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LETTERATURA ITALIANA

Quella che affronteremo in questo corso è una letteratura che possiamo definire letteratura
geografica, o ancora meglio, letteratura odeporica. I più importanti testi letterari parlano proprio di
viaggio, come ad esempio l’Iliade e l’Eneide, ma anche diversi trattati scientifici, come quello di
Erodoto.
Tutto ciò che faremo rientra nella storiografia, che si basa sull’esperienza personale dell’io
narrativo.
Nel medioevo il passato non era problematico poiché garantito: erano presenti testi che il medioevo
non era pronto a leggere criticamente, come chiaramente la Bibbia, che era presa per quello che era
senza porsi domande, ed è considerato un documento storico (il personaggio di Gesù Cristo era una
persona realmente esistita); il medioevo occidentale leggeva la bibbia in latino, ma originariamente
è in ebraico, con numerosissime versioni. San Girolamo ne ha fatto la traduzione “vulgata”. Il
Vangelo però finisce con una visione apocalittica, e tra le varie tragedie presenti nel medioevo si
credeva che la fine fosse imminente. Questo modo di leggere i testi si chiama lettura figurale,
coniata dal letterato tedesco Eric Auerbach, e consiste nel ricercare segnali nel passato di ciò che
avviene nel presente e in anni successivi. Su questo tipo di lettura si costituisce un genere
“profetico”; la profezia è vaga perché è comodo così.
Questo modo di leggere la storia si riflette nel nostro, perché nel passato cerchiamo gli adempimenti
nel tempo presente. Per questo la storiografia medioevale consiste in cronache che abbracciano al
massimo un secolo, e che di solito riflettono il presente dello scrittore: era un’impostazione mentale.
Infatti le ansie escatologiche avvengono in qualsiasi tempo, anche nel nostro.
I padri della chiesa hanno contribuito a dare una definizione di storia:
Isidoro di Siviglia (padre della chiesa spagnolo): sostiene che la storia è la testimonianza di
qualcosa che è stato visto (la parola deriva dal greco historiam: io vedo, quindi conosco). Si
capiscono meglio le cose con gli occhi che con il racconto, la testimonianza ha valore perché
oculare. Le cose che si vedono devono essere raccontate senza menzogna (definizione tratta dalla
patrologia latina).
La grande novità in un’opera come ad esempio quella di Marco Polo è il fatto che i racconti che
venivano narrati di quelle terre venivano validati dal fatto che lui fosse lì, e la testimonianza passa
dalla sua esperienza, esperienza che porta alla saggezza.
Questa tradizione testuale, dove tradizione è intesa come trasmissione, la ritroviamo anche nell’alto
medioevo, es. la chanson de roland, che parla di guerra. Le guerre davano modo di viaggiare, e
grazie a ciò venivano descritti mondi lontani e diversi; per esempio in Chanson vengono descritti gli
armamenti dei saraceni. Successivamente avremo anche testimonianze di diversi modi di mangiare,
le vesti e il modo di parlare.
Grazie a ciò si creano i presupposti per la comprensione delle differenze, per poi accettarle e
rispettarle come frutto di una tradizione indipendente.
La storiografia ha una vocazione fondata sulla costruzione di una realtà.
Secondo la poetica, capitolo 9 di Aristotele la poesia è un’elevazione della realtà: per essere
credibile ci vuole coerenza. “La storia dice le cose accadute, la poesia quelle che potrebbero
accadere”.
La poesia è anche imitazione, che di fatto significa rappresentazione, e si effettua una mimesi con
gli oggetti che si intendono rappresentare, che sono nella realtà prima e nella mente di chi costruisce
la realtà poi. Nel momento in cui la realtà viene rappresentata diventa fictio. Uno dei motivi per cui
i platonici bandiscono gli artisti dalla città (repubblica) è perché imitano l’imitazione.
Il processo imitativo o rappresentativo deve avere un oggetto che deve essere verosimile e
necessario, ovvero che agisca all’interno di un contesto normato. Cosa succede quando il soggetto è
umano? Qualunque cosa rappresentata è un’imitazione di un’azione; le azioni umane, una volta
rappresentate, assumono una connotazione di carattere morale. Poiché il pubblico medievale è
esclusivamente maschile ed educato alla teologia e alla filosofia, è possibile inserire figure umane
più vaste con lo scopo di costruire una mimesi tra finzione e realtà, come nelle novelle di
Boccaccio.
Un’altra testimonianza ce l’abbiamo nel De Oratore di Cicerone: “la storia poggia su fatti e parole
(esperienza), per descrivere i fatti bisogna avere conoscenze cronologiche e geografiche”.
Quando tali generi rientrano nella letteratura italiana?
Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro, e capire quando nasce la lingua
italiana e quando sarà pronta per questo tipo di descrizioni e racconti.
Una lingua non sempre è pronta, e se non lo è se ne usa un’altra; per esempio Roma era bilingue,
ma si prediligeva il greco.
*Vedi mappa Impero Romano*
L’occidente latino corrisponde alle zone dove oggi si parlano le lingue neolatine. Con le invasioni
barbariche subentrano altre lingue, che si fonderanno con il latino. Il sostrato latino si imparenta con
lingue nuove in un lungo processo dove si sviluppano. Es. non più “bellum” latino, ma guerra (dal
tedesco).
Il deterioramento si trova nell’Apprendix probi, dove questo latino fa notare che la lingua latina ha
subito degli “imbastardimenti” (era un purista).
In ogni caso, un conto è che una lingua venga modificata per forza di cose dall’arrivo di nuove
popolazioni, un altro è usare tale lingua ancora non formata per scopi elevati; non poteva ancora
imporsi come lingua scritta.
Il latino e l’italiano erano vicini, quindi il processo era rallentato perché non si riusciva a fare una
separazione netta.
Es. Indovinello Veronese: è per noi abbastanza comprensibile. Ci sono vari esempi sul moodle che
fanno vedere lo sviluppo da latino a volgare, e si capisce che è un processo lunghissimo.
Il volgare riesce ad affermarsi con la creazione di nuove classi sociali che non hanno accesso al
latino, ma hanno comunque bisogno di scrivere, come ad esempio la classe mercantile. Quando si
arricchiscono hanno bisogno di comunicare coi piani alti (le leggi erano in latino) e nascono delle
figure che fanno da cerniera: i notai. Quindi adesso il latino e il volgare si fondono. (vedi “lingua
dei volgarizzamenti”, “la scrittura mercantesca”)
Coloro che viaggiano finiscono per scrivere in volgare, poiché chi viaggia è il mercante (oltre ai
soldati) e non il filosofo.
In che modo il viaggio agisce sulla storia umana?
Determinando uno spostamento, finisce per cambiare l’uomo, che a sua volta finisce per plasmare i
gruppi sociali e produce cultura: si possono quindi definire due concetti:
1. Il possibilismo: quando l’uomo modifica lo spazio intorno a sé per adattarsi (es. scavare una
galleria)
2. Il determinismo: quando lo spazio determina l’adattamento dell’uomo
Il viaggio è un’alterazione della vita, ed è terreno di metafore di provenienza globale: più si viaggia,
più si acquisiscono competenze, ed è simbolico nel nostro lessico, infatti utilizziamo un lessico
odeporico (es. viaggio inteso come trapasso…).
Il viaggio diventa catalizzatore di esperienza, e per questo diventa degno di narrazione.
Esperienza: indica etimologicamente un muoversi attraverso, percorrere un tragitto; comprensione
attraverso lo spostamento.
Il per di esperienza porta a diverse parole di varie lingue, es. in inglese fear, ad indicare la paura dei
pericoli di un viaggio. (XXII canto divina commedia “non vogliate negar l’esperienza”).
Il viaggio trasforma il viaggiatore, sia come identità che come fisico. Un vero e proprio travaglio,
infatti in inglese travel. Nell’epica antica il viaggio aveva una connotazione negativa, ad esempio
Ulisse vive il viaggio come una punizione divina.
Nei tempi moderni il viaggio è un’espressione di libertà dove si acquisisce certezza di sé stessi,
anche affermando tratti già esistenti. Esso acquisisce la retorica del racconto con tutte le
amplificazioni e iperboli, e si sviluppa così la forma epica del viaggio.
Chi viaggia, pur cosciente dei pericoli e le paure, riesce ad affrontarle. Anche chi viaggia per scelta
lo fa per purificarsi: es. i pellegrini, Caino, Gilgamesh.
Il luogo assume le connotazioni di chi lo racconta, ovvero l’io narrativo.
Inaccessibilità dell’oriente
L’oriente, soprattutto asiatico, con l’espansione dei popoli arabi era rimasto inaccessibile, c’erano
pochissimi contatti con il mondo greco, e non c’era nemmeno occasione di effettuare pellegrinaggi
in Terra Santa. Solo attraverso la pax mongolica si riaprono le tratte commerciali: infatti Marco
Polo parte circa 12 anni dopo la caduta del Califfato di Baghdad. ma viaggiando di nuovo verso
quelle terre il latino non basta più per descrivere quello che veniva visto, quindi adesso l’italiano
dopo il lunghissimo percorso è finalmente pronto.
Testi di pellegrini scrittori:
Libro d’Oltramare di Niccolò da Poggibonsi, fiorentino.
Racconta del suo viaggio in Terrasanta nel 1345. Lui aveva un’avversione per l’universo
musulmano. Il pellegrino si rivolge ai santi come fossero muse, in modo che lui riesca a organizzare
le informazioni che ha raccolto per raccontare delle “sante luogora senza fallimento come io le
visitai”; visitare: deriva da visere, muoversi per vedere qualcosa. Questo testo funge da guida per i
pellegrini che vogliono andare a visitare quei posti, o anche solo per usufruire dell’esperienza di
Poggibonsi: ci dice anche come arrivare, da dove è passato e come comportarsi nei vari luoghi, e
persino i prezzi dei tributi per passare e sostare nei vari posti. Dopo questa introduzione comincerà
l’opera vera e propria, e ci scrive che per fare in modo che la sua fatica non vada perduta, e che
nessuna persona provi la stessa sofferenza per poter scrivere questo libro, non vuole venga plagiato:
perciò lui inserisce il suo nome nell’opera, con un acronimo, una lettera all’inizio di ogni capitolo
(era usanza medievale inserire il nome nelle proprie opere).
Capitolo II: parla di Venezia, descrivendola in maniera minuziosa.
Capitolo III: racconta dei diversi giorni di viaggio in mare, sempre sottolineando il travaglio del
viaggio (ci dice che ad un certo punto avevano il vento contrario). Incontrano una tempesta e sono
costretti ad approdare a Puola per più giorni, finchè il venerdì santo si sono di nuovo imbarcati, ma
il vento contrario era così forte che la vela rischiava di essere persa. Tutti sull’imbarcazione
invocano i santi e piangevano per paura, Poggibonsi dice “vedendo questo il cuore mio venne
meno” (Dantesco). A questo punto lui era pronto a buttarsi dalla nave per salvarsi, ma il vento si è
calmato, e i marinai con fatica riescono a tirare la vela a bordo, e sono costretti a tornare a Puola a
causa del guasto del timone, e sono costretti a starci dieci giorni, e si ha adesso una descrizione
della città. Tornati in mare trovano ancora il vento contrario, e incontrano un’altra imbarcazione,
avvicinandosi si chiedono gli uni con gli altri dei rispettivi viaggi.
Capitolo IV: descrizione di carattere geografico di un canale che stanno attraversando; Espressione
pelago di mare: parola estremamente connotata, la troviamo anche nel I canto dell’inferno della
Divina Commedia, in questo caso il pelago però è una specificazione del mare, un mare pericoloso:
Poggibonsi ha le idee chiare del concetto che vuole esprimere. Descrizione della terribile tempesta,
sulla nave non si poteva stare né in piedi né sdraiati; scena confusa con grida, pianti e picchiarci
(chiedere perdono battendosi il petto). Lo scrivano (colui che inventariava le merci in una nave
mercantile) scendeva per controllare che la nave non fosse magagnata, ovvero se ci fosse qualche
falla o crepa, e diceva a tutti gli altri “o frati…” (è un’apostrofe dantesca detta da Ulisse), non è un
caso il linguaggio marinaresco sia qui con Poggibonsi che in Dante con Ulisse, poiché la memoria
letteraria è sempre attiva, e per scrivere si attinge anche ad essa. Tutti pregavano tribolando, e
tirano fuori le reliquie che si erano portati, pregando, ma nonostante ciò la nave era sempre in
procinto di ribaltarsi, senza avere tregua tutta la notte. Nessuno poteva bene favellare = nessuno
riusciva a parlare bene per paura e lacrime, eravamo tutti fiochi (altro riferimento a Dante, che
utilizza la parola fioco quando incontra Virgilio). Tempesta considerata come una prova di Dio; il
viaggio prende significato proprio con le difficoltà che si incontrano: senza peripezie non sarebbe
stata una storia altrettanto lunga. Ci fu dopo un’altra tempesta, ma stavolta definita buona (un vento
forte che li ha spostati più avanti). Notiamo come le situazioni positive ricevono poca scrittura.
Gorga gorga: significato poco certo in questo contesto, dal latino gurges, potrebbe voler dire
“attraversando mari gorgheggianti”, è un termine che è presente anche nell’Eneide.
Capitolo X: arrivati a Gerusalemme, hanno bisogno di un interprete perché la lingua è diversa, non
avevano soldi e quindi l’interprete viene percosso, perché ha detto che non avevano denaro.
L’ammiraglio gli dice di pagare il tributo, ma non poteva. Allora vanno per portarli in prigione, ma
incontrano una vecchia conoscenza che paga per loro. Poggibonsi ci dà pure l’informazione su
quanto fosse stato il tributo (quattro fiorini a testa).
Capitolo XI: il capitolo si apre con tre superlativi in omoteleuto (finiscono tutti allo stesso modo);
sono arrivati in Terrasanta, descritta come realissima (regale). Ripercorre e descrive luoghi che
vengono nominati nella bibbia: ricordiamo che nel medioevo la cristianità è reale, quindi in questo
momento non sta parlando solo il frate Poggibonsi, ma un uomo del suo tempo. Paragrafo cinque =
ripercorre i passi del nuovo testamento = prova storica di alcuni monumenti raccontati nella
bibbia→ per il medioevo il cristianesimo è reale, è un fatto storico = prove archeologiche in questo
testo
Viaggio al Monte Sinai di Simone Sigoli:
Diverse similitudini con Poggibonsi, anche qui si trovano tra le descrizioni informazioni utili per i
viaggiatori, comprese nozioni di spazio (miglia) e tempo (data in cui sbarcano). Descrizione di
Alessandria, usa dico, dal termine dicere quod usato dai professori universitari, e testimonia di aver
vissuto un’esperienza. Figura retorica dell’ineffabile, impossibilità di dire nel descrivere tutto il ben
di Dio di Alessandria (…veramente lingua d’uomo non potrebbe contare la soavità loro). Sigoli
congettura che un frutto (musa) mai visto possa essere quello mangiato da Adamo. Tante parole
spese per le merci incontrate, con una descrizione oggettiva del luogo, che ci fa comprendere la
dimensione esotica dello stesso.
Ci troviamo in un medio oriente del XIV secolo: perché l’Asia tornasse a comunicare col mondo
occidentale era necessario che ci fosse un cambiamento politico del medio oriente islamico. Le
conoscenze che si avevano dell’Asia erano non determinanti di una reale esperienza, come quella
che invece dimostrano i pellegrini scrittori, vi erano solo dati astratti; l’ultima descrizione della
Cina era quella di Teofilatto Simocatta dal VII secolo d.C.
Lo scambio di merci o conoscenza non significa conoscere, per quello ci vuole l’esperienza. Lo
stesso Marco Polo (Venezia 1254 – Venezia 1324) è figlio di una cultura non abituata a
comunicare con l’alterità, ma metteva l’utile di fronte al pregiudizio, ed è possibile solo perché lui
in Asia ci ha viaggiato, anche se solo dopo la caduta di Baghdad. Lui era l’uomo giusto, al posto
giusto, al momento giusto.
Egli partì nel 1271 e tornò nel 1295: *vedi mappa del viaggio*
Da Venezia fino in Palestina, poi attraversa la Persia fino alla Cina, poi ritorna via mare attraverso
le Indie orientali.
Nel 1298 Marco Polo fu fatto prigioniero dai genovesi, dove conobbe lo scrittore pisano ma di
lingua francese Rusticano o Rustichello da Pisa: scriveva romanzi cavallereschi arturiani (corte di
re Artù) con determinate sfumature amorose. Marco polo dettava e Rustichello scriveva, e lo
redasse nella lingua a cui era abituato, ovvero il francese: le livre de le maraville du mond.
L’originale di Rusticano è perduto, ne sopravvivono copie diffuse su tutto il continente e tradotte in
varie lingue, ma non tutte le copie sono complete o coincidono. Il testo era tanto utile da venire
tradotto e reso leggibile, ma anche ridotto in base alle varie necessità. *Vedi stemma codicum*,
l’originale (O) da cui derivano due copie (apografi) anche queste scomparse (A e B), ne seguono
varie copie in diverse lingue (catalano, veneziano, latino, toscano, portoghese, castigliano…), per
capire che ciò che stiamo leggendo è solo la proiezione di un testo. (L’originale ha generato due
ceppi, che a loro volta hanno generato altro. Ci sono innumerevoli versioni, e sono diverse tra loro
perché in base a chi traduceva, venivano omessi dettagli non considerati importanti.) La versione
latina era per i predicatori: i frati francescani che erano stati in Cina ben prima dei Polo avevano
viaggiato fino all’India, Guglielmo di Rubruk nel 1253-55 aveva viaggiato fino al Karakorum, il
viaggio più distante mai compiuto allora, e l’opera di Marco Polo poteva essere utile per una
determinata orazione o evangelizzazione.
Il fatto che quest’opera fosse redatta da un romanziere finisce per ibridare la visione mercantesca
dell’autore con quella fantastica dello scrivano, tant’è che a volte il testo si connota con una totalità
stupita da primitivo: lo stupore è parte di questo genere letterario, per testimoniare il viaggio ci
vuole un certo registro. Si sta comunque parlando di un resoconto di viaggio, in cui il viaggiatore
cade nel registro dell’iperbolicità e la meraviglia, a prescindere dalla mano dello scrittore.
Per ricostruire un testo critico di questo tipo si fa più fatica; ogni testo che leggiamo è la proiezione
della tradizione, e come lo leggiamo noi oggi potrebbe essere molto distante rispetto a quello che
l’autore aveva in mente.
Nel testo la natura mercantesca deve emergere; la critica moderna dice che Marco Polo non guarda
al passato, ma cerca di offrire una descrizione del presente e di ciò che vede, che è lo stesso della
storiografia. Nell’opera non ci sono espliciti intenti storiografici, ma nell’opera ci sono barlumi di
storiografia in fatto piuttosto che in teoria, e non si esclude che siano depositari di elementi
paradigmatici dell’organizzazione del testo storiografico.
Viaggio del gattaio (altro testo mercantile non di Marco Polo per fare un paragone)
Dà indicazioni precise su luoghi e tempistiche, molto utili per i mercanti. In Marco Polo l’ossatura
era molto simile, ma la scrittura era molto meno arida. Il mercante ragiona in unità di misura *vedi
sul pdf le nozioni principali di questi testi, con esempi annessi*. Nozioni sulla sicurezza, sul tipo di
“governo”, sulla religione, sul commercio, i manufatti, eccetera…
L’impianto mercantesco si proietta nell’opera Poliana molto più dettagliata che nel resoconto del
viaggio del gattaio, secondo tutti questi punti evidenziati.
Il mercante disponeva di una propria cultura anche grafica: si sviluppa un genere di scrittura diverso
da quello delle cancellerie.
IL MILIONE di Marco Polo
Prologo: con un’allocuzione iniziale, troviamo uno stile da romanzo (“o voi…”); si rivolge ad un
pubblico alto, ma nel contesto di un’opera mercantesca la scelta di un pubblico alto non è casuale,
ma dettata da chi potrebbe avere interesse nella lettura di un’opera come questa. Dittologia posta a
iperbole “grandissime maraviglie e gran diversitadi” (ripetizione di un elemento, per generare
esagerazione in questo caso): qui entra in gioco il romanziere, con lo stupore e le meraviglie; in
questo caso la meraviglia è direttamente connessa con la diversità.
Il libro racconterà di Armenia, Persia, India… ordinatamente. Autore firmatosi in maniera
esplicita (come Poggibonsi), la cui rispettabilità viene ribadita dagli aggettivi, e racconta di cose che
ha visto di persona e cose che ha solo sentito da fonti certe, ma specificandolo, per dare sostanza
all’ordinatamente, e affinché il libro sia veritiero. Poi abbiamo una dichiarazione di originalità: dai
tempi di Adamo, non c’è stato nessuno che ha visto o cercato tante meraviglie del mondo come ha
fatto Marco Polo, motivo per cui questo testo ha avuto un successo enorme nella traduzione
manoscritta medievale. Nasce da dentro di sé l’idea di tradurre in opera letteraria l’esperienza
compiuta, con un fine didascalico, per chi non ha modo di vedere direttamente questo mondo
meraviglioso. Questo prologo mette già tutte le carte in tavola: riferimento al pubblico, motivi della
scrittura, meraviglia, organizzazione del testo da parte di un autore ben preciso e degno di fede,
proclama di originalità e scopo didattico e, infine, autodichiarazione di partecipazione alla stesura
dell’opera e dello scrittore (Rustichello).
Capitolo 16 (veridicità): diventa ambasciatore ufficiale, stette col Gran Kane 27 anni. Spiegazione
di Rustichello del perché Marco Polo è degno di fede, perché le ambascerie finiscono per diventare
sigillo di fede all’esperienza riportata, ed esprimere il numero di anni relativo al soggiorno di Marco
Polo presso l’imperatore serve a confermare la bontà di questo legame, per comunicare quante
informazioni che altri non sanno lui possedesse dalla sua posizione privilegiata.
Capitolo 21 (descrittivo): la grande Armenia. Lì si fa il miglior tessuto (“bucherame”) del mondo.
“Quivi à molte cittadi e castella e la più nobile è Arzinga, e àe arcivescovo; l’altre sono Arziron ed
Arzici”: Erzingan era un territorio popolato e militarmente attrezzato, e vi era l’arcivescovo, perciò
dotato di religione. Zona dove fanno la transumanza e d’inverno fa freddo gelido (nozioni di
carattere climatico). Questa è la terra dove si è arenata l’arca di Noè (stesso valore dei pellegrini a
Gerusalemme che visitavano i luoghi biblici dove era passato Gesù) e ospita comunità cristiane,
iacopini e nestariani. Vicino ai confini della Georgia c’è una fontana, dove esce così tanto olio che
potrebbero caricarlo 100 navi (unità di misura da mercante); non è olio da cucina ma da ardere, e
per quest’olio vengono persone da lontano: è un pozzo petrolifero superficiale. In un unico passo ci
sono un gran numero di informazioni eterogeneo: città importanti, la loro economia, il mercato, la
pastorizia, la religione e addirittura vengono individuate una serie di eresie.
Capitolo 22 (descrittivo): in Georgia. La prima cosa che viene detta è che i popoli giordani sono
sottoposti al Tartaro, ovvero a un tributo. “a tutti li re, che nascono in quella provincia, nasce uno
segno d’aquila sotto la spalla diritta”: per verificare l’autenticità dei re, basti controllare che
abbiano un’aquila sulla spalla; questa è la componente fiabesca d’altra penna. Hanno tratti
esteticamente graziosi, prodi guerrieri ma soprattutto arcieri, sono cristiani ortodossi, per gli Armeni
(citati in precedenza) la presenza di un arcivescovato indica che sono cattolici. Alessandro Magno
non riuscì ad insediarsi in queste terre (elemento mercantesco topico, a livello dei romanzi
alessandrini, dal momento che si parla della Georgia). Crux desperationis: simbolo posto dal
filologo per segnalare al lettore che qui qualcosa non torna. Sta cercando di spiegare che Alessandro
non è riuscito a passare perché da un lato ci sono le montagne, dall’altro il mare, e la strada era
molto stretta. “Quivi Alessandro fece fare una torre con grande fortezza […] chiamasi la porta del
ferro”: qui Alessandro fece costruire una fortezza chiamata “la porta del ferro”, dove si diceva
venissero rinchiusi i tartari, ma in realtà erano i cumani. Errore di interpretatio del francese tore
(porta) con torre. “[…] e questo è lo luogo che dice lo libro d’Alesandro, (riferimento a una fonte
storica) che dice che rinchiuse li Tartari dentro da le montagne; ma egli non furono Tartari ma
gente ch’anno nome Cumani…” = Notizia di carattere etnografico, qui abbiamo una prima crepa
della percezione del passato del medioevo che quantitativamente era considerato trascorso ma
qualitativamente non si percepivano differenze tra antichità e presente (= capacità di
discernere = senso anacronistico che ritroviamo in Polo). Qui riscontriamo la capacità di leggere il
testo con un occhio proto-umanistico, ovvero significa che la realtà, anche quella materiale, è
leggibile come se fosse una scrittura, il logos può essere interpretato con strumenti della filologia
basati sugli specifici ambiti tecnici necessari all’interpretazione. Nel medioevo mancava il senso
dell’anacronismo, ovvero discernere passato da presente non soltanto in maniera quantitativa, ma
qualitativa; uno di questi aspetti è chiaramente evincibile in dei passi di Dante, dove antichità e
presente di fatto vengono riconosciute come equipollenti: inizio CANTO XVII dell’Inferno
Virgilio si rivolge a Ulisse e Diomede in Mantovano o CANTO V del purgatorio in cui Virgilio e
Sordello si riconoscono per il dialetto Mantovano = non ci sono stati scarti nonostante il tempo
quantitativo scorso, come se la lingua non fosse cambiata. Questo stesso concetto lo ritroviamo in
arte: le rappresentazioni di popoli passati riflettono le tradizioni del presente.
La capacità di discernere il senso dell’anacronismo si comincia a vedere nell’umanesimo; il
medioevo era convinto che le lingue volgari derivassero biblicamente dalla confusio linguarium
(torre di Babele), e se si considera la bibbia da un punto di vista storiografico, esisteva una sola
lingua e un solo popolo, l’ebraico. Livello figurale: modo per leggere la storia: si intende la capacità
di ricollegare fatti del passato a fatti del presente, tale che gli episodi del passato si trasformino in
prefigurazioni incompiute e debbano adempiersi in un futuro ancora da occorrere; l’antichità non
aveva questo tipo di lettura, ma vi era una lettura astrale che si proiettava sull’agire umano. Questo
modo di leggere la storia è novità per una storia contemplata ciclicamente fin dall’antichità. Con
l’introduzione cristiana e del nuovo testamento che entra nella concezione temporale antica e
consequenzialmente storiografica, c’è una creazione e una fine, in una concezione escatologica:
un’idea di tempo lineare (ovvero c’è una creazione da dove inizia tutto e c’è l’apocalisse, ovvero la
fine). Gli eventi del passato incompiuti cercano compimento nel presente, e la profezia acquisisce
valore di carattere storiografico, di lettura del futuro attraverso il passato (come noi quando
affermiamo “la storia insegna”).
A livello figurale la torre di Babele si identifica con la panglossia pentecostale ovvero quando gli
apostoli vagavano per il mondo e parlavano tutte le lingue al fine di diffondere il messaggio
evangelico.
Significato figurale
= come ai tempi della torre di Babele si parlava una sola lingua ora gli apostoli possono finalmente
rifarlo. Tuttavia, a livello umano senza interferenze divine, i dotti, secondo Dante, erano giunti a
una costituzione di una lingua artificiale che ha valore universale ovvero il latino, usata per
mansioni di carattere amministrativo e politico. Il latino non era lingua naturale di nessuno ai tempi
di Dante, servirà l’età umanistica per arrivare a comprendere come il latino era stato la lingua
naturale dei romani che poi, corrotto da vari strati linguistici (popolazioni barbariche), aveva finito
per dar vita ai volgari nazionali ovvero le lingue neolatine = processo di volgarizzamento della
lingua.
Ecco come a un elemento linguistico venivano attribuiti caratteri storicogeografici. Qui incomincia
a cedere quell’equivalenza, quello rispecchiarsi nel passato che Dante rivendicava nel De vulgari
eloquentia.
 Occhio proto-umanistico (viene specificata l’informazione storica fin nei minimi
dettagli): quando Marco Polo in questo episodio ci dice che in tartari in passato lì non
c’erano, possiamo dire che qui vediamo un primo barlume di quel senso di anacronismo
che verrà sviluppato nei secoli successivi in età umanistica. Il senso dell’anacronismo da
solo non poteva svilupparsi: per trovare una sua ragione d’essere, doveva essere
accompagnato dalla necessità della prova materiale, che può essere anche una
testimonianza oculare come quelle che Marco Polo si sforza di elevare a unica fonte
accessibile a quel momento. Qui non c’è un’esplicitazione chiara della fonte, ma è
sottinteso che qualcosa che abbia innescato la consapevolezza, e quindi una fonte ci sia.
Fu di una modernità assoluta tantoché 50 anni dopo Giovanni Villani chiamerà i Galli,
francesi.

