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Letteratura greca [1]

Omero
Lettura di Odissea
La «politropia» di Odisseo
La figura del protagonista dell’Odissea appare legata a una serie di aggettivi composti di diversa
durata metrica che rimandano alla proverbiale intelligenza, astuzia, accortezza, valentia del
personaggio ma che appaiono cristallizzati in sequenze formulari logorate dall’uso o, nel caso di
πτολίπορθος / πτολιπόρθιος, non risultano specifici di Odisseo:

▪ πολύμητις «dalla molta μῆτις», «scaltro» (frequentissimo, ma in quasi tutti i casi in cui
ricorre in Omero – fa eccezione Iliade XXI 355 πολυμήτιος Ἡφαίστοιο –,
nell’ambito del nesso formulare, che compare 18 volte nell’Iliade e 68 nell’Odissea,
πολύμητις Ὀδυσσεύς o, sporadicamente, Ὀδυσσεὺς πολύμητις «lo scaltro
Odisseo»);
▪ πολύφρων «saggio» (compare in riferimento a Odisseo esclusivamente nel verso
formulare [5 volte] νοστῆσαι Ὀδυσῆα πολύφρονα ὅνδε δόμονδε «che il saggio
Odisseo alla sua casa tornasse»);
▪ πολυμήχανος «dalle molte risorse», «ingegnoso» (è frequente già nell’Iliade [7x] nel
verso formulare διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν᾽ Ὁδυσσεῦ «Laerziade di stirpe
divina, Odisseo ingegnoso», che nell’Odissea ricorre 15 volte; l’unico caso in cui, a
parte la variazione rappresentata da XXIV 192 ὄλβιε Λαέρταο πάϊ, πολυμήχαν᾽
Ὀδυσσεῦ, l’epiteto è usato al di fuori di questo verso è Ι 205 φράσσεται ὥς κε
νέηται, ἐπεὶ πολυμήχανός ἐστιν «mediterà come tornare perché è molto ingegnoso»).
▪ ποικιλομήτης «dalla mente versatile» (tranne che in Odissea XIII 293 ricorre solo nella
sequenza, già presente in Iliade XI 482, Ὀδυσῆα δαΐφρονα ποικιλομήτην «il
valoroso Odisseo dalla mente versatile» [attestato 5 volte]).
▪ πτολίπορθος / πτολιπόρθιος «eversore di rocche» (è riferito a Odisseo, e quasi solo a
lui, 8 volte nell’Odissea, ma anche ad altre figure, umane e divine, nell’Iliade, e in
particolare 3 volte ad Achille).

Questi epiteti rimandano a una serie di risorse intellettuali e pratiche e in tal modo identificano
un’attitudine comportamentale (un ἦθος) che, se racchiude al proprio interno il dono della
duttilità e della mobilità, si esprime pur sempre entro le frontiere sancite al personaggio da una
somma di condizionamenti oggettivi: figlio di Laerte e padre di Telemaco, guerriero
conquistatore di Troia, sovrano di un’isola in pace e condottiero di un equipaggio di dodici navi
alla volta di Troia.
Niente affatto tradizionale, bensì ideato per Odisseo in quanto protagonista dell’Odissea, appare
invece l’epiteto πολύτροπος «dai molti percorsi», che nel primo verso del proemio qualifica
l’eroe itacese e che in Omero ricorre ancora una sola volta (Odissea X 330), nell’incontro fra
Odisseo e Circe.

T. 1 Proemio

Odissea I 1-10:

Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ


πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ’ ὅ γ’ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων. 5
Ἀλλ’ οὐδ’ ὧς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ·

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αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο,


νήπιοι, οἳ κατὰ βοῦς Ὑπερίονος Ἠελίοιο
ἤσθιον· αὐτὰρ ὁ τοῖσιν ἀφείλετο νόστιμον ἦμαρ.
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν. 10

L’uomo dai molti percorsi cantami, Musa, colui che molto


vagò dopo aver abbattuto la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e comprese la mente,
e molti dolori in mare patì nel suo cuore
per guadagnare a la vita a sé e il ritorno ai compagni. 5
Eppure non li salvò, i compagni, per quanto bramasse:
per la loro stessa follia si persero,
gli stolti: i buoi del Sole Iperione
mangiarono, e quello rapì ad essi il dì del ritorno. Di questo,
da un punto qualsiasi, narra anche a noi, o dea figlia di Zeus. 10

Esaminando i vv. 1-5 del proemio, Pfeiffer affermava che qui l’attributo di ἄνδρα è ‘spiegato’
dalla frase relativa che segue e non significa l’uomo di versatile ingegno (versutum, come
l’epiteto sarà reso da Livio Andronico a principio della sua Odusia, fr. 1 Mariotti: Virum mihi,
Camena, insece versutum), ma uno dai molti movimenti (versatum), e per simili frasi esplicative
richiamava casi come XI 490 «... presso un padrone senza proprietà (ἀκλήρῳ) che non abbia
copia di mezzi». E in linea con l’interpretazione di Pfeiffer potremmo aggiungere che, anche se
non compare altrove nei poemi omerici, il composto πολύτροπος si pone in evidente relazione
con ἀπότροπος «lontano» (cfr. Iliade XIV 372) e ὑπότροπος «reduce» (cfr. Odissea XX
332; XXI 211 e XXII 35; Iliade VI 367 e 501).
Si è notato per contro1 che poeti e prosatori posteriori hanno generalmente inteso πολύτροπος
come «ingegnoso» («dal multiforme ingegno» nella traduzione di Ippolito Pindemonte, «dal
saggio avvisar» in quella di Giacomo Leopardi nel Saggio di traduzione dell’Odissea),
dall’omerico Inno a Ermes (vv. 13 καὶ τότ᾽ ἐγείνατο παῖδα πολύτροπον, αἱμυλομήτην e
439 εἰπὲ πολύτροπε Μαιάδος υἱέ) a Tucidide III 83, 3 ἐκ τοῦ πολυτρόπου … τῆς
γνώμης «per l’astuzia della mente»: passi a cui possiamo aggiungere, anche perché si tratta
probabilmente della più antica di tali ‘esegesi’, Teognide 213-218:

Mio cuore , porgi a tutti gli amici variegato carattere,


temperando la tua indole a quella che ciascuno ha:
prendi l’indole del polpo dai molti tentacoli, che alla roccia 215
a cui si attacca sa mimetizzarsi.
Ora segui questa via, ma poi cambia colore alla tua pelle.
Saggezza val più che intransigenza (ἀτροπίης).

Il neologismo ἀτροπίης - l’incapacità di mutare il proprio atteggiamento presuppone il suo


‘contrario’ πολύτροπος, e la stessa immagine del polpo riprende ad altro fine il paragone fra
Odisseo e il polpo strappato alla sua tana in Odissea V 432-435 («come quando alle ventose di
un polipo strappato alla sua tana stanno attaccati innumeri sassolini, così si lacerò contro le
rocce la pelle delle sue mani audaci»).
Infine, nella stessa ottica di Pfeiffer secondo cui l’epiteto è ‘spiegato’ da ciò che segue, si deve
tener conto non solo della frase «colui che molto vagò dopo aver abbattuto la rocca sacra di
Troia», ma anche della successiva sequenza «vide le città e comprese la mente».
In effetti, Odisseo è presentato a principio del poema come colui che ha molto vagato e ha visto
molte città di uomini (πολύπλαγκτος, cfr. XVII 425 e 511 e XX 195), ma, nel contempo, come
colui che di questi uomini «comprese la mente» perlustrando luoghi fisici e recessi mentali e
sfruttando le proprie risorse e il proprio ingegno per adattarsi agli orientamenti mentali e alle
intenzioni operative delle figure con cui di volta in volta gli è accaduto di venire a contatto.

1
Cfr. S. West 1981, pp. 181 s.
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Infine, se come sostantivo su base τροπ- Omero conosce τροπή «punto di svolta» (del sole:
Odissea XV 404), non τρόπος, per l’uso di τρέπομαι in relazione a un volgersi della mente (o
del volgere la mente di un altro) indietro (o via da qualcosa) si possono richiamare passi come
Odissea IV 260 κραδίη τέτραπτο νέεσθαι, III 147 θεῶν τρέπεται νόος, VII 263 νόος
ἐτράπετ᾽ αὐτῇ, IX 12 s. Θυμός ἐτράπετο … εἴρεσθ᾽, XIV 479 τῇ … νόον ἔτραπεν e Iliade
X 45 Διὸς ἐτράπετο φρήν e XVII 546 νόος ἐτράπετ᾽ αὐτοῦ (analogamente, τρωπάω indica
la modulazione dei gorgheggi dell’usignolo in XIX 521 ἥ τε θαμὰ τρωπῶσα χέει πολυηχέα
φωνήν).
Ma che cosa intende annunciare il proemio dell’Odissea? Di per sé esso copre solo un terzo
dell’opera (i canti V-XII) e dà un rilievo esorbitante a un singolo episodio, quello relativo
all’uccisione delle vacche del Sole (vv. 6-9: «ma neppure così li salvò, per quanto lottasse: si
rovinarono, gli stolti, per la propria cecità cibandosi delle vacche del Sole Iperione, che strappò
loro l’ora del ritorno»). E inoltre, con l’eccezione dei Feaci, le peripezie portano Odisseo non
tanto fra città abitate quanto lontano dal consorzio civile.

D’altra parte l’episodio delle vacche del Sole, insieme con la successiva tempesta che elimina gli
ultimi compagni superstiti (cfr. XII, 403-419), rappresenta l’ultima tappa delle peregrinazioni di
Odisseo prima dell’approdo in quell’isola di Calipso dove troviamo l’eroe, che vi ha trascorso
sette anni senza storia, all’inizio del poema (I 13 ss.).
La funzione del proemio odissiaco sembra allora quella di situare l’avvio del racconto alla fine
delle peregrinazioni di Odisseo. Da questo punto di vista la risposta all’ἁμόθεν («da un punto
qualsiasi») del v. 10 (τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν «di queste cose, da
un punto qualsiasi, racconta anche a noi, o dea figlia di Zeus»), con cui l’aedo chiede alla Musa
di cominciare il suo racconto da un certo momento all’interno della continuità narrativa offerta
dalle vicende tradizionali di Odisseo e di altri eroi del ritorno da Ilio, è già stata implicitamente
suggerita alla dea dallo stesso poeta nei versi precedenti, tanto che il narratore può dare avvio alla
storia, al v. 11, con ἔνθα («allora»).
Piuttosto, bisogna riconoscere che dicendo «di molti uomini vide le città» il poeta occulta, come
una sorpresa da riservare a momenti più favorevoli, le fantastiche peripezie del nostro eroe e
ripete il linguaggio della tradizione depistando l’uditorio, quasi stesse per riproporgli quelle che
dovevano essere state più realistiche narrazioni delle peregrinazioni di Odisseo, destinate in parte
a essere recuperate nell’ambito delle «bugie cretesi».
«Vide molte città degli uomini» è infatti solo la comune, generale esperienza di chi solca il mare
per ragioni commerciali o in cerca di onore intrattenendo relazioni con altre genti, come vediamo
da IX 126 ss., dove i Ciclopi sono caratterizzati per via negativa come figure che «non hanno fra
loro calafati capaci di fabbricare navi dai solidi ponti che percorrano ogni rotta arrivando alle
città dei mortali» (e cfr. anche XV 492; XVI 63; XIX 170).
In realtà la ‘politropia’ dell’eroe dell’Odissea non è una caratteristica permanente della sua
personalità né tanto meno della saga che lo aveva immortalato come astuto guerriero e come
consigliere di principi a Troia, ma il punto d’arrivo di una serie di esperienze maturate a partire
dalla partenza da Ilio.

T. 2 Il ritorno dalla guerra di Troia


Nel corso dell’Odissea, non è narrato solo il tribolatissimo nostos dell’eroe eponimo del
poema, Odisseo, ma si fa riferimento alle difficoltà incontrate da tutta quanta l’armata degli
Achei. Il momento del ritorno costituisce per gli eroi vittoriosi un banco di prova difficilissimo,
cui sono sottoposti, proprio nel momento in cui pensavano di poter godere i frutti del trionfo sui
Troiani. Nel III libro Telemaco, alla ricerca di notizie del padre, viene accolto a Pilo dal vecchio
Nestore, che gli racconta le vicende occorse nel momento della partenza: una lite furibonda
scoppia fra gli Atridi, Agamennone e Menelao, che decidono allora di separarsi e di affrontare
divisi le incognite del ritorno.

Odissea III 130-200:

Αὐτὰρ ἐπεὶ Πριάμοιο πόλιν διεπέρσαμεν αἰπήν,


130

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Letteratura greca [1]

βῆμεν δ’ ἐν νήεσσι, θεὸς δ’ ἐκέδασσεν Ἀχαιούς,


καὶ τότε δὴ Ζεὺς λυγρὸν ἐνὶ φρεσὶ μήδετο νόστον
Ἀργείοισ’, ἐπεὶ οὔ τι νοήμονες οὐδὲ δίκαιοι
πάντες ἔσαν· τῶ σφεων πολέες κακὸν οἶτον ἐπέσπον
μήνιος ἐξ ὀλοῆς γλαυκώπιδος ὀβριμοπάτρης,
135
ἥ τ’ ἔριν Ἀτρεΐδῃσι μετ’ ἀμφοτέροισιν ἔθηκε.
Τὼ δὲ καλεσσαμένω ἀγορὴν ἐς πάντας Ἀχαιούς,
μάψ, ἀτὰρ οὐ κατὰ κόσμον, ἐς ἠέλιον καταδύντα, –
οἱ δ’ ἦλθον οἴνῳ βεβαρηότες υἷες Ἀχαιῶν, –
μῦθον μυθείσθην, τοῦ εἵνεκα λαὸν ἄγειραν.
140
Ἔνθ’ ἦ τοι Μενέλαος ἀνώγει πάντας Ἀχαιοὺς
νόστου μιμνῄσκεσθαι ἐπ’ εὐρέα νῶτα θαλάσσης·
οὐδ’ Ἀγαμέμνονι πάμπαν ἑήνδανε· βούλετο γάρ ῥα
λαὸν ἐρυκακέειν ῥέξαι θ’ ἱερὰς ἑκατόμβας,
ὡς τὸν Ἀθηναίης δεινὸν χόλον ἐξακέσαιτο,
145
νήπιος, οὐδὲ τὸ ᾔδη, ὃ οὐ πείσεσθαι ἔμελλεν·
οὐ γάρ τ’ αἶψα θεῶν τρέπεται νόος αἰὲν ἐόντων.
Ὣς τὼ μὲν χαλεποῖσιν ἀμειβομένω ἐπέεσσιν
ἕστασαν· οἱ δ’ ἀνόρουσαν ἐϋκνήμιδες Ἀχαιοὶ
ἠχῇ θεσπεσίῃ, δίχα δέ σφισιν ἥνδανε βουλή.
150
Νύκτα μὲν ἀέσαμεν χαλεπὰ φρεσὶν ὁρμαίνοντες
Ἀλλήλοισ’· ἐπὶ γὰρ Ζεὺς ἤρτυε πῆμα κακοῖο·
ἠῶθεν δ’ οἱ μὲν νέας ἕλκομεν εἰς ἅλα δῖαν
κτήματά τ’ ἐντιθέμεσθα βαθυζώνους τε γυναῖκας.
Ἡμίσεες δ’ ἄρα λαοὶ ἐρητύοντο μένοντες
155
αὖθι παρ’ Ἀτρεΐδῃ Ἀγαμέμνονι, ποιμένι λαῶν·
ἡμίσεες δ’ ἀναβάντες ἐλαύνομεν· αἱ δὲ μάλ’ ὦκα
ἔπλεον, ἐστόρεσεν δὲ θεὸς μεγακήτεα πόντον.
Ἐς Τένεδον δ’ ἐλθόντες ἐρέξαμεν ἱρὰ θεοῖσιν,
οἴκαδε ἱέμενοι· Ζεὺς δ’ οὔ πω μήδετο νόστον,
160
σχέτλιος, ὅς ῥ’ ἔριν ὦρσε κακὴν ἔπι δεύτερον αὖτις.
Οἱ μὲν ἀποστρέψαντες ἔβαν νέας ἀμφιελίσσας
ἀμφ’ Ὀδυσῆα ἄνακτα δαΐφρονα ποικιλομήτην,
αὖτις ἐπ’ Ἀτρεΐδῃ Ἀγαμέμνονι ἦρα φέροντες·
αὐτὰρ ἐγὼ σὺν νηυσὶν ἀολλέσιν, αἵ μοι ἔποντο,
165
φεῦγον, ἐπεὶ γίνωσκον, ὃ δὴ κακὰ μήδετο δαίμων.
Φεῦγε δὲ Τυδέος υἱὸς ἀρήϊος, ὦρσε δ’ ἑταίρους.
Ὀψὲ δὲ δὴ μετὰ νῶϊ κίε ξανθὸς Μενέλαος,
ἐν Λέσβῳ δ’ ἔκιχεν δολιχὸν πλόον ὁρμαίνοντας,
ἢ καθύπερθε Χίοιο νεοίμεθα παιπαλοέσσης,
170
νήσου ἔπι Ψυρίης, αὐτὴν ἐπ’ ἀριστέρ’ ἔχοντες,
ἦ ὑπένερθε Χίοιο παρ’ ἠνεμόεντα Μίμαντα.
Ἠιτέομεν δὲ θεὸν φῆναι τέρας· αὐτὰρ ὅ γ’ ἥμιν
δεῖξε, καὶ ἠνώγει πέλαγος μέσον εἰς Εὔβοιαν
τέμνειν, ὄφρα τάχιστα ὑπὲκ κακότητα φύγοιμεν.
175
Ὦρτο δ’ ἐπὶ λιγὺς οὖρος ἀήμεναι· αἱ δὲ μάλ’ ὦκα
ἰχθυόεντα κέλευθα διέδραμον, ἐς δὲ Γεραιστὸν
ἐννύχιαι κατάγοντο· Ποσειδάωνι δὲ ταύρων
πόλλ’ ἐπὶ μῆρ’ ἔθεμεν, πέλαγος μέγα μετρήσαντες.

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Τέτρατον ἦμαρ ἔην, ὅτ’ ἐν Ἄργεϊ νῆας ἐΐσας


180
Τυδεΐδεω ἕταροι Διομήδεος ἱπποδάμοιο
ἵστασαν· αὐτὰρ ἐγώ γε Πύλονδ’ ἔχον, οὐδέ ποτ’ ἔσβη
οὖρος, ἐπεὶ δὴ πρῶτα θεὸς προέηκεν ἀῆναι.
Ὣς ἦλθον, φίλε τέκνον, ἀπευθής, οὐδέ τι οἶδα
κείνων, οἵ τ’ ἐσάωθεν Ἀχαιῶν οἵ τ’ ἀπόλοντο.
185
Ὅσσα δ’ ἐνὶ μεγάροισι καθήμενος ἡμετέροισι
πεύθομαι, ἣ θέμις ἐστί, δαήσεαι, οὐδέ σε κεύσω.
Εὖ μὲν Μυρμιδόνας φάσ’ ἐλθέμεν ἐγχεσιμώρους,
οὓς ἄγ’ Ἀχιλλῆος μεγαθύμου φαίδιμος υἱός,
εὖ δὲ φιλοκτήτην, Ποιάντιον ἀγλαὸν υἱόν.
190
Πάντας δ’ Ἰδομενεὺς Κρήτην εἰσήγαγ’ ἑταίρους,
οἳ φύγον ἐκ πολέμου, πόντος δέ οἱ οὔ τιν’ ἀπηύρα.
Ἀτρεΐδην δὲ καὶ αὐτοὶ ἀκούετε νόσφιν ἐόντες,
ὥς τ’ ἦλθ’ ὥς τ’ Αἴγισθος ἐμήσατο λυγρὸν ὄλεθρον.
Ἀλλ’ ἦ τοι κεῖνος μὲν ἐπισμυγερῶς ἀπέτεισεν.
195
Ὡς ἀγαθὸν καὶ παῖδα καταφθιμένοιο λιπέσθαι
ἀνδρός, ἐπεὶ καὶ κεῖνος ἐτείσατο πατροφονῆα,
Αἴγισθον δολόμητιν, ὅ οἱ πατέρα κλυτὸν ἔκτα.
Καὶ σύ, φίλος, μάλα γάρ σ’ ὁρόω καλόν τε μέγαν τε, 200
ἄλκιμος ἔσσ’, ἵνα τίς σε καὶ ὀψιγόνων ἐῢ εἴπῃ.”

Ma quando distruggemmo la città scoscesa di Priamo, 130


e sulle navi partimmo, e un dio disperse gli Achei,
allora Zeus meditò nella mente un luttuoso ritorno
agli Argivi, perché né saggi né giusti
furono tutti: perciò molti di essi incorsero nella sventura.
per l'ira funesta della glaucopide figlia di padre possente, 135
che mise discordia in mezzo ai due Atridi.
Essi, chiamati in assemblea tutti gli Achei,
stoltamente e senza regola alcuna, al calare del sole
(e i figli degli Achei arrivarono appesantiti dal vino),
dissero per quale ragione avevano radunato l'esercito. 140
Lì Menelao esortava tutti gli Achei
a pensare al ritorno sul dorso vasto del mare.
E ad Agamennone per nulla piaceva: infatti voleva
trattenere l'esercito a fare sacre ecatombi
per placare il terribile sdegno di Atena. 145
Sventurato! non sapeva che non l'avrebbe convinta:
la mente degli dei che vivono eterni non muta d'un tratto!
Quei due stavano ritti così, scambiandosi gravi
parole: balzarono in piedi gli Achei dai saldi schinieri
con grida terribili. Due opposti pareri ad essi piacevano. 150
Passammo la notte meditando, gli uni agli altri,
violenze: perché Zeus preparava rovina e sventura.
Noi, all'alba, tirammo le navi nel mare lucente,
imbarcammo gli averi e le donne dall'alta cintura.
Metà dell'esercito, invece, rimase ad attendere 155
là con l'Atride Agamennone pastore di genti:

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Letteratura greca [1]

metà, imbarcatici, andammo. Le navi correvano


molto veloci: un dio spianò il mare dai grandi abissi.
Arrivati a Tenedo facemmo sacrifici agli dei,
bramosi di giungere a casa: ma Zeus non pensava il ritorno 160
spietato! che di nuovo suscitò una maligna contesa.
Alcuni, voltate le navi veloci a virare, tornarono
col valente astuto Odisseo signore
dall'Atride Agamennone, per fargli piacere;
invece io, con le navi che mi seguivano in frotta, 165
fuggii, perché comprendevo che il dio pensava sventure.
Fuggì il figlio bellicoso di Tideo, e incitava i compagni.
Tardi, dopo di noi, si mosse il biondo Menelao,
e ci trovò a Lesbo, che studiavamo il lungo viaggio,
se far rotta sopra Chio dirupata 170
verso l'isola Psiria, avendola a manca,
o sotto Chio vicino al Mimante ventoso.
Chiedemmo che il dio ci mostrasse un prodigio: e lui
lo mostrò, e ci spinse a tagliare la distesa a metà
per l'Eubea, per sfuggire il più presto al pericolo. 175
Si mise a soffiare uno stridulo vento: le navi correvano
molto veloci sulle rotte pescose, e approdammo
di notte a Geresto. Offrimmo a Posidone
molti cosci di tori, per aver superato il gran mare.
Era il quarto giorno, quando i compagni del Tidide Diomede 180
che doma cavalli arrestarono le navi librate
ad Argo: invece io le tenni su Pilo, né mai si spense
il vento, dopoché il dio lo spinse a soffiare.
Così arrivai, figlio caro, senza notizie: non so nulla
degli altri, quali Achei si salvarono e quali perirono.
185
Ma quello che ho appreso stando qui
a casa, lo saprai, come è giusto, né al buio ti terrò.
Bene, si dice, arrivarono i Mirmidoni di lancia gloriosa,
che l'illustre figlio del magnanimo Achille guidava;
bene, Filottete, il figlio famoso di Peante.
190
A Creta, Idomeneo ricondusse tutti i compagni
sfuggiti alla guerra: il mare non gliene tolse nessuno.
L'Atride, l'avete sentito anche voi, che state lontano,
come giunse ed Egisto gli ordì una fine luttuosa.
Ma costui espiò davvero miseramente. 195
Quanto fu bene che del morto restasse anche un figlio,
perché proprio lui punì l'assassino del padre,
Egisto esperto d'inganni, che gli uccise il nobile padre.
Anche tu, caro, poiché così bello e grande ti vedo,
sii coraggioso, perché anche tra i posteri qualcuno ti lodi». 200

La vicenda del travagliato ritorno in patria di Agamennone e dell’agguato di cui egli cade vittima
a opera della moglie Clitennestra e del cugino Egisto, era già stata presentata nel primo libro di
Odissea: nel corso di un convito degli dei, Zeus si lamenta del fatto che gli uomini imputano
sempre agli dei, anche quei mali di cui sono essi stessi responsabili. Esemplare è il caso della

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Letteratura greca [1]

vendetta compiuta su Egisto ad opera di Oreste (figlio dell’Atride assassinato). Si tratta della
prima attestazione letteraria di quella vicenda mitica, che sarà magistralmente sviluppata da
Eschilo nella trilogia dell’Orestea.

Odissea I 28-43

Τοῖσι δὲ μύθων ἦρχε πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε·


μνήσατο γὰρ κατὰ θυμὸν ἀμύμονος Αἰγίσθοιο,
τόν ῥ’ Ἀγαμεμνονίδης τηλεκλυτὸς ἔκταν’ Ὀρέστης· 30
τοῦ ὅ γ’ ἐπιμνησθεὶς ἔπε’ ἀθανάτοισι μετηύδα·
«Ὢ πόποι, οἷον δή νυ θεοὺς βροτοὶ αἰτιόωνται.
Ἐξ ἡμέων γάρ φασι κάκ’ ἔμμεναι· οἱ δὲ καὶ αὐτοὶ
σφῇσιν ἀτασθαλίῃσιν ὑπὲρ μόρον ἄλγε’ ἔχουσιν,
ὡς καὶ νῦν Αἴγισθος ὑπὲρ μόρον Ἀτρεΐδαο 35
γῆμ’ ἄλοχον μνηστήν, τὸν δ’ ἔκτανε νοστήσαντα,
εἰδὼς αἰπὺν ὄλεθρον, ἐπεὶ πρό οἱ εἴπομεν ἡμεῖς,
Ἑρμείαν πέμψαντες, ἐΰσκοπον Ἀργεϊφόντην,
Μήτ’ αὐτὸν κτείνειν μήτε μνάασθαι ἄκοιτιν·
ἐκ γὰρ Ὀρέσταο τίσις ἔσσεται Ἀτρεΐδαο, 40
Ὁππότ’ ἂν ἡβήσῃ τε καὶ ἧς ἱμείρεται αἴης.
Ὣς ἔφαθ’ Ἑρμείας, ἀλλ’ οὐ φρένας Αἰγίσθοιο
Πεῖθ’ ἀγαθὰ φρονέων· νῦν δ’ ἁθρόα πάντ’ ἀπέτεισε».

E fra essi iniziò a parlare il padre di uomini e dei:


in mente gli era venuto il nobile Egisto,
colui che il figlio d’Agamennone, il famoso Oreste, uccise.
30
Di lui ricordandosi, disse agli immortali così:
« Ah! quante colpe danno i mortali agli dei!
Ci dicono causa delle loro disgrazie: ma anche da sé,
con le loro empietà, si procurano dolori oltre il segno.
Come ad esempio ora Egisto: sposò la legittima moglie 35
di Atride , oltre il giusto, e lui, appena tornato, l’uccise,
pur sapendo della ripida morte. Perché l’avevamo avvertito,
mandandogli Ermete, l’Arghifonte di ottima vista,
di non ucciderlo, di non volerne la sposa:
"Dell’Atride sarà fatta vendetta da Oreste , 40
quando, cresciuto, desidererà la sua terra".
Così Ermete gli disse , ma non piegò la mente di Egisto,
pur pensando al suo bene: e ora, tutt’insieme, ha pagato».

Numerosi altri eroi, reduci dalla guerra di Troia, hanno dovuto affrontare un difficile ritorno in
patria: un’ampia carrellata delle loro tristi vicende viene proposta da Proteo, il vecchio dio del
mare, a Menelao, che lo interrogava sul proprio destino. Il colloquio è collocato nella scena di
ospitalità che Telemaco riceve a Sparta da Menelao ed Elena: alla richiesta di informazioni sulla
sorte di Odisseo, Menelao racconta al giovane ciò che sa, in virtù delle informazioni avute da
Proteo.

Odissea IV 460-537

Quando il vecchio conoscitore di astuzie fu stanco, 460


allora interrogandomi con parole mi disse:
"Quale dio, o figlio di Atreo, ha pensato il piano con te,
per prendermi contro voglia in agguato? di cosa hai bisogno?"
Disse così, ed io rispondendogli dissi:

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Letteratura greca [1]

-Lo sai, vecchio: perché me lo chiedi, sviandomi? 465


Da tanto tempo sono impedito nell’isola, e non so
trovare una fine, e il mio cuore dentro si strugge.
Ma tu dimmi (gli dei sanno tutto)
quale immortale mi inceppa e mi ha impedito il cammino,
e dimmi il ritorno, come andrò sul mare pescoso". 470
Dissi così, e subito rispondendomi disse:
"Ma dopo aver fatto a Zeus e agli altri dei
belle ecatombi dovevi imbarcarti, per arrivare
al più presto in patria, navigando sul mare scuro come vino.
Non è destino per te vedere i tuoi cari e arrivare 475
nella casa ben costruita e nella terra dei padri,
prima d’esser tornato alle acque di Egitto,
il fiume disceso da Zeus, e d’aver fatte sacre ecatombi
agli dei immortali, che hanno il vasto cielo.
Solo allora gli dei ti daranno la via che tu brami". 480
Disse così, e a me si spezzò il caro cuore,
perché mi spingeva ad andare sul fosco mare
di nuovo all’Egitto, via lunga e penosa.
Ma anche così, rispondendo con parole gli dissi:
"Questo, o vecchio, lo farò come ordini tu. 485
Ma dimmi una cosa e dilla con tutta franchezza:
se con le navi arrivarono incolumi tutti gli Achei,
che Nestore ed io lasciammo partendo da Troia,
o se qualcuno è morto di morte amara sulla sua nave
o nelle mani di amici, dopo aver dipanato la guerra". 490
Dissi così, e subito rispondendomi disse:
"Atride, perché me lo chiedi? non ti serve
saperlo e indagarmi la mente: ti dico che non sarai
senza pianto per molto, quando saprai bene tutto.
Perché molti furono vinti, tra essi, e molti rimasero vivi: 495
solo due capi, tra gli Achei dal chitone di bronzo,
perirono durante il ritorno: in battaglia c’eri anche tu.
Uno, ancor vivo, chissà dove, è trattenuto sul vasto mare.
Aiace, con le navi dai lunghi remi, fu vinto:
prima, Posidone lo accostò alle Rupi Giree, 500
le grandi scogliere, e lo trasse salvo dal mare;
e sarebbe sfuggito al destino, benché odioso ad Atena,
se non diceva parole superbe e non era grandemente accecato:
disse ch’era scampato al gran gorgo del mare, malgrado gli dei.
Posidone l’udì che diceva questa gran vanteria: 505
subito, preso con le mani vigorose il tridente ,
colpì la Rupe Girea e la spaccò in due.
E una parte rimase dov’era; lo spezzone su cui
era Aiace grandemente accecato cadde in mare
e lo trasse nel mare infinito, ondeggiante. 510
Così egli morì, laggiù, dopo aver ingoiato acqua salsa.
Tuo fratello sfuggì alle dee della morte e scampò
con le navi ben cave: a salvarlo fu Era possente.
E stava per giungere al ripido Monte
Malea, quando la tempesta, rapitolo, 515
8
Letteratura greca [1]

lo trascinò tra gravi gemiti nel mare pescoso


All’estremità di quel campo in cui prima abitava
Tieste , e allora Egisto abitava, figlio di Tieste .
Quando anche lì il ritorno parve sicuro,
e gli dei invertirono il vento ed essi arrivarono a casa, 520
allora, felice, sbarcò sulla terra dei padri
e toccatala baciò la sua patria: molte lacrime
egli versò, caldamente, quando vide finalmente la terra.
Ma dalla vedetta lo scorse la guardia che Egisto,
esperto di inganni, vi collocò, e a compenso gli offrì 525
due talenti di oro: stava a guardia da un anno,
che non gli sfuggisse passando e ricordasse il valore guerriero.
Costui s’avviò al palazzo per dirlo al pastore di popoli.
Subito Egisto pensò un espediente insidioso:
scelti venti uomini, i più valorosi della contrada, 530
tese un agguato e ordinò d’apprestare altrove un banchetto.
Poi, andò a chiamare Agamennone, pastore di popoli,
con cavalli e con carri, meditando infami pensieri.
Lo condusse , che non sospettava la fine, e l’uccise
dopo averlo invitato, come chi ammazza un bue alla greppia. 535
Dei compagni che avevano seguito l’Atride non rimase nessuno,
e nessuno dei compagni d’Egisto, ma in casa furono uccisi".

T. 3 Ulisse e Calipso: lʼultimo colloquio

Dopo le vicende di Telemaco raccontate nei primi quattro libri (che costituiscono la cosiddetta
“telemachia”), nel quinto compare finalmente l’eroe del poema, Odisseo, intrappolato nella
‘prigione dorata’ dell’isola di Ogigia, nella quale egli è, da ormai sette anni, ospite-prigioniero
della ninfa Calipso. Gli dei hanno però decretato che anche per lui è giunto il momento del
ritorno in patria, e per questo motivo Zeus manda Ermes ad imporre a Calipso di lasciare libero
Odisseo. La ninfa – pur contrariata – deve accondiscendere all’ordine divino: si reca allora sulla
riva del mare, dove incontra l’eroe che piange e sospira il ritorno. La scena dell’ultimo incontro
fra i due costituisce certamente uno dei vertici assoluti dell’arte omerica e merita di essere
riportata per intero.

Odissea V 149-224

Ἡ δ’ ἐπ’ Ὀδυσσῆα μεγαλήτορα πότνια νύμφη


ἤϊ’, ἐπεὶ δὴ Ζηνὸς ἐπέκλυεν ἀγγελιάων. 150
Τὸν δ’ ἄρ’ ἐπ’ ἀκτῆς εὗρε καθήμενον· οὐδέ ποτ’ ὄσσε
δακρυόφιν τέρσοντο, κατείβετο δὲ γλυκὺς αἰὼν
νόστον ὀδυρομένῳ, ἐπεὶ οὐκέτι ἥνδανε νύμφη.
Ἀλλ’ ἦ τοι νύκτας μὲν ἰαύεσκεν καὶ ἀνάγκῃ
ἐν σπέεσι γλαφυροῖσι παρ’ οὐκ ἐθέλων ἐθελούσῃ· 155
ἤματα δ’ ἂμ πέτρῃσι καὶ ἠϊόνεσσι καθίζων
δάκρυσι καὶ στοναχῇσι καὶ ἄλγεσι θυμὸν ἐρέχθων
πόντον ἐπ’ ἀτρύγετον δερκέσκετο δάκρυα λείβων.
Ἀγχοῦ δ’ ἱσταμένη προσεφώνεε δῖα θεάων·
«Κάμμορε, μή μοι ἔτ’ ἐνθάδ’ ὀδύρεο, μηδέ τοι αἰὼν 160
φθινέτω· ἤδη γάρ σε μάλα πρόφρασσ’ ἀποπέμψω.
Ἀλλ’ ἄγε δούρατα μακρὰ ταμὼν ἁρμόζεο χαλκῷ
εὐρεῖαν σχεδίην· ἀτὰρ ἴκρια πῆξαι ἐπ’ αὐτῆς
ὑψοῦ, ὥς σε φέρῃσιν ἐπ’ ἠεροειδέα πόντον.

9
Letteratura greca [1]

Αὐτὰρ ἐγὼ σῖτον καὶ ὕδωρ καὶ οἶνον ἐρυθρὸν 165


ἐνθήσω μενοεικέ’, ἅ κέν τοι λιμὸν ἐρύκοι,
εἵματά τ’ ἀμφιέσω· πέμψω δέ τοι οὖρον ὄπισθεν,
ὥς κε μάλ’ ἀσκηθὴς σὴν πατρίδα γαῖαν ἵκηαι,
αἴ κε θεοί γ’ ἐθέλωσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν,
οἵ μευ φέρτεροί εἰσι νοῆσαί τε κρῆναί τε». 170
Ὣς φάτο, ῥίγησεν δὲ πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς,
καί μιν φωνήσας ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·
«Ἄλλο τι δὴ σύ, θεά, τόδε μήδεαι οὐδέ τι πομπήν,
ἥ με κέλεαι σχεδίῃ περάαν μέγα λαῖτμα θαλάσσης,
δεινόν τ’ ἀργαλέον τε· τὸ δ’ οὐδ’ ἐπὶ νῆες ἐῖσαι 175
ὠκύποροι περόωσιν, ἀγαλλόμεναι Διὸς οὔρῳ.
Οὐδ’ ἂν ἐγώ γ’ ἀέκητι σέθεν σχεδίης ἐπιβαίην,
εἰ μή μοι τλαίης γε, θεά, μέγαν ὅρκον ὀμόσσαι
μή τί μοι αὐτῷ πῆμα κακὸν βουλευσέμεν ἄλλο».
Ὣς φάτο, μείδησεν δὲ Καλυψώ, δῖα θεάων, 180
χειρί τέ μιν κατέρεξεν ἔπος τ’ ἔφατ’ ἔκ τ’ ὀνόμαζεν·
«Ἦ δὴ ἀλιτρός γ’ ἐσσὶ καὶ οὐκ ἀποφώλια εἰδώς,
οἷον δὴ τὸν μῦθον ἐπεφράσθης ἀγορεῦσαι.
Ἴστω νῦν τόδε γαῖα καὶ οὐρανὸς εὐρὺς ὕπερθε
καὶ τὸ κατειβόμενον Στυγὸς ὕδωρ, ὅς τε μέγιστος 185
ὅρκος δεινότατός τε πέλει μακάρεσσι θεοῖσι,
μή τί τοι αὐτῷ πῆμα κακὸν βουλευσέμεν ἄλλο.
Ἀλλὰ τὰ μὲν νοέω καὶ φράσσομαι, ἅσσ’ ἂν ἐμοί περ
αὐτῇ μηδοίμην, ὅτε με χρειὼ τόσον ἵκοι·
καὶ γὰρ ἐμοὶ νόος ἐστὶν ἐναίσιμος, οὐδέ μοι αὐτῇ 190
θυμὸς ἐνὶ στήθεσσι σιδήρεος, ἀλλ’ ἐλεήμων».
Ὣς ἄρα φωνήσασ’ ἡγήσατο δῖα θεάων
καρπαλίμως· ὁ δ’ ἔπειτα μετ’ ἴχνια βαῖνε θεοῖο.
Ἷξον δὲ σπεῖος γλαφυρὸν θεὸς ἠδὲ καὶ ἀνήρ·
καί ῥ’ ὁ μὲν ἔνθα καθέζετ’ ἐπὶ θρόνου, ἔνθεν ἀνέστη 195
Ἑρμείας, νύμφη δ’ ἐτίθει πάρα πᾶσαν ἐδωδήν,
ἔσθειν καὶ πίνειν, οἷα βροτοὶ ἄνδρες ἔδουσιν·
αὐτὴ δ’ ἀντίον ἷζεν Ὀδυσσῆος θείοιο,
τῇ δὲ παρ’ ἀμβροσίην δμῳαὶ καὶ νέκταρ ἔθηκαν.
Οἱ δ’ ἐπ’ ὀνείαθ’ ἑτοῖμα προκείμενα χεῖρας ἴαλλον. 200
Αὐτὰρ ἐπεὶ τάρπησαν ἐδητύος ἠδὲ ποτῆτος,
τοῖσ’ ἄρα μύθων ἦρχε Καλυψώ, δῖα θεάων·
«Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ,
οὕτω δὴ οἶκόνδε φίλην ἐς πατρίδα γαῖαν
αὐτίκα νῦν ἐθέλεις ἰέναι; σὺ δὲ χαῖρε καὶ ἔμπης. 205
Εἴ γε μὲν εἰδείης σῇσι φρεσίν, ὅσσα τοι αἶσα
κήδε’ ἀναπλῆσαι, πρὶν πατρίδα γαῖαν ἱκέσθαι,
ἐνθάδε κ’ αὖθι μένων σὺν ἐμοὶ τόδε δῶμα φυλάσσοις
ἀθάνατός τ’ εἴης, ἱμειρόμενός περ ἰδέσθαι
σὴν ἄλοχον, τῆς τ’ αἰὲν ἐέλδεαι ἤματα πάντα. 210
Οὐ μέν θην κείνης γε χερείων εὔχομαι εἶναι,
οὐ δέμας οὐδὲ φυήν, ἐπεὶ οὔ πως οὐδὲ ἔοικε
θνητὰς ἀθανάτῃσι δέμας καὶ εἶδος ἐρίζειν».
Τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·
«Πότνα θεά, μή μοι τόδε χώεο· οἶδα καὶ αὐτὸς 215
πάντα μάλ’, οὕνεκα σεῖο περίφρων Πηνελόπεια
εἶδος ἀκιδνοτέρη μέγεθός τ’ εἰσάντα ἰδέσθαι·
ἡ μὲν γὰρ βροτός ἐστι, σὺ δ’ ἀθάνατος καὶ ἀγήρως.
Ἀλλὰ καὶ ὧς ἐθέλω καὶ ἐέλδομαι ἤματα πάντα
οἴκαδέ τ’ ἐλθέμεναι καὶ νόστιμον ἦμαρ ἰδέσθαι. 220
Εἰ δ’ αὖ τις ῥαίῃσι θεῶν ἐνὶ οἴνοπι πόντῳ,
τλήσομαι ἐν στήθεσσιν ἔχων ταλαπενθέα θυμόν·
ἤδη γὰρ μάλα πολλὰ πάθον καὶ πολλὰ μόγησα

10
Letteratura greca [1]

κύμασι καὶ πολέμῳ· μετὰ καὶ τόδε τοῖσι γενέσθω».

