passo il
racconto, così come è uscito dalle sue labbra: tanto più fascinoso e interessante in
quanto pure è la prima volta che viene dato alla stampa nella sua forma originale.

PARTE SECONDA
Scoppia il dramma
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"La mia famiglia abitava proprio nel centro dell'Africa, in un sobborgo del Darfur,
chiamato Olgossa, vicino al monte Agilere. Era formata dal padre, dalla madre, tre
fratelli e tre sorelle. Io ero gemella di una sorella, della quale, come dei genitori, io
più nulla seppi da quando fui rubata. Vivevo allora pienamente felice, senza sapere
cosa fosse dolore. Un giorno, mia madre pensò di portarsi nei campi dove (avevamo)
molte piantagioni e bestiame, per vedere se tutti i lavoratori attendevano al loro
dovere, e voleva che la seguissimo tutti noi figli. La maggiore, che si sentiva
indisposta, chiese e ottenne di fermarsi a casa con la sorella minore. Se non che,
mentre noi eravamo nei campi, sentimmo un parapiglia, un gridare e un correre,
ognuno immaginò subito essere i negrieri entrati nel paese a derubare. Tornammo
subito a casa e quale non fu il nostro dolore nel sentire dalla piccina, tutta spaventata
e tremante, come i razziatori avessero portata via la sorella (maggiore), ed ella avesse
appena fatto in tempo a nascondersi dietro il muro di una casa diroccata, altrimenti
sarebbe stata rapita anche lei. Ricordo quanto pianse la mamma, e quanto pian-
gemmo noi pure. La sera, tornato il padre dal lavoro, sente dell'accaduto. Monta sulle
furie e subito, con i suoi lavoratori, armati di lance, com'è loro costume, fanno inda-
gini per tutta la notte e parte del giorno seguente. Ma inutilmente. Non si seppe più
nulla della povera sorella. Questo fu il mio primo dolore e oh! quanti e quanti me ne
aspettavano di poi!".

Il suo turno
" Avevo nove anni circa quando un mattino, dopo colazione, andai con una mia
compagna di dodici o tredici anni, a passeggio nei nostri campi, un po' discosti da
casa. Interrotti i nostri giuochi, eravamo intente a raccogliere erbe. Ad un tratto
vediamo sbucare da una siepe due stranieri. Uno di loro disse alla mia compagna:
'Lascia che questa piccina vada là presso quel bosco a prendermi un involto, tornerà
presto, tu prosegui per la tua strada e ti raggiungerà subito'. È evidente che il loro
piano era di allontanare l'amica, perché, se fosse stata presente alla cattura, avrebbe
gettato l'allarme. Io non dubitavo di nulla. Mi prestai a ubbidire come sempre facevo
con mia mamma. Ma, come mi ero internata nel bosco per cercare l'involto che non
trovavo, mi vidi quei due alle spalle... Uno mi prende bruscamente con una mano, con
l'altra estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce
imperiosa, 'Se gridi, sei morta, avanti seguici!' mi dice, mentre l'altro mi spingeva
puntandomi le canne di un fucile alla schiena. Io rimasi impietrita dalla paura. Gli
occhi spalancati e tremante da capo a piedi, faccio per gridare, ma un nodo alla gola
me lo impedisce: non riesco né a parlare, né a piangere". È a questo punto che,
interrogata come si chiamasse, la bambina, traumatizzata dallo spavento e impedita dai
singhiozzi repressi, non riesce a rispondere. "Bakhita, ti chiameremo 'Bakhita', 'la
fortunata!' ". E con questo nome è arrivata fino a noi. "Spinta con violenza nel fitto del
bosco, per sentieri mai battuti, attraverso campi, sempre a passo svelto, mi fecero
camminare fino alla sera. Ero stanca morta, avevo i piedi e le gambe sanguinanti,
causa le schegge dei sassi e le punture di piante spinose. Scoppiai in pianto, ma quei
cuori duri non sentivano nessuna pietà. Lungo questa marcia forzata, ci imbattemmo
in un campo di cocomeri. I due ne colsero, si misero a mangiarli e ne offersero anche
a me. Ma io non potevo proprio inghiottire niente, eppure era dal mattino che non
mangiavo. Non avevo in mente che la mia famiglia: chiamavo mamma e papà, con
un'angoscia d'animo da non dire. Ma nessuno là mi udiva. Di più: mi si intimava
silenzio con terribili minacce, mentre così, stanca e digiuna, mi facevano riprendere il
viaggio che durò senza soste tutta la notte. Al primo albeggiare, entrammo nel loro
paese. Non ne potevo proprio più. Uno di essi mi afferrò per una mano e mi trascinò
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nella sua abitazione, mi introdusse in un bugicattolo pieno di arnesi e di rottami, ma
non vi erano né sacchi né letto, solo il nudo terreno. Mi diede un pezzo di pan nero e
mi disse: 'stai qui', e uscendo chiuse la porta a chiave. Stetti colà più di un mese. Un
piccolo foro in alto era la mia finestra, l'uscio veniva aperto per brevi istanti per
darmi un magro cibo. Quanto io abbia sofferto in quel luogo, non si può dire a parole.
Ricordo ancora quelle ore angosciose quando, stanca dal piangere, cadevo sfinita al
suolo in un leggero torpore, mentre la mia fantasia mi portava fra i miei cari lontano
lontano... Lì; vedevo i miei amati genitori, fratelli e sorelle e tutti abbracciavo con
trasporto di tenerezza, narrando come mi avevano rapita e quanto avevo sofferto.
Altre volte mi sembrava di giuocare con le mie amiche nei nostri campi, mi sentivo
felice, ma ahimé, tornata alla cruda realtà dell'orrida solitudine, mi pigliava un senso
di scoramento che mi pareva mi si spezzasse il cuore".

La prima e la seconda vendita


"Una mattina mi viene aperto l'uscio prima del consueto. Il padrone mi presenta a un
mercante di schiavi che mi compera e mi unisce a degli altri suoi schiavi, erano: tre
uomini, tre donne, fra cui una fanciulla di poco maggiore di me. Tosto ci mettemmo in
viaggio. Il vedere la campagna, il cielo, l'acqua, il poter respirare l'aria libera, mi
ridiede un po' di vita, quantunque non sapessi dove andavo a finire. Il viaggio durò
otto giorni di seguito, sempre a piedi: per boschi, per monti, per valli e deserti. Pas-
sando per i paesi, la carovana si ingrossava sempre più, la quale era così disposta:
prima gli uomini, poi le donne, (i primi) venivano legati al collo con grossa catena,
serrata da lucchetti a chiave, in fila a due o a tre, guai se qualcuno si piegava o si
fermava, povero collo suo e quello del compagno! Si vedevano attorno al collo di
ciascuno grosse e affondate piaghe che facevano pietà. Poverini! Come fossero bestie
da soma, ai più robusti legavano sulle spalle grossi fardelli che dovevano portare per
miglia e miglia. Noi più non avevamo la catena camminavamo in piccole ultima fila in
mezzo ai padroni. Ci fermavamo solo qualche ora a riposare o a prendere cibo.
Allora veniva tolta la catena dal collo e posta al piede a distanza di un passo l'uno
dall'altro, onde impedire la fuga. Questo si faceva anche a noi piccole, però di notte
solo. Finalmente sostammo al mercato degli schiavi. Fummo introdotti tutti in un
camerone, in attesa del turno di vendita. I primi smerciati furono i più deboli e
malaticci per timore che peggiorando, ne andasse perduto il guadagno. Mentre
andava avanti la scelta, l'intesa e la vendita di ciascuno, noi due più piccole,
trovandoci sempre vicine, perché legate ai piedi dalla stessa catena, nei momenti in
cui non eravamo osservate, ci raccontavamo l'un l'altra come eravamo state rubate.
Parlavamo dei nostri cari e sempre più si accendeva in noi il desiderio di ritornare in
famiglia. Mentre si piangeva sulla nostra infelice sorte, si andava progettando
qualche piano di fuga. Il buon Dio che vegliava su di noi, senza che pur lo
conoscessimo, ce ne offerse l'occasione. Ecco come.

La fuga
"Il padrone aveva messo me e la mia compagna in una camera separata che egli
chiudeva sempre, specie quando doveva allontanarsi da casa. Una sera torna dal
mercato con un mulotto carico di pannocchie di mais. Entra nella nostra tana, ci
toglie la catena dai piedi e ci ordina di scartocciare le spighe e di darne da mangiare
al mulo". Visto come le due ragazzine si erano messe al lavoro di lena, il padrone se
ne va per i suoi affari. "Eravamo sole, senza catena! Provvidenza di Dio: era il
momento buono. Un 'occhiata d'intesa, una stretta di mano, uno sguardo all'intorno e,
non vedendo nessuno, via di tutta corsa verso l'aperta campagna, senza saper dove,
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con la sola velocità delle nostre povere gambe. Tutta la notte fu una continua e
trepidante corsa dentro ai boschi e fuori per il deserto. Ansanti e trafelate sentivamo
nel buio i ruggiti delle fiere. Al loro approssimarsi saltavamo sugli alberi per salvarci
"I ragazzi africani, commenta Roche, non sono così facilmente spaventati, meno che
meno da animali feroci. Sono abituati a tali incontri. I loro costumi tribali, le stesse
loro danze, ritmate da interminabili colpi di tamburo, contribuiscono a renderli padroni
dei loro nervi anche da giovani. Qualunque sia stata la loro reazione, inseguite come
furono da un feroce leone, non persero la presenza di spirito. Facendo uso delle mani e
dei piedi, e dei piedi come fossero mani, s’arrampicano sul più vicino albero come due
gatti e sono salve". Assicurate che la fiera se n'era andata, scendono, ma si guardano
bene dal prendere sentieri battuti, per timore di sfortunati incontri. "Infatti, come
camminavamo ormai in pieno giorno, facendoci strada fra sterpi ed erbe selvatiche,
sentimmo il brusìo tipico delle carovane che s'avvicinava. Più spaventate che mai, ci
nascondemmo dietro cespugli irti di spine, per ben due ore un gruppo segui l'altro,
passando proprio davanti a noi, ma nessuno ci scorse. Era il buon Dio che ci
proteggeva, non altri. Io mi credevo che, scon giurati i pericoli, avrei di poi subito
trovato i miei cari: tutto soffrivo volentieri e mi davo animo. Verso l'alba ci fermammo
a prendere fiato come eravamo stanche! Il cuore ci martellava in petto, grosse gocce
di sudore ci cadevano da ogni parte, una fame acuta ci lacerava lo stomaco: non
avevamo nulla... Il desiderio vivo di rivedere i nostri cari e il timore di essere
inseguite ci somministravano ancora la forza di continuare la corsa, mai però come
prima. Ma dove andavamo a finire? Verso il tramonto vedemmo una casupola. Il cuo-
re allora prese a battere più forte. Aguzzammo gli occhi per vedere se era la nostra
(casa): non lo era! Oh, quanta amarezza, quale disinganno! Mentre sfiduciate,
stavamo lì su due piedi a pensare, ci appare davanti un uomo. Spaventate, facciamo
per fuggire ma egli fermandoci il passo, con buone maniere ci chiede: “Dove
andate?”. E noì silenzio. 'Su dite: dove andate?'. “Dai nostri genitori”. “E dove sono
i vostri genitori?”. Là, rispondemmo, indicando confuse una parte, senza saper dove.
Egli allora si accorse che eravamo fuggiasche. ‘Ebbene, disse, venite a riposare un
poco, poi vi condurrò io dai vostri genitori’. Noi, credendo alle sue parole, lo
seguimmo nella casupola. Appena entrate, ci sdraiammo per terra come morte. Ci
diede da bere un po' d'acqua, ma eravamo così sfinite, che non potemmo ritenerla.
Allora ci lasciò sole e, quiete, ci addormentammo. Dopo un 'ora circa, ci condusse
nella sua casa, ci diede da mangiare e da bere e poi ci introdusse in un ovile pieno di
pecore e di agnelli, fece ivi posto per mettervi un angareb poi legandoci assieme per il
piede con una grossa catena, ci comandò di stare in quell'ovile fino ad altro avviso.

