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Leonardo Sebastio

MANUALE DI STORIA
DELLA LINGUA ITALIANA

prontuario per gli studenti di scienze della formazione


La lettura di testi e la riflessione sulle forme espressive porteranno l’alun-
no a cogliere lo sviluppo storico della lingua italiana, a interessarsi alla sua
evoluzione nel tempo e nello spazio determinata dai suoi forti legami con
le trasformazioni sociali e culturali, con gli sviluppi scientifici, economici,
tecnologici. Una sensibilizzazione agli apporti che all’italiano provengono
da altre lingue e culture, europee in primo luogo, ma anche della più vasta
area del Mediterraneo, costituisce un’importante risorsa per l’educazione
interculturale. La percezione dei tratti più caratteristici della propria varietà
regionale della lingua italiana agevolerà il legame con i dialetti e ne farà
scoprire la vitalità espressiva. L’alunno sarà guidato al riconoscimento della
ricchezza idiomatica presente sul suo territorio come premessa alla scoperta
delle lingue minoritarie presenti in Italia.
[Dalle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo
ciclo dell’istruzione - 2007]
PARTE PRIMA
DANTE ALIGHIERI E L’INVENZIONE DELLA LINGUA

Notoriamente l’Itinerarium mentis in Deum nasce alla Verna,


dove Bonaventura si è ritirato «come in un luogo quieto dove soddi-
sfare» il suo «amoroso desiderio di pace interiore». In quella solita-
ria meditazione il santo coglie subito l’elemento primordiale e neces-
sario al viaggio: «Perciò, o uomo di Dio, impègnati, prima di tutto,
ad ascoltare la voce della coscienza che ti chiama al pentimento».1
Che l’«itinerario della mente a Dio» sia un silenzioso viaggio nell’a-
nima, verso l’epifania intima di Dio, è chiarito nel capitolo primo, là
dove Bonaventura prescrive di «rientrare» nella nostra anima per
addentrarci nella verità.2
Era opinione concorde dei pensatori, sia di marca platonica sia di
marca aristotelica, che il silenzio fosse alla base della contemplazione,
ed anzi si proponesse in una inscindibile simbiosi con essa: nel silente
colloquio con sé stessi e con Dio si toccano i vertici della verità. Così,
Tommaso d’Aquino esamina, nella Summa Theologiae,3 le accezioni
del termine verbum (verbo, parola): la prima, e la più importante, ac-
cezione è quella che indica la vox (voce, parola) in cui si esprime il
concetto interiore della mente, l’idea insomma; la seconda è quella
1 Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, Prolog. 2, 3.
2 Ibidem, cap. I, 2.
3 I, xxxiv, 1.
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che indica il linguaggio, ancora tutto interiore ed intellettuale, nel


quale l’idea si dispiega nella nostra mente; la terza accezione, infine, è
quella che indica il linguaggio con cui ogni uomo comunica con l’al-
tro uomo. In questo terzo tipo di linguaggio si manifesta, deleteria, la
presenza del senso. Altrove, nell’In I Sententiarum il valore limitato
della parola espressa è manifestato ancor più chiaramente quando il
Santo pone a petto della parola interiore quella esteriore, che è «ma-
teriale e con difetto», e perciò incapace di esprimere appieno l’idea:
essa è infatti quasi incatenata e costretta dalla convenzionalità dei
suoi segni.
Senza preamboli e senza gerarchie l’Alighieri punta subito alla
parola parlata, benché il Medioevo (ed ancora la scolastica) gli indi-
casse che tra le parole possibili la più ricca e feconda di verità è quel-
la interiore, quella della contemplazione, con la quale Dio parla agli
uomini e gli uomini parlano a Dio. Per Dante, in maniera pressoché
rivoluzionaria nella teoresi del linguaggio, la lingua, diciamo quella
parlata, è operazione «propria» dell’intelletto: è «manifestare agli
altri i concetti della propria mente»; essa è espressione del momen-
to più nobile e quasi divino dell’uomo; essa è, cioè, espressione della
ragione, non determinata dalla prassi, ma alla prassi evidentemente
correlata dalla unicità dell’origine razionale della lingua e dei com-
portamenti. Scrive nel Convivio:

…operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce


piè espeditamente raggia: cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e por-
tamenti sogliono essere chiamati. Onde è da sapere che solamente l’uomo
intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono razionali, però che
solo egli ha in sé ragione.1

La perentoria affermazione del valore non solo razionale, bensì


anche divino, della lingua parlata, si badi, è a parer nostro la premes-

1 iii, vii, 8.
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Manuale di storia della lingua italiana

sa necessaria ed ineliminabile perché, più tardi, si possa pensare di


affidare ad un poema la proposta di un rinnovamento universale, e
il disegno di un progetto in cui il cielo e la terra si ricompongono in
solidale unità. Giacché la Commedia appare straordinaria, sì, per la
irripetibile munificenza dell’arte, sì anche perché affida al linguag-
gio poetico, al verso, alla metafora ed alla similitudine, al mito e alla
allegoria, l’enunciazione di verità filosofiche e teologiche che voglio-
no porsi alla base della vita insieme politica e religiosa dell’umanità.
La straordinarietà sta nel fatto che il progetto di palingenesi venga
formulato in un tempo in cui la lingua parlata è considerata di per
sé «materiale e con difetto»: tutt’al più sarebbe capace di ripetere
la parola di Dio, questa sì perfetta. Perché Dante potesse concepi-
re un’operazione poetica di così vasta portata, abbisognava di alcuni
presupposti. Uno era quello che ragione umana trovasse modi e mez-
zi per proporre un progetto salvifico della terra: si allude alla neces-
sità che la ragione umana assurgesse ad un grado d’autonomia e di
autorità grazie al quale formulasse un piano, non alternativo, certo
però integrativo di quello della fede, che subordinava la terra al cielo
e attendeva l’Apocalisse. In questa direzione avevano operato gli ari-
stotelici scolastici: Dante ereditava le conquiste che venivano entu-
siasticamente vissute dalla cultura fiorentina di Brunetto Latini e da
quella di Guido Cavalcanti o, infine, da quella detta epicurea.
Un altro presupposto era quello della lingua di cui il rinnovamen-
to filosofico poteva disporre. Certo qui non si vuoi dire che l’appas-
sionata difesa brunettiana della retorica fosse stata inutile. Tuttavia
dopo Brunetto (come dopo tutti i retori) restava insoluto il problema
della falsità della retorica, scienza capace di persuasioni e di suggestio-
ni, non però di verità. Allo scopo non era stato sufficiente fare della
retorica la signora della politica. Dante identifica la parola con la ra-
gione, la prima diventando espressione immediata della seconda, in
un nesso inscindibile e fruttuoso: ogni attività linguistica sarà attività
razionale, anche la poesia che all’interno della medievale materialità
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linguistica attirava su di sé l’unanime denuncia dell’irreparabile in-


sufficienza di verità, della sostanziale e connaturata vocazione alla fin-
zione e alla menzogna. Ancora mezzo secolo dopo Dante, Boccaccio
aveva un bel da fare per liberare la poesia dall’accusa di falsità.
Nel confronto coi tempi, la Divina Commedia sembra occupare
un posto nodale nella storia dell’Occidente, la cui rilevanza sarà chia-
ra quando terremo in conto il fatto che essa fiorisce in un terreno pres-
soché deserto, nel quale l’idea di letteratura è quasi tutta da inventare,
e certamente tutta da inventare è l’idea che con la letteratura si possa
cambiare il mondo. I precedenti lontani, la Sacra Scrittura diciamo o
l’Eneide, pur potendosi proporre a Dante come modelli, non erano
applicabili immediatamente: la rivelazione del Cristo rendeva inutile
ogni altra parola, la verità era stata enunciata, la norma morale era sta-
ta data una volta per tutte. Né era possibile pensare, e men che meno
attuare, una integrazione della parola divina: questa poteva e doveva
essere spiegata, non certo completata o aggiornata. Non ostante que-
sto Dante, durante tutto il suo viaggio nei regni ultramondani, mille
e mille volte si professa poeta, e mai vuol essere o può essere profeta.
I modelli vicini, il Roman de la Rose o l’Anticlaudianus oltre ad esse-
re epitomi dei sapere universale, manuali, insomma, di ciò che già si
sapeva, più che ricerca e progettazione del futuro volevano essere i
prodotti di maestri di grammatica, esercizio di un’arte prestigiatrice
come la retorica, che Jean de Meun e Alano di Lilla volevano dimo-
strare capace d’esporre, abbellendola, ogni verità. La retorica era per
loro il completamento del quadro della filosofia, e si arrogava il dirit-
to di compaginarsi ad ogni verità. Questa, però, andava cercata ed in-
dagata dalle altre arti del quadrivio e dalla filosofia. Jean de Meun ed
Alano di Lilla erano, insomma, i maestri del trivio che proponevano
la sintesi, tra ornata e goliardica, del sapere cristiano.
È chiaro che i modelli vicini e lontani potevano essere utilizzati in
qualche loro parte, in qualche loro proposta; ma bisognava rifondere
il tutto in una concezione in cui alla parola del poeta, per natura e
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Manuale di storia della lingua italiana

tradizione, bella, fossero concessi uno specifico valore gnoseologico,


e una sua propria capacità operativa nella organizzazione e gestione
del mondo degli uomini. Giacché la nozione ornamentale non era
sufficiente ad evitare che alla poesia fosse annessa l’accusa di superflu-
ità, quando non anche l’accusa di inutile e peccaminosa tentazione al
lusso verbale e manifestazione del vizio morale.
La ricerca della lingua in Dante e della lingua volgare nasce da
questa esigenza e prelude alla nascita insieme della Commedia e della
moderna letteratura occidentale. Che Dante volesse proporsi come
poeta di Dio o come poeta della sapienza umana richiedeva fosse re-
stituita non solo la dignità letteraria dei classici, ma la stessa attendi-
bilità agli strumenti che il poeta, mistico o laico che fosse, s’accingeva
a porre in atto. In altri termini non bastava rivendicare alla poesia in
volgare la medesima libertà compositiva dei «poetae regulati» (po-
eti che scrivono secondo le regole del latino) e la medesima dignità:
non bastava il riscatto dal dilettantismo che l’Alighieri aveva perse-
guito praticamente da sempre, sin dai tempi di A ciascun alma presa
e gentil core, e aveva canonizzato nel xxv della Vita Nuova, quando
l’ancor giovane scrittore affermava con perentoria coscienza lettera-
ria che «degno e ragionevole è che» ai «poete volgari» «sia mag-
giore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari: onde, se
alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è
a li rimatori». Quel riscatto aveva un limite insormontabile nella al-
trettanto perentoria demarcazione degli ambiti della poesia: «E que-
sto è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con
ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse da principio trovato per
dire d’amore». Quella rivendicazione insomma portava la poesia nel
campo dell’esercizio letterario, e della letteratura erotica in particola-
re, dal quale era invece necessario uscire quando si volesse rinnovare
la storia dell’umanità con i versi.
Nel brano del Convivio appena più su citato l’Alighieri aveva af-
fermato che solo gli uomini hanno il linguaggio; nel De vulgari elo-
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quentia il discorso si fa analitico: converrà seguirlo per cogliere nella


cadenza sintetica della scrittura dantesca una sorprendente fertilità di
proposte e di innovazioni.
Una fondamentale connotazione della lingua dantesca viene of-
ferta quasi in sordina sul limitare del De vulgari eloquentia, ma, ap-
punto per questo, originaria e fondante. Gli animali, scrive Dante,
non hanno bisogno di parlare poiché essi sono guidati dall’istinto
e dalle passioni. Anzi, il linguaggio sarebbe stato loro dannoso non
potendo esistere tra loro nessun rapporto amichevole: «cum nullum
amicale commertium fuisset in illis»(poiché nessun rapporto ami-
chevole potrebbe essere tra loro). Dovremo tenere in conto, non solo
l’osservazione che la lingua ha un eminente valore sociale, ma dovre-
mo prendere atto anche che la determinazione sociale si pone nella
prospettiva dell’amicizia, di quel tipo di rapporto, cioè, che sarà pa-
rimenti alla base dell’impegno scientifico e divulgativo del Convivio,
e dell’impero universale della Monarchia e della Commedia. Varrà
tuttavia sottolineare sin d’ora che né la lingua né l’impero danteschi
si connotano come remedium peccati (rimedio in seguito al peccato
originale), ma ineriscono alla natura dell’uomo. Ma, di questo parle-
remo in seguito.
Confutate rapidamente talune possibili obiezioni circa il serpente
del Paradiso terrestre e l’asina di Balaam della Bibbia, e delle gazze
parlanti delle Metamorfosi di Ovidio, Dante liquida l’argomentazio-
ne lingua‑animali per confermare la specificità umana della lingua.
Altrettanto rapida è nel De vulgari eloquentia la discussione circa
il linguaggio degli angeli, ma essa è per noi ancor più significativa ed
interessante:

Ora gli angeli, per effondere i loro pensieri glorificanti, possiedono una
rapidissima e ineffabile capacità intellettuale, in virtù della quale ciascuno
si fa compiutamente palese all’altro con la sua sola esistenza, o meglio at-
traverso quello Specchio splendidissimo in cui tutti si riflettono nel pieno
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Manuale di storia della lingua italiana

della loro bellezza e si rispecchiano con tutto l’ardore del loro desiderio: è
dunque evidente che essi non avevano bisogno di alcun segno linguistico.1

Dante qui ricorre ad una tesi contenuta nel Liber de causis, del-
la quale s’era servito già nel Convivio. Secondo questa tesi ciascun
intelletto celeste, ciascun angelo cioè, conosce quello che è sopra di
sé e quello che è sotto di sé. Conosce perciò Dio, che è la sua causa,
e conosce l’angelo della gerarchia inferiore che è il suo effetto. Inol-
tre, dal momento che gli angeli conoscono Iddio, che è la causa di
tutte le cose, conoscono tutto. Era questa la premessa per tirare una
conclusione anche per quel che riguarda la lingua: che gli angeli non
hanno bisogno di parlare tra loro: a loro, infatti, tutto è noto, giacché
conoscono ogni cosa, conoscendo Dio. Anzi, per Dante, gli angeli
non possono venire a conoscenza di nulla di nuovo.

