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Metafisica e presupposizioni. Le soglie di Agamben


di Matteo Acciaresi

Abstract:

Relative to contemporary (and, particularly, post-Heideggerian) perspectives in metaphysics,


politics and ontology, the following article intends to illustrate and examine the philosophical
originality of Giorgio Agamben’s more than forty-years-old researches.
Being our firm belief that agambenian philosophical project develops among Heidegger’s
(the ‘onto-historical’ end of Western metaphysics), Benjamin’s (the historical Messianism
conceived and concentrated by his Theses on the philosophy of history) and Paul’s (the
experience of the ho nyn kairòs as expressed in the Letter to the Romans) traces, we will firstly
try to claim and show how, according to Agamben, Western metaphysics, ontology, language,
ethics and politics (briefly: Western philosophy) is radically marked by a strong presupposition
structure, that has, by him, to be revoked.
In this sense, we will then argue that (and explain how), despite its various interests, joints
and contexts, Agamben’s thought grows firmly, ethically and messianically unitary and uniform
- and how, setting itself among and between the presuppositions, it drafts and represents one of
the strongest contemporary philosophical projects.
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Metafisica e presupposizioni. Le soglie di Agamben
di Matteo Acciaresi

1. Tra soglie e archeologie: sul procedere di Agamben


Siate soltanto il vostro volto. Andate alla soglia.
Mezzi senza fine. Note sulla politica1

In quella che, dopo L’uomo senza contenuto (1970), si potrebbe definire la prima, compiuta opera di
Agamben, Stanze (1977), significativamente dedicata alla memoria di Heidegger, scomparso l’anno
precedente, l’autore affronta l’eminente questione della scissione endemica della parola: tra significante
e significato, tra presenza e frattura originaria della stessa, tra trascendenza e immanenza. Da Dürer a
Marx, da Baudelaire a Freud, da Edipo a Dante al Roman de la rose, Agamben percorre le tracce delle
aporie fondamentali incombenti sullo statuto ontologico-linguistico del ‘moderno’ - aporie scaturenti
dall’«oblio della differenza originaria tra significante e significato», dalla «scollatura originaria della
presenza sul cui abisso si insedia la significazione» (Agamben 1977, pp. 162-163). Questo oblio, questo
occultamento primevo del fatto che, nel suo aver-luogo, la presenza è già sempre differita a se stessa, le
immane già sempre una costitutiva inappropriabilità, è la base dell’edificazione della metafisica sino
alla nostra epoca - della sua azione coprente, suppletiva. In questo contesto, al «nostro antico
pregiudizio edipico» (ivi, p. 177), per cui un enigma (la parola della Sfinge) non sarebbe altro che un
‘discorso simbolico’ dell’improprio contrapposto alla proprietà di un ‘esprimere’ e ‘decifrare’ (la parola
di Edipo), Agamben oppone un’interpretazione dell’àinos della Sfinge come «far segno verso
l’originaria stazione apotropaica del linguaggio nel cuore della frattura della presenza» (ivi, p. 166),
come indicazione e assunzione di quell’inappropriabile che immane ad ogni proprietà, e di cui si tratta,
per Agamben, di prendere definitivamente consapevolezza in direzione di una «gioi che mai non fina»2
(ivi, p. 146), vale a dire dell’appropriazione dello statuto originariamente tensionale della parola - quello
che, di lì a qualche anno, Agamben chiamerà «aver luogo del linguaggio».
Ora, quel che, per il nostro discorso, vale la pena di mettere in luce è che, già a partire da questi anni,
la progettualità filosofica di Agamben adotta un procedere peculiare e, sostanzialmente, costante nel
corso degli anni e dei temi: un procedere tra archeologie (cioè vie verso l’origine ricostruttiva di un tema
o di un termine - in Stanze, ad esempio, quello della malinconia in connessione al desiderio e al suo
statuto fantasmatico - al fine di rilanciarne la portata e l’attualità3) e, ciò che è forse ancor più
determinante, soglie. Con questo termine intendiamo non solo il situarsi, da parte di Agamben, nel
luogo medio tra le scissioni metafisico-ontologico-linguistico-estetico-politiche che egli rintraccia e di
cui ripercorre la genealogia al fine di indagarle in quanto tali, ma anche, ed è qui la portata radicalmente
messianica e al tempo stesso radicalmente heideggeriana del suo gesto (ci torneremo oltre), il fare di
questa medialità, di questo luogo del tra, il cardine stesso del suo pensiero, in modo tale che proprio

1 Cit. p. 80

2 L’espressione è di Guido delle Colonne. Il riferimento all’esperienza poetico-amorosa dei lirici del ‘200, nonché a Dante, è, in
Agamben, ricorrente - in particolare negli anni ’70, ’80 e ’90. Basti pensare, a tal proposito, alle pagine ad essa dedicate in Il
linguaggio e la morte (pp. 82 sgg.), e in Il tempo che resta (pp. 77 sgg.). Ciò che l’autore, quasi redentivamente, individua in questa
poesia d’amore è «una concezione che costituisce il solo tentativo coerente del pensiero occidentale per superare la frattura
metafisica della presenza» (Stanze, p. 154), nella misura in cui, in essa, ha luogo l’appropriazione dell’oggetto d’amore in quanto
ineludibilmente fuso nel suo fantasma, in quanto desiderio: la joi d’amor, o esperienza beata d’amore che è qui in questione, si
staglia come il crocevia tra desiderio, fantasma e parola - l’esperienza del loro aver-luogo come appropriazione dell’inappropriabile.

3 Il metodo filosofico-archeologico di Agamben, a detta di lui stesso, ha subìto una forte influenza da Foucault. Cfr. l’intervista del
15 maggio 2016, con Antonio Gnoli, per Repubblica (http://www.repubblica.it/cultura/2016/05/15/news/
giorgio_agamben_credo_nel_legame_tra_filosofia_e_poesia_ho_sempre_amato_la_verita_e_la_parola_-139833519/): «Ma
altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l'archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso
al presente sia oggi l'indagine del passato, l'archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche
non sono che l'ombra che l'interrogazione del presente proietta sul passato».
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dall’assunzione del tra scaturiscano il riscatto dalle e la revoca delle scissioni presupponenti - o meglio,
di ciò che esse inevitabilmente hanno finito per occultare.
Caratteristica, ma anche fondamentale, in questo senso, è l’articolazione del testo agambeniano:
eccezion fatta per alcuni testi estremamente brevi o tratti da conferenze, pressoché ogni opera
agambeniana adotta la suddivisione in brevi paragrafi, intervallati da ‘scolî’, ‘intermezzi’, ‘soglie’,
‘glosse’, ‘excursus’ (i termini sono tutti di Agamben), apparentemente solo estendenti la portata
dell’argomentazione, in realtà vòlti ad includere nella e perscrutare la realtà stessa della soglia in quanto
tale.
E se molteplici (e certo non affrontabili integralmente nello spazio di un articolo) sono le scissioni, le
reciproche presupposizioni metafisiche di cui l’opera agambeniana traccia le genealogie e auspica la
lettura originaria - Ontologia/Prassi, Significante/Significato, Trascendenza/Immanenza, Langue/Parole
(o Lingua e Discorso, Lingua e Atto di parola), Potestas/Auctoritas, Nómos/Anomía, Potenza/Atto, ecc.
- si tratterà in ogni caso di provarsi a determinarne il punto di indistinzione, la zona d’indifferenza ad
esse inerente, in esse agente4 .
In questo modo, e su questa linea, Agamben traccia i contorni non solo di una comunità, ma al tempo
stesso di una filosofia che viene. E (è questo un punto essenziale) si tratterà non già di una filosofia - o
di una comunità, o di una politica, o di un linguaggio - a-venire, nel senso di un differimento della loro
venuta: di una filosofia, bensì, che viene, ora, perché è (benjaminianamente) sempre già venuta (è
questo, peraltro, che Agamben condensa nel suo concetto, introdotto recentemente, di ‘esigenza’).
Lungi dall’essere un ‘filosofo politico’, Agamben è anzitutto un filosofo. Magari, un filologo - nel senso
in cui egli traccia le linee di una filologia che viene nelle ultime pagine di Infanzia e storia (Agamben
1978, pp. 143 sgg.). E laddove egli intraprende una critica (in senso benjaminiano) del presente - o
meglio, dell’epoca attuale - inoltrandosi nel politico come tale (ci riferiamo, in particolare, a Homo
sacer I), egli non si inoltra in un ‘ambito’ - egli parla sempre, piuttosto, filosoficamente a partire
dall’èthos che (sempre filosoficamente) auspica: quella «dimora in-fantile (cioè senza volontà e senza
Voce) dell’uomo nel linguaggio» (Agamben 1982, p. 131). Agamben è, anzitutto e da sempre, un
filosofo che filosofa sul linguaggio come èthos dell’uomo - un filosofo filologicamente politico, a patto
d’intendere questo sintagma a partire da un unico ambito essenziale.