"Eccoci di nuovo schiave!"


Bel condurci dai genitori! Quanto piangere! Quanto soffrire! Ci lasciò là, tra pecore e
montoni per più giorni, finché passando di là un mercante di schiavi, ci trasse
dall'ovile e ci vendette a quell'uomo. Camminammo a lungo prima di raggiungere la
carovana. Quale non fu la nostra sorpresa nel vedere tra gli schiavi alcuni di quelli
che appartenevano al padrone dal quale noi eravamo fuggite. Ci descrissero l'ira, il
furore suo quando non ci trovò (al lavoro), dando nelle smanie minacciava di farci a
pezzi quando ci avesse trovate". Bakhita commenta: "Ora sempre più conosco la
bontà del Signore che mi salvò anche allora quasi miracolosamente". "Si viaggiò per
due settimane e mezzo sempre con lo stesso metodo descritto più sopra. In tal viaggio
mi toccò di vedere un povero schiavo che aveva tanto male e non poteva reggersi in
piedi. Pregò il padrone di lasciarlo sedere a riposare un poco. Ma questi, non
credendo, lo percuoteva come fosse una bestia; lo vidi cadere a terra lamentandosi.
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“Mi sento morire, non ne posso più!”. Ma quell'inumano, senza nessuna
considerazione, lo percuoteva ancora perché si alzasse. (Vedendo però che) non si
poteva più muovere, gli dovette levare la catena che lo legava al compagno. Il
poverino gemeva da far pietà. Il padrone allora pieno di rabbia ordinò a noi di
proseguire e si fermò con quell'infelice. Che ne fece? Nessuno lo vide più".

Venduta e comprata per la terza e quarta volta


Giunti finalmente in città, fummo condotti nella residenza del capo. Era un uomo
ricchissimo, aveva già un gran numero di schiavi, tutti nel fior della gioventù. La mia
compagna e io fummo destinate come ancelle delle signorine sue figlie, che presero
subito a volerci bene. Era intenzione del padrone di regalarci a suo figlio quando si
sarebbe sposato. In quella casa fui trattata bene e non mi mancava nulla. Senonché,
un giorno commisi non so quale sbaglio, proprio nei riguardi del figlio del padrone.
Egli subito diede mano allo scudiscio per percuotermi. Io fuggii nell'altra stanza per
nascondermi dietro le sue sorelle. Non l'avessi mai fatto! Montò sulle furie, mi strappò
a forza di là e mi buttò a terra, e con lo staffile e coi piedi me ne diede tante e poi
tante e infine con un calcio al fianco sinistro mi lasciò come morta. Più nulla seppi di
me. Priva di sensi, devo essere stata trasportata dalle schiave sul mio giaciglio dove
rimasi più di un mese. Rimessa dalle battiture, Bakhita riprese il suo posto presso le
giovani padrone, ma il suo destino era segnato: doveva lasciare quella casa alla prima
occasione. E l'occasione venne inesorabilmente tre mesi dopo, quando fu acquistata da
un generale dell'armata turca. Bakhita e un'altra giovane schiava saranno a completo
servizio della madre e della moglie del generale. "Entrambe assai inumane verso i
poveri schiavi, che erano impiegati nei lavori più faticosi in cucina, in lavanderia e
nei campi. Quanto a noi due, non potevamo lasciare le nostre padrone neppure un
momento. Fra vestirle, profumarle e ventilarle, non avevamo posa. E guai a noi se,
per sbaglio o per il sonno, toccavamo anche solo un capello delle signore... Le
frustate ci piombavano addosso senza misericordia; di modo che in tre anni che stetti
al loro servizio, non ricordo d'aver passato un giorno solo senza piaghe, perché non
ancora guarita dai colpi ricevuti, altri me ne piombavano addosso senza sapere il
perché. Un giorno, io stavo raccontando alla mia (nuova) compagna come ero fuggita
dal primo padrone. Inavvertita, la figlia del generale aveva tutto ascoltato temendo
quindi che tentassimo una fuga, mi fece porre una grossa catena ai piedi che dovetti
portare per più di un mese. Mi fu tolta nell'occasione di una grande festa musulmana.,
quando era d'obbligo sciogliere i ceppi a tutti gli schiavi. Al primo albeggiare gli
schiavi dovevano alzarsi. La signora, moglie del generale, era così zelante, che a volte
si alzava prima di tutti per osservare se qualcuno ritardava anche di un sol minuto.
Allora gli era sopra con lo staffile e lo faceva saltare dal dolore, senza tener presente
che il poverino, e ciò succedeva spesso, aveva faticato fino a tarda notte. Gli schiavi
dormivano tutti in un camerone. Avevano assoluto digiuno fino a mezzodì, quando
veniva dato a ciascuno una porzione di carne in umido, polenta, pane e frutta. Alla
sera, una meschina cena e poi a riposo sulla nuda terra. Guai a chi non zittisse!
Quelli che si ammalavano non erano degnati nemmeno di uno sguardo, lasciati in
abbandono non c'era chi pensasse a medicarli o a soccorrerli, quando stavano per
morire, erano gettati nei campi o sul letamaio. Quanti maltrattamenti gli schiavi
ricevono senza alcun motivo. Per esempio, un giorno ci trovammo presenti per caso,
quando il padrone altercava con la moglie. Quegli per sfogarsi, ordina a noi due di
scendere in corte e comanda a due soldati di buttarci a terra per subire la
flagellazione. Quei due con quanta avevano di forza cominciano il supplizio e ci
lasciano tutte e due immerse nel nostro sangue. Ricordo come la verga mirata a più
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riprese sulla coscia mi portò via pelle e carne, mi procurò un lungo canaletto che mi
fece stare immobile sul giaciglio per più mesi. Bisognava sopportare tutto in silenzio,
perché nessuno veniva a medicare (le nostre ferite) né a dirci una parola di conforto.
Quante mie compagne di sventura morirono per i colpi sofferti".

Il tatuaggio
Ma il peggio per la nostra giovane schiava non era ancora venuto. Era costume che gli
schiavi, a onore del padrone, portassero sul corpo dei segni particolari, ottenuti con
tatuaggio per incisione. "Io fino allora non ne avevo alcuno e le mie compagne ne
portavano tanti anche sul viso. Ebbene la nostra signora s'incapricciò di fare questo
regalo a quelle che non erano tatuate. Eravamo in tre. Viene una donna esperta in
questa crudele arte. Ci conduce sotto il portico e la padrona dietro con lo scudiscio in
mano. La donna si fa portare un piatto di farina bianca, uno di sale e un rasoio.
Ordina alla prima di noi tre di distendersi per terra e a due schiave delle più forti di
tenerla una per le braccia e l'altra per le gambe. (L'aguzzina) allora si curva su di lei
e comincia con la farina a fare sul ventre di quella disgraziata una sessantina di segni
fini. Io ero lì con tanto d'occhi a osservare, pensando che dopo sarebbe toccato anche
a me quella sorte crudele. Finiti i segni, prende il rasoio e giù tagli su ogni segno che
aveva tracciato. La poverina gemeva e il sangue stillava da ogni taglio. Non basta.
Finita questa operazione, prende il sale e con tutta forza stropiccia ogni ferita, perché
vi entri a ingrossare il taglio (onde tenerne i labbri aperti). Che spasimo! Che
tormento! Tremava tutta l'infelice, e io pure tremavo, aspettandomi purtroppo
altrettanto. Infatti, portata la prima sul suo giaciglio, viene il mio turno. Non avevo
fiato di muovermi, ma uno sguardo fulmineo della padrona e lo scudiscio alzato, mi
fecero piegare immediatamente a terra. La donna, avuto ordine di risparmiarmi la
faccia, comincia a farmi sei tagli sul petto, e poi sul ventre fino a sessanta, sul braccio
destro quarantotto. Come mi sentissi non lo potrei dire. Mi pareva di morire ad ogni
momento, specie quando mi stropicciò con il sale. Immersa in un lago di sangue, fui
portata sul giaciglio, ove per più ore non seppi nulla di me... Quando rinvenni, mi vidi
accanto le mie compagne che, al par di me, soffrivano atrocemente. Per più di un
mese tutte e tre fummo condannate a stare là, distese sulla stuoia, senza poterci
muovere, senza una pezzuola con cui asciugare l'acqua che continuamente usciva
dalle piaghe semiaperte per il sale. Posso proprio dire che non sono morta per un
miracolo del Signore che mi destinava a MIGLIORI COSE". "Dopo vari mesi di
lontananza, il generale era ritornato nel Kordofan, con la decisa volontà di recarsi ai
suoi paesi in Turchia. Fece dunque i preparativi per la partenza e siccome aveva una
quantità di schiavi, ne scelse dieci, tra i quali anche me, gli altri furono venduti.
Partiti dal Kordofan sui cammelli, dopo vari giorni di viaggio, si fece sosta a Khartum
in un albergo. Lì, mandò fuori la voce a chi volesse comperare schiavi. Si presentò
l'agente consolare italiano di nome Callisto (Legnani). Si volle che io gli portassi un
caffè; lo vidi squadrarmi da capo a piedi, ma non pensavo che progettasse di
comperarmi. Lo compresi solo il mattino seguente, quando il generale turco mi ordinò
di seguire la cameriera del console, aiutandola a portare un involto". Questa fu la
quinta e ultima compra-vendita della giovane schiava sudanese. Una lunga storia si
chiudeva nel suo destino - storia di orrori e di umiliazioni. Per la prima volta, dopo
quasi dieci anni di schiavitù, indossò un vestito.

Verso la libertà e la salvezza


Questa volta, narra Bakhita, fui davvero fortunata, perché il nuovo padrone era assai
buono e prese a volermi bene tanto. Mia occupazione era di aiutare la cameriera nelle
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domestiche faccende, non ebbi rimbrotti, né castighi, né percosse, sicché non mi
pareva vero di godere tanta pace e tranquillità. Due anni e più passarono senza alcun
cambiamento. Quand'ecco il console venne chiamato in Italia per ravi affari Non so il
perché: quando sentii nominare l'Italia, della quale ignoravo la bellezza e gli incanti,
mi nacque in cuore un vivissimo desiderio di seguire il padrone. Egli mi voleva bene
sicché osai pregarlo di condurmi in Italia con lui. Egli mi spiegò come il viaggio fosse
molto lungo e costoso. Ma io tanto insistetti, che mi accontentò. Era Iddio che lo
voleva, lo conobbi di poi... Ancora gusto la gioia che provai allora. Si partì. Eravamo:
il console e un suo amico, un moretto e io. Uniti tutti in una carovana, dopo alcuni
giorni di viaggio, portati dai cammelli, si giunse a Suakin. Ivi il console, in un col suo
amico, si ebbe dopo un mese circa, la triste notizia che una masnada di corsari era
entrata nel paese (città) di Khartum, aveva devastato ogni cosa e involato tutti gli
schiavi. Se fossi rimasta là, sarei certamente stata rubata anch 'io, e che sarebbe
avvenuto di me? Quanto vi ringrazio, Signore, di avermi salvata una volta di più.
Tanto il console quanto l'altro signore furono derubati di tutto e ne erano
spiacentissimi. A Suakin ci fermammo un mese e poi si fece il viaggio in bastimento,
passando il Mar Rosso ed altri mari fino a Genova. Ivi si prese alloggio in un albergo
il cui padrone era ben noto all'amico del console il quale lo aveva pregato di
acquistargli un moretto, per cui gli fu ceduto subito quello che era stato mio
compagno di viaggio. La moglie dell'amico (sig. ra Maria Turina Michieli) che era
venuta ad incontrarlo, vedendo noi moretti, se ne invogliò e chiese al marito perché
non ne avesse condotta una per lei e per la tanto desiderata figlioletta. Il console per
far piacere all'amico e a sua moglie, mi regala a loro e dopo poco tempo si continuò
il viaggio. Il console si diresse a Padova e nulla più seppi di lui. Io con i miei padroni
ci avviammo a Mirano Veneto, dove fui poi per tre anni bambinaia della loro
figliolina. Questa prese a volermi bene e io naturalmente ero portata a ricambiarla di
pari affetto. Scorsi tre anni, tornai con la padrona in Africa a Suakin, dove suo marito
teneva un grande hotel. Si restò colà circa nove mesi dopo i quali il padrone decise
che tutta la famiglia dovesse stabilirvisi. La signora però doveva tornare in Italia per
vendere gli stabili e fare imballaggio del mobilio, intanto io sarei stata in albergo con
la piccina; ma la signora non voleva partire sola e ottenne che entrambe la
seguissimo.