Lei si recò dal magnanimo Odisseo, la ninfa possente ,


quando ebbe udito il messaggio di Zeus. 150
Lo trovò seduto sul lido: i suoi occhi
non erano mai asciutti di lacrime , passava la dolce vita
piangendo il ritorno, perché ormai non gli piaceva la ninfa.
Certo la notte dormiva, anche per forza,
nelle cave spelonche , senza voglia, con lei che voleva; 155
ma il giorno, seduto sugli scogli e sul lido,
lacerandosi l’animo con lacrime , lamenti e dolori,
guardava piangendo il mare infecondo.
Ritta al suo fianco gli parlò, chiara fra le dee:
« Infelice , non starmi qui a piangere ancora, non rovinarti 160
la vita: ti lascerò andare ormai volentieri.
Ma su, taglia dei grossi tronchi con l’ascia di bronzo
e costruisci una zattera larga: sopra conficca dei fianchi,
perché ti porti sul fosco mare.
Io vi porrò in abbondanza del cibo, acqua 165
e rosso vino, che ti tengano lontana la fame;
ti coprirò di panni; ti invierò dietro un vento,
perché possa giungere incolume nella tua terra,
se gli dei che hanno il vasto cielo lo vogliono,
che quando pensano e agiscono sono più potenti di me ». 170
Disse così: rabbrividì il paziente chiaro Odisseo
e parlando le rivolse alate parole:
« Un’altra cosa, non di mandarmi, tu mediti, o dea,
che mi esorti a varcare il grande abisso del mare ,
terribile e duro, con una zattera: ma neanche navi librate , 175
veloci, che godono del vento di Zeus, lo varcano.
Né io monterò su una zattera contro la tua volontà,
se non acconsenti a giurarmi, o dea, il giuramento solenne
che non mediti un’altra azione cattiva a mio danno ».
Disse così; sorrise Calipso, chiara fra le dee, 180
lo carezzò con la mano, gli rivolse la parola, gli disse:
« Sei davvero un furfante e non pensi da sciocco:
che discorso hai pensato di farmi!
Sia ora testimone la terra e in alto il vasto cielo
e l’acqua dello Stige che scorre (che è il giuramento 185
più grande e terribile per gli dei beati)
che non medito un’altra azione cattiva a tuo danno.
Ma penso e mediterò quello che per me
io vorrei, se fossi in tale bisogno:
perché anche io ho giusti pensieri, e nel petto 190
non ho un cuore di ferro, ma compassione ».
Detto così lo guidò, chiara fra le dee ,
sveltamente: dietro la dea andò lui.
Arrivarono, la dea e l’uomo, nella cava spelonca.
Lì egli sedette sul trono da cui s’era alzato 195
Ermete , e la ninfa gli offrì ogni cibo
da mangiare e da bere , di cui i mortali si cibano.

11
Letteratura greca [1]

Lei stessa sedette di fronte al divino Odisseo


e le ancelle le misero innanzi ambrosia e nettare.
Ed essi sui cibi pronti, imbanditi, le mani tendevano 200
Poi, quando furono sazi di cibo e bevanda,
tra essi cominciò a parlare Calipso, chiara fra le dee:
« Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,
e così vuoi ora andartene a casa, subito,
nella cara terra dei padri? E tu sii felice, comunque. 205
Ma se tu nella mente sapessi quante pene
ti è destino patire prima di giungere in patria,
qui resteresti con me a custodire questa dimora,
e saresti immortale, benché voglioso di vedere
tua moglie , che tu ogni giorno desideri. 210
Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei
per aspetto o figura, perché non è giusto
che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e beltà ».
Rispondendo le disse l’astuto Odisseo:
« Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so 215
bene anche io, che la saggia Penelope
a vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
giungere a casa e vedere il dì del ritorno. 220
E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,
saprò sopportare , perché ho un animo paziente nel petto:
sventure ne ho tante patite e tante sofferte
tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa ».
[trad. di G. A. Privitera]

T. 4 La fantasia nuziale della vergine Nausicaa

Ὡς ὁ μὲν ἔνθα καθεῦδε πολύτλας δῖος Ὀδυσσεὺς


ὕπνῳ καὶ καμάτῳ ἀρημένος
Così egli dormiva in quel luogo, il paziente chiaro Odisseo,
vinto dal sonno e dalla stanchezza
Il canto VI si apre sull’immagine di Ulisse dormiente sul lido: un quadro sereno, se non fosse
per quel καμάτῳ che è la ragione vera dell’ὕπνος. Questo sonno da sfinimento è come lo
spartiacque nelle vicende dell’eroe, che ha ora toccato il punto più basso della sua parabola e che
da questo momento risalirà fino a riacquistare il suo regno, la sua famiglia e tutti gli onori che
gli spettano.
La favolosa Scheria, col suo favoloso popolo (i Feaci), è la tappa determinante per il ritorno
dell’eroe a Itaca. Il motivo dell’incontro del naufrago con la figlia del re del luogo è motivo
fiabesco, ma è inserito con maestria nella trama dell’Odissea: all’interno di esso Ulisse ha
modo di esaltare le sue doti di accortezza e la capacità di adattarsi agli uomini e alle circostanze.
Il confronto Odisseo/Nausicaa, nel ritmo lento della narrazione, consente di valutare da un lato
l’intelligenza dell’eroe che sa meritarsi la fiducia e il decisivo aiuto della principessa, dall’altro
le qualità di quest’ultima, gentile e generosa nelle sue decisioni.
Nausicaa, la figlia del re dei Feaci Alcinoo, si è recata con le ancelle ai lavatoi per lavare le vesti
proprie e dei suoi, indotta da Atena, che le era apparsa in sogno sotto le spoglie di un’amica sua
coetanea, la «figlia del famoso navigatore Dimante», consigliandole di chiedere al padre che le

12
Letteratura greca [1]

armasse il carro e le mule per poter portare i panni alla foce del fiume, richiesta prontamente
esaudita dal genitore.
Arrivate sul posto e lasciate libere le mule, le ragazze lavano le vesti, le stendono sulla riva del
mare al sole e, in attesa che si asciughino, fanno il bagno e si ristorano con il cibo che la regina
madre aveva premurosamente preparato.
Poi, gettati via i veli dal capo, giocano a palla. A questo punto Atena fa in modo che la palla
lanciata da Nausicaa cada nell’acqua, suscitando un lungo grido da parte delle ancelle. Il grido
provoca il risveglio di Odisseo.

Odissea VI 110-250

Ἀλλ’ ὅτε δὴ ἄρ’ ἔμελλε πάλιν οἶκόνδε νέεσθαι 110


ζεύξασ’ ἡμιόνους πτύξασά τε εἵματα καλά,
ἔνθ’ αὖτ’ ἄλλ’ ἐνόησε θεὰ γλαυκῶπις Ἀθήνη,
ὡς Ὀδυσεὺς ἔγροιτο, ἴδοι τ’ εὐώπιδα κούρην,
ἥ οἱ Φαιήκων ἀνδρῶν πόλιν ἡγήσαιτο.
Σφαῖραν ἔπειτ’ ἔρριψε μετ’ ἀμφίπολον βασίλεια· 115
ἀμφιπόλου μὲν ἅμαρτε, βαθείῃ δ’ ἔμβαλε δίνῃ.
Αἱ δ’ ἐπὶ μακρὸν ἄϋσαν· ὁ δ’ ἔγρετο δῖος Ὀδυσσεύς,
ἑζόμενος δ’ ὥρμαινε κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν·
«Ὤ μοι ἐγώ, τέων αὖτε βροτῶν ἐς γαῖαν ἱκάνω;
Ἤ ῥ’ οἵ γ’ ὑβρισταί τε καὶ ἄγριοι οὐδὲ δίκαιοι, 120
ἦε φιλόξεινοι καί σφιν νόος ἐστὶ θεουδής;
Ὥς τέ με κουράων ἀμφήλυθε θῆλυς ἀϋτή,
νυμφάων, αἳ ἔχουσ’ ὀρέων αἰπεινὰ κάρηνα
καὶ πηγὰς ποταμῶν καὶ πίσεα ποιήεντα·
ἦ νύ που ἀνθρώπων εἰμὶ σχεδὸν αὐδηέντων; 125
Ἀλλ’ ἄγ’ ἐγὼν αὐτὸς πειρήσομαι ἠδὲ ἴδωμαι».
Ὣς εἰπὼν θάμνων ὑπεδύσετο δῖος Ὀδυσσεύς,
ἐκ πυκινῆς δ’ ὕλης πτόρθον κλάσε χειρὶ παχείῃ
φύλλων, ὡς ῥύσαιτο περὶ χροῒ μήδεα φωτός.
Βῆ δ’ ἴμεν ὥς τε λέων ὀρεσίτροφος, ἀλκὶ πεποιθώς, 130
ὅς τ’ εἶσ’ ὑόμενος καὶ ἀήμενος, ἐν δέ οἱ ὄσσε
δαίεται· αὐτὰρ ὁ βουσὶ μετέρχεται ἢ ὀΐεσσιν
ἠὲ μετ’ ἀγροτέρας ἐλάφους· κέλεται δέ ἑ γαστὴρ
μήλων πειρήσοντα καὶ ἐς πυκινὸν δόμον ἐλθεῖν·
ὣς Ὀδυσεὺς κούρῃσιν ἐϋπλοκάμοισιν ἔμελλε 135
μείξεσθαι, γυμνός περ ἐών· χρειὼ γὰρ ἵκανε.
Σμερδαλέος δ’ αὐτῇσι φάνη κεκακωμένος ἅλμῃ,
τρέσσαν δ’ ἄλλυδις ἄλλη ἐπ’ ἠϊόνας προὐχούσας.
Οἴη δ’ Ἀλκινόου θυγάτηρ μένε· τῇ γὰρ Ἀθήνη
θάρσος ἐνὶ φρεσὶ θῆκε καὶ ἐκ δέος εἵλετο γυίων. 140
Στῆ δ’ ἄντα σχομένη· ὁ δὲ μερμήριξεν Ὀδυσσεύς,
ἢ γούνων λίσσοιτο λαβὼν εὐώπιδα κούρην,
ἦ αὔτως ἐπέεσσιν ἀποσταδὰ μειλιχίοισι
λίσσοιτ’, εἰ δείξειε πόλιν καὶ εἵματα δοίη.
Ὣς ἄρα οἱ φρονέοντι δοάσσατο κέρδιον εἶναι, 145
λίσσεσθαι ἐπέεσσιν ἀποσταδὰ μειλιχίοισι,
μή οἱ γοῦνα λαβόντι χολώσαιτο φρένα κούρη.
Αὐτίκα μειλίχιον καὶ κερδαλέον φάτο μῦθον·
«Γουνοῦμαί σε, ἄνασσα· θεός νύ τις ἦ βροτός ἐσσι;
Εἰ μέν τις θεός ἐσσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν, 150
Ἀρτέμιδί σε ἐγώ γε, Διὸς κούρῃ μεγάλοιο,
εἶδός τε μέγεθός τε φυήν τ’ ἄγχιστα ἐΐσκω·
εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν, οἳ ἐπὶ χθονὶ ναιετάουσι,
τρὶς μάκαρες μὲν σοί γε πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ,
τρὶς μάκαρες δὲ κασίγνητοι· μάλα πού σφισι θυμὸς 155
αἰὲν ἐϋφροσύνῃσιν ἰαίνεται εἵνεκα σεῖο,
λευσσόντων τοιόνδε θάλος χορὸν εἰσοιχνεῦσαν.

13
Letteratura greca [1]

Κεῖνος δ’ αὖ περὶ κῆρι μακάρτατος ἔξοχον ἄλλων,


ὅς κέ σ’ ἐέδνοισι βρίσας οἶκόνδ’ ἀγάγηται.
Οὐ γάρ πω τοιοῦτον ἴδον βροτὸν ὀφθαλμοῖσιν, 160
οὔτ’ ἄνδρ’ οὔτε γυναῖκα· σέβας μ’ ἔχει εἰσορόωντα.
Δήλῳ δή ποτε τοῖον Ἀπόλλωνος παρὰ βωμῷ
φοίνικος νέον ἔρνος ἀνερχόμενον ἐνόησα·
ἦλθον γὰρ καὶ κεῖσε, πολὺς δέ μοι ἕσπετο λαός,
τὴν ὁδόν, ᾗ δὴ μέλλεν ἐμοὶ κακὰ κήδε’ ἔσεσθαι· 165
ὣς δ’ αὔτως καὶ κεῖνο ἰδὼν ἐτεθήπεα θυμῷ,
δήν, ἐπεὶ οὔ πω τοῖον ἀνήλυθεν ἐκ δόρυ γαίης,
ὡς σέ, γύναι, ἄγαμαί τε τέθηπά τε, δείδια δ’ αἰνῶς
γούνων ἅψασθαι· χαλεπὸν δέ με πένθος ἱκάνει.
Χθιζὸς ἐεικοστῷ φύγον ἤματι οἴνοπα πόντον· 170
τόφρα δέ μ’ αἰεὶ κῦμα φόρει κραιπναί τε θύελλαι
νήσου ἀπ’ Ὠγυγίης· νῦν δ’ ἐνθάδε κάββαλε δαίμων,
ὄφρα τί που καὶ τῇδε πάθω κακόν· οὐ γὰρ ὀΐω
παύσεσθ’, ἀλλ’ ἔτι πολλὰ θεοὶ τελέουσι πάροιθεν.
Ἀλλά, ἄνασσ’, ἐλέαιρε· σὲ γὰρ κακὰ πολλὰ μογήσας 175
ἐς πρώτην ἱκόμην, τῶν δ’ ἄλλων οὔ τινα οἶδα
ἀνθρώπων, οἳ τήνδε πόλιν καὶ γαῖαν ἔχουσιν.
Ἄστυ δέ μοι δεῖξον, δὸς δὲ ῥάκος ἀμφιβαλέσθαι,
εἴ τί που εἴλυμα σπείρων ἔχες ἐνθάδ’ ἰοῦσα.
Σοὶ δὲ θεοὶ τόσα δοῖεν, ὅσα φρεσὶ σῇσι μενοινᾷς, 180
ἄνδρα τε καὶ οἶκον, καὶ ὁμοφροσύνην ὀπάσειαν
ἐσθλήν· οὐ μὲν γὰρ τοῦ γε κρεῖσσον καὶ ἄρειον,
ἢ ὅθ’ ὁμοφρονέοντε νοήμασιν οἶκον ἔχητον
ἀνὴρ ἠδὲ γυνή· πόλλ’ ἄλγεα δυσμενέεσσι,
χάρματα δ’ εὐμενέτῃσι· μάλιστα δέ τ’ ἔκλυον αὐτοί». 185
τὸν δ’ αὖ Ναυσικάα λευκώλενος ἀντίον ηὔδα·
«Ξεῖν’, ἐπεὶ οὔτε κακῷ οὔτ’ ἄφρονι φωτὶ ἔοικας,
Ζεὺς δ’ αὐτὸς νέμει ὄλβον Ὀλύμπιος ἀνθρώποισιν,
ἐσθλοῖσ’ ἠδὲ κακοῖσιν, ὅπως ἐθέλῃσιν, ἑκάστῳ·
καί που σοὶ τά γ’ ἔδωκε, σὲ δὲ χρὴ τετλάμεν ἔμπης. 190
Νῦν δ’, ἐπεὶ ἡμετέρην τε πόλιν καὶ γαῖαν ἱκάνεις,
οὔτ’ οὖν ἐσθῆτος δευήσεαι οὔτε τευ ἄλλου,
ὧν ἐπέοιχ’ ἱκέτην ταλαπείριον ἀντιάσαντα.
Ἄστυ δέ τοι δείξω, ἐρέω δέ τοι οὔνομα λαῶν·
Φαίηκες μὲν τήνδε πόλιν καὶ γαῖαν ἔχουσιν, 195
εἰμὶ δ’ ἐγὼ θυγάτηρ μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο,
τοῦ δ’ ἐκ Φαιήκων ἔχεται κάρτος τε βίη τε».
Ἦ ῥα, καὶ ἀμφιπόλοισιν ἐϋπλοκάμοισι κέλευσε·
«Στῆτέ μοι ἀμφίπολοι· πόσε φεύγετε φῶτα ἰδοῦσαι;
Ἦ μή πού τινα δυσμενέων φάσθ’ ἔμμεναι ἀνδρῶν; 200
Οὐκ ἔσθ’ οὗτος ἀνὴρ διερὸς βροτὸς οὐδὲ γένηται,
ὅς κεν Φαιήκων ἀνδρῶν ἐς γαῖαν ἵκηται
δηϊοτῆτα φέρων· μάλα γὰρ φίλοι ἀθανάτοισιν.
Οἰκέομεν δ’ ἀπάνευθε πολυκλύστῳ ἐνὶ πόντῳ,
ἔσχατοι, οὐδέ τις ἄμμι βροτῶν ἐπιμίσγεται ἄλλος. 205
Ἀλλ’ ὅδε τις δύστηνος ἀλώμενος ἐνθάδ’ ἱκάνει,
τὸν νῦν χρὴ κομέειν· πρὸς γὰρ Διός εἰσιν ἅπαντες
ξεῖνοί τε πτωχοί τε, δόσις δ’ ὀλίγη τε φίλη τε.
Ἀλλὰ δότ’, ἀμφίπολοι, ξείνῳ βρῶσίν τε πόσιν τε,
λούσατέ τ’ ἐν ποταμῷ, ὅθ’ ἐπὶ σκέπας ἔστ’ ἀνέμοιο». 210
Ὣς ἔφαθ’, αἱ δ’ ἔσταν τε καὶ ἀλλήλῃσι κέλευσαν,
κὰδ δ’ ἄρ’ Ὀδυσσέα εἷσαν ἐπὶ σκέπας, ὡς ἐκέλευσε
Ναυσικάα, θυγάτηρ μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο·
πὰρ δ’ ἄρα οἱ φᾶρός τε χιτῶνά τε εἵματ’ ἔθηκαν,
δῶκαν δὲ χρυσέῃ ἐν ληκύθῳ ὑγρὸν ἔλαιον, 215
ἤνωγον δ’ ἄρα μιν λοῦσθαι ποταμοῖο ῥοῇσι.

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Letteratura greca [1]

Δή ῥα τότ’ ἀμφιπόλοισι μετηύδα δῖος Ὀδυσσεύς·


«Ἀμφίπολοι, στῆθ’ οὕτω ἀπόπροθεν, ὄφρ’ ἐγὼ αὐτὸς
ἅλμην ὤμοιϊν ἀπολούσομαι, ἀμφὶ δ’ ἐλαίῳ
χρίσομαι· ἦ γὰρ δηρὸν ἀπὸ χροός ἐστιν ἀλοιφή. 220
Ἄντην δ’ οὐκ ἂν ἐγώ γε λοέσσομαι· αἰδέομαι γὰρ
γυμνοῦσθαι κούρῃσιν ἐϋπλοκάμοισι μετελθών».
Ὣς ἔφαθ’, αἱ δ’ ἀπάνευθεν ἴσαν, εἶπον δ’ ἄρα κούρῃ.
Αὐτὰρ ὁ ἐκ ποταμοῦ χρόα νίζετο δῖος Ὀδυσσεὺς
ἅλμην, ἥ οἱ νῶτα καὶ εὐρέας ἄμπεχεν ὤμους· 225
ἐκ κεφαλῆς δ’ ἔσμηχεν ἁλὸς χνόον ἀτρυγέτοιο.
Αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ πάντα λοέσσατο καὶ λίπ’ ἄλειψεν,
ἀμφὶ δὲ εἵματα ἕσσαθ’ ἅ οἱ πόρε παρθένος ἀδμής,
τὸν μὲν Ἀθηναίη θῆκεν, Διὸς ἐκγεγαυῖα,
μείζονά τ’ εἰσιδέειν καὶ πάσσονα, κὰδ δὲ κάρητος 230
οὔλας ἧκε κὄμας, ὑακινθίνῳ ἄνθει ὁμοίας.
Ὡς δ’ ὅτε τις χρυσὸν περιχεύεται ἀργύρῳ ἀνὴρ
ἴδρις, ὃν Ἥφαιστος δέδαεν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη
τέχνην παντοίην, χαρίεντα δὲ ἔργα τελείει,
ὣς ἄρα τῷ κατέχευε χάριν κεφαλῇ τε καὶ ὤμοις. 235
Ἕζετ’ ἔπειτ’ ἀπάνευθε κιὼν ἐπὶ θῖνα θαλάσσης,
κάλλεϊ καὶ χάρισι στίλβων· θηεῖτο δὲ κούρη.
Δή ῥα τότ’ ἀμφιπόλοισιν ἐϋπλοκάμοισι μετηύδα·
«Κλῦτέ μοι, ἀμφίπολοι λευκώλενοι, ὄφρα τι εἴπω.
Οὐ πάντων ἀέκητι θεῶν, οἳ Ὄλυμπον ἔχουσι, 240
Φαιήκεσσ’ ὅδ’ ἀνὴρ ἐπιμείξεται ἀντιθέοισι·
πρόσθεν μὲν γὰρ δή μοι ἀεικέλιος δέατ’ εἶναι,
νῦν δὲ θεοῖσιν ἔοικε, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν.
Αἲ γὰρ ἐμοὶ τοιόσδε πόσις κεκλημένος εἴη
ἐνθάδε ναιετάων, καί οἱ ἅδοι αὐτόθι μίμνειν. 245
Ἀλλὰ δότ’, ἀμφίπολοι, ξείνῳ βρῶσίν τε πόσιν τε».
Ὣς ἔφαθ’, αἱ δ’ ἄρα τῆς μάλα μὲν κλύον ἠδ’ ἐπίθοντο,
πὰρ δ’ ἄρ’ Ὀδυσσῆϊ ἔθεσαν βρῶσίν τε πόσιν τε.
Ἦ τοι ὁ πῖνε καὶ ἦσθε πολύτλας δῖος Ὀδυσσεὺς
ἁρπαλέως· δηρὸν γὰρ ἐδητύος ἦεν ἄπαστος. 250

110-118. «Ma quando si accingeva a tornare a casa dopo aver aggiogato le mule e ripiegato le belle vesti, altro
allora per parte sua pensò Atena divina dagli occhi azzurri perché si svegliasse Odisseo e vedesse la giovane
dagli occhi belli ed ella lo guidasse alla città degli uomini feaci. A un tratto la principessa lanciò la palla a
un’ancella, ma mancò l’ancella e fece finire la palla in un gorgo profondo. E quelle levarono un lungo grido, ed
egli si svegliò, il nobile Odisseo, e seduto rifletteva nell’animo e in cuore». - οἶκόνδε: «verso casa» è formato
su οἶκος e il suffisso di moto a luogo -δε: il nesso οἶκόνδε νέεσθαι è una formula che compare 6 volte
nell’Iliade e 4 nell’Odissea. - ἔγροιτο: è ottativo dell’aoristo medio II di ἐγείρω (cfr. ἔγρετο 117); l’epiteto
εὐώπιδα in Omero ricorre solo qui e al v. 142: εὐώπιδα κούρην si può pertanto considerare una ‘formula
episodica’ (metricamente equivalente a ἑλικώπιδα κούρην di Iliade I 98). - οἱ (= αὐτῷ) è retto da ἡγήσαιτο
(per ἡγέομαι col dativo cfr. Iliade XXII 101 Τρωσὶ ποτὶ πτόλιν ἡγέσασθαι). Al v. 117 ἐπί è in tmesi con
ἄϋσαν (αὔω “gridare”); μακρόν: è neutro avverbiale (cfr. Iliade III 81 μακρὸν ἄϋσεν). Al v. 118 la sequenza
ὥρμαινε κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν è formulare (4 volte nell’Iliade, 4 nell’Odissea).

119-126. «”Ahimè, questa volta alla terra di quali uomini arrivo? Violenti e selvaggi e senza giustizia o invece
ospitali, e hanno mente pia? Un tenero grido mi ha avvolto, come di giovinette, ninfe che abitano le cime erte
dei monti e le sorgenti dei fiumi e le praterie erbose. Mi trovo forse vicino a uomini parlanti? Su, voglio farne
la prova e vedere io stesso”». Una reazione analoga a questa avrà Odisseo al risveglio dopo l’approdo a Itaca
(XIII 200-202), quando si porrà le stesse domande dei vv. 119-121; al v. 119 τέων (monosillabo per sinizesi) =
τίνων; in principio di discorso l’avverbio αὖτε introduce spesso una movenza colloquiale (marcata da impazienza
o irritazione) relativa a qualcosa che avviene non tanto «di nuovo» quanto «questa volta». - Ἤ ῥ’ οἵ γ’
ὑβρισταί … θεουδής: tipicamente odissiaca è l’opposizione tra uomini ἄγριοι e θεουδεῖς, che compare
anche in IX 175-176, che ripetono i vv. 120-121. - ἀμφήλυθε: il verbo, sulla scorta di XII 369 in cui è detto
dell’odore del grasso dei sacrifici, viene interpretato come «avvolgere», ma qui forse il suono «colpisce da due
lati (ἀμφί, cfr. lat. ambo)» chi lo ode. - θῆλυς (= θήλεια) ἀϋτή: il nesso significa propriamente «grido

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Letteratura greca [1]

femminile». Ai vv. 123 s. si prendono in considerazione vari tipi di ninfe (divinità minori legate al mondo
naturale): dei monti, delle acque fluviali, dei prati; il v. 124, caratterizzato da una marcata presenza di /π/,
coincide con Iliade XX 9 e con ‘Omero’, Inno ad Afrodite 99. Per l’epiteto αὐδηέντων «parlanti» (cfr. αὐδή)
cfr. XI 8 θεὸς αὐδήεσσα (Circe) e Iliade XIX 407 αὐδήεντα δ᾽ ἔθηκε θεὰ λευκώλενος «e lo rese parlante la
dea Era dalle candide braccia» (di Xanto, uno dei cavalli di Achille: cfr. pag. xxx). - πειρήσομαι: è congiuntivo
aoristo a vocale breve (cfr. XXI 159 ἐπὴν τόξου πειρήσεται ἠδὲ ἴδηται) con funzione esortativa (esortativo è
anche ἴδωμαι).

127-139. «Detto così, spuntò dai cespugli il nobile Odisseo e staccò dalla selva compatta con salda mano un
ramo frondoso per proteggersi attorno al corpo le vergogne di uomo. E si mosse come un leone montano,
fiero della sua forza, che avanza battuto dalla pioggia e dal vento, e gli ardono gli occhi, e assale buoi o pecore
o cerve selvatiche, e il ventre lo incita a entrare anche in solido stazzo per assalire armenti; così Odisseo stava
per mescolarsi alle ragazze dai riccioli belli pur essendo nudo: lo tormentava il bisogno. E spaventoso apparve
loro, sfigurato dalla salsedine, e quelle fuggirono qua e là verso i lembi sporgenti delle rive». - ὑπεδύσετο: è
aoristo medio di ὑποδύω: la forma ‘mista’ -δύσετο, con il sigma dell’aoristo I e la coniugazione tematica
dell’aoristo II, ha un parallelo nel frequente βήσετο. Al v. 129 ῥύσαιτο è ottativo aoristo di ῥύομαι / ἔρυμαι;
- μήδεα: ha il senso di αἰδοῖα «vergogne», come in XVIII 67 e 87 e in XXII 476. - βῆ δ᾽ ἴμεν: «si mosse» è
espressione formulare costituita da βῆ (= ἔβη) e ἴμεν (= ἰέναι), infinito finale. - ὀρεσίτροφος (cfr. ὄρος e
τρέφω) vale propriamente «nutrito dai monti»: è usato in nesso con λέων anche in IX 292 (in riferimento a
Polifemo) e in Iliade XII 299 (in riferimento a Sarpedone) e XVII 61 (in riferimento a Menelao). I vv. 133b (a
partire da κέλεται)-134 coincidono con Iliade XII 300b-301 (dove a un leone viene paragonato Sarpedone lanciato
all’attacco del muro acheo) salvo per la sostituzione della γαστήρ «il ventre» al θυμὸς ἀγήνωρ «l’animo
superbo»: una variazione coerente con il “mock-heroic tone” (Garvie) proprio di una situazione in cui Odisseo
viene destato non da un grido di battaglia ma da un vociare di fanciulle ed emerge dal cespuglio confidando nella
propria forza per salvarsi non da un nemico ma da ragazze innocue e riparandosi non con lo scudo ma con una
frasca. Al v. 136 in μείξεσθαι “mescolarsi”, «entrare in contatto con» (infinito futuro medio di μ(ε)ίγνυμι) è
stata talora sentita una ironica sfumatura erotica dal momento che già in Omero il verbo è attestato spesso, al
medio, per denotare rapporti sessuali; d’altra parte bisogna tener conto che nei 28 passi omerici in cui ciò accade
«il significato erotico del verbo non è evidente di per sé, ma si chiarisce solo grazie al contesto circostante»
(Mastromarco). - ὅς τ᾽ εἶσ(ι): qui è presente, in attico varrà come futuro. - ὑόμενος καὶ ἀήμενος: participi da
ὕω e ἄημι. - κέλεται … ἐλθεῖν: «e il ventre lo spinge ad entrare anche in solido recinto in cerca di greggi»; ἑ
è pronome anaforico (= αὐτόν), mentre πειρήσοντα è participio futuro con valore finale del verbo πειράω che
regge il genitivo (μήλων). Solo qui in Omero l’aggettivo σμερδαλέος «terribile», «spaventoso» del v. 137 è
riferito a persona e non a cose o animali (cfr. Iliade II 309, di un serpente). Al v. 138 per προὐχούσας vedi
sotto (pag. xxx) la nota a ἐπὶ προὔχοντι μελάθρῳ di Odissea XIX 544.

139-147. «Sola, la figlia di Alcinoo rimase ferma perché Atena le infuse in cuore coraggio e le tolse dalle
membra la paura. Si fermò davanti a lui trattenendosi dal fuggire, e Odisseo fu in dubbio se supplicare la
giovane dagli occhi belli afferrandole le ginocchia o, tenendosi lontano, supplicarla soltanto con parole dolci che
gli mostrasse la città e gli fornisse una veste. Questa, pensando, gli parve l’idea migliore: pregarla con dolci
parole tenendosi lontano, affinché la giovane non si irritasse in cuore se le afferrava le ginocchia». I vv. 139-
141 rappresentano un evidente adattamento dello schema iliadico di battaglia secondo il quale, all’arrivo di un
eroe, tutti i nemici fuggono tranne un combattente in cui un dio ha infuso coraggio. 2 D’altra parte la frase si
pone come ‘contrazione’ della sequenza formulare στῆ … | ἄντα παρειάων σχομένη λιπαρὰ κρήδεμνα «si
fermò ... tirando davanti alle guance lo scialle sgargiante» (4 volte in Omero), con σχομένη che, venuto meno
il complemento oggetto, assume funzione intransitiva (cfr. ΧΙΙΙ 1513). Il riferimento ad Atena riprende una linea
per cui a principio del canto la dea, pensando al ritorno di Odisseo, era apparsa in sogno a Nausicaa esortandola a
farsi dare dal padre mule e carro e ad andare al fiume a lavare le vesti: siamo nell’ambito del procedimento
tipicamente omerico della ‘doppia motivazione’ (su cui vedi sopra a pag. xxx) piuttosto che, come vorrebbe
Hainsworth, di un semplice «linguaggio figurato per spiegare il coraggioso comportamento di Nausicaa». -
σχομένη: participio aor. di ἔχω, qui usato intransitivamente. - μερμέριξεν: il verbo μερμηρίζω è ricorrente in
Omero per sottolineare uno stato di incertezza di fronte a una decisione da prendere. - γούνων: (da γόνυ) è in
nesso sia con λίσσοιτο (cfr. XXII 337 γούνων λίσσοιτο) sia, come genitivo di contatto, con λαβών (cfr. X
323 λάβε γούνων); la sequenza γούνων λίσσοιτο λαβών sembra essere un adattamento della formula (3 volte
in Omero) λαβὼν (o ἑλὼν) ἐλίσσετο γούνων: l’atto di supplica si basava sul contatto fisico consistente nel

2
Cfr. Danek 1998, p. 132.
3
Vedi Garvie 1994, p. 118.

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Letteratura greca [1]

toccare le ginocchia e/o il mento del supplicato finché la richiesta non fosse stata accolta. 4 Per εὐώπιδα
κούρην del v. 142 cfr. la nota al v. 113. - αὔτως: «soltanto»: vedi sopra a pag. xxx la nota a Iliade XXII 484.
- ἀποσταδά: (cfr. ἀφίσταμαι «allontanarsi») è avverbio attestato solo qui (ma compare ἀποσταδόν in Iliade
XV 556). Il v. 145 è interamente formulare (3 volte nell’Iliade e 7 nell’Odissea): δοάσσατο è aoristo di δέαται
«sembra» (cfr. δῆλος).

148-161. «Subito le teneva un discorso dolce e scaltro: “Ti supplico, principessa: sei una dea o una mortale?
Se tu sei un dio di quelli che possiedono il vasto cielo, io ti paragono molto da vicino per bellezza, statura e
aspetto ad Artemide, la figlia del grande Zeus, ma se tu sei uno dei mortali che abitano sulla terra, tre volte
beati tuo padre e la madre tua veneranda, e tre volte beati i tuoi fratelli: certo il loro cuore si scalda sempre di
gioia per te quando guardano un tale virgulto che muove alla danza. Ma più di tutti beato in cuore colui che,
prevalendo per doni nuziali, ti condurrà alla sua casa. Infatti non ho mai visto con gli occhi un simile mortale,
uomo o donna che fosse, e stupore mi prende a guardare”». - γουνοῦμαι:(cfr. γόνου e γουνάζομαι) è
evidentemente metaforico, come in Iliade XV 660, visto che Odisseo ha appena deciso di non toccare le
ginocchia di Nausicaa. - ἄνασσα: (cfr. anche v. 175) è altrove riferito in Omero solo a dee (III 380 e Iliade XIV,
326). Al v. 150 la sequenza τοὶ (οἳ) οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν è una formula attestata 2 volte nell’Iliade e 16
nell’Odissea. Al v. 151 il riferimento di Odisseo ad Artemide riprende la similitudine sviluppata dal narratore ai
vv. 102-109: «Quale sui monti trascorre Artemide saettatrice, per il Taigeto altissimo o sull’Erimanto, lieta dei
cinghiali e dei cervi veloci, e giocano con lei le ninfe campestri figlie di Zeus portatore dell’egida, e gioisce in
cuore Latona, ed ella le sovrasta con il capo e la fronte una per una e agevolmente spicca pur se tutte sono belle,
così fra le ancelle spiccava la vergine casta». Al v. 153 la sequenza οἳ ἐπὶ χθονὶ ναιετάουσι si ritrova altrove
solo in Esiodo, Teogonia 564 e appare modellata su τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν del v. 150. - Ἀρτέμιδι …
ἐΐσκω: è stato giustamente osservato che nell’epica i tanti confronti di uomini e divinità rimangono generici,
mentre in questo caso – singolarmente – viene indicata Artemide; anche i critici che più hanno attaccato i vv.
110-148, ritenendoli frutto di un tardo redattore, riconoscono nella preghiera ben altra mano: spedita, lineare,
padrona dei mezzi artistici. L’anafora di τρὶς μάκαρες a principio dei vv. 154 s. richiama quel modulo del
μακαρισμός – del «dire beato qualcuno» – che era caratteristico delle cerimonie nuziali (cfr. Esiodo, fr. 21
Merkelbach-West ). - κασίγνητοι: non ha molto senso chiedersi – come hanno fatto alcuni – come potesse
sapere Odisseo dei fratelli di Nausicaa: è ovvio che il μακαρισμός allude a loro, nel caso che esistano. - θάλος:
è metafora connotata affettivamente; cfr. Iliade XXII 87 φίλον θάλος (apostrofe di Ecuba a Ettore). -
εἰσοιχνεῦσαν: il verbo εἰσοχνέω (cfr. οἴχομαι) non è attestato altrove nell’epica greca arcaica ma ricompare in
Eschilo (Prometeo 121 s. ὁπόσοι | τὴν Διὸς αὐλὴν εἰσοιχνεῦσιν «quanti entrano nella corte di Zeus»); il
participio al femminile si collega a senso al neutro θάλος. - ἔξοχον (cfr. ἐξέχω «distinguersi») è accusativo
avverbiale: ἔξοχον ἄλλων rappresenta una formula attestata 6 volte nell’Iliade e 3 nell’Odissea. - βρίσας
(βρίθω) è usato con valore intransitivo («avendo prevalso»): al costume di una sorta di gara fra i corteggiatori fa
riferimento Penelope in XVIII 275 ss.: «non era questa una volta la regola per i pretendenti che volessero
corteggiare una donna valente e figlia di un ricco gareggiando fra loro, ma portavano essi stessi per il banchetto
buoi e pecore floride ai parenti della giovane e anziché divorare impunemente la roba altrui offrivano splendidi
doni». - ἀγάγηται: (ἄγω) allude al rito della deductio della sposa alla casa del marito. - ἴδον … ὀφθαλμοῖσιν:
la formula viene smembrata dall’inserimento di βροτόν. - οὔτ᾽ ἄνδρα … γυναῖκα: è la solita espressione
polare, tipica della mentalità arcaica, che precisa il βροτόν del verso precedente. - σέβας: «stupore» (cfr. σέβω
«venerare») il termine ha una forte connotazione religiosa.

