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SANDOR PETÖFI
Sandor Petöfi nasce a Kiskörös l’1 gennaio 1823 da madre slovacca, lavandaia, e padre serbo, di
professione oste e macellaio, il cui nome era Stevan Petrovič, il quale risiedeva nella zona slovacca
di Nograd, al confine con la pianura ungherese. Petöfi si sentì però sempre ungherese, come del
resto tale si sentiva il padre, e a vent’anni muta il suo cognome originario
Petrovič nella forma ungherese Petöfi. Nel 1847 sposa, dopo un
corteggiamento serrato ma contrastato dalla famiglia di lei, la giovane
Julia Szendrey, conosciuta l’anno prima durante un ballo nel castello
Karelyi a Carei (Transilvania, oggi Romania), dalla quale ha un bimbo
nel 1848. Nel 1849, aderendo all’appello di Lajos Kossuth a combattere
contro i Russi, accorsi in aiuto dell’Austria, si reca a combattere in
Transilvania al seguito del generale polacco Jozef Bem, suo amico oltre
che suo grande estimatore: sul campo di battaglia di Segesvàr (l’attuale
Sighișoara, in Romania), muore valorosamente il 31 luglio, anche se il
suo corpo non fu mai ritrovato, dando adito così a numerose leggende
(fra le quali, per esempio, che egli sarebbe stato preso prigioniero dai Russi e deportato in Siberia,
dove sarebbe morto molti anni dopo di tubercolosi).
Le sue composizioni poetiche sono datate dal 1844, quando Petöfi aveva appena 21 anni, fino al
1849, l’anno della morte: cinque anni in tutto, dunque, ma non per questo sono poche, ché anzi
notevole e variagata fu la sua produzione. Sono da ricordare almeno le raccolte Poesie (Verzek,
1844; secondo volume Verzek II, 1845); Foglie di cipresso sulla tomba di Etelke (Cipruslombok
Etelke sírjára, 1845); Nuvole (Felhők, 1846); raccolte poi confluite in Tutte le poesie (Összes
költeményei, 1847); e ancora il famosissimo Nemzeti dal (Canto nazionale), pubblicato
singolarmente nel 1848 e diffuso a migliaia di copie fra i soldati ungheresi. Vanno poi ricordati
alcuni poemetti, e in particolare: Giovanni il prode (János vitéz, 1845); Stefano il folle (Bolond
Istók, 1847); L’apostolo (Az apostol, 1848). Isolati nella sua produzione sono, infine, il romanzo I
doveri del boia (A hóhér kötele, 1846) e la novella La tigre e la iena (Tigris és hiéna, 1847).
Considerato poeta nazionale ungherese, Sandor Petöfi nella sua poesia celebra tre temi principali:
l’amore per la donna (nella fattispecie per la moglie Julia), quello per la sua Patria (l’Ungheria) e
quello per la libertà (con forti connotazioni politiche).
L’amore per Julia Szendrey fu certamente una delle più importanti fonti di ispirazione per la sua
poesia: della donna si innamorò, come già detto, con un colpo di fulmine nel 1847, durante una
serata di ballo nel castello Karelyi a Carei. Superate le resistenze del padre di lei, che considerava
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Petöfi un artista scioperato, oltre che politicamente compromesso, l’unione fra i due fu
particolarmente felice (ne nacque anche un figlio, Zoltàn, nel 1848), e il sentimento d’amore che li
legava particolarmente intenso. A lei Petöfi dedica una lunga serie di liriche, nello stile tipicamente
romantico, dense di immagini delicate e suadenti, anche se spesso gravate
da un’ombra funebre, la quale, più che considerarla un tòpos del genere, va
inquadrata storicamente con la vita di Petöfi, diviso fra poesia e richiamo
delle armi, sotto le quali effettivamente cadde. Sotto un tale presentimento
il poeta professa all’amata la sua devozione, ben oltre i limiti spazio-
temporali del corpo, e che si estenderà nel regno dell’aldilà. Sono poesie,
quelle di Petöfi per la moglie, effettivamente appassionate, struggenti, di
dedizione totale. L’ideale del poeta è l’unione perfetta, fatta di ricordi, di
tenerezze e di malinconie, ispirate, quest’ultime, dalla paura del tempo che scorre e, soprattutto
dall’ombra della morte che minaccia la tranquilla e serena esistenza del nido familiare.