"Africa, patria mia, addio!"


Diedi allora in cuor mio un eterno addio all’Africa. Una voce interna mi diceva che
non l'avrei più riveduta. Ritornata a Mirano, la signora vi stette con noi due anni
circa, ma dovendo ripartire per tornare un 'altra volta (a Suakin), pensò di affidare la
sua piccola e me a qualche collegio per avere un po' d'istruzione. Fu passata parola
alla Congregazione di Carità di Venezia che volentieri si sarebbe prestata a ospitarmi
nel Catecumenato, diretto dalle Suore Canossiane, e lì avrei potuto istruirmi. Ma la
bimba era già battezzata, come e per che scopo lasciarla nel Catecumenato? La
signora non voleva assolutamente dividerci, sicché per più di un mese durò la lotta
senza venire a una conclusione. Intervenne allora il fattore della signora, il signor
Illuminato Checchini, uomo dal cuor d'oro e di illuminata coscienza che ebbe poi fin
che visse un amore paterno verso di me. Fu durante questo mese d'attesa e di
indecisioni, che il sig. Illuminato regalò a Bakhita un crocefisso d'argento. "Nel
darmelo lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era
morto per noi. Io non sapevo che fosse, ma spinta da una forza misteriosa, lo nascosi
per paura che la signora me lo prendesse. Prima non avevo mai nascosto nulla, per-
ché non ero attaccata a niente. Ricordo che nascostamente lo guardavo e sentivo una
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cosa in me che non sapevo spiegare". Il sig. Illuminato era così ansioso che Bakhita
fosse ammessa all'Istituto dei Catecumeni, che diede la sua parola per iscritto e su
carta bollata che, nel caso la signora Turina non avesse assolro al suo dovere, lui
stesso avrebbe pagato la pensione per loro. "Così fummo entrambe ricevute nel
Catecumenato. Io venni affidata con la piccola a una suora addetta all'istruzione dei
catecumeni, non posso ricordare senza piangere, la cura ch 'ella ebbe di me. Volle
sapere se avessi desiderio di farmi cristiana e, sentito che lo desideravo e che anzi
venivo con quella intenzione, giubilò di gioia. Allora quelle sante Madri con una
eroica pazienza mi istruirono e mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina
sentivo in cuore senza sapere chi fosse. Ricordavo come, vedendo il sole, la luna e le
stelle, le bellezze della natura, dicevo tra me: ‘Chi è mai il padrone di queste belle
cose?'. E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio’.
E ora lo conosco. Grazie, grazie, mio Dio! La buona M. Fabretti diceva che ‘io
bevevo le verità della fede’. "Quando la signora (Turina) mi accompagnò in collegio,
(già) sulla soglia della porta, voltandosi per darmi il saluto, mi disse: ‘Ecco qui,
questa è la tua casa!'. Disse così senza penetrare il vero senso delle parole. Oh, se
avesse immaginato quanto poi avvenne, non mi ci avrebbe condotta!".

La decisione della sua vita


Circa nove mesi dopo, la signora Turina venne a reclamare i suoi diritti su di me. Io
mi rifiutai di seguirla in Africa, perché non ancora ben istruita per il battesimo.
Pensavo pure che, qualora fossi battezzata, non avrei ugualmente potuto professare la
nuova religione, e che perciò mi conveniva meglio stare con le suore. Ella montò sulle
furie, tacciandomi d'ingrata nel lasciarla partire sola, mentre mi aveva fatto tanto
bene. Ma io, ferma nel mio pensiero. Mi disse tante e tante ragioni, ma per nessuna mi
piegò. Eppure soffrivo nel vederla meco disgustata, perché le volevo bene davvero.
Era il Signore che mi infondeva tanta fermezza, perché voleva farmi tutta sua. Oh,
bontà! Il giorno seguente ritornò in compagnia di una signora e ritentò la prova con
le più aspre minacce, ma inutilmente. Partirono indispettite. Il Rev. Superiore della
casa scrisse a sua Em. il Patriarca sul da farsi. Questi ricorse al Procuratore del Re il
quale mandò a dire che, essendo io in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, restavo
affatto libera. Anche la signora Turina si portò dal Procuratore del Re credendo di
ottenere che la seguissi, ma ebbe l'uguale risposta. Il terzo dì, eccola di nuovo
all'istituto con la stessa signora e un suo cognato, graduato militare. Vi erano pure S.
Em. il Patriarca Domenico Agostini, il presidente della congregazione della carità, il
superiore della casa e alcune suore del catecumenato. Parlò prima il Patriarca, ne
seguì una lunga discussione terminata in mio favore. La signora Turina, piangendo
dalla collera e dal dispiacere, prese la bambina che non voleva staccarsi da me,
forzandomi a seguirla. Io ero tanto commossa che non riuscivo a dir parola. Le
lasciai piangendo... E mi ritirai contenta di non aver ceduto. Era il 29 novembre
1889". Bakhita aveva fatto la scelta della sua vita. Rinunciando a tornare in Africa,
rinunciava a tutto per assicurarsi il TUTTO. In lei, pur non battezzata, era in piena
opera l'efficacia di quella "Luce vera che illumina ogni uomo, che viene in questo
mondo" (Gv 1, 9).

"Oh, indimenticabile data!"


Rientrata nel catecumenato, trascorso il tempo dell'istruzione ricevetti, con una gioia
che solo gli angeli potrebbero descrivere, il santo battesimo, il 9 gennaio 1890. Mi fu
posto il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che in arabo si interpreta
Bakhita. Il giorno stesso ricevetti la cresima e la comunione. Oh, che indimenticabile
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data!". Bakhita fu battezzata e cresimata dal patriarca di Venezia, il Card. Domenico
Agostini, nella Chiesa del Catecumenato, dedicata a S. Giovanni Battista. Fu suo
padrino il conte Marco Soranzo, in rappresentanza della moglie contessa Giuseppina,
ammalata da giorni. Madrina di cresima fu la signora Margherita Donati. Erano pure
con lei le Suore Canossiane, in particolare suor Fabretti, sua catechista, il signor
Checchini con tutta la sua famiglia, senza poi dire di quanta gente partecipò alla
cerimonia riempiendo la chiesa e le adiacenze. "Mi fermai in catecumenato quattro
anni, durante i quali mi si schiariva sempre più in fondo all'anima una voce soave che
mi faceva desiderare di essere anch 'io religiosa. Alla fine ne parlai al mio confessore.
Egli mi suggerì di dirlo alla superiora della Casa, Sr Luigia Bottesella, la quale ne
scrisse alla superiora della Casa Madre di Verona, M. Anna Previtali. La buona
Madre non solo accordò la domanda, ma aggiunse ch 'ella stessa voleva avere la
soddisfazione di vestirmi del santo abito e, a suo tempo, di accogliere la mia
professione. Il 7 dicembre 1893, entrai in noviziato, proprio nella Casa dei
Catecumeni a Venezia. Passato un anno e mezzo, fui chiamata a Verona per la S.
vestizione. Qualche mese prima che spirassero i tre anni, ritornai (a Verona) per
pronunciare i santi voti (8.12.1896). Dio permise (così) di far pago il desiderio della
M. Previtali che, un mese dopo, l'11 gennaio 1897, passava all'altra vita". Secondo i
canoni del tempo, l'aspirante ai voti religiosi, doveva essere esaminata da un
rappresentante della Chiesa. Fu il Card. Giuseppe Sarto, allora patriarca di Venezia, ad
esaminare Sorella Giuseppina. Il patriarca la congedò con queste parole: "Pronunciate
i santi voti senza timori. Gesù vi vuole, Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre
così. L'8 dicembre 1896 Bakhita pronunciava i santi voti a Verona nella Casa Madre
dell'Istituto delle Figlie della Carità. La cronaca nota che "fu molto festeggiata e che il
Cardinale Luigi Canossa, nipote della Fondatrice, volle riceverla nel suo palazzo "Da
quel dì passarono quattordici anni di vita religiosa, durante i quali sempre più ho
conosciuto la bontà di Dio verso di me. Prego le care Sorelle che (mi) leggeranno di
porgere perenne tributo di gratitudine a questo provvido Signore e a supplicarlo che
mi dia grazia di sempre meglio corrispondergli". Casa Canossiana, Via Fusinato, 51
Schio, 1910.

PARTE TERZA
Trofeo della Provvidenza di Dio
Giunti alla fine del racconto di Bakhita, con esultanza di spirito possiamo esclamare
con S. Paolo: "Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che
sono stati chiamati secondo il suo disegno" (Rm 8, 28). È evidente, e dalla sua stessa
testimonianza, che Bakhita ha amato Dio prima ancora di conoscerlo. Solo in un
secondo tempo però saprà leggere nella lunga sequela di fatti tragici e penosi la
misteriosa trama dei disegni di Dio, valido corollario alle ispirate parole dell'Apostolo.
Né lo furono meno, sebbene inquadrati in una scena piena di terrore, i negrieri stessi,
quando la chiamarono 'Bakhita' 'La Fortunata': essi furono, come Caifa, profeti senza
saperlo (cf. Gv 1,14). Se la vita di questa fanciulla sudanese avesse seguito il suo corso
normale, oggi non ci sarebbe tutto un consesso di teologi a discutere, ammirati, sulle
virtù eroiche da lei praticate, né milioni di cattolici e non, sarebbero protesi in
ammirazione verso la sua umile figura. Una ragione di fondo bisogna subito mettere in
evidenza: tutte le disgrazie, i contrattempi, gli errori, gli istinti brutali ed egoistici, le
motivazioni venali e di comodo, tutto concorse alla realizzazione dei piani della divina
Provvidenza. Episodi determinanti sono senz'altro certe decisioni prese all'ultimo
momento. Il padrone turco nel Kordofan, svende schiavi per alleggerire il carico della
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carovana, ma fra i pochi scelti per accompagnarlo in Turchia, c'è Bakhita. Così doveva
essere per farla arrivare a Khartum, dove lo stesso padrone offre proprio lei al signor
Legnani che la compra di fatto, ma per affrancarla, e ancor questi, a sua volta,
acconsente al desiderio di Bakhita e la porta in Italia. Come la luce dello Spirito Santo
illuminò la mente della ormai ex-schiava, ben le fece comprendere la misteriosa trama
dei suoi disegni. In un convegno di giovani, uno studente bolognese chiese a M.
Giuseppina Bakhita: "Cosa farebbe se incontrasse i suoi rapitori?". Senza un attimo di
esitazione, rispose: "Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli
che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse
accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa". Continuando il discorso sullo stesso
argomento, non solo ne benediceva la provvidenziale mediazione nelle mani di Dio,
ma li scusava in questi termini: "Poveretti, forse non sapevano di farmi tanto male:
loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene,
così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria".
Commenti che mettono a tacere ogni nostra umana reazione, perché quella ignota
schiava africana, assistita senz'altro dalla grazia preveniente di Dio, confessa non solo
di non nutrire rancore verso chi la rapì, la vendette e la torturò, ma dimostra
compassione e compatimento, perché infine "non sapevano quello che facevano".
"Bisogna convenirne: non sono questi i sentimenti che di solito si trovano nel cuore di
quanti debbono obbedire e sottostare a privazioni e maltrattamenti; sono piuttosto
sentimenti di ribellione e di odio, impotenti magari, date le circostanze, ma tanto più
intensi, quanto inevasi. Non fu così per la nostra Bakhita". Il suo atteggiamento nei
riguardi di tutti quelli che nel suo tormentato passato l'avevano fatta tanto soffrire "è
carità allo stato eroico: perdono allo stato puro.