Concreato fu ordine e costrutto


a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto.2

Di qui deriverà nel Paradiso la violenta polemica contro le favole


delle «scole» che sostenevano che l’«angelica natura» «’ntende si
ricorda e vole». Per il momento nel De vulgari eloquentia deriverà
altresì l’inesistenza di quale che si voglia forma di comunicazione, e
quindi l’inesistenza di quale che sia lingua angelica.
Lo stesso concetto era espresso in un passo della Monarchia: passo
che avrebbe forse meritato maggiore attenzione da parte dei lettori
del De vulgari eloquentia. Si tratta del libro i, iii, 7 e 8: qui il poeta
intende definire quale sia il fine di tutto l’umano consorzio. Per far
questo egli prende le mosse dalla specifica natura dell’uomo: «l’uo-
mo» egli dice «è essere apprensivo per mezzo dell’intelletto possi-

1 i, ii, 3
2 Paradiso, xxix, 31‑33.
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bile». Infatti, benché esistano altre creature intelligenti, le celesti,


queste tuttavia non tendono ad altro se non a comprendere sé stesse,
il chèeavviene «senza aggiunta di nulla». Se ne deduce che, se negli
angeli non vi può essere cambiamento, essi non possono apprendere
nulla, giacché tutto sanno guardando nello splendore fulgentissimo
di Dio: sono, insomma, intelligenze in atto. Sapendo tutto non è pos-
sibile che essi comunichino tra loro qualcosa: la lingua, insomma, è
condizionata dalla necessità di apprendere qualche cosa che prima
era sconosciuta: essa, alla fine, presuppone l’ignoranza o, meglio, la
potenza.
Prima di approfondire gli argomenti, per cogliere il loro spesso-
re storico, converrà ricordare che coerentemente al suo pensiero S.
Tommaso non aveva escluso in assoluto che gli angeli parlassero, sem-
mai aveva escluso che parlassero una lingua simile a quella umana. Era
possibile supporre in essi l’esistenza di una qualche forma di comu-
nicazione, evidentemente tutta spirituale e priva di segni sensibili, 1
grazie alla quale essi possono conoscere le loro volontà.
Per l’Alighieri, al contrario, gli angeli ed i beati tutto vedono in
Dio: basterebbe ricordare che né Beatrice né le altre anime che il
pellegrino incontra nel suo viaggio paradisiaco hanno bisogno che
Dante si esprima in parola: essi vedono tutti i pensieri, i dubbi e i
sentimenti di Dante in Dio:

[…] i minore e’ grandi


di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi.2

Tutti i santi, però, vorranno che egli parli e questo avrà ben più alto si-
gnificato che quello di mezzo per che il lettore della Commedia trag-
ga maggior diletto dalla drammatizzazione del poema: significherà
1 Summa Theologiae, i, q. lvii, a. 4 ad 1.
2 Paradiso, xv, 61‑63.
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Manuale di storia della lingua italiana

la denotazione umana e razionale del pellegrino, che, parlando, pone


in atto la sua propria natura, il suo essere «apprehensivum per intel-
lectum possibilem» (capace di apprendere attraverso l’intelletto in
potenza). E, ponendo in atto il suo intelletto possibile, sarà divino.
Ora noi vorremmo porre in evidenza il fatto che Dante nella
esposizione della tesi del linguaggio degli angeli percorre la strada
più rischiosa in fatto d’ortodossia: quella, cioè, che considerava gli
angeli e i beati come intelletti in atto. Il che andava certamente bene
al pensiero di un filosofo greco, il quale chiaramente non aveva alcun
problema di supporre il politeismo, con Giove padre di dèi eterni e
onnipotenti quanto il padre stesso. E poteva andare bene per un filo-
sofo arabo che non si preoccupava di andare incontro alla persecuzio-
ne religiosa. Ma per un cristiano l’opzione poteva avere un ben più
profondo significato. Se l’Alighieri imbocca nel De vulgari eloquen-
tia questa strada è perché dovette sembrargli più rilevante stabilire
una inscindibile equazione tra la lingua e l’intelletto possibile: il che
voleva dire stabilire una sostanziale sinonimia non solo tra i termini
lingua ed intelletto umani, ma anche tra le funzioni e tra i destini dei
valori sottintesi da quei termini.
Cerchiamo di chiarire meglio. Abbiamo visto che gli animali sono
materia pura, e quindi è impedita loro non solo la conoscenza, ma
anche un quale che sia comportamento riconducibile alla ragione.
Abbiamo visto che gli angeli, ed i beati, sono intelletti in atto, che
leggono ogni cosa in Dio. L’uomo, da vivo, è, invece, «apprehensi-
vum per intellectum possibilem» e dunque solo a lui era necessaria
la lingua per porre in atto le sue ‘capacità’. Per meglio comprendere
l’affermazione del poeta occorrerà rifarsi rapidamente alla sua nozio-
ne di conoscenza.
La conoscenza umana per Dante, come per la gran parte della filo-
sofia scolastica, ha origine dal senso. Se restasse legata alla sensazione
però sarebbe cosa assai povera ed illusoria. Perché abbia il carattere
di vera e propria scienza deve intervenire una facoltà propriamente
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intellettiva: questa facoltà Dante, sulla scorta dell’aristotelismo pari-


gino, chiama «intelletto possibile». L’intelletto possibile è creato in-
finito e direttamente da Dio, il quale in esso ha connaturato il deside-
rio di sapere. L’uomo di Dante, dunque, ha in sé un’impronta di Dio
che lo anima di un’inesausta ansia di mettere in atto la sua propria in-
finita – o quasi infinita – potenzialità. La ragione è dono divino, che
rende divino l’uomo, e lo spinge, o dovrebbe spingerlo, a dare ad essa
stessa sostanza scientifica e politica. La ragione è, diciamo, una forza
propulsiva che avverte assai pressante lo scopo di concretizzare e ma-
nifestare se medesima. Essa, perciò, anima, vivifica, esalta l’umanità
con un perpetuo desiderio di sapere: la meta avrà nome di filosofia,
avrà il nome, cioè, delle conquiste, delle scienze delle arti, che sono le
concretizzazioni, le attuazioni della ragione; perciò la filosofia è, per
l’Alighieri, «cosa miraculosa»,1 manifestazione ed insieme parteci-
pazione alla sapienza, alla bontà, alla carità divine ed è vita e meta
dell’esistenza dell’individuo e dell’umanità intera.
In questo contesto filosofico si inserisce la nozione di lingua in
Dante. E va subito detto che in tal modo la lingua non si correla all’i-
gnoranza, causa negativa ed evidentemente limitativa del suo valore;
la lingua sarà, invece, determinata dal fine, nel quale l’uomo raggiun-
ge la felicità in questa vita, la «beatitudo huius vite», e diventa simile
ad un dio: tal che la lingua è lo strumento grazie al quale l’uomo si di-
vinizza. E va subito detto che quell’impostazione dantesca convoglia
il linguaggio nell’alveo dei destini dell’intelletto possibile, nell’alveo
dei valori politico‑civili ad esso sottesi: la monarchia universale, in-
fatti, trova in Dante il «fondamento radicale» in quest’aspetto me-
desimo della natura dell’uomo. Lo stesso identico intelletto possibile
genera nel pensiero del poeta l’impero civile e la lingua: non a caso la
Monarchia e il De vulgari eloquentia presentano un diagramma argo­
mentativo assai simile, che prende le mosse appunto dal confronto
degli uomini con gli angeli.
1 Conv., iii, vii, 16.
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Manuale di storia della lingua italiana

Le conseguenze immediate della confluenza di lingua ed impero


sono, sotto molti aspetti, palmari e rivoluzionarie allo stesso tempo.
Un primo aspetto è che questa confluenza avviene sul terreno della
lingua parlata, non – per tornare alla divisione di S. Tommaso – di
quella pensata e tanto meno dell’idea. Un secondo aspetto è che la
lingua parlata, proprio perché espressione dell’intelletto, della na-
tura, cioè, propria dell’uomo, non è il segno della sua insufficienza,
della grazia perduta; al contrario, essa è l’espressione della grandezza
dell’uomo e della sua divinità, giacché divino è l’intelletto, la lingua,
e la lingua parlata, è tra le: «… operazioni che sono proprie de l’ani-
ma razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia: cioè nel
parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono essere chia-
mati».
La necessità di ribadire il legame lingua‑intelletto possibile presie­
de al discorso dantesco sull’origine del linguaggio nel De vulgari elo-
quentia:

Non è allora senza un motivo razionale, […], che avanziamo l’opinio-


ne che il primo uomo abbia rivolto la sua prima parola a Dio in persona;
sempre in base alla ragione asseriamo anche che il primo parlante parlò
immediatamente, non appena fu investito da soffio del Potere Vivificatore.
Crediamo infatti che nell’uomo l’essere sentito sia atto più umano che il
sentire, purché sia sentito e senta in quanto uomo.1

In breve: io, dice l’Alighieri, basandomi su quanto mi dice la ra-


gione e lasciando da parte quanto è scritto nella Bibbia, ritengo che
a parlare per primo sia stato Adamo e non Eva. Ritengo inoltre che
Adamo abbia parlato immediatamente, non appena ricevette l’anima
dal Signore. Adamo parlò, dunque, prima ancora che Dio gli rivol-
gesse, effabilmente o ineffabilmente, la parola: a questa conclusione si
perviene considerando che Adamo venne creato perfetto dal Signo-
re, e, poiché l’attivo parlare è più nobile che il passivo ascoltare, alla
1 De vulg. el., i, v, 1.
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sua perfezione era più adeguato il più nobile parlare piuttosto che il
meno nobile ascoltare. In altri termini: l’amore infinito per la sua cre-
atura induce il Signore a permetterle di esprimersi con parole. Così
che il linguaggio parlato si manifesta in Adamo, uomo perfetto del
Paradiso terrestre, diremmo prima del linguaggio interiore, almeno
contemporaneamente al linguaggio interiore della mente, del cuore e
delle fede, col quale Dio parla al cuore dell’uomo e questo a Dio. La
lingua prolata è tanto nobile, tanto perfetta, con tanta carità donata,
che Dio stesso tace per ascoltare la voce dell’uomo appena creato:
per Dante, perciò, la lingua nasce e si manifesta prima del peccato
originale, nasce e si manifesta nel momento dell’assoluta perfezione
di Adamo.
Mai è stata cantata più alta lode della parola dell’uomo, mai l’a-
more di Dio è stato pensato più alto di quello che gioisce nell’ascol-
tare e, in quest’ascolto, riconosce e insieme conferisce onore e nobiltà
all’uomo. Mai filosofo o teologo ha tanto amato la lingua, da immagi-
nare un Dio silenzioso ascoltatore della parola dell’uomo. Mai poeta
ha voluto o potuto innalzare a tanto la sua poesia. La nobiltà della lin-
gua precede qualsiasi elaborazione estetico‑formale, se è vero, come
è vero, che priva d’ogni elaborazione formale e del tutto naturale era
la lingua di Adamo: onde nobile è il «linguaggio necessario a tut-
ti», «adoperato non solo dagli uomini ma anche dalle donne e dai
fanciulli»;1 nobile è quella lingua «che i bambini apprendono dalle
labbra di chi sta loro vicino non appena cominciano a distinguere le
parole»; nobile, infine, è quella lingua «che impariamo senza regole,
imitando le nutrici».2 Va da sé che una dottrina sulla lingua volgare
tenderà innanzi tutto a rendere questa aderente il più possibile ai fini
per i quali è stata creata, e dai quali s’è allontanata per causa dei pec-
cati d’Adamo, prima, e di Nembrot, dopo.
Al proposito della nobiltà del linguaggio potrà essere utile il con-
1 De vulg. el., i, i, 1.
2 De vulg. el., i, i, 2.
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Manuale di storia della lingua italiana

fronto con la tradizione che parte da S. Agostino e giunge sino a


Tommaso d’Aquino. Agostino nel De Genesi ad litteram,1 commen-
tando i versetti riguardanti il rimprovero di Dio a Adamo ed Eva ave-
va sostenuto che il Signore poteva rivolgersi loro sia in modo effabile,
sia in modo ineffabile, sempre, però, «intrinsecus» (all’interno di
essi). Ugo da S. Vittore2 aveva radicalizzato l’interiorità e l’averbalità
della manifestazione divina: «L’uomo conobbe il suo creatore, non
però per mezzo di quella conoscenza che si acquisisce dall’esterno
con l’udito, sebbene con quella che viene offerta interiormente at-
traverso l’ispira­zione». Tommaso d’Aquino3 giungeva a conclusioni
simili allorché affermava che «nella condizione edenica non esisteva
la possibilità dell’ascolto da un uomo che parlasse esteriormente, ma
solo quella da Dio che ispirava interiormente». Tal che del linguag-
gio comunicativo restava nella tradizione esegetica, unica testimo-
nianza, il dialogo di Eva col serpente che implicitava di fatto la stretta
connessione della lingua parlata col peccato, quando non denunciava
la sua origine stessa peccaminosa.
Seguendo questa via teoretica la lingua doveva di per sé essere il
segno della caduta dell’uomo. Così Tommaso d’Aquino, che pur tra
gli scolastici è quello che più crede nei valori umani, nel commento
alla Politica di Aristotele scriverà:4

Poiché dalla natura è stato dato all’uomo il linguaggio, e poiché il lin-


guaggio è finalizzato a questo che cioè gli uomini comunichino reciproca-
mente sia per ciò che risulta loro utile, sia per ciò che è dannoso, per ciò che
è giusto o ingiusto, e così via; consegue che – visto che la natura non fa nulla
di inutile – gli uomini naturalmente comunichino tra loro intorno que-
sti argomenti. Ma tale comunicazione costituisce la casa e la città. Dunque
l’uomo è naturalmente animale domestico e sociale.

