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DIVINA COMMEDIA

Inferno, canto 31: (canto di transizione dove si narra il passaggio dalla fine delle male bolgie al
cocito ovvero la parte più profonda dell’inferno)
Alla fine delle male bolge, Virgilio rimprovera Dante per essersi fatto ammaliare da una rissa fra
due dannati: “una medesma lingua pria mi morse” (venire rimproverato). Dante addirittura
arrossisce perché si vergogna della sua azione. Voltano le spalle alle male bolge e si avviano ad
attraversare la riva intorno in totale silenzio. Non era né notte né giorno, con una penombra
crepuscolare. Dante passa dal campo semantico della vista a quello dell’udito: non vede nulla, non
riesce a distinguere gli oggetti, ma ad un certo punto sente un suono di tromba che avrebbe fatto
sembrare il suono di un tuono piano. Dante sposta la testa verso l’origine del suono, in un gesto
mimeticissimo. “Quiv'era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; ma
io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via
seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.” A Dante viene in mente un episodio della
chanson de roland, e paragona il suono del corno appena sentito con il corno suonato da Orlando
prima di morire per chiamare i rinforzi in battaglia. Dante pensa di stare vedendo delle torri in
lontananza, e chiede a Virgilio cosa ci sia lì, e Virgilio gli risponde che dato che è troppo lontano da
ciò che sta guardando e molto buio, rischia di confondere ciò che vede, ma appena si avvicinerà al
luogo che sta osservando si accorgerà di quanto sta sbagliando, poiché ciò che vede non sono torri,
ma giganti; Virgilio lo prende per mano, pure come succedeva nel III canto, un gesto paterno.
Questi giganti sono sottoterra dall’ombelico in giù, quindi spunta solo il loro busto. Nonostante
Virgilio lo avesse avvertito, quando la nebbia si dissipa (vv.33-39) e Dante vede i giganti, si
spaventa comunque.
vv.40-44: l’immagine che crea Dante è quella di un muro a forma di cerchio, formato dagli orribili
giganti.
vv.45-47: riusciva a scorgere già dei giganti, e descrive più da vicino cosa vede.
vv.48-57: è una digressione, attracco quasi filosofico. La natura è creatrice, artefice; quando la
natura smise di creare tali creature, fece molto bene, soprattutto per sottrarre gente che avrebbe fatto
fin troppo bene la guerra, formidabili soldati (toglie tali persecutori a Marte). Non si è pentita la
natura degli elefanti e di balene, perché quando si aggiunge alla potenza bruta anche la coscienza
umana e il ragionamento con volontà malvagia (quasi Schopenhauer), farebbero del male con
volontà sistematica, e non si lascia scampo. Tre terzine di digressione.
vv.58-65: finalmente Dante ci descrive come è fatto il gigante. La faccia gli sembrava lunga e
grossa come la pigna (pina) di San Pietro a Roma, e tutto il resto era in proporzione. Dalla terra che
copriva la parte inferiore, mostrava dalla terra fino al collo quello che avrebbero potuto raggiungere
a malapena tre frisoni (tre persone altissime dalla Frisa), e dalla spalla all’ombelico c’erano trenta
palmi. Quando nel canto 34 nel v. 30 si parla di Lucifero, egli spunta dalla terra ghiacciata, e Dante
afferma che lui stesso sia più proporzionato a uno dei giganti incontrati in precedenza, rispetto a
quanto un braccio di uno di quei giganti stessi sia proporzionato a Lucifero.
vv.66-80: nel momento in cui il gigante si accorge di loro, urla delle parole che sembrano non avere
senso (Raphèl mai amécche zabi almi), riecheggiano nei suoni delle lingue orientali, simile a come
gridava Pluto nel canto VII, versi indecifrabili, ma anche come i nomi dei diavoli; è una cosa fatta a
orecchio da Dante, dato che effettivamente lingue orientali non ne conosceva. Ma a differenza delle
altre vocazioni, qui ha un senso, perché il gigante dovrebbe essere Nembròt, e nel contrappasso
dantesco finisce per parlare una lingua che non capisce nessuno (bocca cui non si convenia più
dolci salmi). Virgilio gli dice di cercare il corno che ha legato al collo, chiamandolo anima confusa,
e di usarlo per sfogarsi. Poi si rivolge a Dante, dicendogli che lui si fa esplicito del suo stesso
peccato parlando così, e lo presenta a Dante come Nembròt, affermando di lasciarlo stare (non
parliamo a vuoto), non perdendo tempo, perché come a loro il suo linguaggio è sconosciuto, anche