162-174. «“A Delo una volta vidi svettare così, presso l’altare di Apollo, un giovane virgulto di palma: infatti
giunsi anche là e molta gente mi seguì in quel viaggio nel corso del quale ci sarebbero state per me pene
amare; e proprio come, a vederlo, stupivo in cuore a lungo perché mai una simile pianta era spuntata dal
suolo, così te, o donna, ammiro stupefatto, e ho terribilmente paura di toccarti le ginocchia, ma dura
sofferenza mi colpisce. Ieri, al ventesimo giorno, sono sfuggito al mare colore del vino, e sempre per tutto il
tempo mi trascinavano l’onda e le burrasche impetuose via dall’isola Ogigia, e qua ora un nume mi ha gettato
perché, credo, anche qui io debba patire sventura: non penso infatti che avrò tregua dai mali, ma molti ancora
me ne infliggeranno prima gli dèi”». - Δέλῳ: a Delo – l’isola non è ricordata altrove nell’Iliade e nell’Odissea,
ma cfr. ‘Omero’, Inno ad Apollo 146-64 sulla festa ionica in onore di Apollo – Latona aveva partorito Apollo e
Artemide abbracciando una palma (una pianta assai rara sulle sponde settentrionali del Mediterraneo, ma attestata
già in miceneo) e puntando le ginocchia al suolo (cfr. ‘Omero’, Inno ad Apollo 117-19 e Teognide 6); secondo
un’antica tradizione, Odisseo e Menelao erano approdati a Delo (presumibilmente in occasione di una carestia
all’interno dell’esercito greco accampato a Troia) in cerca delle figlie di Anio (re dell’isola), dette Οἰνοτρόποι
perché capaci di trasformare in vino qualsiasi cosa toccassero. - φοίνικος ἔρνος: «virgulto di palma»

4
Cfr. Mirto 1998, pp. 157-162.

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Letteratura greca [1]

l’immagine leggiadra rende inutile la precisazione botanica che il virgulto di palma, a differenza della pianta
adulta, è piccolo e tozzo. - ἦλθον … λαός: il termine λαός conserva qui qualcosa del suo significato originario
di “popolo in armi”; le parole di Odisseo mirano accortamente a far intendere alla giovane la propria origine
aristocratica di capo e poi a spingerla alla compassione per la sua attuale sorte (riferimento al v. successivo ai
κακὰ κήδεα). La sequenza clausolare δείδια (δείδω) δ᾽ αἰνῶς del v. 168 ricorre anche in Iliade XIII 481 e
XXIV 358. - τὴν ὁδόν: è accusativo interno di ἕσπετο e denota lo spazio attraversato. - ἐτεθήπεα: è
piuccheperfetto di un perfetto τέθηπα (cfr. θάμβος «stupore») privo di presente. - δόρυ:, che altrove si
specializza nel senso di «trave» o di «asta», solo qui denota il tronco d’albero vivo. Il nome Ogigia, l’isola di
Calipso (cfr. I 85; VII 244 e 254), è originariamente un aggettivo che denota remota antichità (cfr. ad es. Esiodo,
Teogonia 805 s. Στυγὸς ἄφθιτον ὕδωρ, | ὠγύγιον, Eschilo, Persiani 37 s. τὰς τ᾽ ὠγυγίους | Θήβας). -
κάββαλε: = κατέβαλε (con κάτ eolico per κατά e assimilazione della dentale alla labiale seguente).

175-185. «“Ma tu, principessa, abbi pietà: tu sei la prima persona dinanzi a cui, dopo molto soffrire, mi
prostro; nessun altro conosco degli uomini che abitano questa città e questa terra. Mostrami la rocca e
porgimi un cencio da mettermi addosso, se sei venuta recando panni per avvolgere le vesti. Ti accordino gli dei
tutto ciò che nel tuo cuore desideri, ti diano un marito, una casa e l’onesta concordia, ché non vi è niente di
più alto e prezioso di quando concordi nei pensieri dirigono una casa un uomo e una donna: molti dolori per
i nemici, molte gioie per gli amici; e di grandissima stima essi godono”». - ἄστυ: «rocca»; fondamentalmente,
però, il termine non si differenzia da πόλις del v. prec. - δὸς δὲ ῥάκος: «dammi un cencio». La richiesta,
secondo i critici già antichi, è μῦθος κερδαλέος, in quanto è modesta in sé, ma mira a ottenere ben di più. -
εἵλυμα σπείρων: «panni per avvolgere le vesti» (genitivo di definizione) è propriamente una copertura (cfr.
εἰλύω «avvolgere») consistente in σπεῖρα, pezzi di stoffa (cfr. σπεῖρα «fune», σπάρτον «corda» e
σπάργανον «fascia»). Ai vv. 184 s. ἄλγεα e χάρματα sono in apposizione a tutta la frase precedente. -
ἔκλυον: l’uso di questo aoristo (di κλύω) diverge da quello altrove attestato in Omero, dove il verbo significa
“ascoltare”, ma per «aver fama», «essere stimato» cfr. Eschilo, Agamennone 468 s. τὸ δ᾽ ὑπερκόπως κλύειν
εὖ | βαρύ «il godere in eccesso di buona fama è cosa gravosa». - ὁμοφρονέοντε: (altrove in Omero il verbo è
attestato solo in Odissea IX 456 εἰ δὴ ὁμοφρονέοις) riprende ὁμοφροσύνην del v. 181. Al v. 185 il
sostantivo εὐμενέτης, che non compare altrove in Omero, è formato su εὐμενής «benigno». L’essere gioia per
gli amici e dolore per i nemici risulta saldamente radicato nell’etica greca arcaica.

186-197. «Da parte sua gli rispondeva Nausicaa dalle candide braccia: “Straniero, poiché non somigli a un
uomo vile o stolto, e Zeus stesso assegna come vuole la prosperità a ciascuno degli uomini, vili e valenti ... e a
te, credo, ha dato questa sorte e bisogna che tu la sopporti. Ma ora che sei arrivato alla nostra città e alla
nostra contrada non ti mancherà né una veste né quant’altro è giusto per un supplice che venga incontro
duramente provato. E ti indicherò la città, e ti dirò il nome di questa gente: abitano questa città e questa
contrada i Feaci, e io sono figlia del magnanimo Alcinoo, e da lui discende il potere e la forza dei Feaci”».
Dopo il v. 187 Plutarco, Moralia 82e riporta un altro verso, coincidente con 24, 402: οὖλέ τε καὶ μέγα χαῖρε,
θεοὶ δέ τε ὄλβια δοῖεν «sta’ bene e sii felice, e prosperità ti concedano gli dèi»: si tratta certamente di
un’interpolazione volta a integrare un verbo principale dopo la proposizione causale avviata con ἐπεί al v. 187,
ma una proposizione causale in principio di rhesis lasciata in sospeso nello sviluppo del discorso è un tratto che
trova riscontro in VIII 236 ss. e XVII 85 ss. Per l’arbitratrietà del volere di Zeus (vv. 188 s.) cfr. I 348 s. «Zeus,
che a ciascuno degli uomini che si cibano di grano dà come vuole la sua sorte» e IV 236 s. «ora a uno, ora un
altro Zeus assegna il bene e il male, ché tutto egli può». - που: sottolinea che si tratta di una supposizione; -
τετλάμεν: è infinito con desinenza eolica del perfetto τέτληκα «sopportare» (cfr. lat. tollo e tolero), privo di
presente. - τευ: (contrazione ionica di τεο) = τινός. - ἐπέοικ(ε): è una forma di perfetto priva di presente, usata
impersonalmente; l’aggettivo ταλαπείριος è formato su radice di τλῆναι «sopportare» e πεῖρα «prova» e
altrove nell’Odissea compare più volte (VII 24; XVII 84; XIX 379) in nesso con ξεῖνος; il participio aoristo
ἀντιάσαντα (ἀντιάω, cfr. ἀντί) è usato assolutamente, come in Iliade X 551. Al v. 197 ἐκ è in anastrofe,
ἔχεται significa «è attaccato», «dipende», cfr. Iliade IX 102 σέο ... ἔχεται; il nesso κάρτος (= κράτος) τε βίη
τε compare anche in IV 415.

198-210. «Diceva così e ordinò alle ancelle dai riccioli belli: “Fermatevi, ancelle! Dove fuggite alla vista di un
uomo? Credevate che fosse un nemico? Non esiste, non potrà mai esistere uomo vigoroso che arrivi alla
contrada dei Feaci portando guerra: molto cari noi siamo agli dei. Viviamo in disparte in mezzo al mare agitato
dalle onde, ai confini del mondo: nessuno fra gli altri mortali viene a contatto con noi. Ma questo povero
ramingo è capitato qua e ora dobbiamo prendercene cura: stranieri e mendicanti sono tutti sotto la
protezione di Zeus, e il nostro dono è modesto ma prezioso. Su, ancelle, date allo straniero da mangiare e da
bere e lavatelo nel fiume là dove c’è un riparo dal vento”». Il nesso ἀμφιπόλοισιν ἐϋπλοκάμοισι (o
ἐϋπλοκάμοις) del v. 198 è una formula a bassa frequenza che ricorre anche in VI 238 e in Iliade XXII 442. A

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Letteratura greca [1]

proposito di φῶτα ἰδοῦσαι «alla vista di un uomo» del v. 199, Hainswoth osserva giustamente che «l’accento
non è posto sul fatto che Odisseo è un maschio. Come rivelano i versi successivi, le fanciulle fuggivano perché
ritenevano che Odisseo fosse l’avanguardia di una banda di pirati, e non a causa di un oltraggio al pudore». -
φάσθ(ε): è II persona plurale dell’imperfetto medio di φημί. L’aggettivo διερός (v. 201) compare altrove in
Omero solo in Odissea IX 43 διερῷ ποδί, parimenti con la valenza di «vigoroso» o «agile» che rappresenta
uno sviluppo del significato fondamentale di «umido» (cfr. διαίνω). - πολυκλύστῳ (cfr. κλύζω «inondare»)
ἐνὶ πόντῳ: è una formula che compare 3 volte nell’Odissea e 1 volta nella Teogonia di Esiodo. Al v. 205 i
Feaci sono detti ἔσχατοι (il termine è connesso con ἐξ) come gli Etiopi ἔσχατοι ἀνδρῶν di I 23 (ed ἔσχατα
sono i confini della terra in Esiodo, Teogonia 731). - φίλη: ha significato passivo, come mostra il confronto
con Iliade I 167 s. σοὶ τὸ γέρας πολὺ μεῖζον, ἐγὼ δ᾽ ὀλίγον τε φίλον τε | ἔρχομ᾽ ἔχων ἐπὶ νῆας «a te va
il premio molto più grande, e io uno piccolo ma prezioso riporto alle navi», non attivo, come talora si intende.
Al v. 210 ἐπί è in tmesi con ἔστ᾽ (cfr. V 443 καὶ ἐπὶ σκέπας ἦν ἀνέμοιο).

211-222. «Diceva così, ed esse si posero in disparte e si scambiarono ordini fra loro, e sistemarono Odisseo
su un riparo come aveva comandato Nausicaa, la figlia del magnanimo Alcinoo, e gli posero accanto come vesti
un manto e una tunica, e gli porsero liquido olio in un’ampolla d’oro, poi lo invitavano a lavarsi nelle acque
correnti del fiume. Allora dunque diceva alle ancelle il nobile Odisseo: “Ancelle, allontanatevi immediatamente
affinché io mi deterga da solo la salsedine dalle spalle e mi unga d’olio: da molto tempo l’olio è lontano dalla
mia pelle. Non mi laverò di fronte a voi perché mi vergogno a denudarmi venuto in mezzo a vergini dai riccioli
belli”». - κάδ: (= κάτ, κατά) è in tmesi con εἷσαν (ἵζω). - εἵματ(α): ha funzione predicativa. - λοῦσθαι: «è
medio (“lavarsi”), ma si suppone che le fanciulle lo aiuteranno» (Hainsworth). Al v. 218 per οὕτω =
«immediatamente» vedi sopra la nota a Iliade XXII 498 (pag. xxx). - ἀπολούσομαι e χρίσομαι: sono
congiuntivi aoristi a vocale breve. - ὤμοιϊν: è genitivo duale di ὦμος. Poiché era consueto nel mondo omerico
che un uomo, anche straniero, fosse lavato da una donna, in genere una serva, è presumibile che ai vv. 221 s.
Odisseo si vergogni non tanto della propria nudità quanto dello squallore fisico in cui versa. - λοέσσομαι:
(λοέω, λούω) è anch’esso congiuntivo aoristo a vocale breve: l’uso di ἄν con il congiuntivo in proposizioni
principali (il senso si avvicina a quello di un futuro) è circoscritto all’epica.

223-237. «Diceva così, ed esse si facevano da parte e lo riferirono a Nausicaa. Intanto con l’acqua del fiume il
nobile Odisseo spurgava dalla pelle la salsedine che gli copriva la schiena e le spalle larghe, e raschiava via dal
capo la lordura del mare infecondo. Poi, quando si fu lavato completamente e si fu unto d’olio copioso ed
ebbe indossato le vesti che gli aveva donato la vergine casta, Atena, nata da Zeus, lo rese più grande e più
robusto a vedersi e dal capo gli fece scendere folte, simili a fiore di giacinto, le chiome. E come quando versa
oro attorno all’argento un artefice che Efesto e Pallade Atena ammaestrarono in tutte le arti e produce monili
affascinanti, così gli versò fascino sul capo e sulle spalle la dea. Poi sedeva, dopo essere andato in disparte, sulla
riva del mare, scintillante di bellezza e di grazia, e la vergine osservava». - ἴσαν: (= ᾖσαν) è III persona plurale
dell’imperfetto di εἶμι. - νίζετο: è costruito con il doppio accusativo, come λούω in Iliade XVIII 344 s. ὄφρα
τάχιστα | Πάτροκλον λούσειαν ἄπο βρότον αἱματόεντα «per detergere al più presto Patroclo del sangue
rappreso». Al v. 226 per l’epiteto ἀτρυγέτοιο vedi sopra (pag. xxx) la nota a Iliade XXIV 752: la formula
ἁλὸς ἀτρυγέτοιο (3 volte nell’Iliade, 3 nell’Odissea) viene qui smembrata dall’inserzione di χνόον (per questo
procedimento cfr. sopra, nota al v.160). - λίπ᾽ ἄλειψεν: è una modificazione della formula ἔχρισεν λίπ᾽ ἐλαίῳ
(cfr. III 466 e X, 364 e 450), e solo qui in Omero l’accusativo avverbiale λίπ(α) «abbondantemente», che è privo
degli altri casi, non si trova accanto a ἐλαίῳ, ma cfr. ‘Ippocrate’, De morbis mulierum 2, 150 τὼ μηρὼ τῷ
ῥοδίνῳ ἀλείφεσθαι λίπα «ungersi copiosamente le cosce con essenza di rose». - ἕσσατο: è aoristo medio di
ἕννυμι (cfr. lat. vestis). - ἀδμής: (cfr. δάμνημι, ἀδάματος e ἄδμητος) l’aggettivo denota l’assenza di
contatti sessuali; il nesso παρθένος ἀδμής ricorreva già in fine di v. 109 e compare anche in ‘Esiodo’, fr. 59,
4 Merkelbach-West: piuttosto che di una formula tradizionale potrebbe trattarsi di una formula ‘episodica’ ideata
specificamente per Nausicaa e ripresa da un rapsodo della scuola esiodea. In fine di v. 229 ἐκγεγαυῖα è
participio perfetto femminile di ἐκγίγνομαι. I vv. 230-235 saranno ripetuti in XXIII 157-162 subito prima della
rivelazione da parte di Odisseo a Penelope della propria identità. - πάσσονα: è accusativo del comparativo
(πάσσων) di παχύς; il genitivo κάρητος è una forma alternativa rispetto a κρατός (κάρα). Al v. 231, se il
paragone con il giacinto sottolinea il colore scuro dei capelli (cfr. Teocrito 10, 28 καὶ τὸ ἴον μέλαν ἐστί, καὶ
ἁ γραπτὰ ὑάκινθος «anche la viola è scura, anche il giacinto con le lettere incise»), il dato si accorda con la
barba nera di Odisseo in XVI 176 κυάνειαι δ᾽ ἐγένοντο ἐθειράδες ἀμφὶ γένειον «i peli della barba si
annerirono intorno al mento», ma non con i capelli biondi (ξανθάς … τρίχας) di XIII 399 e 431: un
bell’esempio di incidente compositivo di tipo orale. - περιχεύεται: è forma epica alternativa di περιχέεται
(περιχεῖται). - δέδαεν: «ammaestrò» è una forma di aoristo III con raddoppiamento priva del presente dalla
stessa radice di διδάσκω: è costruito con il doppio accusativo come appunto διδάσκω in VIII 481 οὕνεκ᾽

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Letteratura greca [1]

ἄρα σφέας | οἴμας Μοῦσ᾽ ἐδίδαξε «poiché la Musa li ammaestrò nelle vie del canto». - (ἐ)θηεῖτο: è
imperfetto epico di θεάομαι.

238-250. «Allora ella diceva alle ancelle dai riccioli belli: "Ascoltatemi, ancelle dalle candide braccia, affinché io vi
dica una cosa. Non senza il volere di tutti gli dèi che abitano l’Olimpo quest’uomo viene a contatto con i Feaci
pari ai celesti: prima infatti mi sembrava abbrutito, ma ora somiglia agli dèi che il vasto cielo possiedono. Oh se
un uomo simile fosse detto mio sposo abitando qui, e qui gli piacesse restare! Su, ancelle, offrite allo
straniero cibo e bevande". Diceva così, e quelle le diedero ascolto e ubbidirono, e accanto a Odisseo
disposero cibi e bevande. E allora il molto paziente, nobile Odisseo beveva e mangiava di gusto: da tempo
infatti era digiuno di cibo». - δέατ(ο): è imperfetto di δέαται «sembra» (cfr. δῆλος). Ai vv. 244 s., come nota
Hainsworth, «Nausicaa sta pensando ad alta voce. In un’occasione meno privata avrebbe avuto ritegno a
nominare le nozze (v. 66)»; da notare altresì il sottile trapasso dal generalizzante τοιόσδε «un uomo simile»
allo specifico οἱ «a lui» 5; degne di nota le riprese di Alcmane, fr. 81 Davies Ζεῦ πάτερ, αἲ γὰρ ἐμὸς πόσις
εἴη «Zeus padre, oh se diventasse mio sposo!» e di Apollonio Rodio I 827 s. (Ipsipile a Giasone) εἰ δέ κεν
αὖθι | ναιετάειν ἐθέλοις καί τοι ἅδοι… «e se tu volessi / porre la tua dimora qui e così ti piacesse…» (tr. di
G. Paduano). - ἦσθε: = ἤσθιε (cfr. ἔδω e lat. edo). Al v. 249, mentre δῖος (cfr. Διός e lat. dius) è un epiteto
generico, πολύτλας è specifico di Odisseo, e sempre all’interno della formula πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς, sia
nell’Iliade (5 volte) che nell’Odissea (37 volte). - ἁρπαλέως: «di gusto», ricondotto già in età arcaica alla radice
di ἁρπάζω e dunque inteso come «avidamente», deriva in realtà per dissimilazione dall’aggettivo *ἀλπαλέος,
connesso con ἔπαλπνος «dolce» e ἄλπνιστος «dolcissimo» (cfr. ἐλπίς, ἔλπω e lat. voluptas); - ἄπαστος: è
formato su ἀ privativo e radice di πατέομαι «cibarsi» (cfr. IV 788 ἄπαστος ἐδητύος ἠδὲ ποτῆτος).

Nella struttura narrativa dell’Odissea la figura di Nausicaa (la quale, come quasi tutti i Feaci, ha
in ναυσι- un nome legato al mare: secondo la spiegazione dell’Etymologicum Magnum, un
abbreviamento di Ναυσικάστη, “colei che eccelle nelle navi”, cfr. καίνυμι) svolge un palese
ruolo di adiuvante favorendo il passaggio del protagonista dalla riva di Scheria, dove è
fortunosamente arrivato, alla città dei Feaci e alla corte di Alcinoo, dove l’eroe saprà cavarsela
egregiamente da sé affascinando i Feaci con i suoi racconti e garantendosi ricchi doni e un felice
trasbordo in patria.
Una sequenza, quella che va dal risveglio di Odisseo alla rivelazione della sua identità (IX 1 ss.),
che presenta vistosi parallelismi6 con quella che per lo stesso Odisseo corre dal risveglio a Itaca
(XIII 187 ss.) all’arrivo alla fattoria di Eumeo e alla rivelazione della propria identità a Telemaco
(XVII 172 ss.). E in entrambe le vicende si propone come regista degli eventi, quasi vicario del
poeta all’interno del racconto, la dea Pallade Atena, che già a principio del canto I e poi del canto
V aveva posto in seno al concilio degli dèi l’esigenza del ritorno a Itaca di Odisseo sollecitando
Telemaco a prendere il mare in cerca di notizie sul padre e chiedendo al padre Zeus l’invio di
Ermes presso Calipso per ordinare alla ninfa di lasciar partire l’amato.
Nel canto VI la Glaucopide si reca di persona al palazzo del re Alcinoo e volando come alito di
vento verso il letto di Nausicaa, figlia del re, si ferma al di sopra della sua testa e, fattasi simile
alla figlia di un nobile feace, le parla in sogno ricordandole che le sue belle vesti sono
abbandonate all’incuria proprio adesso che si approssima per lei il tempo delle nozze. Allo
spuntare dell’alba vada dunque a lavarle e chieda a suo padre di prepararle le mule e il carro per
trasportare cinture e pepli e coperte. Al risveglio Nausicaa segue il consiglio ricevuto in sogno,
interpella il padre e con le ancelle si reca alla corrente del fiume dove sono le vasche di pietra
usate come lavatoi perenni (πλυνοί … ἐπηετανοί 86, cfr. Iliade XXII 153 s. πλυνοὶ εὐρέες
… καλοὶ λαΐνεοι). Ed è Atena che, quando la vergine si mette a giocare a palla con le ancelle, fa
sì che, lanciando la sfera, ella manchi colei a cui l’aveva indirizzata facendo finire la palla in un
gorgo profondo. Così il grido delle ragazze alla scomparsa della palla ha l’effetto di svegliare
Odisseo che si era addormentato su un giaciglio che si era costruito con un cumulo di foglie fra
due cespugli di oleastro e di olivo (cfr. V 474 ss.).
Di qui l’avvio di quel dialogo fra Nausicaa e l’eroe abbrutito dalla salsedine e coperto solo
sull’inguine da una frasca attraverso il quale Odisseo ottiene di potersi lavare, vestire e rifocillare
e poi di ricevere precise indicazioni sulla città dei Feaci, sulla via per arrivarci e sul
comportamento che dovrà tenere di fronte alla regina Areta (che dovrà supplicare per prima) e al
re Alcinoo.

5
Cfr. Ameis-Hentze 1975, p. 142.
6
Cfr. Hainsworth 1982, pp. 184 s.
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Letteratura greca [1]

Per l’efficacia di questa linea narrativa era necessario e sufficiente che Nausicaa non fuggisse,
diversamente dalle sue ancelle, alla vista di un naufrago nudo e desse ascolto a una supplica che
Odisseo modula con tutte le arti della retorica e dell’etichetta dimostrando immediatamente di
essere stato educato come un aristocratico capace di toccare le corde più sensibili della giovane:
elogio della sua bellezza, richiamo alle proprie sofferenze e alla pietà della giovane (astutamente
apostrofata con ἄνασσα, quasi fosse una dea, al v. 149 e al v. 175), augurio che gli dèi le
accordino un marito e una casa felice. Non sorprende allora che Nausicaa riconosca nello
straniero un uomo che, per via negativa, definisce come uno che non è né vile né stolto (v. 187) e
si dichiari pronta a offrigli ciò che si addice a un supplice (cibo, bevande, vesti) e a indicargli,
oltre al proprio nome, la città dei Feaci.
Non strettamente funzionale al disegno narrativo, anche se certamente solidale con esso, è invece
una infatuazione sentimentale della giovane che viene appena accennata con tocco leggero ma
inequivocabile allorché la vergine, contemplando Odisseo spurgato dalla salsedine, unto d’olio e
rivestito, confida alle ancelle che proprio così vorrebbe che fosse l’uomo che sposerà. In tal
modo quell’attesa di nozze imminenti già sottolineata al momento del sogno - “non sarai
vergine ancora per molto - le diceva Atena -, già ti chiedono in sposa qui nella contrada dove tu
pure sei nata i migliori dei Feaci” (VI 33-35) - trova la sua individuazione dapprima in un
“uomo simile” al naufrago (τοιόσδε 244), poi, in immediata successione, precisamente in
Odisseo (οἱ 245).
Partita Nusicaa con le ancelle (v. 316), la storia seguirà il suo ormai prevedibile sviluppo, ma
Nausicaa non sarà dimenticata del tutto perché il narratore si ricorderà di lei non al momento
della partenza dell’eroe - l’ultimo saluto sarà infatti per la regina Areta (XIII 59-62) -, ma
quando è ormai accolto nella reggia e le serve lo hanno nuovamente lavato, unto d’olio e avvolto
di un manto elegante e di una tunica. A questo punto, quasi a suggellare la fine della propria
missione, Nausicaa lo guarderà nuovamente (ma il θαύμαζεν … Ὀδυσσέα “guardava
ammirata Odisseo ” di VIII 459 rappresenta un grado superiore rispetto a θηεῖτο “osservava”
di VI 237) e gli dirà (VIII 461-462):

Sii felice, straniero, sì che tu possa ricordarti di me


quando sarai in patria: io sono la prima a cui devi la vita.

E Odisseo replicherà (VIII 464-468):

Nausicaa, figlia del magnanimo Alcinoo,


voglia Zeus, lo sposo tonante di Era, 465
che io giunga a casa e veda l’ora del ritorno:
anche laggiù ti invocherei sempre come una dea
ogni giorno perché tu, ragazza, mi hai salvato la vita.

Insomma, una dichiarazione di eterna gratitudine ma, nel contempo, una risposta a distanza,
inconsapevole e negativa, all’impossibile sogno nuziale confidato dalla giovane alle ancelle in VI
244 s. E non a caso, a questo punto, Nausicaa scompare per sempre dal poema.

T. 5 La prima parte del viaggio


Per scoprire come si articoli nel poema il nesso fra le peregrinazioni di Odisseo e quella
versatilità intellettuale della sua mente che viene espressa dall’epiteto πολύτροπος bisogna
ripercorrere i modi del comportamento dell’eroe lungo le stazioni toccate a partire dalla partenza
da Troia fino al momento in cui, presso Circe, l’aggettivo compare per la seconda e ultima volta.

I Ciconi
Partito da Troia, Odisseo incendia la città dei Ciconi e la saccheggia. Poi incita i compagni a
fuggire, ma questi non gli obbediscono. Il contrattacco dei Ciconi porta alla perdita di sei
compagni per ogni nave. E’ un caso di razzia frequente anche al tempo della colonizzazione e si
svolge in uno scenario realistico, e cioè in Tracia, presso il fiume Ebro, oggi Maritza (cfr.
Erodoto VII 110; in Iliade II 846 e XVII 73 i Ciconi sono ricordati come alleati dei Troiani). La
21
Letteratura greca [1]

battaglia è descritta con materiale e moduli tipici dell’Iliade e Odisseo si comporta come un
tipico guerriero iliadico anche se dimostra scarsa autorità sui suoi uomini.

I Lotofagi
I «mangiatori di lotto» sono invece già rimossi da una geografia definita (sappiamo solo che
l’arrivo avviene nove giorni dopo la fuga dal paese dei Ciconi). Odisseo manda tre uomini a
informarsi su che tipo di gente viva nella contrada in cui sono approdati. Gli abitanti danno loro
da mangiare del loto e li invitano a restare e a «scordare il ritorno» (IX 97 νόστου ... λαθέσθαι
e 102 νόστοιο λάθεται). Allora Odisseo ordina di salire in fretta sulle navi.
L’offerta di loto sembra una manifestazione di buone maniere ospitali e Odisseo, dopo
l’infortunio presso i Ciconi, è sollecito a un contatto formalmente ineccepibile, come mostra la
presenza di un araldo all’interno della delegazione incaricata della missione esplorativa. Inoltre
sembra aver migliorato la sua presa sui compagni, che questa volta gli obbediscono abbastanza
prontamente. Qui la sua adattabilità alla situazione si affaccia per la prima volta, come rifiuto di
quella seduzione dell’oblio di cui il ‘loto’ è portatore.

Polifemo
Messo piede in un ambiente pre-culturale con l’eccitazione di un colonizzatore, Odisseo con i
compagni dapprima caccia (IX 154 ss.) in un isolotto antistante la terra dei Ciclopi, poi, il giorno
seguente, va, ma con la sua sola ciurma, in esplorazione, e dunque, in contrasto con quanto fatto
presso i Lotofagi, partecipa personalmente al tentativo di prendere contatto con gli stranieri.
L’osservazione dell’isola, decifrata «come un archivio» (Privitera 1993, p. 25), esalta le capacità
intellettuali di Odisseo, che, raccolta una serie di indizi, vi scopre l’assenza di caccia, di
agricoltura e di costruzione di navi (IX 120 ss.).
Inoltre l’eroe, grazie alla sua previdenza, porta un grande otre colmo di vino rosso e un cesto
pieno di cibi: «congetturò subito il mio cuore altero che avremmo trovato un uomo vestito di
poderoso vigore, selvaggio, ignaro di giustizia e di leggi» (IX 213-215).
Odisseo e i suoi entrano nell’antro che hanno avvistato vicino al mare e qui, all’inverso di
quanto avvenuto presso Ciconi e Lotofagi, sono i compagni a esortare Odisseo alla ritirata; ma
egli rifiuta - «e sarebbe stato assai meglio» - «per vederlo di persona, se mi facesse doni
ospitali» (IX 228 s.).
Dal Ciclope Odisseo cerca di ricevere doni ospitali in nome della propria gloria e del proprio
rango. Non sa ancora di confrontarsi, in un mondo ignaro dei valori eroici, con un essere per il
quale le azioni e i diritti degli eroi non hanno alcun senso. Le sue parole pateticamente
orgogliose sono vanificate dalla reazione di Polifemo, che ignora ciò che Odisseo gli ha detto
della sua nobiltà, delle sue imprese e della sua fama: di Troia e di Agamennone evidentemente
non ha mai sentito parlare.
Nonostante il ‘presentimento’ dei vv. 213 ss., il nostro eroe non è stato molto pronto a leggere
nel pensiero di Polifemo, ma dopo la risposta del Ciclope cambia registro e mente dichiarando
di essere giunto con una sola nave fracassatasi contro gli scogli.
A questo punto Polifemo fa a pezzi due compagni dell’eroe e subito sopravviene in Odisseo
l’impulso a una risposta operativa - sguainare la spada lungo la coscia secondo la prassi del
guerriero -, ma lo trattiene «un altro impulso (ἕτερος θυμός)» (IX 302) perché riflette sulla
presenza di un masso che ostruisce l’ingresso dell’antro. Di qui l’ideazione dello stratagemma
consistente da conficcare un palo nell’occhio di Polifemo in un momento in cui il masso
d’ingresso sia già stato spostato dal gigante. L’impulso eroico ha bisogno di essere represso
dalla consapevolezza dell’inadeguatezza del comportamento guerresco tradizionale.
L’elaborazione di una nuova via di comportamento è marcata, in IX 316 «e io restavo a meditare
vendetta in segreto», dal verbo βυσσοδομεύω, che non compariva mai nell’Iliade ma che
incontriamo 7 volte nell’Odissea e il cui significato «meditare (tramare) in segreto» deriva dalla
combinazione del senso etimologico di «costruire in profondità» (cfr. βυσσός «fondo» e δέμω
«costruire»), con quella nozione di spazio mentale che abbiamo già riscontrato in πολύτροπος
e in τρέπομαι.
D’altra parte le espressioni di scherno all’indirizzo del Ciclope verso la fine dell’episodio
ripropongono il modello delle ‘aristie’ dell’Iliade, allorché il vincitore rivolgeva parole di vanto
all’avversario, ancora vivo o già morto. In tal modo, col rivelare la propria identità, Odisseo
rende possibile la successiva maledizione (IX 528-535): in questo non c’è nessuna arroganza né
alcuna violazione di una norma ma certo vi è imprudente leggerezza. Qui Odisseo sacrifica la
sua vittoria sul Ciclope all’impulsività del suo animo.

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Letteratura greca [1]

Odissea IX 82-566

Per nove giorni fui spinto dai venti funesti sul mare pescoso: al decimo giorno
arrivammo presso i Lotofagi, che mangiano un cibo di fiori. Lì scendemmo sul
lido e attingemmo acqua, e subito i compagni consumarono la cena presso le
navi veloci. Poi, quando fummo sazi di mangiare e di bere , mandai alcuni
compagni, scegliendone due e aggiungendo per terzo un araldo, a indagare chi
fossero gli uomini che in quella contrada mangiavano grano. Partiti, costoro
vennero subito a contatto con i Lotofagi, ma non meditavano morte, i Lotofagi,
ai nostri compagni, anzi offrirono loro di nutrirsi del loto. E chi di essi mangiò il
frutto dolcissimo del loto non voleva riportare notizie e tornare , ma preferiva
restare in mezzo ai Lotofagi cibandosi di loto e scordare il ritorno. Io li spinsi
via a forza, piangenti, e trascinatili dentro le concave navi li legai sotto coperta.
Poi agli altri fidati compagni ordinai di sbrigarsi a salire sulle concavi navi, sì che
nessuno, mangiando loto, scordasse il ritorno. Subito quelli salivano a bordo e
si piazzavano agli scalmi e seduti in fila battevano il grigio mare coi remi.
Di lì navigavamo oltre affranti in cuore e arrivammo alla terra dei Ciclopi ,
prepotenti e privi di norme, che confidando negli dèi eterni non piantano pianta
con le mani né arano, ma lì ogni frutto germina inseminato e senza aratura, grano
e orzo e viti che portano vino da grappoli rigogliosi nutriti dalla pioggia mandata
da Zeus. Costoro non hanno assemblee per consultarsi né regole sociali, ma
abitano le cime di alti monti in cave grotte, e ciascuno esercita la sua autorità su
figli e moglie , né si curano gli uni degli altri.
Fuori dal porto si stende un’isola, piatta, selvosa, non troppo vicina alla terra dei
Ciclopi ma neppure lontana. Ci nascono capre infinite , selvatiche: presenza
umana non le spaura né vi passano cacciatori che nella selva soffrano stenti
percorrendo le cime dei monti. Non è occupata da greggi o da campi di biade, ma
giorno dopo giorno resta in seminata e inarata e vuota di uomini: nutre capre
belanti. Non hanno i Ciclopi navi dalle guance vermiglie né albergano fra loro
calafati capaci di fabbricare navi dai solidi ponti che percorrano ogni rotta
arrivando alle città dei mortali nei tragitti che spesso gli uomini incrociano fra
loro con le navi sul mare: gente che avrebbe reso ben coltivata anche la loro
isola. Non è infruttuosa e produrrebbe di tutto a suo tempo: lungo le rive del
grigio mare ci sono roridi, teneri prati dove potrebbero crescere viti perenni ;
c’è terra piana, adatta all’aratro, e si potrebbe mietere sempre , a suo tempo,
folto grano: molto grasso è il suolo di sotto. C’è un porto buono per l’approdo,
dove non servono gomene né bisogna gettar fuori pietre per l’ancoraggio o
legare le cime di poppa, ma, una volta approdati, si può aspettare finché l’animo
dei marinai reclami la partenza e i venti prendano a soffiare . In capo al porto
scorre acqua limpida, una sorgente dentro una grotta; all’intorno crescono
pioppi. Arrivammo laggiù e un dio ci guidava nella notte fosca senza mostrarsi
alla vista: intorno alle navi c’ era nebbia spessa né la luna, coperta dalle nuvole, si
affacciava dal cielo. Così nessuno scorse l’isola ne vedemmo le onde lunghe
rotolare verso il lido prima che le navi dai solidi ponti approdassero.
Poi, alle navi approdate ammainammo tutte le vele e sbarcammo sul frangente
del mare . Lì ci addormentammo aspettando Aurora luminosa.
Quando al mattino spuntò Aurora dalle dita di rosa, pieni di stupore girammo
attorno all’isola. E le Ninfe, figlie di Zeus portatore dell’egida, stanarono capre
montane perché i miei compagni potessero nutrirsi. Prendemmo subito dalle
navi gli archi ricurvi e le lunghe picche e cominciammo a tirare, divisi in tre

23
Letteratura greca [1]

squadre: ben presto un dio ci offrì cacciagione abbondante. Poiché mi seguivano


dodici navi, toccarono a ciascuna nove capre; a me solo ne assegnarono dieci.
Così per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, sedemmo a consumare carni
infinite e dolce vino. Il rosso vino sulle navi non era ancora esaurito, ma ne
restava: ciascuno ne aveva versato molto nelle anfore quando occupammo la
rocca sacra dei Ciconi. Puntavamo gli occhi sulla terra dei vicini Ciclopi e sul
fumo e sulla voce di quelli e sui belati di pecore e capre. Non appena il sole calò
e scese la tenebra, ci coricammo sul frangente del mare . Quando al mattino
spuntò Aurora dalle dita di rosa convocai un’assemblea e dissi in mezzo al
gruppo: «Voi adesso aspettate, miei cari compagni fidati, mentre io con la mia
nave e i miei uomini vado a studiare che uomini sono costoro, se violenti e
selvaggi e senza giustizia o invece ospitali e con mente pia».
Detto così, salii sulla nave e ordinai ai miei uomini di montare a bordo pur essi e
di sciogliere le cime di poppa. Salivano subito a bordo e si piazzavano agli scalmi :
seduti in fila battevano il grigio mare coi remi. Ma quando arrivammo alla terra
vicina, scorgemmo sul lembo estremo, vicino all’acqua, un’ alta grotta coperta di
lauri, dove avevano ricovero molti greggi, di pecore e capre; all’intorno era
stato costruito un alto muro di cinta con pietre infisse nel suolo e con lunghi
tronchi di pino e querce fronzute. Vi aveva ricovero la notte un uomo
gigantesco, che pasceva in solitudine i greggi, in disparte, senza frequentare gli
altri Ciclopi, ma stando per conto proprio, ignaro di regole. Ed era un mostro
gigantesco: non somigliava a un uomo mangiatore di grano, ma a sprone selvoso
di erti monti che spicca isolato dagli altri.
Allora ordinai agli altri fidati compagni di restare lì a fare la guardia alla nave; io
scelsi i dodici migliori e mi avviai portando un otre caprino di vino scuro, dolce ,
che mi aveva donato Marone, figlio di Evante, sacerdote di Apollo protettore di
Ismaro perché, colti da sacro timore , lo avevamo risparmiato insieme con il
figlio e la moglie: abitava nel bosco alberato di Febo Apollo. Mi offrì splendidi
doni: sette talenti d’oro ben lavorato, un cratere d’argento massiccio e vino che
aveva versato nelle anfore , dodici in tutto, dolce e pretto, divina bevanda,
conosciuto a nessuno dei servi e delle ancelle di casa ma solo a lui, a sua moglie
e alla vivandiera. Quando bevevano questo vino rosso dolce come il miele ,
colmava una sola tazza e mescolava con venti misure d’acqua, dal cratere esalava
una dolce fragranza, divina: allora starne lontano sarebbe stato spiacevole .
Portavo un grande otre colmo di questo vino e cibi in una bisaccia perché il mio
animo fiero aveva subito pensato che avremmo incontrato un uomo rivestito di
forza gagliarda, selvaggio, ignaro di giustizia e di regole .
Arrivammo a passo svelto all’antro, ma non lo trovammo dentro: pasceva al
pascolo i pingui armenti. Entrati, osservammo ogni cosa: i graticci carichi di
formaggi, gli stazzi gremiti di agnelli e capretti, divisi con steccati per gruppi: da
una parte i primi nati, da un’altra i mezzani, da un’altra ancora gli ultimi nati; e i
bei recipienti in cui mungeva, mastelli e secchie, traboccavano tutti di siero.
Allora i compagni mi scongiuravano che tornassimo subito indietro rubando i
formaggi e poi, spinti alla svelta agnelli e capretti fuori dagli stazzi fin sulla nave
veloce, riprendessimo a navigare sull’acqua salsa: ma io non diedi loro ascolto -
e sarebbe stato tanto meglio - per poterlo guardare in persona e vedere se mi
avrebbe offerto doni ospitali. E certo, una volta apparso, non doveva riuscire
dolce ai miei compagni!
Lì, acceso il fuoco, sacrificammo e, presi dei caci, mangiammo anche noi: lo
aspettavamo seduti lì dentro finché tornò dal pascolo. Portava un carico enorme
di legna secca da usare per la cena. Gettandolo dall’esterno dell’antro fece un
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Letteratura greca [1]

gran fracasso: noi, spaventati, balzammo verso il fondo. Poi spinse i pingui
armenti nella vasta grotta, tutte le bestie che aveva intenzione di mungere ,
lasciando fuori, dentro l’alto recinto, i maschi, montoni e capri. Poi sollevò e
piazzò sull’ingresso un enorme macigno: non l’avrebbero spostato dalla soglia
ventidue buoni carri a quattro ruote: tanto immane fu il masso che piazzò
sull’ingresso. Sedutosi, mungeva le pecore e le capre belanti, in ordine una dopo
l’altra, e sotto ogni animale spinse un lattonzolo. Subito cagliò una metà del
candido latte e, raccoltola, la depose in canestri intrecciati, l’altra metà la travasò
in vasi per averne da bere e servirsene per cena.
Quando ebbe completato alla svelta i suoi lavori, ecco che accese il fuoco e ci
vide. Allora ci domandò: «Chi siete, stranieri? Donde venite per le umide vie?
Per commercio, o vagabondate senza meta sul mare al modo dei corsari, che
vagano mettendo in gioco la vita e portano rovina agli stranieri?».
Diceva così e a noi si spezzò il cuore, spaventati da quella voce greve e da lui, il
gigante. Ma pur tuttavia replicando con parole gli dissi:
«Noi siamo Achei reduci da Troia, sbalzati da innumeri venti sull’abisso
immenso del mare: diretti in patria, altre rotte, altri sentieri, come a Zeus
piacque, abbiamo battuto. Dichiariamo di essere uomini dell’Atride
Agamennone, la cui fama ora è somma sotto il cielo, tanto grande città ha
distrutto molti guerrieri annientando; e ora, incontrandoti, veniamo alle tue
ginocchia nella speranza che tu ci offra un dono ospitale o comunque un regalo,
come è regola fra gli ospiti. Ma tu, fortissimo, rispetta gli dèi: siamo tuoi
supplici. Vendicatore di supplici e ospiti è Zeus, il dio ospitale che accompagna i
venerandi stranieri».
Dicevo così ed egli subito mi rispondeva con cuore spietato: «Sei uno sciocco,
straniero, o vieni da molto lontano se mi esorti a temere o a scansare gli dèi. I
Ciclopi non si curano di Zeus portatore dell’egida né degli altri dèi beati, perché
siamo molto più forti: non risparmierò né te né i tuoi compagni, se il cuore non
me lo comanda, per schivare l’odio di Zeus. Ma tu dimmi dove, arrivando, hai
gettato l’ancora della solida nave, se alla punta estrema dell’isola o più vicino,
perché io lo sappia».
Diceva così per mettermi alla prova, ma io – sono molto sagace – me ne accorsi .
E di nuovo gli risposi con parole astute:
«La mia nave l’ha fracassata Posidone che scuote la terra sugli scogli ai margini
della vostra contrada, spingendola contro un promontorio: il vento l’aveva
portata verso la costa, ma insieme a costoro io sono sfuggito all’abisso di
morte».
Dicevo così ed egli con cuore spietato non mi diede risposta, ma con un balzo
gettava le mani sui miei compagni, ne afferrò due in una volta e li sbatteva come
cuccioli a terra: il cervello sprizzava in basso e bagnava il suolo. Li fece a pezzi
membro dopo membro e si preparò la cena: li trangugiava come leone cresciuto
sui monti senza niente tralasciare , né interiora né carni né ossa e midollo. Noi ,
singhiozzando, tendemmo le mani a Zeus alla vista dell’atto tremendo :
l’impotenza ci stringeva il cuore . E quando il Ciclope si fu riempito il gran ventre
mangiando carni umane e bevendoci sopra latte pretto, si sdraiò nell’antro
stendendosi fra gli armenti. Allora io meditai nel mio animo prode di avvicinarmi
e, tratta la spada affilata da lungo la coscia, di piantargliela in petto, tastando il
punto con la mano, là dove i polmoni toccano il fegato, ma un diverso pensiero
mi fermò. Noi pure saremmo periti laggiù di ineluttabile morte perché non
avremmo potuto spostare con le braccia dall’alta apertura l’enorme macigno che
il gigante ci aveva piazzato. E così, singhiozzando, aspettammo Aurora luminosa.
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Letteratura greca [1]