1 Lib. xi, c. 33, n.43


2 De Sacramentis, lib. i, pt. vi, c. 14.
3 Summa Theologiae, 11‑11, q. v, a. i ad 3.
4 In Politicorum, lib. i, lect. 1, § 37.
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L’Alighieri ha ben presente il rischio implicito della passiva accet-


tazione del testo biblico. Così egli scrive nel De vulgari eloquentia:1

In verità, secondo quanto dice il Genesi all’inizio, dove la Santissima


Scrittura tratta dell’origine del mondo, risulta che a parlare prima di tutti è
stata una donna, cioè Eva, la presuntuosissima Eva, quando al diavolo che la
sollecitava ha risposto: «Noi mangiamo tutti i frutti degli alberi che stanno
nel paradiso; ma il frutto dell’albero che sta al centro dl paradiso, Dio ci
ha imposto di non mangiarlo né toccarlo, che non ci accada di morirne».
Tuttavia, benché nei testi si trovi che per prima ha parlato una donna, è più
conforme alla ragione ritenere che sia stato l’uomo a parlare per primo, ed
è sconveniente non pensare che un atto così nobile del genere umano sia
sgorgato prima dalle labbra di un uomo che da quelle della donna. Perciò è
ragionevole la nostra opinione che la parola sia stata concessa ad Adamo in
persona per primo da Colui che l’aveva appena plasmato.

Dante avverte così impellente la necessità di staccare la lingua dal


peccato che non avverte – o preferisce affrontarli – i rischi di un’in-
tegrazione della Bibbia: perciò aggiunge racconto a racconto; non
inventa però, deduce razionalmente, razionalmente integra la lezione
biblica, traendo dalla logica una nuova vicenda genesica. Ciò aveva
come immediata conseguenza la scissione del binomio lingua parla-
ta‑peccato, e la fondazione dell’altro – più nuovo e perenne – bino-
mio di lingua parlata‑scienza o, che è lo stesso, lingua parlata‑felicità.
Per il momento converrà portare un’ulteriore prova della necessi-
tà, imposta dalla strategia argomentativa, di dare nobiltà al linguag-
gio umano, dalla quale nobiltà sarebbe derivata non solo quella del
volgare, bensì anche quella dei poeti che si servono di uno strumento
tanto nobile.
La conclusione che Adamo fosse dotato della lingua all’atto stes-
so della creazione e parlasse non appena creato giunge al termine di
un’argomentazione per certi versi singolare.

1 De vulg. eloqu., i, iv, 2-3


20
Manuale di storia della lingua italiana

Sostanzialmente rifiutata la lettera della Scrittura a proposito del


primo dialogo, il poeta ritiene di poter affermare che il primo par-
lante usasse la lingua «o sotto forma di domanda o sotto forma di
risposta»; e la prima parola pronunciata sarebbe stata «El», il nome
di Dio, giacché in Dio è ogni diletto. «Sorge qui una questione».1
Dante affronta qui la discussione volta a chiarire la sua stessa espres-
sione: «sotto forma di risposta». È discussione singolare che non
trova altri riscontri nel De vulgari eloquentia o nel Convivio o nel-
la Monarchia: moduli come: «Veramente qui surge in dubbio una
questione»2 preludono a digressione volte, semmai, a chiarire e com-
pletare il suo pensiero o sono l’incipit d’argomenti importanti come
quello sui limiti dell’umana conoscenza. Qui, invece, in questo passo
del De vulgari eloquentia, Dante sembra tendere a dimostrare l’esat-
tezza di una sua espressione: se Adamo pronunciò «El» in forma di
risposta ciò vuoi dire che Dio l’aveva interrogato. Il problema, come
si vede, verte sulla lingua usata da Dio: se Dante avesse ammesso che
il Signore era ricorso al verbum cordis, alla parola del cuore, sarebbe
ricaduto nella posizione agostiniana ed avrebbe riconfermato la mag-
giore nobiltà del linguaggio interiore. D’altra parte l’affermazione
che il Creatore ha adoperato di per sé la lingua degli uomini sareb-
be incorsa in un non meno grave errore teologico e filosofico: Dio,
infatti, è puro spirito e non può utilizzare uno strumento sensuale.
Ebbene l’Alighieri aggira l’ostacolo ricorrendo alla natura inferiore:
in altri termini, Dio si sarebbe servito della sua ministra per rivolgersi
al primo uomo col linguaggio degli uomini:

Abbiamo detto prima che l’uomo parlò rispondendo. Da questa affer-


mazione nasce ora una questione: se cioè quella risposta fu data a Dio. In tal
caso sembrerebbe infatti che Dio avesse parlato, il che appare in contrasto
con quanto è stato accennato prima. A questo noi replichiamo però che
l’uomo poté ben rispondere e Dio poté ben fare domande, senza che per

1 Rispettivamente De vulg. eloqu., i, iv, 4 e i, iv, 5.


2 Conv., iv, xxi, 11.
21
Leonardo Sebastio

questo Dio parlasse quello che noi chiamiamo un linguaggio. Chi infatti
dubita che tutto ciò che esiste si pieghi docilmente al cenno di Dio, da cui
appunto tutto è fatto, tutto è conservato, tutto è altresì governato? Il co-
mando della natura inferiore, che è ministra e creatura di Dio, induce l’aria
a muoversi con perturbazioni tali da far rimbombare tuoni, da far lampeg-
giare fiamme, da far piovere acqua, da sparger neve, da scagliare grandine: e
dunque il comando di Dio non la indurrà a muoversi per far risonare alcune
parole, che saranno rese articolate e distinte proprio da Colui che cose ben
maggiori separò e distinse? E perché no?1

Dio, secondo Dante, se avesse dovuto rivolgersi a Adamo sareb-


be ricorso alla stessa lingua parlata dall’uomo, sia pure utilizzando
gli strumenti sensibili della natura inferiore. Dio che può imporre la
conoscenza di sé, che può illuminare, che può parlare direttamente
al cuore degli uomini, di fatto, per Dante crea «una forma certa di
linguaggio»: la forma, precisa il poeta, riguarda i «vocaboli delle
cose», la «costruzione dei vocaboli» e la «espressione della costru-
zione». Qui non è il caso di ripetere il dibattito critico‑filologico che
il passo dantesco suscita; ora converrà rilevare che la tesi dantesca che
fa intervenire Iddio sin nelle forme in atto della lingua, in quei semi
di lingua, è soprattutto indicativa della importanza che egli voleva
conferite al linguaggio parlato e di conseguenza al volgare italiano e
non solo quello italiano.
Il linguaggio è, dunque, stato creato perfetto. In seguito, però, è
intervenuto il peccato originale: era conseguente supporre che anche
la lingua abbia perso i suoi valori originari. Noi abbiamo più su visto
come il poeta contestasse che la nascita della lingua fosse da annettere
al peccato originale. Ora ricorderemo che Dante pensa che l’uomo
sia stato creato in una condizione di perfezione sì, ma che questa per-
fezione era tutta umana, senza, cioè, doni o grazie che gli facessero
superare il limiti della propria umanità. Questo, naturalmente, non
vuol dire che per l’Alighieri Adamo non fosse divino; è che la sua di-
1 De vulg. eloqu., i, iv, 6.
22
Manuale di storia della lingua italiana

vinità consisteva nell’essere organico alla creazione, nel seguire, senza


soluzione di continuità, nella gerarchia degli esseri creati, gli angeli. Il
peccato originale ha fatto perdere all’uomo la condizione d’assenza
dei vizi in cui Adamo era stato creato. Il peccato ha indotto nell’u-
manità una serie di mali, tra i quali primeggia la «cupidigia», che è
l’ostacolo maggiore per il raggiungimento della pace e della felicità.
Ma non gli ha fatto perdere la naturale collocazione nell’ordine del
creato, né gli ha tolto la sua natura. Insomma per Dante non ci sono
doni gratuiti da riguadagnare per avvicinarsi, o, addirittura, recupe-
rare lo stato edenico. Anzi, dopo la venuta del Cristo, il recupero non
solo è possibile ma è doveroso: ed è, sia detto con estrema chiarezza,
recupero delle potenzialità che Dio aveva donato all’umanità all’at-
to della sua creazione che la fede riconfermata rende possibile nella
sua pienezza. Il Paradiso terrestre è, per Dante, pressoché su questa
nostra terra – e non solo fisicamente – e consiste tutto, e tutto si rac-
chiude nella umana ragione, che è magnifico dono di Dio.
E in questo recupero del paradiso terrestre la lingua, la lingua par-
lata diciamo, e quella volgare in particolare, ha un ufficio suo proprio
in quanto mezzo di comunicazione tra gli uomini e insieme strumen-
to per l’attuazione della potenzialità ragione. La lingua, nata con la
nascita dell’umanità, nobile ed alta, quanto la stessa umanità, viene
da Dante immessa nel processo escatologico, come struttura portante
ed ineliminabile del progetto di Dio per l’umanità.
In questa prospettiva sarà da leggere il significato della parola elo-
quenza che intitola il trattato dantesco. Eloquenza è stata intesa come
un ‘parlare appropriato ed efficace’,1 o come ‘uso regolato, elegante,
dignitoso, e soprattutto consapevole della locutio’.2 Sono, accezioni
che possono essere accettate a patto che si allenti la pregnanza stilisti-

1 P. Rajna, Il primo capitolo del trattato «De vulgari eloquentia», in Miscellanea


di studi in onore di R. Hortis, Trieste 1910, pp. 113‑126.
2 G. Favati, Osservazioni sul «De vulgari eloquentia», in «Annali della Facoltà
di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», 1961‑1965, p. 153.
23
Leonardo Sebastio

co‑formale, la quale per Dante rimane nell’ambito dell’«aggiunta»


sia pure «conveniente». 34 Per il poeta ogni espressione verbale trar-
rà la sua validità dalla sua rispondenza al fine per il quale il linguag-
gio tutto è stato creato: che è, come abbiamo detto, l’espressione di
ciò che la nostra mente concepisce. In altri termini viene richiesta la
maggiore aderenza possibile alla verità da esprimere, perché solo una
perfetta specularità può manifestare la natura del linguag­gio, che è
razionale, e, poiché è razionale, è divino. In tanto le figure retoriche
sono possibili ed utilizzabili in quanto permettono un’esplicitazione
del vero che il linguaggio in prosa non permetterebbe. Se poi, per
tale via, la parola diviene anche ornata, questa sarà aggiunta non da
rifiutare ma da calibrare all’oggetto espresso.
Siamo alla fondazione d’ogni attività linguistica in generale e della
letteratura: da ora in poi ogni operazione letteraria, in volgare, avrà il
marchio santificante dell’implicita impronta divina in una funzione
come quella verbale, ancora tutta nuova. Prima della rivoluzione di
Gutemberg, questa di Dante era necessaria ed ineliminabile.

La funzione sociale della lingua

Nelle pagine precedenti abbiamo messo in evidenza come l’inten-


zione di Dante di dare uno statuto al linguaggio parlato si fondasse
sul legame naturale lingua‑intelletto possibile. Quest’operazione si
serve, tra l’altro, dell’affermazione che, poiché l’intelletto possibile è
proprio dell’uomo, ed è creato con l’uomo, il primo parlante fu ap-
punto il primo creato, Adamo, e non Eva, e che Adamo proferì la
prima parola appena ricevette da Dio l’anima razionale.
Si badi però l’invenzione dantesca del primo dialogo edenico è
tutt’altro che dettata da un improvviso ed immeditato eccesso di pas-
sione dimostrativa: essa infatti ha radici assai profonde nel pensiero
aristotelico medievale, ed in particolare in quello averroistico. Aver-
roè, infatti, pensava che l’intelletto possibile fosse eterno, e pensava
24
Manuale di storia della lingua italiana

che esso fosse unico per tutti gli uomini. Il filosofo arabo non si era
occupato di lingua nel commento al De anima, dove esprimeva que-
ste idee, tuttavia chi al De anima di Aristotele si fosse rifatto trattan-
do del linguaggio degli uomini di necessità doveva concludere che il
linguaggio è eterno e comune a tutti gli uomini.
L’eternità e l’unicità dell’intelletto possibile erano state oggetto
di molte contestazioni da parte dei pensatori cristiani: e non poteva
che essere così, visto che l’una e l’altra minavano alla base il concetto
stesso di religione: come è possibile la salvezza o la dannazione indi-
viduali se l’intelletto è unico per tutta l’umanità e per l’umanità di
tutti i tempi ?
Ma Aristotele era, per gli intellettuali del tempo di Dante, l’incar-
nazione stessa della filosofia e della ragione. Rinunciare al pensiero
dei filosofo greco equivaleva a rinunciare all’unico strumento per la
comprensione dell’universo naturale e dell’universo umano. Era ne-
cessario adattarlo al cristianesimo, se non si voleva restare schiacciati
dalla cultura, dalla matematica, dalla scienza, dalla filosofia, insom-
ma, degli arabi. Di qui una serie di commenti alle sue opere: pensiamo
ad Alberto Magno, pensiamo a Tommaso d’Aquino, che studiano e
rielaborano i suoi testi, li adattano al contesto cattolico. L’aristote-
lismo duecentesco – anche quello di Alberto e di Tommaso – nasce
per contrapporsi alla filosofia islamica, ed in particolare all’aristoteli-
smo arabo: non meraviglia, perciò, se la maggior parte filosofi cristia-
ni hanno come mira polemica i commenti ad Aristotele di Averroè.
Erano stati gli arabi a scoprire il pensiero greco, erano stati gli arabi
a restituire quel pensiero all’Occidente. E tra i grandi filosofi arabi,
il più grande era stato Averroè, che aveva voluto studiare da filosofo
il filosofo greco, liberandolo dalle sovrastrutture e dalle incrostazio-
ni platoniche. Averroè presentava Aristotele, diciamo, nella versione
più vicina alla laicità pagana. È chiaro a questo punto che quanto più
si amasse Aristotele, quanto più si volesse essergli fedele, tanto più
ci si doveva avvicinare al filosofo arabo e a quei rischi teologici cui
25
Leonardo Sebastio