tutti gli altri linguaggi sono sconosciuti a lui.
vv.81-90: procedendo verso sinistra, vedono un secondo gigante ancora più feroce, bestiale e
grande. Si sta per descrivere Efiante, con una descrizione che però è problematica: il gigante è
legato da una catena fatta non si sa da quale artigiano, ma gli teneva il braccio sinistro avanti e
dietro il braccio destro: una posizione strana. Nell’Escatologia islamica in Dante scritto nel 1919
di Asin Palacios afferma che in oscuri testi di mistica islamica il diavolo (Iblis) viene ritratto in
questo modo: braccio sinistro avanti e braccio destro dietro; potrebbe essere una coincidenza, però
l’immaginario è talmente preciso che si viene da chiedersi dove Dante abbia acquisito questa
informazione. L’arabistica a Firenze non era conosciuta, fin quando non è stata ritrovata
documentazione che riferisce alla lettura del libro della scala, testo escatologico islamico che
racconta l’ascesa al paradiso e all’inferno di Maometto, che verrà poi citato nel “Dittamondo” di
Fazio degli Uberti, che scrive quest’opera in terzine dantesche descrivendo questo viaggio in una
dimensione ultraterrena, che a differenza della commedia finisce ad essere un’opera di carattere
enciclopedico. Dentro il libro della scala non c’è alcun riferimento a Iblis, il Lucifero islamico, però
quanto meno testimonia l’accesso ad una determinata letteratura in un periodo non lontano da
quello dantesco. Ovviamente questo libro arriva in Italia in volgare, quindi stiamo considerando la
possibilità che certe immagini possano essere sfuggite e non sappiamo oggi, perché la coincidenza è
troppo precisa. Ciò dichiara però la circolazione di testi di mistica islamica anche a Firenze (a
Venezia già si parlava l'arabo a scopi commerciali). Ne accertano l’esistenza almeno dopo un paio
di decenni dall’esilio dantesco, ma questo libro testimonia l’accesso e la circolazione dei testi
islamici. Certe immagini dantesche possono essere derivate da fonti a noi ignote soprattutto per le
descrizioni strettamente dettagliate. Aspetti dell’oltretomba islamico: corpi giganti secondo cui la
grandezza corporale corrisponde alla grandezza della sofferenza.
vv.91-110: Virgilio dice che Efiante ha voluto sperimentare la sua forza contro Dio, e che qui ha la
giusta ricompensa; per contrappasso, lui non può muovere le braccia perché le aveva usate nella
battaglia. Dante vorrebbe vedere Briareo, ma Virgilio gli dice che in realtà vedranno Anteo, gigante
ucciso da Ercole; lui non è incatenato, e li porterà nel cocito. Briareo è molto più lontano, ed è
legato come Efiante, e tanto più mostruoso. A quel punto Efiante dà una scossa così forte da
sembrare un terremoto (gesto rubesto), e Dante si spaventa così tanto da temere la morte, se solo
non fosse stato legato.
vv.111-134: più avanti trovano Anteo, e Virgilio si rivolge a lui con un vocativo, celebrandone le
doti: per descrivere la sua provenienza usa una perifrasi di due versi (tu che vieni dalla valle…).
Molto diverso da come si era rivolto a Nembròt; gli chiede di guidarli al cocito, facendo la richiesta
di non farli andare da altri giganti, perché Dante può dare ad Anteo la gloria poetica: l’omissione di
qualcuno equivale a portarlo all’oblio. Allora lui li prende, e li porta sulla sua mano: Dante e
Virgilio sono tutt’uno, anche a livello metapoetico (un fascio era elli e io).
vv.135-145: una volta che Dante e Virgilio diventano tutt’uno, avviene il transito. Dante dà ancora
una volta una descrizione mimetica della realtà: mentre Anteo si china, Dante ha l’impressione di
vedere la Carisenda (torre di Bologna) mangiata dalle nuvole, avendo un’impressione di instabilità,
e pensa che lui avrebbe fatto un’altra strada. Finora abbiamo avuto solo rime piane (accento sulla
penultima sillaba), ma il canto finisce con una rima tronca (sposò…si levò).
Perché proprio i giganti, figure mitologiche pagane, in un passaggio come questo? Dante lo spiega
implicitamente, essi nella mitologia pagana si ribellano agli dei e vengono scagliati giù dal monte;
c’è una sorta di prefigurazione del male assoluto. Ma in questo caso, ci ricolleghiamo a Nembròt,
della torre di Babele: nascita di tutti i volgari provenienti dal mondo biblico. Eguaglia la stessa
azione che i giganti pagani fecero, ovvero il voler usurpare il trono di Zeus.
DITTAMONDO di Fazio degli Uberti – Qui viene citato il Libro della Scala e Maometto

