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7 DICEMBRE 2018 CONVEGNO “COSTRUIRE E ABITARE” GIORGIO AGAMBEN

MARIA CHIARAPPA

Lo scorso 7 dicembre, a pochi giorni dalla presentazione presso l’evento Più libri Più liberi
dell’intero progetto di Homo Sacer edito da Quodlibet, Giorgio Agamben in qualità di ospite
d’eccezione ha tenuto una conferenza sul tema “Costruire e abitare” in occasione dell’inaugurazione
dell’anno accademico della Scuola di Dottorato in Scienze dell’Architettura dell’Università La
Sapienza.
Interessante risulta l’invito stesso fatto al filosofo, suggerendo come l’architettura non sia una
scienza puramente tecnica bensì un’attività che custodisce la dimensione dell’umano.
Per questo motivo, Agamben precisa che il fil rouge metodologico della sua riflessione ruota
attorno all’archeologia che tenta di attingere all’arché, termine che la stessa “architettura”
custodisce nella sua radice, che Agamben definisce come “lo scarto fra il punto di insorgenza di un
fenomeno e la tradizione dei saperi che ce lo trasmette”. In più di un luogo il filosofo ha affermato
che l'archeologia e l'indagine del passato sia la sola via di accesso al presente, a condizione di
precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l'ombra che l'interrogazione
del presente proietta sul passato. L’interrogazione alla radice del suo intervento, infatti, si propone
di offrire una diagnosi critica della situazione presente dell’architettura partendo dall’ipotesi che il
nesso intimo fra costruire e abitare si sia spezzato e che l’apriori storico dell’architettura moderna
sia l’incapacità di tenere insieme l’arte del costruire e l’arte dell’abitare.
Senza avanzare pretese di validità storiografica, Agamben suggerisce che nel XIX secolo con la
nascita delle Facoltà di Architettura nelle Università gli uomini sembrano aver perduto la capacità
di costruire la propria casa come attività naturale esercitata per secoli, e con essa la possibilità di
sentirsi “a casa”, riflessione che fa eco al concetto di “professioni disabilitanti” di Ivan Illich che,
nel saggio Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, evidenza l’insorgere di
professioni che hanno condotto al monopolio e all’espropriazione di un’attività prima condivisa da
tutti.
In termini estremi, l’ipotesi della rottura spiega il fenomeno per cui sia stato possibile costruire i
campi di concentramento, edifici in cui non sarebbe mai stato possibile abitare. Come si può, infatti,
costruire l’inabitabile? E inoltre, l’obsolescenza del concetto di abitazione trova una più recente
applicazione nella polemica sollevata dall’ex sindaco di Venezia e filosofo Massimo Cacciari che
definisce “discorsi da anime belle” quelli di coloro che criticano lo stato di assedio turistico dei
centri storici delle città d’arte rispetto a una desiderabile messa a punto di politiche di
reinsediamento abitativo.
Per questo motivo, il metodo archeologico che passa attraverso il linguaggio fornisce uno strumento
per indagare le condizioni di validità e di possibilità dell’architettura.

Per far chiarezza sul rapporto tra costruire e abitare, occorre partire dalla sovrapposizione nella
cultura occidentale di due dimensioni diverse dell’abitare e dell’abitazione all’interno di un unico
vocabolo. Benveniste nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee sottolinea due termini latini che
corrispondono a due differenti dimensioni concettuali di casa: in primo luogo si definisce la domus
come casa-abitazione, intesa come luogo di appartenenza a una famiglia; in secondo luogo, il
termine aedes sta per la casa-edificio, da cui deriva in senso stretto il verbo aedificare, costruire. In
questo senso, i vocaboli latini per “casa” coincidono nello spazio ma rappresentano realtà diverse
che interessano da una parte la sfera sociale e politica e dall’altra la sfera tecnica. Infatti, l’antico
locativo domi, “essere a casa”, non implica il trovarsi in un certo edificio ma l’appartenenza a una
gens, a una famiglia, un contesto dove sono possibili le relazioni sociali e giuridiche altrimenti
impossibili da ricoprire al di fuori. Il vocabolario di Benveniste, pubblicato nel 1969, fa emergere
dunque la natura inizialmente non architettonica della casa, sottolineando quindi la divisione fra il
momento tecnico del costruire e la natura umana e politica della casa-abitazione.

Al contrario, l’unità fra costruire e abitare è sancita dalla celebre conferenza Costruire, abitare,
pensare tenuta a Darmstadt nel 1951 da Heidegger. Egli sostiene che la radice altotedesca del verbo
bauen, “costruire”, è buan, “abitare”, e dunque solo l’abitare dà senso al costruire. L’uomo è un
essere che costruisce perché abita e quindi l’architettura è il tentativo di tenere insieme queste due
categorie essenziali.

Tuttavia, l’attenzione di Agamben si sposta di nuovo sull’indagine linguistica evidenziando come in


latino il verbo habitare derivi da habeo, “avere” e ritorna sull’analisi affrontata da Benveniste nel
capitolo “Essere” e “avere” nelle loro funzioni linguistiche dell’opera Problemi di linguistica
generale riguardo lo stretto nesso tra i verbi ausiliari “essere” e “avere”.