Come si è sviluppato questo senso anacronistico?


Peter Burke “The renaissence sense of the past” nel libro afferma la necessità della prova
materiale: “the awareness of evidence”, in Marco Polo non vi è specificata la fonte ma è sottinteso
che ce ne sia una in questo passaggio. La prova materiale è strettamente legata allo sviluppo di
questo senso dell’anacronismo.
Il pensiero critico di Polo che si riflette nel non dare per scontato l’attendibilità di determinate
affermazioni o concetti considerati noti all’epoca. Ne deriva la comparazione degli elementi
originaria di una sensibilità mercantesca. Questi aspetti di carattere comparativo si riflettono nella
descrizione dell’Asia: era un universo immaginario nella quale si proiettavano elementi fiabeschi,
che potevano portare ad equivochi. Un esempio è quello della Salamandra considerata dai bestiari
medievali una lucertola capace di sopravvivere al fuoco, smentita da Marco Polo nel suo viaggio in
Asia in cui si rende conto che era definito così l’amianto (una fibra metallica ignifuga) In Asia si
andavano a cercare i cinocefali, ovvero teste di cane. Lo stesso Guglielmo di Rubruk chiede di tutti
questi mostri, ma gli hanno risposto che non esiste nulla di simile: la testimonianza oculare
trasforma la conoscenza fino ad allora disponibile, diventando un fatto di carattere ermeneutico, la
verifica. La cosa che ci interessa maggiormente è di carattere zoologico: quando Polo descrive
l’unicorno, non corrisponde a quello a cui si era abituati a raffigurarsi: brutto, sporco, grigio, stava
in mezzo ai buoi e non è la ragazza che lo cattura, ma forse il contrario. Isidoro da Siviglia chiama
questo animale col giusto nome, ovvero rinoceronte, e da qui capiamo la causa dell’equivoco: il
rinoceronte veniva chiamato anche monoceros, ovvero unicorno. Albert Durer lo disegnerà
ispirandosi alla descrizione di Marco Polo nel 1515, e lo stesso Durer non ne ha avuto
testimonianza diretta, ma si è ispirato a illustrazioni provenienti dal Portogallo, dove era stato
spedito dalle Indie un rinoceronte.
Capitolo 23 descrittivo: del regno di Mosul. Marco Polo ci dice che ci sono diversi tipi di persone:
gli arabi, che adorano Maometto, e altri che sono cristiani ma non secondo la chiesa di Roma, i
nestoriani e i giacobiti. Hanno un loro patriarca, Iacolic, che si comporta come il papa a Roma. Tutti
i cristiani che si incontrano in quelle terre sono nestoriani e giacobiti (informazione utile per i
viaggiatori). Descrizione utile per i mercanti: di quelle terre sono dei tessuti detti mosolin, e i
mercanti che commerciano spezie sono ricchissimi e detti anch’essi mosolini. Ci fa presente che in
quel regno abitano anche i Curdi, in parte cristiani e in parte maomettani, descrivendoli come gente
feroce che deruba i mercanti.
Capitolo 46 religione: Balasciam. Vasto regno dove si adora Maometto e si parla una lingua
diversa dalle altre. Il potere è ereditario, e discende da Alessandro e la figlia di Dario, il grande re di
Persia. Tutti i re si chiameranno Zulcarnein, che vuol dire Alessandro in ricordo del grande re. In
quella regione si trovano delle pietre preziose che si chiamano balasci, e per averle si scava,
soprattutto nel monte Sighinan; però l’unico che ha diritto di estrarle è il re, e chiunque altro ci
provi viene ucciso. Il re le manda ad altri re, e valgono cari proprio perché è lui l’unico ad estrarle:
se altri avessero questo diritto, il valore delle pietre diminuirebbe. La regione è molto fredda, vi
nasce una razza di cavalli che sono forti corridori senza zoccoli ferrati, usati dagli uomini per
attraversare discese di monti altrimenti impossibili da affrontare. Si dice che fossero cavalli
discendenti da Bucefalo, il cavallo di Alessandro (falconi). Le città e i castelli stanno sulle
montagne in posizioni strategiche e imprendibili; l’aria sulla sommità delle montagne è così pura
che i malati standoci un paio di giorni guariscono (Rustichello ci dice che lo stesso Marco ha
provato). Gli uomini di Balascian hanno scarsità di tessuti, ed essendo abili cacciatori, si rivestono
con pelli di animali. Le dame si imbottiscono le braghe di bambagia perché ai loro uomini
piacciono le donne in carne.
Capitolo 61 idolatria: la città di Campciu. Nobile e vastissima, è la capitale del Tangut; gli abitanti
sono idolatri in parte maomettani, ma vi sono anche cristiani, e posseggono tre grandi chiese. Tutti i
monasteri e le abbazie sono riccamente ornati e pieni di idoli giganti, statue, anche circondate da
statuette di idoli più piccole. Qui Marco Polo ci dà una spiegazione sugli idolatri: vivono più
onestamente degli altri abitanti, rispettando regole, digiuni e fioretti. Come noi abbiamo la divisione
in mesi loro hanno le lunazioni, e in certe lunazioni vi sono cinque giorni dove non uccidono
animali e vivono più onestamente del consueto. Possono avere fino a 30 mogli, però la prima è la
più considerata. Per noi, loro vivono come bestie, e non considerano peccato ciò che per noi è
peccato grave.
Capitolo 69 religione: il dio dei tartari. Hanno un dio che chiamano Natigai, ed è un dio a cui sono
molto devoti, tanto da averne un simulacro in casa, e prima di mangiare usano spargere del brodo
nella bocca della statua, e metterne un po’ furi dalla porta, in modo da averne dato al dio e alla sua
famiglia e solo dopo cominciano a mangiare; bevono latte di giumenta, ma sembra vino bianco e lo
chiamano chemis. I ricchi hanno abiti sontuosi d’oro e di seta, pellicce di ermellini e volpi; le loro
armi sono soprattutto archi, perché sono degli arcieri eccellenti. Le loro armature sono di cuoio di
bufalo e sono impenetrabili. Uomini fortissimi e feroci, sono così spericolati da far sembrare che
stimano poco la loro vita: non esiste esercito al mondo che costi meno e che sia così resistente e
adatto alla conquista. L’esercito ha seguente forma gerarchica: c’è un capo supremo, che comunica
solo con gli altri dieci comandanti principali. Ciascuno ha il suo comandante al quale obbedire; per
dire centomila dicono un tuc, e per diecimila un tomano. Per un’azione di guerra, le truppe (oste) si
fanno procedere a 200 esploratori, e altrettanti ai lati e dietro, per non farsi mai cogliere di sorpresa.
Per vincere una battaglia, cavalcano intorno al nemico, spostandosi velocemente con i loro cavalli
che sono addestrati come cani. Fingono di essere in piena fuga per convincere il nemico di stare
vincendo, e poi lo colgono di sorpresa. La giustizia è amministrata così: per un piccolo furto per il
quale la pena di morte è eccessiva, è condannato ad un determinato numero di bastonate (7,17,27…
fino a 107) in base al valore del furto, ma comunque non era raro che si morisse per le troppe
bastonate. Per i furti più importanti che meritavano la pena di morte (come un cavallo) venivano
tagliati a pezzi con la spada; se però potevi pagare fino a nove volte, scampavi alla morte. Un’altra
strana usanza dei tartari è che se a un padre muore un bimbo piccolo e un altro una bimba, fanno
sposare i figlioli morti, e bruciano il contratto così che arrivi ai loro spiriti. Fanno una vera e propria
cerimonia di nozze, e le famiglie si considerano parenti come se i figli fossero vivi.
Capitolo 73 prete Gianni: Viene introdotta questa figura di Preste Giovanni (o preste Gianni),
risalente al secolo delle crociate (X-XI) dove si tentava di trovare alleati contro i Califfati Islamici
che potessero aiutare i cristiani in queste imprese. Si vociferava di questa figura di principe cristiano
in una parte indefinita dell’Asia detto appunto Preste. Nel 1165 giunge una falsa lettera in Europa
da parte di prete Gianni, dove si sancisce la volontà di questo prete di aiutare a liberare il santo
sepolcro, redatta però sicuramente dalla corte di Barbarossa. Un altro falso non riconosciuto è la
donazione di Costantino (X sec. d.C.) quel documento fondativo per cui grazie alla donazione di
terre fatte dall’Imperatore Costantino a Papa Silvestro nel IV sec. d. C. la chiesa poté affermare le
proprie pretese culturali. Fu smentito da Lorenzo Valla nel XV sec. Il medioevo finisce per ritenere
veritiera una fonte chiaramente forgiata; nel medioevo, ciò che non viene riconosciuto falso, viene
automaticamente dato per vero. La lettera infatti risultava credibile, poiché il falsario ha sempre la
pretesa di fare qualcosa di vero, ma si finisce per avere nel novero delle fonti un documento
considerato accettabile. Nel 1177, sette anni dopo l’invio della fantomatica lettera, papa Alessandro
III manda un’ambasceria alla ricerca di questo prete.
Tenduc è una provincia che si trova a oriente, militarmente attrezzata, sottoposti ai mongoli (Gran
Kane)e discendenti del prete Gianni “E de questa provincia è re uno discendente de legnaggio del
Preste Giovanni e ancora si è Preste Gianni, e suo nome sì è Giorgio”: Polo riconosce o almeno
prova la discendenza e l’esistenza di questo prete per cui il suo nome diventa un titolo (come Cesare
= i cesari) tramite il processo di elevazione a titolo di una normale figura, infatti ci dice che quello
in carica attualmente si chiama Giorgio.“Eh sì vi dico che tuttavia lo Grande Kane à date di sue
figliuole e de sue parenti a quello re discendente del Preste Gianni”: Giorgio, l’attuale preste, è
imparentato con i mongoli.
“La terra tengono li cristiani, ma e’ v’à degl’idoli e di quelli ch’adorano Maccometo”: convivenza
di popoli cristiani e musulmani.
Ma è Marco Polo a intervenire sulla narrazione e riportare la fonte esatta o questo passaggio è
mediato da Rustichello? Ce ne dà testimonianza “Il novellino”, nelle prime pagine racconta
dell’ambasceria mandata dal presto Giovanni all’imperatore Federico II. Narrazione e realtà si
compenetrano. In Polo non ritroviamo questo tentativo di tenere l’autorità, la credibilità del
pensiero intatto. Al contrario smonta le certezze e le rinnova con fonti materiali =
ANTICIPAZIONE DEL PENSIERO SCIENTIFICO = tentativo di riportare all’unità la fonte e
l’esperienza. A noi interessa il ragionamento fatto: un re cristiano in centro Asia che si chiama
Giorgio, possibile si tratti del prete Gianni che dicevamo? Il prete Gianni è una figura che entra
nella novellistica, quindi è un punto delicato.
Capitolo 112 mercatura: provincia di Anbalet Mangi. Gli abitanti sono idolatri, e vivono da
mercanti; commercio di zenzero, riso, grano e altre biade (cereali).
*Leggi il file che parla della meraviglia nel milione*
Capitolo 148 meraviglioso: descrizione della città di Quinsai, dove il descrittivo si mescola al
meraviglioso applicato all’urbanistica. Non sono cristiani e sono sudditi del Kane; hanno una
moneta di carta (elemento finanziario importante). “Egli hanno da vivere ciò che bisogna a corpo
de l’omo”: c’è tutto quello che serve nella città. In francese Quinsai significa città del cielo
(abbiamo solo questa traduzione perché Rustichello che scrive aveva come lingua madre il
francese). “Sopranobile” città, superlativo triplicato nella frase successiva “che è la più nobile” “E
conteròvi di sua nobiltà, però ch’è la più nobile città del mondo e la migliore”: ci prepara alle
meraviglie che affronteremo in questa città, questo aggettivo nobile ripetuto nel testo viene
triplicato varie volte all’interno del testo secondo un’andatura ritmata. Successivamente spiega che
mandarono una lettera al Gran Kane per evitare che radesse al suolo una città così bella. Dice
ancora “vi conterò per ordine” come nel prologo, per raccontare il contenuto di una lettera che era
stata inviata per descrivere la città, e l’ha pure vista con i suoi occhi; “tutto è vero ch’io Marco la
vidi poscia (in seguito) con i miei occhi”: non solo descrive un elemento ufficiale ma ne ha avuto
pure la prova materiale. Informazioni sulla misura della circonferenza della città, è circondata
d’acqua e possiede tanti ponti (12000, ci dà il numero preciso), comunicandoci che sotto i ponti
passano le navi; Marco fa questa descrizione precisa perché la città ricorda molto Venezia: questo
passaggio ci dice qualcosa sia su chi leggeva che su chi scriveva. La città è molto industriosa, ogni
bottega ha almeno 10 uomini: elemento importante per i mercanti che sanno che è una città che
produce e che ha bisogno di materiali, e quindi di esportare e di importare. I capi delle botteghe non
fanno nulla, i dipendenti fanno tutto per loro, e stanno lì come fossero re, e le donne come fossero
cose angeliche: lettura poetica di Rustichello, risponde allo stile del tempo, è innegabile l’influenza
Dantesca (Dante pubblica la Vita Nova in quegli anni) e dello Stil Novo.
DANTE ALIGHIERI: la sua visione d’oriente
Dante a differenza dei pellegrini e Marco Polo, è un viaggiatore suo malgrado in quando fu
costretto a pellegrinare senza un’effettiva patria dopo l’esilio del 1301, però viaggia quasi
esclusivamente in Italia. Si ipotizza che in gioventù abbia condotto un viaggio in Francia, anche se
non vi sono prove. Le visioni d’oriente di Dante sono erudite e finalizzate ai suoi interessi di uomo
intellettuale e di scrittore; non c’è quella spinta descrittiva che descriveva un mondo ignoto filtrato
dagli occhi di un mercante come in Marco Polo, o descrivere un oriente distante come quello
raccontato dai pellegrini in Terra Santa. A Dante le descrizioni dell’oriente servono ad affrontare i
suoi quesiti, ed è quindi una conoscenza indiretta, limitata ad un manipolo di fonti eruditissime,
quasi tutte dell’ambito arabo e giudaico, e non frutto di una testimonianza diretta. Le fonti delle
opere le leggeva in traduzione, e questo significa che la traduzione influisce enormemente sulla
comprensione.
La possibilità per Dante di accedere all’universo orientale non poteva avvenire senza una sorta di
rinascimento culturale in Spagna: i domini arabi dopo le prime espansioni si avvicinano alla
Spagna, e vedremo che l’approssimarsi degli eserciti arabi verso il fiume Ebro diede vita alla florida
letteratura cavalleresca. la possibilità di Dante di accedere all’universo orientale tramite traduzioni
latine non poteva avvenire senza il rinascimento culturale avvenuto in Spagna (colonizzazione
araba che diede anche vita alla letteratura cavalleresca).
Dal 1085 ovvero l’anno della presa di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia che i rapporti
con l’Oriente si moltiplicano perché è qui che inizierà il processo di traduzione in latino di testi
arabi (è grazie a ciò che i testi greci, prevalentemente già tradotti in arabo, si diffondono in Italia).
Tracce di queste traduzioni, ad esempio astronomiche, sopravvivono nelle opere di Dante che
trattano di astronomia, come il Convivio, ma anche nella divina commedia stessa, e anche dal punto
di vista filosofico (es. Avicenna e Averroè, commentatore di Aristotele) si finiva per congiungere
elementi filosofici e teologici cristiani con elementi filosofici e teologici orientali, Beatrice stessa
viene spesso spiegata come allegoria dell’intelligenza attiva: lettura averroistica, non è definita