Macometto: – Quanto fia la vittoria


de l’arme, in noi la legge de’ durare.
E quanto durerá la nostra gloria
nei beni temporal, tanto, per fermo,
lucerá chiara la nostra memoria. 75
Non son mandato al mondo col mio sermo
a far miracol, ma venni in virtute
de l’arme e queste usate a vostro schermo –.
E cosí mostra ch’ogni sua salute
ne l’arme fosse e nei ben temporali 80
e che l’altre vertú li fosson mute.
Ancora afferma lor, tra gli altri mali,
che ’n paradiso son molti giardini
pieni dei ben del mondo e spiritali,
e che di latte, di mèle e di vini 85
fiumi si truova e chiare fontanelle,
fiori per tutto e canti dolci e fini,
donne con ricche veste, accorte e belle,
e giovinetti di gentili aspetti
con vergognose e vezzose donzelle. 90
E tutte queste cose a’ lor diletti
dice che usar potranno cosí, come
nel mondo fanno, e seran lor suggetti.

Banalizzazione dell’escatologia e della mistica islamica e del Paradiso islamico, di cui egli aveva
una conoscenza limitata anche dal punto di vista teologico. Descrive il Paradiso islamico come
una riproposizione di beni mondani.
Ancor nel libro suo, che Scala ha nome, Ancora nel suo libro denominato Scala
dove l’ordine pon del mangiar loro, 95 pone l’ordine del mangiare (definisce un regime
divisa e scrive qui ogni buon pome. alimentare, tipico delle religioni monoteiste)
Vasellamenti d’ariento e d’oro,
dilicate vivande e dolci stima
su per le mense, ove faran dimoro.
De le vivande, dice che la prima 100
iecur, fegato, è e pesce apresso,
poi albebut, che d’ogni cibo è cima.
Or puoi veder, se noti fra te stesso,
che Macometto in ogni sua parola Secondo Fazio avrebbe mondanizzato i premi
beatitudo pone che sia espresso 105 spirituali che invece il cristianesimo avrebbe
nel vizio di lussuria e de la gola”. concesso a coloro che avrebbero perseguito il messaggio

Nella descrizione delle credenze islamiche, egli si basa esclusivamente su una fonte di carattere
popolare e afferma che questa fede sia fondata sul materialismo peccaminoso.
PARADISO CANTO XXVI in cui Dante incontra Adamo (v.124-138) Dante gli chiede che lingua
si parlasse al suo tempo, e Adamo gli dice che la lingua che lui parlava è tutta spenta.
La lingua ch’io parlai fu tutta spenta La lingua che io parlai era già scomparsa innanzi
che a l’ovra inconsummabile prima che la gente di Nembrot si dedicasse
fosse la gente di Nembròt attenta: 126 all’opera che non poteva essere completata:

ché nullo effetto mai razïonabile, Infatti ogni cosa umana, compresa la lingua
per lo piacere uman che rinovella non è mai duratura a causa del piacere umano,
seguendo il cielo, sempre fu durabile.129 che cambia in base al tempo (seguendo il cielo).