2. Dall’ontologia all’onto-logia: lo statuto del linguaggio

Malgrado i quaranta millenni dell’homo sapiens, l’uomo non si è ancora


veramente provato ad assumere questa illatenza, a fare esperienza del suo
essere parlante.
Infanzia e storia5

«Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinatamente che una cosa sola: che
significa “vi è linguaggio?”, che significa “io parlo”?» (Agamben 1978, p. X): così Agamben, nella
prefazione all’edizione francese di Infanzia e storia (Payot, 1989), intitolata Experimentum linguae. In
effetti, se un fil rouge è dato individuare nel corpus agambeniano, è proprio la radicale e costante
interrogazione sul linguaggio, sul suo statuto, sul suo ruolo, sulla sua costituzione - e ciò anche laddove,
apparentemente, essa venga accantonata6. Più che di un fil rouge, in verità, si dovrebbe parlare di una, e

4 Nel sistema bipolare ‘Regno (Trascendenza, Ontologia)/Governo (Immanenza, Prassi)’, ad esempio, l’indagine archeologica
verterà sulla Gloria come soglia articolante, come punto attraente di entrambi i fronti. In quello Nómos/Anomía, sullo stato
d’eccezione - in quello Langue/Parole, sull’evento (o aver-luogo) di linguaggio, ecc. Essenziale è che, in ogni caso, si dà
un’articolazione differenziale, una costitutiva, sistematica correlazione tra i fattori del sistema in cui si tratta per Agamben di scavare,
al fine di assumere questa stessa differenzialità rendendola propria - ovvero etica. Torneremo, oltre, sulla - messianica - eticità
dell’appropriazione, e dunque della revoca del sistema metafisico delle dicotomie.

5 Cit. p. XIV

6 Ad esempio nei testi più immediatamente riferiti al politico (Homo sacer, Stasis, Stato d’eccezione, Mezzi senza fine, ecc.) o al
teologico (Il regno e la gloria, Opus Dei, Il tempo che resta, ecc.), del tutto incompleti se affrontati prescindendo dalla trattazione
agambeniana del linguaggio.
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anzi della questione-cardine del pensiero di Agamben, questione che non si dà separatamente rispetto a
quelle dell’ontologia e della politica (torneremo oltre sulla centralità di questo intreccio linguaggio-
ontologia-etica-politica, che innerva, in Agamben, il cuore del filosofico). E se non è un caso che, come
abbiamo visto, sia stato Stanze (significativamente sottotitolato La parola e il fantasma nella cultura
occidentale) il primo testo compiuto di Agamben, ancor meno stupirà che la sua opera immediatamente
successiva, Infanzia e storia, scritta ed edita nel 1978, non solo si ponga sulla medesima linea, ma anche
ne approfondisca la portata e i confini. Qui, infatti, la questione regina del linguaggio si lega
indissolubilmente a quella dell’esperienza, dunque della storia, secondo un gesto che Agamben, ancora
nel 2016, doveva riproporre nel primo scritto di Che cos’è la filosofia?, Experimentum vocis. Il concetto
di in-fanzia, che qui giunge ad elaborazione compiuta, e di cui Il linguaggio e la morte rappresenta un
ulteriore consolidamento, è tra le prime, grandi risposte di Agamben allo statuto presupponente della
metafisica sinora invalsa.
Questo concetto, o meglio, questa esperienza, non è nient’altro che quell’«experimentum
linguae» (ivi, p. XIV) il cui contenuto e ambito non è, di nuovo, nient’altro che «[il fatto] che vi è
linguaggio» (ibid.), in quanto assunzione dell’aver-luogo di esso. In questo modo, il vivente parlante si
scopre non esser sempre stato tale - si scopre costitutivamente anche in-fante, poiché il linguaggio in
quanto tale (il suo evento) può essere esperito unicamente in quanto «potenza di parlare» (ivi, p. XII),
vale a dire in quanto la relazione potenziale stessa con un poter-non (parlare), in quanto quella
possibilità «specificamente umana di mantenersi in relazione con una privazione»7 (ibid.). Così, dunque,
l’evento di linguaggio si fa esperibile in quanto tale (come ‘cosa stessa’8) - si fa storia.
Ma, se ciò che è in gioco nel pensiero di Agamben è l’esperienza del «fatto che vi è linguaggio»,
converrà allora chiedersi come stiano le cose con quel ‘vi è’: bisognerà fare i conti con lo statuto
ontologico dell’evento di linguaggio.
Ebbene, secondo Agamben, quello tra «essere e linguaggio, mondo e parola, ontologia e
logica» (Agamben 2016, p. 16) è un intreccio, e precisamente un intreccio insondabile come tale
fintanto che esso continui a riposare «nella struttura della presupposizione» (ibid.). Giacché, infatti, se è
vero che la metafisica occidentale conosce un’ontologia per la quale «l’essere è ciò che è presupposto al
linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice»9 (ivi, p. 17),
si tratterà di riconoscere piuttosto e anzitutto un’onto-logia, «il fatto [cioè] che l’essere si dica e che il
dire si riferisca all’essere» (ibid.), che «l’ente in quanto ente (ὄν ᾗ ὄν) e l’ente in quanto è detto ente sono
inseparabili» (ivi, p. 18). La questione del linguaggio immane alla (diremmo: «‘è’ la») questione
dell’essere - e questa a quella.
E se l’ontologia in cui latentemente versa la nostra epoca è un’ontologia effettuale (ne parleremo tra
poco), di cui Agamben auspica il superamento in luogo di un’ontologia modale, ove l’esperienza del
modo-d’essere è imprescindibilmente costituita e coesa dal suo ‘necessariamente contingente’ e
‘contingentemente necessario’ darsi di volta in volta (ciò che Agamben chiamerà «forma-di-vita»), dal
suo aver-luogo in quanto immanenza assoluta, in questa stessa direzione dovrà muoversi il rapporto pre-
sup-ponente tra essere e linguaggio: il riconoscimento dell’onto-logia dovrà incedere - e, in un certo
senso, risolversi, revocarsi - verso l’experimentum «di quel factum che la metafisica e la scienza del

7 Tocchiamo, qui, la questione (assolutamente e sin da subito coessenziale, in Agamben, a quella del linguaggio) della ‘pura potenza’
- questione su cui occorrerà tornare oltre.

8 In Che cos’è la filosofia? (2016), l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio a partire da una costitutiva in-fanzia passa per un
rilancio della idea platonica, che, posta in relazione al lektòn stoico e al potere anaforico dell’autòs della Settima lettera, diviene
(benjaminianamente) l’atto puro di nominazione, il fatto che vi sia e si dia nome.

9 È quanto, in L’uso dei corpi, Agamben chiama «dispositivo ontologico» (Agamben 2014, pp. 155 sgg.), a partire
dall’interpretazione delle Categorie di Aristotele.
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linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza del puro fatto che si parli»10 (ivi,
p. 45).

3. Onto(teo)logia effettuale

L’ontologia è gravida del destino storico dell’Occidente non già perché


all’essere competa un inspiegabile e metastorico potere magico, ma, proprio al
contrario, perché l’ontologia è il luogo originario dell’articolazione storica fra
linguaggio e mondo […]
L’uso dei corpi11

Se l’intreccio onto-logico è chiamato a trovare il suo luogo e la sua più propria risoluzione
nell’esperienza del factum - evento - di linguaggio, verso la stessa tipologia esperienziale muoverà
l’«archeologia dell’ontologia» di cui è questione in L’uso dei corpi (2014), ma anche, nella sua matrice
costitutivamente teologica, in Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del
governo (2007) e in Opus Dei. Archeologia dell’ufficio (2012). Nella triade testuale qui in esame, infatti,
l’archeologia agambeniana è tutta volta al rinvenimento della struttura presupponente che innerva
l’ontoteologia12 occidentale, evidente a partire dal to ti en èinai e dall’ousia aristotelici. L’ontologia
‘classica’, infatti, con la distinzione aristotelica di dynamis ed enèrgeia, con la sua imprescindibile
«scissione dell’essere in un hypokeimenon» (Agamben 2014, p. 175) che costantemente si prova ad
articolare nel dire «ciò che era ogni volta presupposto nel linguaggio e dal linguaggio» (ibid.), non solo
fonda l’essenziale struttura teoretica della storia dell’Occidente, ma traccia anche il suo destino politico:

Ma si dà veramente una tale articolazione - insieme divisa e unitaria - dell’essere? O non vi è, piuttosto,
nell’essere così concepito uno iato incolmabile? Il fatto che l’unità implichi un passato ed esiga, per realizzarsi,
il tempo, la rende quanto meno problematica. nel ti en einai, essa ha la forma: «ciò che era ogni volta per
questo esistente essere (o vivere)». Il passato misura il tempo che si insinua necessariamente fra la
determinazione esistentiva dell’essere come hypokeimenon (questo esistente, il tode ti, il soggetto primo) e il
suo perseverare nell’essere, il suo essere identico a sé. L’esistenza si identifica con l’essenza attraverso il
tempo. Cioè: l’identità di essere ed esistenza è un compito storico-politico. E, insieme, essa è un compito
archeologico, perché ciò che si deve afferrare è un passato (un «era»). La storia, in quanto cerca di accedere a
una presenza, è già sempre archeologia. Il dispositivo ontologico, in quanto è cronogenetico, è anche
‘historiogenetico’, produce e mantiene in movimento la storia, e solo in questo modo può mantenersi. Politica e
ontologia, dispositivi ontologici e dispositivi politici sono solidali, perché hanno bisogno gli uni degli altri per
realizzarsi. (Agamben 2014, p. 176)

In questo passo, certo estremamente denso, si annuncia con chiarezza tanto l’intreccio costitutivo di
politica e ontologia, cui più volte abbiamo accennato, tanto la provenienza da cui muove la necessità del
metodo archeologico, quanto, più implicitamente, l’incunearsi del pensiero di Agamben precisamente in

10 Questo avviene (ma non possiamo qui dedicarvi più che un accenno) a partire anche dal superamento di quella «articolazione
originaria tra φωνή e λόγος» (Agamben 1982, p. 105) che vede la Voce come fondamento negativo da presupporre all’articolazione
linguistica del vivente parlante. In questo senso, Il linguaggio e la morte pensa «a partire dalla definitiva cancellazione della Voce, o,
piuttosto, pensa la Voce come mai stata, non pensa più la Voce, il tramandamento indicibile. Il suo luogo è l’ἦθος, la dimora in-fantile
- cioè senza volontà e senza Voce - dell’uomo nel linguaggio» (ivi, pp. 130-131).