Bienvenistes mette in rilievo il ruolo dei verbi ausiliari avere ed essere e mostra la complessità della
loro relazione. Essi mancano in numerose lingue e in alcune di queste il verbo avere è sostituito da
forme verbali come “essere a”, “essere di”. Entrambi sono verbi di stato ma corrispondono a due
stati diversi secondo cui essere è lo stato di colui che è e avere è lo stato di colui che ha. Formula
alquanto tautologica che Agamben approfondisce esaminando le copiose declinazioni di habeo. Da
esso, infatti, deriva habilis, qualcosa che si presta bene all’uso, che è capace; habitus inteso come
modo di essere, contegno, abito, disposizione; l’espressione habitare secum, abitare con sé, avere
un certo abito di sé, uso di sé.
Abitare, dunque, non denota solamente lo stare abitualmente in un luogo ma un avere stabilmente o
di solito, avere l’habitus di qualcosa. I significati di essere e avere si confondono a tal punto che
avere un certo modo di essere fa dell’abitazione una categoria ontologica. In questo modo, abitare
significa, come sostiene Agamben, “creare, consolidare e intensificare abiti e abitudini, modi di
essere e di vivere”. Secondo questa accezione, ciò che appare interessante è la reciprocità fra modo
di essere e modo di vivere che ha un risvolto etico, per cui la casa non si definisce come tana o nido
ma come un luogo in cui esercitare intensamente i propri abiti. È proprio in relazione a questa
definizione che l’architettura e gli architetti sono chiamati a misurarsi per ripensare la crisi radicale
dovuta alla rottura fra costruire e abitare.

All’appello che Agamben fa rivolgendosi al pubblico di specialisti, segue la sua riflessione riguardo
due elementi architettonici: la casa e la città accanto alle quali si accostano rispettivamente la porta
e il mundus.

In primo luogo, la porta contiene in sé i significati differenti di apertura, soglia e chiusura,


serramento. Per ovviare alla mescolanza dei significati, Simmel nel saggio Ponte e porta aveva
distinto la porta dal ponte proprio per la possibilità della prima di essere chiusa, di definirsi come
elemento di separatezza piuttosto che di unione, funzione alla quale invece risponde il ponte.
Inoltre, il vocabolario latino conosce quattro termini per “porta”: porta, che rinvia all’idea di
passaggio; ostium, da cui “uscio” che indica un’apertura che può essere chiusa; ianua, da Ianus il
dio bifronte che segnala proprio la bidirezionalità della soglia; e foris, termine che non si è
conservato nelle lingue romanze se non nell’avverbio “fuori”. Foris è la porta considerata non come
oggetto materiale ma come ingresso della casa intesa sia come aedes che come domus sede della
famiglia, per cui fori indica il trovarsi fuori dalla sfera famigliare e denota il forestiero, l’estraneo.
Ciò che è straniero, quindi, risponde al termine che originariamente corrispondeva allo “stare alla
porta”.

Contraria alla porta a serramento è la porta che Carlo Scarpa adagia al suolo davanti all’ingresso
dello IUAV di Venezia e che Agamben utilizza come esempio per introdurre i concetti di città e
mundus.
Il mundus è l’apertura circolare che Romolo aveva fatto scavare nel rito di fondazione della città di
Roma e in cui i suoi compagni gettano un pezzo di terra natale. Esso è l’umbilicus urbis e funge da
comunicazione non solo fra presente e passato ma anche fra vivi e morti. Inoltre, nei tre giorni
dell’anno in cui si apre il lapis manalis e la cavità è aperta, mundus patet, tutte le attività, specie
quelle militari, vengono sospese perché i Mani, i defunti invadono lo spazio profano dei vivi. Il
mundus nel senso originario è dunque questa cavità in cui veniva calato un ragazzo per trarre
auspici, il mondo nel senso antico non corrisponde alla totalità degli enti ma a questa dimensione
verticale e archeologica che la porta di Scarpa quasi richiama attraverso gli strati-gradini immersi
nella vasca.

In ultima analisi, il metodo archeologico intrapreso da Agamben nel suo intervento intende proprio
restituire all’architettura la sua funzione politica nel senso destinale della città e del rapporto che i
saperi intrattengono fra presente e passato. Quest’ultimo è definito da Agamben in maniera
ambivalente sia come il “ciò che è stato” ma anche come il “ciò che avrebbe potuto essere e non è
stato”, sfumatura di significato che per Agamben è importante in quanto in essa si prepara il futuro,
il quale si crea solo facendo “progetti per il passato”. È dal passato che viene la possibilità, non dal
futuro o dal presente che per definizione sfugge, per questo se il nesso tra costruire e abitare è
spezzato ricomporlo significa fare progetti per il passato, significa cercare dei loci per il possibile
per quella congiunzione che legittima l’architettura sottraendola dall’edificazione di spazi
inabitabili.

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