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DIDATTICA DEL GRECO

01.03.2022

Vedremo come entra in azione un modulo tematico, come farlo funzionare. C’è stato e continua ad esserci
un dibattito che ha contrapposto l’unità didattica (unità d’apprendimento/segmento didattico = sinonimi) al
modulo, perché il modulo è qualcosa di molto più ampio rispetto all’unità didattica. Essa è funzionale ad
una lettura tecnicistica dei testi: durante la triennale abbiamo visto come sia funzionale all’apprendimento
di determinate unità. Per es, possiamo utilizzare un testo di Cicerone o Tucidide solo per imparare a
coniugare i verbi irregolari della prima classe, dunque consideriamo il testo a prescindere dal suo
contenuto. Il modulo, invece, cerca di superare questo problema della lettura tecnicistica e pone l’accento
sui contenuti e sui valori, per cui lo studente attraverso la lettura di un testo, interpreta quel testo e
costruisce proprio un universo di valori, interpreta la realtà. Dunque, le potenzialità del modulo rispetto
all’unità didattica sono evidenti.

Esistono diverse tipologie di modulo:

 tematico (es. su un tema antropologico);


 su un genere;
 su un autore;
 su un periodo storico.

Durante un anno scolastico si possono presentare più moduli. In questo modo si garantisce un approccio
diversificato alla letteratura. Poi si devono avere varie accortezze: non si deve sganciare il modulo
dall’aspetto cronologico, dunque bisogna legare le cose: da una parte il modulo tematico ma al tempo
stesso si deve conciliare un aggancio all’asse storico-cronologico. Si devono evidenziare le potenzialità di
attualizzazione e questo lo si fa soprattutto col modulo tematico. Bisogna evidenziare le differenze tra
passato e presente, dunque NON si deve favorire una fruizione acritica perché è vero che la nostra lingua
deriva da quella greca, ma anche notevole il diverso significato assume nel tempo.

BINOMIO NOTTE-AMORE

Oggi diamo per scontato che la notte sia associata all’eros. Ma quando nasce per la prima volta questo
binomio?

Nella fotocopia abbiamo un passo di Romeo e Giulietta: la seconda scena del II atto e la… accomunate
dall’essere scene notturne e in cui è presente il binomio ora notturna-amore. Questo è un testo cardine
della letteratura occidentale e in esso vediamo presente questo motivo, molto diffuso in età romantica
(800) e trova espressione ai massimi livelli in Shakespeare. Dunque occorre vedere i motivi che ne stanno
alla base e questo richiede la conoscenza dei greci, anche se la letteratura greca era sconosciuta a
Shakespeare. D’altra parte, molta parte della letteratura greca in cui è attestato questo binomio (es.
Misoumenos di Menandro) è venuta alla luce recentemente, dunque è chiaro che Shakespeare non
conoscesse questi testi. Dunque, è un’operazione lecita scorgere i greci dietro il motivo di Shakespeare
anche se lui non li conosceva? SI, perché la fruizione non è diretta, infatti, Shakespeare conosceva l’elegia
latina che si ispira ai modelli greci, dunque funge da mediatrice: i motivi presenti nell’epos omerico
giungono a Shakespeare tramite l’elegia latina, non direttamente.
Arte allusiva > ne parla per la prima volta Giorgio Pasquali in un saggio del 1942 pubblicato sull’”Italia che
scrive” (rivista). Siamo in una fase di crocianesimo, che ha una concezione idealizzata del testo letterario:
Benedetto Croce eredita dal romanticismo l’idea del genio poetico e questo fa mettere in secondo piano i
modelli letterari. Giorgio Pasquali, invece, parlando di arte allusiva, dice che un poeta è sempre in dialogo
con i suoi predecessori e allude costantemente a loro, dunque, c’è un dialogo costante tra due soggettività
letterarie; ma perché l’allusione abbia effetto serve un pubblico di lettori colto, che possa cogliere il
riferimento letterario. L’arte allusiva, quindi, presuppone quindi sempre la presenza di un lettore dotto.

Il poeta che allude ad un altro lo fa perché animato da passione (amore o odio).

Nel nostro caso, Shakespeare non conosce Omero, dunque non possiamo parlare di arte allusiva. Parliamo
invece di INETRTESTUALITA’, concetto molto più ampio: può intendere che alcuni temi diventano topoi,
dunque così consolidati nella langue letteraria da diventare un luogo comune. Per esempio, se in una
canzone leggera della musica pop italiana troviamo il motivo della fiamma d’amore, dobbiamo pensare che
quel cantante sta alludendo ad Omero o a Saffo? NO, però evidentemente si tratta di motivi così consolidati
e diffusi che hanno raggiunto la nostra contemporaneità. Non sempre, dunque, c’è l’allusione precisa ad un
testo ma si tratta di motivi giunti ai nostri giorni. Per dire che c’è un’allusione precisa dobbiamo avere
segnali molto forti e deve essere plausibile dal punto di vista della tradizione letteraria (= non possiamo
inventarci che Shakespeare abbia attinto ad Omero se non lo conosceva).

Questa che vediamo è una scena notturna nell’orto dei Capuleti e ci sono molte didascalie sceniche, per
esempio, si cita la notte, l’orto. Perché? Perché è un testo funzionale alla recitazione, non alla lettura >
dunque devono esserci segnali teatrali che ci facciano orientare sul luogo e sull’ora. È così anche per i Greci,
che scrivono teatro non perché venga letto ma perché venga rappresentato e, nell’Atene di IV a.C., dove è
ancora presente una cultura orale-aurale, si tratta di un teatro che deve essere visto e non letto. Questo è
un punto di contatto tra il teatro greco e quello elisabettiano, perché entrambi sono teatri aperti dove le
rappresentazioni avvengono in primavera e con pieno sole. Dunque, quello elisabettiano è un teatro povero
come quello di Dioniso. Quindi queste due scene per noi che leggiamo non creano alcun problema, ma lo
creano per coloro che leggevano pagine di teatro per la prima volta, perché noi siamo abituati a leggere
opere drammaturgiche invece nel contesto elisabettiano e in quello ateniese il pubblico non era abituato.
Ecco perché il testo ha molte indicazioni temporali dirette, per es. quella notturna (“notte santa”, “è quasi
l’alba”). Ci sono anche dei deittici (“quella sacra luna lassù”) > il deittico implica che l’attore indichi con un
gesto, dunque sono indice di teatralità. In questi testi la parola funge da didascalia scenica.

Quando nella letteratura occidentale si afferma il binomio notte-amore?

Il teatro greco (tragico e comico) rinuncia per buona parte alle scene notturne. Noi del teatro greco
abbiamo i resti di un naufragio, però la letteratura greca inizia prima del teatro, con Omero che secondo
Diego Lanza è la Bibbia dei greci, uno di quei testi fondamentali che danno gli archetipi, i modelli culturali,
ideologici ecc. e questo lo dice anche Aristotele (Omero modello anche di tragedia). Siden Stike dimostra
come anche il comico sia presente in Omero, anche se ce lo aspetteremmo di meno: pensiamo alla figura di
Tersite, comica ma presente già in Omero. Dunque, è lecito chiedersi se la notte sia legata all’amore già in
Omero? NO, non si trova in Omero. Certo, la notte in Omero è presente (nux): in Omero la notte ha un
valore temporale, inoltre è il tempo destinato al sogno e in Omero c’è proprio una strategia narrativa del
sogno. È anche il momento in cui si narrano le avventure, ma solo le storie vere, per esempio: nell’isola dei
Feaci, Odisseo racconta del Ciclope, di Calipso ecc. e fa tutti questi racconti di notte, dopo cena. Questo
accade nel testo numero 2, XV canto dell’Odissea (vv. 389-401): in Omero l’aedo non parla di notte, ma a
pranzo o a cena perché racconta fatti inventati. Invece, fatti vissuti in prima persona sono sempre
raccontati di notte e di questo si dà una giustificazione teorica proprio in questo passo dell’Odissea. Invece,
nell’altro passo che la prof ci ha riportato (n.3) dall’Iliade, la notte ha valore di similitudine: caratteristica
peculiare dello stile omerico, quanto di quello epico in generale. Questo passo è all’origine del binomio
tematico amore-notte che ispirerà Saffo, prima voce della poesia d’amore. Tuttavia, in Omero la notte ha
quei valori di cui abbiamo parlato poc’anzi, quindi in lui non è ancora attestato il binomio amore-notte,
attestato per la prima volta in Saffo che comunque si ispira ad Omero.

OMERO, ODISSEA XV, 389-401

Qui c’è il motivo della notte come momento per il racconto delle avventure personali. Questo è il momento
dell’incontro tra Eumeo e Odisseo:

E A LUI DI CONTRO (te aute) SI RIVOLSE (proseipe) IL PORCARO, CAPO DI UOMINI: “OH STRANIERO, POICHÉ
MI CHIEDI (ainerei) QUESTE COSE (tauta) E LE VUOI SAPERE (metallaomai > “andare in giro” lett. > da qui
deriva alazon = “colui che va in giro”, “il buffone”), ASCOLTA ORA IN SILENZIO (sighè) E DILETTATI (parola
come diletto/piacere > motivo affrontato qui per la prima volta e che è alla base dei motivi freudiani
secondo cui la parola può alleviare le sofferenze) E BEVI VINO STANDOTENE SEDUTO (emenos). QUESTE
NOTTI SONO INFINITE (atefatoi); E’ POSSIBILE DORMIRE (eudein) MA A CHI PROVA DILETTO E’ POSSIBILE
ANCHE ASCOLTARE (= testimonianza della cultura aurale dell’epos omerico). NON E’ AFFATTO NECESSARIO
(oude xre) ANDARE A DORMIRE PRIMA CHE SIA L’ORA GIUSTA (prin ore > Ore = “ora giusta”); ANCHE UN
LUNGO SONNO PUO’ RECARE NOIA (anie > noia in senso fisico > dare fastidio > dormire troppo può creare
problemi). (CHI= sott.) DEGLI ALTRI, QUELLI CHE SONO COMANDATI, SPINTI DAL CUORE 1 (kradie > metatesi
omerica per kardie) E DALL’ANIMA (thumos > ha la stessa orgine di fumos in lat. > riconduce a qualcosa di
fumoso. Snell chiarisce che thumos è l’organo delle emozioni e che quindi è diverso da kardia, ossia
l’organo vitale che mantiene in vita e che presiede alla vita meramente vegetativa. Dunque, anche se
potrebbe sembrare una ripetizione, sono termini molto diversi) A DORMIRE (pt. predicativo) VADANO
FUORI (ecserxomai). QUANDO L’AURORA APPARIRÀ, AVENDO FATTO COLAZIONE (deipnesas > deipnaw e
deipnon propriamente nell’attico non indicano la colazione, ma il pasto principale ossia il pranzo. Ma in
Omero c’è spesso una confusione tra i 3 termini che indicano i pasti: ariston = “colazione” nel Va.C.;
deipnon = pranzo; dorpon = cena. L’uso di questi termini si stabilizza nel V a.C., invece in Omero c’è ancora
confusione. Qui poiché si parla dell’alba “quando l’aurora apparirà”, dobbiamo tradurre per forza con
“colazione”), POSSA ANDARE AL PASCOLO/ SEGUIRE LE SCROFE DEL PADRONE (anaktoriesin). NOI DUE,
BEVENDO (pinonte) E MANGIANDO NELLA CAPANNA DILETTIAMOCI (terpometa) DELLE SVENTURE
(kedesin) LUTTUOSE/TRISTI DI ENTRAMBI (allelon), RICORDANDOLE (= godimento del racconto: raccontare
le sventure, i malori è di per sé una cura. Stesso valore catartico che abbiamo nella tragedia e che
ritroviamo anche in Freud. Perché questo racconto deve avvenire di notte? Perché è il momento anche del
sacro). INFATTI, L’UOMO (aner) IN MEZZO AI DOLORI/ALLE SVENTURE GODE (terpetai), QUELL’UOMO
(ostis) CHE ABBIA MOLTISSIMO SOFFERTO E ABBIA MOLTO VAGATO (= si afferma il criterio della notte come
momento destinato al racconto delle sventure personali).

Quindi questo è un primo significato della notte in Omero.

Invece, l’altro significato della notte lo troviamo nell’Iliade. Questo è un pezzo famoso perché ha ispirato il
paragone tra la bellezza della donna e la luna, motivo che ha grande fortuna nella letteratura greca. Per dire
che la donna è bella la si paragona a qualcosa di luminoso (luna, stelle, astri). Dunque, anche qui abbiamo
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Cuore e anima sono soggetti, ma per tradurre cambiamo la loro funzione.
un notturno: dopo la battaglia tra Achei e Troiani con vittoria di questi ultimi, i Troiani vincitori accendono
dei fuochi per illuminare il campo di battaglia e questo fornisce lo spunto della similitudine.

OMERO, ILIADE VIII, 553-561

ED ESSI INVECE (= i Troiani), PIENI DI ORGOGLIO, SI ACCAMPARONO (eato = impf da eimai) PER TUTTA LA
NOTTE (pannukoi) SUL CAMPO DI BATTAGLIA E MOLTE PIRE/MOLTI FUOCHI ARSERO (kaieto + neutro >
possiamo avere il verbo alla 3ps) PER LORO (sfisi = dat. di vantaggio) COME (= inizia la similitudine)
QUANDO NEL CIELO INTORNO ALLA SPLENDENTE LUNA (anfì fainen < fainomai selenen) APPAIONO LE
STELLE LUMINOSE QUANDO L’ARIA È PRIVA DI VENTO E APPAIONO (efanen) TUTTE LE CIME DEI MONTI E LE
PUNTE DEI PROMONTORI E LE VALLI, E IN CIELO L’ETERE INFINITO SI SQUARCIA (A QUESTO SPETTACOLO =
sott.) E SI VEDONO TUTTE LE STELLE, E IL PASTORE GODE NEL SUO ANIMO (frena = acc. di relazione), COSI’
(tossa) TRA LE NAVI E LE ONDE DELLO XANTOS, DINANZI A TROIA (Ilioti pro = anastrofe per pro Ilioti) SI
VEDEVANO I FUOCHI (purà = sia oggetto che soggetto) DEI TROIANI CHE GLI AVEVANO ACCESI.

C’è qui anche una descrizione paesaggistica e queste descrizioni notturne avranno grande peso nella
letteratura occidentale (pensiamo a Leopardi).

Ma c’è un problema testuale al v. 553: gefura = acc. pl di gefura “spazio tra” (lett.), ma in Omero indica lo
spazio tra i due fronti di battaglia, dunque il campo di battaglia. Ma il problema è il plurale, perché il campo
di battaglia è uno. Poi, nei manoscritti c’è “epi gefuras” > epi può reggere l’accusativo solo quando dipende
da un verbo di movimento che in questo caso non abbiamo perché c’è eato (impf. emai) “stare fermi”.
Inoltre, l’espressione formulare che si trova di solito non è con “epì” ma con “anà ptolemoio gefuras”. Tra
l’altro in alcuni codici è attestato “epì + gefurh” (con iota sottoscritto = dat.), ma è comunque un hapax che
troviamo solo qui perché abbiamo detto che in Omero l’espressione è con “anà”. La prof. ci ha riportato il
testo dell’editore oxoniense, altri però accettano la lezione col dativo; altri ancora hanno corretto epì con
anà, ma questo non è del tutto giusto perché è anche vero che in Omero ci sono degli hapax, per cui è
possibile che possa trovarsi la lezione con epì. Forse il copista ha cambiato il dativo originario con l’acc.
gefuras perché era abituato alla frase formulare “anà gefuras” dunque con l’acc. finale. Anche se l’editore
oxoniense ha riportato questa lezione con epì + acc., sappiamo che non è del tutto giusto. In ogni caso, a
partire dal v. 555 abbiamo un notturno molto suggestivo che porta avanti l’immagine della luna splendente
che appare accanto alle stelle: qui il notturno mette in rilievo la luna, però la luna non nasconde le stelle,
dunque, si insiste sulla luminosità sia delle stelle che della luna. D’altra parte, selene ha la stessa radice di
selas “splendore” + na (valore locativo) > l’alfa in attico diventa eta > selene 2.

Questo pezzo dell’Iliade è stato molto studiato perché vi è stato riconosciuto il modello di Saffo.

03.03.2022

Cercheremo di leggere anche testi un po’ meno noti, come testi papiracei di teatro. Come vedete vi ho
inserito dei pezzi menandrei, probabilmente menandrei, ecco perché c’è il punto interrogativo nella
fotocopia 3, perché sono papiri, di o…poli e di Ossirinco. Così vediamo anche la scrittura dei papiri eccetera.
Noi la volta scorsa ci siamo fermati al passo numero tre, l’abbiamo completato quello. Noi sostanzialmente
cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di proporre un pezzo, un percorso, un percorso tematico, modulo
tematico. E quindi vi avevo richiamato qualche concetto che avevamo già esposto alla triennale, cioè la
differenza tra modulo e unità didattica. L’unità didattica è destinata all’acquisizione di singole abilitò,

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È lo stesso principio per cui in latino abbiamo lux+na.
linguistiche, tecniche, mentre il modulo presuppone una maggiore ampiezza di interessi, ecco perché si
appresta di più all’insegnamento letterario, mentre l’unità didattica si presta di più all’apprendimento
linguistico, che io posso più facilmente testare con test a risposta chiusa. Quindi c’è poco da discutere in
quel caso; nel caso invece di un interesse letterario più ampio il test è una forma di verifica molto povera,
mentre invece è bene prevedere forme di verifica più complesse, per saperi più complessi. Quando si
organizza un modulo è bene non sganciare il ovulo dall’asse storico-cronologico. Per cui ad esempio in
questo caso noi siamo andati alle origini della cultura occidentale, siamo partiti da Omero: infatti stiamo
seguendo un tema, ma al tempo steso stiamo procedendo su un asse cronologico, dunque, si possono fare
entrambe le cose contemporaneamente. Dunque, è possibile storicizzare un contenuto attraverso
l’ancoramento a un asse storico-cronologico e attraverso i diversi generi-letterari. È chiaro poi che le
potenzialità del modulo tematico sono varie, come quella dell’attualizzazione. Ad esempio, per quanto
riguarda il tema amoroso. Dunque, è possibile contemperare queste potenzialità. Quando si organizza un
modulo ovviamente bisogna pensare ai destinatari. Diciamo che un modulo tematico è bene farlo non nelle
prime classi, perché si presuppone una conoscenza almeno parziale della letteratura. Poi bisogna pensare ai
prerequisiti: in questo caso, per la lezione della scorsa volta, un prerequisito è la quesitone omerica, e
magari saper scandire un esametro; poi una conoscenza di base anche della lingua epica, che è comunque
una lingua artificiale, dunque, la dizione omerica è una dizione artificiale, artificiosa. Quali possono essere
gli obiettivi formativi didattici? Intanto il riconoscimento delle formule, del linguaggio formale, la funzione
del linguaggio formulare, che è funzionale a cosa? Alla memoria: l’andò che deve recitare versi su versi si
aiuta con la formula. E poi ancora è possibile ricostruire un contesto di realtà dal testo letterario, e dunque
la realtà del Medioevo ellenico, questa stratificazione che è presente nei testi omerici. Per quanto riguarda i
contenuti: lettura di quei due pezzi di Iliade e Odissea. I metodi: o metodo tradizione, dunque analisi die
testi, visione di un’edizione, oppure posso utilizzare strumenti meno convenzionali quali la visione del film. I
tempi: per i tempi devo prevedere non meno di dieci ore. L’altra volta abbiamo affrontato anche un
problema filosofico, che era quella forma “epìptomenos …”, giustamente Pasquali diceva che le formule
favoriscono errori e scambi: è possibile qui che il copista si sia confuso, cioè abbia cambiato il dativo in
accusativo perché ricordava la formula più comune, che era quella con anà. Quindi ricordava quella formula
e quindi è possibile che abbia confuso le due espressioni formulari. Questo pezzo dell’Iliade è stato molto
studiato perché si è visto il modello presente a Saffo, e non solo, ma anche a tanti altri autori successivi, che
hanno elaborato notturni. Quindi questo pezzo di Omero, questo iliadico, è in realtà l’archetipo die notturni
nella letteratura greca. E in effetti, nel suo commento all’Iliade, Eustazio, vescovo di Tessalonìca, che vive
nel dodicesimo secolo d.C., siamo nel 1100 sostanzialmente. Lui commenta vari autori e realizza anche un
commento a Omero. Intorno al testo omerico già l’esegesi antica è molto vasta, pensate ad esempio ad
Aristofane di Bisanzio, cioè è studiato già dagli alessandrini il testo omerico. E poi abbiamo questo
commento monumentale di Eustazio, che è preziosissimo, perché è una miniera di citazioni di autori
antichi. Cita moltissimo Eustazio, perché confronta i testi, e quindi cita. Quindi è una delle maggiori fonti,
oltre ad Ateneo per esempio, per la trasmissione indiretta dei testi. Tradizione diretta e indiretta sapete
cosa sono. Quella diretta comprende i codici e i papiri. I papiri vengono fuori dall’Egitto perché vengono
utilizzati come cartonaggio per le mummie, per avvolgere le mummie. Eustazio quindi cita molti autori, e
commentando questo passo dell’Iliade cita Saffo, cioè dice che a questi versi di Omero si è ispirata Saffo.
Dice in particolare che Saffo allude al verso 553. Ora prendiamo il pezzo di Saffo. Vi ho riportato
dall’edizione di Eva Maria Foct (scritto Voight), studiosa olandese, un edizione monumentale, che ha
sostituito l’edizione dei tedeschi Lobel (tedesco) e Peig (inglese) [spesso li trovate abbreviati L.P.]; la
numerazione tra le due edizioni coincide, altre volte no: perché dovete immaginare che è un’edizione
ampliata poi quella della Foct, perché alcuni frammenti sono venuti fuori dopo la precedente edizione,
oppure altri frammenti prima attribuiti a Saffo ora non le sono più attribuiti etc. L’edizione della Foct
riguarda anche Alceo, quindi entrambi i due autori di dialetto eolico. Il frammento 34 viene riportato in
forma indiretta da Eustachio, che cita il frammento commentando il passo dell’ottavo libro dell’Iliade. E
quest’ode è un celebre notturno; probabilmente quello che noi abbiamo è l’inizio del componimento. E
Saffo paragonava la bellezza di una ragazza con quella della luna, che quando è piena fa scomparire le stelle
che le stanno vicino. Ora in realtà abbiamo solo la similitudine, non abbiamo il termine di paragone, però si
è formulata questa ipotesi, perché è avvalorata da un altro famoso luogo della poetessa, cioè quello che IV
ho riportato dopo, in cui il paragone con gli astri è riportato per la bellezza di una ragazza, ma questo passo
è riportato da Giuliano, che in un’orazione, nell’Elogio di Eusebia certamente allude a questi versi di Saffo,
cioè fa le lodi dell’imperatrice Eusebia e ricorda anche a un certo punto una bellezza tanto grande da
offuscare quelle delle altre fanciulle come intorno alla luna piena le stelle vinte dallo splendore della luna
nascondono la loro figura. Saffo, con geniale scarto rispetto ad Omero ottiene un risultato assolutamente
nuovo, perché le stelle intorno alla luna piena e bella non solo non brillano, ma si comportano quasi da
ancelle fereconde, e quindi nascondono il loro fulgido volto cedendo allo splendore soverchiante della luna;
mentre nel passo omerico né la luna prevaleva sulle stelle né viceversa. Questa volta ad indicare la bellezza
di Elena sulle ancelle sarà fatto da Teocrito nell’Idillio 18esimo, nell’epitalamio ad Elena. La luminosità di un
astro per indicare la bellezza avrà grande strada nelle letterature classiche, ad esempio in Bacchilide (nella
fotocopia numero 2 vi ho ripotato un epinicio di Bacchilide destinato ad Automede, un atleta. E qui lo
scarto in Bacchilide è rappresentato dal fatto che questa volta la bellezza è maschile; quindi, questo
paragone con gli astri rappresenta la bellezza di un ragazzo, e non è molto comune questo).

SAFFO, fr.34 Voigt

Frammento 34 della Voigt (che coincide con la numerazione dell’edizione L.P. in questo caso) di Saffo,
traduzione:

“[per il sigma la Voight utilizza questo “sigma lunato”][in attico avremmo astères, però qui il dialetto è
eolico: e vediamo che l’accento nel dialetto eolico tende a risalire, per effetto della baritonèsi; l’altro
elemento eolico distintivo è la preminenza dell’alta sull’età, ad esempio in selènan] [il “mèn” non è
solitarium, ma avrà avuto un correlativo in un “dè”, nella parte mancante] LE STELLE INTORNO ALLA BELLA
LUNA [àps significa “di nuovo”, ma va unito al verbo] TORNANO A NASCONDERSI/SI NASCONDONO DI
NUOVO/TORNANO A NASCONDERE [fainòn in realtà, ma per baritonesi c’è fàinon] IL FULGIDO VOLTO [qui
notate che la ripresa omerica è palese, perché quest’espressione riprende il verso 259 (?) di Omero
troviamo èidetai, verbo, mentre qui troviamo èidos] [opòta in attico sarebbe òpote] QUANDO PIENA
SPLENDE PIÙ CHE MAI/ILLUMINA PIÙ CHE MAI TUTTA LA TERRA [qui è probabile un’integrazione, che forse
doveva esserci dopo gàn, “epì pan” cioè “su tutta” (la terra)].”

Quindi noi leggiamo la similitudine, senza il termine di paragone, però sulla base dell’altro frammento
saffico, che ora leggeremo, e sulla parte di Giuliano, siamo sicuri che il termine di paragone fosse una
ragazza.