11 Cit. p. 151

12 Se parliamo di ontoteologia, ciò è perché, come gli ultimi due testi qui citati stanno a e intendono dimostrare, il paradigma
economico - o meglio, oikonomico-effettuale cui soggiace il rapporto tra ontologia e prassi, trascendenza e immanenza, regno - di
Dio o dell’essere - e governo - degli uomini o dell’ente - è non solo inscindibile, ma anche cooperante con e, in un certo senso,
coessenziale e derivante dalla tradizione e dalle categorie teologiche occidentali, in particolare cristiane (ma ci torneremo poco
oltre). In questo senso, tra ontologia e teologia, così come tra ontologia, teologia, logica e politica - col medium essenziale di quel
logos di cui, per Agamben, è sempre questione primaria - intercorre e si dà, di nuovo, un intreccio costitutivo; e se certamente esse
risultano distinte e distinguibili ai fini dello svolgimento delle singole indagini archeologiche, nondimeno l’una agisce sempre,
interattivamente, sull’altra, insieme costituendovisi e incessantemente rifondandovisi: queste la complessità e la complessione
(diremmo: la complessità della complessione) del progetto filosofico che il pensiero di Agamben pone in gioco, di cui le sue
archeologie tentano la traccia e l’esposizione, e di cui si dovrà tenere costantemente presente la - non sempre esplicitata - innegabile
tendenza o tensione all’unità. Unità ontologico-teologico-linguistico-estetico-storico-politica: unità filosofica.
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quello iato, in quella soglia di cui qui è in questione: solo nell’archeologia del e nel punto critico - cioè
liminare, distinguente, articolante - endemico al dispositivo può assolversi l’eminente «compito storico-
politico» qui in gioco. E giacché la storia del pensiero (ma anche della politica) occidentale non è altro
che l’inestinguibile e incessante sforzo di articolazione di questo dispositivo senza che esso possa
risolversi in maniera definitiva, sforzo supposto e supponente, la risposta di Agamben intende situarsi
proprio nel punto critico (in ogni senso) cui è giunto, attualmente ed epocalmente, questo dispositivo.13
Ma, prima di provarsi ad illustrare la risposta filosofica e teoretico-progettuale di Agamben
all’impasse del dispositivo ontologico, occorre completare la disamina della struttura dell’ontoteologia
occidentale, enucleandone l’essenza oikonomico-effettuale. È su questo che Il regno e la gloria e Opus
Dei si prefiggono di gettare luce.
Entrambe le opere, d’impianto marcatamente e pressoché interamente genealogico-archeologico,
investigano dettagliatamente le dinamiche onto-teologiche tramite cui, da un lato, la nostra «modernità
non soltanto non è uscita dalla teologia, ma non ha fatto, in un certo senso, che portare a compimento il
progetto dell’oikonomia provvidenziale»14 (Agamben 2007, p. 314), ovvero il progetto costitutivamente
scisso e bipolare di un’articolazione, incessante nella sua economia, tra i due poli «ordine immanente-
governo» e «Dio trascendente-regno» (ivi, p. 312), dove l’uno non può prescindere dall’altro e dove la
Gloria si annuncia come categoria e soglia d’indistinzione, punto di convergenza dei due all’interno
della macchina economico-provvidenzial-governamentale; ma anche, d’altro lato, tramite cui questa
stessa articolazione originariamente onto-teologica e corroborata dalla tradizione teologico-cristiana,
conduce definitivamente il pensiero - e la politica - occidentali ad un paradigma dell’effettualità,
determinante tanto l’ontologia quanto l’azione etico-pratica (pur già indebitamente scisse), sicché

operatività ed effettualità definiscono, in questo senso, il paradigma ontologico che, nel corso di un
processo secolare, ha sostituito quello della filosofia classica: in ultima analisi […] tanto dell’essere quanto
dell’agire noi non abbiamo oggi altra rappresentazione che l’effettualità. Reale è solo ciò che è effettivo e,
come tale, governabile ed efficace: a tal punto l’ufficio, sotto le vesti dimesse del funzionario o in quelle
gloriose del sacerdote, ha mutato da cima a fondo tanto le regole della filosofia prima che quelle dell’etica.
(Agamben 2012, p. 9)

Agamben si lancia così in una «genealogia dell’ufficio» (ivi, pp. 80 sgg.), ove quel mistero
dell’oikonomia (cui Il regno e la gloria era dedicato) e quel «paradigma dell’operatività» (ivi, p. 72) di
cui la prima parte di Opus Dei si era provata a rintracciare il processo, vengono fermamente
esemplificati non solo dall’azione liturgica, ma, ancor più ‘genealogicamente’ (a partire dal De officiis
ciceroniano) dall’officium - liturgico e non solo. La liturgia, infatti, è il luogo in cui il percorso
dell’officium (traduzione ciceroniana del kathekon stoico), le cui implicazioni già si annunciavano nel
gesto ciceroniano - e poi ambrosiano, nel De officiis ministrorum - dell’accostamento tra etica
dell’officium ed etica aristotelica delle virtù, raggiunge il suo assestamento non solo in quanto azione in
cui l’essere è nella misura in cui è la sua propria realizzazione (effettuazione), e dunque in cui essere e

13 Non solo per la centralità dell’idea di estremità epocale in cui versa il nostro tempo, la cui storia è letta alla luce di un’integrale
dialettica del fondamento (questa è l’espressione usata da Agamben stesso in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone) o
della presupposizione e la cui criticità si tratta di assumere per rivolgere in un inizio altro, ma anche per la costitutività dello statuto
storico-politico che immane alla ‘filosofia prima’ (ontologia) e al pensiero in quanto tali, nonché per l’idea di medialità e di forma-
di-vita, in cui e per cui l’uomo è di-volta-in-volta colui che può e al tempo stesso può-non, ovvero colui per cui di-volta-in-volta ne
va del suo stesso progettarsi - o meglio, ne va di se stesso, della sua ipseità e proprietà in quanto progettante(si), Agamben è, a nostro
avviso e pur con importanti divergenze (messe talvolta in luce dall’autore stesso), tra gli allievi più fedeli di Heidegger.

14 Questo progetto ha il suo locus originario, secondo l’archeologia agambeniana, nella questione (onto)teologica trinitaria. È qui,
infatti, che i Padri, adottando la terminologia dell’oikonomia, sanciscono la questione dell’articolazione della Trinità in termini
economici ed economico-provvidenziali, nonché in termini di articolazione tra Regno (trascendenza di Dio) e governo operativo-
operante degli uomini (immanenza). Va precisato, tuttavia, che se certamente il paradigma economico-provvidenziale, nella sua
struttura scindente e presupponente, e dunque, tra l’altro, costitutivamente vicariale del potere e del governo, ha condotto al
consolidamento della scissione tra ontologia (trascendenza) e prassi (immanenza, azione etica), discostandosi così radicalmente dalla
filosofia ‘classica’, e così al paradigma dell’effettualità esemplificato dall’azione liturgica (ci torneremo subito), questo processo era
nondimeno già stato preparato dall’ontologia aristotelica e dal suo carattere presupponente, di cui si è rapidamente discusso sopra
(cfr. Opus Dei, p. 72).
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agire effettuale si risolvono e identificano l’uno nell’altro, ma anche in quanto azione che non solo è
poiché è, ma è poiché e in quanto ha da essere - in quanto ha da, ovvero non può non, espletare
(effettuare) il suo proprio essere. Ha così luogo, per il tramite del percorso liturgico dell’officium,
«l’introduzione del dovere come concetto fondamentale nell’etica» (ivi, p. 102):