Quando al mattino spuntò Aurora dalle dita di rosa, accendeva il fuoco e


mungeva le magnifiche bestie, in ordine una dopo l’ altra, e sotto ogni animale
spinse un lattonzolo. Quando ebbe completato alla svelta i suoi lavori, ecco che
afferrò altri due uomini e si preparò la colazione. Appena mangiato, spinse i
pingui armenti fuori dell’antro dopo aver sollevato agevolmente il macigno
dall’ingresso, ma poi ce lo rimise come se a una faretra ponesse il coperchio.
Con un lungo fischio indirizzava verso il monte i pingui armenti il ciclope: io
restavo a meditare in segreto vendetta nella speranza di poterlo punire e che
Atena me ne accordasse il vanto. E questo infine pareva al mio animo il piano
migliore. Presso uno degli stazzi giaceva in terra un grande palo del Ciclope ,
verde, d’olivo: lo aveva tagliato per portarlo con se una volta seccato. Ai nostri
occhi sembrava grande quanto l’albero di scura nave – un mercantile largo, da
venti rematoci – che solchi l’abisso immenso: tanto era lungo, tanto era grosso a
vederlo! Io, avvicinatomi, ne tagliai per una tesa e lo passai ai compagni
ordinando di appuntirlo: essi lo resero liscio; io, avvicinatomi, ne aguzzai la
punta e subito presi a indurirla al fuoco ardente. Poi lo riposi con cura
nascondendolo sotto il letame che per la grotta era sparso in gran quantità; agli
altri ordinai che fosse estratto a sorte chi avrebbe osato sollevare il palo con
me e girarlo nell’occhio del Ciclope quando lo raggiungesse il dolce sonno.
Furono estratti i quattro che io stesso avrei scelto ed io con essi mi contai per
quinto.
A sera arrivò riportando dal pascolo i greggi villosi: subito spinse nell’ampia
grotta i pingui armenti, ogni bestia, senza lasciarne alcuna dentro l’alto recinto, o
per un suo pensiero o perché un dio così lo spronò. Poi sollevò e piazzò
sull’ingresso un enorme macigno e sedutosi mungeva le pecore e le capre
belanti, in ordine una dopo l’altra, e sotto ogni animale spinse un lattonzolo.
Quando ebbe completato alla svelta i suoi lavori, ecco che afferrò altri due
uomini e si preparò la cena. Allora io mi avvicinai al Ciclope e gli dicevo,
tenendo fra le mani una tazza in legno di vino scuro:
«Qua, Ciclope , bevi il vino ora che hai mangiato carni umane, perché tu sappia
che bevanda è questa che la mia nave nascondeva: l’avevo portato per te come
un’offerta sperando che, preso da pietà, tu mi rimandassi a casa, e invece tu ti
comporti come un pazzo, e questo non è accettabile. Perfido, come potrebbe
qualcun altro fra gli uomini al mondo venire in futuro da te? Tu non hai agito
come si deve».
Dicevo così, egli lo prese e bevve: gli piacque incredibilmente bere la dolce
bevanda, e ne chiedeva ancora:
«Dammene ancora, sii gentile, e dimmi il tuo nome, subito ora, perché io ti
offra un dono ospitale che ti rallegri. Per i Ciclopi la terra dispensatrice di biade
produce vino da grappoli rigogliosi che nutre la pioggia mandata da Zeus, ma
questo è una corrente d’ambrosia e di nettare!».
Diceva così e io gli porsi di nuovo il vino scintillante: gliene offrii tre volte e tre
volte bevve per la sua stoltezza. Ma quando il vino avvolse i polmoni del Ciclope
allora gli dicevo con parole dolci: «Ciclope, tu mi domandi il nome per cui sono
famoso? Te lo dirò ma tu, come hai promesso, dammi il dono ospitale. Il mio
nome è ‘Nessuno’: ‘Nessuno’ mi chiamano mia madre e mio padre e tutti i
compagni».
Dicevo così ed egli subito mi rispondeva con cuore spietato: «Nessuno io
mangerò per ultimo fra i suoi compagni: prima gli altri. Questo per te sarà il
dono ospitale».

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Letteratura greca [1]

Disse e piegatosi all’indietro ricadde supino, poi giacque reclinando il grosso


collo: lo vinse il sonno che tutti soggioga; dalla gola eruppe vino mischiato a
tocchi di carne umana: ruttava ubriaco. Allora io spinsi il palo sotto molta brace
finché si arroventasse e rincuorai tutti i compagni perché nessuno si tirasse
indietro per la paura. E appena il palo d’olivo, benché fosse verde , fu per
infiammarsi nel fuoco, incandescente com’era, allora lo tirai via dalla brace ,
attorniato dai compagni: un dio ci infuse grande audacia. Afferrarono il palo
d’olivo, aguzzo in punta, e lo ficcarono nel suo occhio; io, sollevatomi, lo
ruotavo dall’alto come quando un carpentiere trapana un asse di nave che altri
più in basso ruotano con una cinghia afferrandolo da ambo le parti, e il trapano
penetra costante: così, afferratolo, ruotavamo nell’occhio la punta infuocata del
palo e il sangue scorreva intorno al tizzo rovente. La vampa, mentre la pupilla
bruciava, gli strinò tutte le palpebre e i cigli; le radici del bulbo gli crepitavano al
fuoco. Come quando un fabbro tuffa nell’acqua gelida, a temprarle , una grande
scure o un’ascia che stride d’un sibilo acuto – da questo dipende la robustezza
del ferro –, così l’occhio sfrigolava intorno al palo d’olivo. Levò un gemito alto,
spaventoso: ne rimbombò tutt’intorno la roccia. Noi, sbigottiti, balzammo
indietro. Egli si strappò dall’occhio il palo imbrattato di molto sangue . Lo gettò
con le mani lungi da se , esagitato, poi chiamava a gran voce i Ciclopi che intorno
a lui abitavano nelle grotte fra le cime ventose. E quelli, udendo il suo grido,
accorrevano chi di qua e chi di là e, fermatisi intorno alla sua grotta, chiedevano
che cosa lo torturasse:
«Perché, Polifemo, hai gridato con tanta pena nella notte divina e ci togli il
sonno? Forse un mortale ti ruba con la forza i greggi? Forse qualcuno vuole
ucciderti con l’astuzia o con la violenza?».
Ad essi rispondeva dall’antro il forte Polifemo: «Nessuno, amici, cerca di
uccidermi con l’astuzia o con la violenza».
Ed essi replicando dicevano parole alate: «Ma se nessuno ti fa violenza e sei
solo, vuol dire che non puoi evitare il morbo mandato dal grande Zeus: allora
invoca tuo padre, Posidone sovrano».
Dicevano così allontanandosi, e mi rise il cuore perché il mio nome e la perfetta
trovata lo avevano tratto in inganno. Gemendo e soffrendo per le fitte di dolore ,
il Ciclope tolse a tentoni il masso dall’ingresso e sedette egli stesso sulla soglia
a braccia distese per afferrare chi cercasse di uscire all’esterno mescolandosi
alle pecore: forse sperava che io fossi tanto sciocco! Invece meditavo quale
fosse l’idea migliore per trovare scampo da morte ai compagni e a me stesso :
tessevo ogni sorta d’inganni e di astuzie, come si fa quando è in gioco la vita;
grande sciagura ci era vicina. E questa mi parve l’idea migliore. C’erano montoni
ben pasciuti, villosi, belli e imponenti, con la lana dal colore di viola: li legai l’uno
all’altro in silenzio con vimini ben ritorti su cui soleva dormire il gigantesco
Ciclope , l’essere ignaro di regole , unendoli tre a tre; quello di mezzo portava un
uomo, gli altri due avanzavano di fianco proteggendo il compagno. Così ogni
uomo era trasportato da tre montoni, ma io, poiché c’ era un montone di gran
lunga più grosso di tutti gli altri animali, afferratolo per il dorso mi stesi
raggomitolato sotto il suo ventre lanoso: con animo paziente mi tenevo
aggrappato senza posa, girato all’insù, al vello meraviglioso. E così ,
singhiozzando, aspettammo Aurora luminosa.
Quando al mattino spuntò Aurora dalle dita di rosa, allora uscirono rapidi al
pascolo i maschi del gregge; le femmine, negli stazzi, belavano non munte: le
poppe erano gonfie da scoppiare . Tormentato da atroci dolori, il padrone
tastava la groppa a tutte le pecore che già si erano alzate: non sospettò, lo
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Letteratura greca [1]

sciocco, che gli uomini eran legati al petto delle bestie lanose. Per ultimo uscì il
maschio del gregge, appesantito dal vello e da me che saldi pensieri pensavo. E
tastandolo diceva il forte Polifemo:
«Caro il mio montone, perché mi esci dalla grotta così per ultimo? Prima non
restavi mai dietro alle pecore , ma per primo, a lunghi salti, correvi a pascere i
teneri fiori dell’erba e per primo raggiungevi le correnti dei fiumi e per primo
volevi tornare alla stalla di sera: ora invece eccoti buon ultimo. Forse tu
rimpiangi l’occhio del tuo padrone? Lo accecò un uomo malvagio con i suoi vili
compagni, dopo aver soggiogato i miei polmoni col vino, Nessuno: non credo
che sia già sfuggito alla morte. Oh se potessi ragionare anche tu e avere la voce
per potermi dire dove egli sfugge alla mia furia! Allora il suo cervello si
fracasserebbe al suolo e schizzerebbe qua e là per la grotta e il mio cuore
avrebbe sollievo alle pene che mi ha inflitto questo Nessuno da nulla».
Detto così, spinse fuori, via da se , il montone. Quando fummo un poco lontani
dalla grotta e dal recinto, allora mi sciolsi per primo dal montone e poi sciolsi i
compagni. In fretta, ma voltandoci indietro più volte , spingevamo i greggi dal
lungo passo, pingui di grasso, fin che arrivammo alla nave. I cari compagni furono
lieti di rivederci sfuggiti alla morte, ma gemendo piangevano gli altri. Io però ,
facendo cenno a ciascuno con i sopraccigli, non lasciavo che piangessero, ma
ordinai di imbarcare alla svelta i molti greggi villosi e di navigare sull’acqua salsa.
Essi salivano subito a bordo e si piazzavano agli scalmi: seduti in fila battevano il
grigio mare coi remi. Ma appena distai tanto quanto arriva un grido, allora dicevo
al Ciclope con parole provocatorie:
«Ciclope , non di un vigliacco hai mangiato con bruta violenza i compagni nella
grotta cava. Fin troppo i tuoi misfatti devono ricadere su di te, scellerato, che
non esitasti a divorare ospiti nella tua casa: perciò ti hanno castigato Zeus e gli
altri dèi».
Dicevo così ed egli si adirò in cuore ancora di più, staccò la cima di un grande
monte e la scagliò: la fece piombare appena davanti alla nave dalla prora scura e
sfiorò il timone , Al cadere del masso si gonfiò il mare e l’onda corrente a
ritroso, il riflusso dal largo, spinse indietro verso terra la nave e la trascinò
contro la costa. Io però la spostai via di fianco afferrando con le braccia una
pertica lunghissima e con cenni del capo diedi ordini ai compagni, incitandoli a
buttarsi sui remi per sfuggire alla rovina] ; ed essi remavano piegati in avanti, Ma
quando avanzando sul mare fummo a doppia distanza, allora parlavo al Ciclope
anche se i compagni, chi di qua e chi di là, mi trattenevano con miti parole:
«Pazzo, perché vuoi provocare un selvaggio? Anche ora, scagliando il suo bolide
in mare, ha ricacciato verso terra la nave; credevamo di rimetterci la vita. Se
udiva la voce o le parole di qualcuno, fracassava in una volta sola le nostre teste
e i legni della nave colpendoci con la ruvida pietra: tanto lontano sa tirare!».
Dicevano così ma non persuasero il mio animo prode: nuovamente gli parlavo
con animo irato:
«Ciclope , se un mortale ti chiedesse della sconcia cecità del tuo occhio, digli che
ti accecò Odisseo eversore di rocche, il figlio di Laerte, che in Itaca ha la sua
casa».
Dicevo così ed egli replicava gemendo: «Oh oh! Un’antica profezia mi raggiunge,
Visse qui un indovino grande e valente, Telemo Eurimide , che eccelleva nell’arte
del vaticinio e vaticinando invecchiò fra i Ciclopi: mi disse che un giorno tutto
questo si sarebbe compiuto, d’essere orbato della vista per le mani di Odisseo.
Ma io mi sono sempre aspettato che arrivasse qua un uomo grande e bello,
rivestito di forza gagliarda; ora invece mi ha orbato dell’occhio un mingherlino,
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Letteratura greca [1]

un essere insignificante e debole, dopo avermi soggiogato col vino. Su, avvicinati,
Odisseo, che io ti offra i doni ospitali e sproni il dio glorioso che scuote la terra
a darti la sua scorta: di lui io sono figlio, egli dichiara di essermi padre. Se vuole ,
egli e nessun altro fra gli dèi beati e fra i mortali mi guarirà».
Diceva così ed io replicando gli dissi: «Oh se avessi potuto privarti del soffio
della vita e spedirti alla casa di Ade come è vero che non guarirà il tuo occhio
neppure il dio che scuote la terra».
Dicevo così; egli invocò Posidone sovrano tendendo le mani verso il cielo
stellato:
«Ascolta, Posidone che sostieni la terra, dalla chioma azzurra: se veramente
sono tuo e padre mio dichiari di essere , concedi che in patria non giunga
Odisseo eversore di rocche [il figlio di Laerte, che in Itaca ha la casa] .Ma se è
destino per lui che riveda i suoi cari e giunga alla casa ben edificata e alla terra
dei padri, tardi e male ci arrivi dopo aver perduto tutti i compagni, su nave
straniera, e in casa trovi sciagure».
Diceva così pregando, gli diede ascolto il dio dalla chioma azzurra. Egli, sollevato
di nuovo un masso, ma molto più grande, lo scagliò roteandolo, vi impresse
forza smisurata: lo fece piombare appena dietro la nave dalla prora scura e
sfiorò il timone. Al cadere del masso si gonfiò il mare e l’onda spinse innanzi la
nave e la trascinò verso la costa.
Ma quando arrivammo all’isola nel punto in cui le altre navi dai solidi ponti
aspettavano compatte e i compagni sedevano intorno piangendo nell’attesa
continua di noi, allora traemmo la nave sopra la spiaggia e scendemmo noi stessi
sul frangente del mare. Sbarcati dalla concava nave i greggi del Ciclope , li
spartimmo perché nessuno ripartisse privato d’equa porzione . Dividendo le
bestie i compagni dai forti schinieri assegnarono a me solo, in segno d’onore , il
montone e io ne bruciai i cosci sulla riva del mare sacrificando a Zeus figlio di
Crono dalle nuvole scure, che su tutti ha potere, ma il dio sdegnò l’offerta:
meditava come potessero andare in rovina tutte le navi dai solidi banchi e i miei
fidati compagni. Così per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, sedemmo a
consumare carni infinite e dolce vino, ma quando il sole calò e scese la tenebra
ci coricammo sul frangente del mare . Appena al mattino spuntò Aurora dalle dita
di rosa, ordinai ai compagni, incitandoli, di imbarcarsi e di sciogliere le cime di
poppa. Subito essi salivano a bordo e si piazzavano agli scalmi: seduti in fila
battevano il grigio mare coi remi.
Di lì navigavamo oltre affranti in cuore , lieti d’essere scampati alla morte ma
avendo perduto cari compagni.

Eolo
Presso Eolo (X 1-76) tutto procede per il meglio finché si ripropone il dato, già affacciatosi
presso i Ciconi, della scarsa presa di Odisseo sui suoi uomini e viene in piena luce la loro
stoltezza, già annunciata nel proemio (cfr. X 27 αὐτῶν γὰρ ἀπωλόμεθ᾽ ἀφραδί_ῃσιν «ci
rovinammo infatti per la loro cecità» con I 7 αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο
«si rovinarono infatti per la propria cecità»).
Così, dopo l’incauta apertura dell’otre dei venti ad opera dei compagni, Odisseo, allorché si
ridesta, è preso da un impulso suicida (X 49-54):

... e io,
destandomi, fui incerto nel mio animo irreprensibile 50
se farla finita gettandomi in mare giù dalla nave

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Letteratura greca [1]

o sopportare in silenzio e restare ancora fra i vivi.


Ma sopportai e rimasi: avvolto nel mantello mi stesi
sotto coperta.

Il senso delle scene iliadiche di riflessione appare trasformato nel profondo: non si tratta più di
una scelta fra due linee d’azione, ma fra una soluzione autolesionistica e quella che Archiloco
(fr. 13, 6 West2) chiamerà τλημοσύνη («sopportazione»).

I Lestrigoni
Presso i Lestrigoni (X 80-132) Odisseo perde tutte le navi (tranne la propria) e la relativa ciurma
perché, come nel caso dei Lotofagi e diversamente che in quello dei Ciclopi, manda una
missione esplorativa guidata da un araldo (X 100-102 = IX 88-90). Odisseo salva se stesso e la
sua nave tagliando con la spada la gomena e facendo rotta verso il mare aperto. La decisione di
fuggire è presa lucidamente, in una desolata accettazione dei dati di fatto.

Odissea X 80-132

Navigammo notte e dì senza tregua per sei giorni, al settimo arrivammo alla
rocca erta di Lamo, Telepilo Lestrigonia, dove rientrando il pastore chiama il
pastore e l’altro, uscendo, risponde. Lì un uomo insonne riscuoterebbe due
paghe, una pascolando i buoi e l’altra accudendo i greggi argentei, ché sono
vicine le vie della notte e del giorno. Quando arrivammo nel porto magnifico che
roccia impervia cinge ininterrotta su ambo i lati, e due promontori si
protendono all’imboccatura l’uno contro l’altro, sì che stretta è l’entrata, tutti i
compagni arrestarono all’interno le navi agili a virare. Così, vicine fra loro,
furono ormeggiate entro il porto incavato, ove non si alzava mai onda, né tanto
né poco, ma intorno regnava chiara bonaccia. Solo io trattenni all’esterno la
nave scura, lì presso la punta estrema, legando a una rupe le gomene. Salii su una
roccia scoscesa a esplorare: non si scorgeva il lavoro né di buoi né di uomini, ma
vedevamo soltanto del fumo levarsi da terra. Allora mandai alcuni compagni,
scegliendone due e aggiungendo per terzo un araldo, a indagare chi fossero gli
uomini che in quella contrada mangiavano grano. Sbarcati, presero il piatto
sentiero per dove i carri portavano legna dagli alti monti in città. Davanti al
borgo incontrarono una vergine venuta per attingere acqua, la figlia vigorosa del
Lestrigone Antifate. Era scesa alla bella corrente della fonte Artacia, donde
solevano portare acqua in città: essi, avvicinandosi, le rivolsero la parola
domandandole chi fosse il loro sovrano e su quali sudditi regnasse. Ella subito
indicò la casa dall’alto soffitto del padre. Quando entrarono nel palazzo
glorioso, ci trovarono la moglie di quello, alta come picco montano, e ne
provarono disgusto. All’istante costei chiamava dalla piazza il glorioso Antifate, il
suo sposo, che morte funesta meditò per loro. Subito, afferrato uno dei miei
compagni, ne fece pasto per sé; gli altri due balzarono in fuga e raggiunsero le
navi. Ma quello levò un grido attraverso la città e, udendolo, accorrevano da ogni
parte i vigorosi Lestrigoni, innumerevoli, e non sembravano uomini ma Giganti.
Scagliavano dalle rupi macigni che un uomo potrebbe appena sollevare e subito
sorgeva fra le navi un triste fracasso di uomini maciullati e di tavole spezzate.
Infilzandoli come pesci si allestivano orrido pasto. Mentre quelli li sterminavano
dentro il porto profondo io, tratta la spada affilata da lungo la coscia, con essa
tagliai la gomena della nave dalla prora scura e spronai i miei compagni a gettarsi
in fretta sui remi sì che alla rovina sfuggissimo: tutti sollevarono l’acqua salsa
temendo la fine. Per fortuna la mia nave scansò le rupi incombenti prendendo il
largo, ma le altre in massa naufragarono lì.

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Letteratura greca [1]

T. 6 Il riconoscimento di Circe
Eccoci dunque arrivati all’episodio di Circe (X 133-574), la «dea terribile dalla voce umana»
(δεινὴ θεὸς αὐδήεσσα). L’avventura inizia come nel paese dei Lestrigoni (cfr. X 97): Odisseo
vuole raccogliere una prima informazione da un sito elevato e, quale segno di insediamento
umano, scorge un filo di fumo levarsi nell’aria.
Ora però, diversamente che nell’avventura presso i Lestrigoni, egli si sente immerso una
situazione senza via d’uscita in cui ha perduto completamente l’orientamento (non si sa più
dov’è l’occidente e dov’è l’aurora) e dunque confessa apertamente il proprio smarrimento (X
190-197). Eppure da esso non gli deriva uno stato di frustrazione, bensì l’impulso a cercare una
via di salvezza sfruttando l’unica informazione lusinghiera: quel fumo che significa se non altro
che l’isola è abitata. Ma poiché ai compagni, che intuiscono le intenzioni del loro capo, il
discorso suscita la memoria di altre infauste missioni, quelle presso i Ciclopi e i Lestrigoni (X
198-201), nuova è la strategia che Odisseo mette in atto (X 203-209): divide i compagni in due
gruppi di ventidue membri ciascuno con a capo rispettivamente se stesso ed Euriloco e tira a
sorte per decidere quale dei due gruppi dovrà andare in esplorazione. E’ una promozione inedita
dei compagni (e specialmente di Euriloco) a pari in grado, un modo nuovo di rapportarsi ad essi.
E nei confronti di Circe, a differenza che nell’incontro con il Ciclope, il comportamento eroico
non è inefficace: Odisseo muove con la spada all’attacco della maga provocandone il terrore,
seguito dal gesto di abbracciargli come supplice le ginocchia (X 321 ss.). Tuttavia si tratta di un
attacco marziale assolutamente atipico, diretto contro una donna disarmata, e di un’aggressione
fisica del tutto subalterna rispetto al vero strumento con cui l’eroe rintuzza gli incantesimi della
maga.
Se infatti dobbiamo supporre che Odisseo tenga in mano o ingerisca quell’antidoto (l’erba
moly) che Ermes gli ha appena offerto (X 302-306) e che entri nella casa di Circe – come dirà
Ovidio (Metamorfosi XIV 293) – «rassicurato dall’erba e dai consigli divini», il poeta articola
l’episodio in modo che ciò che turba e soggioga la maga al momento del loro confronto non sia
né la minaccia della spada né il possesso dell’erba moly (di cui neppure più si parla in questo
contesto) ma la constatazione della peculiare attitudine della mente di Odisseo: un νόος che,
unico al mondo, si dimostra refrattario agli incantesimi.
E’ appunto nell’arco di questo confronto fra Odisseo e Circe che al v. 330 ritorna, nella stessa
collocazione metrica che ha al primo verso del poema, l’aggettivo πολύτροπος:

Odissea X 307-347

Ἑρμείας μὲν ἔπειτ’ ἀπέβη πρὸς μακρὸν Ὄλυμπον


νῆσον ἀν’ ὑλήεσσαν, ἐγὼ δ’ ἐς δώματα Κίρκης
ἤϊα· πολλὰ δέ μοι κραδίη πόρϕυρε κιόντι.
Ἔστην δ’ εἰνὶ θύρῃσι θεᾶς καλλιπλοκάμοιο·
310
ἔνθα στὰς ἐβόησα, θεὰ δέ μευ ἔκλυεν αὐδῆς.
Ἡ δ’ αἶψ’ ἐξελθοῦσα θύρας ὤϊξε ϕαεινὰς
καὶ κάλει· αὐτὰρ ἐγὼν ἑπόμην ἀκαχήμενος ἦτορ.
Εἷσε δέ μ’ εἰσαγαγοῦσα ἐπὶ θρόνου ἀργυροήλου,
καλοῦ δαιδαλέου· ὑπὸ δὲ θρῆνυς ποσὶν ἦεν·
315
τεῦχε δέ μοι κυκεῶ χρυσέῳ δέπᾳ, ὄϕρα πίοιμι,
ἐν δέ τε ϕάρμακον ἧκε, κακὰ ϕρονέουσ’ ἐνὶ θυμῷ.
Αὐτὰρ ἐπεὶ δῶκέν τε καὶ ἔκπιον οὐδέ μ’ ἔθελξε,
ῥάβδῳ πεπληγυῖα ἔπος τ’ ἔϕατ’ ἔκ τ’ ὀνόμαζεν·
«Ἔρχεο νῦν συϕεόνδε, μετ’ ἄλλων λέξο ἑταίρων».
320
Ὣς ϕάτ’, ἐγὼ δ’ ἄορ ὀξὺ ἐρυσσάμενος παρὰ μηροῦ
Κίρκῃ ἐπήϊξα ὥς τε κτάμεναι μενεαίνων.
Ἡ δὲ μέγα ἰάχουσα ὑπέδραμε καὶ λάβε γούνων
καί μ’ ὀλοϕυρομένη ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·

31
Letteratura greca [1]

«Τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν; πόθι τοι πόλις ἠδὲ τοκῆες;


325
Θαῦμά μ’ ἔχει, ὡς οὔ τι πιὼν τάδε ϕάρμακ’ ἐθέλχθης.
Οὐδὲ γὰρ οὐδέ τις ἄλλος ἀνὴρ τάδε ϕάρμακ’ ἀνέτλη,
ὅς κε πίῃ καὶ πρῶτον ἀμείψεται ἕρκος ὀδόντων·
σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος ἐστίν.
Ἦ σύ γ’ ’Οδυσσεύς ἐσσι πολύτροπος, ὅν τέ μοι αἰεὶ
330
ϕάσκεν ἐλεύσεσθαι χρυσόρραπις ’Αργεϊϕόντης,
ἐκ Τροίης ἀνιόντα θοῇ σὺν νηῒ μελαίνῃ.
Ἀλλ’ ἄγε δὴ κολεῷ μὲν ἄορ θέο, νῶϊ δ’ ἔπειτα
εὐνῆς ἡμετέρης ἐπιβήομεν, ὄϕρα μιγέντε
εὐνῇ καὶ ϕιλότητι πεποίθομεν ἀλλήλοισιν».
335
Ὣς ἔϕατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·
«Ὦ Κίρκη, πῶς γάρ με κέλῃ σοὶ ἤπιον εἶναι,
ἥ μοι σῦς μὲν ἔθηκας ἐνὶ μεγάροισιν ἑταίρους,
αὐτὸν δ’ ἐνθάδ’ ἔχουσα δολοϕρονέουσα κελεύεις
ἐς θάλαμόν τ’ ἰέναι καὶ σῆς ἐπιβήμεναι εὐνῆς,
340
ὄϕρα με γυμνωθέντα κακὸν καὶ ἀνήνορα θήῃς.
Οὐδ’ ἂν ἐγώ γ’ ἐθέλοιμι τεῆς ἐπιβήμεναι εὐνῆς,
εἰ μή μοι τλαίης γε, θεά, μέγαν ὅρκον ὀμόσσαι,
μή τί μοι αὐτῷ πῆμα κακὸν βουλευσέμεν ἄλλο».
Ὣς ἐϕάμην, ἡ δ’ αὐτίκ’ ἀπώμνυεν, ὡς ἐκέλευον.
345
Αὐτὰρ ἐπεί ῥ’ ὄμοσέν τε τελεύτησέν τε τὸν ὅρκον,
καὶ τότ’ ἐγὼ Κίρκης ἐπέβην περικαλλέος εὐνῆς.

307-313. «Poi Ermes partì verso il grande Olimpo attraverso l’isola selvosa, e io andavo verso la casa di Circe,
e molto a me che andavo si agitava il cuore. Mi fermai sulla porta della dea dai riccioli belli e, fermatomi,
chiamai con un grido, e la dea udì la mia voce. Uscendo subito spalancò i fulgidi battenti e mi invitava dentro, e
io la seguivo affranto in cuore». Il v. 307 replica Iliade XXIV 694, il v. 309 è identico a Odissea IV 427 e 572:
ἤϊα (= ᾖα, ἤειν) è I persona dell’imperfetto di εἶμι. Il v. 310 ripete il v. 220.

314-319. «E mi condusse a sedere sopra un seggio a borchie d’argento, bello, intarsiato: sotto, c’era uno
sgabello per i piedi; e in un vaso d’oro mi preparava un miscuglio perché lo bevessi, e ci mise dentro un
farmaco meditando mali nell’animo. Ma dopo che me lo porse e che io bevvi - ma non mi stregò -,
battendomi con la verga pronunciava parola e diceva». Al v. 314 εἷσε è aoristo di ἵζω «mettere a sedere». _-
ἀργυροήλου: l’aggettivo, formato su ἄργυρος ed ἦλος «chiodo», forma con θρόνου un nesso formulare
attestato una volta nell’Iliade e 5 nell’Odissea. Il v. 315 è uguale a I 131. - κυκεῶ: il «ciceone» è l’intruglio già
usato da Circe per i compagni di Odisseo (vv. 234-236) e consiste in formaggio, farina d’orzo, miele e vino di
Pramno (nulla di diverso dalla bevanda tonificante preparata da Ecamede a Nestore in Iliade XI 638-64), con
l’aggiunta però di un non meglio precisato filtro magico. - ῥάβδος: è la bacchetta magica con cui al v. 238 la
maga ha trasformato in porci i compagni di Odisseo.

320-324. « “Adesso va’ nella porcilaia, sdraiati con i compagni!”. Diceva così, ma io, tratta la spada affilata da
lungo la coscia, mi avventai su Circe come se la volessi uccidere. Ella, levato un grido, si gettò ai miei piedi e mi
afferrò le ginocchia, e piangendo mi diceva parole alate». Circe aggiunge all’atto di toccare Odisseo con la
bacchetta (si pensi al suo uso da parte di Atena per trasformare l’eroe in un mendicante e poi restituirgli la
primitiva figura: XIII 429-438 e XVI 172-176) un ordine che dovrebbe funzionare da formula magica ma che si
rivela altrettanto inefficace. Odisseo si comporta esattamente come gli ha suggerito Ermes ai vv. 294 s. - λέξο:
è imperativo dell’aoristo di λέχομαι (cfr. λέχος). - ὡς … μενεαίνων: ὡς + partic. introduce una proposizione
causale soggettiva. - κτάμεναι: = κτανεῖν (κτείνω). Al v. 323 il digamma iniziale di ἰάχω (= ἰαχέω, cfr. ἠχή
«suono) evita lo iato e, come accade in principio di parola anche per μ e ρ (ad es. ἐνὶ μεγάροισιν, μέγᾱ
ῥόπαλον), allunga la sillaba precedente: il nesso μέγα ἰάχουσα (ἰάχων, ἰάχοντες) è formulare (4 volte
nell’Iliade, 1 nell’Odissea). Al v. 324, per la formula ἔπεα πτερόεντα, vedi la nota a Iliade XXIV 517 (p. xxx).

32
Letteratura greca [1]

325-335. «“Chi sei? Chi è tuo padre? Dove hai città e genitori? Stupore mi prende a vedere che, bevuto
questo filtro, non sei rimasto stregato. Nessuno, nessun altro uomo resistette a questo filtro, chiunque lo
bevve ed esso ebbe varcato la cerchia dei denti. A te sta in petto una mente refrattaria agli incanti. Sì, tu sei
Odisseo dai molti percorsi di cui sempre l’Argifonte dalla verga d’oro mi diceva che sarebbe venuto salpando
da Troia con la scura nave veloce. Su, riponi la spada nel fodero e poi noi due montiamo sul letto affinché,
uniti nel letto e in amore, possiamo fidarci a vicenda”». In genere la domanda sul nome e sulla provenienza
presuppone l’accoglimento dell’ospite, cfr. VII 238 (Areta) e VIII 550-555 (Alcinoo): qui è un segno di resa da
parte di Circe di fronte alla vanità delle proprie arti magiche. Presa coscienza della sconfitta, la maga se ne spiega
ella stessa la ragione ricordandosi d’improvviso di una profezia annunciatagli da Ermes: non diversamente, in IX
507 s., Polifemo si ricordava che un indovino gli aveva predetto che un giorno sarebbe stato accecato da Odisseo.
- Ἀργεϊφόντης: l’Argifonte è Ermes: poiché Argo è il mostro dai molti occhi mandato da Era a sorvegliare Iò,
figlia di Inaco, e ucciso da Ermes su incarico di Zeus, «uccisore di Argo» è forse il modo come l’epiteto
Ἀργεϊφόντης (cfr. φονεύς e φόνος) era inteso in età arcaica se non già al tempo di Omero, anche se il suo
significato originario resta controverso e la prima parte del composto potrebbe connettersi non con Ἄργος ma
con ἀργός («splendente» o «veloce»). - ἐπιβήομεν: è congiuntivo aoristo a vocale breve di ἐπιβαίνω. -
πεποίθομεν: è congiuntivo perfetto a vocale breve di πείθω. Come osserva Heubeck, «Circe si augura che
l’εὐνή, il letto, possa stabilire un rapporto di mutua fiducia; e ciò corrisponde perfettamente al suggerimento di
Ermes, che ha indicato nell’εὐνή l’azione preparatoria per la liberazione dei compagni (v. 298)».

336-344. «Diceva così e io replicando le dissi: “O Circe, come puoi chiedermi di essere gentile con te che
nella casa mi hai trasformato in porci i compagni e che, trattenendomi qui, mi inviti con animo ingannatore a
entrare nel talamo e a montare sopra il tuo letto per rendermi, non appena io sia nudo, fiacco e impotente?
No, non voglio montare sul tuo letto se non accetti, o dea, di promettere con giuramento solenne che non
mediti danno maligno contro di me”». Anche questa volta la replica di Odisseo si conforma alle indicazioni di
Ermes (cfr. vv. 297-301). A principio del v. 339 αὐτόν = ἐμαυτόν; ai vv. 340 e 342 ἐπιβήμεναι = ἐπιβῆναι;
al v. 341 θήῃς = θῇς (τίθημι). I vv. 343-344 replicano alla lettera V 178-179.

345-347. «Dicevo così, ed ella subito giurava come avevo chiesto. Quando ebbe recitato la formula del
giuramento, solo allora montai sul letto bellissimo di Circe». A principio del v. 347 καί ha funzione enfatica
(«proprio», «solo»).

Abbiamo il presumibile modello del v. 329 σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος ἐστίν («a
te sta in petto una mente refrattaria agli incanti») nell’elogio che Paride rivolgeva a Ettore in
Iliade III 63: «così a te sta in petto una mente refrattaria alla paura (ἀτάρβητος νόος)».
Senonché, sostituendo un hapax con un altro (ἀκήλητος in luogo di ἀτάρβητος), il poeta
applica al mondo della magia e degli incantamenti, e non più della guerra, la resistenza di cui le
mente di un eroe sa dare prova.
D’altra parte anche dei compagni di Odisseo si diceva che, nonostante la trasformazione in
porci, il loro νόος restava «saldo» (X 240): un parallelismo che disturbava Aristarco di
Samotracia tanto da indurlo a sospettare il v. 329. E si tenga conto che in X 493-95 Circe dice di
Tiresia che, a differenza degli altri morti ridotti a «ombre», «il suo animo è saldo: a lui soltanto
Persefone concesse di avere anche da morto mente sagace» (e cfr. anche XVIII 215).
Qual è allora la differenza fra la mente di Odisseo e quella dei suoi compagni? Essa si
percepisce solo se si riconosce che Circe è una maga radicalmente reinterpretata da Omero: una
artefice di illusioni che usa una tecnica capace di interferire su voce, capelli e figura solo a patto
che la mente della vittima designata si mostri suggestionabile dai suoi filtri. I compagni di
Odisseo restano lucidamente coscienti del proprio stato, tanto che piangono mentre vengono
chiusi nel porcile (X 241), e tuttavia, a differenza del loro capo, sono stati soggiogati dalla
pozione magica e privati della loro volontà.
Il nesso fra il ritorno dell’epiteto πολύτροπος e il νόος di Odisseo come capace di tener testa
alle insidie di Circe ha così il sapore di un riconoscimento. Non a caso la frase che esprime
questa agnizione (Χ 330) ἦ σύ γ᾽ Ὀδυσσεύς ἐσσι πολύτροπος «sì, tu sei Odisseo dai molti
percorsi» appare sintatticamente e fonicamente simile a quella che marca il riconoscimento da
parte di Euriclea (ΧΙΧ 474) ἦ μάλ᾽ Ὀδυσσεύς ἐσσι, φίλον τέκος «sì, tu sei Odisseo, figlio
mio» e anche a quella in cui Telemaco dichiara (un’agnizione mancata) che il mendico
improvvisamente reso bello da Atena non può essere suo padre (XVI 194): οὐ σύ γ᾽
᾽Οδυσσεύς ἐσσι πατὴρ ἐμός «no, tu non sei mio padre Odisseo».
Sventando l’effetto dei filtri di Circe Odisseo si è reso degno di condividere una nuova
dimensione: d’ora in poi tutto ciò che farà sulla via del ritorno sarà la puntuale messa in atto
delle istruzioni meticolosamente fornitegli dalla maga. Dopo un anno di immersione nelle
33
Letteratura greca [1]

dolcezze dei piaceri l’eroe itacese potrà recarsi all’Ade a interrogare Tiresia, ascoltare il canto
insidioso delle Sirene, schivare gli attacchi di Scilla e Cariddi, assistere alla rovina di tutti i
compagni, applicando con scrupolosa solerzia le indicazioni di Circe.
Certo, il successo non è sempre immediatamente assicurato, come quando i compagni vogliono
sbarcare a tutti i costi in Trinachia e l’eroe è costretto a cedere (ΧΙΙ 297). Né manca qualche
aggiunta personale al ‘programma’ elaborato dalla maga, come quando, in attesa
dell’apparizione di Scilla, Odisseo dimentica (XII 227) il divieto di vestire le armi e in un
riemergere delle sue attitudini di guerriero afferra due aste che per altro a nulla gli servono (XII
228 ss.). E tuttavia – a parte umanissimi scoramenti, ansie, sussulti d’orgoglio – Odisseo ha
imparato, dalla lezione dei fatti e dalla lezione della maga, ad adattarsi alle situazioni di un
mondo popolato da mostri, incantatrici, spiriti defunti.