come intelligenza passiva che processa le informazioni che provengono dall’esterno ma come
intelligenza attiva capace di estrarre queste stesse informazioni e di teorizzarle. Nei seguenti
capitoli si convogliano questi aspetti. Dante è geniale nell’applicazione di certe dinamiche
storiografiche alla realtà che aveva davanti.
Questi scrittori vengono tutti menzionati nel IV canto dell’inferno, quello del limbo, dove vi sono
tutti i morti prima dell’avvento di Cristo. Nel canto 28 dell’inferno Dante incontra Maometto, ed è
un canto disgustoso in certi momenti, ma importante per comprendere alcune declinazioni del
pensiero dantesco per l’islam: è il canto dove vi sono i seminatori di discordie, anche per la
religione, e il fatto che ci sia Maometto ci fa capire i suoi pensieri. Vedremo anche il canto 31
dell’inferno, che è un canto di transizione in cui si narra il passaggio dalla fine delle male bolge,
all’ultima sezione dell’inferno, il cocito. Vi è un gigante che ci interessa, che è l’architetto della
torre di Babele che ha causato la confusione delle lingue.
LA QUESTIONE LINGUISTICA (De Vulgari Eloquentia e Divina Commedia)
Il primo uomo ad avere capacità di parola è Adamo, Dante si interroga su quale sia stata la sua
prima parola. Inizialmente nel De Vulgari Eloquentia suppone dica “El” ovvero Dio, in quanto non
aveva un interlocutore fisicamente presente ma esisteva la possibilità di comunicare spiritualmente.
Successivamente nella Commedia, nel XXVIesimo canto del Paradiso, cambia idea e quando Dante
incontra Adamo egli afferma di aver pronunciato “I”. Questo perché al tempo del De Vulgari
credeva che l’ebraico fosse una lingua perfetta quindi come tale divina ed immutabile, non capace
di essere soggetta alle variabili diatopiche, diacroniche e diastratiche: la lingua cambia in base al
luogo, al tempo e a chi la parla.
Ma come si creano le lingue?
Dante attua la prima effettiva contemplazione del volgare come evoluzione dall’ebraico a causa di
un fatto storico (la torre di babele).
La Bibbia è in accordo con la Teodicea (ovvero l’applicazione della giustizia divina in terra = la
giustizia dike divina theos) che punì Membrot per la sua tracotanza, dalla torre di Babele ne
sarebbero conseguiti i volgari nazionali. Il latino considerata da Dante “grammatica” ovvero
lingua artificiale, che poteva essere parlata e compresa da tutti senza rappresentare nessuna
nazione e che avrebbe dovuto mettere ordine nelle differenze. Questa considerazione del latino
come lingua artificiale rifletteva la sua idea politica rispecchiata nell’Impero romano e sacro sotto il
quale Cristo era nato.
Dante si rende conto che al suo tempo il latino non era la lingua madre di nessuno (XXXIIesimo
canto dell’Inferno “né da lingua che chiami mamma o babbo”) nonostante venga usata in tutti gli
ambiti più alti della società. Era una lingua che si apprendeva tramite lo studio con lo scopo di
mettere ordine nelle differenze, per la necessità di comprensione. La lingua è un mezzo serve alle
esigenze del tempo, per questo si afferma il volgare, perché la lingua latina non era più in grado di
rispecchiare e abbracciare la realtà come un tempo.
Dante poi suppone che l’impero romano, tanto quanto la chiesa di Roma, è un’istituzione
provvidenziale, perché fa sì che grazie alle leggi si creasse una condizione di giustizia in terra, sotto
la quale era possibile far scendere il figlio di Dio fra gli esseri umani: secondo l’interpretazione
dantesca il figlio di Dio nasce durante la pax augustea. Se noi incrociamo questa visione politica
con la visione linguistica, noi sappiamo che nell’impero romano si parlava e scriveva latino, ma per
natura non lo parlava nessuno; Dante è convinto che il latino di Virgilio fosse uguale al latino
medievale. La grammatica intesa come latino astratto corrisponde all’istituzione di una monarchia
universale con il proposito analogo di mettere ordine nel disordine.
DE VULGARI ELOQUENTIAE libro I cap.VII
(1-2) Per prima prevaricazione intende il peccato originale. Nonostante la cacciata dal paradiso e il
diluvio universale, l’umanità continua a peccare di tracotanza con la creazione della Torre di
Babele.
(3-4) “Così l'uomo, inguaribile, presunse in cuor suo, sotto l'istigazione del gigante Nembròt, di
superare con la sua tecnica non solo la natura ma lo stesso naturante, che è Dio, e cominciò a
costruire una torre nella zona di Sennaar, che poi fu chiamata Babele (cioè “confusione”), con la
quale sperava di dar la scalata al cielo, nell'incosciente intenzione non di eguagliare, ma di
superare il suo Fattore. O sconfinata clemenza del regno celeste!” In questo caso l’etimologia di
Babele riportata da Dante è erronea.
(5) Nonostante i ripetitivi errori umani, secondo Dante Dio è “non ostile ma paterno” le cui
punizioni hanno carattere educativo.
(6) “[…] quando furono colpiti dall'alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si
dedicavano all'impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine
di lingue dovettero rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un'attività comune.”
(7) “Infatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua […]
Quanto più eccellente era il lavoro svolto, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano.”
Quest’ultimo denota un criterio estetico, poiché si concentrano sul lavorare e non sul parlare, la
lingua di questi è rozza e barbara. Alla sofisticazione di coloro i quali ricoprivano un determinato
ruolo corrisponde un idioma parlato. Non tutte le lingue sono uguali, la differenza la fa chi le usa, e
per fare una lingua bella sta a noi metterci mano.
(8) “Ma coloro a cui rimase la lingua sacra non erano presenti ai lavori né li lodavano, anzi li
esecravano severamente, deridendo la stoltezza degli addetti. Questa piccolissima parte –
piccolissima quanto a numero – fu, secondo la mia congettura, della stirpe di Sem, il terzo figlio di
Noè: da essa ebbe appunto origine il popolo d'Israele, che si servì di quell'antichissima lingua fino
alla sua dispersione.” Noè aveva tre figli: Cam (Africa), Sem (Asia) e Jafet (Europa). La
dispersione avvenne nel I sec. d.C. a opera di Tito. Gli unici a cui rimase la lingua sacra (l’ebraico)
erano coloro che non solo non partecipavano ai lavori, ma li schernivano.
DIVINA COMMEDIA
Inferno, canto 31: (canto di transizione dove si narra il passaggio dalla fine delle male bolgie al
cocito ovvero la parte più profonda dell’inferno)
Alla fine delle male bolge, Virgilio rimprovera Dante per essersi fatto ammaliare da una rissa fra
due dannati: “una medesma lingua pria mi morse” (venire rimproverato). Dante addirittura
arrossisce perché si vergogna della sua azione. Voltano le spalle alle male bolge e si avviano ad
attraversare la riva intorno in totale silenzio. Non era né notte né giorno, con una penombra
crepuscolare. Dante passa dal campo semantico della vista a quello dell’udito: non vede nulla, non
riesce a distinguere gli oggetti, ma ad un certo punto sente un suono di tromba che avrebbe fatto
sembrare il suono di un tuono piano. Dante sposta la testa verso l’origine del suono, in un gesto
mimeticissimo. “Quiv'era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; ma
io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via
seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.” A Dante viene in mente un episodio della
chanson de roland, e paragona il suono del corno appena sentito con il corno suonato da Orlando
prima di morire per chiamare i rinforzi in battaglia. Dante pensa di stare vedendo delle torri in
lontananza, e chiede a Virgilio cosa ci sia lì, e Virgilio gli risponde che dato che è troppo lontano da
ciò che sta guardando e molto buio, rischia di confondere ciò che vede, ma appena si avvicinerà al
luogo che sta osservando si accorgerà di quanto sta sbagliando, poiché ciò che vede non sono torri,
ma giganti; Virgilio lo prende per mano, pure come succedeva nel III canto, un gesto paterno.
Questi giganti sono sottoterra dall’ombelico in giù, quindi spunta solo il loro busto. Nonostante
Virgilio lo avesse avvertito, quando la nebbia si dissipa (vv.33-39) e Dante vede i giganti, si
spaventa comunque.
vv.40-44: l’immagine che crea Dante è quella di un muro a forma di cerchio, formato dagli orribili
giganti.
vv.45-47: riusciva a scorgere già dei giganti, e descrive più da vicino cosa vede.
vv.48-57: è una digressione, attracco quasi filosofico. La natura è creatrice, artefice; quando la
natura smise di creare tali creature, fece molto bene, soprattutto per sottrarre gente che avrebbe fatto
fin troppo bene la guerra, formidabili soldati (toglie tali persecutori a Marte). Non si è pentita la
natura degli elefanti e di balene, perché quando si aggiunge alla potenza bruta anche la coscienza
umana e il ragionamento con volontà malvagia (quasi Schopenhauer), farebbero del male con
volontà sistematica, e non si lascia scampo. Tre terzine di digressione.
vv.58-65: finalmente Dante ci descrive come è fatto il gigante. La faccia gli sembrava lunga e
grossa come la pigna (pina) di San Pietro a Roma, e tutto il resto era in proporzione. Dalla terra che
copriva la parte inferiore, mostrava dalla terra fino al collo quello che avrebbero potuto raggiungere
a malapena tre frisoni (tre persone altissime dalla Frisa), e dalla spalla all’ombelico c’erano trenta
palmi. Quando nel canto 34 nel v. 30 si parla di Lucifero, egli spunta dalla terra ghiacciata, e Dante
afferma che lui stesso sia più proporzionato a uno dei giganti incontrati in precedenza, rispetto a
quanto un braccio di uno di quei giganti stessi sia proporzionato a Lucifero.
vv.66-80: nel momento in cui il gigante si accorge di loro, urla delle parole che sembrano non avere
senso (Raphèl mai amécche zabi almi), riecheggiano nei suoni delle lingue orientali, simile a come
gridava Pluto nel canto VII, versi indecifrabili, ma anche come i nomi dei diavoli; è una cosa fatta a
orecchio da Dante, dato che effettivamente lingue orientali non ne conosceva. Ma a differenza delle
altre vocazioni, qui ha un senso, perché il gigante dovrebbe essere Nembròt, e nel contrappasso
dantesco finisce per parlare una lingua che non capisce nessuno (bocca cui non si convenia più
dolci salmi). Virgilio gli dice di cercare il corno che ha legato al collo, chiamandolo anima confusa,
e di usarlo per sfogarsi. Poi si rivolge a Dante, dicendogli che lui si fa esplicito del suo stesso
peccato parlando così, e lo presenta a Dante come Nembròt, affermando di lasciarlo stare (non
parliamo a vuoto), non perdendo tempo, perché come a loro il suo linguaggio è sconosciuto, anche
tutti gli altri linguaggi sono sconosciuti a lui.
vv.81-90: procedendo verso sinistra, vedono un secondo gigante ancora più feroce, bestiale e
grande. Si sta per descrivere Efiante, con una descrizione che però è problematica: il gigante è
legato da una catena fatta non si sa da quale artigiano, ma gli teneva il braccio sinistro avanti e
dietro il braccio destro: una posizione strana. Nell’Escatologia islamica in Dante scritto nel 1919
di Asin Palacios afferma che in oscuri testi di mistica islamica il diavolo (Iblis) viene ritratto in
questo modo: braccio sinistro avanti e braccio destro dietro; potrebbe essere una coincidenza, però
l’immaginario è talmente preciso che si viene da chiedersi dove Dante abbia acquisito questa
informazione. L’arabistica a Firenze non era conosciuta, fin quando non è stata ritrovata
documentazione che riferisce alla lettura del libro della scala, testo escatologico islamico che
racconta l’ascesa al paradiso e all’inferno di Maometto, che verrà poi citato nel “Dittamondo” di
Fazio degli Uberti, che scrive quest’opera in terzine dantesche descrivendo questo viaggio in una
dimensione ultraterrena, che a differenza della commedia finisce ad essere un’opera di carattere
enciclopedico. Dentro il libro della scala non c’è alcun riferimento a Iblis, il Lucifero islamico, però
quanto meno testimonia l’accesso ad una determinata letteratura in un periodo non lontano da
quello dantesco. Ovviamente questo libro arriva in Italia in volgare, quindi stiamo considerando la
possibilità che certe immagini possano essere sfuggite e non sappiamo oggi, perché la coincidenza è
troppo precisa. Ciò dichiara però la circolazione di testi di mistica islamica anche a Firenze (a
Venezia già si parlava l'arabo a scopi commerciali). Ne accertano l’esistenza almeno dopo un paio
di decenni dall’esilio dantesco, ma questo libro testimonia l’accesso e la circolazione dei testi
islamici. Certe immagini dantesche possono essere derivate da fonti a noi ignote soprattutto per le
descrizioni strettamente dettagliate. Aspetti dell’oltretomba islamico: corpi giganti secondo cui la
grandezza corporale corrisponde alla grandezza della sofferenza.
vv.91-110: Virgilio dice che Efiante ha voluto sperimentare la sua forza contro Dio, e che qui ha la
giusta ricompensa; per contrappasso, lui non può muovere le braccia perché le aveva usate nella
battaglia. Dante vorrebbe vedere Briareo, ma Virgilio gli dice che in realtà vedranno Anteo, gigante
ucciso da Ercole; lui non è incatenato, e li porterà nel cocito. Briareo è molto più lontano, ed è
legato come Efiante, e tanto più mostruoso. A quel punto Efiante dà una scossa così forte da
sembrare un terremoto (gesto rubesto), e Dante si spaventa così tanto da temere la morte, se solo
non fosse stato legato.
vv.111-134: più avanti trovano Anteo, e Virgilio si rivolge a lui con un vocativo, celebrandone le
doti: per descrivere la sua provenienza usa una perifrasi di due versi (tu che vieni dalla valle…).
Molto diverso da come si era rivolto a Nembròt; gli chiede di guidarli al cocito, facendo la richiesta
di non farli andare da altri giganti, perché Dante può dare ad Anteo la gloria poetica: l’omissione di
qualcuno equivale a portarlo all’oblio. Allora lui li prende, e li porta sulla sua mano: Dante e
Virgilio sono tutt’uno, anche a livello metapoetico (un fascio era elli e io).
vv.135-145: una volta che Dante e Virgilio diventano tutt’uno, avviene il transito. Dante dà ancora
una volta una descrizione mimetica della realtà: mentre Anteo si china, Dante ha l’impressione di
vedere la Carisenda (torre di Bologna) mangiata dalle nuvole, avendo un’impressione di instabilità,
e pensa che lui avrebbe fatto un’altra strada. Finora abbiamo avuto solo rime piane (accento sulla
penultima sillaba), ma il canto finisce con una rima tronca (sposò…si levò).
Perché proprio i giganti, figure mitologiche pagane, in un passaggio come questo? Dante lo spiega
implicitamente, essi nella mitologia pagana si ribellano agli dei e vengono scagliati giù dal monte;
c’è una sorta di prefigurazione del male assoluto. Ma in questo caso, ci ricolleghiamo a Nembròt,
della torre di Babele: nascita di tutti i volgari provenienti dal mondo biblico. Eguaglia la stessa
azione che i giganti pagani fecero, ovvero il voler usurpare il trono di Zeus.
DITTAMONDO di Fazio degli Uberti – Qui viene citato il Libro della Scala e Maometto