Opera naturale è ch'uom favella; L’uomo parla per natura ma poi sta all’uomo
ma così o così, natura lascia usare questo dono come meglio può.
poi fare a voi secondo che v'abbella.132

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, Prima che io scendessi nel limbo
I s’appellava in terra il sommo bene “I” era chiamato in terra Dio
onde vien la letizia che mi fascia;135 da cui proviene la gioia che mi avvolge;

e El si chiamò poi: e ciò convene, Venne poi chiamato “El”


ché l’uso d’i mortali è come fronda secondo l’uso degli uomini che muta come
in ramo, che sen va e altra vene.138 la foglia sul ramo (ripresa delle foglie di Omero)

IV CANTO DELL’INFERNO (ovvero il canto del Limbo - morti prima dell’avvento di Cristo)
Qui vengono descritti alcuni letterati e filosofi che ci danno un canone delle letture dantesche.
Siamo all’inferno, ma non in area di punizione, a seguito dell’ingresso della porta infernale. Dante
vi approda incosciente, perché nel III canto era svenuto guardando gli ignavi picchiati da Caronte.
vv.1-6: Dante si risveglia, riscosso da un “greve truono”, collegato al terremoto del canto
precedente.
vv.7-12: era così buio che non si distingueva cosa ci fosse dentro
vv.13-24: Virgilio dice a Dante di seguirlo e di affidarsi a lui, ma Dante gli domanda come può
affidarsi a lui se percepisce la sua paura? Dante ancora non sa che Virgilio fa parte di questa parte
dell’inferno, e quindi le sue emozioni sono in subbuglio per questo, per l’empatia nei confronti dei
suoi compagni, il suo pallore erroneamente scambiato per paura da Dante.
vv.25-27: impedendo l’oscurità di usare la vista, Dante si affida al senso dell’udito. Non c’erano
pianti e strepiti come nel III canto, ma solo sospiri, che si ricollegano alla sensazione di Virgilio di
prima, ovvero l’angoscia (ansia) delle genti.
vv.28-42: questi sospiri erano senza punizioni corporali, c’erano masse di persone giovani, donne
uomini e bambini. Virgilio spiega chi sono: sono spiriti che non hanno compiuto peccati, ma
nonostante ciò non basta, perché non hanno ricevuto il battesimo o addirittura sono nati prima della
nascita del battesimo, e tra questi c’era Virgilio stesso; per queste mancanze, e non per altro
peccato, sono perduti, e vivono la loro punizione nel desiderio di essere salvati, ma senza la
speranza di poterlo essere davvero. Questo torna nel III canto del purgatorio, in particolare
nell’antipurgatorio dove Virgilio dice a Dante che stava indugiando “matto chi spera che la
ragione… e rimase turbato”; qui Virgilio parla di sé stesso: il ben far non basta, ci vuole la fede, ed
è folle chi spera che la razionalità possa abbracciare l’infinito e il miracolo della trinità.
vv.43-45: Dante si dispiace che queste anime sono sospese in questo limbo (la parola limbo nel XIII
sec. non era ancora conosciuta, nonostante dove finissero i non battezzati fosse un problema che i
teologi si ponevano; il limbo è una parte della dimensione oltremondana coranica, e nell’oltretomba
islamico ha una duplice connotazione, tanto infernale quanto paradisiaca: muraglia che divide
l’inferno dal paradiso, o luogo in cui i credenti cui le opere di bene sono eguali a quelle negative,
attendono che Allah decida la loro sorte. Non c’è prova che connetta Dante con questa
informazione, ma il limbo come luogo di desiderio non è un elemento appartenente alla teologia
cristiana, e trova questa coincidenza con la teologia musulmana).
vv.46-63: Dante chiede se qualcuno sia mai uscito da quel limbo, e Virgilio risponde che lui era
arrivato da poco quando è venuto Cristo con la palma; Cristo va nel limbo, prende alcuni spiriti e se
li porta in paradiso, ma solo quelli che credevano in lui anche prima del suo avvento (Adamo,
Abramo, Davide, Mosè, Noè, Rachele) e a parte loro nessun altro spirito umano è stato salvato.
vv.64-93: Dante comincia a vedere una luce nelle tenebre, ovvero la luce della ragione. Dante si
rivolge a Virgilio come colui che onora scienza ed arte, chiedendogli chi sono coloro che hanno
tanto onore da separarli dal resto degli spiriti, e Virgilio risponde che il loro nome risuona nella vita
mondana (suo presente). Una voce si sente che dice “onorate…” parlando di Virgilio. Quarta volta
che c’è la parola “onore”. C’è Omero, poeta sovrano, Orazio, Ovidio e Lucano. Ciascuno conviene
con Virgilio quel nome che i quattro hanno evocato (altissimo poeta) lo onorano, e fanno bene,
perché onorano essi stessi come altissimi poeti.