SAFFO, fr.96, 6-11 Voigt

Vediamo adesso l’altro frammento saffico, il 96 (numerazione in entrambe le edizioni). In questo caso però
è un frammento di tradizione diretta, è un frammento papiraceo, di un papiro di Berlino, che ci ha restituito
questo testo saffico. Saffo sta parlando di una fanciulla che ora si trova in Libia. Quindi è assente questa
fanciulla, ma spicca tra le spose lidie così come la luna vince tutte le stelle, diffondendo la sua luce sul mare
e sulle campagne fiorite. Non sappiamo esattamente chi fosse questa fanciulla, se pensate ad Anattoria, se
pensate ad Arignota, ma ci interessa anche poco chi sia la fanciulla. La cosa interessante è che siamo di
fronte a un altro notturno. E quindi c’è una comparazione, una comparazione sempre tra una fanciulla e gli
astri. Traduzione:

ORA LEI SPICCA TRA LE SPOSE LIDIE [ghiunàikes sta per ghiunaickì] [òs pota, in attico òs pote] COME
TALORA [poi genitivo assoluto, perché aleìu sta per elìu] TRAMONTATO IL SOLE [vedete c’è un’integrazione:
selànna; in realtà nel papiro noi leggiamo non selànna, ma mèna, che è un termine meno usuale per
indicare la luna. Il problema è che questo mèna è contra-metrum, ovvero non risponde alla metrica, e
questo fa pensare a un guasto metrico, per cui un filologo tedesco, Shubart, ha pensato di correggere mèna
con selànna, termine che abbiamo visto utilizzato altrove da Saffo, e che risolverebbe il guasto metrico. C’è
un però: questa correzione va contro il principio filologico della lèctio difficìlior, che invece gioca a favore
del raro mèna. Cioè voi sapete che, questo lo spiegano bene Paul Maas, Pasquali, che tra due lezioni è
preferibile la lectio difficilior, perché è chiaro che la corruttela può avvenire banalizzando un termine poco
noto, e noi integrando selànna andiamo contro questo principio, però risolviamo il guasto metrico, ed è
possibile come significato, ed è usato da Saffo. La prof di fronte a ciò metterebbe tra croci il selànna,
mentre questa edizione riporta l’integrazione di Shubart. In questa edizione vediamo le parentesi uncinate,
che cosa indicano nei papiri le parentesi uncinate? Una alcuna congetturale, e un’eventuale integrazione.
Se invece io ho una lacuna non congetturale cosa dovrei usare? Le parentesi quadre. Cioè se io ho una
alcuna che è un guasto meccanico del papiro, e quindi inserisco un supplemento, inserisco, per il guasto
meccanico, le parentesi quadre, e all’interno ci metto il supplemento. Invece in questo caso non c’è un
guasto meccanico, non è rotto il appruo: ho utilizzato infatti le parentesi uncinate perché è una lacuna
congetturale che io riempio con un’integrazione; e in questo caso quindi utilizzato il termine integrazione,
non “supplemento” (che uso in caso di guasto meccanico). Se invece io voglio espungere una parte di testo,
per congettura, sempre nei aprii, utilizzo questo tipo di parentesi (ha indicato alla lavagna). Se invece
parliamo di codici i segni diacritici cambiano. Altri segni diacritici che possiamo trovare: come vedete
troviamo ancora ρ, nel verso successivo, come congetturale, tra parentesi uncinate. Se invece troviamo un
segno di questo tipo, le mezze parentesi, in questo caso troviamo integrazione di altro tipo, cioè da
traduzione indiretta: ad esempio immagini anno che il appruo abbia un guasto, e che l’integrazione io la
prenda da altra fonte. Oppure i puntini sotto le lettere indicano che sono congetturali, oppure le cruces
desperationis che indicano corruttela non risolvibili.] COME LA LUNA DALLE DITA DI ROSA SUPERA TUTTE LE
STELLE E DIFFONDE/DIRIGE LA LUCE VERSO L’ACQUA SALATA DEL MARE, UGUALMENTE SULLE CAMPAGNE
RICCHE DI FIORI [a brodudaktiulòs è un epiteto omerico, che però nell’epica omerica è riferito all’aurora,
cioè “l’aurora dalle dita di rosa”]. Indubbiamente qui il paragone degli astri è utilizzato per un paragone di
eccellenza. Quindi è evidentemente la poetessa utilizzava in questo modo questa similitudine, e dunque
questo non ci stupisce. Ed è probabile che anche nel frammento 34 ci fosse questo paragone di eccellenza,
riferito a una fanciulla. Però questa immagine omerica fa scuola, quindi anche dopo Saffo, anche nella
melica (quando parliamo di e Licia parliamo di poesia corale), e quindi di un autore come Bacchilide, su cui
influisce sicuramente Omero, ma anche Saffo.

BACCHILIDE, EPINICI, 9.25-32 (Snell-Maehler)

Questo pezzo di [epinicio nella fotocopia 2] ci è tramandato ugualmente da papiro e celebra la vittoria alle
Lenèe del giovane Automede, vittoria nel lancio del disco. Dunque Automede era un discòbolo. L’edizione
che vi ho riportato è quella di Snell e Maehler, che è l’edizione teubneriana di Bacchilide. Dunque troviamo
alcuni segni diacritici che vi ho indicato prima.

Traduzione:
ORA LA DIVINITÀ HA DATO [quel nìn sta per autòn, che indica l’oggetto, al corona della vittoria] AD
AUTOMEDE VINCITORE [nicàsanti] LA CORONA DELLA VITTORIA. INFATTI LUI ECCELSE [qua viene usato lo
stesso verbo che abbiamo trovato in Saffo nel frammento 96] TRA I PENTATLÈTI, COME LA LUNA BELLA
SPLENDENTE/DEI BEI RAGGI DISTINGUE LE LUCI DELLE STELLE NELLA NOTTE DI MEZZO/DI MEZZO MESE
[cioè la luna fa scomparire la luce delle stelle, quindi ancora una volta torna questo concetto saffico; non
solo ma Saffo ritorna anche in questa notte di mezzo mese, la notte al mezzo, a metà, che troveremo nel
frammento successivo saffico] COSÌ ATTRAVERSO LA CERCHIA INFINITA DEGLI ELLENI (gli osservatori che
assistono a questo agone) (AUTOMEDE) MOSTRÒ IL SUO SPLENDIDO CORPO LANCIANDO IL DISCO
ROTONDO [questo nicomedìdos, tenente present che il mese greco si divideva attraverso il ciclo lunare,
quindi siccome il primo giorno del mese era l’inizio del plenilunio, la luna piena era il mezzo del mese, e
dunque la luna saffica]”.

Ci sono varie riprese saffiche: enprepetài ripreso dal frammento 96 (qui in forma diversa), e poi ripresa del
fàinon èidos delle stelle del frammento 34. Qui il paragone di eccellenza è sempre con la bellezza, però qui
c’è l’immagine plastica dell’atleta nel momento del lancio del disco, e tenete presente che in questi stessi
anni fu scolpito il discòbolo di Mirone, sono gli stessi anni. Dunque è tutto un clima culturale che esalta i
copri maschili in pose plastiche, e dunque nel momento in cui si spiega questo passo in classi, far vedere
l’immagine del discobolo è utile. Poi Bruno Gentili, che ha studiato la poesia melica, parla di “Musa venale”
perché c’è sempre una committenza dietro, e dunque ciò ci fa un po’ passare l’idea del genio compositore,
perché questi poeti componevano a pagamento. Per la prima volta questa immagine della luna è usata in
ambito maschile e agonistico, e quindi in questo c’è sicuramente l’innovazione di Bacchilide. Però sinora noi
non abbiamo ancora trovato il binomio notte-amore se ci pensate: in Omero non c’era, c’era prima
l’immagine destinata al racconto delle vicende vere etc, poi abbiamo trovato la similitudine nell’Odissea (o
l’Iliade), che passa a indicare la bellezza, maschile o femminile. Però non abbiamo ancora trovato il
concetto della notte dedicata all’amore, all’eros. Questo concetto lo troviamo la prima volta in Saffo:

SAFFO, fr. 168B Voigt

Questo componimento non si trova nell’edizione di Lobel e Peig, perché intanto il testimone che ce lo
trasmette è un metricologo, cioè Efestione, il quale cita questi versi però senza l’indicazione dell’autore. Ma
è anche vero che, se Efestione cita il frammento senza il nome di autore, quindi di Saffo, lo dichiara
esplicitamente la tradizione paremiografica, cioè gli scrittori di proverbi, come Arsenio, che lo citano con
l’indicazione “di Saffo”. Nonostante ciò dall’Ottocento c’è stata una querelle attorno a questo frammento,
perché viene messa in discussione non solo la sua attribuzione, ma anche la sua antichità. Perché alcuni
studiosi, forse influenzati anche dal mito romantico del canto popolare, dicevano che questa era una
canzone popolare, e dunque così è nato l’equivoco di attribuire un’origine popolare una poesia che invece è
raffinatissima. Tra l’altro perché i tedeschi, come Lobel (che quindi per questo non ha inserito questo tra i
frammenti di Saffo) dell’ottocento dicevano che non era di Saffo, ma di una canzone popolare? Perché
individuavano alcune forme non propriamente vernacoli, cioè non rispondenti ai canoni eolici. E quindi
siccome trovavano delle forme non eoliche, ma epiche, quindi ioniche, ritenevano che questo
componimento non fosse di Saffo, perché intendevano Saffo come una poetessa puramente vernacolare,
avvalorando il mito di una Saffo poetessa vernacolare, poco raffinata: niente di più lontano dalla poesia
saffica. Dunque gli studiosi tedeschi erano influenzati dal Romanticismo, che enfatizza il concetto di popoli.
Ci vedevano un canto popolare perché il motivo di un canto di donna notturno è un motivo visto come
popolare. Inoltre i tedeschi volevano “salvare” Saffo dall’accusa di omosessualità, quindi motivazione
moraleggiante, perché sembrava troppo erotico questo frammento per essere di Saffo. Però il recupero a
Saffo di questo frammento, ormai è stato fatto senza ombra di dubbio anche dopo gli studi di Benedetto
Marzullo, che ha evidenziato che in Saffo convivono eolicità e ionicità, cioè ci sono forme anche ioniche
provenienti dall’etica, perché Saffo è una poetessa colta. E poi chiaramente bisogna sgombrare il campo a
queste preoccupazioni moralistiche, perché alcuni hanno ritenuto sconveniente la franchezza della
poetessa, e dunque per salvaguardare l’integrità di Saffo si è pensato ad una persona loquens. E invece è
proprio Saffo che parla dell’ora della notte che le sfugge e lamenta la propria solitudine erotica.

Traduzione:

“È TRAMONTATA LA LUNA E (sono tramontate) LE PLEIADI. LA NOTTE A METÀ, TRASCORRE VIA (tmèsi
perché è separato il parà dal verbo) IL TEMPO ED IO GIACCIO SOLΑ”

Qua si discusse molto sul significato di ora, perché si è detto che l’indicazione temporale c’era già prima, e
allora questa è una ripetizione? Però l’indicazione precedente è un’indicazione temporale oggettiva, la
notte e metà; quest’ora invece è una valutazione soggettiva del tempo, cioè Saffo avverte che la notte le sta
sfuggendo, è ormai trascorsa. Quel mòna è un eolismo, perché in attico avremmo mòne, in ionico epico
avremmo mùne. Però questo mèsai dovrebbe essere in eolico mèssai, e invece è un omerismo. E sulla base
di questo mèsai che dovrebbe essere mèssai si è detto che questo frammento non è di Saffo, perché non è
una forma vernacolare questo. Quel katèudo invece ha sicuramente una connotazione erotica perché
nell’ottavo libro dell’Odissea quel verbo è usato a proposito dell’amplesso tra Àras e Afrodite. Quindi non è
semplicemente un’espressione di solitudine, ma di solitudine erotica. Questo componimento poi sarà
riecheggiato moltissimo, ad esempio in Aristofane; e comunque qui, per la prima volta, è attesta il motivo
che noi cerchiamo di ripercorrere: cioè per la prima volta la notte è accostata all’eros. La prossima volta
ripartiamo dal teatro, perché poi questo motivo scompare per due secoli, il motivo dell’eros legato alla
notte, per ricomparire poi nei testi che leggeremo.

08.03.2022

Nella fotocopia (file 3) ci sono due testi che sono dubitabilmente menandrei, non di sicura attribuzione
menandrea, infatti c’è un punto interrogativo. Un’attribuzione incerta si può indicare anche con
[Menandro]. P. Ant = papiro di Antinopoli = località egiziana da cui derivano molti dei papiri che ci hanno
restituito pezzi importanti degli autori classici; facevano parte del cartonaggio della mummia.

(CGFPR 240) = Comicorum Graecorum Fragmenta in Papiris Reperta = questa è un’edizione curata da Colin
Austin, curatore di PCG (Poeti Comici Greci) insieme a Kassel, in 8 volumi. Il solo Austin però ha curato
prima questa edizione di frammenti comici (1973) che ci sono giunti solo in papiro, contenuti in un solo
volume. Ovviamente non troviamo i frammenti su papiro scoperti dopo gli anni 70.

Invece, nell’edizione di Kassell-Austin troviamo sia frammenti che abbiamo per tradizione diretta (su
papiro), sia quelli di tradizione indiretta (trasmessi da altri autori). Per Menandro hanno curato prima i
frammenti giunti per tradizione indiretta perché di papiri menandrei se ne scoprono sempre di nuovi,
quindi sarebbe stata un’edizione inutile. Dunque, questi li citiamo dall’edizione LEB di Arnott (grande
studioso di commedia mese-nova), corredata anche di traduzione inglese e commento (in quella Oxoniense
non c’è traduzione ma solo apparato critico). Arnott curò della LEB i 3 volumi menandrei.

In questo caso la professoressa ci ha messo la corrispondenza con Austin.

MENANDRO (?), P. Ant. 15 (= CGFPR 240)


Notiamo subito che si tratta di un papiro dai segni diacritici (parentesi quadre che indicano una lacuna
meccanica nel testo e che contengono il supplemento, ossia le lettere integrate dall’autore; vediamo il
puntino sotto = lettera incerta; iota ascritto in thi polei che si legge sempre “th”; trattino lungo = paragrafos
= indica il cambio di interlocuzione nei papiri; crux = quella dopo gunaikos sta a significare che l’autore si è
arreso).

In questo papiro parla un giovane sposo. Si tratta di un notturno: lo capiamo dal v.4 dove leggiamo
un’invocazione alla “signora notte”.

Traduzione: CHI (tis) HA SOFFERTO (peponte = da paskw) COSE PIÙ TERRIBILI DI ME/DI QUANTE NE ABBIA
SOFFERTO IO FRA I CITTADINI/ABITANTI DI QUESTA CITTÀ? NO (ma) LO GIURO SU DEMETRA E SUL CIELO
(imprecazioni). QUESTO È IL QUINTO MESE (penton mena) CHE MI SONO SPOSATO (gegameka), AVENDO
UBBIDITO A MIO PADRE; E DALLA NOTTE IN CUI MI SONO SPOSATO, OH SIGNORA NOTTE, IO CITO
(epagomai) TE A CORRETTA TESTIMONE DEL DISCORSO CHE IO DICO, NON SONO MAI STATO NEPPURE
UNA NOTTE LONTANO DAL LETTO DELLA MIA DONNA/DALLA MIA DONNA.

Quello che segue è incomprensibile, infatti ci sono due cruces desperationes = contenuto indecifrabile.

Commento: siamo all’inizio della commedia e lo capiamo perché si riassume ciò che è successo prima e
perché c’è l’invocazione alla notte (sempre a inizio di commedia = come nella Perikeiromene alla Dea
Agnoia, Ignoranza). Si tratta sicuramente di un notturno (= invocazione alla notte). C’è una situazione
problematica che riguarda il matrimonio del protagonista, che si presenta come una persona onesta, sia
perché ha obbedito al padre sia perché non si è mai allontanato dalla moglie, dunque non ha mai
partecipato al simposio che si chiude con l’assalto ai bordelli. Il giuramento su Demetra è tipico delle
persone caste (invece le prostitute giurano su Afrodite) e questo ci aiuta a caratterizzare il personaggio.
Forse dopo si sarà parlato di un tradimento forse subito da questo giovane sposo.

È affermato il binomio NOTTE-SOFFERENZA D’AMORE.

MENANDRO (?), P. Oxy. 2826 (= CGFPR 282)

Papiro da Ossirinco e contenuto sempre nell’edizione di Austin. Testo molto frammentario (parentesi
quadre + lettere incerte). In trimetri giambici. Leggiamo un’invocazione a Zeus Salvatore

Traduzione: OH ZEUS SALVATORE …. DAPPRIMA …. RITEN[…] DONNA SPOSATA … NON C’È NIENTE DI
MEGLIO … CERTAMENTE SEMBRA (dokh) ….. CHI È COLUI CHE STA PARLANDO? ….. OH PADRONCINO
(trofime3) …. CHE STAI FACENDO …. NON STO STUDIANDO LE STELLE/FACENDO L’ASTRONOMO (= ora
notturna), NO PER L’ORSA MAGGIORE (= altra indicazione notturna), STO MALE (odunomai) VEDENDO TE IN
PREDA AD UNA TEMPESTA (keimon = inverno = in questo caso non indica una situazione reale ma una
tempesta dei sentimenti. Forse il padroncino è preda dei pensieri d’amore che non fanno trovare sonno),
OH SIRO (Sure) ….. SI PER APOLLO.

Gameten = donna spostata

Enomisen = nomizw “ritenere”

3
dal verbo trefw “nutrire” = rapporto affettivo tra servo e padroncino, perché viene sempre usato il termine da un
servo in riferimento al figlio del padrone = forse sulla scena, dunque, c’è un giovane padrone e il servo. Forse c’è un
rapporto di grande affetto tra i due.
Dopo sfodr c’è una linea = paragrafos = cambio di personaggio tra un verso e l’altro = per indicare un
cambio all’interno dello stesso verso si usano i due punti, detti “dikolon”; si può anche usare un semplice
spazio bianco. Quello che non troviamo nei papiri sono le sigle nominali (solo raramente), che troveremo
sistematicamente solo in seguito, nei manoscritti bizantini (= scrittura minuscola e cambi di personaggio
indicati da sigle). Spesso questi trattini sono inseriti erroneamente.

In questo caso il cambio di interlocutore è segnato da un trattino anche all’interno dello stesso verso.

Commento: abbiamo un padroncino triste dal punto di vista amoroso. Ci sono due personaggi, un trofimos
e il servo. È sempre il servo che si rivolge all’altro personaggio chiamandolo “trofime”. La situazione infelice
del padroncino la desumiamo da quel xeimazomenon “essere in preda ad una tempesta”. Si tratta di una
scena notturna e lo capiamo sia dal riferimento “non sto studiando le stelle”, sia dal riferimento all’Orsa
Maggiore. C’è un riferimento anche ad una donna sposata, quindi forse questo padroncino è un giovane
marito che soffre, ma non lo sappiamo per certo.

È una situazione che si trova molto spesso nelle commedie menandree (es.: nel Misoumenos), ecco perché i
frammenti sono stati attribuiti a Menandro.

Siro = nome del servo = spesso derivano da nomi di regioni, in questo caso dalla Siria.

SOFFERENZA D’AMORE IN AMBIENTAZIONE NOTTURNA.

MENANDRO, MISOUMENOS A1-A27

La prof ce lo propone dall’ed. Oxoniense di Sendbech (la prima del 1972, la seconda corredata di
addendum negli anni 90: qui ci sono frammenti papiracei scoperti dopo il ’72. Poiché il Misoumenos
“l’Odiato” è stato scoperto nel 1977 è inserito nell’addendum). Possediamo il Misoumenos solo per un
terzo.

Abbiamo “Trasonides” tra parentesi uncinate = congettura palmare (=sicura) dell’editore. Trasonide è il
protagonista: il nome deriva da trasus “coraggioso” (valore positivo), ma anche “sfrontato” (valore negativo
dello stesso aggettivo). È dunque un nome parlante. In commedia la figura del soldato, dal Lamaco di
Aristofane in poi, è sempre un personaggio negativo (anche nella commedia latina, pensiamo al miles
gloriosus della commedia plautina, di tradizione menandrea). Menandro fa un’operazione di imitatio cum
variatione, perché riprende il personaggio del soldato che ha già una sua tradizione precedente, ma lo
rende positivo. Farà lo stesso anche con l’etera, figura che diventa positiva, capace di atti generosi. Tra le
caratteristiche ereditate dalla tradizione del soldato c’è l’assenza di equilibrio (metriotes).

Traduzione:

TRASONIDE

OH NOTTE, TU INFATTI PARTECIPI (metekeis) TRA GLI DEI PER GRANDISSIMA PARTE DI AFRODITE, PER
QUESTO IN TE (en soi) SI DICONO/SI FANNO MOLTISSIMI DISCORSI E AFFANNI D’AMORE/SOFFERENZE.
FORSE TU HAI VISTO QUALCHE ALTRO UOMO PIÙ INFELICE (DI ME) 4? O UN AMANTE PIÙ SFORTUNATO?
ORA PRESSO LE PORTE DI ME STESSO/PRESSO LA MIA PORTA ME NE STO (esteka = istemi) NELLO STRETTO

4
Analogia col papiro di Antinopoli “chi ha sofferto cose più terribili di me” = per questo quel frammento è stato
attribuito a Menandro, proprio per questa analogia col Misoumenos.
VICOLO (stenopos) E PASSEGGIO SU E GIÙ 5 (peripatw) SEBBENE MI FOSSE POSSIBILE DORMIRE (kateudein =
dormire in senso erotico = elemento saffico) SINO AD ORA, (ORA) CHE TU SEI QUASI A METÀ DEL TUO
CORSO (mesouses se sxedon = indicazione notturna che implica il modello saffico della notte a metà), TRA
DUE CUSCINI/GUANCIALI, E AVERE (ACCANTO) LA MIA AMATA.

Commento: Qui c’è un paraklausityron alla rovescia: in genere, dopo il simposio, c’è il komos (= processione
rituale che termina con l’assalto ai bordelli, dunque il canto dinanzi alla porta chiusa dell’amata e l’amato
che cerca di farsi aprire). Qui dice che è stato lui stesso a mettersi fuori dalla porta, nonostante potesse
dormire accanto alla donna amata. Lo ha fatto perché ha notato una certa freddezza della donna amata,
derivante dal fatto che nel bottino del soldato lei ha riconosciuto lo scudo di suo fratello, quindi pensa che
quel soldato lo abbia ucciso. Trasonide ha colto questo risentimento di Crateia, quindi si è tirato fuori e
passeggia su e giù.

Ep’amfoteras = ep è tra parentesi uncinate, quindi epì è un’integrazione di Selbech. Nel testo del papiro
non c’è, ma il verso si apre con “amfoteras”. Se seguiamo il testo così come lo si trova nel papiro, abbiamo
una difficoltà metrica: a inizio di verso, senza l’epì, avremmo un coliambo (trocheo = lunga-breve + giambo
= breve-lunga), soluzione metrica molto rara e che di solito non si trova nel trimetro giambico (lo si trova al
massimo con i nomi propri). L’espressione che noi ci aspetteremmo di trovare in Menandro è ep’amfotera
(ora) kateudein: qui abbiamo kateudein però abbiamo amfoteras. L’espressione che ci aspetteremmo
sottintende “ora” (=orecchie) e significherebbe “dormire sulle due orecchie” = espressione proverbiale.
Tutto questo lo appuriamo dal CPG che riunisce tutti i proverbi, ma troviamo questo proverbio anche nel
Dizionario delle Sentenze Greche e Latine.

Dunque, la formula che ci aspetteremmo è ep’amfotera ma era molto frequente la caduta di monosillabi,
quindi è probabile la caduta di epì. Tuttavia, avremmo dovuto trovare “amfotera”, invece noi leggiamo
“amfoteras”: possiamo supporre che prima sia caduto l’epì, poi sarà risultato strano “amfotera” da solo e
quindi si sarebbe aggiunto il sigma per farlo concordare con “mesouses”.

Ripristinando l’epì avremmo un’altra scansione metrica: giambo + anapesto + anapesto. Se invece
leggessimo “ep’amfotera” (senza sigma) avremmo un tribraco, seguito da un anapesto. Tribraco +
anapesto è una soluzione non frequente ma comunque attestata in Aristofane. Dunque ricostruire come
“ep’amfotera kateudein” è la soluzione migliore, sia dal punto di vista metrico che quello proverbiale.

… LA MIA AMATA È IN CASA, È LECITO A ME (AVERLA IN CASA) E IO LO VOGLIO, VISTO CHE LA AMO DA
MATTO, E INVECE NON LO FACCIO (pow = poiew); PER ME È PREFERIBILE, PUR ESSENDO IN PIENO INVERNO
(keimonos ontos = genitivo assoluto) STARMENE FERMO/FERMO IN PIEDI (a me che sto all’aria aperta è
preferibile, pur essendo in pieno inverno, stare in piedi = lett.) SOTTO IL CIELO/ALL’ARIA APERTA
TREMANDO E PARLANDO CON TE (= con Geta = servo che interviene subito dopo).

5
Questa è una didascalia scenica = indica che il personaggio fa su e giù sulla scena.
10.03.2022

Dal v. A15 entra sulla scena il servo Geta

Traduzione: PER COSÌ DIRE (to de legomenon) NO PER GLI DEI (ma + acc), NEPPURE A UN CANE (onde kunì)
ORA DOVREBBE ESSERE CONCESSO DI USCIRE (ecsiteton estin), MA (de) IL MIO PADRONE COME SE FOSSE
PIENA ESTATE (wsper terous meson) VA IN GIRO FACENDO IL FILOSOFO IN QUESTA MANIERA.

È evidente la pesa di posizione di Geta vs l’astrattezza vuota dei filosofi, figure intellettuali del tutto
separate dalla polis sin dalle commedie di Epicarmo, poi anche nelle Nuvole di Aristofane e poi nella nea
dove ci sono commedie dedicate a Platone e Pitagora: è un topos = presa in giro nei confronti di una
intellettualità astratta e lontana dalla realtà.