"Naturaliter Christiana"
Desiderosi di scendere a più minuti particolari con l'intento di scoprire cos’era
veramente la nostra Bakhita allo "stato naturale", cioè "quando non conosceva Dio",
ci incontriamo subito con una ragazzina che, contemplando i meravigliosi fenomeni
della natura, si chiedeva: "Chi sarà mai il padrone di queste belle cose? E provavo,
confessa, una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio".
Sant'Agostino commenterebbe: "Non Lo cercheresti, se non L'avessi già trovato". Di
fatto, Bakhita non aveva bisogno d'andare alla ricerca di Dio, perché Dio già era nel
suo cuore. Ne sono riprova le testimonianze da lei stessa esposte circa l'osservanza di
quella legge santa che Dio si compiace di scrivere "con il suo stesso dito" nel cuore di
tutti gli uomini. Dall'evidenza dei fatti si può dedurre che Bakhita aveva sortito da
natura un carattere docile e mite, una sensibilità e delicatezza di sentimenti
straordinari; aveva forte propensione ad amare e ad essere amata: aveva avuto modo di
godere e patire questa sua passione sia in famiglia che poi, durante la sua dura vita di
schiava. Apprezzava il minimo atto di bontà e di attenzione affettuosa: quando le
mancava, ne soffriva per sé e per gli altri. Molti hanno sottolineato la sua docilità di
carattere, questa però non le impedì di ergersi decisa contro le allettanti promesse di
una vita più facile e nella sua patria, quando ciò poteva compromettere la sua fede
cattolica. Colei che si considerava "come schiava, una cosa di proprietà dei suoi
padroni quando fu posta davanti all'alternativa, di scegliere un bene immediato e già
noto, fattasi padrona di sé, optò per l'ignoto ma, per sé, esistenzialmente sicuro. Alla
tenerezza di cuore, alla mitezza della natura sapeva accoppiare chiaro discernimento e
incrollabile fortezza d'animo. Ulteriori prove di quanto lontano Bakhita aveva saputo
arrivare alla sola luce della legge naturale, le abbiamo dalle risposte che ella diede alle
occasionali domande di terzi. Mai approfittò della roba dei padroni, neppure quando
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pativa la fame. Compi sempre i suoi doveri di schiava, cercando di essere obbediente.
Interrogata se si fosse così' comportata, pensando che Dio la vedeva, rispose: "Io non
conoscevo Dio, facevo sì, perché sentivo dentro di me che dovevo comportarmi in quel
modo". Altro particolare assai rilevante: pur avendo toccato il fondo dello scoramento
e della malinconia, "da schiava non si era mai disperata, perché sentiva dentro di sé
una forza misteriosa che la sosteneva". Interrogata con discrezione se, durante il suo
lungo percorso di schiavitù, fosse stata abusata, rispose: "Io sono stata in mezzo al
fango, ma non mi sono imbrattata". Più volte ripeté, "per grazia di Dio sono sempre
stata preservata". "La Madonna mi ha protetta nonostante che io non la conoscessi",
e ripeté: "In varie occasioni mi sono sentita protetta da un essere superiore".

Lo stile
Dopo aver sottolineato con commossa ammirazione il misterioso piano della
Provvidenza su quest'anima che pare essere stata prediletta da Dio "fin dal seno
materno" (Gal 1, 16), non possiamo non tornare sul suo racconto senza notare la sua
spontanea abilità narrativa, la vivacità dei particolari che fanno balzare certe scene
davanti ai nostri occhi in tutta la loro naturale crudezza. È vero che lo stile del
racconto è semplice e non senza lacune, specie per ciò che riguarda la toponomastica
di luoghi, carichi per noi di tanto interesse. In compenso però quali doti comunicative
dimostra di avere questa incolta e ingenua narratrice. Anzi più: certi particolari cui ella
accenna senza artificio alcuno, fanno risaltare subito la sua distinta personalità morale.
Tenerissima di sentimenti, a distanza di trenta e più anni, ricorda, "quanto pianse la
mamma e quanto piangemmo noi pure" a seguito della cattura della sorella maggiore.
Rapita a sua volta, si descrive “impietrita dalla paura” gli occhi spalancati, trernante
tutta da capo a piedi"... Spinta avanti con violenza, "non fa che singhiozzare".
Sebbene digiuna da tutta una giornata, non può prender cibo, perché "...non avevo in
mente che a mia famiglia... e chiamavo mamma e papà con un'angoscia nell’anima da
non dire; mai ahimè, nessuno mi udiva". Quanto umani e delicati i sentimenti espressi,
quando, racchiusa tutta sola per un mese in un bugigattolo, "stanca di piangere,
cadevo sfinita al suolo in un lieve torpore, mentre la mia fantasia mi portava fra i miei
cari lontano, lontano... Lì, vedevo i miei amati genitori, fratelli, sorelle, e tutti
abbracciavo con trasporto di tenerezza". Piena di effetto è la descrizione della fuga.
"... Un 'occhiata d'intesa, un cenno, una stretta di mano, uno sguardo all'intorno,
e... via di tutta corsa senza saper dove, con la sola velocità delle nostre povere gambe.
Tutta la notte e il dì seguente fu una continua e trepidante corsa..." per cadere, infine,
in bocca al lupo. Tanta era la stanchezza e amara la delusione, da non potere ritenere
neppure un sorso d'acqua, offerto dai nuovi rapitori. Triste l'epilogo, ma il fatto non
manca di dimostrare quanto potenti erano i sentimenti familiari in queste due fanciulle
e quanto animoso il coraggio, si da affrontare, nella notte, e l'assalto di animali feroci e
quello, non meno terribile, di incontri con negrieri. Ammirevole in Bakhita il
sentimento di compassione per i suoi compagni di schiavitù. "Sentiva pietà nel vedere
le piaghe attorno al collo, causate dalla grossa catena" che teneva aggiogati insieme
due o tre uomini. Allucinanti potremmo chiamare i particolari del tatuaggio da lei
descritti. Gli attori: la padrona, lo scudiscio alzato; l'aguzzina, il rasoio in mano; due
schiave delle più forti per tenere ferme braccia e gambe delle vittime: tre giovani
adolescenti, stese a terra, a turno. "Io ero lì con tanto d'occhi a osservare, pensando
che dopo sarebbe toccata anche a me quella sorte crudele". Quel sale, "stropicciato
con tutta forza sulle ferite sanguinanti... che spasimo! Che tormento! Tremava tutta
l'infelice, così io pure, aspettandomi altrettanto. Portata via la prima, priva di sensi io
dovevo distendermi al suo posto. Non avevo fiato di muovermi; ma uno sguardo
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fulmineo della padrona e lo scudiscio alzato, mi fecero piegare immediatamente a
terra...". Compiuti su ordine centoquattordici tagli, "immersa in un lago di sangue, fui
portata sul giaciglio, dove per più ore non seppi nulla di me. Posso proprio dire che
non sono morta perché il Signore mi aveva destinata a COSE MIGLIORI.

"Le cose migliori"


Questo presentimento di "cose migliori" fu associato inconsciamente da Bakhita, per
la prima volta, al semplice suono del nome "Italia", quando il sig. Legnani 15 annunciò
il suo prossimo rientro in patria. Ella non sapeva né cosa, né dove fosse questo paese.
"Io ne ignoravo la bellezza e gli incanti ma quando ne sentii il nome, mi nacque in
cuore un vivissimo desiderio di seguire il padrone". Dipese quindi interamente da lei
la decisione di lasciare la sua patria per avviarsi verso una terra del tutto ignota, ma
piena di misteriose promesse. Si noti, infatti, che per ottenere ciò, Bakhita dovette far
pressione sul signor Legnani, perché egli non aveva per niente in programma di
prendere con sé la ragazza. Ma questa tanto "insistette che egli, infine, l'accontentò". E
commenta: Era Iddio che lo voleva, lo conobbi di poi. Ancora (oggi) gusto la gioia
che provai allora". La cavalcata a dorso di cammello da Khartum a Suakin sul Mar
Rosso, fu un vero spasso. Costituivano la carovana il signor Legnani e l'amico suo
Augusto Michieli, un ragazzino africano, riscattato dalla schiavitù pochi giorni prima
della partenza, e la nostra Bakhita. Erano i viaggiatori ancora in sosta a Suakin,
quando seppero dell'assalto e caduta di Khartum sotto le scimitarre dei Mahdisti.
Devastata la città e distrutta fino alle fondamenta, ne trucidarono gli abitanti e lo
stesso generale Gordon e involarono tutti gli schiavi. "Se fossi rimasta, commenta
Bakhita, sarei certamente stata rubata anch 'io e che sarebbe avvenuto di me? Quanto
ringrazio il Signore d'avermi salvata ancora una volta... e d'avermi riservata
veramente “A COSE MIGLIORI” e sempre attraverso improvvisi colpi di scena.
Giunta a Genova, era sottinteso che Bakhita avrebbe dovuto seguire il suo liberatore, il
sig. Callisto Legnani. Invece no. La volontà quasi capricciosa della signora Michieli
interviene a dare un'imprevista svolta al suo destino. Come il suo amico, anche lei
doveva avere in casa un 'inserviente africana. Si meraviglia anzi come il marito sia
stato tanto poco preveggente. Cosi, per quietare gli animi, Bakhita ne paga le spese. Il
suo viaggio cambia meta: non a Padova col signor Legnani, ma a Mirano Veneto
presso la famiglia Michieli, presto allietata dalla nascita di Alice, chiamata 'Mimmina'.
Bakhita si separa dal suo liberatore e "buon padrone" con vera pena di cuore, e
rimpiange: "Io nulla più seppi di lui". Dopo una sosta di tre anni a Mirano, durante i
quali i rapporti Mimmina e Bakhita non erano più di padrona e serva, ma di piccola e
grande amica, un'altra prova, e prova di fuoco, si profila per il cuore di Bakhita. Era in
pensione con Mimmina, per interessamento del sig. Checchini, presso l'Istituto dei Ca-
tecumeni di Venezia, retto dalle Canossiane, durante un viaggio in Africa della signora
Michieli. Questa ne ritorna improvvisamente con piani ben stabiliti. Nel giro di giorni,
bisogna mettere tutto in assetto, per partire definitivamente per l'Africa. Nel contempo,
Bakhita aveva chiesto e ottenuto di essere istruita nella fede cattolica. Con emozioni
che non si possono descrivere a parole, era venuta a conoscenza di quel "grande Pa-
drone che faceva sorgere il sole di giorno, illuminava la notte con la luna e le stelle,
faceva produrre alla terra fiori e frutti...". Ora lo conosceva e il suo animo ridondava
di gioia. Già avviata ormai nella affascinante scoperta dei divini misteri, e prossima a
quel battesimo che desiderava con tutte le forze dell'animo suo, certamente mai
avrebbe rinunciato o anche solo protratta questa grazia per compiacere la sua padrona
e tornare con lei in Africa. I perentori ordini della signora Michieli parvero non
ammettere scelte. Bakhita sempre sottomessa e docile, alle intimazioni della padrona
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di decidersi a preparare le valigie, con fermezza e coraggio risponde: "No, io non
posso tornare in Africa, perché non potrei professare la mia fede nel Signore... Voglio
tanto bene alla signora e alla sua bambina> ma non voglio perdere Dio, così io resto
In lacrime, abbracciò la signora, abbracciò Mimmina che non voleva staccarsi da lei;
infine, svincolandosi quasi con forza, si ritirò dalla sala e si rifugiò in chiesa.
Conclude: "È stato il Signore a infondermi tanta forza, perché voleva farmi tutta sua.
Oh, bonta!". Questa l'aggiunta del prezzo che Bakhita dovette pagare per assicurarsi
"la perla di grande valore" (Mt 3,46). Cosf, "contenta di non aver ceduto", riprese la
sua preparazione immediata al santo battesimo.