abbiamo accennato.
Dante, diciamo subito, che vuol essere ed è un buon cristiano, so-
stituisce alla nozione averroistica di eternità, quella di perpetuità, per
cui l’intelletto possibile nasce con l’umanità e dura per quanto dura
l’umanità; e sostituisce all’esistenza staccata dall’umanità, l’esistenza
della potenzialità infinita in ciascun uomo. Noi abbiamo diggià visto
come il poeta risolva la questione della perpetuità ed abbiamo accen-
nato a quali conseguenze derivino sul piano della lingua. La prima
di queste conseguenze è la dimensione eminentemente sociale del
linguaggio.
Tale dimensione è presente sino nei termini usati da Dante per la
definizione stessa di lingua, che nel De vulgari eloquentia è: «parlare
è esprimere agli altri ciò che la nostra mente concepisce». Sarebbe
semplicistica osservazione la forte pregnanza sociale di quegli «al-
tri» così prepotentemente inseriti nella definizione. Noi partiremo
invece dalla nozione di ‘mente’.
A tale nozione Dante dedica un’ampia trattazione quasi in aper-
tura di quel iii trattato del Convivio, che è anche cronologicamente
addossato al De vulgari. Il suo pensiero esplicitamente si rifà al De
anima e all’Etica nicomachea d’Aristotele – ma v’è anche Boezio –. Il
ricorso allo Stagirita costituisce un fatto assai interessante, in quanto
permetteva al poeta di sfuggire a quello che era stato un vero e pro-
prio predominio di S. Agostino in questo ambito. Il santo, infatti,
aveva nel De Trinitate identificato nella ‘mente’ la parte dell’anima
più prossima a Dio: Dio crea l’anima prima di immetterla nel corpo
appena nato. E l’anima vede allora, prima di nascere, il suo Creatore,
e ne conserva, nascosto, il ricordo nella mente, dove, mediante un
processo di fervente anamnesi, dovrà essere recuperato. Così, grazie
alla ‘mente’, l’anima umana supera tutto ciò che le è inferiore, e può
giungere a cogliere l’immagine di Dio rimastavi impressa. Dante, in-
vece, sulla scia del razionalismo averroistico, proponeva il recupero
dell’uomo come termine ad quem del progetto stabilito da Dio: quel
26
Manuale di storia della lingua italiana

progetto contemplava il recupero della natura umana quale era stata


creata da Dio. Dante mirava, sì, alla divinità, ma di quella che è den-
tro, non fuori dell’uomo. Ragion per cui non si tratta più di attingere
a qualcosa d’altro, diverso dall’uomo, o fuori di esso, o di più alto, ma
di riallacciarsi a quanto dell’originaria grandezza, dell’originaria no-
biltà, Dio aveva permesso restasse all’uomo non ostante la caduta di
Ada­mo. Tutto contribuiva in Dante a conferire al concetto di ‘men-
te’ la possibilità di giungere alla divinità dell’uomo in quanto uomo,
non in quanto immagine di Dio; e di attuarla nel concreto della vita
sulla terra: ancora una volta nell’uomo e non sopra l’uomo. Quan-
do, infatti, Dante afferma che il termine ‘mente’ è riferibile – o come
allora si diceva, è predicabile – tanto all’uomo, quanto alle sostanze
celesti non fa della mente un mezzo per giungere a Dio: la mente è un
tramite tutto umano in vista di un punto d’arrivo altrettanto umano.
Tal che attuare le virtù, umane, della mente, umana, è divinizzarsi e
godere, divinamente, degli effetti umani delle nostre umane opera-
zioni, purché esse siano conformi all’ordine, al progetto, per il quale
sono state date all’uomo da Dio le potenzialità. Perciò, nel De vulgari
eloquentia sta scritto: «Bisogna credere che è cosa divina il fatto che
noi proviamo la felicità nelle operazioni, conformi ad un ordine, del-
le nostre facoltà».1
Per comprendere meglio i parametri entro i quali si muove il
concetto dantesco di lingua, occorrerà determinare il significato di
quelle che egli chiama «nostre operazioni». E siccome l’operazione
peculiare dell’uomo è la conoscenza, e poiché, come abbiamo visto
la lingua è determinata dalla conoscenza, bisognerà vedere i limiti,
gli spessori, il valore di questa per determinare i limiti, gli spessori, il
valore della lingua.
La dottrina agostiniana e tomistica della ‘mente’, come proiezio-
ne verso l’alto e verso ciò che è al sopra dell’uomo, comportava di
fatto uno strumento linguistico che fosse in grado di trascendere i
1 De vulg. el., i, v, 2.
27
Leonardo Sebastio

limiti dell’umano: di qui l’opzione per il linguaggio del cuore e della


fede, che è linguaggio non prodotto dall’uomo ma ricevuto in dono.
Nel caso, poi, di S. Tommaso era solo questo il linguaggio in grado
dl garantire la verità e la felicità. Il Maestro Interiore di Agostino e
di Tommaso, è chiaro, non esprime fonicamente le parole: egli è il
completamento necessario per giungere alla piena conoscenza, che si
avrà, però, non su questa terra nella quale il sapere è irrimediabilmen-
te compromesso dal peccato di Adamo. Solo la fede, e la sua lingua
interiore, ci danno per lo meno una certezza: «Solo allora conoscia-
mo Iddio, quando crediamo che Egli sia al di sopra di tutto che è pos-
sibile all’uomo pensare di Dio stesso. E ciò perché la divina sostanza
eccede del tutto la conoscenza umana».1 La superiorità della fede ed
il rinvio alla felicità dopo la morte avevano come riflesso la superio-
rità dei linguaggio con cui ciascuno parla con sé stesso o, meglio, in
sé stesso, dove è più facile, e dove soltanto è possibile, trovare i segni
tangibili della fede e di Dio.
Dante andava per altre vie e con altri intenti ribadendo che, se Dio
ha dato all’uomo il desiderio di sapere, dev’essere possibile, all’uomo,
raggiungere in questa vita il soddisfacimento del suo desiderio, altri-
menti tale desiderio sarebbe inevitabilmente frustrato. E se il deside-
rio di sapere è destinato alla frustrazione, Dio avrebbe fatto una cosa
inutile, e Dio per definizione non fa nulla d’inutile: «natura nihil
facit frustra» (la natura non fa nulla di inutile). Deve perciò essere
possibile all’uomo in questa vita raggiungere la felicità: la «beatitudo
huius vite» (beatitudine di questa vita). Ed, anzi, quella felicità deve,
per legge universale, essere raggiungibile «altrimenti [il desiderio
della felicità] andrebbe in contrario di sé medesimo, che impossibile
è; e la Natura l’avrebbe fatto indarno, che è impossibile».2 Ma in cosa
consiste la felicità dell’uomo? Essa sta nell’«operazio­ne della virtù

1 Contra Gentiles, lib. i, c. v.


2 Conv., iii, xv, 8.
28
Manuale di storia della lingua italiana

propria»1 e cioè nell’attuazione della virtù dell’uomo, di ciò che gli


è specifico, di ciò che in lui è più alto e nobile. In breve: la felicità
dell’uomo sta nell’attuazione delle capacità della ragione: la ragio-
ne, infatti, è per l’uomo «sua speziale vita e atto de la sua più nobile
parte».2
Ma in che consiste l’attuazione delle capacità della ragione ? La
risposta è facile: nella scienza, nella filosofia. È nella ragione che «più
espeditamente» raggia la luce divina, la quale «sanza mezzo» trae
in sua similitudine la filosofia. Dovunque splende l’amore per la fi-
losofia, scrive l’Alighieri, «tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi
spenti, imperò che lo suo obietto etterno improporzionalmente li al-
tri obietti vince e soperchia».3 Derivata dalla luce divina, la filosofia
soddisfa il desiderio di sapere degli uomini: tale soddisfacimento è
la felicità. La quale, dunque, è tutta nei limiti della ragione, essa non
varca i confini dell’umano, eppure conserva tutta la sua divinità, tan-
to che tramite essa gli uomini possono diventare quasi dei.
Le conseguenze in fatto di lingua del pensiero dantesco sulla
conoscenza non sempre sono state evidenziate con sufficiente chia-
rezza, benché esse ci appaiono feconde e in grado di collocare il De
vulgari eloquentia nella medesima dimensione ‘civile’ in cui si muo-
vono il Convivio e la Monarchia. Per Dante, infatti, la filosofia ha un
«obietto etterno», che supera ogni altra cosa non solo in fatto di
tempo, ma anche per la vastità e la varietà dei contenuti. Si badi che
l’eternità della filosofia in Dante, medievalmente, non si sposa con
l’idea di un progresso indefinito: essa, scrive Dante nella Monarchia,
«ci è stata resa nota tutta intera attraverso i filosofi»,4 quindi non c’è
null’altro da scoprire: tutto, semmai, deve vivere nella sapienza attiva
degli uomini. L’eternità della filosofia, la sua vastità, la sua nobiltà,
1 Monarchia, iii, xv, 7.
2 Conv., ii, vii, 7.
3 Conv., iii, xiv, 7.
4 Monarchia, iii, xv, 9.
29
Leonardo Sebastio

fanno sì che nessun uomo da solo possa possederla per intera; certo vi
saranno i grandi che accoglieranno una maggiore quantità di scienza:
Virgilio sarà il «mar di tutto il senno»» e Aristotele il «maestro di
color che sanno»; e vi saranno uomini che si pasceranno dell’umile
pasto delle bestie: «ghiande gire mangiando». Sempre però finita
è la quantità di ragione che singolarmente preso ogni essere umano
può attuare. Dunque singolarmente preso ogni essere umano è desti-
nato all’infelicità, a subire la sperequazione tra l’infinità della propria
potenzialità e la limitatezza della sua attuazione. Perché la ragione
viva nella sua intierezza e nella sua perfezione è necessario che l’uma-
nità tutta intiera partecipi alla attuazione della sua potenza. E perché
tutta l’umanità possa dedicarsi alla filosofia, attuandola, è necessario
che vi sia pace e tranquillità.
Quanto al primo connotato della filosofia, l’eternità, diremo che
il pensiero dantesco, che qui s’impronta all’averroismo, imponeva
che la scienza fosse eternamente in atto e perpetuamente. Il che vole-
va dire che sempre, sin dalla sua creazione l’uomo doveva attuare la
potenza del suo intelletto: è per questo che l’Adamo dantesco parla
appena creato, giacché, parlando, esprime il suo sapere.
Affinché, poi, la teoria averroistica fosse pienamente corredata di
prove era necessario che sin dal primo istante di vita dell’umanità si
esprimesse tutto il sapere dell’uomo. Adamo deve, dunque, esprimere
la propria natura razionale esprimendo la scienza nella lingua, ma già
la prima parola deve essere espressione di tutto l’umano sapere. E qui
averroismo e fede cristiana possono ritrovare vie di convergenza, an-
che se al di fuori della verità scritturale. La parola «El», che significa
in ebraico Dio: essa raccoglie in un istante tutto il sapere dell’umani-
tà che, appunto, in quella sola sillaba si manifesta e si attua.
Occorreva, inoltre, che quella tanto densa sillaba fosse pronun-
ciata all’atto stesso della creazione altrimenti ci sarebbe stato un mo-
mento nella storia dell’umanità in cui non si sarebbe attuata la poten-
za dell’intelletto possibile, e, dunque, l’uomo sarebbe stato infelice, e
30
Manuale di storia della lingua italiana

sarebbe stato infelice ed imperfetto proprio nel momento della sua


massima perfezione. Il che non può essere neanche supposto. Adamo
creato perfetto ed onnisciente deve attuare tutta la sua sapienza nel
momento stesso in cui viene creato, affinché sempre, o meglio per-
petuamente, sia realizzata l’umana potenza razionale. Deve perciò
parlare appena creato e deve pronunziare il nome di Dio in cui si co-
agulano tutta la fede e tutta la sapienza.
Se l’Alighieri attraverso l’invenzione del primo dialogo tra Ada-
mo e Dio evita (oltre al legame lingua‑peccato) il rischio, questa vol-
ta filosofico, che l’eternità dell’intelletto umano fosse compromessa
dalla lettera della Bibbia, egli ha però da affrontare un altro gravissi-
mo problema: quello della vastità del sapere, della filosofia – e siamo
al secondo connotato, l’universalità del sapere –. Leggiamo il passo
della Monarchia in cui Dante affronta e supera il problema:

È chiaro quindi che la più alta facoltà dell’umanità è la facoltà o potenza


intellettiva. E poiché tale potenza non può essere tutta quanta simultane-
amente tradotta in atto da parte di un solo uomo o di qualcuna di quelle
società particolari su accennate, occorre necessariamente che nel genere
umano vi sia una moltitudine di uomini, ad opera dei quali quella potenza
venga totalmente attuata, così come è necessaria una moltitudine di cose
generabili affinché tutta la potenza della materia prima sia sempre attuata,
altrimenti esisterebbe una potenza separata [dall’atto], il che è impossibile.1