… MI FA MORIRE (Apolei me). Non riusciamo a decifrare ciò che c’è dopo: leggiamo che c’è una porta.
Dobbiamo riprendere a leggere da A21 dove sta sempre parlando Geta:

PERCHÉ NON DORMI (riferito a Trasonide)? TU MI STAI DANDO FASTIDIO A FURIA DI ANDARE SU E GIU’; O
STAI ANCHE DORMENDO/SEI SONNAMBULO? Evidentemente Trasonise non gli sta dando retta e continua a
vagare davanti alla porta chiusa.

Quello che viene dopo è difficile da tradurre letteralmente:

FERMATI, VISTO CHE ESSENDOTI SVEGLIATO (egregorws) TU MI VEDI/ FERMATI E GUARDAMI. Geta sta
cercando di attirare l’attenzione di Trasonide e sembra esserci riuscito. Trasonide dice:

GETA, MA SEΙ VENUTO DA TE/DA SOLO (autos)? E perché/ VOLENDO CHE COSA? OVVERO TI È STATO
DETTO/ORDINATO DI VENIRE? Trasonide vuole capire se Geta è andato a rendersi conto delle sue
condizioni autonomamente oppure se l’ha mandato Crateia, ma questa è solo una sua illusione.

GIAMMAI DA ME TI È STATO DATO L’ORDINE (“non te l’ho detto io”); OPPURE TU STAI FACENDO UNA COSA
DEL GENERE DA TE STESSO? Trasonide si ripete e pensa ancora sia stato mandato da Crateia. Geta
risponde:

PER ZEUS, CERTAMENTE NON ME L’HANNO ORDINATO COLORO CHE STANNO DORMENDO (= Crateia).
Trasonide risponde:

GETA, TU SEI PRESENTE (parestas), COME MI SEMBRA, COME SE FOSSI IL MIO TUTORE.

Commento: Trasonide è convinto di essere odiato (= misoumenos) da Crateia, a sua volta convinta che sia
stato Trasonide a uccidere suo fratello in guerra. In questo prologo troviamo il binomio ORA NOTTURNA-
SOFFERENZA D’AMORE. Inoltre, la struttura narrativa del prologo è precisa: da A1 a A14 c’è un monologo,
poi entra in scena il servo che instaura un dialogo e fa capire quale sia la situazione pregressa che ha
portato a quella attuale. Nei due frammenti papiracei che abbiamo letto e che sono stati attribuiti a
Menandro, c’è la stessa struttura drammanturgica (anche nel papiro di Antinopoli c’è un monologo e poi
l’intervento del servo e lo si capisce dal “trofime”). Forse era un tipo di struttura drammaturgica tipica.

Il prologo plautino del Mercator contiene anche la polemica dell’autore nei confronti degli autori che lo
hanno preceduto. Questa commedia si ispira a una commedia di Filemone (autore della nea) che aveva lo
stesso nome della commedia plautina. Spesso le commedie latine sono “traduzione” (nel senso di ispirate)
di commedie greche. Filemone vs Menandro. Forse l’oggetto di questa polemica è proprio Menandro,
perché Plauto valuta negativamente COLORO CHE RACCONTANO LE PROPRIE MISERIE/DOLORI EROTICI
ALLA NOTTE, A ZEUS, AL SOLE O ALLA LUNA. Dunque, è chiaro che doveva essere proprio una tipica scena
da commedia quella in cui si raccontavano le proprie sventure alla notte ecc. sicuramente questo binomio è
attestato in commedia. Possiamo iniziare a porre qualche punto fermo. Sicuramente poi in pien età
ellenistica (con Menandro siamo all’inizio dell’età ellenistica-alessandrina) questo motivo trova la sua
massima espressione.

APOLLONIO RODIO, ARGONAUTICHE III, 744-801

Prendiamo la fotocopia sulle Argonautiche di Apollonio Rodio (leggiamo dal v. 751): siamo ne III libro,
quello in cui la storia d’amore di Medea e Giasone assume centralità. Il sistema letterario alessandrino
comporta il capovolgimento di alcuni sistemi letterari di età arcaica e classica. Ma ci sono anche elementi di
continuità, per esempio il genere epico che troviamo con Omero ma anche in età alessandrina. Invece, i
generi melici vengono meno perché vengono meno le occasioni di esecuzione, legate solo al contesto
storico di età arcaica. Il poema epico, invece, non è legato a occasioni sportive o religiose, ma solo alla corte
del re dove gli aedi recitavano. In età alessandrina si torna, da questo punto vista, alle condizioni
sociologiche di età omerica, con la corte dei Tolemei. Ecco perché sopravvive il genere epico. Il teatro in età
alessandrina è in decadenza; certo ci sono ancora dei drammaturghi, come Macone è un commediografo di
età alessandrina ma non opera ad Atene, bensì ad Alessandria. Oppure Eronda che scriveva mimiambi, ma
destinati perlopiù alla lettura (al massimo recitati da un solo attore). A parte questi casi, possiamo dire che
il teatro è in decadenza. Nel poema epico invece abbiamo una continuità, seppur nella sua discontinuità:
Apollonio Rodio non è identico al poema omerico. Apollonio Rodio è più breve (solo 4 libri), cambiano i
temi (centralità dell’amore e della figura femminile, impensabili nei poemi omerici). Ci sono elementi di
discontinuità anche nel testo: non c’è più la similitudine naturalistica, ma ci sono similitudini attinte al
mondo della scienza; ancora, nell’uso dei tempi: l’epica omerica è il genere del passato, invece quella di
Apollonio è proiettata verso il futuro. Anche la nascita dell’epillio contribuisce e porta ad un
ridimensionamento del poema omerico.

Leggiamo dal v751:

Traduzione: MA NIENTE AFFATTO (mala) IL DOLCE SONNO (glukeros upnos) PRESE MEDEA, INFATTI MOLTI
PENSIERI (meledemata = termine raro corrispondente a “frontis”) CHE DERIVAVANO DAL SUO
AMORE/DESIDERIO PER IL FIGLIO DI ESONE (= Giasone) TENEVANO SVEGLIA (egeire) LEI CHE TEMEVA LA
POTENZA TERRIBILE DEI TORI, A CAUSA DEI QUALI (oisin) EGLI (variatio del soggetto = diventa Giasone) SI
APPRESTAVA (emelle) A MORIRΕ, PER UN’INDEGNA SORTE, SUL TERRENO DI ARES.

Medea è presa dai pensieri d’amore per Giasone, che deve affrontare delle prove: il toro è una delle prime.
Giasone deve combattere vs tori che sputano fiamme dalle narici e hanno zanne di bronzo. Lei si tormenta
per lui. Da queste prove uscirà quasi sicuramente sconfitto.

ALL’INTERNO (entosten) DEL PETTO (stetewn) IL CUORE (kradie = per kardie) A LEI (oi = sta per il dat auth)
BATTEVA FORTE (puknà).

C’è poi una similitudine famosa (tipica del linguaggio metrico, infatti Frenkel scrive un libro sulla tecnica
della similitudine omerica. Apollonio Rodio riprende questa tecnica ma con differenze contenutistiche: in
Omero la similitudine ha sempre carattere naturale (leone, cervo = legame forte col paesaggio), invece
Apollonio desume le similitudini dal mondo della scienza perché in questo momento c’è un fiorire degli
studi scientifici. Qui infatti, questa tensione verso il nuovo si vede perché dietro la similitudine c’è il
concetto della rifrazione, che si studia per la prima volta in questo periodo. Linguaggio molto tecnico. Ma al
tempo stesso sono presenti hapax omerici. La similitudine inizia al v756 (ws) e termina al v760 (ws):

COME UN RAGGIO DI SOLE (aigle Heliou) SI LANCIA/ENTRA (Enipalletai) NELLE CASE VENENDO FUORI
DALL’ACQUA (udatos) CHE (to = valore relativo) È STATA VERSATA DA POCO (neon) IN UN CALDAIA OVVERO
IN UN SECCHIO (gaulw = hapax omerico. Apollonio dimostra che dietro ci sono gli studi di ottica) E (IL
RAGGIO DI SOLE = sogg. Sott) SI AGITA MUOVENDOSI VELOCEMENTE QUA E LA’ CON VELOCE VORTICE,
COSI’ ANCHE NEL PETTO (en stetessi) IL CUORE κεαρ DELLA FANCIULLA κουρης SI AGITAVA ελελιζετο.

Lo stile di Apollonio è un po’ ridondante. Similitudine in cui si alternano studi di ottica, hapax omerici ecc.
Tutto questo per descrivere lo stato d’animo d’agitazione di Medea.

… E VERSAVA ρεεν IN MANIERA DA FAR COMPASSIONE ελεω LACRIME δάκρυ DAGLI OCCHI απ`οφθαλμων E
DENTRO DI LEI ενδοθι SEMPRE LA RODEVA τειρε UNA PENA οδύνη, CHE SI CONSUMAVA σμυχουσα
ATTRAVERSO LA PELLE δια χροος, INTORNO AI NERVI SOTTILI αμφί τ’αραιας ινας, ESATTAMENTE SINO
ALL’ULTIMO OSSO DELLA TESTA (= alla nuca > Apollonio mostra le conoscenze dei dettagli tecnici),
LADDOVE PENETRA δυνει UN DOLORE αχος FORTISSIMO αλεγεινοτατον, QUANDO οπποτε GLI AMORI
Έρωτες INSTANCABILI ακάματοι SCAGLIANO ενισκιμψωσιν DOLORI ακάματοι NEL DIAFRAMMA/nel petto
(πραπιδεσσιν = termine scientifico).

Presenza di elementi anatomici. Questo è un elemento di novità ma anche di adesione alla tradizione:
l’amore già in Saffo è malattia (nosos). Ricordiamo l’ode alla gelosia di Saffo che descrive i dolori psicofisici
causati dall’amore. Vincenzo di Benedetto ha scritto un articolo sul linguaggio medico presente nel
linguaggio di Saffo, che dimostra di aver letto Ippocrate. Dunque, oltre all’adesione alla tradizione, notiamo
anche una conoscenza degli studi contemporanei ad Apollonio, come quelli sul cervello. Erofilo di
Calcedonio studia il cervello. Dunque, è probabile che quando si sta parlando dei nervi che giungono fino
all’occipite, ci siano dietro gli studi di Erofilo = apertura al mondo scientifico contemporaneo.

Viene descritto poi lo stato d’animo di Medea, il suo lato psicologico (= novità)

DUNQUE, IN UN MOMENTO άλλοτε DICEVA CHE LEI STESSA AVREBBE DATO δωσμέν A LUI (οι = αυτό)
RIMEDI φάρμακα MAGICI θελκτηρια PER I TORI ταύρων; IN UN ALTRO MOMENTO άλλοτε DICEVA CHE NON
δ’ου LI AVREBBE DATI AFFATTO, MA CHE ANCHE και LEI αυτή SI SAREBBE LASCIATA MORIRE καταφθεισθαι;
E SUBITO DOPO αυτικα (DICEVA = sott.) CHE LEI NON SAREBBE MORTA θανεειν E NON AVEBBE DATO ου
δώσειν NEPPURE I RIMEDI, MA SAREBBE RIMASTA COSÌ αυτως CALMA ευκηλος DA SOPPORTARE LA SUA
SVENTURA εην ατην

Ci sono 3 ipotesi: che avrebbe dato i rimedi a Giasone, che non glieli avrebbe dati ma si sarebbe lasciata
morire, oppure che non avrebbe dato né i rimedi né si sarebbe lasciata morire. Questo mostra la sua
indecisione.

MESSASI A SEDERE εζομενη ERA IN DUBBIO δοασσατο (= δοιαζω “avere due pensieri”) E DICEVA A SE
STESSA: “ME INFΕLICE δειλη εγώ, ORA νυν A CHE PUNTO DI SVENTURE κακών MI TROVO γενωμαι,
DAPPERTUTTO παντη I MIEI PENSIERI μοι φρενες SONO εισιν PRIVI DI MEZZI αμηχανοι, NON ουδέ RIESCO A
TROVARE UN RIMEDIO/NÉ C’È UN RIMEDIO αλκή PER QUESTO DOLORE πηματος, MA BRUCIA φλεγει
FORTEMENTE DENTRO εμπεδον. OH COME Ως AVREI VOLUTO ESSERE DOMATA δαμηναι DALLE FRECCE
VELOCI βελεεσσι κραιπνοισι DI ARTEMIDE (= come avrei voluto essere uccisa) PRIMA DI VEDERLO παρος
οφελον, PRIMA DI CONOSCERLO πριν εισιδεειν, E PRIMA πριν CHE I FIGLI υιας DI CALCIOPE (= sorella di
Medea. Quando morì il marito i figli andarono verso la Grecia, secondo il mito) RAGGIUNGESSERO ικεσθαι
LA TERRA ACHEA γαιαν Αχαιιδα. UN DIO τους θεος, OVVERO η UNA ERINNI Ερινυς, CONDUSSE ηγαγε QUI
δεύρο LORO DI LA’ κειθεν, LORO CHE SONO CAUSA DI DOLORI ανίας DALLE MOLTE LACRIME πολυκλαυτους
PER ME αμμι; CHE POSSA MORIRE φθεισθω COMBATTENDO αεθλευων SE ει PROPRIO È SCRTTO πελει DAL
DESTINO μοίρα PER LUI οι (MORIRE) ολεσθαι SUL CAMPO DI BATTAGLIA κατά νειον. COME Πως INFATTI IO
POTREI ORDIRE μησαμενη RIMEDI φάρμακα DI NASCOSTO αν λελαθοιμι AI MIEI GENITORI τοκηας εμους? E
QUALE Ποιον DISCORSO μυθον (POTREI FARE) PER SPIEGARE ενιψω? QUALE INGANNO τις δόλος, (QUALE)
INGANNEVOLE ASTUZIA μητις επικλοπος POTRÀ ESSERE εσσετε DI AIUTO αρωγής PER LUI?

C’è un climax ascendente dalla dolos alla Metis: il dolos è l’inganno ordito da qualcuno a danno di un altro,
ma per i Greci non è necessariamente negativo, anzi è espressione di una grande capacità intellettuale (cfr
Ulisse, “colui che tesse inganni”, o Afrodite), invece l’apate è un qualcosa che si fa di nascosto, un inganno
che implica sotterfugio (negativo). La metis è tipica dell’uomo che ha astuzia di ordire un inganno. Senza la
metis non può esserci il dolos: senza l’astuzia non si può tessere l’inganno. Apollonio gioca con le parole. Si
fa riferimento alla metis anche perché è un termine connesso a Medea, dotata di metis: nel momento in cui
lei parla, svela l’etimologia del suo nome = questo ci riporta alla cerchia dei poeti dotti che hanno una
conoscenza linguistica elevata. Dunque, il pubblico di Apollonio è elitario, sa interpretare i giochi
etimologici.

15.03.2022

Continuiamo con Apollonio Rodio, dal v. 782 al 790

È sempre il monologo di Medea, che dice:

COME IO POTRÒ RIVOLGERMI A LUI προσπτυξομαι LONTANO DA SUOI COMPAGNI εταρων


GUARDAΝDOLO ιδουσα DA SOLO οιον

Forse l’eroe fa parte di una cerchia di compagni. Questa è la condizione dell’eroe omerico. Perché non sia in
pericolo, l’eroe deve essere circondato di compagni. In effetti, quando Odisseo sarà da solo, correrà i
pericoli maggiori, es: incontra Nausicaa e non vorrà più rientrare, sarà tentato di abbandonare il suo
progetto e questo perrchè non ha insieme la cerchia dei compagni.

ME INFELICE, IO NON SPERO DI POTERMI RIAVERE DAI DOLORI SE ANCHE LUI MORIRA’ (kataftimenoio),
ANZI, QUANDO SARA’ PRIVATO DELLA VITA, ALLORA LUI SARA’ PER ME MOTIVO DI DOLORE.

È probabile che dietro questo pensiero ci sia la filosofia stoica, che fiorisce proprio in età ellenistica.

VADA ALLA MALORA IL MIO PUDORE (aidos), VADA ALLA MALORA LA MIA FAMA. LUI, SALVATO DAL MIO
VOLERE (emè ioteti) POSSA ANDARE SICURO/SENZA PERICOLO LADDOVE GLI E’ CARO ANDARE (oi sta
sempre per autò, con iota sottoscritto = dat). Medea sta prendendo in considerazione anche una decisione
di tipo altruistico; anche se sarà abbandonata l’importante è ce lui si salvi.

MA IO, IN QUELLO STESSO GIORNO IN CUI LUI AVRA’ COMPIUTO LA SUA IMPRESA, POSSA IO MORIRE O
APPESO IL MIO COLLO AL SOFFITTO OPPURE AVENDO BEVUTO RIMEDI (farmaka) DISTRTTUTTIVI DELLA
VITA/DEL CENTRO VITALE. Nel momento in cui lui si sarà salvato lei immagina la sua fine, o per
impiccaggione (suicidio tipicamente femminile: anche di Giocasta, Fedra, Antigone. Tipicamente maschile,
invece, è il suicidio con la spada) oppure per avvelenamento, dato che è pur sempre una maga e ha a che
fare con i filtri.

Da 791 a 794

MA ANCHE COSI’ RIDERANNO DIETRO (epillicsousin opissw) A ME MORTA, CON LE LORO INGIURIE. IN
LUNGO E IN LARGO, TUTTA LA CITTA’ GRIDERA’ TUTTO INTORNO (perì) LA MIA MORTE/IL MIO TRISTE
DESTINO E TUTTI LE ABITANTI DELLA COLCHIDE, CHI DI QUA CHI DI LA’, BIASIMERANNO (momesontai) LA
MIA VERGOGNOSA FINE, PORTANDOMI SULLA BOCCA.

Qui Medea immagina la polis come giudice di un’azione privata che diventa un fatto pubblico. È come se ci
fosse un processo sociale che poi è tipico della Grecia antica. Se pensiamo al coro, sappiamo che aveva
proprio una funzione di giudizio sociale. La questione del biasimo verso qualcuno la troviamo già nei poemi
omerici; infatti si è detto che questa scena abbia qualcosa in comune con l’incontro tra Odisseo e Nausicaa:
l’eroe di cui si innamora la principessa locale, Medea di Giasone così come Nausicaa di Omero. Nel VI libro
dell’Odisseo, dopo aver incontrato Odisseo, vuole rientrare al palazzo di Alcinoo senza Odisseo ma con le
ancelle: ai vv 273-274 si dice “mh tis opissw mwmeuh” = “PERCHE’ QUALCUNO POTREBBE DERIDERLA
DIETRO”. Qui c’è la ripresa puntuale sia di opissw che del verbo momeuw “biasimare”. La differenza è che
nell’Odissea Nausicaa teme soprattutto il giudizio maschile, qui invece si parla delle donne della Colchide,
dunque il giudizio femminile. C’è anche la ripresa: nell’Odissea al v.279 leggiamo “phledapwn”, invece nelle
Argoanutiche al v.795 “allodapoio”: si fa riferimento ad un riferimento ad un uomo straniero che viene
dall’estero. L’aggettivo allodapos è una variatio dell’aggettivo usato nell’Odissea. Dunque, Apollonio Rodio
riprende con puntualità alcuni termini, ma ne varia lievemente altri. La situazione è simile (principessa
locale che si innamora dello straniero e teme il giudizio degli altri) = IMITATIO CUM VARIATIONE
tipicamente alessandrina. Dietro questo pezzo c’è il libro VI dell’Odissea, ma c’è anche il modello iliadico di
Elena: ai vv411-412 dell’Iliade si legge “trwiai dè m’opissw pasai mwmhsontai” = Elena teme il giudizio di
tutte le donne troiane che le rideranno dietro, la biasimeranno. Oltre alla ripresa di opissw, c’è la ripresa di
momesontai nella stessa posizione metrica, ossia in explicit di esametro. Dunque, sono tutti indizi che
indicano una chiara ripresa degli archetipi omerici. Tuttavia, ci sono differenze strutturali: Medea si
sacrifica, Elena no.

Da 795

L’editore mette tra virgolette queste frasi perché immagina che a parlare siano proprio le donne della
Colchide:
“COSTEI STANDO COSÌ MALE (kedomene toson) PER UNO STRANIERO (aneros sta per andros) E’ MORTA,
COSTEI CHE HA SVRGOGNATO LA SUA CASA (doma) E I SUOI GENITORI, CEDENDO AD UNA PASSIONE
FURENTE (margosunes sta per margotes = termine raro)”.

Prosegue il monologo di Medea:

E QUALE NON SARA’ LA MIA VERGOGNA, AHIME’, PER LA MIA INSENSATEZZA (aths)

aths “cecità” lett. = termine sempre connesso alla sessualità. Lo troviamo anche nell’epodo di Colonia di
Archiloco in riferimento a Neobule, donna che si intende biasimare per la sua sfrenatezza sessuale. In
Grecia la cecità è sempre legata alla sfera sessuale: anche Tiresia viene accecato dopo aver visto nuda la
divinità. Qui lo troviamo in genitivo perché è un genitivo esclamativo (per espressioni di stupore).
CERTAMENTE SAREBBE MOLTO PIÙ’ VANTAGGIOSO (polù kerdion eie) LASCIARE LA VITA IN QUESTA STESSA
NOTTE NELLE STANZE DA LETTO/NELLE MIE STANZE, A CAUSA/ IN SEGUITO DI UNA MORTE MISTERIOSA, E
METTENDO IN FUGA COSI’ TUTTI GLI ESSERI VIVI (“mettendo in fuga così tutte le brutte ingiurie” = lett., ma
qui evidentemente c’è l’astratto per il concreto, ecco perhè traduciamo con “esseri vivi”) PRIMA CHE SI
COMPIANO QUESTE AZIONI (tade) VERGOGNOSE E IGNOBILI/NON NOMINABILI (ouk onomastà).

In tutto il libro III, in particolare in questo monologo, giganteggia la figura femminile di Medea: questa è una
svolta rispetto al poema omerico che è un poema di eroi maschi, infatti la prima parola con cui si
aprel’Odissea è “andra moi”. Centrale è anche il sentimento d’amore. Ci troviamo di fronte alla prima
grande dichiarazione d’amore che va contro la legge della polis, della famiglia, della moralità corrente:
Medea va decisamente controcorrente per il suo essere donna, barbara e maga. Questa dichiarazione
d’amore è inserita in un contesto NOTTURNO.

Il lessico è un po’ faticoso e ridondante, fatto di termini rari e dalla costruzione ardua.

TEOCRITO, IDILLI, II, 1-17

Idillio famoso che si divide in due parti: una prima parte è costituita dai vv 1-63, in cui c’è la descrizione di
una cerimonia magica, messa in atto dalla protagonista, Simeta, per tentare di recuperare l’amore
dell’uomo che ritiene non l’ami più. Questo uomo è nominato al v 29, Delfi di Mindio. Poi c’è una seconda
parte che va da 64 a 166, in cui la protagonista, che ha accanto a sé una schiava …, rimane sola e fa un
monologo alla luna. Questo ci riporta ancora una volta in età ellenistica al binomio notte-amore. Abbiamo
anche qui il protagonista e la serva, stesso schema che abbiamo già visto in Menandro e il monologo del
protagonista in un ambiente temporale notturno.

Tra gli idilli di Teocrito ce ne sono alcuni, tra cui l’Incantatrice e le Siracusane, che sono chiamati “mimi
urbani”, il che ci stupisce un po’ perché Teocrito è rappresentante del genere bucolico quindi dovrebbe
presentare sempre un ambiente campestre, ad eccezione di questi due che hanno un’ambientazione
urbana, cittadina. A proposito di questi due componimenti, già l’esegesi antica (scolii, commenti…), i
commentatori antichi ritengono che qui Teocrito stia imitando Sofrone di Siracusa, esponente del genere
mimico, genere andato perduto (noi abbiamo pochissimo del mimo antico). Possiamo però dire qualcosa:
intanto “mimo” deriva da “mimeomai” = “imitazione della vita di tutti i giorni”, degli aspetti più umili della
vita quotidiana. Il mimo è un genere che si sviluppa in Sicilia, nel. VI-V a.C. Il maggiore esponente è proprio
Sofrone, del quale ci sono rimasti solo alcuni frammenti molto brevi, qualche titolo: tutto ciò ci fa capire
qualcosa circa l’ambientazione di questi mimi, fatti di personaggi umili (mezzana, lenone, maestro di
scuola). Degli altri esponenti di questo genere non abbiamo nulla. Abbiamo notizia di Senarco, figlio di
Sofrone, ma di lui non leggiamo nulla. Dopo il VI-V, del mimo abbiamo una ripresa in età alessandrina 6:
sono mimi letterari dall’alta cifra poetica. Tra gli autori abbiamo Teocrito, ma anche il suo contemporaneo
Eronda, che conosciamo solo dal 1891, quando c’è stata la scoperta di un papiro contenente 8 mimiambi
(=componimenti mimici scritti in metro giambico). Abbiamo più o meno 1800 versi di Eronda: i primi 7 ben
conservati, l’8 meno. Tutti contengono riferimenti alla vita di tutti i giorni, infatti il primo mimiambo è
dedicato alla mezzana, il secondo al lenone, il terzo al maestro di scuola, il quarto alle donne che vanno a
visitare un tempio, argomento simile all’idillio 15 di Teocrito, le Siracusane, che vede due donne recarsi a
teatro (sicuramente non come attrici perché i ruoli femminili erano interpretati da attori maschi).