Se però fuori d’Ungheria Petöfi è ancor oggi noto soprattutto per le sue liriche d’amore (su tutte la
famosissima Sarò albero, se sarai suo fiore), in Ungheria, invece, egli rappresenta essenzialmente il
poeta della Patria, il cantore della libertà nazionale contro l’oppressione straniera, austriaca e russa,
in nome della quale vive, combatte, e soprattutto muore a nemmeno trent’anni, compiendo agli
occhi dei connazionali il sacrificio supremo con eroismo e convinzione. «Mai non ti abbandonerò, o
patria mia», scrive nella poesia Ho raggiunto quel che può un mortale, «la piena della mia felicità
può travolgere / il passato e l’avvenire, l’intera mia vita, / ma già mai il tuo sacro altare!». Quando
Petöfi parla dell’Ungheria senti che gli occhi gli si illuminano e gli si accende il cuore: tutto della
sua terra gli par bello, e tutto di lei descrive con accenti di sincera e profonda commozione. Questo
suo sentimento si sposa nella sua poesia a un vivido senso della natura, colta in tutte le sue
sfumature, anche minime. L’Ungheria è essenzialmente l’Alföld, la grande pianura verdeggiante, e
la puszta, l’immensa prateria: in questi ambienti il poeta è pienamente a suo agio, sia che vada a
zonzo a piedi, imbattendosi sovente in qualche leggiadra fanciulla; sia che, più frequentemente, si
slanci col suo cavallo a briglia sciolta smarrendosi in luoghi non calpestati da piede umano, fra
silenzio e presenza discreta degli animali, su tutti l’amata cicogna, l’uccello prediletto dal poeta.
Nell’adesione carne e sangue alla sua terra, il poeta proclama più volte il desiderio di vivere e
morire per essa: «qui sono nato», scrive ne L’Alföld, uno dei suo testi più belli, «qui su di me sia
ammucchiata la terra del sepolcro».
Strettamente connesso all’amore per la sua Patria è anche il tema della libertà, intesa da Petöfi come
lotta per la liberazione del suo paese dalla dominazione austriaca, spalleggiata dalla Russia. In
effetti Patria e libertà costituiscono per Petöfi un binomio inscindibile: la sensazione che il poeta
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prova cavalcando a briglia sciolta nella puszta è libertà, e di libertà ha sete la sua anima. Uno dei
suoi testi più estremi (almeno da un punto di vista politico), è il poemetto L’Apostolo, storia con
molti elementi autobiografici in cui il protagonista, dopo vani tentativi di redimere il popolo
oppresso e dopo aver perduto la sua famiglia (l’amata moglie e il figlioletto), rinnega Dio e il re,
simbolo in terra della tirannia, e lo uccide in un attentato, finendo così sul patibolo. L’ideale che lo
muove è quello di una libertà totale e priva di compromessi: «chi ne [della libertà] porta via anche
solo un atomo agli altri / commette peccato mortale», scrive nel poemetto. E altrove esclama: «La
libertà, l’amore! / Di queste due cose ho bisogno! / Per l’amore io sacrifico la vita, / per la libertà io
sacrifico l’amore!». In nome della libertà Petöfi scrive quindi una serie di componimenti, diventati
veri e propri inni di battaglia del popolo ungherese, incitato a sollevarsi contro l’oppressore
straniero e a riconquistare la libertà perduta.
Insomma un poeta, Petöfi, che fa della libertà la sua bandiera, in nome del riscatto della sua Patria,
oppressa e umiliata. Certamente il poeta non un fine politico, immune da eccessi e esagerazioni (la
sua Ungheria, ad esempio, vivrà uno dei periodi più floridi della sua storia dopo l’unione politica
con l’Austria -sotto il motto Indivisibiliter ac Inseparabiliter-, e la creazione, nel 1867, dell’Impero
Austro-Ungarico): ma semplicemente un cuore appassionato che batte per la sua terra, e che per la
sua Patria, la bella Ungheria, è disposto a sacrificare la sua giovane vita e l’amore più grande della
sua esistenza, l’affascinante Julia.