T. 7 Lʼincontro con gli eroi “troiani” (XI 152-564)

Odisseo e i compagni devono affrontare un’altra prova: dall’isola di Circe dovranno


raggiungere il regno dei morti, perché l’eroe possa quivi interrogare Tiresia, che gli darà
ragguagli in ordine a quanto ancora lo aspetta, prima di ritornare a Itaca. Lasciata perciò l’isola
della maga e sfruttando il vento che opportunamente la dea aveva inviato, la nave raggiunge i
confini dell’Oceano, là dove abitano i Cimmeri, avvolti nella nebbia e nel buio. Approdato, era
giunto il luogo che Circe aveva indicato, e eseguono le operazioni preliminari, scavando, come
preordinato, una fossa e compiendo un’offerta per tutti i morti, con latte, miele, vino e acqua;
quindi rivolgono suppliche e preghiere defunti e scannano vittime sacrificali. Ecco allora che
dall’Erebo salgono le anime dei morti, che si affollano e si aggirano intorno alla fossa. Ma come
aveva predetto Circe, Odisseo non deve lasciar avvicinare al sangue le anime (condizione
necessaria a un morto per riacquistare la coscienza) prima di aver parlato con l’anima di Tiresia.
La prima anima ad accorrere è quella del compagno Elpenore, che prima dell’inizio del viaggio
agli inferi era morto precipitando dal tetto su cui si era recato a dormire, pieno di cibo e di vino.
La sua anima, insepolta, è ancora fuori delle Erebo e può correre e parlare ad Odisseo, anche
senza abbeverarsi al sangue. Elpenore, dopo aver informato Odisseo della modalità della sua
morte, chiede di essere bruciato con le armi e che gli sia eretto un tumulo su cui sia stato
piantato un remo. Odisseo assicura che farà quanto gli viene chiesto. Viene poi l’ombra di
Anticlea, la madre di Odisseo, da lui lasciata ancora viva quando partì per Troia. A lei Odisseo
non consente di accostarsi al sangue, quando si presenta Tiresia, a cui Odisseo consente
appunto di abbeverarsi al sangue, perché possa rivelargli il futuro. Tiresia ragguaglia Odisseo
su ciò che l’attende nell’immediato e gli predice le circostanze della sua morte, al termine di una
vita lunga, che lo condurrà a una splendida vecchiaia, circondato da uomini ricchi. Ritornato
Tiresia nell’Ade, Odisseo consente alla madre di bere il sangue per poter con lei parlare,
essendone riconosciuto.

Odissea XI 152-227

Αὐτὰρ ἐγὼν αὐτοῦ μένον ἔμπεδον, ὄφρ’ ἐπὶ μήτηρ


ἤλυθε καὶ πίεν αἷμα κελαινεφές· αὐτίκα δ’ ἔγνω
καί μ’ ὀλοφυρομένη ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·
«Τέκνον ἐμόν, πῶς ἦλθες ὑπὸ ζόφον ἠερόεντα
155
ζωὸς ἐών; Χαλεπὸν δὲ τάδε ζωοῖσιν ὁρᾶσθαι.
Μέσσῳ γὰρ μεγάλοι ποταμοὶ καὶ δεινὰ ῥέεθρα,
Ὠκεανὸς μὲν πρῶτα, τὸν οὔ πως ἔστι περῆσαι
πεζὸν ἐόντ’, ἢν μή τις ἔχῃ εὐεργέα νῆα.
Ἦ νῦν δὴ Τροίηθεν ἀλώμενος ἐνθάδ’ ἱκάνεις
160
νηΐ τε καὶ ἑτάροισι πολὺν χρόνον; Οὐδέ πω ἦλθες
εἰς Ἰθάκην οὐδ’ εἶδες ἐνὶ μεγάροισι γυναῖκα;».
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·
«Μῆτερ ἐμή, χρειώ με κατήγαγεν εἰς Ἀΐδαο
ψυχῇ χρησόμενον Θηβαίου Τειρεσίαο·
165

34
Letteratura greca [1]

οὐ γάρ πω σχεδὸν ἦλθον Ἀχαιΐδος οὐδέ πω ἁμῆς


γῆς ἐπέβην, ἀλλ’ αἰὲν ἔχων ἀλάλημαι ὀϊζύν,
ἐξ οὗ τὰ πρώτισθ’ ἑπόμην Ἀγαμέμνονι δίῳ
Ἴλιον εἰς εὔπωλον, ἵνα Τρώεσσι μαχοίμην.
Ἀλλ’ ἄγε μοι τόδε εἰπὲ καὶ ἀτρεκέως κατάλεξον·
170
τίς νύ σε κὴρ ἐδάμασσε τανηλεγέος θανάτοιο;
Ἢ δολιχὴ νοῦσος, ἦ Ἄρτεμις ἰοχέαιρα
οἷσ’ ἀγανοῖσι βέλεσσιν ἐποιχομένη κατέπεφνεν;
Εἰπὲ δέ μοι πατρός τε καὶ υἱέος, ὃν κατέλειπον,
ἢ ἔτι πὰρ κείνοισιν ἐμὸν γέρας, ἦέ τις ἤδη
175
ἀνδρῶν ἄλλος ἔχει, ἐμὲ δ’ οὐκέτι φασὶ νέεσθαι.
Εἰπὲ δέ μοι μνηστῆς ἀλόχου βουλήν τε νόον τε,
ἠὲ μένει παρὰ παιδὶ καὶ ἔμπεδα πάντα φυλάσσει,
ἦ ἤδη μιν ἔγημεν Ἀχαιῶν ὅς τις ἄριστος».
Ὣς ἐφάμην, ἡ δ’ αὐτίκ’ ἀμείβετο πότνια μήτηρ·
180
«Καὶ λίην κείνη γε μένει τετληότι θυμῷ
σοῖσιν ἐνὶ μεγάροισιν· ὀϊζυραὶ δέ οἱ αἰεὶ
φθίνουσιν νύκτες τε καὶ ἤματα δάκρυ χεούσῃ.
Σὸν δ’ οὔ πώ τις ἔχει καλὸν γέρας, ἀλλὰ ἕκηλος
Τηλέμαχος τεμένεα νέμεται καὶ δαῖτας ἐΐσας
185
δαίνυται, ἃς ἐπέοικε δικασπόλον ἄνδρ’ ἀλεγύνειν·
πάντες γὰρ καλέουσι. Πατὴρ δὲ σὸς αὐτόθι μίμνει
ἀγρῷ οὐδὲ πόλινδε κατέρχεται· οὐδέ οἱ εὐναὶ
δέμνια καὶ χλαῖναι καὶ ῥήγεα σιγαλόεντα,
ἀλλ’ ὅ γε χεῖμα μὲν εὕδει ὅθι δμῶες ἐνὶ οἴκῳ,
190
ἐν κόνι ἄγχι πυρός, κακὰ δὲ χροῒ εἵματα εἷται·
αὐτὰρ ἐπὴν ἔλθῃσι θέρος τεθαλυῖά τ’ ὀπώρη,
πάντῃ οἱ κατὰ γουνὸν ἀλῳῆς οἰνοπέδοιο
φύλλων κεκλιμένων χθαμαλαὶ βεβλήαται εὐναί.
Ἔνθ’ ὅ γε κεῖτ’ ἀχέων, μέγα δὲ φρεσὶ πένθος ἀέξει
195
σὸν νόστον ποθέων· χαλεπὸν δ’ ἐπὶ γῆρας ἱκάνει.
Οὕτω γὰρ καὶ ἐγὼν ὀλόμην καὶ πότμον ἐπέσπον·
οὔτ’ ἐμέ γ’ ἐν μεγάροισιν ἐΰσκοπος ἰοχέαιρα
οἷσ’ ἀγανοῖσι βέλεσσιν ἐποιχομένη κατέπεφνεν,
οὔτε τις οὖν μοι νοῦσος ἐπήλυθεν, ἥ τε μάλιστα
200
τηκεδόνι στυγερῇ μελέων ἐξείλετο θυμόν·
ἀλλά με σός τε πόθος σά τε μήδεα, φαίδιμ’ Ὀδυσσεῦ,
σή τ’ ἀγανοφροσύνη μελιηδέα θυμὸν ἀπηύρα».
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ γ’ ἔθελον φρεσὶ μερμηρίξας
μητρὸς ἐμῆς ψυχὴν ἑλέειν κατατεθνηυίης.
205
Τρὶς μὲν ἐφωρμήθην, ἑλέειν τέ με θυμὸς ἀνώγει,
τρὶς δέ μοι ἐκ χειρῶν σκιῇ εἴκελον ἢ καὶ ὀνείρῳ
ἔπτατ’· ἐμοὶ δ’ ἄχος ὀξὺ γενέσκετο κηρόθι μᾶλλον,
καί μιν φωνήσας ἔπεα πτερόεντα προσηύδων·
«Μῆτερ ἐμή, τί νύ μ’ οὐ μίμνεις ἑλέειν μεμαῶτα,
210
ὄφρα καὶ εἰν Ἀΐδαο φίλας περὶ χεῖρε βαλόντε
ἀμφοτέρω κρυεροῖο τεταρπώμεσθα γόοιο;
Ἦ τί μοι εἴδωλον τόδ’ ἀγαυὴ Περσεφόνεια
ὤτρυν’, ὄφρ’ ἔτι μᾶλλον ὀδυρόμενος στεναχίζω;».

35
Letteratura greca [1]

Ὣς ἐφάμην, ἡ δ’ αὐτίκ’ ἀμείβετο πότνια μήτηρ·


215
«Ὤ μοι, τέκνον ἐμόν, περὶ πάντων κάμμορε φωτῶν,
οὔ τί σε Περσεφόνεια Διὸς θυγάτηρ ἀπαφίσκει,
ἀλλ’ αὕτη δίκη ἐστὶ βροτῶν, ὅτε τίς κε θάνῃσιν.
Οὐ γὰρ ἔτι σάρκας τε καὶ ὀστέα ἶνες ἔχουσιν,
ἀλλὰ τὰ μέν τε πυρὸς κρατερὸν μένος αἰθομένοιο
220
δαμνᾷ, ἐπεί κε πρῶτα λίπῃ λεύκ’ ὀστέα θυμός,
ψυχὴ δ’ ἠΰτ’ ὄνειρος ἀποπταμένη πεπότηται.
Ἀλλὰ φόωσδε τάχιστα λιλαίεο· ταῦτα δὲ πάντα
ἴσθ’, ἵνα καὶ μετόπισθε τεῇ εἴπῃσθα γυναικί».
Νῶϊ μὲν ὣς ἐπέεσσιν ἀμειβόμεθ’, αἱ δὲ γυναῖκες
225
ἤλυθον, ὤτρυνεν γὰρ ἀγαυὴ Περσεφόνεια,
ὅσσαι ἀριστήων ἄλοχοι ἔσαν ἠδὲ θύγατρες.

Μa io restavo lì fermo finché giunse mia madre e bevve il sangue scuro


come nuvola. Subito mi riconobbe e gemendo mi diceva parole alate:
«Figlio mio, come hai fatto a venire vivo alla brumosa foschia? E’ difficile
per i vivi visitare queste lande. In mezzo ci sono grandi fiumi e correnti
paurose e soprattutto l’Oceano che non può traversare a piedi chi non
disponga di solida nave. Arrivi qui ora da Troia peregrinando a lungo con la
nave e i compagni? Non sei ancora giunto a Itaca, non hai ancora rivisto
nella casa tua moglie?»
Diceva così e io replicando le dissi: «Madre mia, fu il bisogno che mi spinse
verso la casa di Ade per interrogare l’anima di Tiresia tebano. Non ancora
mi sono avvicinato all’Acaia né ho posato il piede sulla nostra terra, ma
senza tregua vado errando con pena fin da quando seguii il nobile
Agamennone verso Ilio fiorente di puledri per combattere contro i
Troiani. Ma tu dimmi una cosa e parla con esattezza: qual destino di morte
crudele ti vinse? Una lenta malattia? O ti uccise Artemide colpendoti con le
sue frecce miti? Dimmi di mio padre e del figlio che ho lasciato, se ancora
possiedono l’autorità che era mia oppure ce l’ha un altro uomo e pensano
che mai più tornerò. E dimmi i pensieri e gli intenti della mia sposa
legittima, se resta con mio figlio e custodisce intatta ogni cosa o già l’ha
sposata il migliore degli Achei».
Dicevo così e subito rispose la veneranda madre: «Ma certo, ella rimane
con animo paziente nella tua casa: penose sempre, tra fiotti di lacrime, a lei
si consumano notti e giorni. E nessuno ancora si è arrogato la tua fulgida
autorità, ma Telemaco si occupa serenamente delle tenute regali e
partecipa, poiché tutti lo invitano, ai ben regolati conviti di cui è giusto si
curi chi emette sentenze. Ma tuo padre sta lì fra i campi e non scende in
città: per giaciglio non ha letto né manti e coltri sgargianti, ma d’inverno si
corica dove si stendono in casa gli schiavi, fra la cenere vicino al fuoco, e
porta sul corpo squallidi panni; quando poi viene l’estate e il florido
autunno, usa foglie sparse come lettiera su per tutto il poggio del podere a
vigneto. Lì giace afflitto e alimenta in cuore fiero dolore piangendo il tuo
destino, e dura vecchiaia lo assedia. Così sono morta anch’io, ho seguito il
destino: non fu la valente saettatrice a uccidermi in casa colpendomi con le
sue frecce miti né mi assalì qualche morbo di quelli che spesso tolgono la
vita con odiosa consunzione delle membra, ma fu la nostalgia di te, della tua

36
Letteratura greca [1]

saggezza, del tuo animo gentile, luminoso Odisseo, che mi strappò la vita
dolcissima».
Diceva così e io, trepidando in cuore, volevo stringere l’anima di mia
madre defunta. Tre volte mi slanciai, il cuore mi spingeva ad abbracciarla, e
tre volte mi volò via dalle dita simile a ombra o a sogno. Lo strazio mi
scendeva più in fondo nel cuore e a lei rivolgendomi dicevo parole alate:
«Madre mia, perché mi sfuggi se voglio stringerti bramando che anche
nell’Ade ci gettiamo le braccia al collo e ci saziamo entrambi di gelido
pianto? O forse questo è un simulacro che mi ha mandato la splendida
Persefone onde io gema e singhiozzi ancora di più?».
Dicevo così e subito rispose la veneranda madre: «Ohimè, figlio mio, tu
che fra tutti gli uomini sei il più sventurato! Non ti inganna Persefone, la
figlia di Zeus, ma questa è la regola per i mortali quando si muore: i tendini
non tengono più i muscoli e le ossa, ma li annienta l’impeto gagliardo del
fuoco ardente non appena la vita abbandoni le candide ossa, e l’anima,
volata via, vaga librandosi come un sogno. Ma tu affrettati verso la luce e
osserva tutto quaggiù per poterlo raccontare in futuro alla tua sposa».
Così noi due ci scambiavamo parole quando arrivarono, sospinte dalla
splendida Persefone, tutte le donne che furono spose e figlie di principi. Si
adunavano in folla attorno al sangue scuro, ma io meditavo come
interrogarle una per una. E questo infine pareva al mio animo il piano
migliore: tratta la spada acuminata da lungo la coscia robusta, non
permettevo che bevessero tutte insieme il sangue scuro. Si accostavano
una dopo l’altra e ciascuna diceva la sua stirpe: tutte io le interrogavo.

Seguono gli incontri e colloqui con le donne famose del mito, fatte accostare al sangue ad una
ad una: prima Tiro, poi Antiope, Alcmena, Epicasta, la madre di Edipo, Clori, Leda, Ifimedea,
Fedra, Procri, Arianna, Maira, Climene, Erifile. Dopo un intermezzo in cui la regina Areta ha
modo di lodare l’eroe e di invitare Feaci a non lesinare i regali a lui che è in stato di bisogno, il
saggio Echeneo accetta l’invito e Alcinoo gli chiede espressamente se abbia avuto occasione di
vedere nel Erebo qualcuno tra i suoi compagni d’arme a Troia. Odisseo soddisfa la curiosità del
re, dicendosi disposto prolungare il suo racconto. È così che gli viene a parlare del suo incontro
con Agamennone, Achille e Aiace.

Odissea XI 385-491

Αὐτὰρ ἐπεὶ ψυχὰς μὲν ἀπεσκέδασ’ ἄλλυδις ἄλλῃ 385


ἁγνὴ Περσεφόνεια γυναικῶν θηλυτεράων,
ἦλθε δ’ ἐπὶ ψυχὴ Ἀγαμέμνονος Ἀτρεΐδαο
ἀχνυμένη· περὶ δ’ ἄλλαι ἀγηγέραθ’, ὅσσοι ἅμ’ αὐτῷ
οἴκῳ ἐν Αἰγίσθοιο θάνον καὶ πότμον ἐπέσπον.
Ἔγνω δ’ αἶψ’ ἐμὲ κεῖνος, ἐπεὶ ἴδεν ὀφθαλμοῖσι· 390
κλαῖε δ’ ὅ γε λιγέως, θαλερὸν κατὰ δάκρυον εἴβων,
πιτνὰς εἰς ἐμὲ χεῖρας ὀρέξασθαι μενεαίνων·
ἀλλ’ οὐ γάρ οἱ ἔτ’ ἦν ἲς ἔμπεδος οὐδ’ ἔτι κῖκυς,
οἵη περ πάρος ἔσκεν ἐνὶ γναμπτοῖσι μέλεσσι.
Τὸν μὲν ἐγὼ δάκρυσα ἰδὼν ἐλέησά τε θυμῷ 395
καί μιν φωνήσας ἔπεα πτερόεντα προσηύδων·
«Ἀτρεΐδη κύδιστε, ἄναξ ἀνδρῶν Ἀγάμεμνον,
τίς νύ σε κὴρ ἐδάμασσε τανηλεγέος θανάτοιο;
Ἠέ σέ γ’ ἐν νήεσσι Ποσειδάων ἐδάμασσεν
ὄρσας ἀργαλέων ἀνέμων ἀμέγαρτον ἀϋτμήν, 400
ἦέ σ’ ἀνάρσιοι ἄνδρες ἐδηλήσαντ’ ἐπὶ χέρσου
βοῦς περιταμνόμενον ἠδ’ οἰῶν πώεα καλὰ

37
Letteratura greca [1]

ἠὲ περὶ πτόλιος μαχεούμενον ἠδὲ γυναικῶν;».


Ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ’ αὐτίκ’ ἀμειβόμενος προσέειπε·
«Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ, 405
οὔτ’ ἐμέ γ’ ἐν νήεσσι Ποσειδάων ἐδάμασσεν
[ὄρσας ἀργαλέων ἀνέμων ἀμέγαρτον ἀϋτμήν,]
οὔτε μ’ ἀνάρσιοι ἄνδρες ἐδηλήσαντ’ ἐπὶ χέρσου,
ἀλλά μοι Αἴγισθος τεύξας θάνατόν τε μόρον τε
ἔκτα σὺν οὐλομένῃ ἀλόχῳ οἶκόνδε καλέσσας, 410
δειπνίσσας, ὥς τίς τε κατέκτανε βοῦν ἐπὶ φάτνῃ.
Ὣς θάνον οἰκτίστῳ θανάτῳ· περὶ δ’ ἄλλοι ἑταῖροι
νωλεμέως κτείνοντο σύες ὣς ἀργιόδοντες,
οἵ ῥά τ’ ἐν ἀφνειοῦ ἀνδρὸς μέγα δυναμένοιο
ἢ γάμῳ ἢ ἐράνῳ ἢ εἰλαπίνῃ τεθαλυίῃ. 415
Ἤδη μὲν πολέων φόνῳ ἀνδρῶν ἀντεβόλησας,
μουνὰξ κτεινομένων καὶ ἐνὶ κρατερῇ ὑσμίνῃ·
ἀλλά κε κεῖνα μάλιστα ἰδὼν ὀλοφύραο θυμῷ,
ὡς ἀμφὶ κρητῆρα τραπέζας τε πληθούσας
κείμεθ’ ἐνὶ μεγάρῳ, δάπεδον δ’ ἅπαν αἵματι θῦεν. 420
Οἰκτροτάτην δ’ ἤκουσα ὄπα Πριάμοιο θυγατρὸς
Κασσάνδρης, τὴν κτεῖνε Κλυταιμνήστρη δολόμητις
ἀμφ’ ἐμοί· αὐτὰρ ἐγὼ ποτὶ γαίῃ χεῖρας ἀείρων
βάλλον ἀποθνῄσκων περὶ φασγάνῳ· ἡ δὲ κυνῶπις
νοσφίσατ’ οὐδέ μοι ἔτλη, ἰόντι περ εἰς Ἀΐδαο, 425
χερσὶ κατ’ ὀφθαλμοὺς ἑλέειν σύν τε στόμ’ ἐρεῖσαι.
Ὣς οὐκ αἰνότερον καὶ κύντερον ἄλλο γυναικός,
ἥ τις δὴ τοιαῦτα μετὰ φρεσὶν ἔργα βάληται·
οἷον δὴ καὶ κείνη ἐμήσατο ἔργον ἀεικές,
κουριδίῳ τεύξασα πόσει φόνον. Ἦ τοι ἔφην γε 430
ἀσπάσιος παίδεσσιν ἰδὲ δμώεσσιν ἐμοῖσιν
οἴκαδ’ ἐλεύσεσθαι· ἡ δ’ ἔξοχα λυγρὰ ἰδυῖα
οἷ τε κατ’ αἶσχος ἔχευε καὶ ἐσσομένῃσιν ὀπίσσω
θηλυτέρῃσι γυναιξί, καὶ ἥ κ’ εὐεργὸς ἔῃσιν».
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον· 435
«Ὢ πόποι, ἦ μάλα δὴ γόνον Ἀτρέος εὐρύοπα Ζεὺς
ἐκπάγλως ἤχθηρε γυναικείας διὰ βουλὰς
ἐξ ἀρχῆς· Ἑλένης μὲν ἀπωλόμεθ’ εἵνεκα πολλοί,
σοὶ δὲ Κλυταιμνήστρη δόλον ἤρτυε τηλόθ’ ἐόντι».
Ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ’ αὐτίκ’ ἀμειβόμενος προσέειπε· 440
«Τῶ νῦν μή ποτε καὶ σὺ γυναικί περ ἤπιος εἶναι
μηδ’ οἱ μῦθον ἅπαντα πιφαυσκέμεν, ὅν κ’ ἐῢ εἰδῇς,
ἀλλὰ τὸ μὲν φάσθαι, τὸ δὲ καὶ κεκρυμμένον εἶναι.
Ἀλλ’ οὐ σοί γ’, Ὀδυσεῦ, φόνος ἔσσεται ἔκ γε γυναικός·
λίην γὰρ πινυτή τε καὶ εὖ φρεσὶ μήδεα οἶδε 445
κούρη Ἰκαρίοιο, περίφρων Πηνελόπεια.
Ἦ μέν μιν νύμφην γε νέην κατελείπομεν ἡμεῖς
ἐρχόμενοι πόλεμόνδε· πάϊς δέ οἱ ἦν ἐπὶ μαζῷ
νήπιος, ὅς που νῦν γε μετ’ ἀνδρῶν ἵζει ἀριθμῷ,
ὄλβιος· ἦ γὰρ τόν γε πατὴρ φίλος ὄψεται ἐλθών, 450
καὶ κεῖνος πατέρα προσπτύξεται, ἣ θέμις ἐστίν.
Ἡ δ’ ἐμὴ οὐδέ περ υἷος ἐνιπλησθῆναι ἄκοιτις
ὀφθαλμοῖσιν ἔασε· πάρος δέ με πέφνε καὶ αὐτόν.
Ἄλλο δέ τοι ἐρέω, σὺ δ’ ἐνὶ φρεσὶ βάλλεο σῇσι·
κρύβδην, μηδ’ ἀναφανδά, φίλην ἐς πατρίδα γαῖαν 455
νῆα κατισχέμεναι, ἐπεὶ οὐκέτι πιστὰ γυναιξίν.
Ἀλλ’ ἄγε μοι τόδε εἰπὲ καὶ ἀτρεκέως κατάλεξον,
εἴ που ἔτι ζώοντος ἀκούετε παιδὸς ἐμοῖο
ἤ που ἐν Ὀρχομενῷ ἢ ἐν Πύλῳ ἠμαθόεντι
ἤ που πὰρ Μενελάῳ ἐνὶ Σπάρτῃ εὐρείῃ· 460
οὐ γάρ πω τέθνηκεν ἐπὶ χθονὶ δῖος Ὀρέστης».

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Letteratura greca [1]

Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·


«Ἀτρεΐδη, τί με ταῦτα διείρεαι; Οὐδέ τι οἶδα,
ζώει ὅ γ’ ἦ τέθνηκε· κακὸν δ’ ἀνεμώλια βάζειν».
Νῶϊ μὲν ὣς ἐπέεσσιν ἀμειβομένω στυγεροῖσιν 465
ἕσταμεν ἀχνύμενοι, θαλερὸν κατὰ δάκρυ χέοντες·
ἦλθε δ’ ἐπὶ ψυχὴ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος
καὶ Πατροκλῆος καὶ ἀμύμονος Ἀντιλόχοιο
Αἴαντός θ’, ὃς ἄριστος ἔην εἶδός τε δέμας τε
τῶν ἄλλων Δαναῶν μετ’ ἀμύμονα Πηλεΐωνα. 470
Ἔγνω δὲ ψυχή με ποδώκεος Αἰακίδαο
καί ῥ’ ὀλοφυρομένη ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·
«Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ,
σχέτλιε, τίπτ’ ἔτι μεῖζον ἐνὶ φρεσὶ μήσεαι ἔργον;
Πῶς ἔτλης Ἄϊδόσδε κατελθέμεν, ἔνθα τε νεκροὶ 475
ἀφραδέες ναίουσι, βροτῶν εἴδωλα καμόντων;».
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·
«Ὦ Ἀχιλεῦ, Πηλῆος υἱέ, μέγα φέρτατ’ Ἀχαιῶν,
ἦλθον Τειρεσίαο κατὰ χρέος, εἴ τινα βουλὴν
εἴποι, ὅπως Ἰθάκην ἐς παιπαλόεσσαν ἱκοίμην· 480
οὐ γάρ πω σχεδὸν ἦλθον Ἀχαιΐδος οὐδέ πω ἁμῆς
γῆς ἐπέβην, ἀλλ’ αἰὲν ἔχω κακά. σεῖο δ’, Ἀχιλλεῦ,
οὔ τις ἀνὴρ προπάροιθε μακάρτερος οὔτ’ ἄρ’ ὀπίσσω·
πρὶν μὲν γάρ σε ζωὸν ἐτίομεν ἶσα θεοῖσιν
Ἀργεῖοι, νῦν αὖτε μέγα κρατέεις νεκύεσσιν 485
ἐνθάδ’ ἐών· τῶ μή τι θανὼν ἀκαχίζευ, Ἀχιλλεῦ».
Ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ’ αὐτίκ’ ἀμειβόμενος προσέειπε·
«Μὴ δή μοι θάνατόν γε παραύδα, φαίδιμ’ Ὀδυσσεῦ.
Βουλοίμην κ’ ἐπάρουρος ἐὼν θητευέμεν ἄλλῳ,
ἀνδρὶ παρ’ ἀκλήρῳ, ᾧ μὴ βίοτος πολὺς εἴη, 490
ἢ πᾶσιν νεκύεσσι καταφθιμένοισιν ἀνάσσειν.

385-389. Αὐτὰρ ἐπεὶ ψυχὰς … ἐπέσπον: «Ma dopo che la veneranda Persefone ebbe disperso qua e là le
anime delle deboli donne, giunse poi l’anima dell’Atride Agamennone, afflitta: altre gli s’erano assiepate
d’intorno, quelle di quanti morirono con lui in casa di Egisto andando incontro al destino». - ἀπεσκέδασ(ε):
(da ἀποσκεδάννυμι) «ebbe disperso», dato che in precedenza era stata sempre Persefone a chiamare a raccolta
queste anime. - θελυτεράων: presenta il suffisso -τερος con originale valore oppositivo; significa
«femminile». - ἦλθε δ᾽ ἐπί: «giunse poi», ἐπί ha valore di avverbio. - ἀγηγέρατ(ο): è ppf. medio 3a pers. plur.
di ἀγείρω. - ἄλλαι … ὅσσοι: l’apparente discordanza di genere si spiega in quanto è sottinteso il femm. ψυχαί
e ὅσσοι sta per ἐκείνων ὅσσοι: «le altre (anime) di quelli, quanti…». - ἐπέσπον: è aoristo di ἐφέπω.

390-392. Ἔγνω δ᾽ αἴψ(α) … μενεαίνων: «Subito, appena mi vide, mi riconobbe: gemeva con striduli
singhiozzi versando florido pianto e tendendo verso di me le braccia nel desiderio di abbracciarmi». - ἴδεν
ὀφθαλμοῖσι: «mi vide»; qui ὀφθαλμοῖσι appare niente più che comodo completamento dell’espressione
formulare. - θαλερόν: l’aggettivo θαλερός (cfr. θάλλω) ha il significato originario di «florido», «vigoroso». -
κατά … εἴβων: tmesi. - πιτνάς: da πίτνημι = πετάννυμι. - ὁρέξασθαι: è qui: «abbracciarmi». Anche
nell’incontro con la madre c’è un tentativo di abbraccio, in quel caso da parte di Odisseo, alla fine del colloqui,
mentre qui il desiderio è del defunto, all’inizio. In molti punti l’incontro con Agamennone è in rapporto
simmetrico con quello di Anticlea.

393-394. ἀλλ᾽ οὐ γάρ … μέλεσσι: «ma inutilmente, perché la forza e il vigore non erano in lui più saldi
come una volta nelle membra flessibili». - ἀλλ᾽ οὐ γάρ: è espressione ellittica, equivalente a qualcosa come
“οὐκ ἐδυνήθη, ἐπεὶ οὐκ ἔτι…”. - κίκυς: «vigore» (cfr. ἄκικυς «senza forza») è di etimologia ignota. -
ἔσκεν: è forma omerica per ἦν (da εἰμί).

395-396. Ripetono i vv. 55-56.

397-403. Ἀτρεΐδη κύδιστε … γυναικῶν; «“Atride glorioso, Agamennone sovrano di eroi, quale fato di
morte crudele ti vinse? Forse sulle navi ti abbatté Posidone avendo sollevato uno spaventoso turbine di venti
impetuosi oppure ti colpirono in terraferma uomini ostili mentre razziavi buoi e bei greggi di pecore o

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Letteratura greca [1]

combattevi per una città e le sue donne?”». - Ἀτρεΐδη … Ἀγάμεμνον: formula usata frequentemente (8 volte)
in Iliade nelle allocuzioni ad Agamennone. - τίς νύ … θανάτοιο; con la stessa domanda Odisseo si era rivolto
alla madre Anticlea (cfr. v. 171). - κήρ … τανηλεγέος θανάτοιο: «destino di crudele morte». Il sostantivo
κήρ partecipa contemporaneamente della nozione di «destino», di «morte» e di «demone personale». -
ἀμέγαρτος: significa lett.: «che non suscita invidia o desiderio», dunque: «terribile». Il v. 400 è esemplato su
Iliade XIV 254. - ἀνάρσιοι ἄνδρες: «uomini ostili» (cfr. ἄρτιος «giusto»). - ἐπὶ χέρσου: si oppone a ἐν
νήεσσι. - περιταμνόμενον: περιτάμνω è ionico-epico per περιτέμνω. - πτόλιος: forma ionico-epica per
l’attico πόλεως. - μαχεούμενον: è una forma sorprendente: l’allungamento metrico -ου non ha precedenti.

405-415. Διογενὲς … τεθαλυίῃ: «“Laerziade divino, Odisseo vario di risorse, non mi abbatté sulle navi
Posidone [sollevando un turbine orrendo di venti impetuosi] né mi colpirono a terra uomini violenti, ma
Egisto, studiata una trama mortale, mi invitò a casa a banchettare e in combutta con la mia sposa funesta mi
uccise come si uccide un bue alla greppia. Caddi così di pietosissima morte, e intorno a me senza posa
morivano i miei compagni come verri dalla candida zanna scannati in casa di un ricco signore molto potente o
per un pranzo nuziale o per pranzo comune o per fiorente convito». Il racconto di Agamennone concorda
sostanzialmente con le versioni dello stesso episodio proposte in III 254-312; IV 512-37 e XXIV 192-202: le
differenze dipendono dalla diversa prospettiva dei narratori. Tipico dello stile epico è la ripresa dei singoli quesiti,
che vengono ribaditi in forma negativa, a cui segue la risposta (οὔτ’ – οὔτε – ἀλλά). Il verso 407 è dovuto a
una tarda inserzione, ripetendo esso senza necessità il v. 400 (che è una modalità del quesito, che Agamennone
riprende nella risposta solo nella sua parte essenziale, come avverrà per il successivo, che appunto trascura βοῦς
περιταμνόμενον etc.). - θάνατόν τε μόρον τε: è endiadi. - ἔκτα: aoristo atem. di κτείνω. Il v. 411 = IV 535.
- κατέκτανε: aoristo tem. di κατακτείνω (si noti la presenza del τε epico generalizzante). - φάτνη: (forse con
metatesi di aspirazione da πάθνη) significa «mangiatoia». - νωλεμέως: «senza posa», «incessantemente»:
certamente composto con la particella negativa νη-, ma la seconda parte è oscura. - σύες ὡς: anastrofe. Al v.
414 il verbo sottinteso sarà κτείνονται. - ἐν ἀφνειοῦ ἀνδρός: è sottinteso qualcosa come δόμῳ. - τεθαλυίῃ:
participio perf. femminile epico di θάλλω.

416-420. Ἤδη μὲν πολέων … αἵματι θῦεν: «Già hai preso parte alla strage di molti guerrieri uccisi in
singolar tenzone e nella mischia ardente, ma ben più avresti pianto guardando quello spettacolo, come
giacevamo nella sala attorno al cratere e alle mense ricolme, e il pavimento tutto fumava di sangue». - πολέων
= πολλῶν. Non nuova è la contrapposizione (vv. 416-18) ἤδη … ἄλλά: «già … ma». - μουνάξ: è avverbio da
μοῦνος, ion. per μόνος (con -αξ forse analogico di ἅπαξ). - κε … ὀλοφύραο: κε (= ἄν) con aoristo
indicativo è irreale o potenziale del passato. - θυμῷ: «nell’animo»: è un dativo locativo, frequente
nell’indicazione della sede di sentimenti. - ὡς … κείμεθ(α): la proposizione è epesegetica di κεῖνα al v. 418. -
θῦεν: il verbo è qui usato nel significato proprio della radice (cfr. lat. fumus), da cui si sarebbero poi sviluppati
i significati connessi con «sacrificare» (“innalzare un fumo con il profumo delle carni delle vittime”).
Quest’ultimo verso sarà riecheggiato in XXII 309 per la strage dei pretendenti.

421-426. Οἰκτροτάτην … στόμ’ ἐρεῖσαι: «Pietosissima udii la voce di Cassandra, figlia di Priamo, che
Clitennestra l’astuta uccise sopra di me: io, sollevando le mani, le battei contro il pavimento spirando trafitto
da spada; la faccia di cagna si allontanò e non ebbe cuore, mentre scendevo all’Ade, di chiudermi con le mani gli
occhi e di serrarmi la bocca». - Κασσάνδρης: Cassandra fu da Agamennone portata schiava a casa, come
prigioniera di guerra. In Omero non è la veggente della grande scena dell’Agamennone di Eschilo (o, quanto
meno, Omero non accenna a questa sua prerogativa). - Κλυταιμνήστρη δολόμητις: Clitennestra ha qui
l’epiteto che accompagna di consueto il suo amante Egisto. - ἀμφ᾽ ἐμοί: «su di me»; ἀμφί + dativo ha valore
locale. - χεῖρας: è oggetto comune ai due verbi ἀείρων e βάλλον: «sollevando le mani, le battei». -
ἀποθνῄσκων περὶ φασγάνῳ: l’espressione (cfr. Il. VIII 86, XIII 441, etc.) significa «morendo con la spada
nel petto». - χερσί: va con gli infiniti, entrambi in tmesi, κατ᾽ … ἑλεεῖν e σύν … ἐρεῖσαι.

427-430. Ὣς οὐκ αἰνότερον … φόνον: «Così nulla è più orribile e canino di una donna che tali azioni si
ponga nel cuore, quale fu l’atto ignominioso che ella meditò tramando morte al suo sposo legittimo». - Ὣς:
riassume quanto prima raccontato. - κύντερον: è comparativo di κύων: si è notato che questo tipo di
formazione (cfr. βασιλεύτερος), che dà luogo a derivati espressivi da temi di sostantivi creati appunto con i
suffissi -τερος e -τατος, non è arcaismo, ma fenomeno dell’epos recente; κύων è comunque espressione di
ingiuria, frequentemente usata, per indicare donna sfacciata. - οἷον δὴ … ἀεικές: «come l’azione ignominiosa
che ella tramò». Il verbo si innesta sintatticamente bene con il precedente (che quindi non è opportuno
considerare, come già gli antichi fecero, un’interpolazione).

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Letteratura greca [1]

430-432. Ἦ τοι ἔφην … ἐλεύσεσθαι: «Oh, io pensavo che gradito ai miei figli e ai miei servi sarei tornato a
casa». - ἔφην: φημί è spesso nell’epica verbo opinativo («dico a me stesso», dunque «credo»). - ἀσπάσιος: è
predicativo.

432-434. ἡ δ’ ἔξοχα … ἔῃσιν»: «ma lei, la prodigiosa maestra di atrocità, gettò infamia su se stessa e le
donne che in futuro vivranno, anche se ve ne sia una onesta”». - οἷ: è riflessivo (= lat. sibi). - κατ(ά) …
ἔχευε: tmesi. - καὶ ἥ κ’ … ἔῃσιν: è sottinteso l’antecedente dimostrativo = καὶ ἐκείνῃ, ἥ ἄν … ἔῃσιν
(cong.).

436-439. «Ὢ πόποι … τηλόθ’ ἐόντι»: «“Oh, come terribilmente Zeus dalla voce possente avversò
terribilmente con macchinazioni di donne la stirpe di Atreo: molti perimmo per causa di Elena e a te
Clitennestra preparava una trappola mentre eri lontano”». - εὐρύοπα Ζεύς: «Zeus dalla voce possente».
L’espressione formulare appartiene al fondo più antico del vocabolario epico. I numerosi epiteti maschili in ᾰ
(cfr. νεφεληγερέτα, μητίετα, etc.) sono con ogni probabilità degli antichi vocativi (di qui la quantità breve di
α); ma εὐρύοπα è certamente un originario accusativo (da *εὐρύοψ) che assume poi il valore di nominativo in
analogia con gli epiteti in ᾰ. - ἐκπάγλως ἤχθηρε: «avversò terribilmente». Più che condannare in generale la
natura femminile, Odisseo limita la valutazione negativa a Clitennestra ed Elena, strumenti per la punizione
divina della stirpe degli Atridi. - Ἑλένης … εἵνεκα: «per causa di Elena».