Sulla scia averroistica Dante proclama la necessità che, come per


tutti gli esseri generabili e corruttibili la natura realizza la perfezio-
ne attraverso una molteplicità simultanea e successiva d’individui,
così alla realizzazione di tutta la potenza dell’intelletto possibile sia
chiamata l’intera moltitudine del genere umano. La filosofia si attua
cioè non negli individui, ma nella collettività dell’umanità intiera. La
grandezza della scienza esige per sé la totalità degli uomini; impone
con la sua bellezza l’invito perentorio alla partecipazione alla felici-
1 Monarchia, i, iii, 7-8.
31
Leonardo Sebastio

tà: perché il sapere è necessità della natura dell’uomo, ma richiede


dedizione e sacrificio, e nello stesso tempo è fortemente amabile e
celestiale amante. Viene d’un balzo superato il modello di sapiente
che si chiude in solitudine, che nulla prende dalla società, e nulla
dà; e vi si elabora il modello di un’umanità sapiente, che esige ogni
uomo, ciascuno nei limiti consentiti e nei ruoli possibili, impegnato
nell’attuazione del proprio intelletto e nel necessario scambio della
sapienza del quale è detentore. È già qui quella fedeltà al proprio ruo-
lo, alla propria dignità di uomo che l’Alighieri porrà al centro del suo
progetto di palingenesi nel mondo. Il canto viii del Paradiso trova
già ora i suoi moventi ideologici. In questa nozione partecipativa alla
realizzazione delle umane potenzialità si trovano le radici dell’impe-
gno del poeta che deve affrontare il viaggio ultramondano per conto
dell’umanità dimentica della propria razionalità. Non sottolineere-
mo mai con bastante efficacia come la nozione, averroistica e dante-
sca, ‘partecipativa’ dell’umanità imponga a tutti i componenti l’as-
sunzione di responsabilità, nel bene come nel male. Perciò chi doveva
proporre una via d’uscita dalla situazione di marasma in cui la società
trecentesca (a Firenze e in Italia e in Europa) si trovava, non poteva
sentirsi – e tanto meno essere o tirarsi – fuori dalle responsabilità
di quella situazione: alla fine, chi doveva assistere alla processione
mistica doveva ammettere il proprio smarrimento e riconoscerne la
doppia relazione di causa e di effetto. Nessuno poteva dirsi esente dal
dilagare nel mondo del peccato: e tanto meno poteva dirsene esente
chi stava per denunciarlo con tutta la forza della propria filosofia.
E, perciò, quella dantesca, un’umanità che nella ragione trova le
ragioni del proprio essere, dell’essere qui sulla terra. Nel suo insieme,
nell’essere pluralità di uomini, bisogna sia percorsa in tutte le direzio-
ni da un’attività di scambio dottrinale: in questa, diremmo frenetica,
vita scientifica, l’umanità realizza la sua felicità e, realizzando la pro-
pria felicità, obbedisce al volere divino che quella felicità gli ha desti-
nato; ed, infine, obbedendo all’ordine divino, tutta intera si diviniz-
32
Manuale di storia della lingua italiana

za. Tale era la monarchia universale che il poeta progettava allorché


collocava nell’intelletto possibile «lo fondamento radicale dell’im-
periale maiestade». La lingua dantesca ha la stessa medesima radice
– e vi si innesta – in questa monarchia; è la lingua che rende possibile
lo scambio o, come scrive l’Alighieri, il «commertium» – necessario
perché la monarchia raggiunga un suo scopo: è la lingua, insomma
che rende possibile l’attuazione totale e globale dell’intelletto possi-
bile, che è il fine al quale la monarchia universale è ordinata.
Il linguaggio assume, in questa determinazione politica e insie-
me sapienziale, ben altra dimensione rispetto a quella che le avevano
conferito la dottrina tomistica e la scolastica in genere. Il linguaggio
– e non poteva che essere quello volgare – non poteva che entrare nel
vivo dell’attuazione dell’intelletto possibile, come struttura portante
e conditio sine qua non, dal momento che nessun individuo può as-
sumere su di sé tutto il carico della potenzialità infinita della quale
Iddio ha fatto dono all’uomo. Se teniamo presente che è necessario
che gli uomini sentano di far parte dell’umanità, che sentano che solo
nella collettività possono raggiungere la felicità, e che, infine, operi-
no in vista di quel raggiungimento, sin da ora avremo chiara l’alta
funzione civile e politica e morale di quanti si siano dedicati all’affi-
namento della lingua volgare, siano essi anche poeti, e poeti d’amore.
Ma perché sia possibile la «beatitudo huius vite», tra gli uomini
devono stabilirsi rapporti di comunicazione, naturalmente verbale ed
orale – non ancora cioè affidata alla scrittura, come avverrà da Petrar-
ca in poi (siamo ancora nell’epoca dei dolci colloquiari, del novellare,
della lettura attorno ai camini: ed in fondo è ben giusto che Dante
segni l’apoteosi di questa civiltà) –, delle parti di scienza o di dottrina
delle quali ciascun uomo è in possesso. Rimane chiaro che l’indivi-
duo può realizzare le proprie potenzialità, e quindi essere felice, solo
quando si trovi inserito in un contesto che prima di tutto permetta
la circolazione – diremmo oggi –, lo scambio reciproco, la parteci-
pazione, il contributo di idee, ai contenuti specifici delle singole arti.
33
Leonardo Sebastio

E rimane chiaro che in un simile contesto non è ipotizzabile l’uso


di una lingua come il latino, del quale pochi erano in possesso (ma
nessun democratismo nell’Alighieri, almeno qui!; semmai la consta-
tazione dei mezzi a disposizione in una città ancora provinciale, nella
quale non era diffusa la cultura di tipo bolognese o parigina, né la cul-
tura stessa era sufficientemente diffusa). D’altro lato il contesto poli-
tico deve consentire a quella circolazione, a quello scambio, a quella
partecipazione una esplicazione reale, libera, serena e, soprattutto,
la più vasta possibile. Di qui la necessità della monarchia universale.
Problema politico e problema linguistico in tal modo sono saldamen-
te legati l’uno all’altro, ed entrambi trovano la propria origine divina
nella natura divina dell’uomo.

34
PARTE SECONDA
CENNI DI STORIA DELLA LINGUA

Prima dell’Italiano

I dialetti italiani non sono dialetti dell’italiano, nel senso che non
sono varianti regionali dell’italiano derivate dalla lingua italiana. La
lingua italiana ha le proprie radici in una varietà linguistica sorta dal
latino nell’Italia del primo millennio d.C., e cioè in quella della To-
scana, e più esattamente nel tipo di toscano che si parlava a Firenze.
Storicamente, quindi, la lingua italiana è una sorella degli altri dialetti
d’Italia. Il fiorentino, infatti, del Medio Evo era uno tra la folla dei
dialetti: questa folla linguistica è il romanzo, un gruppo cioè di varie-
tà linguistiche originatesi dal latino parlato ed usate in vasti territori
dell’impero romano (nell’Iberia – Spagna e Portogallo –, nella Gallia
– Francia –, nell’Italia, nella Svizzera – Grigioni e Canton Ticino –,
nella Romania).
In vero non c’è una sostanziale differenza tra un dialetto ed una
lingua. La parola dialetto assai approssimatamente si definisce in
contrapposizione alla parola lingua: questa è, per convenzione, la va-
riante linguistica che nella storia ha acquistato prestigio culturale e
politico, e che viene utilizzata in un territorio più o meno – ma an-
che più e meno – coincidente con un territorio nazionale; il dialetto
Leonardo Sebastio

esprimerebbe culture più circoscritte (ma non meno prestigiose), o si


limiterebbe alla sola cultura materiale in un territorio limitato.
Variazioni linguistiche regionali all’interno del latino parlato
erano presenti fin da quando il latino si diffuse tra i vari popoli d’I-
talia e del più vasto impero romano. Le lingue parlate dagli abitan-
ti dell’Italia antica comprendevano una serie di lingue sorelle (che
appartenevano al ceppo delle lingue indoeuropee) del latino, tra cui
soprattutto l’umbro, parlato nell’alta valle del Tevere, l’osco, parlato
in gran parte dell’Italia meridionale, e le lingue celtiche in gran parte
dell’Italia settentrionale escluso l’attuale Veneto. Il greco, un tempo
diffusamente parlato in Sicilia, Calabria e Puglia meridionale, è forse
sopravvissuto diffusamente in queste regioni fino all’alto Medio Evo,
ed esistono ancora località grecofone in Salento e in Calabria meridio-
nale. L’etrusco, una lingua dalle incerte parentele linguistiche, ma ge-
neralmente ritenuta di origine non indoeuropea, era parlato in un’a-
rea grosso modo delimitata dall’Arno a nord e dal Tevere a sud e a est.
È pressoché impossibile verificare e stabilire l’influenza delle anti-
che lingue indoeuropee (sostrato) sul latino e sui dialetti da esso deri-
vati; molto i dialetti dovettero poi cambiare per variazioni interne e
per l’influenza che su di essi esercitarono le lingue dei popoli che nel
corso della storia vennero in contatto pacifico di vicinanza (adstra-
to) o di conquista più o meno duratura (superstrato) con i parlanti di
questo o quel dialetto. Un esempio di influenza di adstrato è quella
sintattica del greco su alcuni dialetti dell’Italia meridionale. Ma an-
che i vari invasori goti, longobardi e franchi, che detennero il potere
in Italia (iii-ix secc.), hanno lasciato una forte impronta sui dialetti
italoromanzi.

Dal ’300 all’ ’800

La frammentazione politica e culturale dell’Italia ha favorito la


frammentazione linguistica vuoi negativamente perché ha impedito
38
Manuale di storia della lingua italiana

una più rapida unificazione linguistica, vuoi positivamente perché ha


sollecitato la nascita di culture regionali o macroregionali: e si pensi
ad esempio alla fioritura della scuola poetica siciliana.

I Normanni portarono in Sicilia elementi linguistici francesi e


soprattutto la cultura e la poesia di Provenza. Su questo tronco si in-
nesta la corte di Federico ii, che riesce ad elevare a livello letterario le
tradizioni linguistiche municipali – senza appiattirle –, e soprattutto
a dar loro una assai ampia dimensione geografica in virtù dell’uni-
tà amministrativa di vasti territori. La produzione letteraria siciliana
trovò in Toscana un pubblico di mercanti, colti ed interessati, che, an-
cor prima degli intellettuali, stimolò una larga circolazione dei testi.
Tale circolazione non fu senza conseguenze, ché quei testi a Firenze
furono sottoposti ad un’operazione di adattamento linguistico, senza
tuttavia essere snaturati dal momento che il fiorentino aveva in comu-
ne col siciliano il mantenimento delle vocali finali, cosa che rendeva
familiari l’armonia e la rima.
Su questo terreno sorge il fenomeno poetico e linguistico del
Dolce Stil Nuovo i cui poeti ricorrono ad una terminologia rigorosa,
profondamente analizzata nei contenuti semantici. Tale linguaggio è
preso a modello da Dante nel De vulgari eloquentia e proposto come
volgare illustre, aulico, curiale, cardinale; tuttavia esso non è utilizzato
dal Poeta nella Commedia, nella quale l’uso della lingua è, fortuna-
tamente, assai vario nello stile, capace di adattarsi a situazioni e sen-
timenti diversissimi: Dante compie un’operazione di arricchimento
lessicale che trova pochissimi altri esempi nella storia della lingua
italiana. Non è qui nostra intenzione quella di esaminare l’apporto
dantesco; diremo solamente che il poeta già mostra la via dell’amplia-
mento lessicale e morfosintattico che poi sarà seguita dagli scrittori
almeno sino alla metà del secolo xx: quella della classicità latina. In-
fatti i latinismi veri e propri nella Commedia sono circa cinquecento
a petto di una decina di gallicismi. La lingua letteraria italiana ha qui
39
Leonardo Sebastio

le sue radici: in questo prodigio della Commedia, che in sol atto unico
genera poesia e lingua. Le scelte linguistiche del Dante della Divina
Commedia hanno determinato, non ostanti le tante contestazioni ed
opposizioni, si sono rivelate definitive: gran parte dei vocaboli del
poema sono tutt’oggi in uso; né esiste nelle letterature occidentali
altra opera delle origini che possa leggersi nell’originale come la dan-
tesca.
Francesco Petrarca con i Rerum vulgarium fragmenta – il Can-
zoniere – dà un contributo notevole alla formazione dell’italiano:
notevole per il fatto che egli opera in direzione di un ingentilimento
della lingua. Come nessun altro Petrarca seppe «scegliere», scriveva
Ugo Foscolo, «le più eleganti parole e frasi». Petrarca infatti con-
cepisce l’amore come fatto prevalentemente, se non esclusivamente,
psicologico; egli lo libera perciò dalle implicazione filosofiche e teo-
logiche che erano tipiche di Dante. Quasi di conseguenza la lingua
perde le capacità argomentative e logiche: la sintassi petrarchesca è
infatti elementare, nel lessico prevalgono sostantivi ed aggettivi. «La
cura di Petrarca va a una lingua considerata come mezzo di esercita-
zione letteraria e non già di comunicazione e riscatto culturale come
proclamava con grande enfasi Dante. Non c’è nel poeta di Laura nul-
la che faccia pensare a una consapevolezza […] del ruolo del volgare
nel progetto di emancipazione degli uomini, ben presente invece a
Dante […]».1 La lingua italiana si avvia con Petrarca a diventare lin-
gua letteraria, elitaria, degli scrittori: è Petrarca che opera il distacco
dell’italiano dalla lingua realmente parlata, cosa che provocherà il
bilinguismo degli abitanti della penisola, ancor oggi capace di tor-
mentare i giovani scolari. Aneddoti come quello della vecchina o del
fabbro che recitano i versi della Commedia sono del tutto assenti nel-
la fortuna dei Rerum vulgarium.
Benché la sua influenza non si avverta sino al Cinquecento, l’ap-
porto che Giovanni Boccaccio con la prosa del suo Decameron dà
1 V. Coletti, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, p. 58.
40
Manuale di storia della lingua italiana

alla lingua italiana è rilevante quanto quello dantesco, offrendo uno


straordinario modello di sintassi oltre che morfologico. Boccaccio
inventa i nessi della prosa narrativa; nuova rispetto alla tradizione
novellista precedente è l’adozione della lingua parlata nei dialoghi (si
pensi al suo uso del che polivalente, all’uso del che relativo ad inizio
di frase) accanto alla quale ampia ed articolata in più subordinate si
stende una struttura del periodo apertamente latineggiante.