6
I frammenti che abbiamo di Sofrone sono compresi nell’edizione di Kassell e Austin (ICG)
Gli scoliasti, a proposito di questo idillio di Teocrito, notano che il nome della schiava, Testi, era già
presente in un mimo di Sofrone. Notano anche che l’argomento del secondo idillio era identico a quello di
un mimo di Sofrone andato perduto: la fattura magica, la magia d’amore. I mimi erano scritti in dialetto
dorico. Anche la lingua teocritea ha una patina dorica (prevalenza dell’alfa ecc.). Qual’era questo idillio di
Sofrone citato dagli scolii? “Le donne che dicono di esorcizzare la dea” = “tai dunaikes ai tan (invece di thn)
thon fanti (fasì) ecselan”. Questo titolo è stato tradotto in vari modi: “Le donne che dicono di tirare giù la
luna (dea nel senso della dea Selene)”. Ad ogni modo, già gli antichi pensavano che questo idillio teocriteo
avesse come modello un mimo di Sofrone.

Gau, studioso della letteratura bucolica ed editore della edizione Oxoniense dei poeti bucolici greci, editore
anche di Teocrito e di Macone (autore mimico di età alessandrina). Gau insieme a Page ha curato il
commento dell’edizione dell’Antologia Palatina. Gau dice che a suo avviso il legame fra Teocrito e Sofrone è
evidente a livello contenutistico, ma non tanto a livello formale e di genere letterario. Dunque, secondo lui
è lecito parlare di idilli, per Teocrito, contenti elementi contenutistici del mimo. È diverso il metro: i metri
del mimo sono giambici, perché il mio è imparentato con la tradizione giambica, dunque con la commedia
(giambo e commedia sono “cognata genera”). Qui invece il metro è l’esametro. Inoltre, secondo Gau, altro
elemento formale di diversità fra i due è la destinazione di questi componimenti, come vengono pubblicati?
I mimi di Sofrone erano opere di teatro, dunque venivano rappresentati (ecco perché compresi in Kassell-
Austin), invece i mimi sono destinati alla lettura o al massimo alla recitazione di un solo personaggio, una
recitazione monologica. Dunque, forse si svolgevano sulla scena con un solo personaggio parlante e uno
muto (= la serva Testi). Per Eronda non sappiamo se fossero mimiambi destinati alla lettura o alla
rappresentazione (come ritiene Mastromarco), sempre monologica. Mastromarco argomenta questa tesi
sulla base di indizi di teatralità che dice di trovare nell’opera (es: deittici).

Iniziamo a vedere la parte della cerimonia magica:

DOVE SONO (Pa) PER ME (moi = dat di vantaggio) LE FOGLIE D’ALLORO (tai = art in dorico per ai)?
PORTAMELE TESTILI. DOVE SONO I FILTRI D’AMORE? LEGA (stepson) LA COPPA (tan per thn attico) CON IL
FIORE (awtw) ROSSO (foinikeo) DELLA PECORA (oios)/LEGA LA COPPA CON LA MORBIDA LANA COLOR
PORPORA (non lett.)

Dunque, ha un riferimento specifico: è l’oggetto con cui legare l’amore dell’amato.

COSI’ VOGLIO LEGARE (katadesomai) L’UOMO CHE MI E’ CARO (filon)/AMATO E TUTTAVIA CRUDELE
(barun), SONO 11 GIORNI CHE LO SVENTURATO NON TORNA (pros + exw) DA ME, NE’ SA SE NOI SIAMO
MORTE O VIVE, NE’ HA MAI BUSSATO L’INDEGNO ALLA NOSTRA PORTA. AMORE (eros) E AFRODITE SE NE
SONO ANDATI PER LUI (oi sta per autò attico) ALTROVE/IN UN ALTRO POSTO, AVENDO PENSIERI VELOCI.

Katadesomai = futuro volitivo = indica una volontà

Filon-barun = espressione ossimorica che esprime sentimenti contrastanti. Sin da Saffo c’è questa modalità
ossimorica per descrivere l’eros.

Aracsen = aor. … (Sinonimi : koptw, paiein. In commedia il più usato è paiein perché c’è il gioco di parole
con “pais” = “ragazzo” e perché viene usato in senso erotico)

“AVENDO PENSIERI VELOCI” = si può riferire sia ad Eros, dunque l’amore ha pensieri veloci. Secondo altri
può riferirsi proprio a Delfi, uomo che è volubile e dunque ha pensieri veloci. Però è più probabile che si
riferisca ad Eros e questo ci viene confermato dalla rappresentazione iconografica di Eros con le ali. Si
muove con le ali perché è un essere volubile e cambia pensiero facilmente.

DOMANI (aurion) VOGLIO ANDARE (baseuomai = ft volitivo) ALLA (potì = pros) PALESTRA DI TIMAGETE PER
VEDERLO (emin sta per auton) E LO BIASIMERO’ (mempsomai) PER TUTTO IL MALE CHE MI STA FACENDO
(me poiei). MA ORA INVECE LO VOGLIO LEGARE (katdesomai = ft volitivo) IN VIRTU’ DEI SACRIFICI MAGICI.

Inizia ora la descrizione vera e propria della cerimonia magica, nel dettaglio. Abbiamo alcuni papiri magici
che ci restituiscono proprio queste cerimonie, dunque l’idea della “bambolina vodoo”: anche allora c’erano
piccole bambole che riproducevano le fattezze della persona verso la quale si volevano esercitare le
procedure magiche.

17.03.2022

Riprendiamo la lettura dell’idillio teocriteo, dal v 10 (ultima parte): invocazione alla Luna.

Simeta si rivolge alla luna:

ORSU’ (alla) LUNA, MOSTRATI IN TUTTO IL TUO SPLENDORE 7, OH SIGNORA (daimon) CANTERO’
SOTTOVOCE (pot- sta per pros) PER TE (tin = in attico sarebbe “soi”, ma Teocrito usa una lingua dorizzante)
E PER LA CTONIA ECATE (= divinità terrestre legata agli inferi, a Demtra, a Persefone, divinità ch aveva il
compito di presiedere alle cerimonie sacre. In effetti, qui c’è tutta una cerimonia magica di negromanzia, di
invocazione del regno dei morti), PER LA QUALE (tan per ten) ANCHE I CANI NUTRONO TIMORE QUANDO SI
AGGIRA SULLE TOMBE (ana nekuon) E SUL NERO SANGUE DEI MORTI.

SKULAKES “cani” = termine che si afferma nell koinè, nella lingua più tarda. Lo troviamo anche nell’Odissea
però non indica il cane, bensì il cucciolo di qualsiasi animale, in particolare quello di cane. Infatti
nell’Odissea Polifemo scuote i “cucciolotti” che si appresta a divorare, ma in Teocrito ormai questo termine
è diventato sinonimo di kunos. D’altra parte, nel greco moderno cane si dice “skilos”.

Ora c’è la descrizione di questa cerimonia di negromanzia:

SALVE ECATE TERRIFICANTE, SOCCORRICI (amin per emin) SINO ALLA FINE FACENDO QUESTI INTRUGLI
(farmaka), CHE NON SONO PEGGIORI Né (mete) DI QUELLI FATTI DA CIRCE, Né DI QUELLI FATTI DA MEDEA,
Né DI QUELLI FATTI DALLA BIONDA (csantas) PERIMEDE.

 Daspleti = attributo riferito ad Ecate di origine omerica. Anche se l’idillio nasce in contrapposizione
rispetto all’epos, il confronto con l’epica ricorre sempre in maniera dotta negli idilli. In Omero
questo agg è attributo delle Erinni, comunque divinità infernali = imitatio cum variatione.
 Csantas Perimedas= anche questo è un riferimento omerico. In una elegia di Properzio, la quarta
del libro II (v7), questa maga è messa in relazione con Medea, proprio come in questo passo di
Teocrito. Ma nell’XI dell’Iliade (v740) si parla di un’altra maga, non di PERIMEDE, ma di Agamede,
della quale non sappiamo bene chi fosse: secondo alcuni Agamede è l’altro nome di Medea. A noi
interessa, al di là dell’identità, vista anche la posizione metrica (explicit d’esametro), il fatto che
probabilmente Teocrito ha presente il modello omerico, dunque anche qui fa un’operazione di

7
Questo è un primo elemento di scena notturna.
imitatio cum variatione. Il nome di PERIMEDE significa “colei che pensa tutt’intorno/troppo”, ecco
perché alcuni hanno messo in relazione il personaggio con Medea. Nell’800 la scuola olandese
prevedeva una correzione del testo di Teocrito in questo punto: correggevano Perimedas con
Agamedas perché ci fosse una ripresa puntuale di Omero. Ma da pdv metodologico è sbagliato fare
questo tipo di correzione perché comunque nella mentalità alessandrina il lettore dotto sapeva che
Teocrito stesse riprendendo Omero ma non era necessario farlo con le stesse parole. Gau infatti
non lo corregge.

C’è poi un ritornello (v17) = lo ritroviamo più volte nel testo, al v 42, al v32, al v 52: i filologi non concordano
sulla numerazione dei versi, quindi Gau li sistema in questo modo anche se non sono numerati in ordine.

Ritornello: OH RUOTA, TRASCINA (elke) TU QUELL’UOMO ALLA MIA CASA (potì per pros).

 Iunx = la “ruota” è una sorta di amuleto, un oggetto magico. Talvolta si trova anche il “rombos”,
una lamina a forma di rombo, che troveremo anche nell’idillio di Teocrito.
 Questa formula magica torna a scandire il monologo di Simeta e ha il fine di riportare a casa
l’amato.

Così si chiude la prima parte del monologo di Simeta.

Riprendiamo dal v38:

ECCO (enide = en idou in attico) IL MARE TACE, I VENTI TACCIONO; MA NON TACE IL MIO (emà per emè)
TORMENTO (a anìa per h anìa) ALL’INTERNO DEL MIO PETTO, MA IO ARDO (kataitomai) TUTTA PER COLUI IL
QUALE/ CHE FECE IN MODO CHE IO FOSSI DISGRAZIATA/INFELICE (talainan), INVECE CHE UNA MOGLIE,
UNA DONNA PERDUTA E NON PIU’ VERGINE. OH RUOTA, TRASCINA TU QUELL’UOMO ALLA MIA CASA.

Continua la descrizione della cerimonia magica:

COME IO SCIOLGO/FACCIO SCIOGLIERE (takw) CON L’AIUTO DELLA DIVINITA’ (= Ecate) QUESTA IMMAGINE
DI CERA, COSI’ (takoit’) SUBITO DELFI DI MINDO SI STRUGGA DALL’AMORE PER ME, E COSI’ COME QUESTO
ROMBO DI BRONZO GIRA PER VOLONTA’ DI AFRODITE, COSI’ QUELLO (keinos per ekeinos) POSSA GIRARE
INTORNO ALLE NOSTRE PORTE.

Simeta ha costruito un’immagine di cera dell’amato che fa sciogliere sul fuoco, quindi evidentemente
doveva esserci un fuoco anche se non è menzionato. Tutto questo per fare in modo che Delfi si strugga
d’amore per lei. Il ragionamento magico è sempre analogico: connette livelli diversi di realtà, in questo caso
l’immagine di Delfi con Delfi stesso.

Qui ci sono dei deittici, molti pronomi dimostrativi (v30 ode) che fanno sempre riferimento a “questo”:
questa presenza di deittici può essere prova del fatto che gli idilli fossero destinati non solo alla lettura ma
anche alla recitazione monologica, con un solo attore che in questo caso sarebbe la protagonista. Questo
sarebbe confermato non solo dai deittici ma da tutto il contesto. Per esempio, il fatto che si immagina il
fuoco ma non c’è una descrizione di esso lascia pensare che fosse già sulla scena, dunque che non
necessitasse di una descrizione.

Gau interviene sull’ordine dei versi tramandato dalla trazione manoscritta.

Dal v43
OH SIGNORA (= Ecate, potnia), TRE VOLTE IO FACCIO LIBAGIONI E TRE VOLTE DICO QUESTE COSE/FRASI
“SIA CHE GIACCIA ACCANTO A LUI (thno per ekeino) UNA DONNA (gunà per gunè) SIA UN UOMO, SE NE
DIMENTICHI (abbia = ekoi tanta= tosson di dimenticanza quanta) COSI’ COME UN TEMPO, DICONO (fantì
per fasì) CHE SI DIMENTICO’ (lastemen) TESEO NELL’ISOLA DI DIA DI ARIANNA DALLA BELLA CHIOMA.

 Il numero 3 è un numero magico, ecco perché viene ripetuto più volte.


 Tutto questo incantesimo è funzionale al fatto che Delfi si dimentichi della persona con cui ha
tradito Simeta. C’è il riferimento mitico all’abbandono di Arianna da parte di Teseo.
 En Dia = forma rara per indicare l’isola di Nasso, dove fu abbandonata Arianna, recuperata da
Dioniso che poi la trasforma in costellazione. La nostra espressione “essere abbandonato in Nasso”
nasce da questo
 Arianna dalla bella chioma = in Iliade XVIII (v592) troviamo al posto di eu “kalli” = imitatio cum
variatione di Omero.

PRESSO GLI ARACADI C’E’ UNA PIANTA, L’IPPOMANE, (pianta = sott.) PER CUI c’è un’anastrofe (= depi tò)
TUTTE LE PULDRE E LE VELOCI CAVALLE IMPAZZISCONO SUI MONTI (ainoia), COSI’ ANCHE POSSA IO VEDERE
DELFI E SIMILE AD UN PAZZO POSSA VENIRE A QUESTA CASA, FUORI DALLA LUCIDA PALESTRA.

 Ippomane = pianta da cui si ricavavano le pozioni di magia erotica. Queste informazioni le ricaviamo
da papiri magici in cui c’è proprio la descrizione di questi elementi magici. C’è sempre un
ragionamento analogico: ha parlato della pianta e poi lo riporta alla sua situazione.
 “Lucida Palestra” = l’aggettivo liparos indica l’unto, in riferimento all’olio che usavano gli atleti,
coloro che frequentavano la palestra e che veniva messo con lo strigile. Questo aggettivo ha una
lunga storia: veniva usato da Pindaro in rifierimnto ad Atene e significa “splendida”. Aristofane,
però, negli Acarnesi ironizza su questo aggettivo usato da Pindaro e dice che è più adatto ad
indicare le “alici fritte”.

DELFI PRESE QUESTO ORLO DAL SUO MANTELLO CHE IO (wgw = crasi tra w ed egw. In attico la crasi sarebbe
stata ougw), STRAPPANDO/spezzando, GETTO GIU’ NEL FUOCO SELVAGGIO/DISTRUTTORE (= rituale
magico. Cfr v28 dove si parla anche del fuoco anche se non veniva mezionato. Agrio en = stato in luogo
anche se noi ci aspetteremmo più un moto a luogo. Questa usanza però in Teocrito è frutto di un
ragionamento logico perchè lo stato in luogo indica un’azione che implica un movimento a cui però segue
un momento di quiete, quindi viene lanciato però poi si ferma) AHIME’ AMORE FUNESTO,PERCHE’
ATTACCATO ALLA MIA PELLE COME UNA SANGUISUGA DI PALUDE HAI BEVUTO TUTTO IL MIO NERO
SANGUE?

 C’è un’immagine di Eros che può sembrare realistica, essendo paragonato ad una sanguisuga che
succhia il sangue. Per questo l’innamorato appare sempre pallido. In realtà in età alessandrina
questa immagine di eros animale è presente anche nell’Antologia Palatina, ma già in Saffo Eros è un
animale: nel frammento 130 (ed. Voirt), Eros “dolce amaro contro cui nessuno può” = orpeton =
essere che striscia. Quindi questa immagine di eros animale è un’immagine letteraria anche se può
sembrare realistica.

Dal v64

Fino al v63 si è svolta la cerimonia magica di Simeta e Testili (= assistente alla cerimonia). Propp, studioso
russo, diceva che nelle cerimonie magiche ci voleva sempre un aiutante: è uno schema che ricorre in tutte
le fiabe. Dal v64 ha inizio il lungo monologo alla luna: Simeta dichiara le sue “sofferenze d’amore” alla luna
e l’allontanamento della schiava ha una funzione precisa perché ora c’è il monologo alla luna. Simeta rileva
questa sua solitudine proprio al v64 e dice:

ORA CHE SONO SOLA COME POTRO’ PIANGERE (poten dakruso) SUL MIO AMORE? DA CHE COSA/DA QUALE
PUNTO INIZIERO’ IL MIO RACCONTO? CHI MI PORTO’ QUESTO MALE?

Vuole raccontare la sua storia a partire dall’innamoramento.

FU LA CANEFORA (= figura delle Panatenee) ANASSO’, LA FIGLIA DI EUBULO (crasi = tou eubouloio) CHE
VENNE AL BOSCO SACRO (anastrofe = es alsos) DI ARTEMIDE, IN ONORE DELLA QUALE FURONO PORTATE
IN PROCESSIONE (pompeueske) DA OGNI PARTE MOLTI ANIMALI E ANCHE UNA LEONESSA (en de leaina).

A questo punto si ha una svolta tematica perché cambia il ritornello, che non è più quello di prima ma
diventa:

DIMMI (frazew meu), DEA SELENE, DA DOVE VENNE IL MIO AMORE.

Continua a raccontare il primo incontro con Delfi (dal v70):

E TEMARIDE, LA NUTRICE TRACIA, LA BUON’ANIMA CHE ABITAVA VICINO CASA, MI PREGO’ E INSISTETTE
CON LE SUE PREGHIERE AFFINCHÉ ANDASSI A VEDERE LA PROCESSIONE (tan pompan per thn pomphn); ED
IO SVENTURATISSIMA LA SEGUII, TRASCINANDO (suroisa) IL MIO BEL MANTELLO DI BISSO (= stoffa pregiata
proveniente dall’Egitto) E INDOSSANDO LA VESTE DI LUSSO DI KLEARISSA (= aveva solo il chitone ma non il
vestito da festa, dunque lo chiede in prestito all’amica. Questo ci suggerisce che la protagonista non è una
donna agiata e per questo ha chiesto in prestito il vestito).

DIMMI, DEA SELENE, DA DOVE VENNE IL MIO AMORE.

22.03.2022

Martedì 29 (no lezione)

Dal v.75

ESSENDO ORMAI A META’ DELLA STRADA CARRABILE (amaxiton = amax “carro”), QUELLA DOVE CI SONO LE
PROPRIETA’ (LE COSE) DI LICONE, IO VIDI (iontas) CHE VENIVANO INSIEME DELFI ED EUDAMIPPO; A LORO
ERA (hs = dorico per hn impf di eimi)/AVEVANO UNA BARBA PIU’ BIONDA DELL’ELITRISO E TETTI CHE
BRILLAVANO (stilbonta) MOLTO PIÙ DI TE, OH SELENA, COME è PROPRIO DI COLORO CHE DA POCO HANNO
ABBANDONATO LA BELLA FATICA DEL GINNASIO/DELLA PALESTRA.

la costruzione è tale che possiamo intenderla in due modi:

 Upò + liponton
 Upò + gen gumnasioio

Geneias è al singolare per dire che due personaggi sono molto simili tra loro; è come se fossero una stessa
persona
DIMMI, OH DEA SELENE, DONDE VENNE IL MIO AMORE (ritornello)

COME LO VEDI COSÌ IMPAZZII, COSÌ A ME SVENTURATA (deilaias) IL CUORE (iafte) FU DEVASTATO DAL
FUOCO E LA MIA BELLEZZA SI STRUGGEVA. NON PENSAI PIU’ A QUELLA PROCESSIONE, NE’ MI RESI CONTO
COME TRONAI INDIETRO (palin) A CASA, MA UNA MALATTIA SECCA (kapurà = termine medico “che
consuma”) MI ASSALI’ CON VIOLENZA E IO GIACQUI (keiman) NEL LETTO PER 10 GIORNI E 10 NOTTI.

Pezzo citato sempre per alludere all’innamoramento a prima vista = topos che avrà grande fortuna nel
romanzo greco, nell’epistolografia ecc. il primo esempio di innamoramento a prima vista è in Omero, nella
diòs agate, quando Zeus vede Era ma è come se non la vedesse per la prima volta. Lo ritroviamo anche in
Saffo (31) quando si parla delle condizioni psicofisiche alla vista della fanciulla amata. Topos che torna
anche in Virgilio, ecloga VIII (v41) ut vidi.. ut perii… ut me malus error”. Spesso l’innamora mento avviene in
occasione di una concezione, per esempio nel primo mimiambo di Eronda (qui però è il personaggio
maschile a stare male).

Abbiamo tradotto “così a me infelice” = può stupire che moi sia al dat invece deilaias al gen, ma in realtà è
una costruzione poetica attestata in Teocrito e nella grecità.

Palin apenton = aor dorico che in attico è “apelton”. Palin ha quasi sempre valore temporale, qui invece ha
il suo valore tradizionale di locativo e spesso si trova con verbi di movimento = qui significa infatti
“indietro”.

È particolarmente evidente la dipendenza da Saffo e lo notiamo nell’uso di “purì” che ricorda “pur” di Saffo,
quindi c’è sempre un rifermento alla febbre. In greco ci sono due termini per febbre:

 Puretos = temeperatua alta


 Hpiaros = brividi provocati dalla febbre

Quindi, “pur” è il fuoco d’amore che provoca la febbre.

Il fatto di giacere 10 notti e 10 giorni implica anche il disinteresse per le attività quotidiane = altro topos
della poesia d’amore per cui l’innamorato non riesce a svolgere le attività quotidiane perché ammalato.
Questa è la concezione saffica dell’eros. Invece nel Fedro e nel Simposio, Platone dice che l’amore fa
sviluppare le teknai, riesce a rendere dotto chi prima era ignorante. Per Platone dunque non è forza
devastante come per Saffo, ma è didaskalos, maestro, è in grado di insegnare.

DIMMI DEA SELENE DONDE VENNE IL MIO AMORE

E SPESSO (pollaki) LA MIA PELLE DIVENNE (egineto) SIMILE (omoio) AL TASSO (= pianta di colore rosso
bruno. Non è casuale il riferimento a questa pianta perché nelle credenze popolari antiche e moderne, il
tasso è l’albero messo in relazione alla morte. Ciò significa che lei è sul punto di morire. È citato il tasso
anche per un elemento cromatico: è rossastro e lei è rossa per la febbre alta. Inoltre, le foglie del tasso
sono velenose. Anche il riferimento alla pelle è un riferimento al framm31 di Saffo dove abbiamo il “pro
pur”) E MI CADEVANO DALLA TESTA TUTTI I CAPELLI E NON RIMANEVA (hs per L’impf di eimi hn) ALTRO
CHE OSSA (osti) E PELLE. E DA CHI NON SONO ARRIVATA? O LA CASA DI QUALE VECCHIA CHE FACEVA
INCANTESIMI HO TRASCURATO? MA NON ERA COSA AGEVOLE (non c’era niente di agevole = sempre hs per
hn) E IL TEMPO CONTINUAVA A FUGGIRE.
DIMMI DEA SELENE DONDE VENNE IL MIO AMORE.

Descritti tutti i sintomi come in Saffo: diventa rossa, dimagrisce, si rivolge a cartomanti. Tuttavia, non c’era
nulla da fare e il tempo passava.

Non leggiamo i versi successivi. Leggiamo da 165:

SALVE, OH SELENE DAL TRONO LUCENTE, E SALVE A VOI ALTRE STELLE, CHE SEGUITE (opadoi) IL CARRO
DELLA PLACIDA NOTTE (eukaloio nuktos).

Ancora un esplicito riferimento notturno in un contesto chiaramente erotico. Binomio notte-amore.

FRAGMENTUM GRENFELLIANUM

Papiro compreso nell’edizione teubneriana di Kunningham, la seconda ed, quella con addenda et
corrigenda del 2004 (la prima è del 1987). Si tratta di un frammento conservato alla British Library. Un
foglio di papiro ha un retro e un verso. Il recto di questo foglio di papiro riporta un contratto per il prestito
di frumento (dunque non un testo letterario), datato al 5ott dell’VIII anno del regno di Tolemeo VI
Filometore, quindi più o meno il 5 ottobre del … Invece, il testo che noi leggiamo (letterario) si trova sul
verso. Tradizionalmente indicato come “GRENFELLIANUM” dal nome di Grenfell che per primo lo pubblicò
nel 1896. Fine 800 = numerose campagne di scavo in Egitto, stesso periodo in cui vengono alla luce
Menandro, Bacchilide, Eronda ecc. Dunque, questo foglio è stato trovato in Egitto nella zona della tebaide e
appartiene ad un archivio bilingue di Druton, ufficiale di cavalleria egiziano che nel contratto sul recto
risulta destinatario del prestito di frumento, da parte di un certo Sosipatro (non sappiamo chi fosse). Del
testo che ci interessa restano due colonne, una accanto all’altra. La prof ci ha riportato la prima colonna.
Non ci ha riportato la seconda perché è molto malconcia. La colonna è costituita da 27 righi di testo e
ovviamente ogni rigo non corrisponde ad un verso; il rigo è molto più di un verso. Quando ci troviamo di
fronte ad un papiro la prima cosa da fare è la trascrizione diplomatica, ossia trascrivere il testo riportando
tutti i segni così come li vediamo. Quando si va a definire il testo si possono delineare i versi. Lo spazio tra
una colonna e l’altra, dunque l’intercolumnio = 1cm; invece l’interlinea è abbastanza regolare anche se
nella seconda colonna risulta maggiore. Non è possibile stabilire la lunghezza originaria del componimento
perché non abbiamo elementi utili. Sicuramente nel foglio di papiro poteva esserci lo spazio per una terza
colonna, e questa ipotesi è sostenuta dall’editore principe, Grenfell. Della seconda colonna, nell’editio
princeps, si potevano leggere solo alcune parole della parte sx. Dopo l’Editio princeps del 1896 si ebbe un
ulteriore danneggiamento del papiro. Ma nel 1897 Grenfell pubblicò un pezzettino di papiro appartenente
alla stessa colonna, che rese possibile leggere qualcosa in più nei righi 10-21. Dopo il 1897 si aggiunse
ancora un frammento di papiro che venne trascritto da Crusius a Oxford e stampato dallo stesso Crusius
nella stessa edizione dei mimiambi di Eronda nel … Nicholaus Gonis ha ritrovato un terzo frammento di
papiro in una scatola che contiene materiali di vario genere. Ora è conservato a Oxford.