441-443. «Τῶ νῦν … εἶναι:. «“E perciò non esser mai dolce anche tu con la tua donna, non rivelarle ogni
cosa che sai, ma una digliela e un’altra tienila segreta». - Τῶ: avverbio, è forse un relitto di ablativo, scomparso
nel greco successivo. - μή … εἶναι: mostra (come più sotto πιφαυσκέμεν, φάσθαι, εἶναι) come l’infinito
omerico, in uso assoluto, possa esprimere un ordine e, negativo (con μή) un divieto. - ἤπιος: è da alcuni
interpretato come «troppo fiducioso». - οἱ: = αὐτῇ. - πιφαυσκέμεν: πιφαύσκω (cfr. φάος) è, propriamente,
«illuminare» e quindi «rivelare». - φάσθαι: infinito pres. medio di φημί. - κεκρυμμένον εἶναι: da κρύπτω,
«rimanga nascosto». Dei due τὸ (μέν) … τὸ (δέ) il primo è oggetto, il secondo soggetto. I vv. 435-43 sono
apparsi, già ai grammatici alessandrini, una tarda interpolazione.

444-446. Ἀλλ’ οὐ σοί … περίφρων Πηνελόπεια: «Eppure a te, Odisseo, non verrà morte dalla tua sposa: è
fin troppo assennata e nutre in cuore onesti pensieri la figlia di Icario, la saggia Penelope». - σοί γ(ε): «a te
almeno», a differenza di me. - κούρη Ἰκαρίοιο: «la figlia di Icario», cioè Penelope, come subito dopo viene
precisato.

447-451. Ἦ μέν μιν νύμφην … ἣ θέμις ἐστίν: «Ricordo bene, la lasciammo giovane sposa recandoci alla
guerra, e stretto al suo seno stava un bimbo ancora infante che, credo (που), adesso siede nel numero degli
uomini: beato lui, perché suo padre lo rivedrà tornando ed egli, com’è giusto, abbraccerà suo padre». -Ἦ
μέν: asseverativo: «Ricordo bene». - μιν: = αὐτήν. Agamennone ricorda quando andò a prendere Odisseo a Itaca
(cfr. XXIV 115-19). - πάϊς … νήπιος: l’aggettivo è qui usato nel suo valore etimologico di infans, «che non
parla (ancora)». - μετ’ ἀνδρῶν … ἀριθμῷ: μετά + dativo è solo poetico. Il sostantivo ἀριθμός è solo
nell’Odissea. - ὄλβιος: «fortunato», in quanto può sedere nell’ἀγορή e porgere il benvenuto al padre di ritorno.
- ἣ θέμις ἐστίν: «che è quanto è giusto», in quanto previsto dal costume, dall’uso. L’espressione, formulare, è
già nell’Iliade; a differenza di δίκη, θέμις (cfr. τίθημι?) pare originariamente prescindere da una norma morale
(o, comunque, sembra non necessariamente presupporla).

452-453. Ἡ δ’ ἐμὴ … αὐτόν: «Invece la mia compagna neppure consentì ai miei occhi di saziarsi del figlio: mi
uccise prima». Considerazione naturale, suggerita dal confronto con la condizione di Odisseo, che potrà rivedere
Telemaco. - πέφνε: è aoristo raddoppiato a grado 0 da *ghwen-, che dà luogo al presente θείνω (va comunque
rilevato che mentre il presente «colpire», «battere», l’aoristo πεφνεῖν si specializza nel significato di
«uccidere»).

454-456. Ἄλλο δέ τοι … γυναιξίν: «Ma ti voglio dire un’altra cosa e tu accoglila nel tuo cuore: accosta la
nave alla terra dei padri in gran segreto, senza esporti alla vista: delle donne non c’è fa fidarsi». - ἐρέω: (att.
ἐρῶ) «ti dirò», «voglio dirti». - κρύβδην, μηδ’ ἀναφανδά: i due avverbi (cfr. κρύπτω e ἀναφαίνω)
costituiscono, attraverso la litote, un’espressione intensificata, senza presupporre differenziazione semantica. -
φίλην: ha prevalente valore di possessivo. - νῆα κατισχέμεναι: «fa’ approdare la nave»: l’infinito ha valore di
imperativo. - ἐπεὶ οὐκέτι πιστὰ γυναιξίν: «dal momento che non ci si può fidare delle donne» (πιστά =
«cose per cui ci si possa fidare»). I vv. 454-56 sono stati sospettati come interpolazione fin dall’antichità, perché
ritenuti contrastanti con quanto poco prima Agamennone aveva affermato di Penelope. È pur vero che essi, con
andamento ad anello, alla fine di questa prima parte del discorso, tornano al consiglio dato ai vv. 441-43.

41
Letteratura greca [1]

457-461. Ἀλλ’ ἄγε μοι … δῖος Ὀρέστης»: «Ma su dimmi e parlami con esattezza, se avete notizia che mio
figlio è ancora in vita da qualche parte, a Orcomeno o a Pilo sabbiosa o presso Menelao nella vasta Sparta: il
nobile Oreste non è ancora morto sulla terra”». - Ἀλλ’ ἄγε: «Ma su». Segna l’inizio della seconda parte del
suo discorso, in cui è lui a porre domande. - κατάλεξον: è imperativo aoristo. Il v. 457 è formulare (= I 169
ecc.). - εἴ που ἔτι ζώοντος: il genitivo ζώοντος è retto da ἀκούετε. La domanda mette in luce che
Agamennone sa di parlare di Oreste come di persona viva: quel che chiede è dunque dov’è. - οὐ γάρ πω
τέθνηκεν: «infatti non è ancora morto». Agamennone deve questa convinzione al fatto che non ha ancora
incontrato nell’Erebo la sua ombra.

463-464. «Ἀτρεΐδη, … ἀνεμώλια βάζειν»: «“Atride, perché mi fai questa domanda? Non so neanche se è
vivo o se è morto, ed è male dir parole vane come il vento”». - διείρεαι: il verbo διείρομαι è anche della
prosa attica. - ζώει … τέθνηκε: «se vive o se è morto». L’interrogativa disgiuntiva ha in Omero forme varie
(πότερον, in ogni caso, non è omerico), e, come in latino, il primo elemento può mancare di particella
interrogativa. - ἀνεμώλια: l’aggettivo ἀνεμώλιος (cfr. ἄνεμος) è usato solo in valore figurato; la parola può
forse spiegarsi come dissimilazione regressiva da *ἀνεμωνιος. Nella recisa risposta si palesa anche il tratto della
concretezza, tipica caratteristica dell’eroe.

465-470. Νῶϊ μὲν ὣς ἐπέεσσιν … μετ’ ἀμύμονα Πηλεΐωνα: «Noi dunque così sedevamo afflitti,
scambiandoci tristi parole e versando florido pianto quando giunsero le anime di Achille Pelide, di Patroclo, di
Antiloco irreprensibile, di Aiace, che per aspetto e figura era il migliore dei Danai dopo il Pelide
irreprensibile». - Νῶϊ … ἀμειβομένω: la concordanza di questo duale con i plurali ἕσταμεν e ἀχνύμενοι è del
tutto normale in Omero. - ἦλθε: introduce di nuovo l’incontro con un’ombra. Compaiono insieme le anime
degli stessi personaggi che Nestore aveva nominato in III 109-112: Achille, Patroclo, Antiloco, Aiace. L’ombra
di Antiloco mostra una consonanza con la versione proposta dal poema ciclico l’Etiopide, in cui Antiloco, figlio
di Nestore, viene ucciso da Memnone, figlio di Aurora, che verrà a sua volta ucciso da Achille.

471-472. Ἔγνω δὲ ψυχή … προσηύδα: «Mi riconobbe l’anima dell’Eacide veloce e gemendo diceva parole
alate». - Αἰακίδαο: vedi commento a Iliade XVII, 426, pag. xxx. Il v. 472 = 154.

473-476. «Διογενὲς Λαερτιάδη, … εἴδωλα καμόντων;»: «“Laerziade divino, Odisseo vario di risorse, oh
pazzo! Quale impresa ancora più audace macchinerai in cuor tuo? Come hai osato venire all’Ade dove hanno
dimora ombre incoscienti, i simulacri dei defunti?”». Il v. 473 = 405. - τίπτ(ε): di solito vale «perché mai?», qui
invece è attributo di ἔργον: «quale mai…». - μήσεαι: futuro di μήδομαι. - ἔτλης: la radice *τλα vale
«sopportare» e «ardire». - κατελθέμεν: infinito ionico-epico, che equivale a κατελθεῖν. - ἀφραδέες: (cfr.
φράζω) «privi di coscienza». - βροτῶν … καμόντων: «di defunti». Il participio καμόντες è un eufemismo,
frequente in Omero (il verbo significa propriamente, nel suo valore intransitivo, «essere affaticato», «essere
sventurato», «essere malato»).

478-480. «Ὦ Ἀχιλεῦ, … ἱκοίμην: «“O Achille figlio di Peleo, fortissimo fra gli Achei, venni per bisogno di
Tiresia, se mai mi desse un consiglio su come giungere a Itaca impervia». Il v. 478 = Iliade XVII 11; XIX 216
etc. - φέρτατ(ε): il superlativo, qui rafforzato dall’avverbiale μέγα, implica eccellenza di volta in volta fisica, di
rango, di abilità, etc.: vale perciò «il più forte», «il migliore». - εἴ τινα … ἱκοίμην: εἰ non serve solo a
introdurre proposizioni propriamente condizionali, ma, con una sfumatura finale, equivale, come qui, a «per
vedere se». - παιπαλόεσσαν: «impervia», «ripida», «scoscesa»: è epiteto frequente di isole (ma Itaca ha quasi
sempre il sinonimo κραναή): certo che il suo significato originario (connesso a παιπάλη, «polvere»), doveva
riferirlo soprattutto a strade, sentieri, etc. Difficile chiarire l’evoluzione di significato e forse la spiegazione più
semplice sarà che gli aedi ne ignoravano ormai il vero significato.

481-486. οὐ γάρ πω … ἀκαχίζευ, Ἀχιλλεῦ»: «Non sono infatti giunto ancora all’Acaia né ho posato il
piede sulla mia terra, ma ho guai senza fine. Nessuno, Achille, più beato di te né in passato né in futuro: prima,
da vivo, come un dio noi Argivi ti rendevamo onore e adesso che sei qui hai potere grande sugli estinti.
Perciò, Achille, non affliggerti di essere morto”». - Ἀχαιΐδος: Ἀχαιΐς è, naturalmente, tanto la regione (sott.
γῆ), quanto la donna achea. - ἁμῆς: l’aggettivo ἁμός, che propriamente equivale (anche in Omero e nella
tragedia) a ἡμέτερος, viene spesso sentito come equivalente poetico di ἐμός. - σεῖο: = σοῦ. È genitivo di
paragone (dipendente da μακάρτερος «più beato»). La riflessione, marcata dalla nuova apostrofe (Ἀχιλλεῦ), e sì
determinata dalla tristezza che Odisseo vede in Achille, ma, come sottolinea σεῖο δέ, è suggerita anche dalla
contrapposizione con la propria sorte di ramingo che ancora non ha potuto toccare il suolo della patria. - οὔ …
προπάροιθε … οὔτ’ ἄρ’ ὀπίσσω: secondo il discorso di Odisseo, cui non è estraneo un intento anche

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Letteratura greca [1]

consolatorio, Achille continua nell’Erebo la condizione di beato (cfr. più sotto ἶσα θεοῖσιν) di cui godeva sulla
terra. - ἐτίομεν: τίω (suo derivato è τιμή) è di uso omerico e subirà la concorrenza di τίνω. - ἶσα θεοῖσιν: è
oggetto interno (e dunque di valore avverbiale) di ἐτίομεν. - νεκύεσσιν: ha valore locativo: «fra i morti». -
ἐνθάδ’ ἐών: si contrappone a σε ζωόν precedente. - ἀκαχίζευ: imperativo con contrazione ionica di
ἀκαχίζομαι che regge il participio predicativo θανών.

488-491: «Μὴ δή μοι θάνατόν … ἀνάσσειν: «“Non tentare, glorioso Odisseo, di abbellirmi la morte.
Vorrei sulla terra prestare servizio di bracciante presso un padrone senza terra propria, che non ha molti
mezzi, piuttosto che dominare su tutti i defunti». - Βουλοίμην κ(ε): desiderativo (κε = ἄν, lat. vellem). -
θητευέμεν: infinito (con desinenza epica -έμεν) di θητεύω, che significa prestare servizio come θής, cittadino
libero, ma privo di οἶκος (che invece allo schiavo), che presta servizi occasionali: qui per giunta il suo padrone
non possiede terra propria (κλῆρος) e, in quanto ἄκληρος, avrà preso in affitto la terra, traendone a stento da
vivere. Niente di più basso, dunque, nella scala sociale ed economica della condizione immaginata da Achille:
eppure, in quanto ἐπάρουρος (cioè uomo che lavora sulla terra, e dunque vive) un tale tete e di gran lunga
preferibile a chi domina su tutti i defunti (καταφθιμένοισιν è participio aoristo atematico di καταφθίνω).

Odissea XI 492-540.

Ἀλλ’ ἄγε μοι τοῦ παιδὸς ἀγαυοῦ μῦθον ἐνίσπες,


ἢ ἕπετ’ ἐς πόλεμον πρόμος ἔμμεναι ἦε καὶ οὐκί.
Εἰπὲ δέ μοι Πηλῆος ἀμύμονος εἴ τι πέπυσσαι,
ἢ ἔτ’ ἔχει τιμὴν πολέσιν μετὰ Μυρμιδόνεσσιν,
495
ἦ μιν ἀτιμάζουσιν ἀν’ Ἑλλάδα τε Φθίην τε,
οὕνεκά μιν κατὰ γῆρας ἔχει χεῖράς τε πόδας τε.
Εἰ γὰρ ἐγὼν ἐπαρωγὸς ὑπ’ αὐγὰς ἠελίοιο,
τοῖος ἐὼν οἷός ποτ’ ἐνὶ Τροίῃ εὐρείῃ
πέφνον λαὸν ἄριστον, ἀμύνων Ἀργείοισιν, –
500
εἰ τοιόσδ’ ἔλθοιμι μίνυνθά περ ἐς πατέρος δῶ,
τῶ κέ τεῳ στύξαιμι μένος καὶ χεῖρας ἀάπτους,
οἳ κεῖνον βιόωνται ἐέργουσίν τ’ ἀπὸ τιμῆς».
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·
«Ἦ τοι μὲν Πηλῆος ἀμύμονος οὔ τι πέπυσμαι,
505
αὐτάρ τοι παιδός γε Νεοπτολέμοιο φίλοιο
πᾶσαν ἀληθείην μυθήσομαι, ὥς με κελεύεις·
αὐτὸς γάρ μιν ἐγὼ κοίλης ἐπὶ νηὸς ἐΐσης
ἤγαγον ἐκ Σκύρου μετ’ ἐϋκνήμιδας Ἀχαιούς.
Ἦ τοι ὅτ’ ἀμφὶ πόλιν Τροίην φραζοίμεθα βουλάς,
510
αἰεὶ πρῶτος ἔβαζε καὶ οὐχ ἡμάρτανε μύθων·
Νέστωρ δ’ ἀντίθεος καὶ ἐγὼ νικάσκομεν οἴω.
Αὐτὰρ ὅτ’ ἐν πεδίῳ Τρώων μαρναίμεθ’ Ἀχαιοί,
οὔ ποτ’ ἐνὶ πληθυῖ μένεν ἀνδρῶν οὐδ’ ἐν ὁμίλῳ,
ἀλλὰ πολὺ προθέεσκε, τὸ ὃν μένος οὐδενὶ εἴκων·
515
πολλοὺς δ’ ἄνδρας ἔπεφνεν ἐν αἰνῇ δηϊοτῆτι.
Πάντας δ’ οὐκ ἂν ἐγὼ μυθήσομαι οὐδ’ ὀνομήνω,
ὅσσον λαὸν ἔπεφνεν ἀμύνων Ἀργείοισιν,
ἀλλ’ οἷον τὸν Τηλεφίδην κατενήρατο χαλκῷ,
ἥρω’ Εὐρύπυλον· πολλοὶ δ’ ἀμφ’ αὐτὸν ἑταῖροι
520
Κήτειοι κτείνοντο γυναίων εἵνεκα δώρων.
Κεῖνον δὴ κάλλιστον ἴδον μετὰ Μέμνονα δῖον.
Αὐτὰρ ὅτ’ εἰς ἵππον κατεβαίνομεν, ὃν κάμ’ Ἐπειός,
Ἀργείων οἱ ἄριστοι, ἐμοὶ δ’ ἐπὶ πάντ’ ἐτέταλτο,
[ἠμὲν ἀνακλῖναι πυκινὸν λόχον ἠδ’ ἐπιθεῖναι,]
525

43
Letteratura greca [1]

ἔνθ’ ἄλλοι Δαναῶν ἡγήτορες ἠδὲ μέδοντες


δάκρυά τ’ ὠμόργνυντο, τρέμον θ’ ὑπὸ γυῖα ἑκάστου·
κεῖνον δ’ οὔ ποτε πάμπαν ἐγὼν ἴδον ὀφθαλμοῖσιν
οὔτ’ ὠχρήσαντα χρόα κάλλιμον οὔτε παρειῶν
δάκρυ’ ὀμορξάμενον· ὁ δέ με μάλα πόλλ’ ἱκέτευεν
530
ἱππόθεν ἐξέμεναι, ξίφεος δ’ ἐπεμαίετο κώπην
καὶ δόρυ χαλκοβαρές, κακὰ δὲ Τρώεσσι μενοίνα.
Ἀλλ’ ὅτε δὴ Πριάμοιο πόλιν διεπέρσαμεν αἰπήν,
μοῖραν καὶ γέρας ἐσθλὸν ἔχων ἐπὶ νηὸς ἔβαινεν
ἀσκηθής, οὔτ’ ἂρ βεβλημένος ὀξέϊ χαλκῷ
535
οὔτ’ αὐτοσχεδίην οὐτασμένος, οἷά τε πολλὰ
γίνεται ἐν πολέμῳ· ἐπιμὶξ δέ τε μαίνεται Ἄρης».
Ὣς ἐφάμην, ψυχὴ δὲ ποδώκεος Αἰακίδαο
φοίτα μακρὰ βιβᾶσα κατ’ ἀσφοδελὸν λειμῶνα,
γηθοσύνη, ὅ οἱ υἱὸν ἔφην ἀριδείκετον εἶναι.
540

Ma dimmi parola del mio splendido figlio, se è andato in guerra per essere
un campione oppure no. E dimmi se sai qualcosa di Peleo irreprensibile: è
ancora onorato fra i molti Mirmidoni o nell’Ellade e a Ftia lo spregiano
perché la vecchiaia lo blocca nelle mani e nei piedi? Io non sono lì a
proteggerlo sotto i raggi del sole tale essendo quale una volta nella Troade
vasta facevo massacro di eroi difendendo gli Argivi. Se tale potessi tornare
anche solo un momento alla casa paterna, odiose farei diventare la mia
furia e le mie mani irresistibili a chiunque gli porti violenza e lo privi
d’onore».
Diceva così e io replicando gli dissi: «Non so nulla di Peleo irreprensibile,
ma su tuo figlio Neottolemo ti dirò, come domandi, tutta la verità: proprio
io su ben librata concava nave lo condussi da Sciro fra gli Achei dai forti
schinieri. E quando intorno a Troia concertavamo piani, egli parlava sempre
per primo e non sbagliava parola: lo vincevamo solo io e Nestore pari agli
dei. E quando noi Achei combattevamo nella piana dei Troiani, non restava
mai nella mischia, nel folto dei forti, ma molto in avanti correva, nel suo
impeto non era secondo a nessuno. E molti uomini sterminò nello scontro
terribile. Tutti non posso dire e numerare i guerrieri che sterminò
difendendo gli Argivi, ma come uccise col bronzo il figlio di Telefo, l’eroe
Euripilo, e intorno a lui restarono uccisi molti compagni cetei per doni
ricevuti da donne. Era il più bello che vidi, dopo il nobile Memnone. E
quando noi, i migliori degli Achei, scendemmo nel cavallo fabbricato da
Epeo, ed era mio tutto il peso se aprire o chiudere la solida trappola,
allora gli altri capi e consiglieri dei Danai si asciugavano le lacrime, le
membra di ognuno tremavano, ma lui mai io vidi con gli occhi che
impallidisse nel bel carnato o si asciugasse dalle guance le lacrime, ma più
volte mi scongiurava che uscissimo dal cavallo e stringeva l’elsa della spada
e l’asta pesante di bronzo bramando mali ai Troiani. Ma, quando
abbattemmo l’erta città di Priamo, con la sua splendida parte di preda saliva
sulla nave illeso, mai colto dal bronzo aguzzo né ferito nel corpo a corpo,
come spesso capita in guerra: Ares impazza alla cieca».
Dicevo così, e l’anima dell’Eacide veloce andava a lunghe falcate sul prato
d’asfodelo, lieta perché gli avevo detto che suo figlio era insigne fra gli
uomini.

44
Letteratura greca [1]

Odissea XI 541-564.

Αἱ δ’ ἄλλαι ψυχαὶ νεκύων κατατεθνηώτων


ἕστασαν ἀχνύμεναι, εἴροντο δὲ κήδε’ ἑκάστη.
Οἴη δ’ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο
νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης,

τήν μιν ἐγὼ νίκησα δικαζόμενος παρὰ νηυσὶ


545
τεύχεσιν ἀμφ’ Ἀχιλῆος· ἔθηκε δὲ πότνια μήτηρ,
παῖδες δὲ Τρώων δίκασαν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη.
ὡς δὴ μὴ ὄφελον νικᾶν τοιῷδ’ ἐπ’ ἀέθλῳ·
τοίην γὰρ κεφαλὴν ἕνεκ’ αὐτῶν γαῖα κατέσχεν,

Αἴανθ’, ὃς περὶ μὲν εἶδος, περὶ δ’ ἔργα τέτυκτο


550
τῶν ἄλλων Δαναῶν μετ’ ἀμύμονα Πηλεΐωνα.
Τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν·
«Αἶαν, παῖ Τελαμῶνος ἀμύμονος, οὐκ ἄρ’ ἔμελλες
οὐδὲ θανὼν λήσεσθαι ἐμοὶ χόλου εἵνεκα τευχέων

οὐλομένων; Τὰ δὲ πῆμα θεοὶ θέσαν Ἀργείοισι·


555
τοῖος γάρ σφιν πύργος ἀπώλεο· σεῖο δ’ Ἀχαιοὶ
ἶσον Ἀχιλλῆος κεφαλῇ Πηληϊάδαο
ἀχνύμεθα φθιμένοιο διαμπερές· οὐδέ τις ἄλλος
αἴτιος, ἀλλὰ Ζεὺς Δαναῶν στρατὸν αἰχμητάων

ἐκπάγλως ἤχθηρε, τεῒν δ’ ἐπὶ μοῖραν ἔθηκεν.


560
Ἀλλ’ ἄγε δεῦρο, ἄναξ, ἵν’ ἔπος καὶ μῦθον ἀκούσῃς
ἡμέτερον· δάμασον δὲ μένος καὶ ἀγήνορα θυμόν».
Ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ’ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ’ ἄλλας
ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων.

541-542. Αἱ δ’ ἄλλαι … ἑκάστη: «Le altre anime dei defunti stavano afflitte, dicevano ciascuna le proprie
pene». - εἴροντο: è da εἴρομαι («domandare»), distinto da εἴρω («dichiarare», «dire»), ma i due verbi hanno
teso a contaminarsi. Si potrebbe in ogni caso anche tradurre: «ognuna mi interrogava sulle mie pene».

543-546. Οἴη δ’ Αἴαντος … ἀμφ’ Ἀχιλῆος: «Solo l’anima di Aiace Telamonio restava in disparte, irata per la
vittoria che ottenni su di lui nel giudizio presso le navi sulle armi di Achille». - Αἴαντος … Τελαμωνιάδαο: si
tratta di Aiace, figlio di Telamone, di Salamina, cugino di Achille (Telamone era fratello di Peleo), distinto da
Aiace di Oileo, il locrese. - νόσφιν ἀφεστήκει: «restava in disparte», ἀφεστήκει è ppf. di ἀφίστημι. - τήν
μιν … νίκησα: doppio accusativo (τήν è accusativo dell’oggetto interno). - δικαζόμενος: «sottoposto a
giudizio», esplicita che la disputa prevedeva un giudizio da parte di uno o più arbitri. La contesa per le armi era
narrata nel poema ciclico Piccola Iliade, da cui trae anche Sofocle, per il suo Aiace.

546-547. ἔθηκε δὲ … Ἀθήνη: «le aveva messe in palio la madre veneranda, le aggiudicarono i figli dei Troiani
e Pallade Atena». - πότνια μήτηρ: ovviamente si tratta di Teti, madre di Achille. - παῖδες … Ἀθήνη:
Difficile da questo cenno ricostruire l’episodio. Peraltro il verso era già stato ritenuto interpolato dai grammatici
antichi.

548-551. ὡς δὴ … Πηλεΐωνα: «Oh, non avessi mai vinto per tale premio! Una tale persona per causa di
quelle la terra coprì, Aiace, che per aspetto, per gesta era al di sopra degli altri Danai, dopo l’irreprensibile
Pelide». - ὡς δὴ: può precedere ὄφελον nell’espressione del rammarico (per il quale è usato in Omero anche

45
Letteratura greca [1]

l’imperfetto ὤφελλον). - τοιῷδ’ ἐπ’ ἀέθλῳ: Sembra alludere alla morte di Aiace. - κεφαλήν: κεφαλή è qui
usato per ἀνήρ. - ἕνεκ’ αὐτῶν: «per causa di quelle» (cioè delle armi). - ὃς: ha come antecedente τοίην
κεφαλήν. - εἶδος … ἔργα: sono accusativi di relazione. - τέτυκτο: ppf. di τεύχω, che nel pf. e nel ppf. è
equivalente di γίγνομαι, εἰμί, etc.

552-555. Τὸν μὲν ἐγών … οὐλομένων; «A lui mi rivolgevo con parole dolci: “Aiace, figlio di Telamone
irreprensibile, dunque neppure da morto dovevi scordare la collera contro di me per quelle armi maligne?». -
μειλιχίοισιν: l’aggettivo μειλίχιος è di etimologia incerta: forse non ha a che vedere col nome del miele,
essendo probabile una radice *melu (ma cfr. mell- del latino, che potrebbe riportare il nome del miele alla radice
*melu-). - λήσεσθαι: è futuro di λανθάνω (che regge il genitivo χόλου). - ἐμοί: va con χόλου («ira nei miei
confronti»). - οὐλομένων: «maledette». È lo stesso aggettivo che qualifica l’ira di Achille nel proemio
dell’Iliade. Per il significato è stato ben detto: e ciò di cui uno direbbe ὄλοιο (sii maledetto).

555-560. Τὰ δὲ πῆμα … ἔθηκεν: «Una rovina ne fecero gli dei per gli Argivi, tale torre per loro crollasti!
Per la tua morte noi Achei soffriamo incessantemente come per la persona di Achille Pelide: né alcun altro è
responsabile, ma Zeus terribilmente odiò le schiere dei Danai armati di lancia e a te questa sorte inflisse». -
τοῖος … πύργος: è predicativo. - σφιν: = αὐτοῖς. - ἀπώλεο: è aoristo tematico intransitivo di ἀπόλλυμι. -
σεῖο … φθιμένοιο: è retto da ἀχνύμεθα. - ἶσον: è avverbio e regge (con una sorta di comparatio
compendiaria) κεφαλῇ (Ἀχιλλῆος … Πηληϊάδαο). - διαμπερές: (cfr. διά e ἀναπείρω) significa «da parte a
parte», «continuamente». - τεΐν: è forse un eolismo, in vece di σοι. - ἐπί … ἔθηκεν: tmesi. La responsabilità
della contesa, secondo una prospettiva teologica cara alla mentalità arcaica, è addossata a Zeus, che odia i Danai.

561-562. Ἀλλ’ ἄγε … θυμόν»: «Suvvia, o signore, avvicinati per udire la mia voce, il nostro racconto. Doma
l’impulso, placa il tuo animo fiero!”». - δεῦρο: è avverbio di luogo. - ἔπος καὶ μῦθον: si può rendere
l’espressione sinonimica, articolandola in “voce” e “racconto”. - ἡμέτερον: come spesso succede, equivale a
ἐμόν. - δάμασον: è imperativo aoristo di δαμάζω o δάμνημι. Tutto il discorso di Odisseo contiene allusioni
a vicende che presuppongono nell’ascoltatore della performance epica la conoscenza della tradizione contenuta nei
poemi ciclici.

563-564. Ὣς ἐφάμην, … κατατεθνηώτων. «Dicevo così ed egli non rispose parola ma andò verso l’Erebo
fra le anime degli altri defunti». - ὁ δέ μ’ οὐδὲν ἀμείβετο: il silenzio di Aiace, che si allontana del tutto
impermeabile alle parole di Odisseo, ha suggerito a Virgilio la scena dell’incontro nell’arte tra Enea e Didone nel
VI dell’Eneide.

T. 8 Le Sirene e la seconda parte del viaggio


Segno eminente della nuova ‘politropia’ del protagonista dell’Odissea rispetto al suo stesso
passato eroico è il modo in cui il poeta ha elaborato l’incontro con le Sirene, le quali vorrebbero
porsi in contatto con lui sfruttando il suo profilo di guerriero protagonista della guerra di Troia
(XII 170-200):

Odissea XII 170-200

Ἀνστάντες δ’ ἕταροι νεὸς ἱστία μηρύσαντο,


170
καὶ τὰ μὲν ἐν νηῒ γλαφυρῇ θέσαν, οἱ δ’ ἐπ’ ἐρετμὰ
ἑζόμενοι λεύκαινον ὕδωρ ξεστῇσ’ ἐλάτῃσιν.
Αὐτὰρ ἐγὼ κηροῖο μέγαν τροχὸν ὀξέϊ χαλκῷ
τυτθὰ διατμήξας χερσὶ στιβαρῇσι πίεζον·
αἶψα δ’ ἰαίνετο κηρός, ἐπεὶ κέλετο μεγάλη ἲς
175
Ἠελίου τ’ αὐγὴ Ὑπεριονίδαο ἄνακτος·
ἑξείης δ’ ἑτάροισιν ἐπ’ οὔατα πᾶσιν ἄλειψα.
Οἱ δ’ ἐν νηΐ μ’ ἔδησαν ὁμοῦ χεῖράς τε πόδας τε
ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνῆπτον·
αὐτοὶ δ’ ἑζόμενοι πολιὴν ἅλα τύπτον ἐρετμοῖς.
180
Ἀλλ’ ὅτε τόσσον ἀπῆμεν, ὅσον τε γέγωνε βοήσας,

46
Letteratura greca [1]

ῥίμφα διώκοντες, τὰς δ’ οὐ λάθεν ὠκύαλος νηῦς


ἐγγύθεν ὀρνυμένη, λιγυρὴν δ’ ἔντυνον ἀοιδήν·
«Δεῦρ’ ἄγ’ ἰών, πολύαιν’ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν,
νῆα κατάστησον, ἵνα νωϊτέρην ὄπ’ ἀκούσῃς.
185
Οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηῒ μελαίνῃ,
πρίν γ’ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ’ ἀκοῦσαι,
ἀλλ’ ὅ γε τερψάμενος νεῖται καὶ πλείονα εἰδώς.
Ἴδμεν γάρ τοι πάνθ’, ὅσ’ ἐνὶ Τροίῃ εὐρείῃ
Ἀργεῖοι Τρῶές τε θεῶν ἰότητι μόγησαν,
190
ἴδμεν δ’ ὅσσα γένηται ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ».
Ὣς φάσαν ἱεῖσαι ὄπα κάλλιμον· αὐτὰρ ἐμὸν κῆρ
ἤθελ’ ἀκουέμεναι, λῦσαί τ’ ἐκέλευον ἑταίρους
ὀφρύσι νευστάζων· οἱ δὲ προπεσόντες ἔρεσσον.
Αὐτίκα δ’ ἀνστάντες Περιμήδης Εὐρύλοχός τε
195
πλείοσί μ’ ἐν δεσμοῖσι δέον μᾶλλόν τε πίεζον.
Αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ τάς γε παρήλασαν οὐδ’ ἔτ’ ἔπειτα
φθόγγον Σειρήνων ἠκούομεν οὐδέ τ’ ἀοιδήν,
αἶψ’ ἀπὸ κηρὸν ἕλοντο ἐμοὶ ἐρίηρες ἑταῖροι,
ὅν σφιν ἐπ’ ὠσὶν ἄλειψ’, ἐμέ τ’ ἐκ δεσμῶν ἀνέλυσαν.
200

170-177. «I compagni, balzati in piedi, ammainarono le vele e le stivarono nella concava nave; poi, seduti ai
remi, imbiancavano l’acqua con i remi levigati. Ma io, tagliata con il bronzo aguzzo in piccoli pezzi una grande
forma di cera, li schiacciavo con le mani gagliarde, e subito la cera si ammorbidiva perché la premevano grande
forza e il raggio del Sole, il nume Iperionide: allora la spalmai sulle orecchie a tutti i compagni, uno per uno».
L’improvvisa bonaccia provocata da un δαίμων (si tratta probabilmente del θεός a cui aveva accennato Circe al
v. 38) costringe i marinai ad ammainare le vele (μηρύσαντο, che vale propriamente «arrotolarono», si trova
solo qui in Omero) e a procedere a remi. E’ un momento carico di tensione e di attesa e il narratore mette a fuoco
la scena con un tocco pittorico ricorrendo al v. 172 a λεύκαινον, che non compare altrove in Omero se non in
Iliade V 502 αἱ δ᾽ ὑπολευκαίνονται ἀχυρμιαί «e biancheggiano i mucchi di pula» e modificando per la fine
del verso ἐϋξέστῃς ἐλάτῃσι di Iliade VII 5 (è anche l’unico esempio ulteriore, in Omero, della sineddoche
«abete» = «remo»). - διατμήξας: è participio aoristo di διατμήγω, forma alternativa di διατέμνω. -
Ὑπεριονίδαο: = Ὑπερίονος (il titano Iperione, cfr. Esiodo, Teogonia 134).

178-183. «Essi poi nella nave mi legarono mani e piedi ritto sulla scarpa dell’albero, e ad esso stringevano le
funi; quindi, seduti, battevano il grigio mare coi remi. Ma non appena correndo veloci distammo tanto quanto
arriva un grido, ad esse non sfuggì la celere nave mentre si avvicinava, e intonavano un canto armonioso». Il v.
181 replica V 400 e IX 473: γέγωνε è indicativo perfetto di γεγωνέω «gridare», con omissione del soggetto
indefinito («uno grida»). Al v. 182 δ᾽ ha funzione apodotica (sottolinea il nesso fra principale e secondaria) e
pertanto è privo di valore semantico. - ἔντυνον ἀοιδήν: il nesso è atipico: in genere ἐντύνω (cfr. ἔντος
«strumento») si riferisce ad azioni manuali.

184-191. « “Orsù, venendo qua, Odisseo illustre, gloria grande degli Achei, ferma la nave per udire la nostra
voce. Nessuno infatti mai passò oltre di qui con la nave scura prima di ascoltare dalle nostre bocche la voce
dal suono di miele, ma ognuno va dopo averla gustato e più cose sapendo. Noi conosciamo tutto quanto nella
vasta Troia soffrirono Argivi e Troiani per volere degli dèi, e conosciamo quanto accade sulla terra nutrice” ».
La sequenza πλείονα εἰδώς del v. 188 non compare altrove nell’Odissea mentre nell’Iliade la troviamo anche,
ma in relazione a divinità, in XIII 355 e XXI 440. Per l’anafora di ἴδμεν (= ἴσμεν [οἶδα]) ai vv. 189 e 191 cfr.
Esiodo, Teogonia 27 s. (parlano le Muse): ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, | ἴδμεν δ᾽ εὖτ᾽
ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι «sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma, quando vogliamo,
sappiamo annunciare cose vere». - ἰότητι: corrisponde a lat. causa o gratia con genitivo. - χθονὶ πολυβοτείρῃ:
è una formula attestata 9 volte nell’Iliade e 2 nell’Odissea.

192-200. «Dicevano così emettendo la bella voce, e il mio cuore voleva ascoltare, e facendo cenno con i
sopraccigli ordinavo ai compagni di sciogliermi, ma essi vogavano piegati sui remi. Alzatisi, Perimede ed
Euriloco immediatamente mi legavano e ancor più mi stringevano con nuovi legacci. Ma quando infine essi le
oltrepassarono né più udivamo voce o canto di Sirene, subito i miei fidati compagni si tolsero la cera che ad

47
Letteratura greca [1]

essi sulle orecchie avevo spalmato, e mi sciolsero dai legacci». - νευστάζων: (cfr. ΧVIII 240 νευστάζων
κεφαλῇ) νευστάζω è frequentativo di νεύω (cfr. lat. ab-nuo e nutus): Odisseo fa segni con gli occhi dato che i
compagni non possono udirlo. Perimede ed Euriloco fanno esattamente ciò che Odisseo aveva raccomandato, ma
senza rivolgersi espressamente a loro, ai vv. 163 s. («e se vi supplicherò, se vi ordinerò di sciogliermi, allora
dovrete stringermi con nuovi legacci»). - ἐρίηρες (formato sul prefisso intensivo ἐρι- e sull’accusativo ἦρα
«favore», cfr. lat. verus) ἑταῖροι: è una formula attestata 6 volte nell’Iliade e 14 nell’Odissea.

L’apostrofe πολύαιν᾽ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν «Odisseo illustre, gloria grande degli
Achei» del v. 184 ricorre solo qui nell’Odissea, ma ugualmente in principio di discorso diretto
essa era indirizzata due volte a Odisseo, rispettivamente da Agamennone e da Nestore,
nell’Iliade (IX 673 = X 544), e anche l’epiteto πολύαινε, che rendiamo con «illustre» ma che
non è escluso possa valere, come πολύμυθος in II 200 e in Iliade III 214, «abile nel narrare»,
compare altrove in Omero solo nell’Iliade (IX 673; X 544 e XI 430), e sempre in riferimento a
Odisseo.
E’ comunque al guerriero che ha combattuto a Troia piuttosto che all’eroe dell’Odissea che
queste figure magiche - forse in origine demoni inferi incaricati di scortare con il loro canto le
anime dei defunti nell’oltretomba - rivolgono la loro cantilenante esortazione a fermare la nave
dopo averlo riconosciuto alla vista, onniscienti quali sono, pur non udendone la voce.
Lo stessa conoscenza che esse rivendicano concerne le imprese compiute da Argivi e Troiani
sulla piana di Ilio, e anche il v. 188 (ἀλλ᾽ ὅ γε τερψάμενος νεῖται καὶ πλείονα εἰδώς «ma
ognuno va dopo averla gustato e più cose sapendo») sembra presupporre l’espressione usata
dallo stesso Odisseo in Iliade XIX 219 πρότερος γενόμην καὶ πλείονα εἰδώς «sono nato
prima e più cose conosco» per sottolineare la propria superiorità intellettuale nei confronti di
Achille.
Le Sirene pongono davanti a Odisseo uno specchio che riflette il suo passato eroico
chiedendogli di tornare ad essere l’eroe dell’Iliade, ma egli non si lascia irretire, e non solo
perché si è fatto legare all’albero della nave ma anche perché ha maturato nel proprio νόος la
percezione della differenza fra ciò che è nel presente e ciò che era stato a Troia.
Il canto melodioso e l’onniscienza sembrano assimilare le Sirene alle Muse - esse sanno tutto
ciò che accade sulla terra e garantiscono che viene potenziato nel suo sapere chiunque le ascolti -
, in particolare alle Muse di Iliade II 484-486 che sanno ogni cosa perché sono sempre presenti.
Purtroppo, diversamente dal canto delle Muse e degli aedi, la loro voce produce un effetto
perverso: un incantesimo che causa la rovina di chi ascolta (Pindaro in Peana 8, 68 ss.
rievocherà le sei Incantatrici che, attaccate a mo’ di protomi d’oro al tempio di Apollo a Delfi,
cantavano così dolcemente che i visitatori si scordavano di mogli e figli «appesi alla loro voce di
miele»).
Per Odisseo il rischio è quello di dimenticare Itaca, il figlio, la sposa, risucchiato nel gorgo
retrospettivo della propria gloria di eroe: un tema che viene enfatizzato dalla funzione strutturale
dell’episodio all’interno della serie degli Apologhi. Le dodici avventure che costruiscono questa
serie si dispongono infatti - come ha osservato Curti - intorno al viaggio nell’oltretomba
(nekyia) del canto XI secondo tre distinte tipologie:

«Circe e Calipso, Lotofagi e Sirene, che cercano di trattenere Odisseo, seducendolo in vario
modo, rientrano nella categoria delle tentazioni. Ciclopi e Lestrigoni, Scilla e Cariddi
rappresentano attacchi fisici da parte di mostri cannibali che inghiottono i malcapitati. A Eolia e
Trinachia non vi sono pericoli oggettivi, ma i compagni, profittando del sonno di Odisseo,
commettono un’infrazione (aprono l’otre dei venti; mangiano le vacche del Sole); Niles li
classifica come tabù. Queste avventure sono aperte e chiuse da un episodio di transizione: i
Ciconi conducono dalla realtà militare di Troia al mondo fiabesco, i Feaci dal mondo fiabesco a
quello reale di Itaca. Dopo i Ciconi si comincia con la tentazione (Lotofagi), poi l’attacco fisico
(Ciclopi), poi il tabù (Eolo). Il superamento di questa tappa garantirebbe l’arrivo a casa (cf. Χ
29-30), ma l’infrazione costringe i protagonisti a ritornare indietro e a ripetere (al contrario) le
avventure già affrontate: attacco fisico (Lestrigoni) e poi tentazione. Dopo la Nekyia, che è il
centro intorno al quale gli Apologhi ruotano, si ricomincia daccapo: tentazione (Sirene), attacco
fisico (Scilla), tabù infranto (Trinachia), attacco fisico (Cariddi), tentazione (Calipso). Le
corrispondenze sono ancora maggiori se le avventure sono considerate a due a due: Lotofagi e
Sirene esercitano un’attrazione irresistibile per opporsi alla quale nel primo caso Odisseo lega i
compagni sulla nave, nel secondo i compagni legano Odisseo; Circe e Calipso attuano entrambe
una seduzione erotica; Polifemo e Scilla divorano entrambi sei uomini».