"Una gioia che solo gli angeli potrebbero descrivere"


Percorsa insieme l'incidentata trafila di ombre e di luci che la Provvidenza di Dio
aveva messo in opera, da anni ormai, per portare Bakhita fino al fonte battesimale,
sentiamone l'annuncio dalla sua stessa voce. "Trascorso il tempo dell'istruzione,
ricevetti con una gioia che solo gli Angeli potrebbero descrivere, il Santo Battesimo.
Era il 9 gennaio 1890". Abbiamo la descrizione di questo grande evento dalla penna
di un testimone, la signora Giulia Della Fonte, coetanea di Bakhita e amica fin dal suo
primo arrivo a Venezia, poiché abitava nel palazzo di fronte a quello del
Catecumenato. "Sorse il bel giorno, e io ero in prima fila nella chiesetta dell'istituto,
immobile, attenta alla solenne funzione. Non so ridire ciò che provai in quell'ora beata;
benché bambina, ero molto commossa. Finita la funzione fui invitata con la mamma e
la zia al rinfresco in parlatorio. Oltre il Cardinale Agostini c'erano parecchi sacerdoti e
tanti signori e signore. Io me ne stavo un po' in disparte, ma nello stesso tempo
cercavo di farmi notare dalla mia amica. Volevo avvicinarla e baciarla anch'io come
avevano fatto le suore e le signore. Ella mi vide, mi sorrise, mi chiamò vicina e mi
baciò e io felice stetti sempre con lei... Avrei voluto che la festa non terminasse mai.
Ricordo che c'erano dolci e bibite, ma io non assaggiai nulla. Neanche Bakhita, che
ora chiamavano Giuseppina, mangiò. Quando tutti se ne andarono, il Rettore dei
Catecumeni, Don Jacopo dei Conti Avogadro, vecchio, santo uomo, la invitò a pranzo,
e invitò anche me. Pranzammo noi tre soli, serviti dalla buona domestica del sacerdote.
Giuseppina era beata. Sul suo viso non c'era più quell'aria di mestizia che le era solita.
Pareva trasfigurata. Parlava poco, ma la felicità le traspariva da ogni suo atto, da ogni
suo detto. Io le chiedevo che cosa aveva sentito dentro di sé, durante la cerimonia. Ella
non sapeva rispondermi e non faceva che accarezzarmi e sorridere. Ricordo che le
baciai le mani con l'idea che fosse santa. A casa mi avevano detto che il Battesimo ci
fa santi, lava le macchie e fa diventare l'anima bianca, bianca. Io guardavo Giuseppina
in viso e cercavo di scorgere la sua anima bianca. Il via vai di gente continuò fino a
sera quando, finalmente in pace, Giuseppina concluse la festa della sua redenzione".

Attori di primo piano


Ma la nostra festa non è finita se non facciamo parola della presenza di colui che ebbe
un ruolo determinante proprio nel procurare a Bakhita la causa di quella "gioia che
solo gli angeli potrebbero descrivere. Ci riferiamo al signor Checchini che fu il primo
ad arrivare sul posto con la moglie e i figli. Né faceva mistero della parte che aveva
avuto lui, proprio lui, nella celebrazione di tanta festa: il battesimo di una ragazza
africana. Per tutto quel giorno, da buon cristiano che era, concesse che Giuseppina
desse soddisfazione ad altri; ma poi se la volle in casa, tutta per sé e per la sua
famiglia. Fu una gran festa che, per spontaneità d'affetto e generosa ospitalità, si ripeté
poi spesso e, a volte, con sosta di vari giorni. Anzi conoscendo il signor Checchini le
norme dell'Istituto dei Catecumeni, prevedeva che, un anno dopo il battesimo,
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Giuseppina sarebbe stata libera e contenta di accettare la sua cordiale proposta di en-
trare nella sua famiglia quale membro effettivo. La moglie e i figli tutti ne erano
contentissimi. L'affare pareva già concluso, dalla loro parte naturalmente, ma non da
quella di Giuseppina che, pur rivelandosi riconoscente per tanta offerta, parve fosse
renitente ad accettarla. Perché mai? Perché il "vero Attore di primo piano" l'aveva
prevenuto! La neofita sentiva nel profondo del suo cuore farsi più distinto che mai un
richiamo che già si era annunciato il giorno stesso del suo battesimo. Ri-chiamo che,
realizzato, coronerà tutto un serto di quelle "cose migliori" a cui Dio l'aveva eletta.
Giuseppina Bakhita aspirava a divenire Figlia della Carità. "Ma è permesso a una
giovane africana farsi religiosa?" Questo l'interrogativo che dopo lungo pensare pose
al confessore. Seguendo le sue direzioni si rivolse alla superiora della Casa, Sr Luigia
Bottesella, la quale prontamente ne parlò con la superiora della Casa Madre in Verona.
"E perché no?" rispose meravigliata M. Anna Previtali 21. "Perché, aveva timidamente
obiettato Bakhita, non vedo che suore italiane tra di voi!". Non sapeva certo
Giuseppina che, mentre lei si poneva questi trepidanti interrogativi, in una lontana
città dell'India, una giovane Indiana aveva chiesto ed era stata accettata, senza tanti
preamboli fra le Figlie della Carità, fissandone prossimo l'ingresso. Ben prima di lei, e
ancor più lontano, in Hong Kong, molte ragazze Cinesi erano già in piena attività
apostolica canossiana, tanto che l'allora superiora Sr Maria Stella nel 1883, scriveva:
"Se non avessi avuto l'aiuto di queste Sorelle, potevo chiudere la casa: e... sono
anime!" Coraggio, dunque, Giuseppina, per entrare a far parte della famiglia
canossiana, come esorta la Fondatrice Maddalena di Canossa, basta avere un grande
amore di Dio e un grande amore per il prossimo: non costituiscono barriere né la
nazionalità, né la condizione sociale, né il colore della pelle. Inoltrata la domanda alla
superiora di Verona, questa la sottopose al Card. Luigi di Canossa, superiore
dell'Istituto Sicuri tutti di interpretare lo spirito della Fondatrice, e il suo "immenso
desiderio di dilatare il regno di Cristo fino ai confini della terra", favorevolmente
accolsero la richiesta della postulante africana. Il 7 dicembre 1893, Giuseppina
Bakhita iniziava il noviziato nella Casa stessa del Catecumenato, sotto la direzione
della sua "paziente e tanto amata" catechista, Sr Marietta Fabretti27. Superate le varie
fasi del noviziato, Giuseppina fu ammessa fra i membri dell'Istituto delle Figlie della
Carità, con la emissione dei voti l'8 dicembre 1896 e, per espresso desiderio di M.
Previtali, nella Casa Madre di Verona, dove la Fondatrice aveva vissuto ed era morta.
Interrogata un giorno del perché della sua scelta, M. Giuseppina, congiunte le mani e
alzati gli occhi al cielo, rispose: "Per ispirazione del Signore Ancora: "E perché si è
fatta Canossiana?". "Per essere tutta del Signore" "Ma come ha fatto ad arrivarci?"
"Non saprei, ha fatto tutto Lui" (Doc. p. 42). Ormai M. Giuseppina è a piena
disposizione del suo buon Paron (Padrone) che la conduce dove Egli sa possa meglio
realizzare i suoi piani: così da Venezia è trasferita a Schio. Sensibile com'era, la
giovane suora non poteva lasciare senza rimpianto la Casa che era davvero diventata
sua. Con gli occhi umidi di lacrime, diede un prolungato sguardo al grande Crocefisso
del parlatorio, dal quale aveva attinto la forza di resistere alle insistenze della signora
Michieli e al pianto sconsolato della sua tanto amata Mimmina, quando le fecero
pressione perché andasse con loro in Africa. Per un'ultima volta andò in chiesa e baciò
il fonte battesimale, ripetendo a se stessa con rinnovata emozione: "Qui, sono divenuta
vera figlia di Dio Dato un tenero e riconoscente abbraccio a tutte le Consorelle, specie
alla superiora e a Sr Maria Fabretti, se ne andò la buona suora, fiduciosa che quel Dio
che l'aveva condotta a passo a passo fino allora, sarebbe stato con lei anche in futuro.
E ciò le bastava.
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A Schio
La ridente e operosa città vicentina sorge sulla riva sinistra del Leogra, addossata a
monti segnati della storia della “Grande Guerra” 1915-1918. Gli abitanti sono cordiali
nei rapporti, tenaci nel lavoro tanto che, fin d'allora, Schio era famosa in patria e fuori
per la produzione della lana, vera lana! Le Figlie della Carità, note come Canossiane,
si erano stabilite a Schio, in via Fusinato, fin dal 1886, per volontà e munificenza della
signora Luigia Rossi. La casa da lei fornita divenne subito centro di opere educative e
apostoliche: asilo, scuole elementari e magistrali, di ricamo e taglio; orfanotrofio,
educandato, oratorio festivo, associazioni cattoliche per ogni categoria ed età. M.
Giuseppina Bakhita giunse a Schio nel 1902. Fu in questa Casa che, nel 1910, su
invito della sua superiora M. Margherita Bonotto, raccontò la sua storia, quale noi
abbiamo riportata senza alterazioni di sorta. Nella casa canossiana di Schio, Sr
Giuseppina ebbe davvero occasione di fare, com'ella aveva accennato nella sua
domanda d'ammissione, "lutto ciò che le fosse stato richiesto", realizzando quella
disponibilità d'animo che è elemento essenziale dello spirito canossiano. Così, con
prontezza di cuore e grande impegno di volontà, passò dalla cucina alla sagrestia, alla
portineria, al laboratorio. Davanti a questa sequela di uffici, tutti domestici, come si
suol dire, viene posto un interrogativo assai pertinente. Come ha potuto Sr Giuseppina
assolvere al tipico spirito, emimentemente apostolico delle Figlie della Carità,
occupata come quasi sempre fu tra quattro mura di un convento? Sr Giuseppina, nella
sua semplicità, illuminata certo dallo Spirito Santo, aveva risolto il problema senza
neppur porselo. Per lei il giorno in cui morta con Cristo e con Lui risorta" (Rm 6, 4)
fu tale esperienza da non poterla tenere per sé sola: a tutti doveva annunciare "quanto
buono è il Signore e quanto grandi le sue misericordie" (cf. Sal 117). Questi ardenti
sentimenti trovarono espressione in una preghiera da lei spontaneamente formulata il
giorno della sua totale donazione a Dio, l'8 dicembre 1896: "O Signore, potessi io
volare laggiù presso la mia gente e predicare a tutti a gran voce la Tua bontà: oh,
quante anime potrei conquistarti! Fra i primi> la mia mamma> il mio papa, i miei
fratelli, la sorella mia, ancora schiava... tutti, tutti i poveri negri dell'Africa, fa, o
Gesù, che anche loro ti conoscano e ti amino!" Fu questa ispirazione altamente
missionaria a dare il tono a tutto l'operare di Madre Giuseppina Bakhita.