Il sacerdote deve compiere il suo ufficio in quanto è sacerdote, ed è sacerdote in quanto compie il suo
ufficio. L’essere prescrive l’azione, ma l’azione definisce integralmente l’essere: questo e non altro significa
«dover essere». Il sacerdote è quell’ente il cui essere è immediatamente un compito e un servizio - cioè: una
liturgia.
Questa insostanzialità del sacerdozio, in cui ontologia e prassi, essere e dover essere entrano in una
durevole soglia di indifferenza, è provata dalla dottrina del character indelebile che, a partire da Agostino,
sancisce l’ordinazione sacerdotale. Come mostra l’assoluta impossibilità di identificare per esso un contenuto
sostanziale, il character non esprime altro che un grado zero dell’effettualità liturgica, che si attesta come tale
anche nel punto in cui il sacerdote è stato sospeso a divinis. Ciò significa che il sacerdozio, di cui il character è
la cifra, non è un predicato reale, ma una pura segnatura, che manifesta soltanto l’eccedenza costitutiva
dell’effettualità sull’essere.
Di qui la qualità tendenzialmente evanescente del soggetto che la segnatura marca e costituisce. Poiché ha
da essere ciò che fa e fare ciò che è, il soggetto dell’atto liturgico non è veramente tale […] In realtà chiunque
creda di dovere un atto, pretende non di essere, ma di avere da essere. Pretende, cioè, di risolversi
integralmente in liturgia. L’azione come liturgia, e questa come relazione circolare fra essere e prassi, fra essere
e dover essere: questo è il legato inquietante che la modernità, dal momento in cui ha messo il dovere e
l’ufficio al centro della sua etica e della sua politica, ha più o meno consapevolmente accettato senza beneficio
di inventario. (Agamben 2012, pp. 102-103)

Con questo nefasto ingresso per il tramite dell’officium liturgico, la natura operativo-effettuale
implicita nell’ontoteologia occidentale si conglomera ineludibilmente ad un’ontologia «del
comando» (ivi, p. 144), a sua volta imprescindibile da quella «“metafisica della volontà” che Ernst Benz
ha ricostruito in un libro [Marius Victorinus und die Entwicklung der abenländischen
Willensmetaphysik, Stuttgart 1932] la cui importanza per la storia della filosofia occidentale è ancora
lontana dall’essere pienamente apprezzata» (ibid.) - il quadro del coacervo ontologico di cui siamo eredi
(e, in un certo senso, prigionieri) è, così, completo:

Ontologia del comando e ontologia dell’operatività sono, pertanto, strettamente legate: come la messa-in-
opera, anche il comando presuppone una volontà. Secondo la formula che esprime il comando del principe (sic
volo, sic iubeo), «volere» può soltanto significare «comandare» e «comandare» implica necessariamente un
volere. La volontà è la forma che l’essere prende nell’ontologia del comando e dell’operatività. Se l’essere non
è, ma deve realizzare se stesso, allora esso, nella sua stessa essenza, è volontà e comando; viceversa, se l’essere
è volontà, allora esso non è semplicemente, ma deve essere. Il problema della filosofia che viene è quello di
pensare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai
concetti di dovere e di volontà. (ivi, p.147, corsivo nostro)

Se ora torniamo a L’uso dei corpi, individuiamo con ogni evidenza la risposta agambeniana in
termini ontologici - che, come preciseremo più dettagliatamente oltre e come abbiamo già detto e
ripetuto, è al tempo stesso anche una risposta etico-storico-politica, appunto una «filosofia che viene» -
al problema in questione: si tratta di un’ontologia modale.
Qui (Agamben 2014, pp. 192 sgg.) Agamben, dopo essersi immesso in una disamina delle aporie che
involvono storico-filosoficamente la relazione tra essere e modi, ed entrando in dialogo con Spinoza,
avanza non solo una reinterpretazione ontoteologica di quest’ultimo, ma anche una ri-voluzione
ontologica a partire dal concetto, riabilitato, di modo:

Fra essere e modi il rapporto non è né di identità né di differenza, perché il modo è insieme identico e
diverso - o, piuttosto, implica la co-incidenza, cioè il cadere insieme, dei due termini. In questo senso, il
problema del rischio panteistico è mal posto: il sintagma Deus sive natura non significa «Dio = natura»: il sive
[…] esprime la modalizzazione, cioè il neutralizzarsi e il venir meno tanto dell’identità che della differenza.
Divino non è l’essere in sé, ma il suo sive, il suo già sempre modificarsi e «naturarsi» - nascere - nei modi.
!8
Il problema è, a questo punto, quello di trovare i concetti che permettono di pensare correttamente la
modalità. Noi siamo abituati a pensare in modo sostantivale, mentre il modo ha una natura costitutivamente
avverbiale, esprime non il «che cosa», ma il «come» l’essere è. (ivi, p. 214)

Ed è nella spinoziana causa immanente che Agamben trova una chiave per la decifrazione della sua
proposta avverbiale: essa è, infatti, nella sua interpretazione, «un’azione in cui agente e paziente co-
incidono, cioè cadono insieme» (ivi, p. 215), una sorta di aver-luogo immanentemente assoluto
dell’azione a se stessa, ove ogni volta, di modo in modo, di modificazione in modificazione, ne va di
essa stessa e del suo proprio, ove il locus dell’azione si risolve nella sua modalità im-presupposta e im-
presupponibile - nel suo stesso aver luogo, nella vita della sua forma, nella sua ipseità (nel senso latino
di ipse):

L’ontologia modale può essere compresa solo come un’ontologia mediale, e il panteismo spinoziano, se di
panteismo si tratta, non è un’identità inerte (sostanza = modo), ma un processo in cui Dio affeziona, modifica
ed esprime se stesso.
Nella prima parte di questo libro, abbiamo chiamato «uso» un processo mediale di questo genere. In
un’ontologia modale, l’essere usa di sé, cioè costituisce, esprime e ama15 se stesso nell’affezione che riceve
dalle sue stesse modificazioni. (ibidem, corsivi nostri)

Torniamo, così, alla questione - che non a caso abbiamo definito ‘questione-cardine’ - del linguaggio
e del rivolgimento dell’onto-logia: giacché, se «una corretta comprensione del rapporto essere/modi
permette di risolvere o, piuttosto, di trasformare in euporie le aporie del dispositivo aristotelico», ciò
avviene in primo luogo per l’aporia «della relazione fondamentale fra essere e linguaggio» (ivi, p. 216):

La posta in gioco nel ti en einai era la relazione di identità di una cosa con se stessa, la relazione fra Emma
e il suo essere Emma […] Ma questa relazione è pensabile solo perché l’ente è stato nominato, solo perché
Emma ha un nome, è stata detta Emma. La relazione ontologica corre, cioè, fra l’ente e il suo essere nominato,
fra Emma e il suo esser-detta Emma, fra Emma e la sua «dicibilità» (è ciò che gli stoici chiamavano lekton,
«dicibile», e concepivano come un attributo né mentale né linguistico, ma ontologico).16 […]
Tutto il problema della relazione fra essenza ed esistenza, fra essere e essere relativo, appare in una nuova
luce se lo si situa nel contesto di un’ontologia modale. L’essenza non può essere senza il relativo né l’essere
senza l’ente, perché la relazione modale - ammesso che si possa parlare qui di una relazione - passa tra l’ente e
la sua identità con se stesso, fra la singolarità che ha nome Emma e il suo esser-detta Emma. L’ontologia
modale ha luogo nel fatto primordiale - che Aristotele si limita a presupporre senza tematizzarlo - che l’essere
già sempre si dice: to on legetai…Emma non è l’individuazione particolare di un’essenza umana universale,
ma, in quanto è un modo, essa è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere
nel linguaggio. (ivi, pp. 216-218)

Tra l’aver-nome (esser-soggetto-che-ha) e l’esser-nome (esser-oggetto-che-è-avuto dal nome) sta,


dunque, l’esperienza modale-mediale dell’aver luogo di sé: del progetto processuale della propria
ipseità - sta l’andarne della cosa stessa, tra essere e linguaggio. O, forse, tra essere, linguaggio ed etica:

Per pensare correttamente il concetto di modo, occorre concepirlo come una soglia d’indifferenza fra
l’ontologia e l’etica. Come, nell’etica, il carattere (l’ethos) esprime l’irriducibile esser-così di un individuo,
così, nell’ontologia, in questione nel modo è il «come» dell’essere, il modo in cui la sostanza è le sue
modificazioni. L’essere esige le sue modificazioni, esse sono il suo ethos: il suo essere irreparabilmente
consegnato ai propri modi di essere, al suo «così». Il modo in cui qui qualcosa è, l’esser-così di un ente, è una
categoria che appartiene indecidibilmente tanto all’ontologia che all’etica (il che si può anche esprimere

15 La categoria dell’amore è, in e per Agamben, esemplificativa proprio della pienezza dell’esperienza costitutivamente mediale e
modale - ma anche: messianica (vi accenneremo oltre) - che è qui in questione. Nell’amore, l’experimentum di sé assurge a medialità
pura, a puro aver-luogo del sé, in «un’esperienza dell’essere al di là tanto dell’essenza che dell’esistenza, così del soggetto come del
predicato» (Il tempo che resta, p. 119; cfr. anche ivi, p. 120), e «vedere semplicemente qualcosa nel suo esser-così: irreparabile, ma
non per questo necessario; così, ma non per questo contingente - è l’amore» (La comunità che viene, p. 88).