48
Letteratura greca [1]

In tutte le varie circostanze il motivo della ‘tentazione’ viene elaborato come rischio dell’oblio,
inclinazione edonistica a perdere di vista la mèta dimenticando Itaca e il ritorno. E precisamente:

a) in relazione a Calipso (Ι 56-57):

e sempre lo incanta con tenere , seducenti


parole perché dimentichi Itaca.

b) in relazione ai Lotofagi in ΙΧ 96 s.

ma preferivano restare in mezzo ai Lotofagi


cibandosi di loto e scordare il ritorno.

e ΙΧ 100-102:

Poi agli altri fidati compagni ordinai


di sbrigarsi a salire sulle navi veloci,
sì che nessuno, mangiando il loto, scordasse il ritorno.

c) in relazione a Circe, in Χ 234 ss.:

Per loro mescolava formaggio, farina d’orzo, miele lucente


al vino di Pramno, poi intrideva il cibo
di filtri funesti perché si scordassero completamente della patria.

e Χ 472 (parlano i compagni a Odisseo):

Pazzo, ricòrdati ormai della terra dei padri.

Se fra i Lotofagi è Odisseo a rammentare il ritorno ai compagni, presso Circe sono i compagni a
ricordare il ritorno a Odisseo; nel caso di Calipso la tentazione è invece troppo debole: il
tentativo della figlia di Atlante ottiene sì l’effetto di trattenere materialmente Odisseo nella sua
isola per sette anni, ma non può evitare che l’eroe aneli a scorgere anche solo il fumo levarsi
dalla sua terra e nell’inerzia forzata brami la morte (I 52-59).
Il motivo è presente anche in relazione alle Sirene, e con l’uso dello stesso verbo θέλγειν usato
per Calipso in I 57, nella presentazione che ne offre Circe in XII 39-45:

Σειρῆνας μὲν πρῶτον ἀφίξεαι, αἵ ῥά τε πάντας


ἀνθρώπους θέλγουσιν, ὅτίς σφεας εἰσαφίκηται.
40
Ὅς τις ἀϊδρείῃ πελάσῃ καὶ φθόγγον ἀκούσῃ
Σειρήνων, τῷ δ’ οὔ τι γυνὴ καὶ νήπια τέκνα
οἴκαδε νοστήσαντι παρίσταται οὐδὲ γάνυνται,
ἀλλά τε Σειρῆνες λιγυρῇ θέλγουσιν ἀοιδῇ,
ἥμεναι ἐν λειμῶνι·
45

Dapprima arriverai alle Sirene che stregano


tutti gli uomini, chiunque giunga presso di loro.
40
Se uno si avvicina ignaro e ascolta la voce
delle Sirene, mai più lo circondano in festa,
tornato a casa, la moglie e i teneri figli,
ma le Sirene lo stregano con il canto armonioso,
sedute sul prato.
45

49
Letteratura greca [1]

Il paradosso è che, se le Sirene mentono dichiarando che ognuno che passi davanti a loro e gusti
il loro canto torna a casa «più cose sapendo», d’altra parte accendono la tentazione dell’oblio
(quel potere smemorante che in qualche misura è connaturato a ogni ἀοιδή, cfr. Esiodo,
Teogonia 55 e 102 s.) sfruttando elementi che all’oblio sono antitetici: verità e ricordo.
Esse cercano di realizzare il loro inganno (il loro incantesimo paralizzante) promettendo a
Odisseo la conoscenza e il ricordo di quanto soffrirono Argivi e Troiani per volere degli dèi (in
effetti, una verità scontata e banale per il protagonista dell’Odissea) e di quanto accade sulla
terra nutrice, e dunque gli prospettano un’immersione narcisistica nel suo passato di guerriero
acheo e un’alienazione dispersiva nella totalità degli eventi umani: esperienze che rischiano
entrambe di distoglierlo da quella rotta che, al di là del prato delle Sirene e sia pure a prezzo di
molte fatiche, potrà ricondurlo, secondo quanto ha promesso Circe, alla sua terra.
Odisseo potrebbe sottrarsi a questa insidia spalmando di cera anche le proprie orecchie oltre a
quelle dei compagni, e infatti Circe antepone alla raccomandazione di farsi legare all’albero della
nave l’inciso: «se vuoi ascoltare» (ΧΙΙ 49). Ma il nostro eroe sa di poter scampare, e del resto
Circe ha circoscritto il rischio a chi si avvicini ignaro (ἀϊδρείῃ 41).
Odisseo è in grado di decifrare come menzogna la promessa delle Sirene secondo cui potrà
oltrepassare la loro isola «più cose sapendo»; al contrario, le Sirene non sanno vedere ciò che
accade davanti ai loro occhi perché sfugge ad esse che Odisseo è legato saldamente all’albero
della nave e perché ignorano che i suoi compagni non possono udire né lui né il loro canto. In
realtà le Sirene, che dichiarano di conoscere ogni volta tutto ciò che sia accaduto sulla faccia
della terra, mostrano una patetica cecità nei confronti di ciò che è presente e visibile.

T. 9 Il sogno di Penelope
Modello della moglie devota e fedele e della madre premurosa, Penelope non viene mai meno
nell’Odissea a questa figurazione talmente cristallizzata da risultare anche per noi quasi
proverbiale.
Corteggiata da uno stuolo di pretendenti che si identificano con i giovani aristocratici di Itaca e
delle isole vicine, sopporta pazientemente il saccheggio dei beni domestici rinviando a un
termine indefinito le nuove nozze. Trascorre gran parte del suo tempo al piano superiore, nelle
stanze riservate alle donne, tessendo e dirigendo i lavori di serve e ancelle, ma occasionalmente
scende nella grande sala centrale del palazzo. In Ι 328 ss. interviene per dissuadere l’aedo
Femio dal cantare il tema, per lei doloroso, del «ritorno che funesto da Troia Atena impose agli
Achei», ma viene rimproverata dal figlio Telemaco, ormai impegnato a rivendicare un proprio
ruolo nella vita dell’oikos, il quale le fa notare come la colpa delle sventure degli eroi achei non
sia certo degli aedi e la esorta a tornare nelle stanze a curare le sue occupazioni (telaio e
conocchia) lasciando agli uomini il piacere della conversazione conviviale.
Più oltre, nel canto II (vv. 85 ss.), Antinoo denuncia pubblicamente nell’assemblea degli Itacesi
l’inganno della tela: quel grande sudario funebre per Laerte che quattro anni prima Penelope
aveva cominciato a tessere chiedendo che le fosse permesso di terminarlo prima di rimaritarsi.
Quando è stata scoperta a disfare di notte quanto tesseva di giorno, ha dovuto ultimare l’opera, e
così anche questo espediente è stato vano.
Nel canto IV, venuta a conoscenza dall’araldo Medonte che i pretendenti mirano a eliminare
Telemaco al suo ritorno dal viaggio intrapreso in cerca di notizie sul padre, rischia di svenire e
poi trepida per la sua sorte giacendo digiuna e in lacrime sul letto nuziale finché non apprende
che il figlio è tornato incolume da Pilo (XVI 337 ss.). Così, poco dopo, scende di nuovo nella
sala e rimprovera aspramente i pretendenti (in primo luogo Antinoo), ma viene rassicurata dalla
replica ipocrita di Eurimaco.
Riabbracciato il figlio (XVII 36 ss.), conosce, se non un cambiamento di situazione (le cose
sono tornate in effetti allo stato anteriore al viaggio di Telemaco), un’apertura al dialogo e a un
ricordo meno ossessivo del marito a partire dal momento in cui Odisseo stesso, nelle vesti di un
falso mendicante, riesce a farsi introdurre nella reggia.
Saputo da Eumeo che lo straniero appena arrivato dichiara di intrattenere con Odisseo un antico
vincolo di ospitalità, chiede di incontrarlo (XVII 528 ss.) e di conversare con lui. Di qui,
nonostante una serie di incidenti provocati dai pretendenti, l’avvio, a XIX 104, di un colloquio
nel corso del quale Penelope rievoca la propria storia dolorosa nell’assenza del marito e
Odisseo si produce in un falso racconto al cui interno inserisce elementi di verità. In particolare,
50
Letteratura greca [1]

un richiamo al mantello che realmente Odisseo indossava al momento di partire per la guerra
rinsalda la fiducia della donna nello straniero anche se l’accenno di questi ai Feaci e al prossimo
ritorno dell’eroe a Itaca non incrinano il pessimismo della donna.
E’ a questo punto (XIX 508-587), subito dopo che la nutrice Euriclea ha rischiato di
smascherare lo straniero, che si apre un brano che attraverso l’esposizione di un sogno avuto da
Penelope dischiude aspetti inediti del personaggio.
Il sogno dell’aquila e delle oche è diviso in due parti: la visione, in cui l’aquila scende dal monte
e uccide le oche, e la sua interpretazione, comunicata all’interno del sogno stesso dall’aquila, che
si identifica esplicitamente con Odisseo (si tenga presente che in greco αἰετός «aquila» è
maschile). Così quella dello Straniero viene ad essere non un’interpretazione autonoma, bensì
una conferma dell’esegesi offerta dall’aquila.
Il dato sconcertante è che all’interno del sogno le valenze emozionali che hanno fin qui
accompagnato il personaggio appaiono rovesciate: il lamento, che fin qui è apparso associato
all’accettazione della realtà (l’assenza di Odisseo), si collega ora a un evento che era stato
prospettato, e continuerà a prospettarsi, come un desiderio intensamente vissuto (il ritorno di
Odisseo – l’aquila – e la strage dei pretendenti – le oche).
Anche dopo il conforto ricevuto dallo Straniero, Penelope diffida che il presagio offerto possa
diventare realtà e si richiama alla doppia valenza delle visioni oniriche: veridiche se attraversano
la porta di corno, illusorie se oltrepassano la porta d’avorio. In realtà la donna è in certa misura
costretta a smentire la veridicità del sogno in quanto accettarla significherebbe ammettere,
insieme con la fiducia nel ritorno di Odisseo e nell’uccisione dei pretendenti, il dolore che una
tale strage le causerebbe (non a caso il sogno stesso è definito, con una sorta di lapsus,
«terribile» – αἰνὸν ὄνειρον 568 – pur risultando «benvenuto», ἀσπαστόν, ove provenisse
dalla porta di corno). Non si tratta certamente di ipocrisia del personaggio, ma di uno stato
conflittuale nel cui ambito l’assuefazione a un perpetuo lamento sulla perdita del marito sembra
opporre una tenace resistenza all’ipotesi di rinverdire una condizione - quella di «sposa di
Odisseo Laerziade» (come viene ripetutamente apostrofata dal falso mendico) - sentita come
ormai remota e irrecuperabile. Del resto Penelope porrà più oltre nella categoria dei «sogni
maligni» (ὀνείρατ(α) … κακά XX 87) quello in cui ha immaginato di dormire con un uomo
qual era Odisseo al momento di salpare alla volta di Troia.
Così, piuttosto che convogliarsi nella fiducia o almeno nella speranza che il marito ritorni,
l’aspirazione alla fuga dall’oppressione del presente si libera, ai vv. 576 ss., nel progetto
(puntualmente messo in atto a XXI 73 ss.) della gara con l’arco e dunque nella disponibilità a
una più radicale rottura col presente come con il passato. Certo la ‘capitolazione’ di Penelope
avviene solo con estrema riluttanza dopo venti anni di attesa e sotto la pressione dei pretendenti,
del figlio (cfr. vv. 530-534) e della famiglia di origine (padre e fratelli che la spingono a sposare
Eurimaco, cfr. XV 16-18), e certo risposandosi ella può contribuire a salvare la vita al figlio, e
tuttavia questo momento cruciale di conversione alla prospettiva di nuove nozze non coincide
con l’urgenza di una particolare pressione esterna quanto con una riacquisita capacità della
donna di ascoltare quelle voci della propria interiorità di cui il sogno rappresentava già per i
Greci una forma emblematica.

Odissea, XIX 508-587

Τοῖσι δὲ μύθων ἦρχε περίφρων Πηνελόπεια·


«Ξεῖνε, τὸ μέν σ’ ἔτι τυτθὸν ἐγὼν εἰρήσομαι αὐτή·
καὶ γὰρ δὴ κοίτοιο τάχ’ ἔσσεται ἡδέος ὥρη, 510
ὅν τινά γ’ ὕπνος ἕλῃ γλυκερὸς καὶ κηδόμενόν περ.
Αὐτὰρ ἐμοὶ καὶ πένθος ἀμέτρητον πόρε δαίμων·
ἤματα μὲν γὰρ τέρπομ’ ὀδυρομένη γοόωσα,
ἔς τ’ ἐμὰ ἔργ’ ὁρόωσα καὶ ἀμφιπόλων ἐνὶ οἴκῳ·
αὐτὰρ ἐπὴν νὺξ ἔλθῃ, ἕλῃσί τε κοῖτος ἅπαντας, 515
κεῖμαι ἐνὶ λέκτρῳ, πυκιναὶ δέ μοι ἀμφ’ ἁδινὸν κῆρ
ὀξεῖαι μελεδῶναι ὀδυρομένην ἐρέθουσιν.
Ὡς δ’ ὅτε Πανδαρέου κούρη, χλωρηῒς ἀηδών,
καλὸν ἀείδῃσιν ἔαρος νέον ἱσταμένοιο,
δενδρέων ἐν πετάλοισι καθεζομένη πυκινοῖσιν, 520
ἥ τε θαμὰ τρωπῶσα χέει πολυδευκέα φωνήν,
παῖδ’ ὀλοφυρομένη Ἴτυλον φίλον, ὅν ποτε χαλκῷ

51
Letteratura greca [1]

κτεῖνε δι’ ἀφραδίας, κοῦρον Ζήθοιο ἄνακτος·


ὣς καὶ ἐμοὶ δίχα θυμὸς ὀρώρεται ἔνθα καὶ ἔνθα,
ἠὲ μένω παρὰ παιδὶ καὶ ἔμπεδα πάντα φυλάσσω, 525
κτῆσιν ἐμήν, δμῳάς τε καὶ ὑψερεφὲς μέγα δῶμα,
εὐνήν τ’ αἰδομένη πόσιος δήμοιό τε φῆμιν,
ἦ ἤδη ἅμ’ ἕπωμαι, Ἀχαιῶν ὅς τις ἄριστος
μνᾶται ἐνὶ μεγάροισι, πορὼν ἀπερείσια ἕδνα.
Παῖς δ’ ἐμὸς εἷος ἔην ἔτι νήπιος ἠδὲ χαλίφρων, 530
γήμασθ’ οὔ μ’ εἴα πόσιος κατὰ δῶμα λιποῦσαν·
νῦν δ’ ὅτε δὴ μέγας ἐστὶ καὶ ἥβης μέτρον ἱκάνει,
καὶ δή μ’ ἀρᾶται πάλιν ἐλθέμεν ἐκ μεγάροιο,
κτήσιος ἀσχαλόων, τήν οἱ κατέδουσιν Ἀχαιοί.
Ἀλλ’ ἄγε μοι τὸν ὄνειρον ὑπόκριναι καὶ ἄκουσον. 535
Χῆνές μοι κατὰ οἶκον ἐείκοσι πυρὸν ἔδουσιν
ἐξ ὕδατος, καί τέ σφιν ἰαίνομαι εἰσορόωσα·
ἐλθὼν δ’ ἐξ ὄρεος μέγας αἰετὸς ἀγκυλοχήλης
πᾶσι κατ’ αὐχένας ἦξε καὶ ἔκτανεν· οἱ δ’ ἐκέχυντο
ἁθρόοι ἐν μεγάροισ’, ὁ δ’ ἐς αἰθέρα δῖαν ἀέρθη. 540
Αὐτὰρ ἐγὼ κλαῖον καὶ ἐκώκυον ἔν περ ὀνείρῳ,
ἀμφὶ δέ μ’ ἠγερέθοντο ἐϋπλοκαμῖδες Ἀχαιαί,
οἴκτρ’ ὀλοφυρομένην, ὅ μοι αἰετὸς ἔκτανε χῆνας.
Ἂψ δ’ ἐλθὼν κατ’ ἄρ’ ἕζετ’ ἐπὶ προὔχοντι μελάθρῳ,
φωνῇ δὲ βροτέῃ κατερήτυε φώνησέν τε· 545
“Θάρσει, Ἰκαρίου κούρη τηλεκλειτοῖο·
οὐκ ὄναρ, ἀλλ’ ὕπαρ ἐσθλόν, ὅ τοι τετελεσμένον ἔσται.
Χῆνες μὲν μνηστῆρες, ἐγὼ δέ τοι αἰετὸς ὄρνις
ἦα πάρος, νῦν αὖτε τεὸς πόσις εἰλήλουθα,
ὃς πᾶσι μνηστῆρσιν ἀεικέα πότμον ἐφήσω. ” 550
Ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐμὲ μελιηδὴς ὕπνος ἀνῆκε·
παπτήνασα δὲ χῆνας ἐνὶ μεγάροισ’ ἐνόησα
πυρὸν ἐρεπτομένους παρὰ πύελον, ἧχι πάρος περ».
Τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·
«Ὦ γύναι, οὔ πως ἔστιν ὑποκρίνασθαι ὄνειρον 555
ἄλλῃ ἀποκλίναντ’, ἐπεὶ ἦ ῥά τοι αὐτὸς Ὀδυσσεὺς
πέφραδ’, ὅπως τελέει· μνηστῆρσι δὲ φαίνετ’ ὄλεθρος
πᾶσι μάλ’, οὐδέ κέ τις θάνατον καὶ κῆρας ἀλύξει».
Τὸν δ’ αὖτε προσέειπε περίφρων Πηνελόπεια·
«Ξεῖν’, ἦ τοι μὲν ὄνειροι ἀμήχανοι ἀκριτόμυθοι 560
γίνοντ’, οὐδέ τι πάντα τελείεται ἀνθρώποισι.
Δοιαὶ γάρ τε πύλαι ἀμενηνῶν εἰσὶν ὀνείρων·
αἱ μὲν γὰρ κεράεσσι τετεύχαται, αἱ δ’ ἐλέφαντι.
Τῶν οἳ μέν κ’ ἔλθωσι διὰ πριστοῦ ἐλέφαντος,
οἵ ῥ’ ἐλεφαίρονται, ἔπε’ ἀκράαντα φέροντες· 565
οἳ δὲ διὰ ξεστῶν κεράων ἔλθωσι θύραζε,
οἵ ῥ’ ἔτυμα κραίνουσι, βροτῶν ὅτε κέν τις ἴδηται.
Ἀλλ’ ἐμοὶ οὐκ ἐντεῦθεν ὀΐομαι αἰνὸν ὄνειρον
ἐλθέμεν· ἦ κ’ ἀσπαστὸν ἐμοὶ καὶ παιδὶ γένοιτο.
Ἄλλο δέ τοι ἐρέω, σὺ δ’ ἐνὶ φρεσὶ βάλλεο σῇσιν· 570
ἥδε δὴ ἠὼς εἶσι δυσώνυμος, ἥ μ’ Ὀδυσῆος
οἴκου ἀποσχήσει· νῦν γὰρ καταθήσω ἄεθλον,
τοὺς πελέκεας, τοὺς κεῖνος ἐνὶ μεγάροισιν ἑοῖσιν
ἵστασχ’ ἑξείης, δρυόχους ὥς, δώδεκα πάντας·
στὰς δ’ ὅ γε πολλὸν ἄνευθε διαρρίπτασκεν ὀϊστόν. 575
Νῦν δὲ μνηστήρεσσιν ἄεθλον τοῦτον ἐφήσω·
ὃς δέ κε ῥηΐτατ’ ἐντανύσῃ βιὸν ἐν παλάμῃσι
καὶ διοϊστεύσῃ πελέκεων δυοκαίδεκα πάντων,
τῷ κεν ἅμ’ ἑσποίμην, νοσφισσαμένη τόδε δῶμα
κουρίδιον, μάλα καλόν, ἐνίπλειον βιότοιο, 580
τοῦ ποτε μεμνήσεσθαι ὀΐομαι ἔν περ ὀνείρῳ».

52
Letteratura greca [1]

Τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·


«Ὦ γύναι αἰδοίη Λαερτιάδεω Ὀδυσῆος,
μηκέτι νῦν ἀνάβαλλε δόμοισ’ ἔνι τοῦτον ἄεθλον·
πρὶν γάρ τοι πολύμητις ἐλεύσεται ἐνθάδ’ Ὀδυσσεύς, 585
πρὶν τούτους τόδε τόξον ἐΰξοον ἀμφαφόωντας
νευρήν τ’ ἐντανύσαι διοϊστεῦσαί τε σιδήρου».

508-517. «Fra essi dava inizio ai discorsi la saggia Penelope: “Straniero, io ti interrogherò ancora per poco,
perché ben presto sarà il tempo del riposo ristoratore, per chi il dolce sonno afferri anche se afflitto. Ma a
me una sofferenza senza fine inflisse un dio: durante il giorno godo a piangere e lacrimare mentre in casa
bado al lavoro mio e delle ancelle, ma, quando cala la notte e il riposo afferra tutti, sto distesa nel letto e
attorno al mio cuore oppresso acute ansie mi straziano fitte mentre piango”». Penelope piange giorno e notte,
ma mentre di giorno il pianto è una consolazione (per il motivo del piacere del canto cfr. Iliade XXIII 10 αὐτὰρ
ἐπεί κ᾽ ὀλοοῖο τεταρπώμεσθα γόοιο «ma quando ci siamo dilettati del gelido pianto», Odissea XI 212) e
s’intreccia al lavoro (essenzialmente, la tessitura) e alla sorveglianza delle opere delle ancelle, la solitudine
notturna suscita acute ansie (μελεδῶναι: il termine non è attestato altrove in Omero, ma cfr. Esiodo, Erga 66 e
Saffo, fr. 37, 3 Voigt). - κοῖτος: etimologicamente connesso con κοίτη «giaciglio» e con κεῖμαι «giacere», è
propriamente l’atto di coricarsi o di stare distesi a letto. - γοόωσα e ὁρόωσα: sono forme ‘distratte’ (cioè con
protrazione, morfologicamente artificiale, del suono /o/: in generale, sul fenomeno della παρέκτασις
«allungamento sillabico» cfr. Dionigi di Alicarnasso, De compositione verborum 15, 14) in luogo di γοῶσα
(γοάω, cfr. γοός) e di ὁρῶσα. - πυκιναί: (= πυκναί, cfr. πύκα) ha funzione predicativa e indica che le ansie
sono frequenti, incalzanti.

518-529. «E come quando la figlia di Pandareo, l’usignolo immerso nel verde, canta armoniosamente al nuovo
spuntare di primavera posato tra le foglie folte degli alberi e spesso spande con i suoi gorgheggi la voce varia
di suoni piangendo suo figlio Itilo, quello che un tempo uccise con il bronzo in preda a follia, il rampollo di
Zeto sovrano, così anche a me l’animo sussulta di qua e di là in moti opposti: se devo restare accanto al figlio
e custodire intatta ogni cosa, i miei beni e le serve e la grande casa dall’alto tetto per rispetto del letto nuziale
e della voce del popolo, o se devo seguire ormai il più valente degli Achei che nel palazzo mi corteggi
offrendo doni infiniti». La pertinenza del riferimento a Itilo nell’ambito di questa similitudine che sembra fornire
una variante della storia (cfr. Ps.-Apollodoro III 14, 8 e Ovidio, Metamorfosi VI 412-74) di Procne, Filomela e
Tereo (Procne ha un figlio, Ithys, dal marito Tereo, il quale seduce Filomela, sorella di Procne, e per impedirle di
rivelare l’accaduto le taglia la lingua, ma Filomela riesce a comunicare la verità alla sorella tessendo una stoffa
su cui descrive l’evento: allora Procne si vendica del marito imbandendogli le carni del figlio) si riconduce forse
al fatto che Penelope sa che, continuando a rinviare le nozze con uno dei pretendenti, può mettere a repentaglio la
vita di Telemaco. L’aggettivo χλωρηΐς (cfr. χλωρός) non ricompare prima di Nicandro, Theriaca 88 e si
riferisce all’ambiente in cui vive l’usignolo piuttosto che al colore del suo piumaggio. Al v. 519 καλόν e νέον
sono accusativi con funzione avverbiale. - τρωπῶσα: (τρωπάω, cfr. τρέπω) denota la modulazione del suono. -
δίχα: (cfr. δίς) l’avverbio denota il contrasto interiore di Penelope. - ὀρώρεται: è perfetto medio di ὄρνυμι /
ὀρνύω «sollevare», «destare»: per il nesso con θυμός cfr. ΙΧ 377 ἐπεί μοι ὀρώρεται ἔνδοθι θυμός. I vv.
524-529 ripetono con variazioni marginali XVI 73-77. - δήμοιο … φῆμιν: il nesso indica la pubblica
opinione, misura del consenso su cui poggia la stabilità di una casata aristocratica, cfr. XIV 239 δήμου φῆμις
e Iliade IX 460 δήμου ... φάτιν, Eschilo, Agamennone 938 φήμη ... δημόθρους.

530-534. «Mio figlio, finché era un ragazzo immaturo e ingenuo, non permetteva che io mi sposassi
abbandonando la casa maritale, ma ora che è grande e raggiunge il limite della giovinezza, ecco che mi prega di
andarmene di casa, preoccupato dei beni che gli divorano gli Achei». - χαλίφρων: (cfr. χαλάω “allentare” e
φρήν) l’aggettivo compare altrove in Omero solo in Odissea IV 371. Al v. 531 κατά è in tmesi con
λιποῦσαν. - ἥβης μέτρον ἱκάνει: è sequenza formulare (cfr. XI 317; XVIII 217; Esiodo, Erga 132).

535-543. «Ma ora su, interpretami questo sogno e ascolta. Nella mia casa beccano il grano venti oche lungi
dall’acqua e io provo conforto a guardarle, ma calando dal monte una grande aquila dal becco adunco spezzò il
collo a tutte e le uccise, ed esse in casa giacevano ammucchiate, e quella si librò verso l’etere luminoso. E io
nel sogno piangevo e singhiozzavo e le Achee dai riccioli belli si raccoglievano attorno a me mentre gemevo
pietosamente perché l’aquila mi aveva ucciso le oche». Al v. 535 (cfr. v. 555) ὑποκρίνομαι: «rispondere»
assume la specifica valenza di «interpretare» (ὑποκριτής indica l’interprete di sogni in Platone, Timeo 72b): la
successione ὑπόκριναι καὶ ἄκουσον adotta lo schema detto dell’hysteron proteron (evidentemente Odisseo
deve prima ascoltare e poi interpretare il sogno). - ἀγκυλοχείλης: (cfr. ἄγκυλος «ricurvo» e χεῖλος «labbro»,
«becco») l’epiteto compare anche in Iliade XVI 428 = Odissea XXII 302 αἰγυπιοὶ γαμψώνυχες

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Letteratura greca [1]

ἀγκυλοχεῖλαι. Al v. 539 e al v. 544 κατ(ά) è in tmesi rispettivamente con ἦξε (aoristo di ἄγνυμι) e con
ἕζετ(ο). - ἐϋπλοκαμῖδες Ἀχαιαί: nesso clausolare presente anche in II 119 (mai invece nell’Iliade).

544-553. «Poi, tornata, si posava su una sporgenza del tetto e con voce umana mi calmava dicendo: “Coraggio,
figlia di Icario illustre, questo non è un sogno, ma visione veridica che avrà compimento. Le oche sono i
pretendenti e io per te prima ero un uccello, un’aquila, ma ora sono tuo sposo che è arrivato, io che a tutti i
pretendenti infliggerò destino ignominioso”. Diceva così, e il dolce sonno mi lasciò e scrutando scorsi le oche
beccare in casa il grano presso la vasca, nello stesso posto di prima”». - ἐπὶ προὔχοντι (= προέχοντι)
μελάθρῳ: (cfr. Iliade XXII 97 πύργῳ ἐπὶ προὔχοντι «sulla torre sporgente») il nesso vale propriamente «su
una trave sporgente (del tetto)»: «trave» è infatti il significato primario di μέλαθρον (cfr. VIII 279 e XI 278). -
ὕπαρ: (fusione di ὑπό e ὄναρ) è sostantivo indeclinabile neutro che indica il contrario del sogno, e cioè la
visione reale, la realtà, cfr. XX 90 ἐπεὶ οὐκ ἐφάμην ὄναρ ἔμμεναι, ἀλλ᾽ ὕπαρ ἤδη «non credevo che fosse
un sogno ma già realtà». - παπτήνασα: (παπταίνω) denota uno sguardo attento, circospetto (cfr. XI 608
δεινὸν παπταίνων, di Eracle che prende la mira con l’arco). - πύελος: (cfr. πλύνω «lavare») è la vasca,
collocata all’interno della corte, per rifornire di cibo e acqua gli animali da cortile: il termine non ricorre altrove
in Omero.

554-558. «A lei rispondendo diceva lo scaltro Odisseo: “Donna, non si può interpretare il sogno piegandolo
ad altro senso, ché lo stesso Odisseo ti ha indicato come lo porterà a compimento: per i pretendenti si
affaccia la morte, per tutti, né alcuno potrà sfuggire alla morte e al destino”». Poiché l’apostrofe del v. 555 ὦ
γύναι, se non indirizzata a una moglie (cfr. XVIII 259 e XIX 165), appare rivolta altrove a donne più giovani o
di condizione sociale inferiore (ad es. Melantò in XIX 81), qui si ha forse una sorta di allusione involontaria da
parte di Odisseo alla propria identità. - ἀποκλίναντ(ο): è usato con funzione transitiva come in ‘Omero’, Inno
ad Afrodite 168 (complemento oggetto è ὄνειρον del verso precedente, retto ἀπὸ κοινοῦ anche da
ὑποκρίνασθαι). - πέφραδ(ε): è aoristo II con raddoppiamento di φράζω «indicare». - τελέει: (= τελέσει) è
sottinteso ὄνειρον. Al v. 558 il nesso ridondante θάνατον καὶ κῆρας (o κῆρα) è formulare (2 volte
nell’Iliade, 12 nell’Odissea).

559-569. «Da parte sua gli disse la saggia Penelope: "Straniero, i sogni sono incomprensibili, confusi, né tutti i
segni diventano realtà per i mortali. Due infatti sono le porte dei labili sogni: una è fatta di corno, l’altra
d’avorio. Fra i sogni quelli che passano attraverso l’avorio segato sono ingannevoli recando parole vane; quelli
che escono fuori attraverso il corno levigato portano a compimento messaggi veridici, quando un mortale ne
abbia visione. Ma non credo che quel sogno terribile mi sia venuto di qui: benvenuto sarebbe per me e per
mio figlio». - ἀμήχανοι: (da ἀ privativo e radice di μηχανή) indica che non c’è mezzo per decifrare i sogni,
ἀκριτόμυθοι (cfr. Iliade II 246 Θερσῖτ᾽ ἀκριτόμυθε) che mandano messaggi confusi. Sulle porte dei sogni
del v. 562 cfr. Virgilio, Eneide VI 893-96 Sunt geminae Somni portae; quarum altera fertur / cornea, quae veris
facilis datur exitus umbris, / altera candenti perfecta nitens elephanto, / sed falsa ad ceelum mittunt insomnia
manes e Orazio, Carmina III 27, 40-42 ludit imago / vana quae porta fugiens eburna / somnium ducit. Ai vv.
563-567 c’è un evidente gioco pseudo-etimologico fra ἐλέφαντος (ἔλεφας) «d’avorio» e ἐλεφαίρονται «sono
ingannevoli» (cfr. Iliade XXIII 388 Ἀθηναίην ἐλεφηράμενος ed Esiodo, Teogonia 330 οἰκείων ἐλεφαίρετο
φῦλ᾽ ἀνθρώπων) da un lato, κεράων (κέρας) «di corno» e κραίνουσι «portano a compimento» dall’altro,
ma forse il bisticcio non basta a spiegare l’associazione dell’avorio con l’illusorietà e del corno con la realtà
(ripresa da Platone in Carmide 173a: «ascolta allora il mio sogno, che sia entrato attraverso una porta di corno o
una di avorio»). Occorre anche tener conto che l’avorio era un materiale tradizionalmente usato con funzione
decorativa (cfr. IV 73; VIII 404; XIX 56; XXI 7 e XXIII 200), mentre il corno aveva un impiego più funzionale
– è usato per gli archi di Odisseo (XXI 395) e di Pandaro (Iliade IV 105) – e in XIX 211 è proposto insieme col
ferro come simbolo di durezza e di solidità. Al v. 562 è attribuito ai sogni un epiteto, ἀμενηνῶν (cfr. μένος),
che altrove in Omero si collega ai morti (cfr. X 521 etc. ἀμενηνὰ κάρηνα e Iliade V 887). - τετεύχαται: (cfr.
Iliade XIII 21 s. δώματα … τετεύχαται) è III persona plurale del perfetto medio di τεύχω «fare», «fabbricare».

570-581. «Ma ti voglio dire un’altra cosa, e tu accoglila nel tuo cuore: si avvicina quell’aurora infausta che mi
strapperà alla casa di Odisseo: oggi infatti disporrò per una gara le scuri, tutte e dodici, simili a taccate, che egli
soleva piazzare in fila nella sua casa, e collocandosi a grande distanza vi faceva passare una freccia . Ma ora
questa gara la imporrò ai pretendenti, e colui che con il braccio tenderà l’arco più facilmente e attraverserà
con la freccia tutte le dodici scuri io lo seguirò abbandonando questa casa maritale, bellissima, colma di beni,
che credo ricorderò per sempre, anche in sogno”». Al v. 574 il paragone con i δρύοχοι (cfr. δρῦς e ἔχω), i
supporti o ‘taccate’ usati per puntellare la chiglia di una nave in costruzione, si riferisce alla perfetta dirittura del
tracciato. - διαρρίπτασκεν: è imperfetto frequentativo di διαρρίπτω. Un lungo dibattito ha riguardato la
ricostruzione del modo come le scuri sarebbero state disposte per poter essere attraversate da una freccia: si sono
avanzate ingegnose spiegazioni come quella che immagina le scuri quali scuri votive, col manico terminante in

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Letteratura greca [1]

un anello metallico applicato per appenderle a un chiodo, ma, se si considera che il poeta non offre alcuno
spunto che legittimi l’integrazione di un elemento essenziale taciuto nel testo, la spiegazione più semplice resta
quella secondo cui si tratta di scuri doppie senza il manico, che saranno piantate da Telemaco nella terra da lui
stesso scavata (cfr. XXI 120) e che possono essere attraversate da una freccia all’altezza dell’occhio della lama,
che veniva praticato per infilarvi il manico; e non a caso in XXI 421 s. si dice che Odisseo non mancò la πρώτη
στειλειή, il «primo manico» (cfr. V 236) delle scuri: verosimilmente – come spiegava Eustazio nel suo
commento (1531, 37), e cfr. anche Etymologicum Magnum 726, 52 – una brachilogia per denotare il foro
praticato per il manico.

582-587. «A lei rispondendo diceva lo scaltro Odisseo: “O sposa veneranda di Odisseo Laerziade, non
rimandarla più questa gara dentro la casa: lo scaltro Odisseo arriverà qui prima che costoro, maneggiando
questo arco ben levigato, ne tendano la corda e attraversino con la freccia il ferro”». L’apostrofe molto
formale del v. 583 ricorre anche a XVII 152 e a XIX 165; 263 e 336. L’anafora di πρίν ricorre anche in X 384 s.

T. 10 La prova dellʼarco
Il XXI è il canto della gara del tiro con l’arco ed è giustamente considerato tra i migliori
dell’Odissea per la tensione drammatica che lo pervade. Alla gara con l’arco Penelope già aveva
pensato nel canto XIX e aveva espresso questa sua intenzione ad Odisseo, ma è Atena che
adesso le ispira la concreta sua realizzazione. È per questo che ella raggiunge e apre uno dei
magazzini, sale sul soppalco e stacca dal chiodo l’arco, dono ad Odisseo di Ifito, figlio di Eurito;
come ella chiarisce ai Proci, si tratterà di tendere la grande arma e far passare la freccia attraverso
dodici scuri opportunamente allineate, come soleva fare Odisseo da grande distanza e chi
riuscirà nell’impresa la condurrà sposa. Il primo a cimentarsi è proprio Telemaco (se avessi
successo tratterrebbe definitivamente la madre nella casa di Odisseo). Dopo aver allineato
perfettamente le scuri, con perizia sorprendente, e dopo avere inutilmente tentato per tre volte di
tendere la corda, a un cenno del padre egli desiste, nel momento in cui sta per coronare i suoi
sforzi. Quindi, su proposta di Antinoo i Proci si alzano in fila da destra, a cominciare da dove il
coppiere inizia a mescere il vino: tocca così a Leode, aruspice dei Proci, le cui scarse forze ne
decretano la debacle. È ancora Antinoo a dare quindi l’ordine al capraio Melanzio di accendere
il fuoco e di portare una forma di sego, perché si potesse scaldare e curvare l’arco.
Accorgimento, che via via si cimentano non hanno miglior esito; restano solo Antinoo ed
Eurimaco, i capi riconosciuti dei Proci. Frattanto Filezio ed Eumeo prima, e Odisseo poi, escono
dalla casa. Odisseo, accertatane la fedeltà, si rivela loro. Dà quindi disposizione a Eumeo di
portare l’arco e le frecce attraverso la sala e consegnarglieli quando il Proci si opporranno a
questo. Dovrà dire inoltre alle donne di chiudere la porta che dà nel megaron e restare, qualsiasi
rumore o grido odano, nei loro locali. Filezio dovrà sprangare la porta della corte. Rientrato nella
sala, assiste allo smacco di Eurimaco, che, dopo inutili sforzi, si arrende avvilito. Antinoo
propone allora di sospendere la gara, dato che il paese è in festa per il dio, e di riprenderla
l’indomani. La proposta viene accettata e, deposto l’arco, i Proci libano e bevono a volontà. È a
questo punto che Odisseo interviene, chiedendo che, data la sospensione, diano a lui arco e
frecce, perché possa provare se la vita errabonda e il mancato allenamento gli hanno lasciato
sufficienti energie. Le sue parole suscitano lo sdegno di Antinoo che minacciosamente lo invita
a starsene tranquillo e a non voler rivaleggiare con uomini più giovani. Penelope parla in difesa
dell’ospite e spalleggia le sue richieste, nonostante le preoccupate obiezioni di Eurimaco.
Subentra Telemaco che rivendica il suo diritto di dare l’arco a chi egli decida e, vedendo che
Eumeo, impaurito dalle minacce dei pretendenti, non osa portare l’arco ad Odisseo, lo induce ad
eseguire la consegna. Quindi i due fedeli servi si affrettano a portare a compimento le
disposizioni ricevute da Odisseo.