Guardando il papiro possiamo dire qualcosa della scrittura: è una corsiva di piccole dimensioni. L’esame
paleografico induce a pensare che la mano che ha vergato questo papiro sia quella di Druton stesso. Questo
lo diciamo perché in quell’archivio c’erano testi che mostravano il modo di scrivere di Druton, dunque si è
fatto un confronto. Questa scrittura è databile al II aC e a un periodo successivo al 174 aC, data presente sul
recto. Comunque in un periodo comprendo entro la fine del II aC. Ci sono molte correzioni apportate da chi
ha scritto il testo: ci sono tratti ripassati più volte per rimediare a errori di trascrizione. Poi ci sono dicola (:)
e paragrafoi (= segni di scansione testuale = è un trattino), oltre agli spazi bianchi tra fine parola e fine rigo.
Qui la paragafos ha la funzione di punteggiatura. Per quanto riguarda i dicola non è chiaro capire con quale
criterio siano stati apposti e non è nemmeno chiari se siano stati apposti dopo la fine della scrittura del
testo o durante la stessa. Non è facile capirlo perché ci sono spazi liberi. Il dicolon può essere usato o come
segno di interpunzione alla fine di colon, oppure .. spesso associato alla paragrafos; può essere anche un
segno ritmico in una partitura musicale. Dunque può avere varie funzioni. Il punto è capire la funzione in
questo testo: forse indica una partizione metrica, dunque questo è un pezzo cantato? Se i dicola hanno
valore metrico possono indicare una partitura musicale, dunque il fatto che questo pezzo sia cantato. Non
possiamo escludere che tra un pezzo e l’altro ci fosse una partitura musicale. Il problema è che questi segni
sembrano essere stati riposti con un certa sciatteria, senza rigore e questo fa pensare ad una copia
personale scritta da qualcuno che non ha intenzioni erudite. Dunque, è un testo scritto a mo di appunti.

È un autografo di Druton oppure è una trascrizione di una performance musicale, così come era stata
eseguita per esempio in un simposio? Forse Druton stava ascoltando questa performance e forse pone
dicola e paragrafoi per ricordare a se stesso dove cominciasse la musica. Tuttavia, nel fare questa
operazione non è preciso perché è una trascrizione che serve a se stesso. Però è difficile pensare che sia
un’opera composta da Druton; lui la sta solo trascrivendo: forse assistendo a questa rappresentazione con
musica trascrive questo testo. Perché è difficile che sia stato scritto da Druton? Perché quando ci troviamo
difronte all’autografo di un autore che scrive un’opera, spesso ci troviamo difronte a segni di ripensamento,
di cambio parola, dunque con delle varianti affianco frutto di un travaglio creativo. Qui non abbiamo questo
genere di travaglio, ma solo lettere ripassate con l’inchiostro. Tutto fa pensare al fatto che questo testo sia
la registrazione di una performance. Quindi questo testo è una copia scritta da Druton, non è l’antigrafo =
opera dell’autore. Quale era allora l’antigrafo, dunque questo testo composto prima del II aC? Prima del
IIaC perché a questa data risale la scrittura di Druton, ma non l’opera reale copiata o trascritta da Druton.
L’antigrafo potrebbe essere di III aC, dunque di piena età alessandrina. Questo ci colpisce molto perché per
molti versi questo testo è parso un componimento poco alessandrino, poco conforme ai canoni
alessandrini. Varie ipotesi:

Ipotesi 1: l’antigrafo originale poteva essere un volume di biblioteca, dunque un’edizione critica colizzata (=
suddivisa in cola lirici, in versi) però qui Druton non scrive in versi. Perché non scrive in versi? Forse perché
aveva un foglio non molto lungo, dunque doveva risparmiare spazio e per questo scrive più versi sullo
stesso rigo. Questo ha fatto pensare ad un testo in prosa. Poiché scrive tutto di continuo, avrebbe potuto
inserire i dicola per ricordarsi dove finiva il verso; tuttavia, per velocità potrebbe aver omesso qualche
dicola. Bisognerebbe allora supporre che Druton avesse accesso alle biblioteche, però se questo risale al
periodo in cui lui era nella tolemaide non deve stupire perché siamo nel pieno fiorire delle biblioteche.

Ipotesi 2: l’antigrafo potrebbe essere un volume scritto in prosa ma in cui erano già presenti i dicola. Allora,
dove manca il dicolon laddove ce lo aspetteremmo, possiamo immaginare o ad una sfuggita di Druton
oppure ad una scarsa accuratezza dell’originale.

Ipotesi 3 (Bing): l’antigrafo potrebbe essere un copione teatrale, dunque Druton potrebbe aver trascritto un
copione magari nel momento in cui stava avvenendo la rappresentazione.

La cosa certa, a prescindere da queste ipotesi, è che la copia fosse di uso personale.

Altro problema che si pone: a he genere letterario appartiene? Inizialmente, data la lunghezza dei righi, si è
pensato ad un testo in prosa, forse un romanzo (ipotesi di Blass), o un’esercitazione retorica. Poi si è capito
che siamo difronte ad un pezzo cantato, dunque lirico. Si è capito perché si è notato che nel tessuto
compositivo di questo testo c’è un numero rilevante di “docmi”: il docmio è uno schema metrico costituito
da -uu-u- (lunga-breve-breve-lunga-breve-lunga). Il docmio è il metro di base di molti parti liriche della
tragedia. Soprattutto le monodie delle ultime tragedie euripidee sono scritte in docmi e le eroine euripidee
usano questo metro per esprimere il proprio struggimento interiore. Infatti, è evidente che l’autore di
questo componimento ha tenuto presente Euripide. Dunque doveva essere un pezzo cantato, non in prosa
come si è pensato inizialmente. Ma a quale genere letterario appartiene? Si è pensato a qualcosa di simile
agli idilli, accostamento al II idillio di Teocrito (= mimo urbano) fatto da Crusius e da Wilamowitz: dunque si
è pensato ad un componimento mimico. Tuttavia, noi siamo abituati a pensare al mimo come ad un genere
in prosa o in giambi (= no metro lirico), ma sappiamo da Ateneo che dovevano esistere anche dei
componimenti mimici cantati. Sia Crusius che Wilamowitz, per la prima volta, hanno stabilito un
collegamento tra questo testo e i cantica plautini. Dunque questo fragmentum grenfellianum sarebbe
l’anello di congiunzione tra le parti liriche delle eroine nelle tragedie euripidee e le parti cantate del
dramma romano. Tesi sostenuta anche da Friedrich Leo, che aveva studiato i cantica plautini dal pdv
metrico. Secondo Leo, Plauto sarebbe stato il continuatore della linea drammatica più recente, di cui
restavano vari saggi nelle parti liriche euripidee e nel fragmentum grenfellianum, e avrebbe rappresentato
il punto d’arrivo di questa linea drammatica che parte dalle eroine euripidee e tramite il Grenfellianum
giunge fino a lui. A Leo si oppose Frenkel che invece negava qualsiasi affinità tra le sezioni liriche della
commedia di Plauto e il fragmentum. Invece l’idea di Wilamowitz è stata ripresa da Gentili, che documenta
sul piano metrico le affinità tra Euripide, il Fragmentum Grenfellianum e le parti cantate delle commedie di
Plauto. Gentili dimostra che Plauto accoglie delle sequenze docmiache nel lamento delle due sorelle
abbandonate dai mariti nella scena iniziale dello Sticus.

24.03.2022

A quale genere letterario appartiene il Fragmentum? Abbiamo visto le diverse ipotesi. Particolarmente
importante per l’identificazione del genere di appartenenza del Fragmentum è il riconoscimento del
paradigma mitico di Arianna, che è l’archetipo della donna sedotta e abbandonata. Infatti, in questo testo si
notano i topoi che caratterizzano il lamento della donna abbandonata. Come vedremo dalla lettura del
testo, se dal pdv linguistico questo componimento è parso non propriamente alessandrino (ci sono
espressioni tipiche di Polibio, del Nuovo Testamento), dal pdv dei topoi è evidente la conoscenza della
poesia d’amore, conoscenza notevole e non superficiale, non popolare. Dal punto di vista linguistico il testo
sembra molto diverso dai componimenti di Teocrito, Apollonio Rodio, Callimaco perché c’è un tessuto non
propriamente letterario, ma proprio della koinè attica (= lingua comune). Non ci sono nemmeno riferimenti
omerici, il che ci stupisce perché erano frequenti in Teocrito (possiamo appurare la presenza o meno di
riferimenti omerici consultando il Thesaurus online: non ci sono termini omerici se facessimo un controllo).
La questione resta ancora aperta. È lecito però osservare che all’interno di una insoluta continuità tra il
mondo culturale greco e latino, il mimo e il pantomimo, espressioni teatrali che soppiantano man mano la
commedia e la tragedia: il mimo sostituisce la commedia in età ellenistica, il pantomimo la tragedia. Sono
forme di teatro popolare che soppiantano il grande teatro classico). Essi fanno da cassa di risonanza di temi
e motivi della tradizione culturale greca, contribuendo in maniera non irrilevante alla circolazione di questi
motivi, ma anche alla divulgazione, alla migrazione di questi motivi in altre culture e in altri generi letterari.

Iniziamo a vedere il testo: questa che leggiamo non è la trascrizione diplomatica ma è già l’edizione critica.
La trascrizione diplomatica avrebbe una scriptio continua e i righi sarebbero scritti così come li vediamo sul
papiro, invece, nell’edizione critica vediamo già la divisione in versi. L’editore è Kunningham, edizione
teubneriana del 2004 (con addenda et corrigenda). Questo testo è un monologo di un personaggio
femminile: una donna si lamenta. È noto, infatti, come Fragmentum Grenfellianum ma anche come
“Lamento dell’esclusa”. La donna si lamenta di essere stata abbandonata e di non essere ammessa in casa
dal suo amante. All’inizio si pensava che fosse un pezzo di esercitazione retorica, pezzo di prosa, in realtà è
un canto lirico, un pezzo cantato, perché nel tessuto compositivo di questo testo abbiamo (anche se non in
maniera organica) i docmi: troviamo lo schema metrico del docmio non in tutti i versi ma in alcuni (vv 24,
25, 26):

v.24: καì κατακα‹ί›ομαι καταλελειμμένη

 kai = lungo
 iota di katakaiomai = “littera inserenda” = lettera che secondo l’editore va inserita. La sillaba -ai- di
katakaiomai è sicuramente lunga
 omicron = breve
 -mai = lunga

Considerate queste certezze, possiamo essere quasi certi del fatto che le sillabe ka-/-ta- di katakaiomai
siano brevi, quindi lo schema del docmio qui c’è sicuramente (-uu-u-)

v. 25: αὐτο δε τοῦτ[ό] μοι τους στεφάνους βάλε

 Au = lunga perché è un dittongo


 -to = breve
 De = breve
 Tou- = lunga (dittongo)
 [o] = breve
 Moi = lunga

v. 26: οἶς μεμονωμένη χρωτισθήσομαι

 Ois = lunga (dittongo)


 Me- = breve
 -mo- = breve
 -nw- = lunga
 -me- = breve
 -nh = lunga

Il docmio è un metro cantato, quindi questo non può essere un pezzo di prosa. È vero che si è parlato di
mimo, che noi associamo a metri non lirici, ma Ateneo ci dice che dovevano essere mimi cantati: mimodia,
simodia ecc., quindi questo componimento doveva appartenere a questo genere.

Vediamo il contenuto:

LA SCELTA (airesis. In questo caso la scelta dell’amore, di stare insieme) È VENUTA (gegone) DA PARTE DI
ENTRAMBI (ecs amfoteron): CI SIAMO UNITI (ezeugnismeta = letteralmente il verbo significa “aggiogare”. È
una metafora del linguaggio agricolo che ha una valenza erotica, come spesso succede. Unione sessuale
sott lo stesso giogo); CIPRIDE (appellativo di Afrodite) È LA GARANTE (anadokos) DI QUESTO AMORE (ths
filihs = la filìa in questo caso è l’amore); ANGOSCIA MI POSSIEDE/MI RENDE QUANDO (otan) MI RICORDO
(anamnestò) CHE MI COPRIVA DI BACI (me katefilei), MENTRE SI APPRESTAVA (mellw) PERFIDAMENTE
(piboulos) A LASCIARMI (me katalimpanein).
Sicuramente c’è un abbandono da parte dell’uomo.

[ei] di katalimpanei è una “littera supplenda”, c’è una lacuna meccanica del papiro per cui c’è un
supplemento fatto dall’editore. La differenza tra le lettere che stanno tra parentesi quadre e quelle tra
parentesi uncinate sta nel fatto che le prime sono “litterae supplendae” (inserite a causa di un guasto del
papiro), le seconde sono “litterae inserendae” (non c’è nessun guasto meccanico, però l’editore ritiene che
ci fosse un errore per cui serve l’inserimento della lettera). Quando, invece, vediamo come al v21 (ouk), le
lettere con i puntini sotto, si tratta di una “littera deperdita” (lettera che non si legge chiaramente e che
l’editore ha ricostruito). Quando invece abbiamo le “cruces desperationis”, si indica una corruttela
insanabile, che l’editore non sa come colmare, quindi lì dentro c’è una “littera corruptae tradita”: questo
non è dovuto a un guasto meccanico ma l’editore non capisce quelle lettere. Se ci fosse stato un guasto
meccanico l’editore avrebbe dovuto mettere le parentesi quadre e magari dei puntini per indicare quante
lettere pensava ci fossero nelle stesse quadre.

LUI L’INVENTORE (euretes) DELLA ROTTURA (akatastasies), LUI CHE ERA ANCHE COLUI IL QUALE AVEVA
DATO FONDAMENTO (ktizw = termine tecnico dell’architettura “fondare”, non poetico = metafora
abbastanza nuova del fondare un amore come si fonda una città) AL NOSTRO AMORE. AMORE MI PRESE
(elabe), NON LO NEGO (ouk apanainamai), AVENDO (exousa) LUI/QUELLO NELLA MENTE.

Inizia il monologo notturno, cioè l’invocazione alle stelle:

OH CARE STELLE (astra fila) E NOTTE SIGNORA (potnia nux), TU CHE MI SEI PARTECIPE DI AMORE
[(sunerwsa) questo ricorda il monologo di Trasonide nel Misoumenos, dove si dice che la notte partecipa,
più di tutti gli altri dei, di Afrodite. Dunque, quel testo del Misoumenos fa da spartiacque].
ACCOMPAGNAMI ANCHE ADESSO (eti me nun) VERSO COLUI (pros on) A CUI CIPRIDE MI CONSEGNA (adei
me) IN SCHIAVITU’ (èkdonton agei = iunctura euripidea “consegnare qualcuno come schiavo”) E PER IL
QUALE MI HA PRESO/AVENDOMI PRESO (paralabon) UN GRANDE AMORE.

Stiamo alterando termini del linguaggio tecnico (es: ktizw), termini senza storia, a metafore che invece
hanno una storia, a termini e iuncture euripidee (sembrano non c’entrare nulla). Continuano i motivi
poetici:

IO HO COME GUIDA (exw sunodegon) IL GRANDE FUOCO (too polu pur) CHE BRUCIA NELLA MIA ANIMA.

Qui abbiamo il motivo letterario dell’amore come fuoco, già saffico. Il “pur” è la febbre, quindi alla base
della metafora del fuoco c’è una metafora medica. Inoltre, già prima compare un motivo saffico, quello
della solitudine notturna dell’amante (cfr fr.128b Fort di Saffo “ed io dormo sola”). Qui sicuramente la
donna è sola e avverte l’amore che brucia come fuoco, metafora di lunga tradizione poetica, ma al tempo
stesso abbiamo sunodegòn (v15) che è un hapax legomenon (termine detto una sola volta in tutta la
letteratura greca conservata, lo troviamo solo qui, quindi non termine poetico ma senza storia). Invece, è
attestato nel Nuovo Testamento “o degos” nel senso di “guida”: c’è una contrapposizione perché abbiamo
una giustapposizione di elementi tradizionali (a livello contenutistico, di topoi) a elementi innovativi dal pdv
linguistico. Come spieghiamo questa contraddizione? Probabilmente col genere letterario: la
contraddizione potrebbe essere propria del mimo, perché è vero che ha una tradizione letteraria (Sofrone
di Siracusa), ma è anche attento alla realtà quotidiana. Ecco perché viene ripreso tra i tragici Euripide,
perché è quello più vicino al linguaggio quotidiano (non avrebbe mai potuto riprendere Eschilo). Quindi qui
c’è il motivo dell’amore che brucia, fuoco che divampa, che resiste fino ai giorni nostri. L’origine di questa
metafora è da ricercare nel linguaggio medico, cioè nel notissimo framm 31 Fort di Saffo che elenca la
sintomatologia della passione d’amore, infatti, il significato di “pur” già in Saffo è quello di “febbre”.

Ci sono altri motivi letterari: adikei = adikia = norma della giusta reciprocità amorosa che, nell’ambito di una
cultura aristocratica ed elitaria, esige (secondo Dike, secondo Giustizia) che si ricambi chi ci ama. Questo già
a partire da Saffo, dall’inno ad Afrodite (fr1 Fort):

QUESTE SONO LE COSE CHE MI FANNO TORTO/CHE MI FANNO MALE (me adikei), QUESTE SONO LE COSE
CHE MI FANNO MALE (ripete il concetto). L’INGANNATORE (frenapates = termine tardo, attestato nel
Nuovo Testamento. Qui si trova per la prima volta, quindi l’autore ancora una volta non si rifà alla
tradizione per il lessico ma innova), CHE PRIMA DI ADESSO (o pro) SI DAVA TANTE ARIE/ERA PIENO DI
ORGOGLIO (tou mega fronon) E CHE DICEVA (o famenos) CHE NON ERA (ou einai) CIPRIDE LA CAUSA
(met’aitian) DELL’AMORE, ORA NON HA SOPPORTATO L’INGIUSTIZIA CASUALMENTE SUBITA.

Costruzione del greco = ou femì einai “dico di non essere”

L’amante prima ha commesso ubris perché riteneva che non fosse Cipride la causa dell’innamoramento
della fanciulla (come invece era normale per i greci), ma la bellezza della stessa fanciulla, considerandosi
migliore della divinità. Ora invece non sopporta il torto subito= adikia non sappiamo se faccia riferimento
ad un tradimento della donna, ma il senso sembrerebbe essere questo. Se così fosse lui l’avrebbe lasciata
per questo “peccatuccio”.

STO PER IMPAZZIRE; LA GELOSIA (zelos) MI TIENE, E ABBANDONATA (kataleleimmene = pt pf leipw) ARDO
(katakeiomai).

Qui abbiamo tradotto “zelos” con “gelosia”, ma in età classica “zelotupìa” è gelosia.

Ancora l’immagine dell’ardere, del fuoco d’amore, ma anche quella della follia d’amore (“sto per
impazzire”) perché secondo l’interpretazione saffica l’amore è sempre “nosos” (malattia) e anche la follia è
malattia.

SOLO QUESTA COSA IO DESIDERO (auto de touto)/DESIDERO PER ME: GETTAMI LE CORONE (oimoi lo
uniamo o a “auto touto”, oppure a “bale” = “getta a me le corone”), CON LE QUALI (ois = riferito alle
corone), RIMASTA SOLA (memonomene = pt pf), IO MI. PROFUMERO’ (krotistesomai)

Questo è un pezzo controverso dal pdv semantico: lei chiede che l’amante le getti le corone di fiori. Per
capire questa frase dobbiamo partire dal significato delle corone nel mondo greco classico. Erano usate in
diverse occasioni, durante il simposio o durante i matrimoni. Durante il matrimonio si svolgeva la cerimonia
della “fullobolìa” (fullo + ballw = anche qui c’è bale), ossia il lancio dei petali. Forse la fanciulla abbandonata
vuole alludere ad un matrimonio mancato e vorrebbe farne uno simbolico? Quindi “gettami le corone” in
ricordo di un matrimonio che non c’è stato. Secondo altri si sta facendo riferimento ad un simposio: lui
trascorre le serate nei simposi invece che stare con lei. Tuttavia, questa ipotesi potrebbe convincere meno
per quel “apokekleimmene” (pt pf), quando dice “signore, per favore, non mi lasciare fuori dalla porta” (lo
traduciamo dopo): lei sta fuori dalla porta di casa, quindi lui non può stare al simposio ma sta sicuramente
dentro casa. È un verbo tipico del paraklausityron “canto fatto fuori dalla porta dell’amata”, in questo caso
dell’amato perché è lei che è stata lasciata fuori. Quindi è forse preferibile l’ipotesi del matrimonio
mancato.
ACCOGLIMI (decsaime), MI PIACE ESSERE UNA SCHIAVA CON ZELO/PERFETTA.

Qui abbiamo di nuovo “zelos”, ma non significa gelosia bensì “zelo” (come in it.). C’è quindi una variatio
semantica nell’uso del termine: questa tendenza è però tipicamente alessandrina (poeta anche
grammaticus).

Eudokò “mi piace” = verbo tipico del Nuovo Testamento. È quindi un’espressione non letteraria.

Dunque, ancora una volta abbiamo un’alternanza tra motivi di alta cifra poetica e termini assolutamente
impoetici come eidokò.

Dopo ci sono le cruces desperationis perché non si capisce cosa significhi ciò che è all’interno “HA UN
GRANDE DOLORE/ HA UNA GRANDE FATICA”. Non si capisce cosa faccia stare male la fanciulla.

BISOGNA INFATTI ESSERE GELOSI (zelotupein), RESISTERE E TENER DURO (stegw = verbo attestato nel NT
nel senso di “non piegarsi al dolore”. Il significato letterale è “non faccio passare liquidi”, ma qui ha un
significato metaforico che è quello attestato nel NT). SE SIEDI ACCANTO (proskatei) AD UNO SOLTANTO
(emi monon) DIVENTERAI PAZZO (afron esei)

Topos della poesia alessandrina erotica, dove ci sono due scuole di pensiero: meleagrea e callimachea.
Secondo la scuola meleagrea in amore occorreva essere sempre fedeli, invece, la visione dell’eros
callimachea predica la pluralità degli amori. Quindi qui c’è sicuramente una visione callimachea dell’eros,
dell’amore plurimo. Dicendo “se siedi accanto ad uno soltanto diventerai pazzo” lei sta forse trovando una
giustificazione al tradimento che lei ha compiuto (v22)? Può essere. È tutto da interpretare il testo, ma
sembrerebbe di si. Insiste dicendo:

L’AMORE SOLITARIO (monios) FA DIVENTARE MATTI (mainestai poiei).

È interessante l’uso di “monios” come agg, perché spesso è usato per gli animali selvaggi (per gli uomini è
“monotropos”). D’altro canto, eros in età ellenistica è un animale, concezione che risaliva già a Saffo
(“orpeton” = qualcosa che striscia, contro cui non si può far nulla). Quindi qui può esserci un’ulteriore
conferma all’interpretazione dei vv 19-22, dunque che l’ha tradito e si sta giustificando. Eros come animale
lo abbiamo trovato anche in Teocrito, quando Simeta dice che Eros è un sanguisuga.

SAPRAI/CONOSCERAI CHE HO UN FURORE (tumon) IMPLACABILE QUANDO MI PRENDE IL DESIDERIO DI


RIVALEGGIARE (eris)/LITIGARE. IMPAZZISCO QUANDO MI TORNA IN MENTE CHE IO DORMIRO’ SOLA
(monokoiteso = motivo saffico) E INVECE TU (su de) CORRI FRA LE BRACCIA DI ALTRI. ORA CI SIAMO
ADIRATI (orgistomai), MA SUBITO BISOGNA FAR PACE (dialuestai). NON ABBIAMO FORSE AMICI/PERSONE
CARE CHE GIUDICANO (oi krinosi) CHI HA TORTO? La funzione degli amici come giudici d’amore si trova
anche nella Perikeiromene di Menandro, dove gli amici fanno da mediatori tra il soldato e Glicera. Quindi
lei a questo punto richiede l’intervento degli amici per giudicare chi ha commesso adikia. Il motivo
dell’adikia lo abbiamo trovato al v17 (tauta adikei), al v22 (adikia casualmente subita) e al v40 in explicit.

Martedì non c’è lezione.

31.03.2022
Prendiamo il testo del Fragmentum Grenfellianum:

per commentare un qualunque testo su papiro si deve sempre dare una descrizione materiale del papiro
stesso, questa è la prima cosa da fare: grandezza rotolo, intercolumnio, valutare se poteva contenere due o
più probabilmente 3 colonne, la storia dei diversi frammenti, dove è conservato il papiro ecc. > si deve fare
la trascrizione diplomatica > trascrivere le righe del papiro così come riusciamo a leggerle (stessa
disposizione, senza suddividere in parole). Poi si deve fare ‘edizione critica e qui si fa la suddivisione in
parole, si colizza il testo se è un testo in versi. Il testo del nostro papiro non presenta una suddivisione in
versi e per questo ci sono stati diversi fraintendimenti perché si è pensato che fosse un testo in prosa e non
in versi.

All’apparire dell’editio princeps e negli anni successivi il Fragmentum Grenfellianum fu oggetto di diversi
studi e traduzioni. Uno dei problemi che più ha interessato la critica è stato quello riguardo la definizione
del genere del frammento (es. mimo in prosa o mimo lirico) e discordanti sono anche le ipotesi sul valore
artistico di questo testo, salvato da alcuni e negato da altri.

Quali sono le tappe della valutazione critica di questo testo?