In pieno Quattrocento, quasi a contraltare della ripresa del latino


ad opera degli umanisti, il toscano ottiene due riconoscimenti assai
importanti dal punto di vista sociolinguistico: 1) nel 1414 l’obbligo
dell’uso del volgare nei tribunali commerciali; 2) nel 1441 il Certame
coronario voluto e vinto da Leon Battista Alberti.1
1 Il Certame coronario fu ideato e posto in atto dall’Alberti, che con esso inten-
deva promuovere il volgare fiorentino a lingua della cultura in antitesi all’ideologia
latina dominante (definitiva è la Storia del Certame coronario di G. Gorni). Alla
gara Battista non partecipò, né lo poteva, almeno ufficialmente (del tutto condi-
visibile è la tesi di G. Gorni di una stretta collaborazione con un partecipante uf-
ficiale, Leonardo Dati); tuttavia egli non mancò di calcare la scena e di esibire una
sua composizione poetica, con cui presentò al pubblico il quarto dei Libri della
Famiglia, dedicato all’amicizia, tema del certame: aveva preparato allo scopo sedici
esametri volgari, applicando, forse per strategia culturale, il metro classico al volga-
re. Quegli esametri risultano la prova più ardua del tecnicismo albertiano, oltre ad
essere tra i primi esempi di verbi barbari italiani:
de amicitia
Dite, o mortali, che sì fulgente corona
ponesti in mezzo, che pur mirando volete ?
Forse l’Amicitia, qual col celeste Tonante
tra·lli Celicoli è con maiestate locata,
ma, pur sollicita, non raro scende l’Olimpo, 5
sol se subsidio darci, se comodo posse ?
Non vien nota mai, non vien comperta, temendo
l’invida contra lei scelerata gente nimica.
In tempo e luogo veg[g]o che grato sarebbe
a chi qui mira manifesto poterla vedere. 10
S’oggi scendesse, qui dentro accolta vedrete
sì la sua effigie e’ gesti, sì tutta la forma.
41
Leonardo Sebastio

Ciò che determinò la preminenza del fiorentino in Italia fu il


fiorire della cultura fiorentina: il prestigio letterario di autori come
Dante, Petrarca e Boccaccio si diffuse rapidamente in tutta Italia e
non solo. Non minore importanza ha avuto la potenza commerciale
raggiunta da Firenze, che contribuì a promuovere e diffondere il fio-
rentino, il quale tuttavia solo nel ’500 ebbe modo di imporsi come
lingua italiana. Solo allora, infatti, si diffusero in Italia la necessità e
la convinzione che una qualche lingua volgare dovesse soppiantare il
latino come strumento del discorso scritto colto. Nacque già allora
la così detta questione della lingua, cioè il dibattito su quale forma di
lingua volgare dovesse essere utilizzata. Tale dibattito fu molto arti-
colato e continuò fino a Novecento inoltrato.
La posizione che nel ’500 ebbe molto seguito fu quella sostenuta
dal veneziano Pietro Bembo che nelle sue Prose della Volgar Lingua
del 1525 proponeva il fiorentino; non però il fiorentino parlato dal
popolo, ma la lingua letteraria; e non del suo tempo, bensì la presti-
giosa lingua letteraria di due secoli prima: quella di Dante Petrarca e
Boccaccio, e soprattutto di quest’ultimi due:

…i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitu-
dine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’
dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive
bene; ché del popolo non fanno caso. adunque da scriver bene più che si
può, perciò che le buone scritture, prima a’ dotti e poi al popolo del loro
secolo piacendo, piacciono altresí e a’ dotti e al popolo degli altri secoli
parimente. Ora mi potreste dire: Cotesto tuo scriver bene onde si ritrae
egli, e da cui si cerca? Hass’egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi
e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano [uno degli interlocutori del
dialogo], ma si bene ogni volta che migliore e più lodato è il parlare nelle
scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture

Dunque voi, che qui venerate su’ alma corona,


leggerete i mie’ monimenti, e presto saràvi
l’inclita forma sua molto notissima, donde 15
cauti amerete poi. Così starete beati.
42
Manuale di storia della lingua italiana

de’ vivi… Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate
stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per
noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello
del nostro tempo meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e
del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremmo a ragionare
col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che
non ragioniamo noi. Né fia per questo che dire si possa, che noi ragioniamo
e scriviamo a’ morti più che a’ vivi. A’ morti scrivono coloro, le scritture de’
quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que’
tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e così le malvagie cose leggono
come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chia-
mare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime
carte. [P. Bembo, Prose della volgar lingua, i, xix].

Nei secoli successivi il divario tra la lingua letteraria e la lingua


parlata si allargò. Calcolare la percentuale degli italiani che presumi-
bilmente conoscevano l’italiano intorno al 1860, al momento dell’u-
nificazione politica d’Italia, è difficile: dal momento che l’italiano
era fondamentalmente una lingua scritta solo chi sapeva leggere e
scrivere – dunque una piccola percentuale della popolazione – aveva
la possibilità di entrare in possesso della lingua. D’altro lato, qualun-
que parlante un dialetto italoromanzo dovrebbe essere stato in grado,
con sufficiente attenzione, di capire almeno in parte la lingua italiana,
così che un certo livello di conoscenza passiva dell’italiano non do-
veva essere esclusivo privilegio dei letterati. Le stime del numero di
coloro che sapevano parlare italiano al tempo dell’Unità variano dal
2,5% della popolazione, secondo De Mauro, al 9,52% (circa 2.250.000
persone) secondo Castellani, fino al 12% proposto da Serianni.
La percezione della grande distanza tra la lingua letteraria e la lin-
gua parlata fu espressa nell’Ottocento da Alessandro Manzoni, per
il quale la questione della lingua non era più un dibattito sulla lingua
letteraria, ma sul modo migliore per estendere la conoscenza della
lingua al popolo italiano. L’italiano era lontano dalla lingua quoti-
43
Leonardo Sebastio

diana della gran parte degli italiani non soltanto in senso strutturale,
bensì anche dal punto di vista funzionale, in quanto era rimasto trop-
po aristocratico e colto rispetto alle esigenze della vita di tutti i giorni,
e dunque era insufficiente ed inadatto per gli usi quotidiani. Manzoni
proponeva, tra l’altro, che fosse il fiorentino parlato contemporaneo
(nella sua varietà ‘colta’), e non il fiorentino letterario arcaico, a for-
mare la base della lingua nazionale. Il punto culminante della rifles-
sione di Manzoni sul problema fu la relazione (1868) sull’unità della
lingua italiana e sui mezzi per diffonderla, nella quale egli propose,
tra l’altro, l’insegnamento del fiorentino nelle scuole e la pubblica-
zione di un dizionario fiorentino:

… è appunto un fatto notabilissimo questo non c’essendo stata nell’Ita-


lia moderna una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse
province a adottare il suo idioma, pure il toscano, per la virtù d’alcuni scritti
famosi al primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni,
che regna in molti altri, e resa da alcune qualità dell’idioma medesimo, che
non ci importa specificar qui, abbia potuto essere accettato e proclamato
per lingua comune dell’Italia, dare generalmente il suo nome (così avesse
potuto dar la cosa) agli scritti di tutte le parti d’Italia, alle prediche, ai di-
scorsi pubblici, e anche privati, che non fossero espressi in nessun altro de’
diversi idiomi d’Italia. E la ragione per cui questa denominazione sia stata
accettata così facilmente, è che esprime un fatto chiaro, uno di quelli la di
cui virtù è nota a chi si sia.
[…] Altra obiezione, l’enormità del pretendere che una città abbia a im-
porre una legge a un’intera nazione.
Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di
codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare
un mezzo, e non d’imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e au-
mentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove
torni meglio o anche di formare de’ novi vocaboli richiesti da novi bisogni,
e che l’uso non somministri. Ma per aggiungere utilmente, è necessario co-
noscer la cosa a cui si vuole aggiungere; e poter quindi discernere ciò che
le manchi in effetto. Altrimenti può accadere (e se accade!) che uno, non
trovando un termine così detto italiano, di cui creda, e anche con ragione,
d’aver bisogno, non osando, anche qui con ragione, servirsi di quello che
44
Manuale di storia della lingua italiana

gli dà il suo idioma, corra, o a prenderlo da una lingua straniera, o coniarne


uno, mentre l’uso fiorentino glielo potrebbe dar benissimo, se ne avessimo il
vocabolario. Così si accresce bensì quel guazzabuglio che s’è detto sopra, ma
non s’aggiunge a una lingua più di quello che, col buttare una pietra in un
mucchio di pietre, s’aiuti ad alzare una fabbrica. Invece (ciò che può parere
strano a chi si fermi alla prima apparenza) la cognizione e l’accettazione di
quell’uso dove altri sogna servitù, servirebbe a dare una guida necessaria alla
libertà d’aggiungere sensatamente e utilmente.
[…] Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, partico-
larmente nelle nostre circostanze, per propagare la lingua, è, come tutti san-
no, un vocabolario. E secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario
a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio
fiorentino vivente. [A. Manzoni, Dell’unità della lingua e dei mezzi per
diffonderla. Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione].

Quando il dizionario, palesemente fiorentino fin dalla prima pa-


rola del titolo, Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di
Firenze (compilato da Emilio Broglio e Ghino Ghinassi), iniziò ad
apparire nel 1870, suscitò una memorabile e acutissima risposta da
parte di uno studioso di storia linguistica, Graziadio Isaia Ascoli, che
manifestò l’impossibilità di buona riuscita dell’imposizione di mo-
delli linguistici, arcaici o moderni che fossero. Secondo lui, la base
dell’italiano doveva essere la lingua letteraria tradizionale, ma la sua
evoluzione a lingua nazionale degli italiani era possibile solo in grazia
d’una stretta collaborazione intellettuale degli italiani colti e meno
colti: condizione questa che egli considerava ancora assente:

… nel caso della Germania, l’uso è veramente creato o stabilito dalla let-
teratura comune, e nel caso della Francia è stabilito o creato dalla conversa-
zione e dalle lettere di quel municipio, nel quale si accentra ogni movimen-
to civile della nazione; che perciò, in entrambi i casi, la unità dell’idioma
intanto si estende, in quanto lo importa la virtù indefettibile della comunità
del pensiero o l’azione imperativa dell’intelletto nazionale, la quale s’incar-
na nell’idioma medesimo, e non incontra nessuno, che voglia o possa a lei
sottrarsi; cosicché il vocabolario ivi risulta, come vuole la natura della cosa,
45
Leonardo Sebastio

ben piuttosto il sedimento che non la norma dell’attività civile e letteraria


della parola nazionale. Dal fatto della salda unità di linguaggio, di cui si
rallegra la Francia o la Germania, non può quindi venire alcun argomento
di legittimità, od alcuna speranza di facile conseguimento, al proposito di
ridurre tutta l’Italia alla perfetta favella di Firenze. [G.I. Ascoli, Proemio
all’«Archivio glottologico italiano»].

L’unificazione politica contribuì a promuovere l’espansione del­


l’italiano (l’italiano della tradizione letteraria e non il fiorentino con-
temporaneo) in due direzioni principali. La prima fu una direzione
sociale: la lingua italiana fu gradualmente appresa dal popolo nel suo
insieme. In questa espansione grande è il ruolo svolto in varia misura
dalle migrazioni, dal servizio militare, dal sistema scolastico, dai mass
media e da altri fattori.
Il secondo tipo di espansione riguarda gli ambiti di discorso in cui
è utilizzato l’italiano. Via via che la lingua veniva acquisita dall’insie-
me della popolazione, l’italiano veniva impiegato in una serie sempre
più ampia di àmbiti, nella conversazione quotidiana, nella vita mili-
tare, nella burocrazia, nell’amministrazione civile, e così via. Questa
duplice espansione dell’italiano ha portato però a una diversificazio-
ne strutturale al suo interno.

Il ’900

Il fascismo promosse una politica linguistica fortemente nazio-


nalpuristica. Secondo una prassi consolidata la campagna linguistica
del Regime fu proclamata con toni perentori e definitivi; tuttavia alla
forza dei proclami s’intrecciò la tolleranza di fatto, per la delicatezza
di alcuni problemi toccati, come i nomi propri, i nomi nei campo-
santi ecc. Il nazionalismo linguistico fascista era stato preannunciato
in età giolittiana da Ettore Tolomei e Tommaso Tittoni, che – pre-
sidente dell’Accademia d’Italia – influenzò la politica culturale sino
al 1943, e da istituzioni come la Società «Dante Alighieri» (fondata
46
Manuale di storia della lingua italiana

nel 1889 da Giosuè Carducci, che ad es. nel Congresso del ’13 prese
posizione contro le insegne esotiche).
Il fascismo perseguì nella scuola una vigorosissima azione antidia-
lettale. Era stato Giuseppe Lombardo Radice a varare nelle elementa-
ri un programma dal titolo «dal dialetto alla lingua», che diede luo-
go a largo seguito e fu accolto nella riforma Gentile. Mussolini stesso,
in una campagna del ’31-’32, intervenne di persona. Fatto sta che coi
programmi Ercole dell’ottobre 1934 il dialetto scomparve dalla scuo-
la anche come semplice strumento di apprendimento dell’italiano.
Ad esempio: in 2ª classe rimane l’attenzione agli esercizi di correzio-
ne degli errori «suggeriti» (’23) o «favoriti» (’34) del dialetto; in
3ª classe scompaiono gli esercizi con riferimento al dialetto e quelli di
traduzione da esso di proverbi, indovinelli, novelline. In 5ª scompaio-
no il «sistematico riferimento al dialetto» e gli esercizi di traduzione
indicati.
Anche le indicazioni riguardo alla grammatica vengono rese più
categoriche. Giuseppe Lombardo Radice considerava la grammatica
come un elemento da apprendere contemporaneamente al processo
di apprendimento della lingua viva e pertanto aveva progettato un
percorso in cui la pratica, appunto, linguistica si intrecciava al dialet-
to secondo la formula «nozioni pratiche di grammatica ed esercizi
grammaticali con riferimento al dialetto». Ora, nel ’34, le nozioni
pratiche vengono sostituite da «esercizi di grammatica».
Il bando dalla scuola del dialetto comportò l’allentamento dell’ap-
porto che esso poteva dare alla lingua: ciò sia in generale, sia nello
specifico scolastico. Per converso assunse grande rilievo quell’elemen-
to sclerotizzante delle lingue che è la grammatica, tanto più sclerotiz-
zante quanto più puristica e normativa essa si presenta. Il trionfo della
italiana trascinò con sé l’insegnamento della grammatica di tutte le
lingue (1936) preferito alla pratica, e al centro di ogni insegnamento
linguistico venne posto, direttamente o indirettamente, il latino.
47
Leonardo Sebastio

