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Maestri di verità
Quelli che Detienne chiama “maestri di verità” sono nel mondo omerico gli aedi: depositari
del sapere e della tradizione, incaricati di conservare la conoscenza oralmente, fissarla e
diffonderla; essi sono maestri della parola e della memoria, due concetti inscindibili poiché il
primo è fondato sulla pratica del secondo.
Nella Grecia arcaica ci sono altri due tipi di maestri di parola: l’araldo, che controlla la
dimensione temporale del presente (non serba memoria del passato, ma è maestro di verità
di avvenimenti presenti), e l’indovino, che predice la dimensione temporale del futuro; aedi,
araldi ed indovini sono quindi i tre grandi protagonisti della parola.
L’aedo è un cantore professionista, protagonista della fase orale di composizione dei poemi
omerici, nella quale la materia letteraria prende forma oralmente; gli aedi fondamentali
dell’epica omerica sono due: Femio, aedo che si esibisce ad Itaca anche per i Proci, e
Demodoco, aedo che allieta i banchetti della corte dei Feaci, entrambi cantori attivi
nell’Odissea. L’aedo è però di fatti una figura pressoché assente nell’Iliade: vi si fa
riferimento, ma come personaggio non è presente vista la natura di poema di guerra
dell’Iliade; nell’Odissea, invece, poiché prendono il sopravvento le corti, si affaccia anche la
figura dell’aedo, il cui pubblico consueto è costituito dall’aristocrazia di palazzo, benché egli
possa anche esibirsi all’aperto e rivolgersi ad una comunità più ampia. La figura dell’aedo è
ben definita sin dall’età micenea, in cui ha un ruolo sociale ben riconosciuto e rilevante, che
mantiene anche durante il Medioevo ellenico; egli è un “professionista della parola”, in
greco “demioergos”, “artigiano”, definizione che include anche carpentieri, medici,
falegnami e chiunque altro lavori per il popolo; la parola comprende la nozione
fondamentale del popolo (inteso come gente che abita in un palazzo, originariamente quello
miceneo, beneficiando dell’attività dei “demioergoi”; notevole è che il nome dell’aedo
Demodoco comprenda in sé la radice del termine “demos”, così come il nome del
famosissimo medico di età arcaica (VI secolo a.C.) Democede, originario di Crotone, poi
attivo a Samo e ad Atene e soprattutto in Persia dove guarisce Atossa e Dario e viene
perseguitato dai Persiani (vedi libro III “Storie” di Erodoto al riguardo); questi due nomi sono
solo esemplificativi di una tendenza esistente fin dal XII secolo a.C., limite inferiore estremo
di cui l’epos omerico tiene conto.
Nel XVII canto dell’Odissea sono definiti “demioergoi” il medico, il falegname e l’aedo; nel
XIX “demioergos” è invece epiteto dell’araldo (a proposito di tale figura è certamente utile
ricordare che Solone nell’ “Elegia per Salamina” riportata da Plutarco si autodefinisce
araldo); questo avviene perché le figure dell’araldo e dell’aedo sono molto vicine; una
differenza chiave fra aedo e araldo è la libertà narrativa di cui l’aedo gode parlando del
passato, visto che egli non è tenuto come l’araldo a parlare di fatti, ma è guidato dalla Musa
che lo spinge a parlare dell’argomento e a sviluppare la trama liberamente, ampliando o
riducendo sezioni narrative, dando una sorte variabile ai personaggi pur rimanendo nel
solco narrativo e imprimendo la propria personalità nel racconto che non segue argini
predefiniti; in questo, l’aedo è molto simile all’indovino, e infatti viene considerato una
figura divina in quanto ispirato dalla Musa (aggettivi classici per l’aedo sono “terios”,
“ispirato”, e “thespis”, “divino”), proprio come l’indovino viene ispirato dal dio a cui si
rivolge; non è un caso infatti che Demodoco sia cieco, come solitamente è il “prophetes” che
attraverso tale tratto entra in comunicazione diretta con una dimensione oltre-mondana;
tale è la specificità dell’aedo tanto rispetto all’araldo quanto rispetto all’indovino: laddove
l’araldo è vincolato dai fatti presenti e l’indovino è passivamente “sottomesso” alla guida
della divinità che lo ispira, l’aedo è libero di creare ispirato dalla divinità.
A partire dalla fine del VII secolo a.C. e nel VI secolo a.C. il maestro della parola diventa il
“sophos”, “sapiente”, figura inesistente prima di allora; tale figura conserva la capacità di
creare dell’aedo differenziandosene con la declinazione pratica di essa; nel V secolo a.C. ci
sono solo i primi “sophoi”, uomini d’azione interessati al benessere della polis, cioè i celebri
Sette Saggi (o Sette Sapienti): Platone è il primo a farne un elenco. A seconda delle tradizioni
le figure presenti in esso cambiano, ma quattro personaggi che vi compaiono sempre sono
Biante, Pittaco, Solone e Talete; tutte queste figure sono maestri di parola, ma anche poeti,
che scrivono liberamente e creano opere pur essendo politicamente impegnati: Talete sarà
noto anche come filosofo, ma è un uomo attivo politicamente al pari di Pittaco.