Missionaria sempre!
Per realizzare questa sua cocente ansia missionaria cominciò con il far bene e per amor
di Dio quanto, volta per volta, le veniva assegnato. M. Giuseppina, durante la sua sosta
nel catecumenato, aveva appreso la delicata arte del ricamo in bianco e a confezionare
articoli ornamentali con le famose perle di Venezia. Quando però, trasferita a Schio, le
fu chiesto di lavorare in cucina, impegnò tutte le sue energie e la sua intelligenza
nell'assolvere tale mansione nel migliore dei modi. Forza e intelligenza però sarebbero
andate poco lontano, se il cuore avesse esulato da tale pur sempre gravoso e logorante
lavoro. Consorelle ed ex-educande ricordano questo piccolo, ma significativo
particolare. Durante l'inverno, aveva l'avvertenza di scaldare scodelle e piatti, perché
le vivande arrivassero calde davanti alle numerose commensali. Notevole ancora il
senso di responsabile carità che mostrava verso le ammalate nel preparare le diete
secondo le prescrizioni mediche: non solo, ma lo stile e la varietà nel presentare le
portate lasciavano intendere, senza parole, che ogni ammalata era oggetto del suo
pietoso amore: messaggio che ciascuna deve avere recepito, se tale testimonianza è
arrivata fino a noi. Si restava meravigliati, data l'estensione del lavoro, delle sue
attenzioni, della puntualità e perizia nel preparare non solo il necessario, ma nel
prevenire perfino i desideri. M. Giuseppina non era sola in cucina, altre sorelle si
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avvicendavano nel lavoro. Succedeva allora che chi arrivava suggeriva altri metodi
che incrociavano l'ormai provata esperienza sua, collaudata da anni. Senza reazione
alcuna, la docile Bakhita di sempre, si adattava ad apprendere tutto di nuovo e
ringraziava con sincera umiltà C'è ancora chi afferma che riusciva ad accontentare con
i suoi menus anche le educande: il che basta per dare a qualunque cuoca la laurea
honoris causa. Conseguita... questa, dovette presto prendere a suo carico anche un
altro impiego. La guerra del 1914-1918 aveva fatto sfollare parte della comunità e le
educande a Mirano Veneto, sicché chi restava dovette addossarsi più di un ufficio. A
M. Giuseppina toccò la felice sorte di occuparsi anche della sagrestia, dove,
naturalmente, si sentì subito di casa, perché passava parte del suo tempo proprio alla
presenza del suo Paron. Di questo periodo abbiamo la testimonianza del P.
Bartolomeo Cesaretti, O.F. Cap., cappellano militare dell'ospedale n. 55, accasermato
nell'Istituto delle Canossiane di Schio, "dove, afferma il teste, prestai servizio fino al
18 o 19 gennaio 1919. In mancanza di sacerdoti, dovetti fare da cappellano nella
chiesa delle suore" In quel periodo, "conobbi molto bene una suora africana da tutti
chiamata 'Madre Moretta'. Si presentava sempre con umiltà e semplicità. Una delle sue
occupazioni era la sagrestia. La sua precisione ed esattezza in questo ufficio
rivelavano la sua grande fede nell'Eucarestia. Con molta soddisfazione e gioia
preparava l'altare e gli arredi sacri per la Messa. Usciva spesso in espressioni che
mostravano la sua fede e invitavano alla bontà e alla fiducia in Dio. 'El Paron... el
Segnor', ripeteva, ma in tal modo, che conquistava anche l'animo dei soldati. Quando
parlava di Dio sembrava provasse una gioia e una consolazione particolari. Quando
ufficiali e soldati la interrogavano, ella rispondeva sempre da santa, ricordando a tutti
la misericordia del Signore. Era prudentissima, modesta e riservata con tutti loro. Se
però veniva a taglio, non esitava a farsi... concorrente dello stesso sacerdote,
nell'ammonire sia soldati che ufficiali, quando notava dai loro discorsi certe tristi
disposizioni d'animo. Lo faceva con quei suoi modi sempre tanto amabili, ma non
meno efficaci che li induceva a riflettere e a entrare in se stessi, riconoscendosi in
colpa davanti a Dio". Poi, senza tanti preamboli, li esortava ad andarsi a confessare. P.
Bartolomeo restava edificato e, a volte, confuso. Nella sua testimonianza, parla anche
delle celle delle Canossiane: "Ne ho ammirato l'altissima povertà. C’era in ognuna un
letto in legno col pagliericcio, una sedia e un piccolo tavolo; a una parete, un quadretto
della Madonna e una croce. La cella di M. Bakhita era anche più povera delle altre,
perché non facendo scuola, non aveva penne, libri o altro. Nel suo modesto
guardaroba, che si trovava nella sala comune accanto a quello delle altre, aveva un
canestrino in cui teneva gomitoli di seta per quei lavoretti che la sua operosità
trasformava in oggetti graziosi. Perché M. Giuseppina non perdeva mai tempo, persino
gli ufficiali avevano notato questo particolare. E lei pronta: "Anche Gesù ha lavorato".
Di fatto era piuttosto lenta nei movimenti, ma arrivava a tutto. "Anzi, si offriva spesso
a sostituire le Sorelle" . Ma ben presto ebbe un ufficio che richiese continua e
premurosa attenzione: M. Giuseppina era diventata portinaia. Quando, il primo
mattino, le ragazze della scuola si videro accolte da Madre Giuseppina, pare abbiano
esclamato: "Madre Moretta portinaia?! oh benedetta dal Signore, che gusto!" Certo
non era cosa corrente vedersi ricevere alla porta di una scuola italiana da una suora
africana. Ma M. Bakhita faceva tutto con slancio d'amore, mirando a un ideale che
andava al di là e al di sopra di tutto I piccoli dell'asilo venivano accompagnati dalle
loro mamme, le quali, fattesi presto familiari con la "buona suora" cercavano ogni
scusa per poter scambiare con lei anche solo una parolina. M. Giuseppina, da parte
sua, non lesinava né tempo, né sacrificio, pur di accontentare tutti. Ci è impossibile
riferire parola per parola i messaggi di incoraggiamento, di fede-fiducia in Dio, di
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pazienza e tolleranza che l'umile suora affidava al vento dello Spirito, li su due piedi,
sul limitare della soglia. Tutti attestano però che bastava quel poco per ripartire
rassenerati. Qual magia! Eh, si', M. Giuseppina possedeva la magia dell'affiato
spirituale, perché "condiva" ogni suo dire o fare con l'unguento della preghiera e del
sacrificio. Questo è il segreto della sua popolarità a Schio e oltre.

A Venezia per un'intervista


Nell'autunno del 1929 avvenne un'improvvisa variante nella cadenzata vita di M.
Giuseppina Bakhita. Per desiderio della superiora generale M. Maria Cipolla. M.
Giuseppina doveva temporaneamente andare a S. Alvise, Venezia. Le fu comunicata
anche la ragione: certa Ida Zanolini si era offerta a scrivere la sua storia. M. Bakhita
rimase, al momento, interdetta e confusa. Presto però si ricompose e con la sua
classica frase "come vuole el Paron", abbassò il capo e, secondo gli ordini, si preparò
a partire M. Giuseppina lasciò Schio il 10 novembre 1929. Quando arrivò a Venezia,
la signorina Zanolini era già pronta per la sua nuova missione: ché una stessa
motivazione aveva fatto incontrare queste due anime: la gloria di Dio e il bene delle
anime. Da questa intervista, che durò vari giorni, prese forma, a suo tempo, la prima
biografia di Bakhita titolata "STORIA MERAVIGLIOSA". Il drammatico racconto
prendeva l'avvio dal rapimento e si fermava alle porte del noviziato. Pubblicato
dapprima a puntate su "VITA". Uscì poi in volume la cui prima edizione andò esaurita
nel giro di mesi. I particolari delle sofferenze patite dalla giovane schiava fecero
sensazione. Ci fu chi le chiese: Ciò che è narrato circa la sua schiavitù è proprio
vero?" Rispose: "In quanto a verità, è cosi, però non e ancora detto tutto; piuttosto la
buona Zanolini poteva fare a meno di metterci certi sfronzoli". Infatti, solo verso la
fine della sua vita e in stretta confidenza rivelò d'avere subito, tre giorni di seguito, la
tortura (o torcimento) del seno da parte del figlio dell'ultimo padrone. Tanto acuto fu
lo spasimo, che ne svenne. Durante la breve sosta a Venezia, la Zanolini chiese di
vedere l'Istituto dei Catecumeni, già passato alle suore Salesie. La superiora
provinciale, M. Walburga Ricchieri volle accompagnare lei stessa M. Bakhita e la
Zanolini all'Istituto. In parlatorio, il grande Crocefisso era ancora al suo posto. Tutte e
tre lo notarono, ma M. Giuseppina contemplatolo per un momento, abbassò gli occhi
pieni di lacrime. Rivide, sempre silenziosa e meditabonda, il sacro fonte battesimale,
"dove, come amava ripetere, era divenuta, ex aqua et Spiritu Sancto, vera figlia di
Dio"... Dove le erano stati rivelati gli insondabili misteri dell'amore di Dio per gli
uomini, per tutti gli uomini... Quello che fu motivo di interesse storico per la biografa,
fu per Bakhita una profonda esperienza spirituale.

Che tipo era Bakhita?


Senza presunzione, Bakhita poteva dire di sé, "Nigra sum sed formosa". Era un bel
tipo di donna africana con le caratteristiche somatiche della sua razza, ma armoniose e
regolari: fronte colma, zigomi alquanto marcati disegnavano un ovale normale,
illuminato da tenui lampi di due occhi neri sempre mobili per la naturale timidezza.
Nerissimi i capelli lanosi, nera la pelle che, anche nella tarda età, non conobbe rughe.
Le marcate labbra brune, abitualmente atteggiate al sorriso, lasciavano intravvedere
denti sani e bianchissimi. Era di statura alta e snella; il passo, raramente affrettato,
pareva marcare un lieve difetto: conseguenza irreversibile delle lacerazioni sofferte
quando era giovane schiava. Aveva tratto gentile e garbato. Le asprezze della vita non
avevano per niente alterato la nobiltà del suo sentire. Tenerissima di cuore, reagiva
prontamente alla simpatia: gioiva con chi era nella gioia, si rattristava fino alle lacrime
con chi era nel dolore. Pronta d'intelligenza, sapeva cogliere ogni situazione e
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risolverla in bellezza, illuminata dal dono della sapienza. Accettava con buon umore
uno scherzo, anche quando poteva dirsi di scarso buon gusto. Era a suo agio con i
bambini; però sapeva accogliere con empatia io sfogo di una madre in angoscia, come
tener a bada e dar consigli a militari e ufficiali. Anche per i sacerdoti, di cui serbava
tanta venerazione, aveva la parola giusta al momento giusto. A un gruppo di
seminaristi raccomandò: "Cercate di farvi santi, per canta!" Dotata di senso pratico,
vedendo un crocchio di donne attardarsi in chiacchiere, le ammonì': "Andate presto a
casa a preparare da mangiare, altrimenti vostro marito s’impazienta" Naturalmente
timida, sapeva però essere ardita e decisa, quando era chiamata a difendere la giustizia
o comunque la causa di Dio. Appariva assai evidente la presa di coscienza della sua
nullità: questa però, anziché costituire un ostacolo, fece da richiamo alla "grazia che
operò in lei grandi cose" (cf. Lc 1, 49).