vv.94-102: metafora della poesia come uccello (aquila vola). Si riuniscono insieme, parlano tra di
loro, e fanno a Dante un gesto di saluto: Virgilio sorride tanto, e Dante è onorato di essere invitato a
unirsi alla bella scola di questi poeti classici, i cinque diventano sei.
vv.103-111: si riuniscono attorno al fuoco e conversano fino all’alba. Arrivano ai piedi di un
castello circondato da sette cerchi di mura (riferimento al corano), con attorno un fiume; entrando
giungono in un prato, metafora dei piaceri terreni (anche Petrarca scriveva del prato verde, ma di
fare attenzione perché tra l’erba e i fiori giace una serpe).
vv.112-120: in questo prato c’erano persone “con occhi tardi e gravi”. Parlavano poco e sempre in
maniera profonda. Poi cercano di raggiungere un luogo sopraelevato per scorgerli tutti; Dante si
rispecchia negli “spiriti magni”, ovvero anime grandi, e si eleva nuovamente, dopo essersi già
riconosciuto in mezzo ai grandi poeti.
vv.121-129: Dante cataloga una serie di figure che egli riteneva storiche: i primi tre nomi sono
greci, Elettra, Ettore ed Enea. Dante non aveva letto le tragedie, quindi Elettra proviene da un’altra
fonte che è comunque riconducibile all’Eneide. Poi incontra Cesare armato con occhi “grifagni”:
campo semantico degli uccelli (grifo), rendendo appropriata la missione di Cesare, infatti il simbolo
dell’impero è l’aquila, un uccello rapace: nel canto VI del Paradiso Dante incontra Giustiniano, che
nei primi versi in cui parla, narra proprio dell’aquila. Cesare non sta in paradiso, quindi l’aggettivo
grifagno potrebbe non essere positivo. Dopodiché, vede tutti quelli che hanno contribuito alla
fondazione di Roma: c’erano greci, latini e anche un saraceno (saladino); questo saraceno
presentissimo nella novellistica, finisce per avere nella scrittura dantesca un posto tra gli spiriti
magni.
vv.130-144: alzando di più gli occhi (le ciglia, sineddoche) Dante vede Aristotele al centro, in
mezzo ad altri filosofi. Tutti lo riveriscono, e vede Socrate e Platone che gli sono più vicini rispetto
agli altri. Verso dopo verso capiamo che Dante sta costruendo una gerarchia: dopo Socrate e
Platone ci sono tutti gli altri. Democrito, pensatore dell’atomismo, Diogene, Anassagora e Tale,
Empedocle, Eraclito e Zenone. Poi Diascoride, Orfeo, Tulio, Lino e Seneca “morale” (fino ad
all’ora il Seneca “tragedioso” non era ancora conosciuto). Euclide e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna
e Galieno (medico) e Averois. L’elenco è un espediente tipico dei poemi, come ad esempio fa
Omero nell’Iliade.
vv.145-151: di fronte a una materia troppo elevata e complessa, la possibilità di esprimersi cede al
soggetto che si tenta di essere espresso. Questo è il corrispettivo del nostro “io non ho parole”, ed è
la figura retorica dell’ineffabilità, il non potersi esprimere. Il gruppo di sei si divide in due parti;
adesso stanno per entrare nel girone dei lussuriosi, e la prima cosa che si nota dall’assenza di luce.
L’IMPERO ROMANO E IL LATINO (De monarchia e Convivio)
Dante stesso nel libro IV e V del De monarchia afferma che l’Impero romano tanto quanto la chiesa
di Roma è un’istituzione provvidenziale. La prima perché fa sì che grazie alle leggi si creasse una
condizione di giustizia in terra per far venire il figlio di Dio, la seconda perché rispecchia la
successione di cristo in terra. Secondo l’interpretazione dantesca il figlio di Dio nasce durante la
Pax Augustea, quando non c’erano più guerre e il mondo era stato pacificato grazie
all’applicazione delle leggi di un’istituzione che possedeva tutto e quindi non era avara (non
possedeva attributi del peccato originale di Lucifero, ovvero superbia invidia e avarizia, “le tre
faville che hanno i cuori accesi” INF.VI). La manifestazione di Dio tramite suo figlio avviene in
una condizione di giustizia e quindi pace.
o PARADISO CANTO VI dove Dante incontra Costantino (v.79
Con costui corse infino al lito rubro; Con lui (Ottaviano Augusto) l’impero si
con costui puose il mondo in tanta pace, estese fino al Mar Rosso e portò la pace
che fu serrato a Giano il suo delubro. nel mondo (Pax Augustea) che chiuse le
(Se le porte del tempio erano aperte porte (delubro) del tempio di Giano.
significava che Roma era in guerra)
Ma ciò che ’l segno che parlar mi face Ma ciò di cui l’aquila (segno) ovvero Giustiniano
fatto avea prima e poi era fatturo mi ha fatto parlare sembra insignificante rispetto
per lo regno mortal ch’a lui soggiace a ciò che accade sotto il terzo Cesare (Tiberio).