1. La prima è quella costituita da Bernard Grenfell nell’introduzione all’editio princeps. Lui ipotizzava
che si trattasse del primo esempio di un genere letterario sconosciuto fino ad allora che, pur
differenziandosi dai romanzi greci per diversi motivi, poteva essere considerato un precursore di
questi romanzi. Per identificare il genere letterario del Fragmentum, Grenfell riteneva
fondamentale la presenza del paradigma mitico di Arianna: lui riteneva che fossero presenti nel
testo i topoi che caratterizzano il lamento della donna abbandonata. Dunque, Grenfell suggeriva un
collegamento con questo paradigma mitico, perché in fondo anche la donna presente nel romanzo
è, se non un’eroina, una fanciulla abbandonata. Prestava attenzione anche allo stile e alla novità di
questo testo, ma sicuramente il suo accenno al romanzo condizionò la critica successiva.
2. Hermann Diels (1896), in una breve recensione al volume pubblicato da Grenfell, sviluppava infatti
proprio l’ipotesi di un’eventuale legame del frammento col genere romanzesco, dunque la
possibilità che ci si trovasse difronte ad un romanzo di età alessandrina. Secondo lui lo stile di
questo testo, con i suoi cola brevi e fortemente ritmati, la disposizione in asindeto delle frasi,
l’accostamento di costrutti poetici e costrutti prosastici, sarebbe stato riconducibile al genus
asianum, dunque ad un preciso filone stilistico e, in particolare, il testo avrebbe ricordato la prosa
del retore Egesia di Magnesia.
3. Stephen Gaselee si pone su posizioni diverse ma in parte convergenti. Egli riteneva che i numerosi
paralleli possibili tra il Grenfellianum e la produzione novellistica (es: tipologia del linguaggio usato,
i sentimenti espressi nelle frequenti retoriche suppliche d’amore) non autorizzassero a considerare
questo pezzo antesignano dei romanzi, però stampava comunque il testo come testo in prosa.
4. L’ipotesi he il frammento costituisse la rhesis di un romanzo era stata rifiutata già da Friedrich
Blass, il quale, riprendendo un’osservazione di Diels, non escludeva che si trattasse di una “melete”,
esercitazione retorica sempre del genere asiano, caratterizzato da uno stile rotto e da un forte
pathos che dominava il componimento.
5. Sempre nel 1896 Nicola Pesta si dichiarava poco persuaso dal raffronto col genere romanzesco
(secondo lui non era un pezzo di romanzo, né un’esercitazione retorica), però comunque
sottovalutava l’impianto metrico del testo. Infatti non aveva riconosciuto la presenza del docmio.
Dunque, anche per il fatto che sul verso fosse presente un contratto, considerava questo testo non
letterario. Sosteneva che “una giovane donna dal II a.C. potesse, non meno di una nostra
contemporanea, sfogare una sua vera passione in una prosa semi-poetica e retorica, sia che avesse
in mente di scrivere una lettera (= riferimento al genere epistolografico), sia che volesse rivolgere le
sue parole all’amante lontano, alla luna e alle stelle”. Festa, in alternativa, sostena che potesse
essere la traduzione in prosa di una poesia alessandrina, magari ad opera di uno studente. Ma
questa ipotesi cade davanti all’analisi paleografica, perché abbiamo visto che la scrittura era molto
probabilmente di Dryton e non di uno studente.

In realtà, la presenza dei docmi, evidenzia la struttura cantata di questa commozione e quindi ci fa
accantonare sia l’ipotesi del romanzo che della prosa (dunque dell’esercitazione).

Tra i primi ad insistere sul carattere lirico, dunque cantato, del pezzo, non implicante però una performance
teatrale, fu Ervin Rohde: rileva la ricercata composizione metrica. A suo dire, un indizio significativo del
carattere lirico di questo pezzo, sarebbe il topos dell’exclusus amator e il paraklausityron presente nel testo
seppur rovesciato (non è l’uomo ad essere chiuso fuori dalla casa dell’amata, ma la donna). Si è anche
discusso se i docmi potessero essere non cantati, dal momento che in età alessandrina si tende poco ad
usare i metri lirici e questo perché venivano meno le occasioni di performance: sappiamo che la poesia
melica è sempre legata ad un’occasione, ad un rituale sociale. Nel momento in cui viene meno l’occasione
non ha più senso la poesia legata ad essa. Sebbene si diffuse l’abitudine di usare metri lirici in prosa (katà
stikon), ma pare che non ci siano esempi di docmi non cantati. I docmi erano sempre cantati: questo è
quanto sostengono gli studiosi di metrica (es: Lomiento, Martinelli). Dunque, è molto probabile che il pezzo
fosse cantato e il primo ad accorgersi di questo fu proprio Rohde e lo fece tenendo in forte considerazione
anche il paraklausityron perché questo è un vero e proprio canto (“canto dinanzi alla porta chiusa”),
dunque non può essere in prosa, essendo un canto. Ma Rohde escludeva la possibilità che questo pezzo
fosse stato messo in scena.

A catalogare questo pezzo come pura lirica, pura poesia, si aggiungevano anche altri studiosi come Augusto
Mancini che rilevava la rapidità e l’irregolarità dei passaggi, i distacchi troppo sensibili di pensiero, la
mancanza di rigorosa successione logica, tutte ipotesi che facevano propendere verso la poesia. Dunque,
doveva trattarsi di una finzione, di un dramma interiore che non avrebbe implicato una performance
scenica.

Coloro che rilevano il carattere lirico del pezzo ne apprezzano anche la grandezza artistica; coloro che
invece ritengono questo un pezzo in prosa tengono a negargli valore artistico. Secondo Rohde, che lo
appprezza particolarmente, ci troviamo difronte ad uno dei carmi più riusciti dell’età ellenistica, degno di
un Asclepiade, di un Callimaco, di un Teocrito. Questo è anche il parere di Kokley, studioso di
paraklausityra di età ellenistica.

Ma l’intuizione più felice circa la natura di questo lamento venne da Otto Crusius e Wilamowitz, i quali nel
1896 (subito dopo l’editio princeps di Grenfell) richiamarono l’attenzione sulla struttura metrica del pezzo e
sul fatto che sia i contenuti che la struttura metrica richiamassero le monodie delle ultime tragedie di
Euripide. Evidenziavano anche la vicinanza con composizioni di carattere erotico di età alessandrina, per
esempio i mimi di Eronda o gli Idilli di Teocrito (soprattutto l’idillio 2). Quindi questi due studiosi, per vie
indipendenti, erano propensi a identificare il pezzo con una sorta di teatro popolare, cantato con
accompagnamento musicale, una sorta di simodia, cui aveva accennato Ateneo. Crusius e Wilamowitz, per
primi, sostengono il collegamento con i cantica plautini, dunque con pezzi sempre di teatro.
Il Fragmentum Grenfellianum, dunque, è importante perché sarebbe l’anello di congiunzione tra il mimo
ellenistico e le parti cantate del dramma romano.

Un sostenitore di questa ipotesi fu Friedrich Leo, che aveva studiato i cantica plautini. Però a Wilamowitz e
Leo si oppose Frenkel che invece negava l’affinità con le parti liriche plautini. Infine è stato Bruno Gentili a
richiamare l’affinità tra il fragmentum e i cantica plautini, ma anche il legame evidente con Euripide.

Dunque, Crusius e Wilamowitz seppero individuare per primi gli elementi fondanti del componimento
(stilistici e metrici), quindi il fatto che in realtà si trattasse di un pezzo lirico ma con destinazione teatrale,
dunque performativo.

Questo pezzo quindi apparterrebbe ad un tipo di teatro popolare di età ellenistica che mescolava canto,
mimica e danza.

Questa ipotesi ha accolto molti consensi anche se non è unanime la considerazione del valore artistico del
componimento: Achille Boviano, per esempio, in un lavoro sull’ottavo mimiambo di Eronda, citava il
fragmentum ma solo per mettere in luce l’abisso che separa l’arte di Eronda da quella di alcuni suoi
contemporanei, come il compositore del Fragmentum. Invece, tra gli estimatori abbiamo Povel, Romagnoli,
Gennaro Perrotta, Arìstide Colonna, Leski e Peter Bing che ha sottolineato proprio la ricercatezza stilistica di
questo componimento.

Che tipo di struttura stilistica ha questo componimento?

Sulla struttura metrica abbiamo detto la presenza dei docmi anche se non sistematica. Le forme doriche
sono pressoché assenti. Perché diciamo forme doriche? Perché se avviciniamo questo testo all’idillio 2 di
Teocrito abbiamo visto che questo era ricco d forme doriche, invece, in questo caso l’unico esempio di
forma dorica che abbiamo è ανάδοχος (v3). Per il resto appaiono condivisibili i rilievi di Wilamowitz sulla
quotidianità della lingua. Quindi, a parte un hapax di chiaro significato (v .15 συνοδηγος) e alcuni altri
vocaboli rari, per esempio κροτιζω (vv. 26 e 36), μονιος (v.32), μονοκοιτηω (v.35), il tessuto lessicale risulta
caratterizzato da un’aggettivazione essenziale, ordinaria, ripetitiva, da parole ed espressioni comuni o
attestate in prosa (nei papiri documentari, nei Settanta, nel NT > rispecchiano la lingua d’uso). Soprattutto
termini della sfera giuridica e commerciale, es ανάδοχος, κτιζω (= metafora “fondare un amore”, anche se
κτιζω è verbo tipico della fondazione delle città, quindi non è una metafora poetica), ευδοκώ, κύριε,
διαλύεσθαι, οι κρινουσι τις αδικεί, tutti termini della sfera giuridica. Abbiamo trovato anche molti termini
della koinè ellenistica [αιρεσις, πρόσκαθεμαι, ακαταστασίη “rottura”, διάνοια al posto di καρδια “cuore”,
ευθύ al posto di ευθύς; presenza cospicua del pf: καταλελειμμενη, εκτικως, μεμονωμενη,
αποκεκλειμμενην]. Dunque, c’è questo linguaggio ordinario che si contrappone a metafore e topoi di lunga
tradizione poetica, ma non dobbiamo sottovalutare anche i giochi fonici che ci sono nel testo e che erano
stati rilevati già da Wilamowitz, per esempio:

- Allitterazione (ripetizione di alcuni suoni) di ανά e κατά ai vv 3 sgg. [αναδοχος όταν αναμνησθω >
ripetizione dell’alfa]; vv 6 ssg. [καταλιμπανειν με ακαταστασιης]; v10 [ουκ απαναιναμαι εν τη
διάνοια]; v25 [και κατακαιομαι καταλελειμμενη].
- Sequenze di termini iniziati col μ: vv. 23 [μελλω μαινεσθαι μ’εχει]; vv. 31-32 [μονον μονιος
μαινεσθαι]; vv. 34-35 [με μαινόμ μονοκοιτησω]

Questi giochi fonici segnalano una voluta ripresa della maniera tragica. Ci sono anche stilemi proprio di
natura tragica, per esempio l’invocazione alla notte e alle stelle (v11); c’è il riecheggiamento intenzionale di
precisi luoghi letterari e riuso di materiali tradizionali; una certa topica amorosa (es: noto motivo della
donna abbandonata) che ha determinate metafore, come l’immagine dello schiavo della passione
(ezeugnismeta, ek twn agei “mi consegna schiavo” = immagine tragica; o al v28 “mi piace essere una
schiava perfetta”), del fuoco d’amore (to polu pur; v24 katakaiomai), il binomio Eros-Afrodite, il motivo
della follia d’amore (v23 mainomai), il motivo della gelosia, il motivo dell’abbandono e della solitudine
erotica (katalimpanein, kataleleimmene, memonomene), l’amore come malattia. Sono tutti motivi topici
della letteratura amorosa. È come se ci fosse la ripresa di stilemi tragici euripidei, ma abbassati al livello del
mimo. Certamente è difficile certamente pensare alla protagonista come un’eroina tragica perché
comunque lei stessa ha commesso adikia (almeno come sembra dall’interpretazione del testo), ma sembra
appartenere piuttosto alla categoria delle etere e alla luce di questo si spiegherebbe anche il lessico
quotidiano: con un certo realismo si vuole riprodurre il linguaggio dell’etera, dunque si fa ricorso al
linguaggio della commedia. C’è un’alternanza di momenti alti e momenti bassi. D’altra parte anche nella
commedia menandrea si mescolano momenti di ripresa tragica a momenti di ricaduta comica > questo
meccanismo sembra essere tipico del genere letterario del mimo, che da un lato ha una sua tradizione
letteraria, ma dall’altro appunto viene da “mimeomai” = imitazione degli aspetti più quotidiani della realtà,
infatti sono rappresentati personaggi come etere, ciabattini ecc., figure che difficilmente possono parlare il
linguaggio aulico. Al massimo citano, possono fare una citazione euripidea, ma questa si trasforma subito in
comica perché il contesto non è più quello delle eroine euripidee, bensì un contesto abbassato.

Quindi quale poteva essere lo spettacolo a cui facciamo riferimento quando parliamo dii teatro popolare?
Possiamo sicuramente fare riferimento ad un prodotto letterario meno elaborato di quello di Eronda, o
degli idilli di Teocrito, e fruibile da un pubblico più ampio e meno esigente, dunque un pubblico non elitario
o di corte. Poteva essere il pubblico di un simposio militare, di una struttura teatrale cittadina ecc., dunque
il pubblico tipico della magodia/della simodia di cui parla Ateneo, che descrive nei Deipnosofisti proprio
queste forme di intrattenimento popolari che avevano sostituito il grande teatro tragico e comico in età
ellenistica. Ci dovevano essere, in questo periodo, diverse tipologie di spettacoli teatrali nei quali può
prevalere la danza, la musica, oppure la parola e il canto. Potevano ispirarsi a vicende mitiche, a opere
letterarie o a vicende di vita quotidiana. Un esempio che abbiamo è il “Carition”, pezzo di mimo su papiro
(edito da Kunningham), in cui ci sono segni musicali che indicano l’intervento di strumenti musicali. Ancora,
la “Moikeutria” interamente prosastico in cui prevaleva la parola (no danza e canto). Anche l’allestimento
poteva variare: esistevano messe in scena con più attori e messe in scene con uno solo.

Questo tipo di spettacolo in età ellenistica raccoglie un grande interesse di pubblico. Il limite tra tragico e
comico in questo spettacolo era molto sfumato > è come se ci fosse un “imborghesimento” della topica
amorosa tradizionale, in particolare del codice arcaico di Dike, con una sorta di abbassamento del registro. I
dati linguistici, insieme a quelli storico-sociologici (la realtà della tolemaide, in cui è stato ritrovato questo
foglio di papiro, come fulcro dell’attività culturale e politica dell’alto Egitto), la stessa formazione
professionale di Dryton (ufficiale di cavalleria che frequentava forse anche biblioteche), permettono ora di
individuare il pubblico del Fragmentum e di spettacoli simili: cittadini che assistevano a rappresentazioni
teatrali nel teatro cittadino, dunque un pubblico di media cultura, impiegato nell’esercito o in incarichi della
pubblica amministrazione ecc, abituati ad usare la lingua dei tribunali o del commercio. Dunque, non una
ristretta cerchia di addetti ai lavori, come i poeti filologi del museo e il loro entourage.

Tra le altre questioni che si pongono, chi è la protagonista e qual è il suo status sociale? Non certo
un’eroina. In genere si dice che sia una fanciulla abbandonata, libera ma povera, in genere ricondotta alla
categoria delle etere. Sembrerebbe possibile riconoscere nel testo una particolare categoria di etere, quella
della “bona meretrix”, etera animata da onesti sentimenti, che nutre un amore sincero. Questo è un
carattere tipico della commedia nuova e che incontra notevole fortuna nel teatro di Plauto e Terenzio, ma
anche nella tarda prosa greca di Luciano o degli epistolografi (Alcifrone, Aristeneto), e che mostra
un’affinità con l’ideale femminile dell’amante elegiaca nella poesia latina. Per esempio: si può pensare alla
protagonista del primo mimiambo di Eronda dove c’è una mezzana vissuta, Gillide, ma questa cerca di
convincere la giovane etera Metrike (forse etera fedele ad un solo amante) a concedere i suoi favori anche
ad altri pretendenti, dunque Metrike sarebbe sì un’etera ma una dai buoni sentimenti.

Nel testo ci sono certamente doppi sensi osceni (es: immagine agricola del giogo). Potrebbe essere
operante il modello mitico di Arianna, ma anche quello erotico ed eroico di Medea, che in fondo è il
paradigma della donna abbandonata. Questa del Fragmentum potremmo considerarla una sorta di Medea
“degradata”, rivisitata in chiave ellenistica. Etera che somiglia alle protagoniste del teatro palutino,
un’eroina tragicomica. Sicuramente questo motivo della bona meretrix fu presente nell’elegia latina: Pinzia,
Delia (amata da Tibullo) hanno questo statuto sociale. Dunque, anche da questo pdv questo testo è
fondamentale per aver traghettato topoi dalla grande poesia tragica all’elegia latina.

05.04.2022

Prima di passare ad altro, come avete visto dal file che ho caricato, dove vedete vi ho messo degli
epigrammi di Meleagro [file Drago magistrale 7], che leggeremo sempre su quel binomio notte-amore,
quindi l’aspetto dell’eros notturno, volevo dirvi prima qualcosa sulle risorse online di ambito papirologico.
Perché abbiamo visto un po’ qualche segno diacritico dei papiri. Vi anticipo qualcosa di papirologia: cioè
dove rintracciare i papiri, quali sono le risorse di ambito papirologico online. Perché o voi andate sul posto,
altrimenti ovviamente dovete reperire queste risorse online, se volete lavorare su papiro. Queste risorse
ormai sono molte numerose, io vi dico quelle che vengono sempre citate, queste banche dati, relative ai
papiri, che permettono di ottenere informazioni sulle testimonianze papirologiche di autori e opere
dell’antichità, e offrono anche una bibliografia di base per ciascun reperto, quindi sono utilissime. Allora, ve
ne dico quattro sostanzialmente: la prima è il Mertens-Pack [con esponente 3] (CEDOCAL) [poi vi spiego
perché, queste due risorse si integrano]; poi vi segnalo il “Loiben [scritto “Leuven”] database of ancient
books” (la sigla è LDAB); poi abbiamo Trismèghistos, la cui sigla è TM; e infine abbiamo i papiri di Ossirinco
online, quindi POxy online. Questi sono i più importanti, vediamo un po’ come funzionano: per quanto
riguarda quest’ultima risorsa, i papiri di Ossirinco online, diciamo che tutta la presentazione dell’immenso
patrimonio papiraceo, restituito dalla celebre Ossirinco, è stato curato da Mysbeth, nell’ambito di un sito
elettronico, che è il sito elettronico del Center of study of ancient documents of Oxford. Come si articola
questo sito? Ha diverse sezioni. Intanto ha la sezione Oxyrincus, che ha tutte le informazioni relative alla
località di Ossirinco: quindi sito, informazioni di carattere storico-culturale; poi c’è la sezione forse più
importante, the Oxyrincus, e qui trovate, nell’ordine, tutti i papiri di Ossirinco, tutti i papiri pubblicati nei
POXy, e dovete anche vedere le immagini di questi papiri, perché ci sono fotografie digitali, e tra l’altro
trovate anche delle informazioni sulle tecniche di manipolazione computerizzata delle immagini, per la
decifrazione dei papiri. Quindi sostanzialmente voi qui vi trovate nell’ordine tutti i papiri di Ossirinco,
cliccando sui diversi link trovate le immagini dei papiri, e poi potete anche manipolare queste immagini
digitali: potete zoomare, vedere da vicino una riga, una lettera in particolare. Quindi è quasi meglio che
vederli dal vivo questi papiri, perché vi trovate delle immagini altamente fruibili, quindi voi potete
zoommare, vedere da vicino le singole lettere, le corruttele del papiro. Tra l’altro voi trovate anche la
bibliografia relativa ai singoli papiri. Quindi su quel papiro cosa è stato scritto? Poi vi dice subito se è un
papiro di commedia, di elegia, un poema epico, vi dice subito cos’è, poi vi dà la datazione del papiro,
informazioni anche relative alla scrittura, e poi la bibliografia, quindi cosa è stato scritto. Quindi capite bene
che se vi trovate un papiro di Ossirinco che voi dovete studiare, un papiro letterario, avete questo
strumento, però questo strumento vale solo per i papiri di Ossirinco, quindi se vi trovate ad esempio uno
PSI, quindi un papiro della Società italiana, non vi serve. Poi c’è una sezione invece, The progect, dove c’è
un’introduzione a tutti i progetti di esplorazione in Egitto, quindi le campagne di scavo che ci sono state, le
più recenti, poi un’altra sezione è su Events e News, quindi le ultime scoperte, e anche manifestazioni
collegate allo studio di Ossirinco, dei monumenti, quindi mostre di papiri etc. E poi c’è una sezione di
risorse, che rimanda alle singole pagine, e qui c’è anche un modulo per mettersi in contatto con i curatori di
tutto il sito, e si possono richiedere imagini digitalizzate di un papiro; quindi è una risorsa utilissimo. Poi voi
sapete che abbiamo in biblioteca la raccolta cartacea dei papiri ovviamente, dei papiri di Ossirinco. Poi
invece vi avevo detto di Trismèghistos, TM. Questo è un progetto che inizialmente doveva raccogliere solo
documenti della valle del Nilo, compresi in un periodo storico preciso, che va dal 400 a.C. all’800 d.C., però
poi è stato esteso questo sito, a coprire il mondo antico in generale, ed è stato suddiviso in diverse sezioni:
Texts, quindi testi, testi a cui sono collegati i database delle diverse collezione, quindi collezione dei papiri
di Ossirinco, collezione dei papiri della società italiana, tutte le collezioni maggiori, e poi Archives, quindi gli
archivi, i luoghi, e molti link che permettono delle ricerche incrociate. Quindi è uno strumento di
riferimento per filologi, ma anche storici, per gli studiosi di storia e letteratura antica. Invece, vi dicevo il
Loiben database of ancient books, che è una banca dati, inizialmente pubblicata su CDRom, dedicata ai testi
letterari su papiro, o su òstraka, tavoletta lignee, in lingua greca e latina, dal 400 a.C. all’800 d.C. Poi questo
programma per CDRom è diventato un sito, inizialmente non lo era, fornendo informazioni su altri 7000
libri antichi: dà informazioni sull’autore antico, il titolo dell’opera, il luogo di provenienza, la datazione, il
materiale scrittorio su papiro e su pergamena, il tipo di supporto, cioè se è un rotolo, se è un codice, il
genere letterario, rimandi bibliografici essenziali, poi il soggetto, quindi per esempio letteratura, religione,
scienza. Quindi anche qui si incorniciano diversi siti linkabili, quindi diverse banche date online. E poi
abbiamo, vi dicevo, il CEDOPAL, la cui sigla sta per Center de documentation de papirologìe litteraire.
Questa è una pagina dell’università di Liegi, che è dedicata al centro di studi per la papirologia letteraria, e
in questa pagina c’è l’aggiornamento del catalogo dei papiri di Mertens-Pack, perché il primo fu fatto nel
1952, e la seconda volta nel 1965. Ora, poi, abbiamo il Mertens-Pack 3 [3 è esponente], che non è ancora
completo, però la schedatura comprende ormai 7000 schede. Quindi c’è una presentazione del catalogo dei
papiri letterari, la bibliografia, e diciamo che poi quando voi vi trovate ad esempio un papiro letterario di
Ossirinco, dovete sempre mettere il riferimento anche al Mertens-Pack 3: cioè ognuno dei papiri letterari
avrà un numero in Mertens-Pack. Quindi ad esempio: papiro di Ossirinco 2250, tra parentesi mettete 30
Mertens Pack 3, cioè va sempre messa la corrispondenza. Questo per quanto riguarda i papiri, se voi vi
trovate di fronte a un papiro letterario, se dovete studiare un papiro letterario questi sono gli strumenti
principali. Se invece ci troviamo di fronte a un testo di età ellenistica, quindi un testo di elegia, un’elegia
ellenistica, come lo troviamo un testo di ellenistica, come facciamo a consultarlo? Allora o può essere
compreso nella raccolta di Fowell (“Fawell”), “collectanea alexandrina”, questo titolo. Quindi voi potete
trovare un testo elegiaco o citato con l’editore, Fawell, oppure potete trovare anche con CA, cioè
“Collectanea alexandrina”, e diciamo questa raccolta di testi alessandrini raccoglie che cosa? Testi epici,
elegiaci, lirici, di età però alessandrina. Questa raccolta è stata edita a Oxford nel 1925, e ovviamente la
possediamo in biblioteca. Naturalmente però molti di questi sono su papiro, e quindi questa raccolta del
1925 si è invecchiata subito, molti testi non c’erano, per cui due papirologhi Lloyd-Jones e Parson hanno
curato il Supplementum hellenisticum, la cui abbreviazione è SH. Perché un supplemento? Perché vuole
essere un supplemento a Fowell. E questa raccolta è stata edita in Germania nel 1983. Sicuramente però i
testi cominciavano ad accumularsi, e anche questa raccolta è risultato superata molto presto, per cui è
stata curata, sempre da Lloyd-Jones e Parson, più altri studiosi che hanno collaborato, il supplemento al
Supplementum hellenisticum, edito nel 2005. E qui sostanzialmente ci siamo fermati coi ragionamenti.
Allora per i testi che sono venuti fuori dalle sabbie dell’Egitto dopo come si fa? Si va direttamente nella
fonte dei papiri, alle raccolte papiracee, come quella dei papiri di Ossirinco; ovviamente non saranno
compresi in queste edizioni complessive. Bisogna tener presente che siccome escono continuamente testi
nuovi, affrontare un lavoro del genere, che può essere superato velocemente, non è impresa facile. Allora
questo per quanto riguarda i testi di età ellenistica, per i testi elegiaci, epici etc. Poi ci sono i testi dei singoli
autori ovviamente. Se noi sappiamo che un testo è di Callimaco utilizzeremo l’edizione di Pfeiffer, se è un
testo di Teocrito utilizzeremo l’edizione di Gau. E poi abbiamo gli epigrammi dell’antologia palatina. Per gli
epigrammi che edizioni dobbiamo usare? Una delle edizioni monumentali è quella curata da Gau-Page
(pronuncia “Pèige”). Gaw-Pèige ha curato nel 1965 Hellenistic epigrams, quindi l’edizione e il commento
degli epigrammi propriamente ellenistici, la prima età alessandrina, quindi ad esempio Callimaco. Voi
questa raccolta la potete trovare o citata con il nome della raccolta, le iniziali della raccolta, cioè HE
(Hellenistic epigrams). Com’è costituita quest’edizione? Da due volumi: un volume dove ci sono i testi e uno
di commenti. Qual è la caratteristica di questa edizione fatta a Cambridge? Il fatto che tutti gli epigrammi
che sono presenti in questa edizione sono numerati dal primo all’ultimo verso, per cui, se voi volete trovare
nel volume di commento il commento a quel verso, troverete il numero corrispondente. Ad esempio 1250
numero del verso in quel testo, se volete vedere il commento a quel verso? Andate al volume del
commento al verso 1250; cioè sono tutti numerati i versi. Quindi se voi citate un epigramma dell’Antologia
palatina, che è compreso nella raccolta di Gau-Page, come dovete fare? Per esempio volete citare
Asclepiade: quindi Ascl. (le abbreviazioni sapete dove trovarle, cioè nelle pagine iniziali dell’opera di Liddell
Scott Jones, lì trovate le abbreviazioni degli autori e delle opere; perché non potete abbreviare a caso, ma
sono abbreviazioni internazionali), poi AP (Antologia Palatina, in corsivo perché è un’opera), 5 (che significa
libro quinto), 80 (il numero dell’ epigramma) = (se state citando tutto l’epigramma, e se c’è in HE) HE
(Hellenistic epigrams) e poi dovete mettere i numeri dal primo verso all’ultimo verso di quell’epigramma:
sono sei versi? HE 150-156; se invece dovete citare un solo verso di quell’epigramma perché quello vi
interessa, come farete? Ascl. AP 5,80, 1 (cioè il verso 1) = HE e il numero del verso 1, solo di quel verso.
Quindi funziona così. È un commento in lingua inglese, ottimo, con una breve introduzione per ogni
epigramma. Questo per gli epigrammisti della prima età ellenistica: cioè ad esempio Callimaco, Asclepiade,
Teocrito etc. Gau-Page poi hanno curato un’altra edizione per gli epigrammisti della cosiddetta Corona di
Filippo, cioè sono gli epigrammisti successivi alla prima età ellenistica, per esempio Meleagro, che non è
della prima età ellenistica, ma fa parte degli autori della cosiddetta Corona di Filippo. Quest’altra edizione si
chiama The Garland of Philip, abbreviata GP, edizione del 1968, che funziona nello stesso modo: come
Hellenistic epigrams, però la sigla qui è GP. Quindi per citare Meleagro dobbiamo fare così: Mel. 5, 156
(quindi libro quinto, epigramma 156) = GP e poi sempre quei numeri che comprendono tutto l’epigramma
dal primo all’ultimo verso. In queste edizioni monumentali di Gau-Page, fondamentali per chi deve studiare
l’Antologia Palatina, ci sono moltissimi epigrammi, ma non tutti. Ci sono edizioni complete dell’Antologia
Palatina? Ci sono, però sono un po’ datate, e non sono commentate soprattutto. Abbiamo ad esempio
l’edizione di Jakobs, che è un’edizione tra ‘700 e ‘800, che contiene tutti gli epigrammi; poi c’è l’edizione di
Diùbner, edizione ottocentesca, e poi l’edizione di Beckby, del 1957. Queste sono e dizioni complete, che
però vi dicevo che non hanno il commento. In italiano, se vi interessa la traduzione degli epigrammi,
abbiamo l’edizione, quella UTET, abbiamo l’edizione classica di Filippo Contani, e poi nella Bur abbiamo la
traduzione, con piccole note, degli epigrammi erotici, cioè il quinto libro e il dodicesimo libro. Quindi per
esempio se voi volete andare a vedere la traduzione di questi epigrammi, che comunque vedremo insieme,
o potete consultare la Contani, o la Rupert, oppure la Bur, e confrontare le diverse traduzioni, e le trovate
in biblioteca sotto la A. Però questi epigrammi sono compresi anche in Gau-Page, quindi le trovate sempre
sotto la A, dell’Antologia Palatina. Vi sto dicendo queste cose perché? Non sono notizie semplicemente
erudite; sono notizie che vi diventano utilissime nel momento in cui qualcuno deve lavorare su questi testi,
e allora deve sapere che edizioni prendere, se ci sono delle traduzioni, da dove citare il testo; se uno decide
di lavorare sull’età ellenistica, ma anche chi lavora sulla letteratura latina, ad esempio sugli elegiaci latini,
come Ovidio, Properzio etc, deve sempre fare riferimento agli epigrammisti dell’antologia palatina, e come
li fa a citare? Deve sapere che testi prendere. Diciamo che, se la situazione fosse stata normale, e non di
pandemia etc, vi avrei portato proprio in biblioteca in Ateneo, per prendere proprio in mano questi volumi,
e vedere come funzionano, come vanno citati etc. Perché consultandolo voi vi rendete conto della cosa,
mentre così è una cosa astratta, teorica, invece vedreste come si lavora concretamente su questi testi.
Perché invece i Collectanea alexandrina e i Supplementum hellenisticum voi li trovate sotto “Fragmenta”,
perché non sono solo gli epigrammi dell’antologia palatina, ma ci sono anche elegie, testi epici etc, e quindi
voi li trovate nel corridoio, sotto Fragmenta. Quindi queste notizie ve le do perché sappiate muovervi
autonomamente, concretamente voi, e sappiate anche avere un approccio autonomo alla ricerca. E vi
dicevo che per i testi papiracei quelle sono le banche dati maggiori, che analizzerete comunque con la
professoressa Otranto.