Patria e Libertà, fino alla morte: questo potrebbe essere dunque il motto di Sandor Petöfi; questa,
in definitiva, la sua vita, questa la sua poesia, questo il messaggio che ne può trarre l’uomo di oggi
e, soprattutto, quello di domani.
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ANTOLOGIA POETICA
da Stefano il folle1
[Dialogo tra il padrone del casolare di campagna e Stefano]
«Ordina, di che devo parlare?2»
E il vecchio (piuttosto cogli occhi
che con la voce) così rispose:
«Nulla mi interessa, ormai»
1
La storia è quella di Stefano detto Il folle, un pellegrino sorpreso da un nubifragio, il quale cerca rifugio per la notte in
un casolare di campagna, il cui padrone è un vecchio burbero. Accolto in casa, seppure di malavoglia, Stefano si
conquista la fiducia del vecchio padrone, un uomo che molto sofferto nella vita ed è molto deluso, il quale propone a
Stefano di vivere permanentemente nel casolare. Dopo l’arrivo di Stefano la vita del vecchio cambia radicalmente:
arriva in casa la nipote dell’uomo, fuggita da un padre tiranno che la vuole costringere a nozze non gradite, nipote che
poi sposerà Stefano, assicurando così al vecchio dei nipoti e finalmente un po’ di felicità nella vita.
2
Stefano, seduto a cena con il vecchio, vorrebbe conversare, ma è imbarazzato dal silenzio dell’uomo. Ardisce così
domandare al vecchio se desidera intavolare una qualsivoglia conversazione.
3
L’uccello è, nell’immaginario popolare, apportatore di buone notizie.
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5
[...]
Tutto è in me consumato,
nulla è rimasto.
Perché non gettar via ormai
il bicchiere vuoto6?
4
Quelli su cui avrebbe dovuto posarsi invece l’uccello della fortuna.
5
Immagine forte ma efficace: i tormenti e i ricordi frustrati sono come impiccati che penzolano dagli alberi.
6
Tradizionale immagine letteraria della vita come banchetto, dal quale bisogna alzarsi una volta sazi.
7
Nel senso di “chi ti ha servito come uno schiavo”.
8
La vita è dolore; la morte, essendo non-vita, è benedetta.
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6
E certamente
chi dice questo
merita che da lui
9
Gli epiteti del vecchio sono di sapore epico.
10
La disperazione è il peggiore dei peccati perché rassegnazione ai mali della vita.
11
Chi crede in Dio crede nella Sua provvidenza; l’ateo, invece, abbandonato a se stesso, precipita nell’abisso della
disperazione.
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7
[Stefano il folle vorrebbe lasciare il casolare ma il padrone e la nipote lo bloccano. Stefano il folle
sposa la ragazza e così si conclude il poemetto]
Tanto piansero e singhiozzarono12
che di più non si poteva;
e a un tratto, dalla sua sedia
12
Il soggetto è il vecchio e la nipote, commossi dalla decisione di Stefano di voler partire.
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8
si rizzò il padrone,
E misero in riposo
e bisaccia e bordone,
e Stefano il folle
più non se ne andò.
13
Tipico bastone utilizzato dai pellegrini.
14
Ovviamente Stefano e la nipote del vecchio.
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9
15
Stefano, nipote acquisito.
16
Il contrasto è fra l’ambiente esterno, freddo e buio, e l’interno della casa, intorno a un caldo focolare, con il nonno, e
la nuova famiglia. Stessa immagine nello pseudo-Virgilio dell’Appendix Vergiliana, nel poemetto Moretum.
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L’Apostolo
V
[L’abbandono di Silvestro, appena nato, da parte della mamma, in una cupa notte tempestosa]
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11
[Silvestro, adolescente, abbandona la casa dove era ospitato, ed esce nell’aperta campagna]
Il giovane lasciò la città,
e mentre usciva dalle strette mura
pensava: «Libero dalla prigione!»
E avidamente respirò l’aria pura,
il più prezioso dono del Signore
che dà forza al corpo
e all’anima mette le ali...
17
Siamo nello stile tipicamente romantico di metà Ottocento.
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12
E là, nell’infinito,
là, fra le nuvole,
in mezzo alle rupi che si impennavano,
dove il muggito del fiume è un tuono,
e il tuono è l’urlo del giorno del giudizio
estremo; oppure là, sul piano della puszta,
ove muta scorre la piccola sorgente silenziosa
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13
XI
[I primi studi scolastici di Silvestro gli rivelano il valore sacro della libertà]
Che lesse mai il giovane là dentro?