diventa in apparenza poco e scuro,


se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;
(La conta dei Cesari per Dante parte da Caio Giulio che però
Non fu mai Princeps. Sotto Tiberio avviene la crocifissione.)
ché la viva giustizia che mi spira, Al terzo Cesare fu concesso di vendicare l’ira
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, di Dio
(la prima ira di Dio è il peccato originale)
gloria di far vendetta a la sua ira .
(Con la crocifissione si redime in maniera
figurale il peccato originale)

L’impero è per Dante l’istituzione di una monarchia universale che ha come scopo di mettere
ordine in questo contesto. Dante accomuna questa funzione dell’impero a quella della
“grammatica” per lui intesa come il latino astratto parlato attraverso i secoli (quindi avente sempre
lo stesso fine di mettere ordine nel disordine). Poi nel De Vulgari Eloquentia cambia idea e afferma
che il latino non è più in grado di rispecchiare la situazione politica del suo tempo, teorizzando la
nascita di un volgare illustre.
o DE MONARCHIA: nel 1313 stava arrivando l’ultimo imperatore, era da più di 40 anni che
un imperatore non veniva a reclamare la corona romana. Dante scrive la monarchia per
giustificare filosoficamente e giuridicamente la venuta dell’imperatore, l’impero doveva
essere legittimo poiché salvifico.
o CONVIVIO trattato IV
Capitolo IV - Dante spiega le ragioni della monarchia universale.
Onde, con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma
sempre desideri gloria d'acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene
surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze,
e per le vicinanze delle case [e per le case] dell'uomo; e così s'impedisce la felicitade.
[Parlando dell’avidità umana] Dal momento che l’animo umano non si accontenta di ciò che ha ma
desidera sempre gloria, come abbiamo visto accadere, sorgono guerre tra le città, queste
impediscono la felicità ovvero l’obbiettivo di ricerca dell’uomo come compagnevole animale. La
politica di Aristotele inizia con lo ζῷον πολιτικὸν ovvero l’animale politico questo aggettivo è
inteso come in grado di vivere dove ci sono molte persone, quindi in un contesto sociale. Ed è da
Aristotele che Dante associa l’aggettivo compagnevole all’uomo.
Il perché, a queste guerre e alle loro cagioni tòrre via, conviene di necessitade tutta la terra, e
quanto all'umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e
uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna
contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in
questa posa le vicinanze s'amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual
preso, l'uomo viva felicemente: che è quello per che esso è nato.
Per evitare le guerre, il cui innesco è l’avidità dei soggetti politici coinvolti, è necessario che si sia
una sola monarchia universale che possegga tutto ed in questo modo eradichi il desiderio
impossesso degli altri.
[…] Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo officio d'imperio si
richeggia, non fa ciò l'autoritade dello romano principe ragionevolemente somma, la quale
s'intende dimostrare: però che la romana potenza non per ragione né per decreto di convento
universale fu acquistata, ma per forza, che alla ragione pare essere contraria.
Qualcuno si potrebbe opporre a questa visione della monarchia come necessaria per il
raggiungimento della felicità ma Roma non si è imposta per diritto (ragione) o per approvazione
universale ma si è imposta con la forza.
Capitolo V – Narrazione storiografica dei fatti di Roma al fine di giustificare l’ascesa dell’impero
E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di
Troia in Italia, che fu origine della cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai
è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu
contemporaneo alla radice della progenie di Maria.
Qui Virgilio e la bibbia vengono equiparati nella storia della salvezza. (Cosa canta Virgilio
nell’Eneide: condizione storica dell’impero romano come condizione ideale per la nascita di Gesù
Cristo, ovvero il momento in cui c’è la giustizia. Nel VI canto del paradiso, dove Dante parla con
Giustiniano, dopo che egli narra tutte le vicende della Roma monarchica e repubblicana, precedente
all’impero romano; alla fine, con Augusto, arriva la pax augustea: tutto quello fatto
precedentemente diventa insignificante sotto quello che succede sotto Tiberio, poiché c’è la
crocifissione di Cristo. La morte di Cristo è provvidenziale, e Virgilio sancisce in poesia ciò che
sarebbe successo nei secoli a venire. Nel canto 22 del purgatorio, dove Dante e Virgilio incontrano
Stazio, poeta antico prossimo alla salvazione, si rivolge a Virgilio come colui che gli aprì gli occhi
alla cristianità, poiché Virgilio gli chiede come mai non fosse nel limbo dato che quando scriveva i
suoi poemi non era ancora cristiano. Per Dante l’impero non è un fatto astratto: quando scrive la
monarchia nel 1313, stava arrivando l’ultimo imperatore, dopo 40 anni che nessuno venisse a
reclamare la corona romana. L’impero doveva essere legittimo, perché salvifico. Nel IV libro del
convivio, capitoli 4 e 5, Dante spiega le ragioni della monarchia universale: l’essere umano non si
accontenta mai di quello che ha, impedendo la felicità, ovvero l’obiettivo di ricerca dell’uomo come
compagnevole animale, in un contesto sociale. Per ottenere questa felicità ed evitare le guerre, è
necessario ci sia una monarchia universale che possegga tutto, ed eradichi così il desiderio di
possesso degli altri. Nel capitolo 5, c’è un racconto storiografico dei fatti di Roma che giustifichi
l’ascesa romana; Dante costruisce dei paralleli: inizia la stirpe di David, e viene fondata Roma.)