Odissea, XXI 393-454

Ἕζετ’ ἔπειτ’ ἐπὶ δίφρον ἰών, ἔνθεν περ ἀνέστη,


εἰσορόων Ὀδυσῆα. Ὁ δ’ ἤδη τόξον ἐνώμα
πάντῃ ἀναστρωφῶν, πειρώμενος ἔνθα καὶ ἔνθα,
μὴ κέρα ἶπες ἔδοιεν ἀποιχομένοιο ἄνακτος. 395
Ὧδε δέ τις εἴπεσκεν ἰδὼν ἐς πλησίον ἄλλον·
«Ἦ τις θηητὴρ καὶ ἐπίκλοπος ἔπλετο τόξων·
ἤ ῥά νύ που τοιαῦτα καὶ αὐτῷ οἴκοθι κεῖται,
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Letteratura greca [1]

ἢ ὅ γ’ ἐφορμᾶται ποιησέμεν, ὡς ἐνὶ χερσὶ


νωμᾷ ἔνθα καὶ ἔνθα κακῶν ἔμπαιος ἀλήτης». 400
Ἄλλος δ’ αὖτ’ εἴπεσκε νέων ὑπερηνορεόντων·
«Αἲ γὰρ δὴ τοσσοῦτον ὀνήσιος ἀντιάσειεν,
ὡς οὗτός ποτε τοῦτο δυνήσεται ἐντανύσασθαι».
Ὣς ἄρ’ ἔφαν μνηστῆρες· ἀτὰρ πολύμητις Ὀδυσσεύς,
αὐτίκ’ ἐπεὶ μέγα τόξον ἐβάστασε καὶ ἴδε πάντῃ, 405
ὡς ὅτ’ ἀνὴρ φόρμιγγος ἐπιστάμενος καὶ ἀοιδῆς
ῥηϊδίως ἐτάνυσσε νέῳ περὶ κόλλοπι χορδήν,
ἅψας ἀμφοτέρωθεν ἐϋστρεφὲς ἔντερον οἰός,
ὣς ἄρ’ ἄτερ σπουδῆς τάνυσεν μέγα τόξον Ὀδυσσεύς.
Δεξιτερῇ δ’ ἄρα χειρὶ λαβὼν πειρήσατο νευρῆς· 410
ἡ δ’ ὑπὸ καλὸν ἄεισε, χελιδόνι εἰκέλη αὐδήν.
Μνηστῆρσιν δ’ ἄρ’ ἄχος γένετο μέγα, πᾶσι δ’ ἄρα χρὼς
ἐτράπετο. Ζεὺς δὲ μεγάλ’ ἔκτυπε σήματα φαίνων·
γήθησέν τ’ ἄρ’ ἔπειτα πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς,
ὅττι ῥά οἱ τέρας ἧκε Κρόνου πάϊς ἀγκυλομήτεω. 415
Εἵλετο δ’ ὠκὺν ὀϊστόν, ὅ οἱ παρέκειτο τραπέζῃ
γυμνός· τοὶ δ’ ἄλλοι κοίλης ἔντοσθε φαρέτρης
κείατο, τῶν τάχ’ ἔμελλον Ἀχαιοὶ πειρήσεσθαι.
Τόν ῥ’ ἐπὶ πήχει ἑλὼν ἕλκεν νευρὴν γλυφίδας τε,
αὐτόθεν ἐκ δίφροιο καθήμενος, ἧκε δ’ ὀϊστὸν 420
ἄντα τιτυσκόμενος, πελέκεων δ’ οὐκ ἤμβροτε πάντων
πρώτης στειλειῆς, διὰ δ’ ἀμπερὲς ἦλθε θύραζε
ἰὸς χαλκοβαρής. Ὁ δὲ Τηλέμαχον προσέειπε·
«Τηλέμαχ’, οὔ σ’ ὁ ξεῖνος ἐνὶ μεγάροισιν ἐλέγχει
ἥμενος, οὐδέ τι τοῦ σκοποῦ ἤμβροτον οὐδέ τι τόξον 425
δὴν ἔκαμον τανύων· ἔτι μοι μένος ἔμπεδόν ἐστιν,
οὐχ ὥς με μνηστῆρες ἀτιμάζοντες ὄνονται.
Νῦν δ’ ὥρη καὶ δόρπον Ἀχαιοῖσιν τετυκέσθαι
ἐν φάει, αὐτὰρ ἔπειτα καὶ ἄλλως ἑψιάασθαι
μολπῇ καὶ φόρμιγγι· τὰ γάρ τ’ ἀναθήματα δαιτός». 430
Ἦ, καὶ ἐπ’ ὀφρύσι νεῦσεν· ὁ δ’ ἀμφέθετο ξίφος ὀξὺ
Τηλέμαχος, φίλος υἱὸς Ὀδυσσῆος θείοιο,
ἀμφὶ δὲ χεῖρα φίλην βάλεν ἔγχεϊ, ἄγχι δ’ ἄρ’ αὐτοῦ
πὰρ θρόνον ἑστήκει κεκορυθμένον αἴθοπι χαλκῷ.

392-3. Ἔζετ(ο) … Ὀδυσέα: «Sedette poi sullo sgabello da cui si era alzato, guardando con attenzione
Odisseo». Dopo aver eseguito l’ordine di chiudere le porte dell’atrio, il fedele mandriano Filezio ritorna al suo
posto per assistere Odisseo nel momento cruciale della gara con l’arco.

393-95. Ὁ δ(έ) … ἄνακτος: «E quello già impugnava l’arco, rigirandolo da ogni parte, saggiandolo qua e là, che
i tarli non avessero roso i corni». Ὁ δ(έ) … ἀναστρωφῶν: Qualcosa di simile aveva fatto prima di lui
Eurimaco, ma quello di Odisseo è l’occhio del padrone, che controlla lo stato dell’arma, da tanto tempo inattiva.
- μὴ ... ἔδοιεν: è una completiva giustificata dalla sottintesa idea di timore (l’ottativo è obliquo). - κέρα: è
plurale omerico di κέρας (con abbreviamento della ᾱ davanti a vocale). - ἶπες: sono insetti non identificabili con
precisione, ma evidentemente qui sono una specie di tarli. - ἀποιχομένοιο: presenta la consueta desinenza del
genitivo omerico. Come quello di Pandaro (IV 109 ss.), l’arco è di tipo asiatico, con le due grandi corna tenute
insieme dall’impugnatura centrale (πῆχυς).

396-400. Ὧδε δέ τις … ἀλήτης: «E così qualcuno diceva, rivolto al vicino: “Certo è un osservatore e si
intende di archi: forse anche in casa sua ci sono oggetti così, o costui almeno ha voglia di farsene uno, dato
che in questo modo lo gira in mano da tutte le parti, il vagabondo esperto di sventure”». Il v. 396 è formulare
(= VIII 328, X 37, etc.). - εἴπεσκε: è forma omerica (con suffisso iterativo - σκ) dell’aoristo εἶπον. - θηητήρ:
è nomen agentis da θεάομαι. - ἐπίκλοπος: «furfante» (cfr. κλέπτω), usato anche in accezione positiva, qui
peraltro ironica, di «astuto». - ἔπλετο: è aoristo epico di πέλω (-ομαι). - ποιησέμεν: è infinito futuro epico. -
ἔμπαιος: «esperto», è di etimologia oscura.

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Letteratura greca [1]

401-403. Ἄλλος δ(έ) … ἐντανύσασθαι: «Un altro poi controbatteva, dei giovani arroganti: “Oh, se dunque
costui incontrasse successo, tanto quanto mai potrà tendere quest’arma». - αἰ … ἀντιάσειεν: è desiderativo e
ha come soggetto οὗτος, posposto come soggetto della comparativa. L’augurio è ovviamente dettato da
malanimo. - ὀνήσιος: è genitivo ionico dipendente da ἀντιάσειεν (più che da τοσσοῦτον). - ἐντανύσασθαι:
da ἐντανύω, ionico-omerico per ἐντείνω.

406-409. ὥς ὅτ(ε) … Ὀδυσσεύς: «come quando un uomo esperto di cetra e di canto senza sforzo tende
una corda sul bischero nuovo, attaccando alle due estremità il ben ritorto budello di pecora, così senza sforzo
Odisseo tese il grande arco». - ὥς: ha come correlativo ὣς ἄρα («così appunto») del v. 409. - ἐπιστάμενος:
(part. di ἐπίσταμαι) funziona come aggettivo (cfr. lat. peritus). - νέῳ περὶ κόλλοπι: «sul bischero nuovo». È
stato notato come non ci sia molta analogia tra i due modi di tendere la corda, ma al poeta interessava trasmettere
l’idea dell’estrema facilità con cui l’eroe tende la corda, richiamando un’azione familiare a sé e al suo pubblico
(l’aoristo ἐτάνυσσε è appunto di consuetudine). - ἀμφοτέρωθεν: «alle due estremità», cioè dalla parte dello
ζυγόν (telaio orizzontale) e dei bracci (πήχεις). - ἄτερ σπουδῆς: «senza sforzo».

410-411. Δεξιτερῇ … αὐδήν: «Con la destra prese e saggiò la corda e quella mandò un bel suono, simile nel
trillo a una rondine». - νευρῆς: è genitivo retto dal verbo πειράομαι (πειρήσατο): si tratta di un’operazione
preliminare, senza incoccare la freccia, introduttiva, per così dire, dell’azione del tiro. - ὑπό … ἄεισε: tmesi. -
καλόν: accusativo neutro avverbiale. - εἰκέλη: il dittongo iniziale si spiega come allungamento metrico (per
ἰκέλη). - αὐδήν: accusativo di relazione. È stato osservato che la voce della rondine è qui di buon augurio, in
quanto simboleggia il ritorno (si ricordi il canto dei bambini: «vieni, vieni, rondine»).

412-413. Μνηστῆρσιν δ’ ἄρ’ ἄχος … φαίνων: «Per i pretendenti fu una grande pena: si mutò il colorito.
Zeus tuonò forte, manifestando un segno». - μεγάλ(α): è avverbiale. - ἔκτυπε: aoristo epico di ἐκτυπέω, che
non occorre altrove in Odissea. - σήματα φαίνων: è espressione formulare. Forse ha ragione chi vede nei vv.
412-15 una tarda interpolazione da parte di un poeta particolarmente propenso all’inserimento di interventi divini
(anche in considerazione del fatto che il terrore dei Proci appare prematuro).

414-415. γήθησεν … ἀγκυλομήτεω: «si rallegrò allora il paziente nobile Odisseo per il fatto che, come si
aspettava, gli avesse mandato un portento il figlio di Crono dalla mente tortuosa». - ῥα: ha il valore
asseverativo di «come appunto pensava». - ἧκε: aoristo di ἵημι. - ἀγκυλομήτεω: genitivo ionico, con
desinenza -εω monosillabica per sinizesi, dell’aggettivo ἀγκυλομήτης, epiteto di uso frequente in Iliade. Non si
vede come si possa concordare con alcuni critici, che ritengono l’epiteto particolarmente adatto agli sviluppi di
questa complessa vicenda, visto che esso è qui attribuito a Crono, che non entra per nulla in gioco.

416-418. Εἵλετο … πειρήσεσθαι: «Prese un dardo veloce, che gli giaceva vicino sulla mensa, nudo; gli altri
erano dentro la cava faretra e di essi gli Achei avrebbero di lì a poco fatto prova». - ὁ: è qui pronome relativo,
nom. masch. (un uso ionico-epico, attestato anche nella tragedia). - οἱ: dativo del pronome anaforico (= αὐτῷ). -
γυμνός: il dardo è «nudo», in quanto fuori dalla faretra. Si tratta della freccia che aveva inutilmente cercato di
scoccare Eurimaco. - κείατο: è 3a pers. plur. dell’imperfetto di κεῖμαι, con desinenza ionica. - τῶν …
πειρήσεσθαι: è evidente l’ostilità dell’aedo nei confronti dei Proci, che si esprime in questo sarcastico
compiacimento.

419-423. Τόν ῥ᾽ ἐπὶ πήχει … χαλκοβαρής: «Avendolo appoggiato sull’impugnatura, tendeva corda e cocca
proprio da lì, dallo sgabello, seduto, mirando davanti a sé, e non mancò di tutte le scuri il primo foro, ma
passandole completamente uscì fuori la freccia grave di bronzo». - γλυφίδας: le γλυφίδες sono degli incavi
(cfr. γλύφω) all’estremità della freccia. - δίφροιο: è genitivo con desinenza epica. - ἤμβροτε: aoristo epico di
ἁμαρτάνω, che regge il genitivo πρώτης στειλειῆς. - διά … ἀμπερές: tmesi dell’avverbio διαμπερές (da
διά e ἀμπείρω = ἀναπείρω) «da parte a parte». - θύραζε: avverbio con suffisso -δε di moto a luogo (da
*θύρασδε). - χαλκοβαρής: significa «grave di bronzo», con allusione alla punta della freccia; può essere
anche epiteto di lancia o di elmo.
La dibattutissima questione sulla forma delle scuri e sulla loro disposizione ad opera di Telemaco, ha dato luogo
a spiegazioni diverse di questo passo. Pare accettabile il punto di vista di chi ritiene che si tratti di scuri doppie
piantate nel terreno con l’occhiello per l’inserimento del manico: è attraverso tale foro che passa la freccia, per
cui πρώτη στειλειή (att. στελεά), lett. «primo manico», starebbe per «foro in cui si inserisce il manico».

424-427. Τηλέμαχ(ε) … ὄνονται: «Telemaco, non ti fa fare cattiva figura lo straniero che sta seduto nella tua
sala, né ho mancato il bersaglio, né per qualche verso mi sono stancato cercando a lungo di tendere l’arco: è
ancora saldo il mio vigore, al contrario di come i Proci, insultando, mi biasimano». -Τηλέμαχ(ε) … ἥμενος:
equivale a un cenno di intesa e suona sarcastico a indirizzo dei Proci. - δήν: va con τανύων. _- ἔκαμον: è

57
Letteratura greca [1]

aoristo tematico di κάμνω. - ἔμπεδον: predicato di μένος («vigore») vale «saldo», «intatto». - ὄνονται: il
verbo ὄνομαι, «rimproverare aspramente» è di etimologia oscura.

428-430. Νῦν δ’ ὥρη … δαιτός: «Ora è tempo per gli Achei che si apprestino anche la cena con la luce del
giorno, ma che poi si divertano anche in altro modo, con il canto e con la cetra: questi infatti sono ornamenti
del convito». - τετυκέσθαι: è infinito aoristo medio di τεύχω. - ἐν φάει: il sarcasmo è qui malignamente
divertito: una cena alla luce del giorno! - ἐψιάασθαι: «che si divertano» ignota l’etimologia di questa forma che
presenta distrazione.

431-434. Ἦ, καὶ ἐπ’ ὀφρύσι νεῦσεν … αἴθοπι χαλκῷ: «Disse e fece cenno con i sopraccigli: si cinse la
spada affilata Telemaco, il caro figlio di Odisseo, impugnò la sua asta, infatti stava vicino a lui presso il suo
scanno, armata di fiammeggiante bronzo». - Ἦ: imperfetto, 3a pers. sing. di ἠμί, che Omero usa dopo il
discorso diretto, mentre in attico è usato in espressioni incidentali. - ἀμφέθετο: si noti l’elisione della vocale
finale del preverbio davanti all’aumento, contrariamente a quanto avviene in attico. - ἀμφί … βάλεν: tmesi. -
φίλην: ha qui il valore, solito in Omero, di possessivo. - ἄγχι … ἑστήκει: «infatti stava vicino a lui presso il
suo scanno»: l’espressione ἄγχι αὐτοῦ è già nell’Iliade (ἑστήκει è ppf. di ἵστημι). La frase va intesa come un
inciso con soggetto sottinteso ἔγχος. Meno bene chi intende «stette vicino a lui», con sogg., Telemaco e
αὐτοῦ riferito a Odisseo. Le anomalie riscontrate nel passo sono in gran parte poco fondate e si riducono
intendendo l’espressione così come si è proposto. - κεκορυθμένον: il participio, riferito al sottinteso ἔγχος
(«asta armata di fiammeggiante bronzo») è correzione del tradito κεκορυθμένος, che sarebbe riferito a
Telemaco, frutto di una evidente banalizzazione.

Oltre il ritorno

Diventare πολύτροπος, attraversare l’irreale vincendo l’orrore della morte dei compagni, la
solitudine, l’ira degli dèi, il confronto con i defunti ha tuttavia il suo rovescio. Per Odisseo
significa non solo separare se stesso dal proprio passato familiare e sociale ma annegare la
propria fisionomia intellettuale nella multiforme varietà dell’esperienza. La ‘politropia’ rischia
di rappresentare la negazione delle radici biografiche di Odisseo come guerriero, cioè della sua
discendenza da quell’Autolico, padre di Anticlea, che «eccelleva fra gli uomini nel furto e nello
spergiuro» (XIX 395 s.) e che un tempo, dopo essere giunto alle pendici del Parnaso «covando
odio per molti, uomini e donne» (XIX 407 s.), aveva assegnato al neonato, in memoria della
propria vicenda di transfuga iroso (ὀδυσσάμενος), il nome di Ὀδυσ(σ)εύς, che viene a
significare ad un tempo «colui che odia» e «colui che è odiato»: se infatti nell’immediato
contesto il valore di Ὀδυσ(σ)εύς rimanda a una forma attiva di odio, in altri quattro passi del
poema (cfr. I 62; V 340 e 423; XIX 275) come nel fr. 965 Radt di Sofocle – «giustamente mi
chiamo Odisseo per le mie sventure: molti infatti sono i nemici che mi hanno preso in odio
(ὠδύσαντο)» – l’eroe è presentato, col ricorso al verbo ὀδύσσομαι, come oggetto di odio.
Lì, nel nuovo insediamento di Autolico, Odisseo adolescente aveva superato la sua prova di
iniziazione cacciando con gli zii materni un grande cinghiale che egli stesso aveva abbattuto con
l’asta (XIX 448) non senza che l’animale gli lasciasse, strappando con una zanna un lembo di
carne, quella cicatrice che tanto per Euriclea quanto per Laerte funzionerà da segno irrefutabile
di identificazione.
Odisseo ha ricevuto la prima educazione alla caccia, e dunque alle opere della guerra, dal nonno
materno, mentre dal padre Laerte ha appreso (cfr. XXIV 336-44) le opere della pace e
dell’agricoltura; anzi, era stato lo stesso Laerte a spedirlo presso Autolico (XXIV 333)
delegando al suocero la trasmissione dei valori competitivi.
Sperduto per sette anni, dopo le peregrinazioni narrate negli Apologhi, in un’isola al centro del
mare, segregato dal contatto con gli uomini per volere di una ninfa (Calipso) che vorrebbe farlo
immortale, l’Odisseo reduce dalle sue esperienze di navigatore ci appare da ultimo come un
sopravvissuto affondato in uno stato di inerzia da cui può trarlo solo un intervento esterno
(divino) – la sollecitudine di Atena e la missione di Ermes presso Calipso –, risospingendolo al
ricordo della patria. Eppure, nonostante la recuperata destrezza artigianale che gli consente di
costruire una zattera in grado di attraversare immense distese marine, l’uomo che approda a
Scheria è un derelitto che, trovato riparo presso la costa, non appena si desta all’udire un grido
di fanciulle apre il suo perplesso monologo con un desolato «ahimé» (VI 119).

58
Letteratura greca [1]

Abbrutito dalla salsedine, soffre uno stato di degrado che lo fa assimilare a un leone sospinto
dallo stimolo della fame (VI 130-134: lo stesso sgomento Odisseo proverà all’arrivo a Itaca, che
non riconoscerà a causa della nebbia versatagli da Atena).
La macchia sulla riva di Scheria in cui si è nascosto è gemella della macchia sul Parnaso in cui
un giorno cacciò il cinghiale insieme con i figli di Autolico, tanto che i vv. 440-42 del canto XIX
sono pressoché uguali ai vv. 478-80 del canto V: si confronti

V 478-481

(I due cespugli cresciuti insieme da un ceppo di oleastro e da uno di olivo)

non li attraversava la furia dei venti che spirano umidi


né mai li feriva con i suoi raggi il fulgore del sole
né vi penetrava la pioggia, tanto intrecciati
480
L’uno all’altro erano cresciuti.

con XIX 440-443:

(La macchia in cui si era acquattato il cinghiale)

non la attraversava la furia dei venti che spirano umidi


né mai la feriva con i suoi raggi il fulgore del sole
né vi penetrava la pioggia, tanto folta
era...

Per intraprendere la via della reintegrazione fra gli uomini Odisseo deve immergersi in un
analogo anfratto al riparo dai venti, dal sole, dalla pioggia. Alla prova di iniziazione sul Parnaso,
che gli aveva procurato i doni del nonno e il ritorno a Itaca quale potenziale successore di Laerte,
corrisponde l’ingresso in una città di navigatori (i Feaci) che di lì a poco gli garantiranno il
ritorno alla sua casa e al suo ruolo di sovrano, padre, marito.
Odisseo potrà realizzare sino in fondo questo ritorno solo ridiventando ciò che era stato, l’uomo
dell’odio e della cicatrice, il guerriero «distruttore di città» che un giorno era entrato in Troia e
che ora, rimesso piede nel palazzo avito, saprà sterminare con l’aiuto di una sparuta schiera di
seguaci un folto stuolo di giovani principi di Itaca e delle isole vicine.
La duttilità del polpo deve rientrare negli argini al cui interno è uno strumento operativo, deve
trasporsi nella destrezza dell’arciere che coglie il bersaglio e che, al momento opportuno,
conosce la dura impassibilità di chi persegue il suo fine senza smarrirsi di fronte ai moti
dell’animo altrui.
Così, se per due volte Odisseo aveva ceduto al pianto ascoltando il racconto di Demodoco e se,
prima di entrare nella sua casa, ha bisogno di detergersi una lacrima per sfuggire allo sguardo di
Eumeo notando lo scodinzolio del cane Argo (XVII 304), al contatto con la prorompente
commozione che il proprio falso racconto suscita in Penelope prova sì profonda pietà, ma i suoi
occhi restano tranquilli dietro le palpebre immobili, «quasi fossero corno o ferro» (XIX 211 s.).
Simulatore a oltranza, perfino di fronte al padre Laerte, che per l’assenza del figlio si è ridotto a
uno stato di degrado umiliante (cfr. XXIV 227 ss.: «indossava una tunica lercia, rattoppata,
indecente, e intorno alle gambe portava gambiere cucite di cuoio per proteggersi dai graffi, sulle
mani guanti per le spine, e sopra la testa teneva un berretto di pelle di capra»), riesce a occultare
la pena fermandosi a piangere sotto un pero e, piuttosto che gettargli le braccia al collo,
preferisce «metterlo alla prova con parole provocatrici» (XXIV 240).
Una drastica terapia per debellare l’apatia del vecchio, un modo per destare gradualmente
l’attenzione e la curiosità dell’interlocutore, ma altresì il pieno recupero di meccanismi di
autocontrollo che, proprio perché esercitati così inflessibilmente di fronte ai suoi stessi cari, si
dimostrano retaggio di lunga data, inclinazione radicatasi fin dagli albori della maturità.
Rientrato nello spazio della sua casa, ritornato fin dall’approdo a Scheria a essere il protetto di
Atena piuttosto che di Circe (le istruzioni di Atena nel canto XIII sono il pendant di quelle di
Circe in XII 37 ss.), il πολύτροπος dei Canti del Ritorno si trasforma in un ὑπότροπος
(«reduce»), che è poi l’unico composto in -τρόπος che ricorra nel poema a partire dal momento
59
Letteratura greca [1]

in cui Odisseo si è reintrodotto nel suo palazzo (compariva ἀπότροπος, in riferimento a


Eumeo, in XIV 372, mentre ὑπότροπος ricorre anche in Iliade VI 367 e 501).
In XX 332 l’aggettivo viene usato da uno dei pretendenti (Agelao Damastoride) all’interno di un
contesto negativo che vorrebbe smentire la possibilità del ritorno dell’eroe (Agelao ricorda a
Telemaco che ormai è passato il tempo in cui lui e sua madre potevano aspettarsi che Odisseo
«giungesse reduce a casa»); in XXI 211 è impiegato dallo stesso Odisseo, nel momento in cui si
fa riconoscere da Eumeo e da Filezio, per dichiarare che nessun altro dei servi al di fuori di loro
ha pregato che egli tornasse a casa (ὑπότροπον ἱκέσθαι ); infine, in XXII 35 s., l’apostrofe di
Odisseo ai pretendenti

Cani, non credevate che sarei venuto reduce in patria


dalla contrada dei Troiani!

introduce la rivelazione dell’identità del figlio di Laerte quando Antinoo è già stato colpito
mortalmente alla gola.

T. 11 Senza fine
E tuttavia, quasi a marcare la resistenza della storia a una chiusura serenamente pacificata, la
‘politropia’ annuncia la propria rivincita in una prospettiva che va al di là dei limiti formali del
testo, ma che lo stesso eroe pone in luce allorché avverte Penelope di non essere ancora giunto
alla fine di tutte le prove perché, secondo quanto gli ha predetto Tiresia (cfr. ΧΙ 118-37), ancora
lo attende «smisurata fatica».
Il sospirato ritorno rappresenta infatti un approdo precario, destinato a essere superato da una
nuova partenza e da nuove peripezie (ΧΧΙΙΙ 241-288):

Odissea, XXIII 241-288

Καί νύ κ’ ὀδυρομένοισι φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,


εἰ μὴ ἄρ’ ἄλλ’ ἐνόησε θεὰ γλαυκῶπις Ἀθήνη.
Νύκτα μὲν ἐν περάτῃ δολιχὴν σχέθεν, Ἠῶ δ’ αὖτε
ῥύσατ’ ἐπ’ Ὠκεανῷ χρυσόθρονον οὐδ’ ἔα ἵππους
ζεύγνυσθ’ ὠκύποδας φάος ἀνθρώποισι φέροντας,
245
Λάμπον καὶ Φαέθονθ’, οἵ τ’ Ἠῶ πῶλοι ἄγουσι.
Καὶ τότ’ ἄρ’ ἣν ἄλοχον προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·
«Ὦ γύναι, οὐ γάρ πω πάντων ἐπὶ πείρατ’ ἀέθλων
ἤλθομεν, ἀλλ’ ἔτ’ ὄπισθεν ἀμέτρητος πόνος ἔσται,
πολλὸς καὶ χαλεπός, τὸν ἐμὲ χρὴ πάντα τελέσσαι.
250
Ὣς γάρ μοι ψυχὴ μαντεύσατο Τειρεσίαο
ἤματι τῷ, ὅτε δὴ κατέβην δόμον Ἄϊδος εἴσω,
νόστον ἑταίροισιν διζήμενος ἠδ’ ἐμοὶ αὐτῷ.
Ἀλλ’ ἔρχευ, λέκτρονδ’ ἴομεν, γύναι, ὄφρα καὶ ἤδη
ὕπνῳ ὕπο γλυκερῷ ταρπώμεθα κοιμηθέντες».
255
Τὸν δ’ αὖτε προσέειπε περίφρων Πηνελόπεια·
«Εὐνὴ μὲν δὴ σοί γε τότ’ ἔσσεται, ὁππότε θυμῷ
σῷ ἐθέλῃς, ἐπεὶ ἄρ σε θεοὶ ποίησαν ἱκέσθαι
οἶκον ἐϋκτίμενον καὶ σὴν ἐς πατρίδα γαῖαν·
ἀλλ’ ἐπεὶ ἐφράσθης καί τοι θεὸς ἔμβαλε θυμῷ,
260
εἴπ’ ἄγε μοι τὸν ἄεθλον, ἐπεὶ καὶ ὄπισθεν, ὀΐω,
πεύσομαι, αὐτίκα δ’ ἐστὶ δαήμεναι οὔ τι χέρειον».
Τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·
«Δαιμονίη, τί τ’ ἄρ’ αὖ με μάλ’ ὀτρύνουσα κελεύεις
εἰπέμεν; Αὐτὰρ ἐγὼ μυθήσομαι οὐδ’ ἐπικεύσω.
265

60
Letteratura greca [1]

Οὐ μέν τοι θυμὸς κεχαρήσεται· οὐδὲ γὰρ αὐτὸς


χαίρω, ἐπεὶ μάλα πολλὰ βροτῶν ἐπὶ ἄστε’ ἄνωγεν
ἐλθεῖν, ἐν χείρεσσιν ἔχοντ’ εὐῆρες ἐρετμόν,
εἰς ὅ κε τοὺς ἀφίκωμαι, οἳ οὐκ ἴσασι θάλασσαν
ἀνέρες οὐδέ θ’ ἅλεσσι μεμιγμένον εἶδαρ ἔδουσιν·
270
οὐδ’ ἄρα τοὶ ἴσασι νέας φοινικοπαρῄους
οὐδ’ εὐήρε’ ἐρετμά, τά τε πτερὰ νηυσὶ πέλονται.
Σῆμα δέ μοι τόδ’ ἔειπεν ἀριφραδές, οὐδέ σε κεύσω·
ὁππότε κεν δή μοι ξυμβλήμενος ἄλλος ὁδίτης
φήῃ ἀθηρηλοιγὸν ἔχειν ἀνὰ φαιδίμῳ ὤμῳ,
275
καὶ τότε μ’ ἐν γαίῃ πήξαντ’ ἐκέλευσεν ἐρετμόν,
ἕρξανθ’ ἱερὰ καλὰ Ποσειδάωνι ἄνακτι,
ἀρνειὸν ταῦρόν τε συῶν τ’ ἐπιβήτορα κάπρον,
οἴκαδ’ ἀποστείχειν ἕρδειν θ’ ἱερὰς ἑκατόμβας
ἀθανάτοισι θεοῖσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσι,
280
πᾶσι μάλ’ ἑξείης· θάνατος δέ μοι ἐξ ἁλὸς αὐτῷ
ἀβληχρὸς μάλα τοῖος ἐλεύσεται, ὅς κέ με πέφνῃ
γήρᾳ ὕπο λιπαρῷ ἀρημένον· ἀμφὶ δὲ λαοὶ
ὄλβιοι ἔσσονται. Τὰ δέ μοι φάτο πάντα τελεῖσθαι».
Τὸν δ’ αὖτε προσέειπε περίφρων Πηνελόπεια·
285
«Εἰ μὲν δὴ γῆράς γε θεοὶ τελέουσιν ἄρειον,
ἐλπωρή τοι ἔπειτα κακῶν ὑπάλυξιν ἔσεσθαι».
Ὥς οἱ μὲν τοιαῦτα πρὸς ἀλλήλους ἀγόρευον.

241-246. «E certo sarebbe apparsa Aurora dalle dita di rosa mentre ancora piangevano se altro non avesse
meditato Atena, la dea dagli occhi azzurri. Prolungò la notte all’orizzonte e dall’altra parte trattenne Aurora
dall’aureo trono sopra l’Oceano, né le permetteva si aggiogare i cavalli veloci che portano luce ai mortali,
Lampo e Fetonte, i puledri che portano Aurora». Inversamente, in Iliade XVIII 239-242, Era, per dare sollievo
agli Achei stremati dalla battaglia, induce il Sole ad anticipare suo malgrado il tramonto. - ἐν περάτῃ: (cfr.
πέρας e πεῖραρ) presente solo qui in Omero, significa «al limite estremo (del cielo)» e dunque «all’orizzonte»
piuttosto che «al termine (della notte)». - δολιχήν: ha funzione predicativa in nesso con σχέθεν (= ἔσχεν)
«trattenne allungandola», «prolungò». - ἐπ᾽ Ὠκεανῷ: indica la riva del fiume Oceano che circonda la terra: lì,
sull’isola Eea, com’è detto in XII 3 s., Aurora ha «la casa e gli spiazzi di danza e la levata del sole». Al v. 246
Lampo e Fetonte sono nomi parlanti (il Lampeggiante e il Luminoso) e corrispondono a quelli delle due ninfe,
Φαέθουσα e Λαμπετίη, che custodiscono la mandria del Sole (XII 132). Sulla formula πολύμητις
Ὀδυσσεύς vedi a pag. xxx.

247-255. «E allora diceva alla sua sposa lo scaltro Odisseo: “Donna, non siamo ancora giunti al termine di tutte
le prove, ma in futuro mi attende smisurata fatica, lunga e dura, che bisogna che io affronti sino in fondo. Così
mi vaticinò l’anima di Tiresia il giorno in cui discesi alla casa di Ade cercando la via del ritorno per i compagni e
per me stesso. Su, vieni, andiamo a letto, donna, affinché, coricandoci per impulso del dolce sonno, possiamo
goderne”». Al v. 248 γάρ presuppone un pensiero inespresso («basta con le lacrime!» o sim.). I vv. 251-253
rimandano all’incontro con nell’oltretomba con l’indovino Tiresia in XI 90-151. Il v. 255 è identico a IV 295
(Telemaco a Menelao) e a Iliade XXIV 636 (Priamo ad Achille): qui Heubeck parafrasa con «(che noi,) andati a
riposare sotto la coltre del dolce sonno, troviamo piacevole soddisfazione» e aggiunge che «rispetto a IV 295 e
Iliade XXIV 636 è diverso il contenuto: qui sono due coniugi, a lungo separati, ad andare a letto»; ma la frase è
identica e ὕπνῳ ὕπο, anche se non dipende da ταρπώμεθα (congiuntivo dell’aoristo II medio di τέρπω) e
denota la motivazione o causa dell’azione o dello stato espressi dal verbo (i due si coricano spinti dal sonno),
rappresenta pur sempre la fonte e il contenuto della τέρψις. La reticenza di Odisseo sull’eros ben si accorda con
la preoccupazione appena espressa per l’ultima, penosa impresa che ancora lo attende, e su questo tema lo
interroga subito dopo Penelope. Il dato dell’amplesso è taciuto e il massimo che in questa direzione il testo
giunga ad esprimere sarà la frase del v. 300 «quando ebbero gustato il dolce amore» (frase che per altro si riferisce
all’evento quando ormai è concluso).

256-262. «Da parte sua gli disse la saggia Penelope: “Il letto sarà pronto per te ogni volta che in cuore vorrai,
ora che gli dèi ti hanno fatto arrivare alla casa ben edificata e alla terra dei padri, ma poiché ci hai pensato e un

61
Letteratura greca [1]

dio te l’ha posta nell’animo, dimmi di questa prova perché comunque, credo, verrò a saperla in futuro, e certo
non è peggio conoscerla subito”». - ἵκέσθαι: l’infinito dipende da ποίησαν: «hanno fatto sì che tu arrivassi».
Il v. 259 è un verso formulare specificamente odissiaco (6 volte); in altri tre casi troviamo εἰς ὑψόροφον in
luogo di ἐϋκτίμενον. Il v. 260 replica XIX 485. - δαήμεναι: (= δαῆναι) è infinito dell’aoristo passivo, privo
di presente, ἐδάην (cfr. διδάσκω).

263-272. «A lei rispondendo diceva lo scaltro Odisseo: “Pazza, perché insisti di nuovo che io parli? Bene, dirò,
non lo terrò nascosto. Ma non avrà gioia il tuo animo, e neppure io ne godo, perché mi ordinava di andare
per moltissime città di mortali reggendo un remo maneggevole finché arrivassi fra uomini che non conoscono
il mare né mangiano cibo condito con sale né sanno di navi dalle guance purpuree o di maneggevoli remi che
delle navi sono le ali». Odisseo aveva apostrofato la moglie con δαιμονίη – propriamente «posseduta da un dio»
e quindi «pazza» – già al v. 166 (e Penelope aveva replicato con δαιμόνι᾽ del v. 174). - κεχαρήσεται: è futuro
medio con raddoppiamento di χαίρω. La sequenza πολλὰ βροτῶν ἐπὶ ἀστε᾽ del v. 267 è una formula
specificamente odissiaca (presente 4 volte). I vv. 268-284 ripetono con variazioni minime, per lo più
condizionate dal passaggio dalla II alla I persona, XI 21-137. - εὐῆρες: l’aggettivo (da εὖ e radice di
ἀραρίσκω), già attestato in miceneo nella forma e-u-wa-re, indica che il remo ben si adatta alla presa della
mano. Anomala, ma ben attestata anche altrove in Omero, la scansione – –  (in luogo di  – ) per ἴσασι al
v. 269 e al v. 271. - ἅλεσσι: (dativo plurale eolico di ἅλς, cfr. lat. sal) è plurale generalizzante: «il sale». -
φοινικοπαρῄους: (da φοῖνιξ «porpora» e παρηΐς «guancia») è attestato solo qui e a 11, 124, cfr. IX 125 νέες
… μιλτοπάρῃοι: le fiancate delle navi erano spesso dipinte di rosso ocra su entrambi i lati della prua (cfr.
Erodoto III 58, 2).

273-284. «E mi indicò un segno chiarissimo che non ti celerò. Quando un altro viandante dirà, incontrandomi,
che sulla spalla lucente porto un ventilabro, mi ordinò che allora, dopo aver piantato in terra il remo e aver
immolato vittime belle a Posidone sovrano – un ariete, un toro, un verro che monta le scrofe –, tornassi a
casa e offrissi sacre ecatombi agli dèi eterni che il vasto cielo possiedono, a tutti uno per uno; e per me la
morte verrà dal mare così mite da prendermi ormai sfinito da splendida vecchiaia, e intorno ci sarà gente
beata. E mi diceva che tutto questo avrà compimento”». - ἀθηρηλοιγόν: «ventilabro», «vaglio», è hapax
formato su ἀθήρ «pula» e λοιγός «distruzione» (cfr. βροτολοιγός). Al v. 278 «l’offerta tripartita a Posidone»
(che sarà detta più tardi τριττύα e che corrisponde al rito romano dei suovetaurilia) non è ricordata altrove in
Omero: si tratta di un’offerta espiatoria per placare l’ira del dio, irato per l’accecamento del figlio Polifemo, a cui
dovrà seguire, al momento del ritorno in patria, un’offerta di ringraziamento (vv. 279 s.). Su ἐξ ἁλός «dal mare»
del v. 281 vedi sotto. - πέφνῃ è congiuntivo dell’aoristo II con raddoppiamento ἔπεφνον (θείνω).

285-288. «Da parte sua gli disse la saggia Penelope: “Se migliore gli dèi ci renderanno la vecchiaia, allora puoi
sperare che per te ci sia liberazione dai mali”. Così essi conversavano fra loro». Al v. 386 ἄρειον
(comparativo, cfr. ἀρετή) ha funzione predicativa in nesso con τελέουσιν (futuro). Il sostantivo ὑπάλυξις (cfr.
ὑπαλύσκω «sfuggire») del v. 287 compare altrove in Omero solo in Iliade XXII 270 οὔ τοι ἔτ᾽ ἔσθ᾽
ὑπάλυξις.

Ai vv. 281 s. (= XI 134 s.) il vago ἐξ ἁλός nella frase «la morte verrà dal mare» è stato talora
inteso come «lontano dal mare»7 dato che una morte proveniente «dal mare» parrebbe in
contrasto con l’avvenuta riconciliazione di Odisseo con Posidone, ma questa esegesi sembra
esclusa dal nesso col verbo di moto ἐλεύσεται «verrà»8 e il testo diventa interpretabile in modo
piano se ammettiamo un’allusione alla tradizione secondo cui, come poi verso la metà del VI
secolo a.C. nella Telegonia attribuita a Eugammone di Cirene, nell’Odisseo punto da un aculeo
di Sofocle (frr. 453-461 Radt) e nei Niptra di Pacuvio, Odisseo moriva ferito dal pungiglione di
una razza usato come punta della lancia da Telegono, figlio suo e di Circe, sbarcato a Itaca in
cerca del padre ma da questi aggredito perché scambiato per un ladro di armenti.
Muovendo da questa traccia lo stesso Eugammone se non già qualcuno prima di lui deciderà,
riutilizzando l’Odissea come opera aperta, di chiuderne la trama con Telegono e Telemaco che,
riconosciutisi fratelli, trasferiscono presso Circe nell’isola Eea per ordine di Atena sia Penelope
che la salma del padre, così facendo da ultimo del nostro eroe un paradossale ὑπότροπος a

7
Per ἐξ «lontano da» cfr. XVI 258 = XIX 7 ἐκ καπνοῦ e XIX 537 ἐξ ὕδατος e Iliade XIV
130 ἐκ βελέων.
8
Cfr. IV 401 ἐξ ἁλὸς εἶσι γέρων e 448 φῶκαι ἐξ ἁλὸς ἦλθον e vedi Danek 1998, pp. 225-
228.
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Letteratura greca [1]

rovescio che, invertita l’antica rotta, torna, per trovarvi sepoltura, nell’isola della dea che un
giorno lo aveva consacrato πολύτροπος.

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