Che pensò egli, quando rinchiuse il libro
con mano tremante?
Pensò:
«Il chicco d’uva è un frutto piccino
e ci vuole un anno perché maturi.
Anche la terra è un frutto, ma un grande frutto,
e se per il piccolo acino occorre un anno,
quanti ne occorreranno per questo grande frutto
affinché maturi? Ci vorranno
millenni e forse milioni di anni,
ma tuttavia una volta sarà maturo
18
La solitudine e il silenzio della puszta sono immagini ricorrenti nella poesia di Petöfi.
19
L’incontro dell’uomo con la natura, creatura di Dio, nella sua bellezza, vastità e potenziale eternità in raffronto alla
piccolezza e alla transitorietà della singola vita umana, è un canale privilegiato per fare da ponte fra l’uomo e Dio.
20
Dalla natura il protagonista del poemetto arguisce la potenza di Dio, sulla base della bellezza e della vastità del
mondo naturale; e la bontà del creatore, sulla base dell’ordine provvidenziale che regola il mondo vivente (oltre che, in
second’ordine, dalla stessa bellezza della natura che è indice di bontà d’animo da parte di chi l’ha creata).
21
La ripetizione enfatica del concetto sottolinea la piena rivelazione del creatore per mezzo o attraverso le sue creature.
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14
22
L’uomo, cioè, è parte attiva del mondo, e la sua anima (pensiero che si traduce in azione) trasforma e plasma la realtà.
23
Il concetto espresso è indice di una visione aristocratica dell’esistenza: solo i grandi uomini, che sono pochi per
definizione, possono incidere veramente sulla realtà; la maggior parte, invece, la massa, è insensibile e sorda a una tale
prospettiva.
24
Ars longa, vita brevis: l’immagine classica (ripresa nel poemetto anche più sotto), poi passata anche nella letteratura
moderna (per es. Faust, I parte, vv. 558-559: «Die Kunst ist lang, / und kurz ist unser Leben»), rimarca la brevità della
vita umana, per cui il tempo a disposizione –soprattutto per i grandi progetti e per quelli più ambiziosi- è poco, e va
sfruttato al massimo senza sprecarne neppure una goccia.
25
L’immagine della raccolto (alla fine dei tempi), in cui bisogna rendere conto di quanto fatto, è evangelica (Matteo 13,
24-30 e paralleli).
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15
È grande il compito,
il tempo vola, e
la vita è breve.
Quale lo scopo del mondo?
La felicità26. E il mezzo per raggiungerla? La libertà27.
Per la libertà io devo combattere,
ché tanto si è lottato per lei.
E se necessario darò il mio sangue,
ché tanto ne fu dato per lei.
Accoglietemi, o cavalieri della libertà,
accoglietemi nelle vostre sacre file.
Giuro fedeltà alla bandiera.
E se vi è nel mio sangue una goccia di sangue ribelle
io lo spargerò, lo sprizzerò fuori delle mie vene,
seppure si troverà nel mio cuore»28.
Fece questo voto... non l’udì l’uomo,
ma di lassù lo sentì il Signore:
Egli prese il libro santo, nel quale
sono annotati i martiri29,
e vi scrisse il nome di Silvestro.
XII
26
Nella Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 è giuridicamente riconosciuto il diritto «alla vita,
alla libertà e al perseguimento della felicità».
27
La libertà, dunque, per Petöfi non lo scopo da raggiungere (che è invece la felicità di ognuno) ma lo strumento
necessario e indispensabile –in pratica la conditio sine qua non- per poter essere felici.
28
È delineata in queste parole tutta la parabola terrena della vita di Petöfi, conclusa, appunto, con la morte ventiseienne
sul campo di battaglia contro un nemico oppressore e liberticida.
29
Silvestro, il protagonista del poemetto, sarà dunque un martire della libertà.
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16
XVII
30
L’uomo, privato della sua libertà, è una creatura oppressa che ha perduto la sua dignità che lo rendeva simile a Dio (il
quale, essendo puro spirito, è libertà per definizione), ed è ridotto al rango dei vermi che strisciano sulla terra.