Testimone della missione redentrice di Cristo


Tutta la vita di Bakhita fu una testimonianza dell'amore preventivo di Cristo
Redentore. Accetterebbe M. Giuseppina, per amore di Dio e delle sue missioni, di far
conoscere "le meraviglie di Dio" a tante più persone possibili, movendosi sulla fitta
rete delle Case Canossiane in Italia? Bakhita, al primo cenno dell'obbedienza, pur
prevedendo non ordinarie difficoltà, chinò il capo dicendo: "Come vuole el Paron".
Del resto, la finalità era più che affascinante per il suo cuore desideroso di "far
conoscere Cristo per farlo amare. Con prontezza e docilità accettò. Così' nel 1935
cominciò per M. Giuseppina una vita di frequenti spostamenti, in risposta agli inviti
delle superiore locali, edotte ormai delle drammatiche avventure di cui l'attesa ospite
era stata protagonista. Sua compagna di peregrinazione missionaria era M. Leopolda
Benetti che aveva al suo attivo trentasei anni di missione nello Shensi (Cina), i più
mcidentati che immaginar si possa. La vecchia missionaria introduceva al pubblico il
tema: "Le Missioni Canossiane" e... "Una testimone vivente della Fede". E questa
era... M. Giuseppina! Timida com'era per natura e schiva di ogni pubblicità, veniva
veramente costretta a farsi vedere. Lo faceva tuttavia con candore e semplicità, accet-
tando anche d'andare sul palco, perché non solo volevano vederla bene, ma volevano
che... predicasse. La sua era sempre la stessa predica: "Siate buoni, amate il Signore,
pregate per quegli infelici che non Lo conoscono. Sapeste che grande grazia e' cono-
scere Dio!". Riferendosi a questo periodo della sua vita, un giorno confessò: "C’è chi
pensa che io mi sia divertita, lo sa il Signore! Quando mi vedevo esposta davanti a
tanta gente, mi sentivo calar nel nulla" Il dono della sapienza era sempre con lei, sic-
ché a tutto sapeva dare un indirizzo spirituale e, soprattutto, missionario. Era per le
missioni che sopportava gli inconvenienti di lunghi viaggi, e le ben comprensibili noie
di comparire davanti a sempre nuove adunanze di gente. Di persona poteva essere ora
a Milano, ora a Trento; la sua mente però era sempre in Dio, e le sue intenzioni in...
Africa! Durante una delle sue peregrinazioni nel cremonese e precisamente nel
monastero delle Visitandine di Soresina, ebbe una piacevolissima sorpresa. Fra le
claustrali si incontrò con una suora africana, certa Sr Maria Agostina, sudanese come
lei, riscattata dalla comune schiavitù da Don Biagio Verri. A lungo si intrattennero le
due connazionali e Sorelle nella fede, insieme ripercorsero le tappe che la divina
provvidenza aveva predisposto anche per procurare a entrambe, questa reciproca
consolazione. Durante questo periodo della sua vita religiosa, dedicato all'animazione
missionaria, M. Giuseppina risiedette, almeno negli anni 1936-'38, nella Casa di
Noviziato per le Missioni Canossiane a Vimercate (Milano), dove aveva l'ufficio di
portinaia. Tutt'altro lavoro che a Schio, dove tutta una sfilata quotidiana di gioventù
passava per i portali della casa di Via Fusinato; a Vimercate invece le chiamate erano
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più rare. Ma di quale portata! Erano genitori che, pallidi per l'emozione, ac-
compagnavano la loro figlia "che, dicevano spesso, si è messa in testa d'andare in
missione". Qualche papà, che la sapeva lunga, commentava: Come se una suora, o
anche solo una buona cristiana, non potesse trovare campo abbastanza vasto per fare
apostolato, non dico in Italia, ma anche attorno a casa sua: nossignori che vuole andare
in capo al mondo!". Allora M. Giuseppina, ché era lei a ricevere i primi attacchi: "Oh,
sapessero quanti Africani gia sarebbero cattolici, se ci fossero missionari e
missionarie a dir loro che Dio li ama, che Gesù Cristo e morto per loro". M. Bakhita
poi si ritirava con un "Coraggio, io pregherò per voi!" Intanto introduceva gli
angosciati genitori in parlatorio mentre la giovane figlia girava gli occhi dilatati e
cerchiati di nero per la notte insonne, or sul padre, or sulla madre, in cerca di uno
sguardo che le lasciasse sperare nel tanto atteso consenso. Quante mai volte questa
discreta portinaia introdusse e chiuse scene veramente strazianti per il cuore umano.
Toccava ancora a lei riaprire la porta e lasciare uscire i genitori soli. Oh, allora,
abbracciando la mamma in pianto, assicurava: "Vedrà, vedrà questa cara figlia sara la
vostra consolazione. Un giorno, ringrazierete Dio per il grande sacrificio che oggi
offrite sul suo altare". E, delicata com'era, non chiudeva la porta se non dopo averli
visti scomparire alla svolta della strada. Compiuta la sua missione, vera missione per
lei! lasciò la Casa di Vimercate per quella di Schio, dove accettò di buon cuore il
solito alternarsi di umili e pur grandi uffici, interrotti infine da gravi disturbi fisici che
parvero però non turbare affatto la pace del suo animo, perché, volta per volta, nul-
l’altro faceva se non quello che voleva el Paron. Non fu però vita tranquilla a Schio,
perché proprio nell'anno del suo rientro, 1939, si ebbero le prime avvisaglie di una
delle più terribili e insane guerre del mondo (1940-1945). La comunità canossiana di
Via Fusinato ne restò tutta coinvolta, perché, mentre durante la prima guerra mondiale
ebbero ordine di chiudere le scuole, e di sfollare, durante la seconda, le opere conti-
nuarono a reggere nei limiti del possibile. La responsabilità delle suore con tanta
gioventù in casa era seria, tanto più che Schio era sulla traiettoria delle formazioni
aeree, sicché ad ogni allarme era un fuggi fuggi nei rifugi. Tutti cercavano di salvarsi,
M. Giuseppina eccettuata. Lei, anche se chiamata, non si muoveva: "Lasciateli
schioppettare, diceva bonariamente, el Paron comanda Lui!" La gente di Schio poi,
fiduciosa, si ripeteva: "Abbiamo con noi M. Moretta: è una santa, ci salverà dai
pericoli". Di fatto, una sala dell'immenso lanificio Rossi fu colpita, ma nessuna
vittima: delle cinquanta bombe sganciate sulla località detta Lisiera, nessuna esplose.
"Chi si fida di Dio, tratta Dio da Dio!". Ma quante famiglie di Schio ebbero a soffrire
aspre prove: mariti e figli, partiti pel fronte e mai più tornati. M. Giuseppina
condivideva con tutti pene e speranze, con commossa simpatia ascoltava i guai di tante
giovani madri e spose, per ciascuna aveva la parola di fede e di conforto.

Celebrazioni temporanee ed eterne


In piena guerra mondiale e precisamente l'8 dicembre 1943, si compie il
cinquantesimo anniversario di vita religiosa di M. Giuseppina Bakhita fra le Figlie
della Carità. La ricorrenza porta la comunità di Via Fusinato, almeno per un giorno,
fuori della dura realtà del momento storico. Ma non solo la comunità canossiana! Tutta
Schio è in festa, perché Bakhita era di tutti. In quel "bel giorno" M. Giuseppina occupò
il posto d'onore in cappella su di un inginocchiatoio addobbato di sete e di fiori.
Celebrante della Messa solenne fu Mons. Girolamo Tagliaferro. Lei, umile e dimessa,
tutto accetta e di tutto ringrazia, con l'aria di chi chiede scusa per aver causato tanto
trambusto. E trambusto veramente ci fu, perché tutta la buona gente di Schio voleva
congratularsi e ringraziare la loro "protettrice In quell'occasione, venne fatta stampare
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un immagine-ricordo con la foto della festeggiata. Nel corsivo non poteva mancare
l'accenno al misterioso piano della divina Provvidenza che, "sradicato il delicato fiore
dal deserto africano, lo trapianta, per vie inesplicabili, in terreno cristiano, per essere,
infine, schiava volontaria di Colui che con verità dichiara essere leggero il suo carico e
dolce il suo giogo" (cf. Mt 11,30). Ma il "carico" si fece, umanamente parlando,
davvero gravoso, quando M. Giuseppina cominciò a sentirsi male fisicamente. Le
diagnosi si prospettarono subito serie: artrite deformante, bronchite asmatica con
tosse, aggravata infine da polmonite doppia. Malattie, si direbbe, proprio inevitabili
per una creatura che, nata e vissuta per oltre vent’anni in piena zona tropicale, è
trasferita in climi continentali. M. Giuseppina sempre sofferse il freddo, durante le
lunghe stagioni invernali del nord Italia; sicché tali malanni l'assalirono per gradi, ma
con costante peggioramento. A segno che, al bastoncino succedette la sedia a rotelle;
mentre col primo, adagio adagio, poteva spostarsi, con la seconda, tanto dolenti erano
gli arti, che aveva bisogno d'essere spinta. Spinta dove? In chiesa! dove passava ore in
adorante contemplazione. Cosa faceva? Niente apparentemente: guardava ora il
tabernacolo, ora il Crocefisso. Chiudeva gli occhi e... sapremo in paradiso ciò che
intercorreva fra "la povera schiava e il suo Padrone!". Di fatto, in una circostanza fu
dimenticata in chiesa per ore di seguito. Una sorella l'accosta e le dice: "Come mai qui
da tante ore? sarà ben stanca!". "Ah, no! io me la son goduta con Lui!". Cella-chiesa,
chiesa-cella: questa la spola che tessé gli ultimi mesi di vita di M. Giuseppina. Assalita
da violento attacco di polmonite, il medico di casa Dott. Massimo Bertoldi
prognosticò che, date le complicazioni preesistenti, l'ammalata non era in grado di
superarne la gravità. M. Giuseppina era perfettamente cosciente del suo stato; alla
proposta di ricevere i sacramenti, rispose: "Si, si' perché voglio sentire". Se pur
penosamente seguì tutte le preghiere. Stette poi assorta e quieta per qualche tempo.
Poi, nel delirio dell'alta febbre implorò: "Rallentatemi le catene.' pesano!" (Summ.
233, 531). Si riprese poi e, vedendola alquanto sollevata, le dissero: "M. Giuseppina,
come sta? oggi è sabato". Dopo qualche minuto mormorò "Quanto sono contenta.' la
Madonna, la Madonna!". Furono le ultime parole udite. Qualche tempo prima, alla
domanda di una Sorella: "M. Giuseppina, come va?". Scandendo quasi le parole,
aveva risposto: "Me ne vado, adagio adagio, verso l’eternità... Me ne vado con due
valigie: una contiene i miei peccati, l’altra, ben più pesante, i meriti infiniti di Gesù
Cristo. Quando comparirò davanti al tribunale di Dio, coprirò la mia brutta valigia
con i meriti della Madonna, poi aprirò l’altra, presenterò i meriti di Gesù e dirò
all’Eterno Padre: 'Ora giudicate quello che vedete! Oh, sono sicura che non sarò
rimandata! Allora mi volterò verso S. Pietro, e gli dirò: 'Chiudi pure la porta, perché
resto! E vi restò: alle ore 20,10 dell'8 febbraio 1947. Ella era, finalmente, in possesso
di Colui che aveva desiderato di amare, prima ancora di conoscerlo. In
quell'immediato "a faccia a faccia" ella poteva cantare con la sua "cara Madonna
"L’anima mia magnifica il Signore... perché ha compiuto in me cose mirabili" (cf. Lc
1, 46-49) I funerali di M. Giuseppina Bakhita furono celebrati il giorno 11 febbraio
1947, cioè tre giorni dopo la sua morte. La salma fu portata nella camera ardente, ac-
canto alla chiesa, la domenica 9 febbraio. Il corpo si conservò flessibile, tanto che le
mamme prendevano il braccio di M. Giuseppina e lo mettevano sul capo dei loro
fighuoli come segno di protezione. L'aspetto del volto della defunta era naturale e
sereno: tanto che, com'ella stessa aveva detto, neppure i bambini ne avevano paura. Il
concorso dei fedeli fu numerosissimo e vario: umili persone, come di alto ceto. La sera
del lunedì si stava per sigillare la cassa, quando una telefonata dal Lanificio Rossi da
parte degli operai che uscivano alle 20, chiedeva di ritardare, perché tutti volevano
rendere omaggio alla "Madre”. Il funerale fu celebrato nella chiesa dell'Istituto
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Canossiano dall'Arciprete del Duomo Mons. Davide Casarotto (1914-1984). Grande fu
la partecipazione dei fedeli, nonostante il pessimo tempo. La salma fu sepolta nel
cimitero di Schio, nella tomba dei signori Gasparella, in segno di riconoscenza e
venerazione per la defunta. Altri signori avevano offerto la loro tomba. L'ortolano
Gildo Dalla Coste era in municipio per comperare il terreno per una stabile sepoltura
di M. Bakhita, quando s'incontrò con le suore che facevano le pratiche di norma.
Saputo che era stato prevenuto, ne fu addolorato, sua moglie ne pianse. La spontanea
iniziativa di tanta buona gente commosse tutti.