16 In questa stessa direzione Agamben costruisce il saggio contenuto in Che cos’è la filosofia? intitolato Sul dicibile e l’idea, dove
l’idea platonica, reinterpretata, diviene precisamente dicibilità pura - cosa stessa in quanto la sua stessa dicibilità, la sua stessa
nominazione (cfr. Agamben 2016, pp. 57-122).
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dicendo che nel modo esse coincidono). In questo senso, la rivendicazione di un’ontologia modale andrebbe
terminologicamente integrata nel senso che, intesa correttamente, un’ontologia modale non è più un’ontologia,
ma un’etica (a condizione di aggiungere che l’etica dei modi non è più un’etica, ma un’ontologia). (ivi, p. 226)

È proprio, dunque, questa co-incidenza di etica e ontologia (e linguaggio) nel luogo del tra, che si
tratta eminentemente di pensare17 .

4. Nuda vita, o della bancarotta dei popoli

La vita sacra, cioè presupposta e abbandonata dalla legge nello stato


d’eccezione, è il muto portatore della sovranità, il vero soggetto sovrano. […] Noi
dobbiamo invece tenere fisso lo sguardo su ciò che la statua della Giustizia […]
non doveva vedere, e, cioè, che (come oggi è chiaro per tutti) lo stato di eccezione
è la regola, che la nuda vita è immediatamente portatrice del nesso sovrano e,
come tale, essa è oggi abbandonata a una violenza tanto più efficace in quanto
anonima e quotidiana.
Mezzi senza fine. Note sulla politica18

Non è qui possibile, per ragioni oggettive, esaminare dettagliatamente - e conformemente a quanto
meriterebbe - la pagina delle questioni più specificamente politologiche affrontate da Agamben, che fa
capo a testi quali Stato d’eccezione, Homo sacer, Quel che resta di Auschwitz e altri. Ma, se il nostro
discorso è pertinente, se, cioè, la filosofia che viene agambeniana è politica nella misura in cui è
simultaneamente ontologica, etica e filologica, allora non risulterà incoerente il gesto, che ci accingiamo
a compiere, di gettare anche solo una fugace luce su quello che rappresenta, ci pare, il nucleo
irremovibile della riflessione agambeniana sullo stato attuale del politico - o, meglio, del biopolitico: la
questione della nuda vita.
È sulla scia della biopolitica foucaultiana, infatti, cui Agamben accosta e fonde imprescindibilmente
la riflessione benjaminiana sullo stato d’eccezione, sulla violenza del diritto, sulla «politica di mezzi
puri» (Benjamin 2014, p. 20) e sulla non coincidenza dell’uomo con la sua «nuda vita» (il sintagma è
letteralmente di Benjamin)19, che egli edifica, a partire dagli anni ’90, la propria elaborazione giuridico-
biopolitico-filosofica.20
In questo contesto, e molto marcatamente, ciò che Agamben chiama «nuda vita» non solo viene, di
nuovo, ricondotto ad Aristotele, ma, anche, connesso a quel «dispositivo ontologico» che sopra abbiamo
visto segnare il corso dell’ontologia occidentale - la nuda vita è, a pieno titolo, tra i protagonisti della
dialettica della presupposizione che innerva lo scenario occidentale, e che occorre pensare e
oltrepassare. Secondo Agamben, infatti, è nella Politica aristotelica che va rinvenuto il principio della
distinzione (e, nondimeno, della reciproca correlazione e presupposizione) tra una zoè ‘naturale’,
«esclusa […] dalla polis in senso proprio» (Agamben 1995, p. 4) e «saldamente confinata, come mera
vita riproduttiva, nell’ambito dell’oikos (Pol. 1252a, 26-35)» (ibid.), e quella «vita politicamente
qualificata (to eu zên): ginomene men oun tou zên èneken oûsa de tou eu zên, “nata in vista del vivere,

17 Si dovrebbero tenere costantemente presenti, accanto alla lettura di Agamben, le pagine dello Heidegger che, dagli anni ’30 in poi,
non fa che insistere sull’Essere (Seyn) come frammezzo (o luogo del tra: Zwischen) dell’ad-propriazione dell’uomo.

18 Cit. p. 90

19 L’affermazione benjaminiana, centrale per Agamben, per cui «lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola» (Benjamin 2014,
p. 79) è contenuta nell’ottava tesi di filosofia della storia, ricorrente nell’intera opera agambeniana; le altre questioni, invece,
vengono eminentemente affrontate da Benjamin in Per la critica della violenza, dove il sintagma «nuda vita» viene introdotto e
ripetuto più volte.

20 Se di ‘svolta politica’ nel pensiero di Agamben occorre parlare (cosa che, come dovrebbe ormai essere evidente, non condividiamo
affatto), allora essa non andrà, anzitutto, individuata in Homo sacer (1995), ma in La comunità che viene, pubblicato nel 1990.
Questa la posizione, ad esempio, di Carlo Salzani (Salzani 2013, p. 54 sgg.). «Eppure anche questa potrebbe essere considerata una
concessione ad una vulgata che ignora lo statuto filosofico degli scritti agambeniani degli anni Sessanta e Settanta, e che riduce tutta
la sua riflessione all’interesse politico, se è vero che, di politica, Agamben si occupa sin dal 1970, anno di pubblicazione di Sui limiti
della violenza» (J. D’Alonzo, Recensione a C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, Il Melangolo, Genova 2013, in
www.filosofia-italiana.net, ISSN 1827-5834 – Aprile 2014, cit. p. 3).
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ma esistente essenzialmente in vista del vivere bene”» (ibid.): la distinzione, sostanzialmente, tra il nudo
fatto (il fatto biologico) di vivere e la qualificazione dello stesso in quanto vivere - o esistere - politico.
Ora, è opinione di Agamben che questa sia la scissione politica fondamentale dell’ethos umano nella
storia occidentale, e che sul dispiegarsi della sua dialettica del fondamento essa si snodi: la politica
occidentale è la storia del fondamento negativo della nuda vita21, della zoè, ‘negativo’ perché tolto-e-
presupposto dall’eu zên, dal bios politikòs - dalla vita (considerata) come propriamente politica, che
sulla prima necessariamente si articola e fonda. E se questa dialettica della presupposizione ha mosso le
redini del politico per «ventiquattro secoli» (ivi, p. 14), essa non può che rivelarsi, in ultima (drastica)
istanza e per quanto celatamente, «aporetica» (ibid.):

Aristotele aveva dato la formulazione forse più bella all’aporia che sta a fondamento della politica
occidentale. I ventiquattro secoli che da allora sono trascorsi non hanno portato alcuna soluzione, altro che
provvisoria e inefficace. La politica, nell’esecuzione del compito metafisico che l’ha condotta ad assumere
sempre più la forma di una bio-politica, non è riuscita a costruire l’articolazione fra zoé e bíos, fra voce e
linguaggio, che avrebbe dovuto comporre la frattura. La nuda vita resta presa in essa nella forma
dell’eccezione, cioè di qualcosa che viene incluso solo attraverso un’esclusione. (ibidem, corsivo nostro)

Ed è proprio qui che si incunea non solo la riflessione foucaultiana sulla biopolitica, ma anche quella,
centrale, sullo stato d’eccezione, ovvero su quella forma politico-giuridico-teoretica che, per Agamben,
più autenticamente raffigura il ritratto della situazione biopolitica moderna e contemporanea. E se con il
processo epocale «che coincide grosso modo con la nascita della democrazia moderna, in cui l’uomo
come vivente si presenta non più come oggetto, ma come soggetto del potere politico» (ivi, p. 13) la
nuda vita «si libera nella città e diventa insieme il soggetto e l’oggetto dell’ordinamento politico e dei
suoi conflitti, il luogo unico tanto dell’organizzazione del potere statale che dell’emancipazione da
esso» (ivi, p. 12), è precisamente la struttura dello stato d’eccezione, «in cui la nuda vita era, insieme,
esclusa e catturata dall’ordinamento» (ibid.), a rivelarsi come ciò che «costituiva, in verità, nella sua
separatezza, il fondamento nascosto su cui riposava l’intero sistema politico»: stato d’eccezione e nuda
vita, inestricabilmente uniti a fondamento velato dell’articolazione politica occidentale, si sprigionano,
a partire dal politico moderno e dalla fondazione delle moderne democrazie, nelle maglie dell’epoca
politica attuale fino a diventarne il locus absolutus - la biopolitica contemporanea è assolutamente
nuda vita e assolutamente stato d’eccezione.22
Si vedrà più avanti (ma in parte, col discorso sull’ontologia modale, lo si è già visto) quali siano le
risposte agambeniane in direzione di una «comunità che viene». Quello che ci preme ora evidenziare è,
invece, la pregnanza del concetto biopolitico di nuda vita in relazione alla nostra epoca e alla sua
politica - in breve, l’attualità della nuda vita. Giacché, nell’elaborazione filosofica del concetto di nuda
vita in relazione al potere sovrano, Agamben pensa «l’urgenza della catastrofe» (ivi, p. 16) in cui versa
il contemporaneo, e se «noi viviamo dopo il fallimento dei popoli» (Agamben 1996, p. 110), «decisivo è
per noi soltanto il nuovo compito che questo fallimento ci ha lasciato in eredità» (ibid.): nella griglia di
lettura biopolitica di Agamben convergono e si condensano necessariamente la portata etica e
ontologica (etica ovvero ontologica, ontologica ovvero etica) del suo pensiero.
In questo senso, non solo il gesto agambeniano che consiste nel legare l’assolutizzazione
contemporanea della nuda vita prima al consolidamento, poi (a partire dalla prima guerra mondiale) allo
statuto emergenziale e al collasso del moderno Stato-nazione, uno Stato il cui nome già enuncia il suo

21 È evidente non già l’analogia (ché il legame sarebbe ancora eccessivamente tenue), ma la coessenzialità con la questione della
Voce come fondamento negativo (diremmo: come nuda vita) del linguaggio, e con la dialettica del fondamento che tra Voce e
articolazione di parola (atto di linguaggio) si instaura. È, del resto, Agamben stesso a metterlo in evidenza e a ribadirlo (cfr. Homo
sacer, p. 11).