31
Sono le parole pronunciate dalla moglie, durante la visione.
32
Come dirà qualche verso più sotto, Silvestro è la pianta, la donna amata il ramo dalla pianta generato.
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17
Poesie
Dove sei, buon umore dell’antico tempo
Dove sei, buon umore dell’antico tempo,
birichino, selvatico ragazzo?
Diede il cambio con te la tua sorella,
la muta trasognata malinconia37.
37
Atteggiamento spirituale tipico del Romanticismo (per esempio, su tutte, la nota Ode to Melancholy di John Keats).
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19
L’Alföld
Che sei tu mai per me, o selvaggio e romantico paese
degli incolti Carpazi44, colle tue pinete?
Posso ammirarti, ma non già amarti
38
L’impatto con l’idea della morte ha segnato una cesura nella vita del poeta, fra un prima (l’epoca del « buon umore
dell’antico tempo») e un dopo (l’epoca della maturità pensierosa).
39
Il cavallo, per poter scorrere liberamente nella prateria, è l’unica cosa necessaria al poeta, più di una stabile dimora.
40
Tradizionale cavaliere ungherese.
41
Per poter scorrere più liberamente e senza freni di sorta.
42
Per sentire alitare il vento, e, in genere, per sentirsi nudi a contatto con la natura, per immergersi in essa.
43
Una compagna stabile resta comunque un ideale per questo cavaliere selvaggio.
44
La Romania.
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20
45
Solita immagine in Petöfi della libertà dalla prigione della vita: la vita, se non è libertà, non è neanche vita.
46
Un affluente del Danubio.
47
La piccola Cumania è appunto la regione compresa fra il Danubio e il Tibisco, così chiamata in quanto colonnizzata
dalla popolazione nomade dei Cumani nell’XI secolo.
48
Dispositivo per attingere l’acqua dal pozzo.
49
Sorta di vasca rettangolare con cui si abbeverano i cavalli.
50
Cioè verde intenso e brillante.
51
Le anatre selvatiche sono caratteristiche dell’Alföld, costellato da numerosi laghetti.
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21
52
Fattoria ungherese.
53
Specie di bandito della puszta, ma con tradizioni di generosità e di cavalleria.
54
Molto rinomato ai tempi di Petöfi.
55
Pianta dall’aspetto tondeggiante e piatto del frutto (da cui i nome).
56
Altra pianta graminacea.
57
Il poeta proclama che nella stessa terra dove è nato, lì vuole morire: un’adesione totale di carne e di sangue alla sua
Patria.
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22
È tornato l’autunno
È tornato l’autunno
ed è bello, come sempre:
chissà perché mi piace,
mi piace tanto.
Io la mia cetra
58
I colori della natura d’estate.
59
Come l’autunno è la notte in cui la Natura si addormenta, la primavera sarà la mattina del suo risveglio.
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23
Bevo acqua
Ascoltatemi un po’,
e meravigliatevi,
perché ogni giorno accade
quel che udirete.
È cosa di cui
mi meraviglio io stesso,
ma è sacra verità:
non vino... acqua bevo,
sicuro... acqua.
O supponete forse
che io non abbia sete?
Non è questo! La mia sete
per Dio, è assai grande;
ma tuttavia io
non vino... ma acqua bevo,
sicuro... acqua.
60
La spiegazione finale è un’ammissione di povertà da parte del poeta, di cui davvero Petöfi soffrì in varie occasioni, la
più nota delle quali è nel periodo vissuto a Debreczen (su cui la poesia a seguire).
61
Petöfi è di religione protestante.
62
La povertà, cioè, gli ha imposto, con la fame, digiuni più grandi.
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25
La cicogna
Di uccelli ce ne sono molte specie,
chi ama questi e chi ama quelli;
gli uni per la voce canora, gli altri
per la piuma variopinti sono preferiti.
L’uccello da me scelto
63
Mantello foderato di pelliccia di montone tipico dei contadini ungheresi.
64
Cioè come lo zingaro che na nulla con cui coprirsi tranne che la sua rete da pesca.
65
La guba è «logora», e dunque non giova a combattere il freddo.
66
Particolare bellissimo di vita vissuta.
67
Pensare a situazioni peggiori di quella in cui ci si trova è un utile espediente psicologico.