Macometto: – Quanto fia la vittoria


de l’arme, in noi la legge de’ durare.
E quanto durerá la nostra gloria
nei beni temporal, tanto, per fermo,
lucerá chiara la nostra memoria. 75
Non son mandato al mondo col mio sermo
a far miracol, ma venni in virtute
de l’arme e queste usate a vostro schermo –.
E cosí mostra ch’ogni sua salute
ne l’arme fosse e nei ben temporali 80
e che l’altre vertú li fosson mute.
Ancora afferma lor, tra gli altri mali,
che ’n paradiso son molti giardini
pieni dei ben del mondo e spiritali,
e che di latte, di mèle e di vini 85
fiumi si truova e chiare fontanelle,
fiori per tutto e canti dolci e fini,
donne con ricche veste, accorte e belle,
e giovinetti di gentili aspetti
con vergognose e vezzose donzelle. 90
E tutte queste cose a’ lor diletti
dice che usar potranno cosí, come
nel mondo fanno, e seran lor suggetti.

Banalizzazione dell’escatologia e della mistica islamica e del Paradiso islamico, di cui egli aveva
una conoscenza limitata anche dal punto di vista teologico. Descrive il Paradiso islamico come
una riproposizione di beni mondani.
Ancor nel libro suo, che Scala ha nome, Ancora nel suo libro denominato Scala
dove l’ordine pon del mangiar loro, 95 pone l’ordine del mangiare (definisce un regime
divisa e scrive qui ogni buon pome. alimentare, tipico delle religioni monoteiste)
Vasellamenti d’ariento e d’oro,
dilicate vivande e dolci stima
su per le mense, ove faran dimoro.
De le vivande, dice che la prima 100
iecur, fegato, è e pesce apresso,
poi albebut, che d’ogni cibo è cima.
Or puoi veder, se noti fra te stesso,
che Macometto in ogni sua parola Secondo Fazio avrebbe mondanizzato i premi
beatitudo pone che sia espresso 105 spirituali che invece il cristianesimo avrebbe
nel vizio di lussuria e de la gola”. concesso a coloro che avrebbero perseguito il messaggio

Nella descrizione delle credenze islamiche, egli si basa esclusivamente su una fonte di carattere
popolare e afferma che questa fede sia fondata sul materialismo peccaminoso.

PARADISO CANTO XXVI in cui Dante incontra Adamo (v.124-138) Dante gli chiede che lingua
si parlasse al suo tempo, e Adamo gli dice che la lingua che lui parlava è tutta spenta.
La lingua ch’io parlai fu tutta spenta La lingua che io parlai era già scomparsa innanzi
che a l’ovra inconsummabile prima che la gente di Nembrot si dedicasse
fosse la gente di Nembròt attenta: 126 all’opera che non poteva essere completata:

ché nullo effetto mai razïonabile, Infatti ogni cosa umana, compresa la lingua
per lo piacere uman che rinovella non è mai duratura a causa del piacere umano,
seguendo il cielo, sempre fu durabile.129 che cambia in base al tempo (seguendo il cielo).

Opera naturale è ch'uom favella; L’uomo parla per natura ma poi sta all’uomo
ma così o così, natura lascia usare questo dono come meglio può.
poi fare a voi secondo che v'abbella.132

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, Prima che io scendessi nel limbo
I s’appellava in terra il sommo bene “I” era chiamato in terra Dio
onde vien la letizia che mi fascia;135 da cui proviene la gioia che mi avvolge;

e El si chiamò poi: e ciò convene, Venne poi chiamato “El”


ché l’uso d’i mortali è come fronda secondo l’uso degli uomini che muta come
in ramo, che sen va e altra vene.138 la foglia sul ramo (ripresa delle foglie di Omero)