Durante il fascismo, poi, la «xenofobia linguistica da preoccupa-


zione essenzialmente retorico-letteraria di pochi passò ad atteggia-
mento culturale per così dire di massa». Furono proibiti i nomi locali
stranieri in genere nella toponomastica, nel commercio, nelle insegne
alberghiere e pubblicitarie e comunque nelle scritte pubbliche, nelle
sigle, persino nell’onomastica cimiteriale, in quella dello spettacolo e
via dicendo. Si intervenne sulle lingue di quanti pur italiani usavano
lingue diverse (gli alloglotti), come il francese e il tedesco, a scuola.
Dapprima la lingua locale poteva essere studiata in «ore aggiunti-
ve», poi anche queste vennero abolite, con gravissimo danno delle
culture locali. Naturalmente vennero soppressi i giornali alloglotti e
fu resa obbligatoria la conoscenza dell’italiano negli uffici pubblici.
Contro le parole straniere (forestierismi) fu lotta senza quartiere.
Per fare qualche esempio: venne sostituito arresto a stop, assegno a
check o cheque, rimessa a garage, autorete a autogoal; resistettero slalom
(la proposta era: obbligata), parquet (tassellato), dessert (fin di pasto),
uovo alla coque (uovo scottato).1 Furono lasciati in pace parecchi inva-
riabili uscenti in consonante, come sport, film, tennis, tram. Va anche
tenuto presente che, sia dentro sia fuori dell’Accademia, la xenofobia
fascistica trovò un accorto ridimensionamento nell’opera moderata,
attenta alla funzionalità e compatibilità strutturale dei vocaboli, dei
migliori studiosi allora operanti, soprattutto di Bruno Migliorini.
In quegli anni cessa quel che restava del predominio fiorentino.
Roma è non solo il centro politico, ma anche culturale e di fatto eser-
cita una grande influenza sulla lingua. Quando si discusse di quale
fosse la miglior pronuncia dell’italiano, non si optò per la fiorentina,
1 E ancora alcole per acool, cesare e cesarina per zar e zarina, giovanottiera per
garçonnière, mescita per bouvette, scialle da viaggio per plaid, vitaiolo per playboy,
torpedone per pullman, tramezzino per sandwich, giacchetta da sera per smoking,
pallacorda per tennis, cotiglioni per cotillons, arzente per cognac, bombolone per
croissant, sciacquone per water-closed. In compenso divennero di uso comune parole
come dinamico, ferreo, folgorante, granitico, indefettibile, inesorabile, invitto, oceani-
co, scultoreo, travolgente, duce.
48
Manuale di storia della lingua italiana

ma su proposta di Giulio Bertoni e Francesco Ugolini si concluse su


un compromesso, l’«asse linguistico Roma Firenze», che alla fin fine
concedeva qualche prevalenza romana [si poneva «a norma dell’ita-
liano standard tutte le concordanze romano-fiorentine, mentre, nei
rari casi di dissidio nell’uso, lasciavano ampia libertà ai parlanti, pur
propendendo per una soluzione romana». De Mauro]. Natural-
mente non fu solo questione di pronuncia: a Roma avevano la sede i
maggiori quotidiani italiani, ed anche quelli che non risiedevano nel-
la capitale da qui, dal Ministero della Cultura Popolare, si vedevano
recapitare direttive politiche e assai spesso gli articoli da pubblicare.
Sono testi ufficiali di idee, programmi e progetti politici, certo, ma
sono testi ufficiali anche di lingua di sintassi e di retorica.

Se durante il regime fascista la politica linguistica ebbe buoni ri-


sultati, questi si affievolirono molto alla sua caduta, soprattutto sul
piano sociale. D’altra parte quella politica aveva princìpi teorici non
sempre solidi (a parte la lotta ai forestierismi che aveva un qualche
fondamento teorico); ma si veda una delle più famose imposizioni:
la soppressione del lei, terza persona singolare maschile di rispetto,
e la sua sostituzione col voi: se il voi non soppiantò il lei non fu solo
perché questo fu anche un distintivo degli anti o a-fascisti, per iner-
zia ecc., ma anche perché, contraddittoriamente, il voi si presentava
anche come una forma largamente dialettale. Più generalmente lo
sradicamento dei dialetti fallì perché era in contrasto con un aspetto
importante del fascismo: quello dello «strapaese», che puntava al
consenso delle classi popolari e della classe contadina in ispecie. Ed
infatti, ma sia d’esempio, mentre si agiva decisamente nell’eliminare
il dialetto a scuola, si permetteva alla cinematografia italiana un largo
uso del dialetto, e dell’«italiano regionale».
Quanto alla pronuncia prevalse poi il fiorentinismo sostenuto da
Bruno Migliorini.
49
Leonardo Sebastio

Di grande rilievo è l’intervento, maturato negli stessi anni del fa-


scismo, di Antonio Gramsci. La sua riflessione linguistica poté esse-
re diffusa solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ciò non
ostante essa influenzò molto gli studiosi degli anni ’60. Con Gramsci
il materialismo storico entra nelle ricerche sulla lingua. Principio fon-
dante del suo pensiero è che il potere linguistico è espressione del po-
tere politico. Ecco come tratteggia la storia dell’italiano:

§ (73). La letteratura italiana moderna del Cremieux. «La Fiera Lettera-


ria» del 15 gennaio 1928 riassume un articolo di G. Bellonci sul «Giornale
d’Italia» abbastanza scemo e spropositante. Il Cremieux sostiene che in
Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto preci-
so: 1°) che non esiste una classe colta italiana unitaria, che parli e scriva una
lingua «viva» unitaria; 2°) che tra la classe colta e il popolo c’è una grande
distanza: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un ger-
go italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente.
Esiste un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la
classe colta parla la lingua in certi momenti e il dialetto nella parlata fami-
gliare, cioè in quella più viva e più aderente alla realtà immediata. Così la
lingua e sempre un po’ fossilizzata e paludata e quando vuol essere famiglia-
re, si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus del
periodo) che caratterizza le regioni, c’è anche il lessico, la morfologia e spe-
cialmente la sintassi. Il Manzoni «sciacquò» in Arno il suo tesoro lessicale,
meno la morfologia, e quasi nulla la sintassi, che è più connaturata allo stile
e quindi alla coltura personale artistica. […]
Il Bellonci scrive: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendo-
no dall’alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale,
per superficialità. Proprio fino al ’5oo Firenze esercita l’egemonia culturale,
perché esercita un’egemonia economica (papa Bonifacio viii diceva che i
fiorentini erano il quinto elemento della terra) e c’è uno sviluppo dal basso,
dal popolo alle persone colte. Dopo la decadenza di Firenze, l’italiano è la
lingua di una casta chiusa senza contatto con una parlata storica. Non è que-
sta forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare all’egemonia fiorenti-
na e ribattuta dall’Ascoli che, storicista, non crede alle egemonie linguisti-
che per decreto legge, senza la struttura economico-culturale? [Quaderno 1]
50
Manuale di storia della lingua italiana

L’imposizione di un dialetto su un altro, come voleva Manzoni, è


imposizione di un potere (linguistico) della classe economicamente
egemone, su una realtà culturale (e su una classe) che si ritiene irri-
levante epperciò subalterna. Così come l’imposizione di una gram-
matica normativa scritta è imposizione di un modello di cultura e di
società, attraverso un’istituzione statale come è la scuola. Tuttavia,
continua Gramsci, non si può concludere che nella scuola si debba
eliminare l’insegnamento della grammatica, come volevano Giovan-
ni Gentile e i suoi seguaci, perché così «si escluderebbe dall’appren-
dimento della lingua colta la massa popolare nazionale, poiché il ceto
dirigente più alto, che tradizionalmente parla in ‘lingua’, trasmette
di generazione in generazione, attraverso un processo lento che in-
comincia con i primi balbettamenti del bambino sotto la guida dei
genitori, e continua nella conversazione (con i suoi ‘si dice così’, ‘deve
dirsi così’, ecc.) e continua per tutta la vita: in realtà la grammatica si
studia ‘sempre’ (con l’imitazione dei modelli ammirati)» [Quader-
no 29]. Il problema non è se insegnare la grammatica o no; ma quale
grammatica? e come?

Per Don Lorenzo Milani la lingua è il punto di partenza di tutto


il suo pensiero. Egli crede infatti che solo il possesso della lingua fac-
cia diventare uomini: senza tale possesso si vive in una condizione
di inferiorità non solo culturale, ma anche umana e politica. Benché
la lingua borghese si faccia stereotipa, astratta e insieme complessa,
tuttavia essa permette ai detentori di manipolare coloro che non la
posseggono, di emarginarli dal potere.

Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue


le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristal-
lizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.
Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quan-
51
Leonardo Sebastio

do Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: «Non si dice
lalla, si dice aradio».
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vo-
stra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla
scuola.
«Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua». L’ha detto
la. Costituzione pensando a lui [Lettera a una professoressa, 1967].

Quelli che vengono definiti ignoranti, in realtà detengono una


ricca e multiforme cultura orientata alla pratica ed alla concretezza
delle cose. «I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua,
cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno
scrivere». La lingua scritta borghese andrà semplificata: gli stessi
Promessi sposi andrebbero riscritti in una lingua comprensibile per i
poveri. Naturalmente Lorenzo Milani non è un linguista, è un educa-
tore: per questo non deve meravigliare che egli non esiti a sacrificare
la lingua orale alla scritta. La conquista dell’espressione semplice, ma
corretta, è riscatto morale e sociale, è acquisizione della dignità, di
quella dignità che la piccola borghesia che si crede colta, e non lo è
(la professoressa non ha mai letto lo statuto dei lavoratori !), calpesta
credendo, in buona fede si badi – ma è buona fede fatta di ignoranza
e di piccolezza mentale –, credendo in una sorta di immutabilità del
destino di quelli che non sono come loro.

Nel 1964 Pier Paolo Pasolini pubblica sulla rivista «Rinascita»


un articolo dal titolo Nuove questioni linguistiche che parte tra gli
altri dalla concezione gramsciana della questione della lingua come
questione d’egemonia. In Italia esisterebbe una dualità linguistica: la
lingua strumentale e quella letteraria. Non esiste dunque «una vera e
propria lingua italiana nazionale»: questa situazione sarebbe dovuta
alla borghesia – paleoindustriale – italiana che sarebbe rimasta clas-
se sociale incapace di identificarsi con la nazione. La lingua italiana
riflette le abitudini, i privilegi, le mistificazioni borghesi e per dirla
52
Manuale di storia della lingua italiana

in un parola la sua «lotta di classe». Ebbene questa lingua italiana


borghese in quel torno d’anni appariva chiaramente in via di modifi-
cazione. I mass-media, i politici, gli scrittori stessi ricorrevano viepiù
a tecnicismi tratti dalla sociologia, dalla psicologia e così via:

Oggi, per un fatto storico d’una importanza in qualche modo superiore


a quella dell’unità italiana del 1870 e della susseguente unificazione statale
burocratica, ci troviamo in una diacronia linguistica in atto. Ma questa dia-
cronia presenta almeno una caratteristica assolutamente nuova rispetto a
tutti i salti diacronici del passato: la nuova stratificazione linguistica, la lin-
gua tecnico scientifica, non si allinea con tutte le stratificazioni precedenti,
ma si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e
addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi. Ora, «il principio
dell’omologazione» sta evidentemente in una forma sociale della lingua in
una cultura tecnica anziché umanistica e il «principio della modifica» sta
nell’escatologia linguistica, ossia nella tendenza alla strumentalizzazione e
alla comunicazione. E questo per esigenze sempre più profonde di quelle
linguistiche, ossia politico-economiche. […]
Qual è dunque la base strutturale, economico politica, da cui emana
questo principio unico regolamentatore e omologante di tutti i linguaggi
nazionali, sotto il segno del tecnicismo e della comunicazione? Non è dif-
ficile a questo punto avanzare l’ipotesi che si tratti del momento ideale in
cui la borghesia paleoindustriale si fa neocapitalistica, e il linguaggio pa-
dronale è sostituito dal linguaggio tecnocratico. La completa industrializ-
zazione dell’Italia del Nord, a livello ormai chiaramente europeo, e il tipo
di rapporti di tale industrializzazione col Mezzogiorno, ha creato una classe
sociale realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra
società. Voglio dire che mentre la grande e piccola borghesia di tipo pale-
oindustriale e commerciale non è mai riuscita a identificare se stessa con
l’intera società italiana, e ha fatto semplicemente dell’italiano letterario la
propria lingua di classe imponendolo dall’alto, la nascente tecnocrazia del
Nord si identifica egemonicamente con l’intera nazione, ed elabora quindi
un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionale.

Questa nuova lingua tecnologica era la nuova lingua italiana; ora


agli esordi, ma destinata ad affermarsi poiché i meccanismi propri
53
Leonardo Sebastio

della società industriale avrebbe imposto una unificazione sociale e di


conseguenza linguistica.
L’intervento di Pasolini suscitò molte reazioni – tra gli altri di Ita-
lo Calvino, di Elio Vittorini, di Edoardo Sanguineti, di Maria Cor-
ti –: tra i più rilevanti quello di Cesare Segre, il quale rilevò: 1) che
non ci si trovava di fronte ad una unificazione sociale, sibbene ad una
ulteriore frantumazione con relativa stratificazione linguistica; 2) che
non il linguaggio tecnologico prendeva piede, ma un linguaggio ricco
di parole straniere; 3) che il linguaggio tecnologico aveva un uso ri-
stretto ai posti di lavoro; 4) che una standardizzazione linguistica era
sì in atto, ma essa dipendeva dal diffondersi di una cultura massificata
e conformistica.