XXVIII CANTO DELL’INFERNO (dove Dante incontra Maometto + canto degli scismatici)
Gli scismatici sono coloro che creano spaccature di visioni e include tanto coloro i quali hanno
prodotto scismi nella religione: la religione musulmana è vista come uno scisma della religione
cristiana (la Bibbia è un libro sacro anche per i musulmani), quanto chi ha prodotto scismi politici
all’interno della stessa città: guelfi e ghibellini.
vv.1-6: chi ha parole abbastanza calzanti per descrivere la terribile pena per questi dannati? La
lingua e la mente possono appena immaginare e riprodurre quello che sta per descrivere
(ineffabilità).
vv.7-21: Dante per descrivere lo stato dei dannati in questa bolgia, usa quattro terzine: se si
radunasse tutta la gente che in Puglia avesse versato sangue sia per Enea che per i troiani, sia per
raccontare la guerra degli anelli, che rappresenta le battaglie delle guerre puniche raccontate da
Livio, o le battaglie nel sud Italia con Roberto Guiscardo… ecc. avremmo difficoltà a paragonare le
mutilazioni avvenute in decine di battaglie nel corso dei secoli, a ciò che si vedeva in questo ambito
dell’inferno: era perfino peggio.
vv.22-24: se la botte venisse rotta perdendo assi verticali e orizzontali, non si aprirebbe comunque
come la persona che gli stava dinnanzi. Parole distanziate ma ricomposte quasi a voler fare una
mimesi di quello che Dante voleva esprimere, ovvero la rottura del corpo. Una botte non si rompe
in questo modo, come vede uno rotto dal mento fino all’ano (dove si trulla).
vv.25-27: tra le gambe gli pendevano gli intestini, e lo stomaco (tristo sacco: immagine infernale e
termine polisemico; nel VI canto dell’inferno ricorre questa parola, nel girone dei golosi, coloro i
quali che vengono puniti per incontinenza della gola, evoca il significato parallelo. Nel canzoniere
di Petrarca troviamo “l’avara Babilonia ha colmo il sacco”, ovvero colma di ira di Dio.) che
digerisce il cibo (merda). Siamo all’apice del comico (come canto XXI “ed egli avea del cul fatto
trombetta” e anche canto XXX “fatto a guisa di leuto…”), e icastico, perché parla per immagini,
ma non c’è niente di umoristico: è una descrizione dell’orrido.
vv.28-36: Dante non riesce a rimuovere lo sguardo per quanto volesse, e Maometto parla, dicendo di
guardare com’è aperto, perché ha causato lo scisma tra sunniti e sciiti, quindi non è all’inferno per
aver creato una religione nuova, ma per essere un eretico avendo creato uno scisma nel
cristianesimo, unica vera religione monoteista. Jacopo Alighieri commenta questo canto, ma non
capisce a fondo la natura del contrappasso di Dante. Esiste una fonte che dice che Maometto sia
morto sbranato dai maiali; il testo rientra nella patrologia latina, “Historia de Mahumete”, canto
XV. Lì si trova il riferimento alla morte di Maometto; questo testo non è una fonte di Dante, ma nel
medioevo c’era la credenza popolare che Maometto fosse morto così.