22 Le ricorrenti e numerose analisi del concetto di e del significato storico del campo (particolarmente nel contesto del
nazionalsocialismo, ma più in generale nell’ambito della biopolitica novecentesca) vengono svolte da Agamben su questo stesso
crinale, e anzi sono vòlte al suo approfondimento essenziale. Giacché, infatti, il campo è per Agamben il luogo assoluto ed
emblematico del consolidamento della nuda vita e dello stato d’eccezione in quanto tali, il paradigma biopolitico del moderno, ove la
nuda vita satura interamente il luogo della politica.
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carattere presupponente e che, legato all’idea e al fatto della nascita sancisce il suo destino aporetico
nella misura in cui pretende di contenere e governare l’ethos degli uomini «nel luogo stesso - la nuda
vita - che segnava il loro asservimento» (Agamben 1995, p. 13) politico - ma anche la sua conseguente
(e di matrice marcatamente benjaminiana) lettura del diritto come intrinseca violenza che assurge a
vigenza vuota e incondizionata «in un mondo in cui» le categorie giuridiche «non rispecchiano più alcun
comprensibile contenuto etico» (Agamben 1996, p. 103), ci sembrano restituire una direzione, un senso,
una dinamica e, soprattutto, un’assunzione filosofica dell’epoca attuale affatto pregnanti. Se si
considerano, del resto e nonostante il ventennio trascorso dalla pubblicazione, le pagine di Mezzi senza
fine, che richiederebbero un commento puntuale, non si può fare a meno di sentirsi chiamati eticamente
e politicamente in causa, e cioè a rispondere dello Stato attuale (in ogni senso) delle cose.
Ma anche in quell’opera tanto breve quanto incredibilmente densa che è Che cos’è un dispositivo?, la
questione della nuda vita si fa talmente tangibile da far rabbrividire - e ciò (è questa una delle più
raffinate sfumature del pensiero di Agamben, e niente affatto isolata a questo caso) senza nemmeno
essere nominata: che cos’è, infatti, «quel che definisce i dispositivi con cui abbiamo a che fare nella fase
attuale del capitalismo» (Agamben 2006, p. 30), se non l’odierno assurgere della nuda vita ad
assolutezza, quindi ad in-differenza, quindi a radicale de-soggettivazione (cfr. ibidem) ad opera di una
proliferazione sempre più subissante di dispositivi tecnico-social-governamentali, nella loro «immane
parodia dell’oikonomia teologica» (ivi, p. 34)? «Nella non verità del soggetto [contemporaneo] non ne
va più in alcun modo della sua verità» (ivi, p. 31) - e, come si vede, il compito affidato al pensiero è
proprio quello del tentativo d’assunzione e revoca di questo vacuum etico-veritativo.

All’altezza del compito è solo un pensiero capace di pensare insieme la fine dello Stato e la fine della storia,
e di mobilitare l’una contro l’altra. È quanto ha cercato di fare, anche se in modo affatto insufficiente, l’ultimo
Heidegger nell’idea di un Ereignis, di un evento ultimo in cui ciò che viene appropriato e sottratto al destino
storico è lo stesso restar-nascosto del principio storicizzante, la stessa storicità. Se la storia nomina la stessa
espropriazione della natura umana in una serie di epoche e di destini storici, il compimento e l’appropriazione
del télos storico che è qui in questione, non significa che il processo storico dell’umanità è ora semplicemente
composto in un assetto definitivo (la cui gestione può essere affidata a uno Stato universale omogeneo), ma che
la stessa anarchica storicità che, restando presupposta, ha destinato il vivente uomo nelle diverse epoche e
culture storiche, deve ora venire come tale al pensiero - che, cioè, l’uomo si appropria ora del suo stesso essere
storico, della sua stessa improprietà. […]
L’appropriazione della storicità non può perciò avere ancora una forma statuale - lo Stato non essendo altro
che la presupposizione e la rappresentazione del restar-nascosta dell’arché storica - ma deve lasciare il campo a
una vita umana e a una politica non statuali e non giuridiche, che restano ancora interamente da pensare.
(Agamben 1996, pp. 88-89)
!12
5. Uso, inoperosità, potenza: forma-di-vita e politica del comune

Politica è l’esibizione di una medialità, il render visibile un mezzo come tale.


[…]
Se chiamiamo, invece, comune (o, come vogliono altri, uguale) un punto di
indifferenza tra il proprio e l’improprio, cioè qualcosa che non è mai afferrabile
nei termini di un’appropriazione o di un’espropriazione, ma soltanto come uso,
allora il problema politico essenziale diventa: «come si usa un comune?» (È forse
qualcosa del genere che aveva in mente Heidegger23, quando formulava il suo
concetto supremo né come appropriazione né come espropriazione, ma come
appropriazione di un’espropriazione).
Mezzi senza fine. Note sulla politica24

È dunque giunto il momento di provarci a tracciare, sia pure in modo e in spazio limitati, la direzione
compiutamente filosofica (o, se si preferisce, etico-politico-estetico-filologico-ontologica) del progetto
agambeniano. Questo, pur intrecciando nel corso dei decenni una varietà terminologica, ovvero
intessendosi ad una trama di sfumature tematiche, si snoda nondimeno in una fermamente coerente ed
essenziale unità progettuale, la quale non sarebbe incoerente individuare e concentrare in quelli che,
accanto alla ‘questione-cardine’ del linguaggio e pur messi specificamente a tema solo successivamente
ad essa25 , potremmo chiamare ‘concetti-chiave’ agambeniani: primo fra tutti quello di potenza e/o
inoperosità (argia), in dialogo col quale Agamben si è posto ricorrentemente (in particolare nella sua
forma e formulazione aristotelica), quello di uso e (accanto a quello di «modo» o «modalità», di cui
sopra abbiamo illustrato alcune venature) quello di quodlibetalità o singolarità qualunque - triade
concettuale che, ci pare, sfocia eminentemente nell’idea (non uso casualmente quest’ultimo termine26 )
di forma-di-vita e di comune.
Senza poterci inoltrare in dettagliati commenti o disamine testuali, diremo anzitutto che, secondo
Agamben, la potenza è, per l’essere umano, l’inerenza essenziale a ciò che costituisce il suo proprio,
ovvero una costitutiva inoperosità (l’argia di cui parla Aristotele): l’uomo può - e può nella misura in
cui può-non, ovvero può la sua propria passività. L’uomo è, in quanto egli può attivamente la propria

23 La matrice profondamente heideggeriana del pensiero di Agamben (il quale è, per molti versi e come abbiamo già avuto modo di
affermare, erede prediletto di Heidegger), nonché il confronto filosofico tra i due pensatori tanto su specifici ‘temi’ (come, ad
esempio, quello della storia o quello dell’ontologia) quanto (soprattutto) sulla radicalità dell’approccio filosofico e di ciò che in esso
è in gioco, devono essere oggetto di uno studio specifico. Qui vorremmo, piuttosto, limitarci, dal punto di vista dell’esplicitazione, a
segnalare tangenze evidenti, ove esse sorgano. Chi legge saprà poi carpire da sé, del resto, le più che frequenti implicite convergenze.

24 Cit. pp. 92-93

25 Se anche Stanze, Infanzia e storia e Il linguaggio e la morte, dove è matriciale e messa a tema la questione-cardine del linguaggio,
risalgono rispettivamente al 1977, al 1978 e al 1982, mentre la prima esplicita trattazione del ‘tema’ della potenza-dynamis
(aristotelica) come inerenza fondamentale dell’essere umano e della sua costitutiva inoperosità-argía al suo stesso essere risale, forse,
al 1987 con la conferenza La potenza del pensiero; se anche la prima apparizione (a quanto mi è dato sapere) filosofica dei termini
«uso» e «quodlibetalità» o «singolarità qualunque» si situa in La comunità che viene (1990); se anche la trascrizione concettuale
«forma-di-vita» è impiegata compiutamente solo nel 1993, ciò nondimeno riteniamo che anche già nella prima triade di opere
agambeniane questi concetti-chiave siano pienamente operanti come ambito essenziale dell’indagine, pur non ancora cristallizzati
come tali in uno sviluppo tematico (fa forse eccezione L’uomo senza contenuto, del 1970, dove centrale è piuttosto la questione,
lungo vie marcatamente heideggeriane, dell’arte come poíesis umana e del suo destino nell’epoca del nichilismo compiuto). E
sembrerà forse triviale, ma il fatto che il volume, edito nel 2005, La potenza del pensiero, raccogliente scritti e conferenze di
Agamben tra il 1975 e i primi anni duemila, porti proprio questo titolo (che è in realtà, appunto, di una singola conferenza dell’87),
non ci appare una quisquilia: il concetto di potenza del pensiero - o pensiero come potenza - immane, pur se non sempre
tematicamente, all’opera agambeniana tout court.