M. Giuseppina Bakhita ci parla ancora


Riportiamo di seguito brani di conversazione colti dalla viva voce di Bakhita. Sono
espressioni dense di vera sapienza; sono volutamente brevi, così ciascuno potrà
scegliere a suo gusto e portare in cuore ciò che dal cuore di M. Giuseppina è uscito
con spontanea semplicità. Riferendosi con palese gioia al giorno del suo battesimo,
diceva: "Il Signore mi giudicherà dall'età di diciott’anni in su: prima niente, perché il
battesimo ha cancellato tutto" (Summarium 35, 67). "Come ha fatto il Signore a
prendere proprio me?" (ib. 39, 75). Quando le facevano raccontare la sua storia, in-
cominciava: "Per la gloria di Dio, per esaltare l’onnipotenza di Dio che mi trasse a
salvezza" (ib. 45, 89). Nelle sofferenze non si lamentava; ricordava quanto aveva
patito da schiava, "Allora non conoscevo il Signore: ho perso tanto tempo e tanti
meriti, bisogna che li guadagni ora" (ib. 124, 127). "Se stessi in ginocchio tutta la
vita, non dirò mai abbastanza tutta la mia gratitudine al buon Dio" (Documenta, p.
399) Una suora avendole insinuato che da schiava avrebbe dovuto reagire quando
veniva venduta da padrone a padrone, commentò: "Il mio Padrone era uno solo"
(Sum. 49' 97) Un sacerdote, per metterla alla prova, le disse: "Se nostro Signore non la
volesse in paradiso,cosa farebbe?". Tranquillamente rispose: "Eh ben, mi metta dove
vuole. Quando sono con Lui e dove vuole Lui, io sto bene dappertutto: Lui e il
Padrone, io sono la sua povera creatura" (Doc. p. 405). Un altro le chiese la sua
storia. M. Giuseppina eluse la sua richiesta con "Il Signore mi ha voluto bene" (Sum.
171, 430). "Il Signore mi ha voluto tanto bene... bisogna voler bene a tutti... bisogna
compatire!". "Anche chi l'ha torturata". "Poveretti, non conoscevano il Signore" (Doc.
507). Interrogata, a distanza di tempo, se quanto era stato narrato, corrispondeva a
verità, rispose: "Riguardo alla verità (anche nel libro della Zanolini) c’è piuttosto di
meno che di più; perché tante cose vere le ha viste solo il Signore, e non si possono né
dire, né scrivere" (Documenta p. 404, 403). Pare guardare alla morte con animo
sereno. Quando una persona ama tanto un 'altra, desidera ardentemente di andarle
vicino: dunque perché aver tanto paura della morte? La morte ci porta a Dio A noi
che osservavamo che è il giudizio che fa paura, rispondeva "Fa' adesso quello che
vorresti aver fatto allora: I giudizio ce lo facciamo noi ora" (Summ. 50, 98). "Io ho
dato tutto al mio Padrone: Lui penserà a me, ne é obbligato" (ib. 42, 82). Era
indifferente a vivere o a morire. Diceva: "Tanto sono sempre nei suoi possedimenti"
(ib. 14, 32) Nutriva un amore profondo per i suoi genitori, i suoi fratelli e le sorelle.
Quante volte ricordava "la povera sorella schiava". "Io però ho viva fiducia di
riabbracciarli lassù in Paradiso, perché spero che il Signore mi conceda che si
facciano loro pure Cristiani. questo è l’ideale che abbella la mia vita. Oh si, Gesù,
deh, compi il mio voto!" (Ms p. 10). Di fronte alle difficoltà, soleva ripetere: "Passa
tutto: facciamo tutto per il Signore!" (Sum. 13, 32). Il Card. Dalla Costa, mentre era
arciprete a Schio, notando la laboriosità di M. Giuseppina, aveva detto: "Quanto lavora
quella cara Madre: tutto fa con animo lieto" (ib. 21, 40). "M. Giuseppina era ben
istruita nella religione. Ricordava i fatti della Bibbia e i personaggi più importanti.
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Era un godimento sentirla raccontare" (Doc. 378) Alle Sorelle che uscivano per il
catechismo disse: "Loro vanno a insegnare il catechismo, io starò in chiesa a pregare,
perché io facciano bene" (Sum. 127, 253). Con vero spirito di Figlia della Carità
chiamava ragazze "le nostre padrone". Due furono le più dure prove, a noi note, sop-
portate da Bakhita ormai libera: la separazione da Mimmina e sua madre, per
salvaguardare la sua fede, e, da religiosa, viaggiare da luogo a luogo per l'animazione
missionaria. Superato un momento di smarrimento, al pensiero di presentarsi al
pubblico, disse poi decisa: "Che cosa non farei per le missioni!" (Doc. 640) Di ritorno
da una sequela di viaggi, le dissero: "Chissà quanti fioretti avrà dovuto fare!". Rispose:
"Fioretti? No, no! ho fatto soltanto l’obbedienza" (ib. 343). E pure, quando l'udienza
la reclamava sul palco per farsi vedere e parlare, confessa: "Mi sentivo calar nel
nulla". Si faceva il segno della croce e, "Siate buoni, vogliate bene al Signore, vedete
la grazia che Egli ha fatto a me". Si faceva di nuovo il segno di croce, e scendeva (ib.
580). In una occasione disse: "Se i nostri Africani sentissero parlare del Signore e
della Madonna, si convertirebbero tutti e sarebbero molto buoni" (Sum. 36, 69)
Scusava i difetti delle Sorelle: "Si sarà dimenticata, non se ne sara accorta; sara stato
per impulso di natura... Come ciascuno ha un volto diverso, vi e diversità anche tra
fratelli! così anche il Signore dà grazie diverse" (ib. 47, 93). A una novizia, rimandata
da Vimercate alla sua provincia, perché debole di salute per le missioni estere, M.
Giuseppina disse: "Coraggio, ci faremo sante e missionarie stando qui e salveremo
tante anime". La Sorella confessa: "Me lo disse in modo tale che mi tornò di grande
conforto". Ammalata ormai da mesi, le fu chiesto: "M. Giuseppina, soffre tanto?". "Un
pochetto si, ma ho tanti peccati da scontare e poi ci sono gli Africani da salvare, i
peccatori da aiutare..." (Doc. 407). Interrogata dalla superiora su che cosa meditasse,
rispondeva: "Conoscere sempre più Gesù, per poterlo amare" (ib. 527). Trasferita da
Venezia a Schio, disse: "Siamo sempre nella casa del Signore" (ib. 692). A una
ragazza, consigliata di sposarsi e non di farsi religiosa, disse: "Non è bello quello che
pare più bello, ma quello che vuole il Signore" (ib. 703). A M. Giuseppina, seduta in
carrozzella, un Vescovo chiese cosa facesse: "Quello che sta facendo lei: la volonta di
Dio" (ib. 649) "Quelli che sentono la mia storia mi dicono: Poveretta! Poveretta! Io
non sono poveretta, perché sono del Padrone e nella sua Casa. Quelli che non sono
tutti del Signore, sono dei poverelli!". Una sorella angustiata perché, come le altre am-
malate quel giorno furono lasciate senza Comunione, "E lei, M. Giuseppina, non se ne
inquieta?". Ella rispose: "L’ho sempre con me il Signore; se viene, bene, se no l’ho
dentro di me e Lo adoro". Anche quando non poteva partecipare alla S. Messa, diceva:
"Pazienza, mando il mio Angelo Custode per me, perché poi m riferisca" (Doc. 549).
La superiora, M. Teresa Martini, assillata da preoccupazioni, a fine guerra, ne
enumerò alcune con M. Giuseppina. Ella calma, dignitosa, quasi grave, le disse: "Eh
lei, Madre, si meraviglia che nostro Signore la triboli? Se non viene da noi altre con
un poco di patire, da chi deve andare? Non siamo noi venute in convento per fare ciò
che vuole? Si, Madre, io povera grama, pregherò e tanto, ma perché si faccia la sua
volonta" (ib. 407). La superiora, a sua volta, poteva andarsene ripetendo a ragione: "Ti
rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascoste queste cose ai dotti
e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli" (Lc 10, 2;[). Infatti, di tali è il regno dei cieli"
(Mt. 19,14) ospetto Cronologico della Vita di M. Giuseppina Bakhita "Ecco cosa Dio
aveva preordinato prima dei secoli per la sua gloria" (cf. i Cor 7).

Prospetto cronologico della Vita di M. Giuseppina Bakhita


1869 Nasce nella regione del Darfur, Sudan (Summarium, 265, 614). 1875-1876 Viene
rapita da negrieri (ib. 82, 183). 1881 Viene comprata da un generale dell'esercito turco
28
(ib. 90 ss.). 1883 Viene comprata dall'agente consolare italiano (ib. 91, 189). 1885
Arriva in Italia ed è ceduta alla sig.ra Turina Michieli (ib. 92-93). 1889 29 novembre:
si rifiuta di tornare in Africa e si ferma nel catecumenato di Venezia, retto dalle
Canossiane (ib. 234, 532) Il 9 gennaio riceve i Sacramenti del Battesimo, Cresima e
Eucarestia dal Card. Domenico Agostini, a Venezia (ib. 74, 159) Il 7 dicembre entra
nel Noviziato delle Figlie della Carità nella Casa del Catecumenato (ib. 98, 201). 1896
L'8 dicembre, festa dell'Immacolata, emette i voti temporanei a Verona, presente la M.
Anna Previtali (Ib. 98, 201). 1902 È trasferita a Schio, in Via Fusinato, 51. 1927 Il 10
agosto emette i voti perpetui a Venezia (ib. 319-320). 1936-1938 Trasferita a
Vimercate, presso il Noviziato Canossiano per le Missioni Estere. 1947 L'8 febbraio,
nell'Istituto Canossiano di Via Fusinato, 51 - Schio, chiude la sua vita terrena (ib. 257,
593). 1955-1957 Fu tenuto il Processo Ordinario Informativo Vicentino. 1968-1969 Fu
tenuto il Processo Apostolico Vicentino. 1969 Dal 25 al 29 settembre si procedette alla
resumazione del corpo della Serva di Dio e alla traslazione dal Cimitero comunale di
Schio, all'Istituto delle Figlie della Carità, in Via Fusinato 51. 1978 Il 1° dicembre,
Giovanni Paolo Il emanò il Decreto dell'eroicità delle virtù della Serva di Dio
Giuseppina Bakhita. 1991 Il 6 luglio Giovanni Paolo Il proclama il Decreto di
Beatificazione. 1992 17 maggio, BEATIFICAZIONE in piazza S. Pietro Roma.

L'Istituto delle Figlie della Carità.


Canossiane fu fondato a Verona nel 1808 da S. Maddalena di Canossa. La finalità
dell'Istituto è la santificazione dei suoi membri nell'imitazione di Gesù Cristo per
vivere come lui lo spirito di carità nella sua duplice dimensione: Dio Padre e il
prossimo, con attenzione particolare al più bisognoso. Le Figlie della Carità vivono la
propria totale consacrazione a Dio esercitando in seno alla Chiesa la loro missione
apostolica mediante le opere di carità proprie dell'Istituto: *l'evangelizzazione * la
promozione integrale della persona * l'assistenza a chi soffre. L'Istituto è
giuridicamente suddiviso in undici Province, undici Vice Province, due Delegazioni e
comprende anche alcune Case direttamente dipendenti dalla Curia Generalizia. Le
Figlie di Maddalena sono circa quattromila e operano con zelo instancabile da oltre
centocinquant'anni per la diffusione del regno di Dio nel mondo intero. Attualmente
sono presenti in Angola, Argentina, Australia, Brasile, California, Canada, Filippine,
Giappone, Hong Kong, India, Indonesia, Inghilterra, Italia, Kenya, Macao, Malawi,
Malaysia, Messico, New Messico, Portogallo, Singapore, S. Tomé, Tanzania, Timor,
Zaire.

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