Jacopo Alighieri (1322), Inferno 28.31-33
“Conciosiacosa che per due modi la presente colpa si contiene, in prima qui dello scismatico,
siccome per men grave, si conta, il quale lo scommettere d'una fede in altra errando s'intende. Tra'
quali d'alcun grande prelato di Spagna, nominato Maometto, con alcuno suo conpagno nominato
Ali, qui si concede, il quale anticamente essendo dal papa di Roma alcuna volta mandato oltremare,
per invidia di sua facultade con grande inpromissione a predicare [di] Cristo, e con vittoria di fede
tornando, e non trovando alle promessione fermo volere, ritornato di là e il contrario predicando
ridisse, affermando la credenza che al presente pe' saracini si ritiene. Onde per cotale aprire d'animo
e d'intelletto, come per lui e simigliante per [lo suo] compagno contra nostra fede predicando si
fece, così figurativamente aperti qui i lor corpi si fanno e così simigliantemente degli altri
s'intende.”
Maometto e Alì vennero inviati come prelati spagnoli inviati dal Papa a predicare oltremare, in
Oriente. Nonostante riuscì a convertire le persone e a ricevere i premi promessi dal Papa, ritornato
in Oriente decise di predicare il contrario di quanto fino ad ora aveva detto affermando di fatto la
credenza che oggi è propria dei Saraceni: l’odierno islam. Anche se Jacopo non comprendendo la
legge del contrappasso, sostiene che la pena di essere spaccati in due sia per l’apertura d’animo
verso l’eresia, ma invece per Dante sono il riflesso delle spaccature create nella società. Un
commento dice sempre di più sulla persona che lo redige piuttosto che sul testo che viene
commentato.
Embricho Moguntinus, Historia de Mahumete, Canto XV v.4-7
Fonte antecedente a Dante che descrive Maometto come morto sbranato da maiali. Si trova
all’interno della patrologia latina (raccolta di tutti coloro che sono considerati capi della chiesa); la
tradizione letteraria medievale concepiva la morte di Maometto per smembramento, percezione
comune anche a Dante = PARALLELISMO
Ultor adhuc stabat grex, et regem lacerabat,
Ac si lege cibi sit datus ille sibi.

Sed veniente mago cessit porcina vorago,


Atque caput scelerum deseruit lacerum.
vv.37-51: un diavolo sta lì e li riduce in quel modo (“accisma”), poi quando i peccatori completano
il giro della bolgia, le ferite sono guarite e vengono lacerati nuovamente. Poi si rivolge a Dante,
chiedendogli chi sia lui per giudicare (n’su lo scoglio muse, ovvero volgere il muso, a guardare a
bocca aperta, termine comico), e Virgilio risponde che lui non è morto e non merita di stare
all’inferno, ma si trova lì per avere esperienza piena. La visione dantesca è funzionale alla
salvezza, e la paura guida l’incertezza di fronte i pericoli, è necessaria per crescere. Stessa
esperienza del canto XXVI dove Ulisse parla ai suoi compagni di viaggio “non vogliate negar
l’esperienza”, sollecitandoli per continuare il viaggio.

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