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26
68
Consueto all’anelito alla libertà (qui, dalla terra e dai suoi angusti limiti).
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27
69
Dare la luce significa sacrificarsi per gli altri, con il rischio del fallimento sempre in agguato (tale, per esempio, è la
parabola tratteggiata da Petöfi ne L’apostolo).
70
Perché, ovviamente, le cicogne in autunno migrano.
71
Lungo cappotto simile alla guba.
72
Giacca corta e attillata, tipica degli ussari ungheresi.
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28
73
La brama della libertà, di sé e della sua Patria.
74
La terra sembra bruciare di fronte all’ardore giovanile.
75
Nella mente del poeta, dunque, puszta uguale libertà (da qui l’immagine del cavalcare a briglia sciolta).
76
Le catene del prigioniero, dalle quali il poeta si è liberato cavalcando nella puszta.
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29
Fuoco
Non voglio imputridire
come il salice nella palude80.
77
In pratica le bellezze della puszta si rivelano soltanto a chi la conosce; chi è forestiero non le può comprendere.
78
Cioè la puszta stessa, «bella come una fata».
79
L’avverbio sottolinea il ritorno del poeta alla realtà, dopo la malinconica rievocazione dell’infanzia trascorsa.
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30
80
Consueto richiama di un poeta che evidentemente aveva ben chiaro il suo destino: il desiderio è non fare la fine, lenta
e ingloriosa del salice nella palude, il quale si imputridisce lentamente giorno dopo giorno, ma bruciare rapidamente e
violentemente come fiamma.
81
Le nuvole, alte in cielo, sono simbolo di libertà.
82
L’eccezionalità esistenziale del poeta è poi trasferita su un piano letterario, contro i poeti mediocri che stagnano nelle
acque e nella palude della cattiva letteratura. Il paragone dei cattivi poeti con rane che gracidano è di origine classica:
almeno Aristofane, Le rane.
83
In senso metaforico-esistenziale, ma anche concreto (la povertà dell’inverno a Debreczen, per esempio).
84
Anche la passione erotica deve avere i caratteri del fuoco, della passione sensuale, non dell’amore stanco e languido
(come certo amore romantico).
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31
Luce
Buia è la miniera,
ma le lanterne vi sono accese.
Buio è il cielo,
ma le stelle vi scintillano.
Buio è il petto dell’uomo,
ma non vi splendon né lanterne né stelle,
e neppure un piccolo tenue raggio86.
Povera mente
che luminosa ti credi,
guidami, se davvero sei luce,
guidami per un passo solo!
Non ti chiedo di illuminarmi
attraverso l’ignoto dell’aldilà,
né attraverso il funebre lenzuolo.
Non ti chiedo che cosa diverrò,
ma dimmi quello che sono,
e perché esisto87.
L’uomo nasce per se stesso88?
85
Il refrain a mo’ di ballata ha lo scopo di rimarcare il leit motiv del componimento.
86
Il cuore dell’uomo è un abisso scuro in cui non brilla alcuna luce.
87
La richiesta del poeta non è di conoscere le frontiere ultime ma soltanto quelle della sua vita presente, del suo essere-
nel-mondo.
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32
Ha egli in sé un mondo,
oppure non è che un anello
dell’infinita catena
che si chiama umanità?
Viviamo noi per la nostra propria gioia,
o per piangere col mondo che piange89?
Quanti sono quelli che dall’altrui cuore
succhiarono il sangue
per il bene proprio
e mai furono puniti!
E quanti quelli che per altri
versarono il sangue
del proprio cuore,
e non ebbero ricompensa!90
Ma è tutt’uno: chi fa olocausto91
della propria vita,
non lo fa per il premio
ma per il bene sociale.
È questo utile o no?
Ecco la domanda delle domande,
e non già «l’essere o non essere»92.
Giova al mondo
chi ad esso si sacrifica?
Verrà quel tempo,
-dai cattivi ostacolato
e al quale i buoni aspirano-
il tempo dell’universale felicità93?
88
Il primo bivio è risconoscere se l’uomo deve vivere per se stesso, come individuo; o in funzione degli altri, come
corpo sociale.
89
L’opposizione è fra edonismo egoistico a amore caritatevole (l’agàpe cristiana, nel poemetto intesa come
compassione, nel senso etimologico di patire con).