IV CANTO DELL’INFERNO (ovvero il canto del Limbo - morti prima dell’avvento di Cristo)
Qui vengono descritti alcuni letterati e filosofi che ci danno un canone delle letture dantesche.
Siamo all’inferno, ma non in area di punizione, a seguito dell’ingresso della porta infernale. Dante
vi approda incosciente, perché nel III canto era svenuto guardando gli ignavi picchiati da Caronte.
vv.1-6: Dante si risveglia, riscosso da un “greve truono”, collegato al terremoto del canto
precedente.
vv.7-12: era così buio che non si distingueva cosa ci fosse dentro
vv.13-24: Virgilio dice a Dante di seguirlo e di affidarsi a lui, ma Dante gli domanda come può
affidarsi a lui se percepisce la sua paura? Dante ancora non sa che Virgilio fa parte di questa parte
dell’inferno, e quindi le sue emozioni sono in subbuglio per questo, per l’empatia nei confronti dei
suoi compagni, il suo pallore erroneamente scambiato per paura da Dante.
vv.25-27: impedendo l’oscurità di usare la vista, Dante si affida al senso dell’udito. Non c’erano
pianti e strepiti come nel III canto, ma solo sospiri, che si ricollegano alla sensazione di Virgilio di
prima, ovvero l’angoscia (ansia) delle genti.
vv.28-42: questi sospiri erano senza punizioni corporali, c’erano masse di persone giovani, donne
uomini e bambini. Virgilio spiega chi sono: sono spiriti che non hanno compiuto peccati, ma
nonostante ciò non basta, perché non hanno ricevuto il battesimo o addirittura sono nati prima della
nascita del battesimo, e tra questi c’era Virgilio stesso; per queste mancanze, e non per altro
peccato, sono perduti, e vivono la loro punizione nel desiderio di essere salvati, ma senza la
speranza di poterlo essere davvero. Questo torna nel III canto del purgatorio, in particolare
nell’antipurgatorio dove Virgilio dice a Dante che stava indugiando “matto chi spera che la
ragione… e rimase turbato”; qui Virgilio parla di sé stesso: il ben far non basta, ci vuole la fede, ed
è folle chi spera che la razionalità possa abbracciare l’infinito e il miracolo della trinità.
vv.43-45: Dante si dispiace che queste anime sono sospese in questo limbo (la parola limbo nel XIII
sec. non era ancora conosciuta, nonostante dove finissero i non battezzati fosse un problema che i
teologi si ponevano; il limbo è una parte della dimensione oltremondana coranica, e nell’oltretomba
islamico ha una duplice connotazione, tanto infernale quanto paradisiaca: muraglia che divide
l’inferno dal paradiso, o luogo in cui i credenti cui le opere di bene sono eguali a quelle negative,
attendono che Allah decida la loro sorte. Non c’è prova che connetta Dante con questa
informazione, ma il limbo come luogo di desiderio non è un elemento appartenente alla teologia
cristiana, e trova questa coincidenza con la teologia musulmana).
vv.46-63: Dante chiede se qualcuno sia mai uscito da quel limbo, e Virgilio risponde che lui era
arrivato da poco quando è venuto Cristo con la palma; Cristo va nel limbo, prende alcuni spiriti e se
li porta in paradiso, ma solo quelli che credevano in lui anche prima del suo avvento (Adamo,
Abramo, Davide, Mosè, Noè, Rachele) e a parte loro nessun altro spirito umano è stato salvato.
vv.64-93: Dante comincia a vedere una luce nelle tenebre, ovvero la luce della ragione. Dante si
rivolge a Virgilio come colui che onora scienza ed arte, chiedendogli chi sono coloro che hanno
tanto onore da separarli dal resto degli spiriti, e Virgilio risponde che il loro nome risuona nella vita
mondana (suo presente). Una voce si sente che dice “onorate…” parlando di Virgilio. Quarta volta
che c’è la parola “onore”. C’è Omero, poeta sovrano, Orazio, Ovidio e Lucano. Ciascuno conviene
con Virgilio quel nome che i quattro hanno evocato (altissimo poeta) lo onorano, e fanno bene,
perché onorano essi stessi come altissimi poeti.
vv.94-102: metafora della poesia come uccello (aquila vola). Si riuniscono insieme, parlano tra di
loro, e fanno a Dante un gesto di saluto: Virgilio sorride tanto, e Dante è onorato di essere invitato a
unirsi alla bella scola di questi poeti classici, i cinque diventano sei.
vv.103-111: si riuniscono attorno al fuoco e conversano fino all’alba. Arrivano ai piedi di un
castello circondato da sette cerchi di mura (riferimento al corano), con attorno un fiume; entrando
giungono in un prato, metafora dei piaceri terreni (anche Petrarca scriveva del prato verde, ma di
fare attenzione perché tra l’erba e i fiori giace una serpe).
vv.112-120: in questo prato c’erano persone “con occhi tardi e gravi”. Parlavano poco e sempre in
maniera profonda. Poi cercano di raggiungere un luogo sopraelevato per scorgerli tutti; Dante si
rispecchia negli “spiriti magni”, ovvero anime grandi, e si eleva nuovamente, dopo essersi già
riconosciuto in mezzo ai grandi poeti.
vv.121-129: Dante cataloga una serie di figure che egli riteneva storiche: i primi tre nomi sono
greci, Elettra, Ettore ed Enea. Dante non aveva letto le tragedie, quindi Elettra proviene da un’altra
fonte che è comunque riconducibile all’Eneide. Poi incontra Cesare armato con occhi “grifagni”:
campo semantico degli uccelli (grifo), rendendo appropriata la missione di Cesare, infatti il simbolo
dell’impero è l’aquila, un uccello rapace: nel canto VI del Paradiso Dante incontra Giustiniano, che
nei primi versi in cui parla, narra proprio dell’aquila. Cesare non sta in paradiso, quindi l’aggettivo
grifagno potrebbe non essere positivo. Dopodiché, vede tutti quelli che hanno contribuito alla
fondazione di Roma: c’erano greci, latini e anche un saraceno (saladino); questo saraceno
presentissimo nella novellistica, finisce per avere nella scrittura dantesca un posto tra gli spiriti
magni.
vv.130-144: alzando di più gli occhi (le ciglia, sineddoche) Dante vede Aristotele al centro, in
mezzo ad altri filosofi. Tutti lo riveriscono, e vede Socrate e Platone che gli sono più vicini rispetto
agli altri. Verso dopo verso capiamo che Dante sta costruendo una gerarchia: dopo Socrate e
Platone ci sono tutti gli altri. Democrito, pensatore dell’atomismo, Diogene, Anassagora e Tale,
Empedocle, Eraclito e Zenone. Poi Diascoride, Orfeo, Tulio, Lino e Seneca “morale” (fino ad
all’ora il Seneca “tragedioso” non era ancora conosciuto). Euclide e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna
e Galieno (medico) e Averois. L’elenco è un espediente tipico dei poemi, come ad esempio fa
Omero nell’Iliade.
vv.145-151: di fronte a una materia troppo elevata e complessa, la possibilità di esprimersi cede al
soggetto che si tenta di essere espresso. Questo è il corrispettivo del nostro “io non ho parole”, ed è
la figura retorica dell’ineffabilità, il non potersi esprimere. Il gruppo di sei si divide in due parti;
adesso stanno per entrare nel girone dei lussuriosi, e la prima cosa che si nota dall’assenza di luce.
L’IMPERO ROMANO E IL LATINO (De monarchia e Convivio)
Dante stesso nel libro IV e V del De monarchia afferma che l’Impero romano tanto quanto la chiesa
di Roma è un’istituzione provvidenziale. La prima perché fa sì che grazie alle leggi si creasse una
condizione di giustizia in terra per far venire il figlio di Dio, la seconda perché rispecchia la
successione di cristo in terra. Secondo l’interpretazione dantesca il figlio di Dio nasce durante la
Pax Augustea, quando non c’erano più guerre e il mondo era stato pacificato grazie
all’applicazione delle leggi di un’istituzione che possedeva tutto e quindi non era avara (non
possedeva attributi del peccato originale di Lucifero, ovvero superbia invidia e avarizia, “le tre
faville che hanno i cuori accesi” INF.VI). La manifestazione di Dio tramite suo figlio avviene in
una condizione di giustizia e quindi pace.
o PARADISO CANTO VI dove Dante incontra Costantino (v.79
Con costui corse infino al lito rubro; Con lui (Ottaviano Augusto) l’impero si
con costui puose il mondo in tanta pace, estese fino al Mar Rosso e portò la pace
che fu serrato a Giano il suo delubro. nel mondo (Pax Augustea) che chiuse le
(Se le porte del tempio erano aperte porte (delubro) del tempio di Giano.
significava che Roma era in guerra)
Ma ciò che ’l segno che parlar mi face Ma ciò di cui l’aquila (segno) ovvero Giustiniano
fatto avea prima e poi era fatturo mi ha fatto parlare sembra insignificante rispetto
per lo regno mortal ch’a lui soggiace a ciò che accade sotto il terzo Cesare (Tiberio).

diventa in apparenza poco e scuro,


se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;
(La conta dei Cesari per Dante parte da Caio Giulio che però
Non fu mai Princeps. Sotto Tiberio avviene la crocifissione.)
ché la viva giustizia che mi spira, Al terzo Cesare fu concesso di vendicare l’ira
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, di Dio
(la prima ira di Dio è il peccato originale)
gloria di far vendetta a la sua ira .
(Con la crocifissione si redime in maniera
figurale il peccato originale)

L’impero è per Dante l’istituzione di una monarchia universale che ha come scopo di mettere
ordine in questo contesto. Dante accomuna questa funzione dell’impero a quella della
“grammatica” per lui intesa come il latino astratto parlato attraverso i secoli (quindi avente sempre
lo stesso fine di mettere ordine nel disordine). Poi nel De Vulgari Eloquentia cambia idea e afferma
che il latino non è più in grado di rispecchiare la situazione politica del suo tempo, teorizzando la
nascita di un volgare illustre.
o DE MONARCHIA: nel 1313 stava arrivando l’ultimo imperatore, era da più di 40 anni che
un imperatore non veniva a reclamare la corona romana. Dante scrive la monarchia per
giustificare filosoficamente e giuridicamente la venuta dell’imperatore, l’impero doveva
essere legittimo poiché salvifico.
o CONVIVIO trattato IV
Capitolo IV - Dante spiega le ragioni della monarchia universale.
Onde, con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma
sempre desideri gloria d'acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene
surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze,
e per le vicinanze delle case [e per le case] dell'uomo; e così s'impedisce la felicitade.
[Parlando dell’avidità umana] Dal momento che l’animo umano non si accontenta di ciò che ha ma
desidera sempre gloria, come abbiamo visto accadere, sorgono guerre tra le città, queste
impediscono la felicità ovvero l’obbiettivo di ricerca dell’uomo come compagnevole animale. La
politica di Aristotele inizia con lo ζῷον πολιτικὸν ovvero l’animale politico questo aggettivo è
inteso come in grado di vivere dove ci sono molte persone, quindi in un contesto sociale. Ed è da
Aristotele che Dante associa l’aggettivo compagnevole all’uomo.
Il perché, a queste guerre e alle loro cagioni tòrre via, conviene di necessitade tutta la terra, e
quanto all'umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e
uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna
contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in
questa posa le vicinanze s'amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual
preso, l'uomo viva felicemente: che è quello per che esso è nato.
Per evitare le guerre, il cui innesco è l’avidità dei soggetti politici coinvolti, è necessario che si sia
una sola monarchia universale che possegga tutto ed in questo modo eradichi il desiderio
impossesso degli altri.
[…] Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo officio d'imperio si
richeggia, non fa ciò l'autoritade dello romano principe ragionevolemente somma, la quale
s'intende dimostrare: però che la romana potenza non per ragione né per decreto di convento
universale fu acquistata, ma per forza, che alla ragione pare essere contraria.
Qualcuno si potrebbe opporre a questa visione della monarchia come necessaria per il
raggiungimento della felicità ma Roma non si è imposta per diritto (ragione) o per approvazione
universale ma si è imposta con la forza.
Capitolo V – Narrazione storiografica dei fatti di Roma al fine di giustificare l’ascesa dell’impero
E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di
Troia in Italia, che fu origine della cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai
è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu
contemporaneo alla radice della progenie di Maria.
Qui Virgilio e la bibbia vengono equiparati nella storia della salvezza. (Cosa canta Virgilio
nell’Eneide: condizione storica dell’impero romano come condizione ideale per la nascita di Gesù
Cristo, ovvero il momento in cui c’è la giustizia. Nel VI canto del paradiso, dove Dante parla con
Giustiniano, dopo che egli narra tutte le vicende della Roma monarchica e repubblicana, precedente
all’impero romano; alla fine, con Augusto, arriva la pax augustea: tutto quello fatto
precedentemente diventa insignificante sotto quello che succede sotto Tiberio, poiché c’è la
crocifissione di Cristo. La morte di Cristo è provvidenziale, e Virgilio sancisce in poesia ciò che
sarebbe successo nei secoli a venire. Nel canto 22 del purgatorio, dove Dante e Virgilio incontrano
Stazio, poeta antico prossimo alla salvazione, si rivolge a Virgilio come colui che gli aprì gli occhi
alla cristianità, poiché Virgilio gli chiede come mai non fosse nel limbo dato che quando scriveva i
suoi poemi non era ancora cristiano. Per Dante l’impero non è un fatto astratto: quando scrive la
monarchia nel 1313, stava arrivando l’ultimo imperatore, dopo 40 anni che nessuno venisse a
reclamare la corona romana. L’impero doveva essere legittimo, perché salvifico. Nel IV libro del
convivio, capitoli 4 e 5, Dante spiega le ragioni della monarchia universale: l’essere umano non si
accontenta mai di quello che ha, impedendo la felicità, ovvero l’obiettivo di ricerca dell’uomo come
compagnevole animale, in un contesto sociale. Per ottenere questa felicità ed evitare le guerre, è
necessario ci sia una monarchia universale che possegga tutto, ed eradichi così il desiderio di
possesso degli altri. Nel capitolo 5, c’è un racconto storiografico dei fatti di Roma che giustifichi
l’ascesa romana; Dante costruisce dei paralleli: inizia la stirpe di David, e viene fondata Roma.)

XXVIII CANTO DELL’INFERNO (dove Dante incontra Maometto + canto degli scismatici)
Gli scismatici sono coloro che creano spaccature di visioni e include tanto coloro i quali hanno
prodotto scismi nella religione: la religione musulmana è vista come uno scisma della religione
cristiana (la Bibbia è un libro sacro anche per i musulmani), quanto chi ha prodotto scismi politici
all’interno della stessa città: guelfi e ghibellini.
vv.1-6: chi ha parole abbastanza calzanti per descrivere la terribile pena per questi dannati? La
lingua e la mente possono appena immaginare e riprodurre quello che sta per descrivere
(ineffabilità).
vv.7-21: Dante per descrivere lo stato dei dannati in questa bolgia, usa quattro terzine: se si
radunasse tutta la gente che in Puglia avesse versato sangue sia per Enea che per i troiani, sia per
raccontare la guerra degli anelli, che rappresenta le battaglie delle guerre puniche raccontate da
Livio, o le battaglie nel sud Italia con Roberto Guiscardo… ecc. avremmo difficoltà a paragonare le
mutilazioni avvenute in decine di battaglie nel corso dei secoli, a ciò che si vedeva in questo ambito
dell’inferno: era perfino peggio.
vv.22-24: se la botte venisse rotta perdendo assi verticali e orizzontali, non si aprirebbe comunque
come la persona che gli stava dinnanzi. Parole distanziate ma ricomposte quasi a voler fare una
mimesi di quello che Dante voleva esprimere, ovvero la rottura del corpo. Una botte non si rompe
in questo modo, come vede uno rotto dal mento fino all’ano (dove si trulla).
vv.25-27: tra le gambe gli pendevano gli intestini, e lo stomaco (tristo sacco: immagine infernale e
termine polisemico; nel VI canto dell’inferno ricorre questa parola, nel girone dei golosi, coloro i
quali che vengono puniti per incontinenza della gola, evoca il significato parallelo. Nel canzoniere
di Petrarca troviamo “l’avara Babilonia ha colmo il sacco”, ovvero colma di ira di Dio.) che
digerisce il cibo (merda). Siamo all’apice del comico (come canto XXI “ed egli avea del cul fatto
trombetta” e anche canto XXX “fatto a guisa di leuto…”), e icastico, perché parla per immagini,
ma non c’è niente di umoristico: è una descrizione dell’orrido.
vv.28-36: Dante non riesce a rimuovere lo sguardo per quanto volesse, e Maometto parla, dicendo di
guardare com’è aperto, perché ha causato lo scisma tra sunniti e sciiti, quindi non è all’inferno per
aver creato una religione nuova, ma per essere un eretico avendo creato uno scisma nel
cristianesimo, unica vera religione monoteista. Jacopo Alighieri commenta questo canto, ma non
capisce a fondo la natura del contrappasso di Dante. Esiste una fonte che dice che Maometto sia
morto sbranato dai maiali; il testo rientra nella patrologia latina, “Historia de Mahumete”, canto
XV. Lì si trova il riferimento alla morte di Maometto; questo testo non è una fonte di Dante, ma nel
medioevo c’era la credenza popolare che Maometto fosse morto così.
Jacopo Alighieri (1322), Inferno 28.31-33
“Conciosiacosa che per due modi la presente colpa si contiene, in prima qui dello scismatico,
siccome per men grave, si conta, il quale lo scommettere d'una fede in altra errando s'intende. Tra'
quali d'alcun grande prelato di Spagna, nominato Maometto, con alcuno suo conpagno nominato
Ali, qui si concede, il quale anticamente essendo dal papa di Roma alcuna volta mandato oltremare,
per invidia di sua facultade con grande inpromissione a predicare [di] Cristo, e con vittoria di fede
tornando, e non trovando alle promessione fermo volere, ritornato di là e il contrario predicando
ridisse, affermando la credenza che al presente pe' saracini si ritiene. Onde per cotale aprire d'animo
e d'intelletto, come per lui e simigliante per [lo suo] compagno contra nostra fede predicando si
fece, così figurativamente aperti qui i lor corpi si fanno e così simigliantemente degli altri
s'intende.”
Maometto e Alì vennero inviati come prelati spagnoli inviati dal Papa a predicare oltremare, in
Oriente. Nonostante riuscì a convertire le persone e a ricevere i premi promessi dal Papa, ritornato
in Oriente decise di predicare il contrario di quanto fino ad ora aveva detto affermando di fatto la
credenza che oggi è propria dei Saraceni: l’odierno islam. Anche se Jacopo non comprendendo la
legge del contrappasso, sostiene che la pena di essere spaccati in due sia per l’apertura d’animo
verso l’eresia, ma invece per Dante sono il riflesso delle spaccature create nella società. Un
commento dice sempre di più sulla persona che lo redige piuttosto che sul testo che viene
commentato.
Embricho Moguntinus, Historia de Mahumete, Canto XV v.4-7
Fonte antecedente a Dante che descrive Maometto come morto sbranato da maiali. Si trova
all’interno della patrologia latina (raccolta di tutti coloro che sono considerati capi della chiesa); la
tradizione letteraria medievale concepiva la morte di Maometto per smembramento, percezione
comune anche a Dante = PARALLELISMO
Ultor adhuc stabat grex, et regem lacerabat,
Ac si lege cibi sit datus ille sibi.

