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DANTE ALIGHIERI: la sua visione d’oriente

Dante a differenza dei pellegrini e Marco Polo, è un viaggiatore suo malgrado in quando fu costretto a
pellegrinare senza un’effettiva patria dopo l’esilio del 1301, però viaggia quasi esclusivamente in Italia. Si
ipotizza che in gioventù abbia condotto un viaggio in Francia, anche se non vi sono prove. Le visioni
d’oriente di Dante sono erudite e finalizzate ai suoi interessi di uomo intellettuale e di scrittore; non c’è
quella spinta descrittiva che descriveva un mondo ignoto filtrato dagli occhi di un mercante come in Marco
Polo, o descrivere un oriente distante come quello raccontato dai pellegrini in Terra Santa. A Dante le
descrizioni dell’oriente servono ad affrontare i suoi quesiti, ed è quindi una conoscenza indiretta, limitata ad
un manipolo di fonti eruditissime, quasi tutte dell’ambito arabo e giudaico, e non frutto di una testimonianza
diretta. Le fonti delle opere le leggeva in traduzione, e questo significa che la traduzione influisce
enormemente sulla comprensione.
La possibilità per Dante di accedere all’universo orientale non poteva avvenire senza una sorta di
rinascimento culturale in Spagna: i domini arabi dopo le prime espansioni si avvicinano alla Spagna, e
vedremo che l’approssimarsi degli eserciti arabi verso il fiume Ebro diede vita alla florida letteratura
cavalleresca. la possibilità di Dante di accedere all’universo orientale tramite traduzioni latine non poteva
avvenire senza il rinascimento culturale avvenuto in Spagna (colonizzazione araba che diede anche vita
alla letteratura cavalleresca).
Dal 1085 ovvero l’anno della presa di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia che i rapporti con
l’Oriente si moltiplicano perché è qui che inizierà il processo di traduzione in latino di testi arabi (è grazie a
ciò che i testi greci, prevalentemente già tradotti in arabo, si diffondono in Italia). Tracce di queste
traduzioni, ad esempio astronomiche, sopravvivono nelle opere di Dante che trattano di astronomia, come il
Convivio, ma anche nella divina commedia stessa, e anche dal punto di vista filosofico (es. Avicenna e
Averroè, commentatore di Aristotele) si finiva per congiungere elementi filosofici e teologici cristiani con
elementi filosofici e teologici orientali, Beatrice stessa viene spesso spiegata come allegoria dell’intelligenza
attiva: lettura averroistica, non è definita come intelligenza passiva che processa le informazioni che
provengono dall’esterno ma come intelligenza attiva capace di estrarre queste stesse informazioni e di
teorizzarle. Nei seguenti capitoli si convogliano questi aspetti. Dante è geniale nell’applicazione di certe
dinamiche storiografiche alla realtà che aveva davanti.
Questi scrittori vengono tutti menzionati nel IV canto dell’inferno, quello del limbo, dove vi sono tutti i
morti prima dell’avvento di Cristo. Nel canto 28 dell’inferno Dante incontra Maometto, ed è un canto
disgustoso in certi momenti, ma importante per comprendere alcune declinazioni del pensiero dantesco per
l’islam: è il canto dove vi sono i seminatori di discordie, anche per la religione, e il fatto che ci sia Maometto
ci fa capire i suoi pensieri. Vedremo anche il canto 31 dell’inferno, che è un canto di transizione in cui si
narra il passaggio dalla fine delle male bolge, all’ultima sezione dell’inferno, il cocito. Vi è un gigante che ci
interessa, che è l’architetto della torre di Babele che ha causato la confusione delle lingue.
LA QUESTIONE LINGUISTICA (De Vulgari Eloquentia e Divina Commedia)
Il primo uomo ad avere capacità di parola è Adamo, Dante si interroga su quale sia stata la sua prima parola.
Inizialmente nel De Vulgari Eloquentia suppone dica “El” ovvero Dio, in quanto non aveva un interlocutore
fisicamente presente ma esisteva la possibilità di comunicare spiritualmente. Successivamente nella
Commedia, nel XXVIesimo canto del Paradiso, cambia idea e quando Dante incontra Adamo egli afferma di
aver pronunciato “I”. Questo perché al tempo del De Vulgari credeva che l’ebraico fosse una lingua perfetta
quindi come tale divina ed immutabile, non capace di essere soggetta alle variabili diatopiche, diacroniche
e diastratiche: la lingua cambia in base al luogo, al tempo e a chi la parla.