90
Nel mondo, cioè, non si realizza l’ideale della giustizia: i malvagi non sono puniti, e i buoni non vengono premiati.
91
Termine di ambito religioso molto efficace: sacrificio di se stessi, come di una vittima sacrificale.
92
La domanda essenziale, per Petöfi, non è lo shakespeariano essere o non essere, nel senso della dicotomia che c’è fra
l’esistere e il non esistere, la vita e la morte; ma la prospettiva del poeta è tutta rivolta alla vita, all’essere-nel-mondo, se
cioè bisogna vivere per sé o per la società. Dalla risposta a questa domanda dipende tutto il senso (e il ruolo) dell’uomo
nel mondo.
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33
Ma invero
che cos’è mai la felicità?
Crede ognuno di scoprirla negli altri,
o nessuno l’ha mai trovata?
Forse quello che noi chiamiamo felicità,
eterna aspirazione umana,
non è che un raggio
di un nuovo sole che è ancora
al di là dell’orizzonte, ma che deve venire.
Così fosse!
Avesse il mondo uno scopo,
e s’innalzasse
sempre più alto verso questa mèta
per raggiungerla, presto o tardi.
Ma se invece fossimo
come l’albero che fiorisce
e sfiorisce;
come l’onda che si gonfia
e poi si spiana;
come la pietra che si lancia in alto
e poi ricade;
come il pellegrino che si inerpica sulle alture
e, raggiunta la vetta,
di nuovo ridiscende;
e in eterno su e giù, su e giù...
Terribile! Terribile!
Colui che un simile pensiero mai non ebbe
né mai di esso rabbrividì,
non sa che sia il freddo94.
93
L’ideale cui aspirare, secondo Petöfi, per mezzo della libertà (si veda L’apostolo, XI).
94
La vita come ripetizione circolare di avvenimenti che si ripetono, senza logica e, soprattutto, senza senso, è
un’immagine di grande modernità: dal mito di Sisifo, nella letteratura esistenziale di Albert Camus (Il mito di Sisifo,
1942), ma anche nell’idea di eterno ritorno sviluppato dalla filosofia di Nietzsche. Quest’ultimo, in particolare, pare
molto vicino, come idea, al testo di Petöfi, soprattutto in una de La gaia scienza, aforisma 341: « Che accadrebbe se un
giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come
tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente
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34
di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua
vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e
maledicendo il demone che così ha parlato?». Nietzsche, per inciso, era un grande appassionato del poeta ungherese, del
quale addirittura musicò la lirica Libertà (nella raccolta Nuvole); non è quindi da escludere un influsso diretto.
95
Anche qui, sempre a proposito del tema dell’eterno ritorno, si veda di Nietzsche La visione e l’enigma in Così parlò
Zarathustra.
96
Sono le acacie del castello Kerelyi, dove Petöfi conobbe la moglie Julia, e sotto le cui fronde ebbe con lei i primi
convegni amorosi.
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35
97
Cioè troppo bella, più bella dell’aurora nel cielo.
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36
Italia (1848)98
Si vergognarono alfine di strisciar sulla terra,
uno dopo l’altro balzano99 in piedi;
un urugano sorge dai loro sospiri,
invece di catene100 stridono ora le spade.
98
Il componimento è scritto da Petöfi in occasione dei moti italiani del 1848, con i quali, ovviamente, il patriota
ungherese solidarizzava nella comune lotta europea contro lo straniero oppressore (identificato, nella fattispecie,
nell’impero asburgico).
99
Il verbo sottolinea lo scatto verso l’alto, dall’umiliazione della terra.
100
Le catene del popolo oppresso (prigioniero dell’Austria).
101
Le rosse arancie sbiadiscono e impallidiscono a fronte del colore del sangue che incita alla rivolta dei popoli
oppressi.
102
I tiranni, impauriti, sono di un pallore cadaverico, quasi che tutto il loro sangue sia fuggito dal corpo.
103
Bruto, uccisore di Cesare, con quest’ultimo, nell’ottica di Petöfi, che incarna il tiranno desideroso di sopprimere le
istituzioni democratiche del Senato, cui reagisce Bruto, in nome della libertà.
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38
Canto nazionale
In piedi, o magiaro, la patria chiama.