Introduciamo adesso l’epigramma, prima di affrontare la lettura degli epigrammi di Meleagro sul tema
dell’eros notturno. Allora intanto diciamo, come voi sapete, l’epigramma è un genere letterario che
accompagna tutta la letteratura greca, in tutto il suo svolgimento, cioè dall’età arcaica fino all’età bizantina;
perché, per esempio, uno dei primi documenti epigrammatici è quello della cosiddetta coppa di Nestore,
che è una coppa, risalente all’VIII secolo, quindi contemporaneo ad Omero, che è stata ritrovata ad Ischia, e
sono due esametri preceduti da un trimetro giambico. E tra l’altro questa coppa di Nestore ha un
argomento erotico. Quindi in origine l’epigramma cos’era? Era una breve iscrizione, aveva una funzione
pratica, concreta, perché era incisa su una stele funeraria, oppure su un’offerta votiva; quindi aveva uno
scopo preciso, magari commemorativo, per un’occasione pubblica oppure un’occasione privata. E il metro
più comune, già a partire dal VI secolo, è il distico elegiaco, cioè l’unione di un esametro più un pentametro,
il cosiddetto verso elegiaco. Quindi all’inizio le caratteristiche dell’ epigramma quali erano? Innanzitutto la
brevità, erano testi molto brevi, quelli epigrammatici, e avevano anche un contenuto, uno stile molto
sobrio, spesso impersonale, una lingua vicina a quella dell’epos, una lingua ionica, sempre con una
destinazione pratica: ad esempio gli epitaffi riportavano il nome del defunto, la famiglia, l’età del defunto,
la città. E l’altra caratteristica è che gli epigrammi arcaici sono per lo più anonimi, non se ne conosce
l’autore. Anche se spesso ci sono attribuzioni improbabili, ad esempio ad Omero, a Saffo, ad Archiloco.
Tutto questo per quanto riguarda l’età arcaica. In età classica, dopo le guerre persiane, poi per le diverse
controversie pubbliche, ci fu una grande richiesta di epigrammi, una richiesta sia pubblica che privata, e
quindi una produzione rigogliosa di epigrammi, produzione che riguardò anche autori famosi, come ad
esempio Euripide, che è per esempio l’autore dell’epitaffio per i caduti di Siracusa. Gradualmente
l’epigramma diviene sempre più elaborato in età classica. Quindi non ha più quello stile disadorno, ma ha
un intento celebrativo, quindi lo stile si fa più mosso. Però è soprattutto in età ellenistica che l’epigramma
vede la sua fioritura. Perché? Perché, come sapete, l’età ellenistica predilige le forme breve, predilige una
poesia breve, leziosa, molto curata, e quindi l’epigramma è particolarmente congeniale a questo gusto. È
ovvio però che in età ellenistica l’epigramma diventa soprattutto un gioco letterario, quindi non ha più
quella funzione pragmatica, che aveva avuto in età arcaica, ma diventa proprio una composizione letteraria.
L’insieme di questi epigrammi è raccolto nell’Antologia Palatina; perché si chiama così? Perché il nome
deriva dalla biblioteca palatine di Heidelberg, dove fu scoperto l’unico manoscritto di questa raccolta
epigrammatica, alla fine del XVI secolo, nel 1500 quindi. E diciamo è la raccolta più importante, più
imponente, che ci sia pervenuta. È un complesso di circa 3700 epigrammi, quasi 23000 versi. Quindi la voce
di centinaia di poeti diversi, di epigrammisti diversi, molto diversi per periodo storico, per cultura, per
ispirazione, per talento, in un arco di tempo che comprende sedici secoli, quindi sono poeti di età
differente. Voi sapete che l’Antologia palatina si articola in quindici libri, perché poi il sedicesimo libro è
l’Appendix Planudea. Come si articola? Il primo libro sono le iscrizioni cristiane; il secondo libro, invece,
raccoglie la descrizione, da parte di Cristodòro di Torto, che è un poeta tardo del V/VI secolo d.C., delle
statue che si trovano nel ginnasio di Costantinopoli. Poi il terzo libro è dato da iscrizioni relative ai
bassorilievi del tempio di Apollonìs a Cizico; il quarto libro, che è l’inizio vero e proprio dell’antologia
palatina, è data dagli epigrammi di Meleagro, Filippo e Agazia, quindi epigrammisti più tardi, perché con
Agazia siamo al sesto secolo d.C. Poi il quinto libro è quello degli epigrammi erotici; il sesto è degli
epigrammi dedicatori; il settimo è degli epigrammi sepolcrali. Poi l’ottavo libro raccoglie gli epigrammi di
Gregorio Nazanzieno (di Nazanzio); il nono gli epigrammi epidittici; il decimo i protrèttici; l’undicesimo gli
epigrammi conviviali e satirici. Poi il dodicesimo gli epigrammi pederastici, quindi erotici ma omosessuali; il
tredicesimo epigrammi di metro vario, poi il quattordicesimo oracoli, enigmi, problemi matematici; il
quindicesimo non ha un argomento preciso, ma sono epigrammi diversi per argomento e per età. E poi c’è
questa Appendix Planudea, o sedicesimo libro, che raccoglie 388 nuovi epigrammi, compilato da un
monaco, Massimo Planude, nel 1299. Da chi fu composta l’Antologia Palatina? Non sappiamo da chi, da un
anonimo che mise insieme questi epigrammi, nel 980 d.C. E diciamo sicuramente questa raccolta amplia dei
nuclei di raccolte precedenti. Cioè ci dovevano essere le cosiddette corone. Questa silloge amplia raccolte
precedenti, dei nuclei di raccolte precedenti. Perché noi sicuramente abbiamo notizia di una ghirlanda, di
una corona, di Agazia, che vi dicevo è un autore del sesto secolo d.C., di Filippo di Tessalonìca, del I secolo
d.C., ma anche di Meleagro, che è degli inizi del primo secolo a.C. E diciamo quindi c’erano sicuramente già
queste corone, questi nuclei, nuclei che poi sono confluiti nell’Antologia palatina messa insieme da questo
anonimo nel 980. Tra l’altro le attribuzioni avi ari libri spesso non è che siano molto esatte, cioè ci sono
molti dubbi sull’argomento dei singoli epigrammi, cioè un epigramma potrebbe stare meglio in un altro
libro rispetto a quello in cui è stato collocato, ad esempio, ma è ovvio che una raccolta di 23000 versi può
avere errori di questo tipo. Vi dicevo che è molto ampia la produzione epigrammatica, diciamo addirittura
comprende un vissuto letterario di sedici secoli, poeti diversissimi, però noi possiamo individuare almeno
tre diverse scuole epigrammatiche. Quindi non è una produzione uniforme, perché abbiamo almeno, ben
individuabili, la scuola peloponnesiaca, la scuola ionico-alessandrina, e la scuola fenicia. Allora per quanto
riguarda la scuola pelonnesiaca: a questa scuola appartengono poeti legati in particolare al Peloponneso,
oppure provenienti da altre regioni, ma in cui è evidente questa influenza peloponnesiaca. Per esempio,
per citare qualche poeta che può essere noto, a questa scuola peloponnesiaca appartiene Leonida, Leonida
di Taranto, che è l’epigrammista delle classi umili, così viene definito in genere, diciamo legato proprio alla
storia di Taranto, alle vicende di Pirro, ai macedoni. Ha un ideale di vita di derivazione cinica, rappresenta
spesso le classi più umili. Ha anche una certa evidenza, un gioco salace, piccante, quando descrive figure di
donne anziane. Quindi diciamo che la sua ispirazione è molto riconoscibile: cioè si rifà ad Ipponatte, ad
esempio, c’è sempre una vena polemica in questo autore, e poi il gusto per l’avventuroso, gli accenni
scherzosi, quindi ad esempio la figura del ghiottone, della vecchia ubriacona. Oltre che Leonida, alla scuola
peloponnesiaca appartengono due poetesse, che forse avrete sentito nominare, cioè Ànite e Nòsside, che
hanno ispirazioni diverse, perché Anite è sostanzialmente, ha un’ispirazione infantile, descrive i giochi
infantili, c’è un interesse proprio per il mondo dei bambini, l’amore filiale, oppure la giovinezza, la notte
prima delle nozze; invece Nòsside ha proprio un’ispirazione amorosa. Poi ovviamente ci sono poeti meno
noti, come Pèrseo di Tebe ad esempio. Quindi alla luce di questi autori cosa posiamo dire? Che la scuola
pelonnesiaca fa una poesia essenzialmente di genere, di ambiente, che racconta le piccole cose quotidiane,
quindi conferisce una dignità letteraria a una materia modesta. Quindi diciamo un’ispirazione molto
quotidiana, molto utile, anche se spesso il linguaggio è barocco, come ad esempio in Leonida di Taranto. Più
o meno contemporanea alla scuola peloponnesiaca è invece la scuola ionica, o meglio ionico-alessandrina, i
cui rappresentanti operarono per lo più nella Ionia, o ad Alessandria. E questo tipo di epigramma è
soprattuto un epigramma erotico, erotico e simposiale; è una poesia cittadina, quindi poco incline ai
vagheggiamenti bucolici, alle descrizioni del paesaggio. Quindi i temi quali sono? Il vino e l’amore, il
paraklausìtiuron, e poi tutta la simbologia di eros, quindi eros di arciere ad esempio, e quindi i tòpoi della
poesia erotica, come l’amore fuoco, l’amore malattia etc. E fra questi epigrammisti chi possiamo ricordare?
Callimaco, che scrive i Giambi, ma anche Posidippo, che è un autore che è stato scoperto recentemente, ne
sono stati ritrovati molti papiri, cioè epigrammi, però su papiro; anche Asclepiade fa parte di questa scuola,
e tra l’altro lui è uno degli oppositori di Callimaco. Spesso questi epigrammi si concludono con
l’aprosdòketon, cioè con l’inatteso, quindi diciamo con un gioco raffinato, ma comunque epigrammi
cittadini. Quindi non idilli bucolici, non descrizioni di paesaggio, che invece erano molto presenti nella
scuola peloponnesiaca, che appunto è una scuola di genere e di ambienti, descrive molto gli ambienti: ad
esempio in Anite sono molto diffusi i paesaggi, quindi i fiori, i fiumi, proprio descrizioni paesaggistiche, qui
invece no. E poi ci sono epigrammisti di questa scuola, come Dioscòride, autore della scuola ionico-
alessandrina. E poi per ultima la scuola fenicia: nella seconda metà del secondo secolo, e nella prima parte
del terzo secolo, si diffonde l’ultima propaggine dell’ epigramma ellenistico, la scuola fenicia, che ha i suoi
più noti rappresentanti in Meleagro, appunto, Filodèmo, e sono entrambi di Gàdara, e poi Appia di
Antiochia, Antìpatro di Sidone, sostanzialmente con una ripresa dei temi che erano stati già affrontati nella
scuola ionico-alessandrina, quindi sono molto vicini all’ispirazione di Callimaco e Asclepiade. Meleagro visse
circa tra il 130 e l’80-70 a.C., certamente visse dopo Antipatro, da lui tra l’altro celebrato in un epitaffio, e
visse però prima di Filodemo. Meleagro ha un’ispirazione sostanzialmente erotica, come vedremo; erotica
sia omosessuale, con gli epigrammi per un fanciullo, sia eterosessuale per Eliodora. E quindi, come vedrete,
dedica molti epigrammi a tema erotico notturno, e anche a un altro tema molto presente nell’antologia
palatina, e dedicata al tema erotico, che è quello della lucerna. Che funzione ha la lucerna negli epigrammi
dell’antologia palatina? Spesso è testimone di incontri d’amore, oppure il motivo dell’ortròs, che è quel
particolare momento della giornata che precede l’alba; talvolta è tradotto con “alba”; ma è una traduzione
imprecisa, perché l’ortros è il momento che precede l’alba, e come vedremo ci sono degli epigrammi
dedicati proprio a questo momento, che è un momento odiato dagli amanti, perché segna il distacco.
Quindi come la morte segna il motivo della vicinanza erotica, l’ortros segna il distacco degli amanti. Come è
odiato anche il gallo, questo animale che indica proprio il momento dell’allontanamento. La prossima volta
iniziamo a leggere qualche epigramma, così vediamo anche che tipo di lavoro si può fare sugli epigrammi,
come si possono analizzare, come se ne può fare un commento.

12.04.2022

Le lezioni riprendono il 21.

Iniziamo a leggere qualche epigramma di Meleagro, sempre sul motivo del binomio NOTTE-AMORE. L’altra
volta abbiamo parlato delle scuole epigrammatiche e accennammo anche a Meleagro, il quale ha per primo
l’idea di fare un’antologia di epigrammi, lo “Stefanos”. Queste antologie epigrammatiche minime hanno
dato origine poi alla Antologia Palatina. Che Meleagro fosse un personaggio di spicco nella poesia
epigrammatica è dimostrato dal fatto che Properzio nella 1.1 riprende puntualmente l’epigramma 101 di
Meleagro. Di lui restano 130 epigrammi, contenuti (oltre che nell’Antologia Palatina) e commentati da Page
nell’edizione GP, dal momento che Meleagro vive a cavallo tra II e I a.C.: gli epigrafisti della prima età
alessandrina sono contenuti in Hellenistic Epigrams (HE) di Paige, invece gli altri più tardi nella “Corona di
Filippo” (GP) edizione sempre curata da Gau Paige. Funzionamento: quando citare un epigramma si fa così
(es): Mel, AP 12, 150 = GP 1040-46 (corrispondenza con “The Garland of Philippe” di Paige). Questi
epigrammi hanno un volume di testo e uno di commento in cui i numeri corrispondono.

MELEAGRO, Ant. Pal., V, 8


Libro V = epigrammi eterosessuali. Talvolta il copista sbaglia quindi non bisogna fidarsi ciecamente della
suddivisione. Qui non è chiaro se l’io parlante sia un uomo o una donna e questo sarà il primo problema
che dobbiamo porci.

Νύξ ιερή και λύχνε “Notte sacra e lanterna”.

Qui si trova una glossa dell’editore accanto all’epigramma, che recita εις εταιρα τινα “ad un’etera”, ma il
testo non è dedicato ad una etera, quindi già questo è un errore.

NOTTE SACRA E LUCERNA, ENTRAMBI ABBIAMO SCELTO (eilometa) NESSUN ALTRO COME TESTIMONI DEI
NOSTRI GIURAMENTI (orkois) SE NON VOI.

I due amanti hanno scelto la notte sacra e la lucerna come testimoni dei giuramenti.

E LUI Χω > kai w (coronide al posto dello spirito aspro) GIURÒ (omosamen) CHE MI AVREBBE AMATO (non
capiamo ancora l’identità) E IO CHE NON LO AVREI MAI LASCIATO (keinon > ekeinon); VOI (lucerna e notte)
AVEVATE (impf exw = valore continuativo nel presente = azione che si è ripetuta più volte) UN COMUNE
ATTO DI FEDE. MA ORA LUI DICE CHE QUEI GIURAMENTI (keina > ekeina + orkia) SONO PORTATI
SULL’ACQUA, OH LUCERNA, E TU LO VEDI NELLE BRACCIA DI ALTRI (o di altre?).

L’io parlante parla di un giuramento d’amore reciproco. Si parla di un lui, un personaggio maschile, che
giurò amore eterno ma ora lo stesso dice che quei giuramenti sono svaniti ed è nelle braccia di altri/e.

Si parla di un amore etero o omosessuale?

Sicuramente è presente un topos della poesia erotica, quello del giuramento d’amore eterno, metafora
presente già nel V a.C. (cfr. parabasi delle Nuvole Seconde di Aristofane: il poeta allude alla sconfitta delle
Nuvole prime del 423 e usa un linguaggio erotico, dicendo che tra commediografo e pubblico sono stati
disattesi gli όρκοι, i giuramenti). Esiste un altro topos nella letteratura erotica, quello dell’atteggiamento
infido delle donne: secondo il topos, dai giuramenti d’amore delle donne ci si deve sempre guardare.
Notiamo che a livello lessicale il linguaggio è tipicamente alessandrino perché già il nesso incipitario è molto
raro, ma qui Meleagro si serve di una iunctura omerica “knefas ieron”, che Meleagro cambia in “Nux ierè” >
procedimento tipicamente alessandrino: imitatio cum variatione. Dunque, a livello linguistico c’è una koinè
sia contenutistica che lessicale alessandrina. Già gli antichi commentatori non riuscivano a capire se si
trattasse di un amore eterosessuale o omosessuale. Sicuramente non è un epigramma dedicato ad una
etera, ma l’errore si spiega perché, avendo Meleagro ad un’identità maschile, l’epigramma è stato visto
come rivolto ad una donna. Secondo la Mariotti qui sta parlando Meleagro, dunque sarebbe un amore
omosessuale. Lei sostiene questo perché è molto difficile che in Meleagro l’io parlante sia un donna.
Tuttavia, sulla base di un argomento del genere (quello della consuetudine dell’autore) dovremmo
eliminare tutti gli hapax; per cercare di capire l’identità dell’io parlando si potrebbe analizzare il topos del
giuramento d’amore sull’acqua, molto diffuso. Infatti si trova in diversi luoghi:

- Frammento di Sofocle > S. fr. 811 Radt (per i frammenti di Eschilo e Sofocle si usa l’edizione di Radt:
per Sofocle troviamo l’abbreviazione R; per Eschilo la versione aggiornata R 2)8.
Όρκους δ`εγώ γυναικός εις ύδωρ γράφω “ed io scrivo sull’acqua i giuramenti di una donna”.
- Catullo, carme 70 (vv 3-4)

8
Per Euripide si usa Kannicht (Kn.)
Mulier cupido quod dicit amante, in vento et rapida scribere oportet aqua. “quello che dice una
donna ad un amante desideroso, bisogna scriverlo sul vento e sull’acqua veloce”.

Queste attestazioni hanno sempre il verbo “scrivere”, quindi qualche editore ha pensato di intervenire sul
testo di Meleagro > al v5 dove abbiamo φερεσθαι, alcuni hanno corretto con γραφεσθαι, perché ill testo di
Meleagro corrispondesse ai vari testi in cui compare γράφω. In realtà questa correzione non è necessaria
perché se in un passo dell’elegia 16 del libro II degli Amores di Ovidio leggiamo: verba puellarum … ventus
et unda feret > col verbo “portare” e non “scrivere”. Quindi in Meleagro φερεσθαι ci sta benissimo perché
corrisponderebbe al feret ovidiano. Evidentemente il topos può essere declinato in due modi. Spesso gli
studiosi vogliono modificare il testo, ma si dovrebbe fare solo quando non si riesce a trovare una
spiegazione valida. In questo caso non c’è motivo di correggere.

Da questi 3 passi possiamo capire che l’io parlante è sempre un uomo (in questi 3 passi) che parla
dell’inaffidabilità delle donne, quindi anche nell’epigramma di Meleagro è molto probabile che chi parla
dell’inaffidabilità dei giuramenti di una donna sia un uomo. Dunque, l’io parlante dell’epigramma è una
donna che sta riferendo il pensiero di un uomo, il quale usa il topos dei giuramenti femminili. In favore di
questa conclusione c’è un altro elemento, ossia la presenza della lucerna. Essa è testimone di amore, ma
solo di amori eterosessuali (non abbiamo casi di lucerne testimoni di amori omosessuali).

MELEAGRO, Ant. Pal., V, 165

Sempre invocazione alla notte, file Nux (v1) poi potnia Nux (v2)

DI QUESTA COSA SOLA IO TI PREGO, OH CARA NOTTE, TU CHE SEI LA MADRE UNIVERSALE DEGLI DEI, SI TI
PREGO NOTTE DIVINA, TU CHE SEI PARTECIPE DEI BAGORDI: SE QUALCUNO DISTESO (beblemeos > ballw)
SOTTO UN MANTELLO SI RISCALDA (talpeitai) INFIAMMANDOSI DI PASSIONE PER IL CORPO CHE FA
PERDERE IL SONNO (upnapate) DI ELIODORA, DORMA LA LUCERNA, E L’ALTRO GETTATO TRA LE BRACCIA DI
LEI, GIACCIA COME UN SECONDO ENDIMIONE.