Sed veniente mago cessit porcina vorago,


Atque caput scelerum deseruit lacerum.
vv.37-51: un diavolo sta lì e li riduce in quel modo (“accisma”), poi quando i peccatori completano
il giro della bolgia, le ferite sono guarite e vengono lacerati nuovamente. Poi si rivolge a Dante,
chiedendogli chi sia lui per giudicare (n’su lo scoglio muse, ovvero volgere il muso, a guardare a
bocca aperta, termine comico), e Virgilio risponde che lui non è morto e non merita di stare
all’inferno, ma si trova lì per avere esperienza piena. La visione dantesca è funzionale alla
salvezza, e la paura guida l’incertezza di fronte i pericoli, è necessaria per crescere. Stessa
esperienza del canto XXVI dove Ulisse parla ai suoi compagni di viaggio “non vogliate negar
l’esperienza”, sollecitandoli per continuare il viaggio.

Realtà e fantasia
Abbiamo notato più volte in questi autori la necessità di descrivere una situazione reale
sovrapponendola all’ambito fantastico e immaginario. I connotati fantastici finiscono per
confondersi in una narrazione volutamente realistica (Marco Polo col prete Gianni, o con
Rustichello). Story and History in Italiano si può paragonare a Storia e Novella, due generi
distinti che spesso finiscono per sovrapporsi a cause di una mancanza di fonti documentarie. Il
racconto in una storia finisce per privilegiare la rappresentazione degli eventi rispetto alla
fondatezza che essi possano avere, la storia che non ha una documentazione finisce per diventare
autoreferenziale, si concentra di più sulle dinamiche dei personaggi piuttosto che legarlo a
determinati elementi storiografici.
LA NOVELLA (genere polimorfo in prosa)
La novella si pone al lettore come una cristallizzazione di una notizia, in forma orale o scritta, come
resoconto entra nel genere narrativo e si macchia di elementi fittivi. Deve essere un’impressione di
verità, ossia credibile nei parametri della sua rappresentazione. La finzione si basa sulla realtà e
diventa immagine alternativa di essa stessa:
Breve digressione alla poetica di Aristotele
Secondo la poetica, capitolo 9 di Aristotele la poesia è un’elevazione della realtà: per essere
credibile ci vuole coerenza. La sfumatura tra realtà e finzione consente l’inserimento di elementi
non fattuali ma possibili che consentono il dialogo tra culture, in realtà ancora impossibile ma
credibile nell’immaginazione. “La storia dice le cose accadute, la poesia quelle che potrebbero
accadere”: per esser tale, la possibilità deve essere credibile, l’universo fittizio deve stare in piedi.
Come si realizza e perché nella dimensione letteraria? All’inizio della poetica, Aristotele ne parla:
dice che la poesia è anche imitazione, che di fatto significa rappresentazione, e si effettua una
mimesi con gli oggetti che si intendono rappresentare, che sono nella realtà prima e nella mente di
chi costruisce la realtà poi. Nel momento in cui la realtà viene rappresentata diventa fictio, e non
factis, poiché si utilizzano elementi diversi dall’originale (es. statua è in marmo e non in carne).
Uno dei motivi per cui Platone, nella repubblica, bandisce gli artisti dalla città è perché imitano
qualcosa che è già l’imitazione di altri. Il processo imitativo o rappresentativo deve avere un
oggetto che deve essere verosimile e necessario, ovvero che agisca all’interno di un contesto
normato. Cosa succede quando il soggetto è umano? Nel momento in cui si imita qualcuno che
parla in pubblico, bisogna mettere in bocca parole credibili nel contesto e descrivere con precisione
necessaria la propria dizione. Gli esseri umani agiscono anche quando stanno fermi, quindi
qualunque cosa rappresentata è un’imitazione di un’azione; le azioni umane, una volta
rappresentate, assumono una connotazione di carattere morale, e sono positive o negative in base a
come le costruiamo. Poiché il pubblico medievale è esclusivamente maschile ed educato alla
teologia e alla filosofia, è possibile inserire figure umane più vaste con lo scopo di costruire una
mimesi tra finzione e realtà, come nelle novelle di Boccaccio.
La novella si distingue per tre caratteristiche fondamentali:
- La novità: qualcosa degno di essere riferito
- La brevità dei fatti narrati
- La varietà tematica
Presenta anche delle caratteristiche fisse:
- Ha sempre personaggi umani, perciò non trascende sempre il confine con il fantastico. La
credibilità è data dalla presenza umana: se gli animali parlassero come in Esopo,
rientrerebbe nel genere favolistico.
- Finisce per avere sempre finalità morali (fine didascalico) come era per Cicerone la storia
“magistra vitae”, anche se la Storia di per sé non insegna nulla, è come viene organizzata la
narrazione che ne deriva l’insegnamento.
Quale grado di finzione è lecito inserire in una novella?
La finzione deve sfumare la realtà e non prevaricarla. Genera un immaginario molteplice scisso
dalla realtà stessa (Prete Gianni).
Tre momenti fondativi nella struttura canonica della novella:
- Prologo
- Una parte centrale che genera scompiglio e importa la novitas
- Sviluppo che conclude con un messaggio moraleggiante
La novella italiana nasce in coincidenza con l’epoca dei predicatori, i quali hanno nuovo impulso
con i frati francescani e domenicani alla fine del 1200. Il secolo XIII è quello in cui la novella entra
nei generi narrativi italiani poiché forniva exemplum, è un genere funzionale alla predicazione. Per
questo è un genere ambiguo perché può mettere in crisi l’andamento storiografico. La novella
coniuga il fatto (factum) con ciò che è finto (fictum) ovvero costruito, dove il factum propone la
verità in factis contro la fictum che propone una verità in verbis. Duplicità tra storiografia e poetica.
La novella frontiera delle diversità
L’elemento di cerniera tra il mondo del reale e del possibile è la fantasia che trasforma la novella
nel genere della duplicità, ovvero la conflittualità dialettica che attraverso il fantastico si cerca di
risanare. Questo è il primo passo per ragionare sulle differenze e i conflitti e immaginarne una
soluzione: novelle come primi tentativi di comprensione. Introspezione psicologica che riguarda
anche l’autorappresentazione del proprio posto nel mondo. La novella agisce nella percezione della
diversità, data anche dal fatto che i protagonisti sono collocati nel tempo presente della scrittura e
ciò consente una mimesi psicologica che sfocia in un’indagine sull’alterità.
La novella e l’Oriente
La novella è un genere privilegiato del racconto dell’oriente islamico, ed è un’espressione tipica
della letteratura italiana volgare, poiché si trovano in istanze romanzesche, battaglie, scontri, il
gusto per la meraviglia, un incontro di passioni profonde, anche religiose, e infine un oriente come
entità geografica nella quale proiettare passioni che la cultura autoctona finirebbe per censurare.
Questa varietà polimorfica del genere coincide sia con la materia che viene raccontata che con il
pubblico.
La novella è portatrice della curiositas ovvero l’attenzione al dettaglio, all’elemento raro e inusuale.
Ciò accade a causa del consolidamento del genere enciclopedistico medievale che riportava al
proprio interno vari fatti curiosi. Perciò la novellistica finisce per vivere dicotomie e scontri
culturali (come la prima crociata) al suo interno dove si realizza un ritratto umanistico di
un’umanità di frontiera.
La scrittura di viaggio ricerca forme nuove alternative a una visione della realtà omogenea
consentendo di sviluppare un linguaggio nuovo. La novella come il racconto di viaggio diventa
capace di inglobare un’esperienza conoscitiva. Il viaggio trova nel genere novellistico un ottimo
veicolo di narrazione (la letteratura di viaggio si serve della novella).
IL NOVELLINO di Masuccio Salernitano
È una raccolta di un centinaio di racconti brevi con le caratteristiche della novella, risalente alla fine
del ’200. Dal 1526, anno in cui viene pubblicata da Gualteruzzi l’edizione princeps cominciano a
diventare cento novelle. A differenza del Decameron, che ha una struttura ben definita e anche un
momento storico ben definito, nel novellino non c’è un progetto, è una raccolta di “parlar gentile”,
per imparare a scrivere in prosa.
Introduzione: scritta da Gianfranco Contini
Novella II: compare il prete Gianni. In questo racconto viene definito “Presto Giovanni”, e diventa
una figura storica che agisce addirittura nella politica internazionale, mandando un’ambasceria
all’imperatore Federico II. L’ambasceria aveva il fine di verificare che la fama dell’imperatore
corrispondesse alla realtà, mandandogli tre pietre preziose e comunicandogli che da lui vuole sapere
qual è la cosa più importante del mondo (savi risponsi), e chiede di aver fatto un resoconto preciso
di com’è la corte dell’imperatore e i costumi. Passaggio rapido: arrivano, salutano e danno le pietre.
Questi passaggi così rapidi danno la possibilità di sfumare la realtà; uno storiografo si sarebbe
soffermato molto nei dettagli. L’imperatore non si sofferma sulla virtù delle pietre, nonostante si
credeva che le pietre preziose avessero delle proprietà particolari, con addirittura trattati eruditi e
filosofici, era scienza. Dopo aver visitato la corte, decidono di andare via; l’imperatore afferma che
la cosa migliore di questo mondo è “a misura”. L’unico modo che l’uomo ha di conoscere il mondo
è tramite solo ciò che si può misurare: siamo alle soglie dell’umanesimo. Il prete Gianni afferma
che l’imperatore non chiede quali proprietà avessero le pietre, e invia di nuovo gli ambasciatori,
mandando un lapidario convinto che le pietre dell’imperatore avessero ormai perso le proprietà. Il
lapidario va e comincia a incastonare le pietre preziose, cercando di farsi una fama e cercando di
accattivarsi i cortigiani per giungere all’imperatore. L’imperatore viene a conoscenza di lui, e gli fa
vedere le pietre ricevute in dono dal prete Giovanni. Il lapidario, prende una ad una le tre pietre, e
una delle tre lo fa sparire, rendendolo invisibile: era l’elitropia, che ai tempi si era convinti che
rendesse invisibili. Elemento paradigmatico: incontro tra fantasia e realtà, incontro tra oriente e
occidente, brevità e semplicità e una morale. La morale è che sostanzialmente l’imperatore ha fallito
nel chiedere quale fosse la proprietà delle pietre.
Novella del sultano o dei tre anelli: il sultano cerca di fregare un ebreo, perché aveva bisogno di
moneta. Il sultano manda a chiamare il giudeo chiedendogli quale fosse la migliore religione,
volendolo fregare. Il giudeo risponde con la storia dei tre anelli, ovvero un padre che fa fare altri
due anelli uguali ad uno molto prezioso, e nessuno dei tre figli ai quali dà gli anelli sono
consapevoli di quale sia l’originale. Così è anche per le fedi: cristianesimo, ebraismo e islam; solo il
padre che è lassù conosce la verità, e noi figli crediamo che ognuno di noi abbia la migliore. Questa
novella viene ripresa nel Decameron, in maniera più evoluta.
Novella III: di un saggio greco. Storiella di probabile provenienza orientale. In Grecia un re di nome
Federico aveva incarcerato un saggio. Un giorno arrivò dalla Spagna un cavallo, e per capire se
fosse buono, chiese al saggio, il quale disse che fu nutrito da latte d’asina perché la madre era
morta. Il re domandò in Spagna e ciò gli fu assicurato. Allora concesse mezzo pane al saggio. Dopo
chiede sempre al saggio quale tra le sue pietre preziose fosse quella con più valore. Il saggio gli fece
scegliere la sua preferita, dicendogli che al suo interno c’era un verme, ed era vero, e il re lo premiò
ancora con del pane. Il re infine gli domandò, avendo dubbi sulla sua stessa legittimità, di chi fosse
figlio, e il saggio gli confessò che fosse figlio di un fornaio, cosa che la madre confermò. Il re
chiese al saggio come sapesse tutto questo, e lui rispose che il cavallo fu nutrito da latte d’asina
perché aveva le orecchie chine, la pietra aveva un verme perché era calda e lui era figlio di un
fornaio perché come ricompensa gli dava sempre un pezzo di pane.
Novella IX: ad Alessandria, in una via un cuoco saraceno vendeva il suo mangiare. Un giorno
arrivò un povero con un pane. Non aveva soldi per comprare cibo e quindi posizionò il pane sopra il
fumo che emanava il cibo del cuoco saraceno per fargli prendere sapore. Dato che il cuoco non
aveva venduto bene quel giorno, andò dal povero a chiedergli i soldi per il fumo. La questione era
talmente inaudita che giunse fino al sultano che chiese aiuto ai saggi. I pareri erano contrastanti.
Alla fine, giunse un consigliere che affermò di far pagare al povero in base al rumore che fa una
moneta, dopo che si è fatta suonare, e che quello fosse il pagamento. Il sultano seguì questo
consiglio.
Novella XXV: il sultano saladino, lodato anche da Dante per la sua magnanimità. Il saladino in terra
cristiana è assai diffuso, ma questo aneddoto è presente già molto prima riferito a personaggi pagani
e saraceni, in cui si criticano alcuni abusi che la religione cristiana dà luogo. Il sultano saladino un
giorno donò ad un povero duecento marchi, lo scrivano sbagliò a scrivere e scrisse trecento; allora il
sultano decise di darne quattrocento al povero perché avrebbe portato sfortuna che la penna fosse
più grande della sua generosità. Un giorno il saladino ordinò una tregua tra cristiani e arabi. Si recò
a vedere come vivevano e osservò che nei poveri, quelli più vicino a Cristo mangiavano per terra,
mentre tutti gli altri su tavole ben apparecchiate, mentre i saraceni mangiavano tutti per terra. Dopo
aver visto ciò decide di riprendere la guerra perché i cristiani amano il loro Dio solo con le parole e
non con le azioni.
Novella del sultano o dei tre anelli: il sultano cerca di fregare un ebreo, perché aveva bisogno di
moneta. Il sultano manda a chiamare il giudeo chiedendogli quale fosse la migliore religione,
volendolo fregare. Il giudeo risponde con la storia dei tre anelli, ovvero un padre che fa fare altri
due anelli uguali ad uno molto prezioso, e nessuno dei tre figli ai quali dà gli anelli sono
consapevoli di quale sia l’originale. Così è anche per le fedi: cristianesimo, ebraismo e islam; solo il
padre che è lassù conosce la verità, e noi figli crediamo che ognuno di noi abbia la migliore. Questa
novella viene ripresa nel Decameron, in maniera più evoluta.
Novella dei tre anelli nel Decameron
III novella della prima giornata - novella dei tre anelli: non c’è più il sultano del novellino, ma un
saladino, divenendo un personaggio più preciso, menzionato anche da Dante nell’inferno, e anche
nel convivio. Anche il giudeo ora ha un nome, Melchisedech, e sistemazione (Alessandria). La
differenza tra il novellino e questo è nello stile: nel novellino c’è una mancanza del volgare italiano
a sviluppare soggetti articolati, nel Boccaccio la prosa è matura e il pensiero è organizzato, che non
invidia nulla all’alta prosa latina. Il valore del saladino si misura per le sue varie vittorie, ma spese
tutto il suo tesoro e per disavventura, avendo bisogno di acquisire alcune ricchezze, l’unico modo
per ottenerle in maniera rapida “gli venne a memoria” (anacoluto, figura retorica che solo
Boccaccio poteva utilizzare sapientemente) un ricco giudeo. Per costringerlo gli venne come idea di
fargli una prepotenza che potesse sembrare in qualche modo legittima (bugia colorata). Il saladino,
nel commento all’inferno canto IV di Boccaccio, viene descritto come uomo di nazione assai umile,
in parallelo con il picciolo uomo della novella. ma di grande e altissimo animo (in antitesi con la
frase precedente, in Boccaccio questo contrasto è espresso con l’evocazione delle vittorie militari).
Il commento è come se fosse stato scritto da Boccaccio come paragrafo in più della novella, poiché
non dà informazioni utili o storicamente accurate abbastanza. Utilizzo del termine magnificenze sia
nel commento che nella novella; immaginario comune in due opere diverse che dialogano, scritte in
quarant’anni di differenza l’una dall’altra.
Comunque, nella novella il saladino cerca di fregare il giudeo; Boccaccio scioglie un nodo implicito
della narrazione, aggiungendo diverse informazioni in più rispetto al novellino. Il giudeo si rende
subito conto che il saladino voleva prenderlo in giro (prenderlo nelle parole: sintagma tipico
dell’italiano antico, prenderlo in fallo). Trovando un escamotage per non essere preso in fallo,
finisce per trovare una soluzione, raccontando una novelletta: la novella dentro la novella; risponde
ai criteri del genere. Boccaccio inserisce durante la storia una digressione che non è presente nel
novellino, e non è chiaro da dove l’abbia tratta. Boccaccio modernamente esclude il dettaglio che
nel novellino il padre conosce quale sia l’anello originale: si sposta l’attenzione dal fatto che ci
fosse una religione prevalente, ma mantiene l’attenzione sulla consapevolezza che nessuno sappia
dove stia l’originalità. Alla fine il saladino dice qual è il suo vero bisogno, e il giudeo finisce per
prestargli i soldi, e riesce a saldare il suo debito.
Una ripresa ancora più moderna di questa novella è una novella di Lessing, scrittore della metà del
‘700; vediamo che dialoga con la novella del Boccaccio, apportando a sua volta una serie di
varianti. Il padre in questa novella è molto umano, si vede la modernità dell’illuminismo. In questa
novella c’è in più la figura del giudice, a dimostrazione che ci troviamo in un’epoca in cui tutto
viene razionalizzato dalla ragione. Qui c’è il tentativo di risolvere la guerriglia dei tre fratelli: il
giudice addirittura dice che gli anelli sono falsi tutti e tre, completamente differendo dalle altre due
novelle in cui quello vero è uno solo.
Tre esempi dello stesso schema e paradigma che vengono di volta in volta modulati, e mettono in
luce aspetti sottintesi, ma appena vengono esplicitati prendono forma differente rispetto
all’impressione che potevamo avere avuto.
Il saladino in altre opere
L’amorosa visione: poema di Boccaccio in terzine dantesche, profetica come la divina commedia.
Si tratta sostanzialmente di un sogno, una visione con pretese profetiche che si pone come
riproposizione di un precedente tentativo di poema in terzine dantesche di Petrarca ovvero “I
trionfi”. Boccaccio venera il modello dantesco mentre Petrarca lo emula, lo sfida.
CANTO XII v.28-30
Appresso a lui al mio parer vedea
Il Saladin risplender tutto quanto
Entro ad un drappo ad or che indosso avea.
(Ovvero avvolto in un drappo d’oro a richiamare quella magnificenza presente nel commento
dantesco e nella novella).
I Trionfi, il trionfo della fama: Petrarca ci porta in un clima completamente diverso dove evoca il
saladino. Critica i cristiani che si combattono fra loro invece di andare a fare le crociate.
CAPITOLO II v.148
Gite superbi, o miseri Cristiani,
Consumando l’un l’altro, e non vi caglia
Che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!
Raro o nessun che ’n alta fama saglia
Vidi dopo costui, s’io non m’inganno,
O per arte di pace o di battaglia.
Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
Vidi verso la fine il Saracino
Che fece a’ nostri assai vergogna e danno;
Quel di Lurìa seguiva il Saladino […]
L’esortazione quasi violenta non era rivolta agli occupanti del santo sepolcro (ovvero gli arabi) ma
verso i cristiani che si combattono tra di loro invece di andare a fare le crociate. Il saladino proprio
come nel canto dell’Inferno rientra nelle liste di persone degne di fama, diventando quasi topico.