È tempo: ora o mai!
Schiavo saremo o liberi?
Scegliete107.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
104
Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, scacciato dalla città grazie a un altro Bruto, Lucio Giunio Bruto, zio di
Lucrezia, offesa dal figlio del tiranno.
105
Cesare.
106
Spregiativamente gli Austriaci a fronte degli antichi Romani.
107
Al patriota ungherese non si danno possibilità se non la scelta fra la libertà, per la quale combattere e, se necessario,
dare la vita; e la schiavitù, l’asservimento obbrobrioso allo straniero oppressore.
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39
È un briccone colui
che teme la morte quando bisogna morire,
colui che una meschina vita ha più cara
che l’onor della patria109.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.
108
La schiavitù dei vivi tormenta anche i morti, gli antenati, che non possono trovare pace in una terra che è ancora
serva.
109
Di fronte alla Patria non bisogna temere la morte, e chi predilige la vita alla sua terra è solo un «briccone».
110
La spada antica del popolo magiaro, che ora estratta, sfolgora alla luce del sole.
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40
Laviamo l’onta
che i secoli vi impressero!
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.
Canto di battaglia
La tromba squilla, rulla il tamburo,
l’esercito è pronto alla battaglia.
Avanti112!
Fischian le palle, stridono le spade.
Questo infiamma il magiaro!
Avanti!
In alto la bandiera,
che tutti la possano vedere113!
Avanti!
Che tutti vedano e tutti leggano
la santa parola su di essa incisa: libertà114!
111
La morte dei padri, in nome della Patria, sarà onorata e benedetta dalle generazioni future.
112
Il grido di battaglia è un invito da parte del poeta ad avanzare in battaglia, nulla temendo per la propria vita: chi
muore per la Patria non muore, ma vive, nel ricordo e nella benedizione dei discendenti liberi grazie al sacrificio di chi
li ha preceduti.
113
La Patria si identifica in una bandiera che precede simbolicamente l’avanzata in battaglia.
114
Sul bandiera della Patria è incisa la «santa» parola Libertà: per questo non si può retrocedere e si deve avanzare a
ogni costo.
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41
Avanti!
Un pensiero mi turba
Un pensiero mi turba:
di morire nel letto, fra i cuscini;
lentamente appassire come il fiore
morso dal dente di un verme nascosto117.
Consumarsi pian piano, come il lucignolo della candela
che resta abbandonata nella camera vuota.
115
La lotta per la libertà della Patria, del popolo oppresso dall’oppressore, è benedetta anche da Dio.
116
L’individuo può morire, ma la Patria gli sopravvive: per questo è necessario sacrificare la vita per essa.
117
Consueto tema ricorrente nella poesia di Petöfi: l’ossessione, il terrore è morire “normalmente”, lontano dalla lotta
per la Patria, nel rifugio sicuro del proprio nido borghese. In un momento storico decisivo per la Nazione, fra libertà e
schiavitù, il poeta, l’intellettuale, non può lavarsi le mani, rinchiudendosi nella turris eburnea della letteratura; ma deve
sporcarsi le mani, lui per primo, per dare un alto esempio civile e morale di abnegazione in nome di un ideale superiore.
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42
118
Il desiderio intimo del poeta di legare la sua sorte a quella della Patria si risolve in un’accorata preghiera al Signore,
quasi una supplica, affinché allontani da lui una simile vergogna. L’accento della preghiera non può che essere
struggente e disperato, e fa specie il pensare che in effetti egli sia stato davvero accontentato nella terribile richiesta.
119
Le bandiere sono rosse a causa del colore del sangue versato; Petöfi scrive nel 1848, e ogni riferimento politico è
oggettivamente improponibile.
120
Il grido di libertà del popolo ungherese si allarga fino ad inglobare l’intero orbe, in una ideale unione di tutti i popoli
oppressi.
121
L’importante è la vittoria finale, in prospettiva della quale il poeta non può che essere docile strumento.
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43
122
La consolazione della mors immatura è, agli occhi del poeta, nel pianto e nel ricordo di chi sopravvive, celebrando e
tributando con onore il sacrificio altrui.
123
La libertà è, ancora una volta secondo Petöfi, «sacra», e chi per essa muore è a tutti gli effetti un «martire», un
«apostolo».
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