Ma come si creano le lingue?
Dante attua la prima effettiva contemplazione del volgare come evoluzione dall’ebraico a causa di un fatto
storico (la torre di babele).
La Bibbia è in accordo con la Teodicea (ovvero l’applicazione della giustizia divina in terra = la giustizia
dike divina theos) che punì Membrot per la sua tracotanza, dalla torre di Babele ne sarebbero conseguiti i
volgari nazionali. Il latino considerata da Dante “grammatica” ovvero lingua artificiale, che poteva essere
parlata e compresa da tutti senza rappresentare nessuna nazione e che avrebbe dovuto mettere ordine nelle
differenze. Questa considerazione del latino come lingua artificiale rifletteva la sua idea politica rispecchiata
nell’Impero romano e sacro sotto il quale Cristo era nato.
Dante si rende conto che al suo tempo il latino non era la lingua madre di nessuno (XXXIIesimo canto
dell’Inferno “né da lingua che chiami mamma o babbo”) nonostante venga usata in tutti gli ambiti più alti
della società. Era una lingua che si apprendeva tramite lo studio con lo scopo di mettere ordine nelle
differenze, per la necessità di comprensione. La lingua è un mezzo serve alle esigenze del tempo, per
questo si afferma il volgare, perché la lingua latina non era più in grado di rispecchiare e abbracciare la realtà
come un tempo.
Dante poi suppone che l’impero romano, tanto quanto la chiesa di Roma, è un’istituzione provvidenziale,
perché fa sì che grazie alle leggi si creasse una condizione di giustizia in terra, sotto la quale era possibile far
scendere il figlio di Dio fra gli esseri umani: secondo l’interpretazione dantesca il figlio di Dio nasce durante
la pax augustea. Se noi incrociamo questa visione politica con la visione linguistica, noi sappiamo che
nell’impero romano si parlava e scriveva latino, ma per natura non lo parlava nessuno; Dante è convinto che
il latino di Virgilio fosse uguale al latino medievale. La grammatica intesa come latino astratto corrisponde
all’istituzione di una monarchia universale con il proposito analogo di mettere ordine nel disordine.
DE VULGARI ELOQUENTIAE libro I cap.VII
(1-2) Per prima prevaricazione intende il peccato originale. Nonostante la cacciata dal paradiso e il diluvio
universale, l’umanità continua a peccare di tracotanza con la creazione della Torre di Babele.
(3-4) “Così l'uomo, inguaribile, presunse in cuor suo, sotto l'istigazione del gigante Nembròt, di superare
con la sua tecnica non solo la natura ma lo stesso naturante, che è Dio, e cominciò a costruire una torre
nella zona di Sennaar, che poi fu chiamata Babele (cioè “confusione”), con la quale sperava di dar la
scalata al cielo, nell'incosciente intenzione non di eguagliare, ma di superare il suo Fattore. O sconfinata
clemenza del regno celeste!” In questo caso l’etimologia di Babele riportata da Dante è erronea.
(5) Nonostante i ripetitivi errori umani, secondo Dante Dio è “non ostile ma paterno” le cui punizioni hanno
carattere educativo.
(6) “[…] quando furono colpiti dall'alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si dedicavano
all'impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di lingue dovettero
rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un'attività comune.”
(7) “Infatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua […] Quanto
più eccellente era il lavoro svolto, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano.” Quest’ultimo
denota un criterio estetico, poiché si concentrano sul lavorare e non sul parlare, la lingua di questi è rozza e
barbara. Alla sofisticazione di coloro i quali ricoprivano un determinato ruolo corrisponde un idioma parlato.
Non tutte le lingue sono uguali, la differenza la fa chi le usa, e per fare una lingua bella sta a noi metterci
mano.
(8) “Ma coloro a cui rimase la lingua sacra non erano presenti ai lavori né li lodavano, anzi li esecravano
severamente, deridendo la stoltezza degli addetti. Questa piccolissima parte – piccolissima quanto a numero
– fu, secondo la mia congettura, della stirpe di Sem, il terzo figlio di Noè: da essa ebbe appunto origine il
popolo d'Israele, che si servì di quell'antichissima lingua fino alla sua dispersione.” Noè aveva tre figli:
Cam (Africa), Sem (Asia) e Jafet (Europa). La dispersione avvenne nel I sec. d.C. a opera di Tito. Gli unici a
cui rimase la lingua sacra (l’ebraico) erano coloro che non solo non partecipavano ai lavori, ma li
schernivano.

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