IL DECAMERON di Boccaccio
Compiuto all’incirca nel 1350, circolava come opera di natura mercantesca su rotte commerciali,
molti manoscritti del Decameron denunciano un’appartenenza a famiglie mercantesche, è steso
infatti in scrittura mercantesca.
Il Decameron rappresenta la descrizione di un mondo di sentimenti attraverso il quale si
rimpiazzano le leggi della mercatura, quello che Marco Polo ci descriveva con un rigore
matematico (unità di misura) e un lessico specifico, nella finzione della novella finisce per lasciare
il posto al sentimento, liberando il mercante dalla gravezza dei negozi, una sorta di occasione per
rivivere il proprio mondo in una chiave non necessariamente opprimente. Da un lato il dato di fatto,
dall’altro il sentimento. Quindi il Decameron si affaccia al panorama letterario come un’opera che
nobilita il genere della novella ma comunque come una lettura amena e leggera. La nobilitazione
del genere diventa anche una sistematizzazione. Il Decameron nobilita la novella, ma l’argomento
consente la lettura per piacere.
Boccaccio è un umanista, e capisce l’importanza dell’apprendimento della lingua greca. Nonostante
la formazione umanistica del Boccaccio di novelle di ambito greco nel Decameron ce n’è solo una:
l’ottava della giornata decima. Le fonti classiche sono così ridotte che se ne riscontrano solo due
effettive, nella giornata quinta novella decima e nella giornata settima novella seconda. Questa
cultura viene volontariamente esclusa perché non compatibile con il genere. Al contrario, la
novellistica medievale attingeva molto di più alla tradizione classica. Boccaccio esprime la volontà
di sfuggire dal modello antico e uscire dai canoni, ciò gli consente di conseguire il suo modello di
mosaico interno, incastonato attraverso quelle grandi costruzioni morali (come la libertà) che erano
ancora pienamente parte della cultura gotica del tempo. C’è un disegno finalistico che si inscrive in
una cornice reale storiografica, quale quella della peste.
Il contesto in cui questa narrazione prende piede è il mediterraneo, dominio dei mercanti e padre del
genere novellistico con le mille e una notte. Il genere novellistico è legato all’interesse geografico
che Boccaccio stesso coltiva. La novella si fa portatrice del lessico multiforme della ricchezza
umana.
Il genere novellistico con Boccaccio diventa proprio di un determinato pubblico, quello dei
mercanti (Boccaccio è di famiglia mercantesca), e per questo potevano capire le sfaccettature i gradi
di finzione della novella. Boccaccio interpreta questo genere in maniera sofisticata per il percorso di
studi superiore e ne eleva il linguaggio, dato che a differenza dei mercanti del ‘200 ha affrontato
studi differenti; Boccaccio ha piena coscienza letteraria.
Prima del Medioevo il mondo culturale del tempo usava la novella come genere rappresentativo, nei
connotati in cui è stata definita da Cesare Segre “fase di quiete, scompiglio, recupero… portatrice
di caratteri umani”. Questo stesso genere nel Medioevo diventa autonomo.
Novella di Alatiel
In corsivo all’inizio si può leggere la sinossi della novella stessa.
Alatiel rimanda a un nome orientale ma non ha equivalenti fattuali. Potrebbe essere un anagramma
di una parola italiana, “la lieta”, ma sono speculazioni. Racconta dei viaggi attraverso il
mediterraneo di questa principessa di Babilonia che sarebbe dovuta andare in sposa al re del Garbo,
italianizzazione del Algarve in Portogallo, in parte dominazione islamica.
Partenza dall’oriente della donna con un corredo di servitori in nave, affondamento della nave, e
una serie di peripezie; questo passa attraverso un continuo sfruttamento della sua sessualità, che si
traduce in una serie di incontri amorosi, sia violenti che consensuali. Cionondimeno il viaggio
attraverso uno spazio marittimo noto come quello del mediterraneo richiama l’Odissea, che
Boccaccio sicuramente non aveva letto ma era una peregrinazione nota tra i mercanti. Di fatto si
parla di dinamiche avvenute in cui il pubblico può immedesimarsi.
“Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ci che,
se come assai volte s’è potuto vedere, molti estimando, se essi ricchi divenissero, senza
sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma
sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d’acquistarlo cercarono”: è difficile sapere
cosa ci troviamo a fare e a quali scelte dobbiamo prendere: da subito si pone il problema della
rappresentazione morale del carattere umano (positivo o negativo). L’autore ci pone un problema
morale, ovvero il male esiste e sorprendentemente viene premiato nel modo più alto: la
santificazione. Il lettore porta così il disagio di questa dualità. ci pone un problema morale ovvero il
male esiste e viene premiato nel modo più alto: la santificazione. Il Decameron è un percorso dal
male al bene dove il lettore porta così il disagio di questa doppiezza (tra bene e male).
“ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d’acquistarlo cercarono; e, come che
loro venisse fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali avanti che
arricchiti fossero amavan la vita loro”: qualunque azione compiamo commettiamo delle insidie.
“E acciò che io partitamente di tutti gli umani disideri non parli, affermo niuno poterne essere con
pieno avvedimento, sì come sicuro da’ fortunosi casi, che da’ viventi si possa eleggere”: sensibilità
umanistica, la fortuna è fuori controllo, ma secondo Machiavelli con la prudenza (provvidenza) si
può anche controllare.
“Nuove nozze da nove volte”: allitterazione della n.
“Beminedab”: nome biblico che si rifà alla tradizione volgare già utilizzato nel Novellino. Avendo
il re del Garbo aiutato il sultano di Babilonia, Beminebab decide di concedere Alatiel come sposa.
L’apertura della novella è molto sintetica, poi più l’azione si fa concreta più concreti devono essere
i dettagli offerti dall’autore per calare il lettore nella narrazione ancora di più.
“I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a’ venti e del porto d’Alessandria si
partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la Sardigna”: (riferimento alla
Sardigna); il pubblico a cui la novella è diretta ha una cultura tale da conoscere la geografia del
mediterraneo, che aveva una sua familiarità all’interno dei circoli in cui l’opera circolava. Sta
descrivendo un’azione marinaresca; “diedero le vele ai venti”: lessico della navigazione di viaggio
(Pellegrini scrittori), utilizza lo schema della narrazione di viaggio. “Sì faticarono la nave dove la
donna era e’ marinari”.
“Essendo essi non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdrucire”: non molto lontani dall’isola
di Maiorca; sdrucire: subire squarci.
“Credendosi la morte fuggire, in quella incapparono”: si buttano dalla nave tutti quanti sulla
scialuppa di salvataggio, dal capitano ai marinai, per sfuggire alla morte, ma muoiono tutti perché la
scialuppa era troppo piena.
La nave ormai con poche persone tra cui le donne, si alleggerisce e finisce per arenarsi ad un tiro di
sasso dalla spiaggia.
“Stette”: verbi principali posti a fine frase, anche se la frase è piuttosto lunga; richiamo alla forma
latina.
“Per paura morte s’erano; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma nondimeno,
strignendola necessità di consiglio, per ciò che quivi tutta sola si vedeva, non conoscendo o
sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive erano, che su le fece levare”: Alatiel si
guarda intorno per vedere chi fosse in vita, ma molte donne sono morte anche di paura, e cerca di
svegliarle; con quelle che si svegliano, comincia a piangere di fronte la visione della nave
squarciata.
“Era ora di nona”: primo pomeriggio.
“Pericon da Visalgo”: nome di fantasia. Passa di là e vedendo la nave manda un suo servitore a
vedere cosa fosse successo.
“Accorgendosi che intese non erano, né esse lui intendevano”: intese non erano perché parlavano
una lingua straniera, quindi per farsi comprendere parlano a gesti spiegando cosa fosse successo.
Prendono le donne e le ricchezze e le portano al loro castello.
“Comprese, per gli arnesi ricchi, la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei
prestamente conobbe all’onore che vedeva dall’altre fare a lei sola”: Pericone si rende conto che la
donna è nobile (gentil).
“Amistà”: amicizia. Vorrebbe prenderla per moglie, ma se non fosse possibile almeno creare un tipo
di legame.
“Con atti piacevoli e amorosi s’ingegnò d’inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò
era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più s’accendeva l’ardore di
Pericone”: inebriato dalla sua bellezza, la rende oggetto dei suoi piaceri senza alcun freno. Più lei lo
rifiutava, più si accresceva il desiderio di Pericone.
“Il che la donna veggendo, e già quivi per alcuni giorni dimorata, e per li costumi avvisando che
tra cristiani era e in parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco… alle
sue femine, che più che tre rimase non le ne erano, comandò che ad alcuna persona mai
manifestassero chi fossero, salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà
conoscessero”: Alatiel è consapevole della sorte a cui è destinata, quindi si rende conto
dell’accresciuta foga di Pericone fomentata dal suo rifiuto, capito questo decide di cavalcare la
fortuna; inoltre è in un contesto cristiano (è una donna acculturata), quindi fa promettere alle ancelle
di non rivelare mai la sua fede musulmana e di preservare la loro castità.
“Di spose lo ‘ngegno e l’arti, riserbandosi alla fine le forze. Ed essendosi avveduto alcuna volta
che alla donna piaceva il vino, sì come a colei che usata non n’era di bere per la sua legge che il
vietava, con quello, sì come con ministro di Venere”: Pericone, in risposta, dispose l’ingegno e
l’arte (l’inganno) prima di ricorrere alla violenza. Decide di usare il vino per cercare di prenderla
poiché lei lo reggeva poco, e non era uso della sua religione. Ministro di venere: mezzo capace di
svegliare il piacere.
“Vini mescolati”: vini mescolati perché il vino puro è aspro.
“Alla maniera alessandrina ballò”: multiculturalità, scontro con il diverso proiettato allo sguardo
del lettore.
“In presenza di lui spogliatasi”: cambio della psicologia del personaggio scaturita dall’espediente
del vino. Ciò avviene con un passaggio fondamentale: il cambio d’abito in qualsiasi opera letteraria
è un momento enumerante per l’interiorità (la vestizione e la svestizione: Gesù nudo sotto la croce
che chiede al padre perché lo ha abbandonato, Cola di Rienzo nell'Anonimo romano quando si
toglie l’elmo, quando Montezuma si apre le vesti per mostrare la propria debolezza).
“Con lei incominciò amorosamente a sollazzarsi”: Pericone senza indugio si corica con lei.
“Non avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano”: era una vergine.
Novella come possibilità di fare incontrare culture differenti, e come strumento per ragionare sulle
differenze.