26 L’interpretazione agambeniana dell’idea platonica come para-digma, mostrarsi accanto della cosa a se stessa e, per ciò stesso, aver
luogo dell’ipseità di essa come nominazione (benjaminianamente intesa), è, oltre che fortemente innovativa, centrale. Curioso è che
Agamben abbia dedicato, a quanto mi è dato sapere, una formulazione estesa, compiuta e tematica alla questione dell’idea solo nel
suo ultimo testo, Che cos’è la filosofia? (2016; cfr. pp. 57-122). Da La cosa stessa, conferenza risalente al 1984, lo statuto dell’idea
si evinceva certo ben chiaro, ma, nondimeno, non estesamente.
!13
passività - in quanto, simultaneamente27 , soggetto d’azione e d’atto, soggetto agente-agito. Ciò che, in
questo contesto, inficia la tradizione storico-filosofica dell’originario «statuto anfibolico» (La potenza
del pensiero, in Agamben 2005, p. 281) della dynamis aristotelica si rivela, allora, la concezione per cui
la potenza si esaurirebbe nel suo atto: in luogo di questo esaurimento attuale (o effettuale) della potenza,
Agamben rilancia il compito di pensare e assumere una potenza pura, potentia potentiae:

La potenza (la sola potenza che interessa Aristotele, quella a partire da una hexis) non passa all’atto
subendo una distruzione o una alterazione: il suo paschein, la sua passività consiste piuttosto in una
conservazione e in un perfezionamento di sé […].
Noi dobbiamo ancora misurare tutte le conseguenze di questa figura della potenza che, donandosi a se
stessa, si salva e accresce nell’atto. Essa ci obbliga a ripensare da capo non soltanto la relazione fra la potenza e
l’atto, fra il possibile e il reale, ma anche a considerar in modo nuovo, nell’estetica, lo statuto dell’atto di
creazione e dell’opera e, in politica, il problema della conservazione del potere costituente nel potere
costituito28 . Ma è tutta la comprensione del vivente che dev’essere revocata in questione, se è vero che la vita
dev'essere pensata come una potenza che incessantemente eccede le sue forme e le sue realizzazioni. E forse
solo in questa prospettiva potremo infine capire la natura del pensiero, se è vero, come Aristotele non si stanca
di ripetere, che è la potenza a definirne l’essenza. […]
Ciò che la tradizione filosofica ci ha abituato a considerare come il vertice del pensiero e, insieme, come il
canone stesso dell’enérgeia e dell’atto puro - il pensiero del pensiero - è, in verità, il dono estremo della
potenza a se stessa, la figura compiuta della potenza del pensiero. (La potenza del pensiero, in Agamben 2005,
pp. 286-287)

Ma, se l’uomo è l’essere che è in quanto può la sua propria impotenza, può in quanto può-non, allora
gli immarrà essenzialmente una costitutiva inoperosità, una ineludibile argia, assenza di opera:
ineffettualità - l’assunzione della quale si staglia come ingrediente primario della comunità e della
filosofia che vengono29 :

La politica è ciò che corrisponde all’inoperosità essenziale degli uomini, all’essere radicalmente senz’opera
delle comunità umane. Vi è politica, perché l’uomo è un essere argós, che non è definito da alcuna operazione
propria - cioè: un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessuna vocazione possono esaurire […]. In
che modo quest’argía, queste essenziali inoperosità e potenzialità potrebbero essere assunte senza diventare un
compito storico, in che modo, cioè, la politica potrebbe essere nient’altro che l’esposizione dell’assenza di
opera dell’uomo e quasi della sua indifferenza creatrice a ogni compito e solo in questo senso restare
integralmente assegnata alla felicità - ecco quanto, attraverso e al di là del dominio planetario dell’oikonomia
della nuda vita, costituisce il tema della politica che viene. (Agamben 1996, p. 109)

Questo coraggio per una potenza ineffettuale o destituente, al di là o al di qua del paradigma
oikonomico dell’atto e dell’effetto, questa prontezza etico-politica per l’assunzione della disattivazione
del proprio in quanto costitutivamente improprio, e dell’improprio in quanto locus dell’appropriazione
umana, inquadrano il nerbo della riflessione filosofica e, dunque, storico-epocale di Agamben: il punto
verticale del suo pensiero progettuale, entro cui convergono tanto l’ontologia modale quanto la
riflessione biopolitica e quella onto-logica sul linguaggio che abbiamo, sopra, cercato di restituire.
Nell’epoca dell’estremo, in quell’èschaton di cui la filosofia è sempre depositaria, la risposta e il
compito dell’homo si annunciano essere quelli dell’assunzione della e dell’esposizione alla sua pura
inoperosità: solo così egli potrà tramutare la soglia tra opera e non-opera, tra causa ed effetto, tra Sé ed

27 «Il volto non è simulacro, nel senso di qualcosa che dissimula e copre la verità: esso è la simultas, l’essere-insieme dei molteplici
visi che lo costituiscono, senza che alcuno di essi sia più vero degli altri. Cogliere la verità del volto significa afferrare non la
somiglianza, ma la simultaneità dei visi, l’inquieta potenza che li tiene insieme e accomuna. Così il volto di Dio è la simultas dei
volti umani» (Mezzi senza fine, p. 80).

28 Il problema della dicotomia ‘potere costituente/costituito’ è, per Agamben, uno dei più rivelativi indici dell’impasse critica in cui
le democrazie moderne e contemporanee versano - dicotomia che, senza riserve, occorre per l’autore radicalmente debellare.

29 In questo senso, e come sviluppo di esso, Agamben parlerà, a partire dagli anni ’10, di potenza destituente (cfr., ad esempio, L’uso
dei corpi, pp. 333-351).
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Altro, tra identità e differenza, in etica, nel locus responsivo - e responsabile - «di una potenza
comune» (ivi, p. 18):

L’etica comincia soltanto là dove il bene si rivela non consistere in altro che in un affidamento del male, e
l’autentico e il proprio non aver altro contenuto che l’inautentico e l’improprio. […] La verità si manifesta solo
dando luogo alla non-verità, cioè come aver-luogo del falso, come esposizione della propria intima improprietà.
[…]
Per noi, cui non è toccata in sorte alcuna di proprietà […], si apre invece, forse per la prima volta, la
possibilità di un’appropriazione dell’improprietà come tale, che non lasci più alcun residuo di geenna fuori di
sé. […]
Che il mondo sia, che qualcosa possa apparire e aver volto, che vi siano esteriorità e illatenza come la
determinazione e il limite di ciascuna cosa: questo è il bene. Così proprio il suo essere irreparabilmente nel
mondo è ciò che trascende ed espone ogni ente mondano. Il male è, invece, la riduzione dell’aver-luogo delle
cose a un fatto come gli altri, l’oblio della trascendenza insita nello stesso aver-luogo delle cose. Rispetto a
queste, il bene non è però in un altro luogo: è semplicemente il punto in cui esse afferrano il proprio aver-
luogo, toccano la propria intrascendente materia.
In questo senso - e soltanto in questo - il bene deve essere definito come un autoafferramento del male, e la
salvezza come l’avvenire del luogo a se stesso.30 (Agamben 2001, pp. 16-17)

L’uomo è, così, chiamato alla (sua) quodlibetalità, alla (sua) singolarità qualunque, alla (sua)
modalità, al (suo) così: «esser-così; essere il proprio modo di essere: questo non possiamo afferrarlo
come una cosa» (ivi, p. 85): se «l’essere che viene è l’essere qualunque […] nel suo essere tale qual
è» (ivi, p. 9), l’uomo che viene è la sua forma-di-vita31. Egli non conoscerà alcun isolamento di qualcosa
come una ‘nuda vita’ da presupporre o esporre, giacché la sua costituzione d’essere riposa nei modi
della stessa: egli è nella sua stessa stessità, nella sua inesauribile ipseità. L’uomo in quanto forma-di-vita
è l’uomo in quanto medio-modale o modo-mediale, il testo inscisso e inscindibile dal suo contesto, e la
sua vita della potenza sarà la sua coesione tra il suo essere e i suoi modi nel suo aver-luogo, dove il
pronome ‘suo’ ha senso solo come potenzialità comune, poiché «dove io posso, là siamo già sempre
molti» (Agamben 1996, p. 18). Egli sarà, così uso abituale di sé, e la sua virtù sarà il suo abito di volta
in volta in gioco, in un così che non pretende di tramutarsi in ‘così sia’, perchè, «come la purezza, la
virtù non è un carattere che competa in proprio a qualcuno o a qualcosa» (Agamben 2014, p. 96), e «non
esistono, per questo, azioni virtuose, come non esiste un essere virtuoso: virtuoso è solo l’uso, al di là -
cioè nel medio32 - dell’essere e dell’agire» (ibidem, corsivo nostro). Ed è solo così che, non già
inseguendo ciecamente la (propria) nuda vita nel fallace tentativo di darle forma giuridica, non già
appoggiando su di essa una presunta identità costantemente violata e violentata dalla strapotenza,
dall’istituto e dalla statuizione del diritto, l’uomo sarà la coesione alla sua stessa forma, sarà l’andarne
del suo stesso essere, essere ogni volta comune - potentia communitatis o communitas potentiae:

L’esperienza del pensiero, che è qui in questione, è sempre esperienza di una potenza comune. Comunità e
potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del
carattere necessariamente potenziale di ogni comunità. (Agamben 1996, p. 18)

30 Queste parole esemplificano, a nostro avviso, un’interpretazione e una riattualizzazione, incisive e pressoché dirette, del pensiero
di Heidegger - per inciso, tra le più belle.