- il gen Heliodoras possiamo riferirlo o a “upo klaine” > “disteso sotto un mantello di Eliodora”, sia a
“xrwti”. La prof crede che si riferisca a xrwti perché troviamo la stessa iunctura nell’epigramma 172
di Meleagro. D’altra parte l’uso dell’enjambement è tipico della poesia alessandrina. Tuttavia, non
si può eslcudere che il gen sia riferito a klaine perché nell’epigramma 173 troviamo il gen dell’etera
riferito al mantello. Non ci possiamo dunque basare sulla consuetudine perché vanno bene
entrambi. La prof preferisce xrwti anche perché si creerebbe un chiasmo: xrwti Eliodoras –
beblemenos xlianomenos. Inoltre, la xlaine è un mantello maschile. È affermato qui il motivo
letterario del mantello che copre l’amore delle amanti, presente nell’epodo di Colonia di Archiloco,
dove il mantello svolge la stessa funzione che nel libro XIV dell’Iliade la nuvola aveva coperto gli
amori di Zeus ed Era.
- ENDIMIONE = mito: pastore di cui si era innamorata la dea Selena. Aveva ottenuto dagli dei la
possiblità di dormire in eterno. Il mito prevede 2 versioni: la prima secondo cui sarebbe stato
Endimione a chiedere questo agli dei, la seconda secondo cui il sonno eterno era una punizione di
Zeus, ingelositosi perché Era si era innamorata di questo giovane. C’è un richiamo alessandrino a
questo mito, in forma scherzosa, per dire che chi sta con Eliodora, invece di fare l’amore si
addormenta. Nell’ultimo distico c’è questo gioco perché si dice che la lucerna è una condicio sine
qua non per fare l’amore. D’altro canto riptasteis indica il sonno inquieto di chi non ha ottenuto ciò
che cercava. Il testo è sapientemente costruito perché “koimasto” fa da pendant con “keisto”.
Anche il finale umoristico è tipicamente alessandrino.

Torna quindi il motivo della Notte “potnia” e il pregarla in quanto partecipe dei bagordi. In Menandro si
parlava della notte che partecipava di Afrodite, qui invece dei bagordi. Il komos era la processione che
finiva con l’assalto ai bordelli e dinanzi alle porte chiuse delle etere si verificava il praklausityron (cfr.
Fragmentum Grenfellianum).

21.04.2022

Oggi vediamo due epigrammi di Meleagro, 5.172 e 5.173, strettamente legati tra loro sia a livello
contenutistico che formale. In entrambi c’è un elemento tipicamente meleagreo: l’invocazione all’ortros,
comunemente tradotto con “alba”, ma più precisamente è il momento di passaggio dall’alba al giorno.

MELEAGRO, V, 172

OH ALBA, TU CHE SEI NEMICA DEGLI AMANTI (dus = valore di negazione), PERCHE MAI SEI GIUNTA
(epestes) VELOCEMENTE A ME (moi) PRESSO IL LETTO (perikoiton), MENTRE IO MI RISCALDAVO DI
PASSIONE (in dativo perché accordato con moi) PER IL CORPO DELL’AMATA DEMO? AH VOLESSE IL CIELO
CHE TU DIVENTASSI ESPERO VOLGENDO INDIETRO (palin con i verbi di movimento ha valore locativo, non
temporale) LA TUA VELOCE CORSA, OH TU CHE LANCI VERSO DI ME UNA LUCE DOLCE AMARISSIMA
(pikrotaton). INFATTI ANCHE PRIMA (kai pros thn > si riferisce all’alba) TU SEI TORNATA GIÀ INDIETO VERSO
ALCMENA LA DONNA/QUELLA DI ZEUS; TU NON SEI INESPERTA DELLE CORSE FATTE A RITROSO
(palindromies)

Epigramma dal linguaggio oscuro e con notevoli difficoltà sintattiche. Tuttavia, il significato è chiaro: è
un’invocazione all’alba a cui si chiede di tornare indietro in quanto avversa agli amanti perché comporta la
conclusione della notte d’amore.

Leggiamo l’altro epigramma dello stesso libro

MELEAGRO, V, 173

OH ALBA, PERCHÉ ORA TU CHE ODI GLI AMANTI TI VOLGI PER L’UNIVERSO LENTAMENTE, DAL MOMENTO
CHE UN ALTRO SI RISCALDA SOTTO IL MANTELLO DI DEMO? MA QUANDO IO AVEVO (exwn > senza
l’aumento ei-) TRA LE BRACCIA LA SNELLA (la mia bella), ALLORA GIUNGEVI (epestes) VELOCEMENTE COME
PER GETTARE SU DI ME UNA LUCE CHE ERA LIETA/CHE GODEVA DELLA MIA ANGOSCIA (epikairekakon =
conio alessandrino).

La situazione tra il primo e il secondo epigramma è rivoltata: nel secondo Meleagro se la prende con l’alba
perché è troppo lenta nell’avvicinarsi e sembra che voglia punire il poeta perché concede ad un altro il
calore del corpo di Demo. Ci sono diversi elementi che dimostrano una situazione polare rispetto al
precedente epigramma, non solo contenutistici ma anche formali.

1. I due protagonisti sono gli stessi: Meleagro (che anche l’io parlante > forte identificazione
autobiografica nell’epigramma. Non è scontato che l’io parlante sia il poeta) e Demo.
2. Presenza dell’io parlante = nel primo epigramma è evidenziato al v1 (moi), nel secondo nell’ultimo
verso (ep’emoi). Sia l’incipit che l’explicit sono luoghi enfatici, carichi di memoria.
3. Demo chiamata in causa nello stesso spazio metrico = primo pentametro.
4. Se estrapoliamo dal primo epigramma i vv.5-6, che sono tutto sommato un’appendice irrilevante in
quanto sfoggio di dottrina mitologica, avremmo una perfetta corrispondenza tra i due epigrammi
(due distici > 4 versi).
5. Il primo verso di 173 richiama il primo di 172: è evidente la ripresa dei distici dell’epigramma 173
dei primi distici dell’epigramma 172, sia nell’incipit (ortre); poi “taxus” nel 172 e “braxus” nel 173 =
due termini polari “veloce” e “lento” > la polarità indica un richiamo specifico; ancora, “peri koiton”
e “peri cosmon”. Alla fine del verso, in explicit, abbiamo il verbo epestes ed elisse = stessa struttura
sintattica e verbo che in entrambi i casi inizia per epsilon (anafora)
6. Demous talpetai richiama Demous talpete> i due verbi significano la stessa cosa
7. In 173 si descrive la situazione del passato, di un tempo, quando l’ortros giungeva “wkus epestehs”,
che richiama il “takus epestes” del verso 1 di 172. Anche se wkus e takus sono differenti (sia per
motivi metrici che di variatio) si nota una ripresa.
8. Ballwn fws di V,173 richiama fws ballwn al v.4 di V,172

L’epigramma V,173 ci prospetta una situazione diversa e questo è sottolineato dal “nun” diverso dall’allora
di V, 172.

Modelli:

- Saffo > quando Meleagro impreca vs ortros riprende un momento del fr.135 Fort, il cui attacco ci fa
capire che il frammento si apriva con l’imprecazione alla rondine, uccello che annuncia il mattino.
Quindi anche in Saffo c’era l’imprecazione vs un elemento che evidenziava il mattino.
L’imprecazione contro la rondine saffica, in Melagro assume una traduzione umoristica perché
nell’epigramma 137 del XII libro si impreca contro un altro uccello che annuncia il mattino, cioè il
gallo. Meleagro sostituisce la rondine con un più domestico gallo e in questo è presente lo humor
degli alessandrini. Nel V,174, al v4, c’è una chiara ripresa del fr.133 Voight di Saffo dove si parla
dell’amore dolce-amaro: qui è la luce ad essere dolce-amarissima, in Saffo è l’amore ad essere
dolce e amaro nella stessa misura, invece per Meleagro l’amore è più amaro che dolce (=
superlativo).

Problema per V,172: chi diffonde questa luce dolce-amara? Espero oppure Ortros? Secondo Vittorio Citti è
Espero (= il Pianeta Venere) che lancia questa luce perché Espero è un astro naturalmente ambiguo:
risplende sia la sera, ma si vede ancora quando emerge il giorno. Quindi il senso è ch Espero è dolce quando
annuncia la sera, ora dedicata all’amore, invece diventa amarissimo quando sta per scomparire perché
annuncia il giorno e quindi codifica il distacco degli amanti. È un’interpretazione convincente ma rimane
qualche dubbio, perché in un componimento che ha tanti rimandi al successivo, non si può non notare che
in V,173 il “ballwn fws” è riferito all’Ortros. Tanto più, che l’elemento di ambiguità temporale simbolica è
proprio dell’ortros perché anche questo, come Esperos, partecipa sia della notte che del giorno.

Infine, i vv.5-6 (ultimo distico) di V,172 è quasi un’aggiunta un po’ inutile perché è dimostrazione di dottrina
mitologica (poeti alessandrini = poeti grammatici). Il riferimento mitologico è alla nux makrà “la lunga
notte” che Zeus ottenne quando andò a letto con inganno con Alcmena, moglie di Anfitrione. Già Platone
Comico aveva scritto di una “nux makrà”, quindi gli alessandrini usano questa chiusura in modo scherzoso
perché propone una versione truffaldina del padre degli dei. C’è una difficoltà sintattica in quell’epì
Alcmenen (epì + acc) > nei codici generalmente epì si trova col dativo; Dios “Zeus” può essere retto sia da
Alcmenen (= “la donna di Zeus”), sia da antìos che può reggere il gen. Come senso si collegherebbe meglio
ad Alcmenen.

In V,173 è da notare quel radinan, termine dalla tradizione poetica privilegiata perché usato in genere per
Afrodite che è definita “bradinà” (psilosi e baritonesi in Saffo > beta si è poi trasformata in spirito aspro >
parola ossitona in Meleagro). Quindi è Afrodite la “snella” per eccellenza in Saffo (fr.172 Voight). Anche in
questo c’è un elemento di humor: Demò (nome parlante = “Donna pubblica”) riceve un appellativo di solito
attribuito ad Afrodite.

26.04.2022

Appello spostato al 30 o 31 maggio.


Oggi vediamo due epigrammi dedicati al gallo: uno di Meleagro e l’altro di Antipatro di Tassalonìca.
Quest’ultimo è un epigrammista di età augustea. I due epigrammi trattano lo stesso tema perché Meleagro
ha fatto scuola sia per il motivo dell’ortros, sia per questo motivo del gallo. Gallo che è un essere odiato
dagli amanti perché ovviamente preannuncia il giorno e segna la fine della notte d’amore. Il gallo è un po’la
traduzione parodica di una presenza più nobile, attestato nella lirica, quella della rondinella saffica. Il fr.135
Voight contiene proprio la rondine che annuncia il nuovo giorno e segna la fine dell’ora notturna dedicata
all’amore. Gli epigrammisti che fanno sempre questa operazione di imitatio cum variatione, riprendendo la
tradizione e sostituendo la più nobile rondine con un animale domestico come il gallo.

MELEAGRO, Ant. Pal., 12, 137

L’epigramma è ambientato nell’ora dell’ortros ed è incentrato sulla figura del gallo, espediente parodico. Il
finale sarà anche parodico. Meleagro si rivolge all’ortro boas, il gallo:

OH TU CHE GRIDI ALL’ALBA, NUNZIO DI SVENTURE PER CHI È FOLLE ALL’AMORE. ORA TRE VOLTE
MALEDETTO, TU STAI GRACCHIANDO (Krazeis > verso della cornacchia. Di solito i greci per indicare il suono
del gallo usano il verbo adw, oppure uno più onomatopeico: kokkuw. Qui usano krazeis per sottolineare il
valore negativo) PER TUTTA LA NOTTE UN SUONO/UNO STREPITO (sempre accezione negativa) CHE
SCUOTE I FIANCHI (plerotupé = tuptw + pleura > secondo Meleagro, il movimento delle ali è condizionato
dal suono cupo che viene dall’’interno del torace del gallo), IMPETTITO (gauros) SUL LETTO/TALAMO >
perché il gallo è impettito sul letto? Può essere legato al fatto che in Grecia i galli si tenevano
all’interno della casa, collocati in alto sul trespolo, quindi qui assumerebbe il senso di “impettito in alto sul
trespolo al di sopra del letto”. Tuttavia, si può intendere anche in senso metaforico, ossia “tronfio” rispetto
alla “mia” storia d’amore), QUANDO (oti) A ME (moi) RESTA ANCORA (eti) QUESTA PICCOLA PARTE (braku)
DELLA NOTTE PER FARE L’AMORE CON UN FANCIULLO (paidofilein > siamo nel libro XII, quello prettamente
degli amori omosessuali)

“piccola parte della notte” > Meleagro sta glossando il significato del termine ortros, procedimento tipico
del poeta alessandrino che è anche un poeta grammatico e spiega ogni elemento di ciò che scrive, del
testo.

… PERCHÉ ORA TU RIDI (gelas) DOLCEMENTE (adu) DELLE MIE SVENTURE (odunais) > il gallo ride delle
sventure del poeta e si diverte a vedere chi soffre dall’alto del trespolo. QUESTO è IL RINGRAZIAMENTO
(karis) PER COLUI CHE TI HA NUTRITO? Fin qui l’epigramma ha avuto un tono serio, invece adesso c’è una
svolta tematica: LO GIURO SULL’ALBA … TU SCHIAMAZZERAI QUESTI CANTI TRISTI/ASPRI PER L’ULTIMA
VOLTA > tono scherzoso con cui il poeta minaccia di morte il suo avversario perduto. Il finale forse fa
prevedere che il gallo finirà in arrosto.

Nell’epigramma si alternano due maniere: tragica (apertura), evidente da “trisalaste”: alastos letteralmente
è “colui che non si può dimenticare”, termine attestato sin da Omero (Achille lo dice ad Ettore) quindi tratto
dal linguaggio elevato. Tuttavia, la chiusura dell’epigramma è ironica, tipicamente alessandrina. Gerusai
“schiamazzare” è messo in relazione con mele “canti”, quindi c’è un ossimòro che ben rientra in questo
finale ironico.

ANTIPATRO DI TESSALONICA, Ant. Pal., 5,3

È ARRIVATA L’ALBA, OH CRISILLA, DA TEMPO IL GALLO MATTUTINO CONDUCE (agei) CON IL SUO CANTO
(kerusson) L’ALBA INVIDIOSA (degli amanti = sott.)

Alektor = “gallo” > nel linguaggio popolare indicato con kerux.

POSSA TU ANDARE ALLA MALORA (errois > espressione attestata nella letteratura greca sin dall’VIII-VII a.C.,
per esempio sulla coppa di Pitecusa o in Archiloco), IL PIU INVIDIOSO DEGLI UCCELLI [qui c’è una emulatio
ironica nei confronti del modello saffico: il gallo è più invidioso della rondine. Il rapporto di emulatio col
modello è sempre complesso. Bisogna capire se e perché si cita un modello. Innanzitutto bisogna capire se
effettivamente sia citato un modello o se si stia riprendendo un motivo letterario e popolare. Per dire che
un autore riprende un altro si devono avere indizi che portino a dire che c’è un rapporto tra due
soggettività letterarie. Questo è il concetto di arte allusiva di Giorgio Pasquali, innovazione rispetto al
crocianesimo che vedeva la poesia come ispirazione, senza che ci fossero modelli testuali. Il concetto di
intertestualità, approfondito da Conte e Marchesi (che hanno ampliato il concetto di arte allusiva di
Pasquali). In questo caso si dice “il più invidioso degli uccelli” perché si sta facendo una sorta di paragone
con la rondinella saffica. La finalità di questa emulatio è parodica], TU CHE MI CACCI VIA DALLA CASA
(oikoten) VERSO I MOLTI DISCORSI (polus oarus) VERSO I DISCORSI DEI GIOVANI [> si è pensato al mestiere
esercitato dall’autore dell’epigramma che era un maestro di scuola. Quindi il gallo avrebbe costretto
l’autore ad andare via di casa per esercitare la professione di insegnante. Scovola Mariotti pensa che non
necessariamente il poeta eserciti la professione di maestro, ma ritiene che questi discorsi siano parte di una
routine che si contrappone all’intensità della notte d’amore]. Nel distico finale si passa ad un altro soggetto
(nei primi 4 vv è il gallo), Titone, personaggio mitologico per cui l’innamorava Aurora chiese e ottenne
l’immortalità. Tuttavia si scordò di chiedere l’eterna giovinezza, quindi il triste destino di Titone è un
invecchiamento perenne. INVECCHI, OH TITONE. PERCHÉ MAI LA TUA COMPAGNA (compagna di letto)
AURORA (Hw) COSÌ PRESTO ALL’ALBA SCACCI VIA DAL LETTO (dal giaciglio)? Anche qui può esserci una
componente ironica dell’epigrammista che allude al desiderio sessuale del vecchissimo Titone. Anche nel IX
canto del Purgatorio di Dante si fa riferimento ad Aurora e Titone, ma Dante non conosceva i greci, quindi
questo repertorio gli giunge attraverso gli. Elegiaci latini. Dunque dobbiamo tener presente che quando
parliamo di modelli in letteratura dobbiamo chiederci se l’autore che sta imitando potesse leggere l’autore
precedente. Se il testo si leggeva all’epoca del secondo autore, in che forma si leggeva? Completa o
antologica? Della tradizione dei testi si occupano i paleografi.

28.04.2022

Come si può sfruttare tutto ciò che abbiamo detto in ambito didattico?

Siamo partiti dall’idea di elaborare un modulo didattico. Il tipo di didattica convenzionalmente più adottata
nella nostra scuola è quella per obiettivi, ultimamente ribattezzata come “didattica per competenze”. La
matrice ideologica è comune. Questo tipo di didattica ha il suo perno nelle unità didattiche. Cos’è l’unità
didattica? È la scomposizione di un argomento ampio e complesso in sequenze lineari brevi, in funzione
dell’acquisizione di determinate competenze e abilità. È un tipo di sapere, quello dell’unità didattica,
finalizzato a qualcosa, all’acquisizione di un saper fare perché quando parliamo di competenze ci riferiamo
ad un’operazione da compiere. Una competenza, per esempio, è quella linguistica e traduttiva: saper
interpretare un testo, comprendere e distinguere linguaggio orale da quello scritto. Ci riferiamo dunque ad
un tipo di sapere concreto. Questo tipo di sapere concreto ha sempre trovato sostenitori in quanti
sostengono che nella scuola del passato si sia dato troppo spazio ad un tipo di sapere astratto, cioè alla
conoscenza. Il discrimine tra conoscenza e competenza è questo: la prima è un tipo di sapere teorico (non
necessariamente umanistico, ma pensiamo anche alla fisica teorica o alla matematica per esempio). I
detrattori della scuola del passato (anni precedenti al 1968), tra cui soprattutto gli economisti, hanno
sempre criticato il nozionismo, l’estrazione teorica, il fatto che si imparassero a memoria troppe poesie. Ma
anche il fatto di imparare a memoria pezzi di letteratura non è un’operazione del tuto banale, perché
significa acquisire un’attitudine al linguaggio letterario (capire le metafore, ecc.) e non è male che la scuola
proponga qualcosa di diverso dalla vita di tutti i giorni (es. social), altrimenti vivremmo in un eterno
presente. Quel tipo di scuola del passato, con tutti i suoi limiti, andrebbe rivalutata per qualche aspetto.
Dopo la rivoluzione del ’68 si è segnato uno spartiacque. Questo anno ha segnato l’affermazione dei
metodi, la priorità data ai metodi rispetto ai contenuti, il che implica che il sapere venisse realizzato anche
dal basso e non necessariamente dall’alto, un’ibridazione dei linguaggi letterari (psicanalisi, psicologia della
letteratura ecc.), ma tutto ciò ha portato ad un tecnicismo nella lettura dei testi letterari. Dunque, i
contenuti sono stati progressivamente abbandonati e si è posto l’accento sui metodi. Sino a quando si è
affermata la la didattica dell’esperienza (circa un ventennio fa): un individuo deve leggere autonomamente
i testi. Tuttavia, questo ha dei limiti perché ha portato ad una improvvisazione (es: leggere un romanzo
senza avere una tecnica di lettura) e avrà ben poco di scientifico. Se si utilizza un tipo di didattica per
obiettivi, bisogna tener presente che essa è finalizzata a obiettivi limitati (es: imparare le declinazioni, a
coniugare i verbi ecc.), ma questo andrebbe bene solo per il biennio, dove la grammatica è preponderante.
Tuttavia, dal terzo anno in poi, quando ci si comincia ad approcciare alla letteratura, questo metodo diventa
vano: l’insegnante deve anzitutto accendere l’interesse degli alunni (tenendo presente che si tratta di
adolescenti) e per farlo bisogna far leva per esempio sulla loro stessa vita, sul loro contesto di vita. Per fare
ciò, la didattica per obiettivi non è adatta. Conviene optare a questo punto per il modulo didattico, adatto
ad oggetti complessi e può far leva sulle motivazioni, sui valori, sulla vita, perché stabilisce una connessione
tra presente e passato. Altra potenzialità del modulo è il fatto di non disgiungere le singole unità didattiche,
che di per sé sono autonome fra loro e non hanno legami, il che toglie compattezza a tutto il percorso che
va svolto durante l’anno. Invece, il modulo è la MAPPA delle unità didattiche, racchiude in sé le unità
didattiche, in modo da passare da insegnamenti descritti a insegnamenti immaginativi: si possono pensare
diverse unità didattiche (una sulle etere, una sui matrimoni ecc.) e il modulo le va a riunire tutte. Possiamo
pensare ad un modulo di tipo storico-culturale, per esempio, “figura della donna nell’età repubblicana a
Roma”, oppure possiamo pensare un modulo tematico (come quello che abbiamo fatto noi). Tuttavia, i testi
potrebbero individuare temi diversi e questo dipende dalla prospettiva in cui ci poniamo (psicoanalitica,
sociale ecc.). chiaramente, quando s individua un tema, questo deve essere molto significativo e in grado di
aggregare a sé vari testi.

Le potenzialità del modulo tematico sono sicuramente quella di garantire un rapporto tra presente e
passato, questo perché il tema fa leva sulla componente antropologica, quindi sulle costanti che ci sono
nell’animo umano. È chiaro che questo, però, comporta anche il limite di comprimere la dimensione
storica: se analizziamo un tema non analizziamo il contesto storico; e non basta semplicemente premettere
un cappello storico perché il tema va storicizzato in profondità. Una forma di storicizzazione del tema è la
storia dei generi letterari: mentre attraversiamo il tema, si deve essere attenti ai generi letterari (epos,
lirica, epigramma) e vedere perché quel tema permane in un genere letterario e non in un altro. Per
esempio, il carme simposiale è legato al simposio, ma nel momento in cui questo viene meno anche il
carme simposiale scompare. Dunque, alcuni temi sono strettamente legati al genere letterario e questo
consente di storicizzare sia la componente meta-storica che quella antropologica. Il modulo tematico si può
fare inframmezzandolo ad uno studio diacronico della letteratura, dunque come elemento di maggiore
interesse, perché dobbiamo immaginare che uno studente alle prime armi non sappia che Omero viene
prima di Apollonio Rodio, per esempio.

Dunque, non bisogna mai disarticolare il tema dal contesto storico. Spesso questo non è semplice perché i
testi non sono sempre organizzati in ordine cronologico, ma spetta al docente organizzare il tutto.

Altro pericolo del modulo tematico è il rischio di considerare la letteratura come documento storico 9,
invece la letteratura non è mai un documento della storia, ma un monumento della storia: un conto è
leggere un’epigrafe, un conto è leggere la letteratura che rielabora la storia e abbiamo a che fare con la
soggettività dell’autore che rielabora la storia alla luce della propria sensibilità e ideologia. Dunque, bisogna
leggere il testo letterario per capire come svolge quel determinato tema, quali strumenti usa lo scrittore per
proporre il tema, quale sia il linguaggio scelto.

Quando si sceglie di fare un modulo tematico, si può scegliere di agire in maniera sincronica o diacronica: si
può considerare il tema in relazione ad un solo periodo storico, oppure il suo sviluppo nel corso del tempo.
Ad esempio, il tema dell’eros considerato solo nella lirica arcaica e tardo-arcaica; tuttavia, ci si deve
chiedere perché quel determinato tema compare in un dato momento storico e in un dato genere
letterario. Invece, analizzando il tema in diacronia, possiamo vedere il suo sviluppo dalle origini all’età
contemporanea e questo ci permette di sottolineare le varianti, dunque, come varia il tema nella storia, le
differenze che si evidenziano (nonostante siamo eredi dei greci e dei latini, siamo molto diversi tra loro). Le
differenze rendono ancora più interessante quel mondo, considerandolo grazie lezione di civiltà per il
mondo di oggi: far capire ai ragazzi che le differenze sono forme di arricchimento è importante. Dunque, il
tema permette di porre l’accento sui valori e non solo sull’acquisizione di una abilità tecnica, permette di
dare senso e significato ai testi ma anche alla vita. Infatti, si studiano molto più volentieri quelle cose che si

9
Es: i gender-studies considerano la letteratura un documento sulla storia dei sessi, ma la letteratura non è solo
questo.
riescono a rapportare alla propria vita, dunque, bisogna sempre suscitare l’interesse attraverso qualcosa
che si vive.

Dunque, il modulo tematico è utile ma è una soluzione che deve essere affiancata ad altre.

Durante l’anno si può scegliere di affrontare più di una tipologia di modulo. Così si garantisce una pluralità
di approcci alla letteratura. Per fare ciò, il docente deve mettersi in gioco e non limitarsi a seguire il testo
pedissequamente. Per tutto ciò, il docente può anche servirsi di internet, per esempio per far vedere come
si cercano delle fonti.

Quando si opta per il modulo tematico, potrebbe essere utile partire da un testo contemporaneo (es:
Shakespeare) per poi arrivare a testi del passato.

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