POEMI CAVALLERESCHI
Massimo dialogo con l’oriente, conflittuale, sempre fondato sulla guerra; il poema epico
cavalleresco rappresentava l’oriente sempre come nemico da combattere, impersonato in particolare
dai saraceni (mondo islamico: occupazione del Santo Sepolcro ecc.). Il genere cavalleresco non è
autoctono dell’Italia, ma dalla Francia, e si lega ad un pubblico concreto: se c’è un personaggio
cavaliere, la persona che va a cavallo vi si riconosce, ma si ricollega anche alla classe militare, e
quindi alla nobiltà; se sciolto l’impero romano e ormai l’Italia si avvia all’alto medioevo, in
particolare nell’anno mille, altrove in Europa si formavano i primi stati nazionali, che avrebbero poi
anche sviluppato forme linguistiche unitarie e letterarie in maniera più precoce rispetto all’Italia. La
Firenze del 1300 era molto avanzata a livello letterario e culturale, e c’era una competizione fra la
lingua francese e il volgare come lingua predominante.
Nel medioevo, per quanto fosse venuta meno la struttura dell’impero romano, non si smetteva di
leggere determinati testi epici quale l’Eneide; il genere letterario si converte ad una nuova realtà: se
quindi i franchi avevano mire verso i saraceni, la materia cavalleresca è già presente nella storia.
Questo è un genere che ebbe un grande successo nella cultura occidentale, infatti ad oggi ne
vediamo ancora le ramificazioni, ad esempio il teatro dei pupi siciliano. Il genere in Italia non è
autoctono perché non c’era un corpo “militare” così solido come quello francese; il rapporto stretto
con la Francia faceva sì che giullari di corte trasmettessero oralmente tutte le gesta, e importando
così prima nella pianura padana arrivando in Toscana, il genere stesso.
In Italia i romanzi di genere cavalleresco assumono tratti diversi rispetto a quelli francese, in parte
adeguandosi alla materia storica che riguarda l’Italia (es. invasione di Attila); c’erano rivisitazioni
in chiave cavalleresca dell’Eneide stessa, e infine c’erano altre fonti storiche come le gesta
dell’impero romano, Cesare in particolare, alimentavano la materia stessa. L’oralità è un fattore
imprescindibile, e la variazione del genere è determinato anche da questi fatti, e si riscontra anche
nelle forme metriche. I poemi finalizzati alla circolazione orali possiedono formule facilmente
memorizzabili: anche la forma metrica facilitava la formulazione, come ad esempio nella Chanson
de Roland, composta da lasse, strofe monorima che terminavano tutte allo stesso modo. Esistevano
sicuramente migliaia di rivisitazioni da giullare a giullare, fino a quando non si cristallizza nella
forma scritta; quando i racconti si mettono per iscritto, necessitano di una sistemazione che ne elevi
lo stile. Se in francese il romanzo aveva preso forme di questo genere sia in poesia che in prosa, in
Italia ci si accomoda sulla forma metrica dell’ottava, quella più padroneggiante: strofe con otto
versi e due rime incrociate (ABABABAB) e un distico finale con rima incrociata; l’ottava, prima di
assumere questa forma, passa verso il lavoro di un letterato che la canonizza, ovvero Giovanni
Boccaccio, anche se non solo per poemi cavallereschi. In Italia si fondono il romanzo carolingio
delle guerre e dei cavalieri, ma anche quello degli amori, ovvero di materia arturiana; Paolo e
Francesca nell’inferno fanno riferimento al Galeotto che narra la storia di Lancillotto (sono
entrambi di Rimini, dove questa cultura era radicata). Anche Petrarca nel Trionfo d’amore cap. III,
cita Lancillotto, intendendo che la materia storica con cui l’epica cavalleresca nasce, cede il passo
alla materializzazione erotica della materia stessa. C’è bisogno di un rinnovamento non solo
metrico, ma proprio della materia, e questo in Italia succede nel ‘400, e succede non a Firenze, ma
dove una cultura cavalleresca ancora sopravvive. Anche il linguaggio artistico è nuovo, in quegli
anni Botticelli dipingeva la Venere e la Primavera.
Il genere nasce a Firenze ma si completa nella città di Ferrara: prima con il Boiardo, poi con Ariosto
nel ‘500 e successivamente con Tasso.
Il poema cavalleresco parte da ispirazione da fatti storici, per poi diluirsi in un’immaginazione
fantastica sempre più slegata dalla realtà. Dopo Ariosto, che aveva raggiunto le vette più alte dello
sviluppo del genere, comincia una meditazione epica sulla natura stessa del poema epico proprio in
ragione della scoperta della poetica di Aristotele. La poetica di Aristotele scompare dal panorama
medievale come fonte primaria, come gran parte della letteratura greca; l’umanesimo italiano nel
XV secolo riacquisisce la conoscenza del greco, anche grazie a Boccaccio. La meditazione
sull’epica comincia quindi solo dopo, negli anni ’40 del ‘500, e nel 1548 Giovanni Trissi, erudito e
grande critico letterario, riscopritore del De Vulgari Eloquentia, pubblica “l’Italia liberata dai goti”,
primo poema epico storico del ‘500; composto in endecasillabi sciolti (molto noioso), narra le storie
di Giustiniano e Bellisario, nella riconquista dell’Italia dopo le invasioni barbariche. Si sceglie
quell’argomento perché è un argomento storico, e perché nel 1527 c’era stato il sacco di Roma.
C’era bisogno di ragionare ancora e sviluppare ulteriormente il genere, e questo sviluppo avverrà
negli anni ’70 con Torquato Tasso, che rinnova ulteriormente il genere; questo rinnovamento passa
per la Gerusalemme Liberata.
BOIARDO
Nasce vicino Ferrara, e vi si trasferisce nel 1476. Non era esente da una cultura classica, è un poeta
lirico di grandissimo spessore, al punto che i suoi libri di poesie amorose hanno una fortuna enorme
nel secolo successivo; di fatto si pone come uno dei più raffinati letterati del suo tempo. Riesce a
combinare le gesta epiche francesi con quelle inglesi; questo tipo di unione permette la creazione di
nuove avventure. Con la fine della Pace Laurenziana nel 1494 si segna l’inizio delle guerre di
indipendenza, a causa della morte di Lorenzo il Magnifico dato che mancherà un mediatore.
ORLANDO INNAMORATO di Boiardo
Canto I
I canti proemiali hanno sempre la funzione di spiegare ciò che succederà.
I ottava: inizia similmente all’Orlando Furioso di Ariosto “Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, /
le cortesie, l'audaci imprese io canto”: Ariosto parla ad un pubblico che ha già a mente il testo del
Boiardo, svolgendo anche un tributo. La forma allocutiva di questo primo verso ci fa capire che
Boiardo è consapevole che la trasmissione dell’opera è orale, e quindi usa una formula che fa
sembrare di star parlando ad una folla (signori e cavallier che ve adunati…). Invita ad ascoltare la
bella istoria e a vedere i fatti smisurati (eccezionali, che vi muoveranno a meraviglia), l’alta fatica
(quella di Ercole) e le mirabil prove (riferimento dantesco).
II ottava: Boiardo giustifica la scelta della materia (non vi par meraviglioso), la fusione dei cicli
viene giustificata. La liricità si vede nel verso “è da amor vinto, al tutto subiugato”, sembra quasi
preso dal canzoniere di Petrarca. Anafora ripetuta in ogni mezzo verso fino all’inizio del distico
(né, né).
III ottava: ottava di giustificazione. Dice che questa storia non è conosciuta da molti, e dà
un’ipotetica fonte a questo racconto: Turpino (biografo di Carlo Magno e di Rolando) forse l’ha
nascosta, credendo di poter fare arrabbiare (essere in dispetto) al conte valente (ovvero Orlando
stesso). Con un artificio magnifico quasi da teatro invita il pubblico a cambiare la scena nel distico
finale (non più parole, veniamo al fatto). Il fatto è storiografico: stiamo entrando nella narrazione.
IV ottava: Turpino racconta dell’esistenza di un re in un oriente oltre l’India, quindi molto remoto,
che aveva una nobiltà antica, tanto potente da insuperbirsi e non stimare niente. Invenzione
boiardesca per colorare di elementi storiografici la materia che si intende narrare. Raffinatezza
poetica (amirante è un arabismo, Amir Al, comandante da cui viene la parola italiana ammiraglio) e
il cuore di drago e membra di giganti, gradasso, ci fanno capire di che tipo di personaggio stiamo
parlando (grande cattivo e superbo).
V ottava: con un tono grave e moraleggiante Boiardo comincia ad affermare che come succede ai
grandi uomini e potenti che vogliono avere quello che non possono, e per ottenere ciò che
desiderano finiscono per mettere il regno in pericolo, così anche Orlando, voleva ottenere i tesori
quali la spada e il cavallo.
VI ottava: apertura con un forte latinismo “unde”; fa radunare nel suo territorio la gente d’arme,
perché sapeva che non poteva ottenere col denaro i tesori che voleva, ovvero la spada e il cavallo.
VII ottava: non voleva usare direttamente tutti i cavalieri radunati, perché essendo gradasso voleva
vincere da solo con la sua superbia.
VIII ottava: tra la settima e l’ottava strofa abbiamo uno stacco narrativo fortissimo. Una volta
costruita l’immagine dell’esercito che vuole conquistare spada e cavallo, il Boiardo ferma questo
filo narrativo, e sposta l’azione su ciò che sta avvenendo nella corte di Francia con Carlo Magno e i
suoi magni baroni, che arma e conta (numera), perché si stava allestendo una giostra (duello)
ordinato durante la pentecoste.
IX ottava: erano in corte tutti i paladini (i dodici conti del palazzo). C’erano persone venute da ogni
parte, persone tutte d’onore (saraceni che non siano traditori né rinnegati).
X ottava: rima magni filipagni compagni (divina commedia canto IV inferno). Nel distico finale
Boiardo interviene ancora e interrompe la narrazione.
XI ottava: fortemente descrittiva, con suoni e immagini. Tutti si sforzavano per accontentare il
volere dell’imperatore (gioielli e oro).
XII ottava: ormai prima della giostra, si mette insieme un pranzo dove partecipavano circa 22mila
persone: ciascun signore e baron naturale (legittimo): naturale contro madornale, che sarebbe
illegittimo (lo troveremo nel II libro dell’Orlando).
XIII ottava: mentre Carlo siede con la faccia gioconda sopra un trono d’oro in una mensa rotonda.
Di fronte a lui siedono i saraceni, che preferiscono giacere per terra come cani su dei tappeti
secondo le loro usanze, sprezzando i costumi francesi.
XIV e XV ottava: la mensa si dispone da più nobile a meno nobile, Boiardo fa riferimento ai
cavalieri maganzesi come traditori, e mostra come il nobile Rinaldo li avesse in odio perché se ne
erano fatti beffe perché era addobbato in maniera meno ricca rispetto loro.
XVI ottava: aveva occhi di fuoco (guardare male), ma nascondeva dentro di sé ciò che pensava: se
lo incontra al duello, li fa fuori tutti.
XVII ottava: re Balugante, un re saraceno, guardava Rinaldo e quasi lo leggeva nel pensiero, e
domandava se nella corte di Carlo Magno si facesse più onore alla roba o la virtù, ovvero alle cose
materiali o al modo di comportarsi. Balugante essendo straniero è digiuno al costume dei cristiani.
XVIII ottava: Rinaldo spiega a Balugante che tra i cristiani si dà importanza a personaggi infelici,
ma alla fine si vedrà concretamente dove si colloca realmente ciascuno.
XIX ottava: l’imperatore Carlo Magno attraverso il lusso della mensa dove si indicano le
suppellettili (tovaglie, bicchieri, coppe) in una evocazione lussuosa non popolare ma aristocratica,
usa superlativi (grandissimi, finissimi). Fanno vedere che si tratta di qualcuno che sa gestire la
propria tavola in maniera ospitale.
XX ottava: il torneo è aperto tanto ai pagani quanto ai cristiani; “parlar basso e bei ragionamenti”:
espressione di galateo cortese, si parla piano per mantenere un certo contegno, in parallelo con
inferno IV dantesco, nella terzina “parlavan rado e con voci soavi”, mantenevano un contegno
degno di onore. Il re disprezza la gente pagana, ma la virtù ci accomuna tutti, quindi usa una
similitudine “come arena del mar denanti i venti” la sabbia del mare viene soffiata via attraverso i
venti, e Carlo così disprezza i pagani (immagine non propriamente felice, possibilmente Carlo dà ai
pagani la stessa importanza della sabbia che facilmente vola via). Poi succede qualcosa di inaudito e
tutti rimangono senza parole (sbigottire).
XXI ottava: arriva Angelica. Siamo di fronte ad uno straordinario ingresso in scena, la bella scortata
da quattro cavalieri giganti, e acquisisce tutti gli elementi tipici della poesia stil novistica (matutina
stella e giglio d’orto e rosa di verzieri: il verziere è una serra).
XXII ottava: le altre donne presenti a corte, che erano tutte di bella presenza (bella ciascuna-bella
parea: integrazione anaforica con inserto patico del dico) e di “virtù fontana”: petrarchesco, quando
nel canzoniere parla di “fontana di dolore” rivolgendosi ad Avignone. Con l’ingresso di Angelica
tutte le donne vengono messe in discussione, perché è assai più bella.
XXIII ottava: effetti dell’ingresso di Angelica a corte. “In quella parte ha rivoltato il viso”: tutti si
girano a guardare (gesto icastico, molto realistico); perfino i pagani che erano seduti a terra si
alzano e le vanno incontro. “Cuor di sasso”: immagine boiardesca; usa l’immaginario lirico per
combinarlo con quello epico.
XXIV ottava: parla Angelica. Discorso carico di menzogne: i due pellegrini non sono pellegrini, ma
sono venuti come emissari dall’estremo oriente. La fine del mondo non è intesa in senso letterale, la
vaghezza con cui è menzionata è indice di finzione, e non sono venuti per onorare lo stato giocondo
del re;
XXV ottava: Uberto da Leone è pseudonimo per il fratello di Angelica, Argalia. Il fatto che è stata
cacciata dal suo regno è un’invenzione boiardesca; per altro il termine angelica è un termine
chiaramente boiardesco; questo tipo di aggettivo utilizzato si concretizza in una figura reale
nell’Orlando innamorato.
XXVI ottava: “sopra alla Tana”: la tana sarebbe il fiume Don, quindi oltre il Don indica l’estremo
oriente, duecento giornate di cammino oltre il Don: lessico già incontrato nel Milione di Marco
Polo. Gli sono giunte notizie del torneo e del concistoro: il raduno che stavano tenendo. Il premio è
solo una corona di rose, simbolico rosario.
XXVII ottava: Argalia vuole cimentarsi in questo torneo, e finisce per invitare a svolgere queste
prime battute di scontri presso la fonte del pino al Petron di Merlino, tipico luogo della tradizione
bretone dei poemi cavallereschi. C’è un riferimento di questo nel Dittamondo nel libro IV capitolo
23.
XXVIII ottava: se Argalia riesce a vincere, nessuno di essi avrebbe diritto di continuare a
combattere. Se Argalia viene sconfitto, il vincitore avrebbe preso in premio Angelica stessa. “Vuol
provare”: mettersi alla prova.
XXIX ottava: Angelica aspetta risposta in ginocchio di fronte a Carlo, Orlando le si accosta con tutta
la casistica della fenomenologia amorosa in poesia: “cor tremante, cangiata vista” (impallidì:
riferimento ai trionfi del Petrarca, in particolare il trionfo d’amore, capitolo I verso 38; cangiata
vista è di fatto una sorta di trasfigurazione. Successivamente “e talor gli occhi alla terra bassava”
altro riferimento petrarchesco, e soprattutto “che di sé stesso assai si vergognava” si trova anche nel
verso proemiale del Canzoniere.
XXX ottava: Orlando parlava dentro di sé, chiamandosi un pazzo per essersi troppo lasciato
trasportare da questo errore che lo fa peccare contro Dio (era pure sposato); “non vedi tu…”: sempre
canzoniere di Petrarca, dove Petrarca ha ardore e Boiardo ha amore. “Vedome preso e non mi posso
aitare”: sonetto terzo del Canzoniere di Petrarca “Io che stimavo tutto il mondo nulla, senza arme
vinto son da una fanciulla”: medesima espressione all’ottava quarta, verso 6: “tutto il mondo
stimava niente”; considerava tutto al di sotto di sé. Orlando anche se armato perché cavaliere, non
ha come difendersi dall’amore, e quindi è disarmato.
XXXI ottava: “io” anafora tra fine dell’ottava 30 e inizio dell’ottava 31; gesto per aiutare l’oralità
ma che poi è rimasto come formula di recupero nella letteratura. “La dolce vista del viso sereno”:
citazione diretta da Cino da Pistoia, “la dolce vista e il bel guardo soave”. “Or non mi va la forza
né lo ardire”: altra memoria dei trionfi di Petrarca, capitolo III: “che a mie difese non ho ardir né
forza”. Queste due ottave sono una lamentazione di Orlando, consapevole di ciò che gli sta
succedendo.

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Il poema cavalleresco parte da ispirazione da fatti storici, per poi diluirsi in un’immaginazione
fantastica sempre più slegata dalla realtà. Dopo Ariosto, che aveva raggiunto le vette più alte dello
sviluppo del genere, comincia una meditazione epica sulla natura stessa del poema epico proprio in
ragione della scoperta della poetica di Aristotele. La poetica di Aristotele scompare dal panorama
medievale come fonte primaria, come gran parte della letteratura greca; l’umanesimo italiano nel
XV secolo riacquisisce la conoscenza del greco, anche grazie a Boccaccio. La meditazione
sull’epica comincia quindi solo dopo, negli anni ’40 del ‘500, e nel 1548 Giovanni Trissi, erudito e
grande critico letterario, riscopritore del De Vulgari Eloquentia, pubblica “l’Italia liberata dai goti”,
primo poema epico storico del ‘500; composto in endecasillabi sciolti (molto noioso), narra le storie
di Giustiniano e Bellisario, nella riconquista dell’Italia dopo le invasioni barbariche. Si sceglie
quell’argomento perché è un argomento storico, e perché nel 1527 c’era stato il sacco di Roma.
C’era bisogno di ragionare ancora e sviluppare ulteriormente il genere, e questo sviluppo avverrà
negli anni ’70 con Torquato Tasso, che rinnova ulteriormente il genere; questo rinnovamento passa
per la Gerusalemme Liberata.
LA GERUSALMME LIBERATA di Torquato Tasso
Legame con la realtà storica e il presente: l’argomento è una crociata. In quegli stessi anni le
punizioni antimusulmane si facevano sempre più forti, quindi l’argomento è attualissimo. Tasso non
accetta pacificamente il dialogo con il genere, perché si limita a pensare a “cosa potrebbe essere
cristianamente accettabile?”. Chi scriveva doveva far passare i suoi testi sotto l’occhio
dell’inquisizione, quindi parlare di argomenti troppo fantasiosi (maghi, stregoni, pozioni) poteva
essere rischioso, quindi essendo impaurito evita di trascendere troppo con la fantasia; l’unico modo
era inserire i miracoli, perché cristianamente sono riconosciuti come fatto storico.
Non è un caso che pochi anni dopo venga pubblicato Don Chisciotte, che è un romanzo sulle follie
cavalleresche di una figura che ha finito per confondere realtà e fantasia.

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