31 Il sintagma con trait d’union viene distinto da Agamben rispetto a «forma di vita», indicante (all’opposto) quelle molteplicità
fragilmente e caducamente socio-identitarie in cui gli individui odierni tentano la loro propria costituzione o aggregazione in quanto
soggetti socio-giuridici: «l’elettore, il lavoratore dipendente, il giornalista, lo studente, ma anche il sieropositivo, il travestito, la
porno-star, l’anziano, il genitore, la donna» (Agamben 1996, p. 16), che poggiano e riposano tutti, in ultima analisi, sulla nuda vita e
sul tentativo disperato e assolutamente biopolitico dell’uomo attuale di imboccare una via per poterla rendere propria.

32 Diremmo: «cioè sulla soglia»


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6. Ho nyn kairòs: un «messianico senza messianismo»

La redenzione non è un evento in cui ciò che era profano diventa sacro e ciò
che era stato perduto viene ritrovato. La redenzione è, al contrario, la perdita
irreparabile del perduto, la definitiva profanità del profano. Ma, proprio per
questo, essi toccano ora il loro limite - un limite avviene.
La comunità che viene33

Abbiamo tentato di illustrare, nelle pagine che precedono, alcuni punti e modi essenziali del progetto
agambeniano di una filosofia e di una comunità che vengono, accostandoci anche all’essenziale
impianto presupponente che esso individua e cui tenta di rispondere. Vorremmo ora provarci, in
conclusione, a tracciare un accenno sommario (nel senso giuridico del termine) della portata
ineludibilmente messianica che immane alla filosofia di Agamben - senza il quale accenno, è nostra
opinione, quanto sin qui esposto rimane sostanzialmente incompleto.
Giacché, infatti, è proprio nell’istanza messianica che quell’inestricabile intreccio (che abbiamo più
volte incontrato ed evidenziato, e di cui si tratta ora di esplicitare la pregnanza) onto-logico-politico-
estetico-etico (: filosofico) trova il suo luogo e il suo senso. E se la presenza (lo ripetiamo: qui non
indagabile) di Heidegger nella filosofia di Agamben è insindacabilmente eminente, altrettanto paolino e
benjaminiano sarà il suo gesto di riattualizzazione34 messianica del filosofico.
Ma cosa intendiamo, qui, per ‘messianico’?
È nota l’ascendenza costante e fondamentale del pensiero di Benjamin, tanto nella formazione quanto
in tutto il prosieguo della teoresi agambeniana, così come è chiara (Il tempo che resta, ma non solo, sta a
dimostrarlo) la centralità dell’esperienza paolina dell’ho nyn kairòs, del tempo messianico come ‘tempo
di ora’ (nell’interpretazione di Agamben: il tempo cairologico in quanto tempo immanente al e
afferrante il tempo cronologico e restanteci a compiere la nostra rappresentazione di esso: «il tempo che
noi stessi siamo - e, per questo, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo»35 (Agamben 2000, p.
68)); ma, ecco il punto, il messianico-etico agambeniano è paolino nella misura in cui è benjaminiano e
benjaminiano nella misura in cui è paolino. La forza della paolina appropriazione messianica del tempo,
infatti, è pienamente comprensibile, in Agamben, nel momento in cui la si accosti alla Jetztzeit di
Benjamin (e viceversa): l’una come l’altra inscrivono nell’ora (Jetzt, nyn) il suo statuto messianico nel
momento in cui ne sanciscono la condensazione in quanto già-non ancora, in quanto presenza chiamata
al suo compimento, cioè alla sua assunzione in quanto simultaneamente stata, essente e di là da essere:
ogni momento è il ritorno ingiungente di un già-stato che revoca ogni vocazione - ogni momento chiama
alla sua propria revoca. È così che, al termine de Il tempo che resta, Agamben può citare, come «la
migliore conclusione» (ivi, p. 135), l’«estrema formulazione messianica» (ibid.) di Benjamin:

33 Cit. p. 85

34 Diciamo ‘riattualizzazione’ in modo non casuale e in un senso affatto specifico, come emergerà subito.

35 «Possiamo allora proporre una prima definizione del tempo messianico: esso è il tempo che il tempo ci mette per finire - o, più
esattamente, il tempo che noi impieghiamo per far finire, per compiere la nostra rappresentazione del tempo. Esso non è né la linea -
rappresentabile ma impensabile - del tempo cronologico, né l’istante - altrettanto impensabile - della sua fine; ma non è nemmeno
semplicemente un segmento prelevato sul tempo cronologico, che va dalla resurrezione alla fine del tempo: è, piuttosto, il tempo
operativo che urge nel tempo cronologico e lo lavora e trasforma dall’interno, tempo di cui abbiamo bisogno per far finire il tempo -
in questo senso: tempo che ci resta. Mentre la nostra rappresentazione del tempo cronologico, come tempo in cui siamo, ci separa da
noi stessi, trasformandoci, per così dire, in spettatori impotenti di noi stessi [potremmo dire: della nostra nuda vita], che guardano
senza tempo il tempo che sfugge, il loro incessante mancare a se stessi, il tempo messianico, come tempo operativo, in cui afferriamo
e compiamo la nostra rappresentazione del tempo, è il tempo che noi stessi siamo - e, per questo, il solo tempo reale, il solo tempo
che abbiamo.
Proprio perché è tesa in questo tempo operativo, la klēsis messianica può avere la forma del come non, dell’incessante revocazione
di ogni vocazione. […] Il kairós non dispone di un altro tempo, ciò che afferriamo quando afferriamo un kairòs non è un altro tempo,
ma solo un chronos contratto e abbreviato. […] È evidente che la “guarigione” messianica ha luogo nel kairòs; ma questo non è altro
che un chrónos afferrato. La perla incastonata nell’anello dell’occasione è solo una particella di chronos, un tempo restante».
(Agamben 2000, pp. 68-69)
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Ogni ora è l’ora di una determinata conoscibilità. In esso la verità è carica di tempo fino ad andare in
frantumi. (Questo andare in frantumi, e nient’altro, è la morte dell’Intentio, che coincide con la nascita
dell’autentico tempo storico, il tempo della verità). Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il
presente la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora
in una costellazione. In altre parole: l’immagine è la dialettica in arresto. Poiché, mentre la relazione del
presente col passato è puramente temporale, quella fra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non temporale, ma
immaginale. Solo le immagini dialettiche sono autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L’immagine letta,
cioè l’immagine nell’ora della conoscibilità, porta in sommo grado lo stampo di questo momento critico e
pericoloso che sta alla base di ogni lettura. (Benjamin 1974-89, V, 578) (ivi, p. 135)

Ed è così che, del pari, egli può affermare:

Comunque sia, credo non si possa dubitare che, separate fra loro da quasi duemila anni ed entrambe
composte in una situazione di crisi radicale, le Lettere e le Tesi - questi due sommi testi messianici della nostra
tradizione - formano una costellazione che, per qualche ragione su cui vi invito a riflettere, conosce proprio
oggi l’ora della sua leggibilità. (ivi, p. 134, corsivo nostro)

Ebbene, questa affermazione (in particolare nella sua seconda parte, che abbiamo posto in corsivo)
potrebbe assurgere a epitome dell’intera opera agambeniana. Poiché, nel raccogliere il messianismo di
Paolo e di Benjamin, egli esprime il più che quarantennale tentativo di assumere il tempo di ora, la
Jetztzeit critica, l’èschaton in cui epocalmente versa la nostra attualità - egli pensa l’attuale, nel
tentativo di riattualizzarlo messianicamente, ovvero di compierlo assumendolo.
Questa, ci pare, la posta in gioco, il locus ultimo del gesto filosofico di Agamben - sicché potremmo
integrare la nostra tesi precedente affermando che, se il messianico-etico agambeniano è paolino nella
misura in cui è benjaminiano e benjaminiano nella misura in cui è paolino, esso è etico nel momento in
cui fa del suo inestricabile intreccio filosofico, del suo luogo del tra, un cairo-crono-logico «messianico
senza messianismo»36.

36 L’espressione, che non scegliamo a caso, è di J. Derrida (Spettri di Marx, p. 87). Su questo accostamento tra il messianico
derridiano e quello agambeniano, varrebbe la pena di riflettere e di chiedersi se, per caso, essi non siano più vicini di quanto possa
apparire - e ciò nonostante le critiche mosse da Agamben, in più luoghi, alla teoresi di Derrida.
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Riferimenti bibliografici

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- G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi editore, Torino 1995
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sacer II, 4, Neri Pozza editore, Vicenza 2007
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Cortina editore, Milano 1994 (ed. or. Spectres de Marx, Editions Galilée, Paris 1993)
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