Tra questione della lingua e didattica della lingua

Nato in seno alla Società Linguistica Italiana, il Gruppo di Inter-


vento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica (Giscel)
nel 1975 approva e pubblica un documento dal titolo Dieci tesi per
l’educazione linguistica democratica nel quale si critica fortemente la
pedagogia linguistica tradizionale. Della quale si possono riassumere
gli aspetti negativi in:
1) Pensare che gli alunni siano monolingui. Essa trascura di fatto la realtà
linguistica di partenza, spesso colloquiale e dialettale, degli allievi. «L’e-
ducazione linguistica tradizionale ignora e reprime con ciò, trasforma in
causa di svantaggio la diversità dialettale, culturale e sociale che caratte-
rizza la grande massa dei lavoratori e della popolazione italiana».
2) Mettere al centro dell’insegnamento linguistico la comprensione delle
parole: «La capacità di organizzare un discorso orale meditato o estem-
poraneo cade fuori dell’orizzonte abituale della pedagogia linguistica
tradizionale. E fuori cade l’attenzione alle altre capacità (conversare,
discutere, capire parole e forme nuove)».
3) Preferire all’espressione schietta e colloquiale una perifrastica e solo
apparentemente puristica (in realtà si tratta di astratta lingua ‘scolasti-
54
Manuale di storia della lingua italiana

ca’). L’insegnante tradizionale corregge fare con eseguire, arrabbiarsi


con adirarsi, lui lei loro con egli essa essi. Pier Vincenzo Mengaldo sot-
tolinea [nella storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna, 1994]
chiaramente le conseguenze di tale pedagogia: «l’abitudine scolastica
all’eufemismo e alla perifrasi contro la parola schietta prepara inevita-
bilmente ad accettare, […], gli analoghi procedimenti che infestano la
lingua politica, burocratica, ecc.; […] l’ipocrisia linguistica è un’efficace
preparazione a quella morale».
4) Mettere al centro dell’insegnamento e della valutazione linguistici lo
scritto, il «tema», cui si connette il «terrorismo linguistico» [Men-
galdo].
5) Fondare l’insegnamento linguistico sulla grammatica.
Il documento del Giscel proponeva dieci principi per un’educa-
zione democratica della lingua:
1. Lo sviluppo delle capacità verbali va promosso in stretto rapporto reci-
proco con una corretta socializzazione, con lo sviluppo psicomotorio,
con la maturazione ed estrinsecazione di tutte le capacità espressive e
simboliche.
2. Lo sviluppo e l’esercizio delle capacità linguistiche non vanno mai pro-
posti e perseguiti come fini a se stessi, ma come strumenti di più ricca
partecipazione alla vita sociale e intellettuale[…].
3. La sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individua-
zione del retroterra linguistico-culturale personale, familiare, ambien-
tale dell’allievo, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra, ma, al
contrario, per arricchire il patrimonio linguistico dell’allievo attraverso
aggiunte e ampliamenti che, per essere efficaci, devono essere studiata-
mente graduali.
4. […]
5. Occorre sviluppare e tenere d’occhio non solo le capacità produttive, ma
anche quelle ricettive, verificando il grado di comprensione di testi scrit-
ti o registrati e vagliando e stimolando la capacità di intendere un voca-
bolario sempre più esteso e una sempre più estesa varietà di tipi di frase.
6. Nelle capacità sia produttive sia ricettive va sviluppato l’aspetto sia orale
sia scritto[…].
55
Leonardo Sebastio

7. Per le capacità sia ricettive sia produttive, sia orali sia scritte, occorre
sviluppare e stimolare la capacità di passaggio dalle formulazioni più
accentuatamente locali, colloquiali, immediate, informali, a quelle più
generalmente usate, più meditate, riflesse e formali.
8. Seguendo la regola precedente, si incontra la necessità di addestrare alla
conoscenza e all’uso di modi istituzionalizzati d’uso della lingua comu-
ne (linguaggio giuridico, linguaggi letterari e poetici ecc.).
9. Nella cornice complessiva delle varie capacità linguistiche, occorre curare
e sviluppare in particolare, fin dalle prime esperienze scolari, la capacità,
inerente al linguaggio verbale, di autodefinirsi e autodichiararsi e analiz-
zarsi. Questa cura e questo sviluppo possono cominciare a realizzarsi fin
dalle prime classi elementari arricchendo progressivamente le parti di
vocabolario più specificamente destinate a parlare dei fatti linguistici, e
innestando così in ciò, nelle scuole postelementari, lo studio della realtà
linguistica circostante, dei meccanismi della lingua e dei dialetti […].
10. In ogni caso e modo occorre sviluppare il senso della funzionalità di ogni
possibile tipo di forme linguistiche note e ignote. La vecchia pedagogia
linguistica era imitativa, prescrittiva ed esclusiva. Diceva: «Devi dire
sempre e solo così. Il resto è errore». La nuova educazione linguistica
(più ardua) dice: «Puoi dire così, e anche così e anche questo che pare
errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel
dire così o così» […].

56
Manuale di storia della lingua italiana

Lingua scritta e lingua parlata

Nell’evoluzione di una lingua conta soprattutto il parlato: in tutte


le epoche della storia – almeno sino all’introduzione dell’istruzio-
ne obbligatoria – la maggioranza dei parlanti è stata analfabeta. Ma
questo non significa che non usasse efficacemente la lingua, o che la
comunicazione tra i cittadini fosse limitata. Si deve a loro la gran par-
te della storia delle lingue in generale e dell’italiano in particolare.
Nella storia delle lingue tuttavia l’apporto, spesso contraddittorio
in vero, della lingua scritta non è stato affatto irrilevante. Ciò vale per
le lingue in genere; ma vale di più per l’italiano, i cui parlanti negli
ultimi duemila anni sono stati fortemente condizionati dalla parola
scritta: basti pensare all’influenza esercitata dalla religione cattolica,
dalla sua liturgia, e dalla liturgia della parola – scritta, ovviamente,
testamentaria –. Tanto più era sacralizzata la scrittura e potente – nel
senso che conferiva potere a che la deteneva – in quanto latina, mi-
steriosamente latina eppure regolatrice e catalogatrice dei comporta-
menti quotidiani.
Latino era anche nella gran parte il lessico della giurisprudenza.
Altro elemento di forza, questo, della lingua scritta, che insieme con
la religione ha cooperato, se non indotto, alla convinzione che al lati-
no, e al latino scritto, occorreva rifarsi per le insufficienze della lingua
parlata, per i suoi casi dubbi e le contraddizioni; tant’è che tuttora i
grammatici (meglio: pseudogrammatici) rigoristi sostengono le loro
regole ortografiche e morfologiche in genere con quelle della lingua
classica. Non è necessario qui sottolineare il valore limitato dei mo-
delli in fatto di lingua: basti qui quanto s’è detto a proposito del mo-
dello letterario ricorrente nella così detta questione della lingua, sino
al Manzoni.
Non ostanti le tante contraddizioni la scrittura italiana e latina
hanno inciso sulla lingua parlata. Proprio per il potere, spesso sacrale,
della lingua scritta: quando s’è verificata (o si verifica) una discrepan-
57
Leonardo Sebastio

za tra pronuncia e ortografia, la tendenza tra le persone istruite è stata


ed è di adattare la prima alla seconda (avremo quindi una pronuncia
ortografica), così da deviare la naturale evoluzione del cambiamento
fonetico.
Noi tutti sappiano quanto sia difficile per la maggior parte degli
italiani distinguere la e e la o chiuse dalle aperte e la s e la z sorde dalle
sonore: a indagare l’origine di una difficoltà così diffusa si scoprirà
che essa è da ricercare nell’adozione dei segni dell’alfabeto latino che
non consentono la distinzione grafica di quei suoni. Questo ha com-
portato che la maggior parte degli italiani omettano nella pronuncia
quella distinzione che non è rilevabile nella né è segnalabile con la
grafia comunemente utilizzata (standard).
Un altro fenomeno, largamente diffuso, indotto dalla lingua scrit-
ta è la pronuncia della i così detta diacritica, cioè un segno grafico a
forma di i che indica che la c o la g che la precedono ha suono palatale:
ad esempio, l’aggettivo celeste deriva da cielo: questo dimostra che la
i del sostantivo da cui deriva non si pronuncia (o non si dovrebbe,
infatti nei parlanti settentrionali è più facile che venga taciuta), e che
per chissà quali imprescrutabili ragioni è stata introdotta nella scrit-
tura del sostantivo. A qualcuno potrebbe venire in mente di suggerire
la necessità di distinguerlo dalla prima persona singolare del verbo
celare, io celo; chi scrive è convinto dell’improbabilità di confondere
un sostantivo con un verbo sia pure scritto alla stessa maniera (omo-
grafo).
All’influenza del latino scritto si può ricondurre il protervo, e
sino ad una cinquantina d’anni fa ritenuto erroneo, permanere nella
scrittura della i nei participi presente, ora a tutti gli effetti aggettivi,
sufficiente, deficiente, efficiente ecc. nei quali la i non si pronuncia e che
non hanno omografi.
In conclusione si può dire che «scritto e parlato sono diversi an-
che sotto altri aspetti. La lingua parlata è solitamente più spontanea
58
Manuale di storia della lingua italiana

e meno accurata della lingua scritta. La lingua scritta è stabile, ed


è generalmente il mezzo nel quale vengono enunciate per la prima
volta le norme dell’uso linguistico ‘corretto’. La lingua parlata tende
a favorire l’innovazione nella struttura linguistica, mentre la parola
scritta è più conservativa. La stabilità della lingua scritta consente al
lettore di rileggere più volte ciò che è scritto, il che facilita l’uso di
strutture sintatticamente molto più complesse di quelle che si tende
ad usare nella lingua parlata. Una struttura sintattica complessa, nella
lingua parlata, impone un carico troppo pesante sia alla memoria del
parlante sia a quella dell’ascoltatore, e, conseguentemente, si tende a
preferire le strutture più semplici». [M. Maiden, Storia linguistica
dell’italiano, Bologna, il Mulino, 1998].

59
L’ITALIANO D’OGGI TRA ORALITÀ E SCRITTURA

È impressione largamente diffusa che l’italiano di oggi vada per-


dendo in correttezza e guadagnando in sciatteria per via della inva-
sione di locuzioni e parole regionali, gergali, straniere (inglesi soprat-
tutto). L’impressione corrisponde alla realtà; quello che è sbagliato
è il giudizio che la sorregge. Diciamo subito quella che è sostanza di
quest’evoluzione, che ha molti aspetti di positività, per poi provare
a spiegarla: di fatto in questi ultimi decenni si va superando la dico-
tomia tra parlato e scritto; dicotomia che ha afflitto per troppi secoli
la lingua italiana impedendole la normale evoluzione vuoi in fatto di
lessico vuoi in fatto di morfosintassi. Insomma l’italiano sì va perden-
do certa aulicità, ma va acquistando in duttilità, praticità. Il processo
è diremmo ovvio, dal momento che prima l’italiano era la lingua di
un gruppo ristretto di persone colte che l’utilizzavano in un altrettan-
to ristretto numero di contesti. Oggi si affaccia alla comunicazione
un’ampia e assai diversificata pletora di persone che provengono non
tanto e non solo da tutti gli strati sociali, ma da tutti i livelli culturali,
apportando una lingua colloquiale, talora triviale, nella quale i signi-
ficati sono sfumati, la correttezza morfologica accantonata, la sintassi
provvisoria. Questa lingua va acquistando autorevolezza per i ruoli
che i suoi utilizzatori ricoprono nelle istituzioni, o nei mass-media, e
si affianca all’italiano più letterario ancora in uso tra le persone colte.
Leonardo Sebastio

In definitiva la situazione linguistica italiana attraversa una fase


di sostanziale arricchimento, alla quale bisogna guardare con occhio
sgombro da nostalgia e attento alla realtà della evoluzione della lin-
gua. Non tuttavia passivamente, però, da parte della scuola: che, se
non può frenare il cambiamento, deve opporsi alla perdita del les-
sico, della grammatica, della sintassi classici, dal momento che non
v’è nessun motivo assennato per rinunciare ad un patrimonio che la
storia – a ragione o a torto – ha conservato vivo. Un atteggiamento,
dunque, di tolleranza verso quelle forme ormai stabilmente accettate
(come ma però, lui soggetto, ecc.) va compaginato a quello di diffi-
denza verso le forme marcatamente fuori di quelle che sono le leggi
della lingua italiana (il più acerrimo: non si può fare il superlativo del
superlativo). La scuola ha il dovere di mantenere il patrimonio lingui-
stico del passato, altrimenti la fase di ammodernamento che stiamo
attraversando si trasforma in una fase di impoverimento. Dunque il
docente, soprattutto quello della scuola primaria, adoperi un italiano
classicheggiante, adotti una pronuncia meno caratterizzata da into-
nazioni dialettali, inviti gli alunni a servirsi di forme e modi meno
colloquiali: insomma sia egli utilizzatore di un italiano perfetto che
accetta senza scandalo il mutare della sua lingua.

Vediamo adesso i cambiamenti più rilevanti in fatto di lessico. In


particolare, vista la destinazione di questo lavoro, inizieremo soffer-
mandoci sul lessico dialettale e gergale giovanile che ha preso o va
prendendo piede anche nella lingua comune:
abbuffarsi1 per «rimpinzarsi», balle, palle per «sciocchezze»
o «bugie», ballista per «bugiardo», balordo usato di recente dai
giornali per indicare un delinquente occasionale, particolarmente
a Milano, batosta per «colpo di sfortuna, disgrazia», battersela per
«scappare», bidone per «imbroglio», bullo per «giovinastro pre-
1 Ci avvaliamo per quest’elenco di A.L. e G. Lepschy, La lingua italiana. Storia,
varietà dell’uso, grammatica, Milano, Bompiani, 1981, p. 77.
62
Manuale di storia della lingua italiana

potente», burino e cafone per «maleducato, villano», cagnara per


«confusione», camorra per «favoritismo disonesto», cantare per
«far la spia», casino per «confusione, pasticcio», colpo per «impre-
sa criminale», cosca per «gruppo di mafiosi», dentro per «in prigio-
ne», dritto per «furbo», far fuori per «finire tutto» e «uccidere»,
fasullo per «falso», fesso per «stupido», fesseria per «stupidaggi-
ne», fifa per «paura», fregare per «imbrogliare», fuori per «non
in prigione», fusto per «giovanotto prestante», galletto per «gio-
vane impertinente e intraprendente», grana per «difficoltà, com-
plicazione» o «denaro», grinta per «impegno, serietà, abilità nel
fare il proprio lavoro», guappo per «bellimbusto», imbranato per
«inesperto», inghippo per «difficoltà, problema», intrallazzo per
«trama disonesta», lavativo per «chi si sottrae ai suoi obblighi»,
malloppo per «refurtiva» o «somma di denaro», mollare per «sfer-
rare», omertà per la legge mafiosa del silenzio, pacchia per «fortuna,
beneficio insperato», pappagallo per chi importuna le donne, pestag-
gio per «bastonatura», pignolo per «pedante meschino», pivello
per «inesperto», racchio, e più comune racchia, riferito a donna, per
«brutto», regolare i conti per «vendicarsi, di solito con un’aggres-
sione», rompere (le scatole, le palle) per «seccare», rompiscatole (e
rompiballe, rompipalle) per «seccatore», sbafare per «approfitta-
re», di solito di generi mangerecci, sberla per «schiaffo», sbobba per
«minestra, o cibo in genere, acquoso e sgradevole», sbolognare per
«rifilare, liberarsi di qualcosa dandola disonestamente ad altri», scas-
sare per «rompere», schiappa, schiappino per «incapace», scocciare
per «seccare», scorfano per «persona brutta», scucire per «farsi dare
denaro con sotterfugi», sfasciare per «rompere», sfottere per «pren-
dere in giro», sganassone per «forte schiaffo, ceffone», sganciare per
«pagare», sgraffignare per «rubare», soffiata per «informazione
su cosa illecita», spaghetto per «paura», stangata per «colpo, dan-
no», strafottente per «arrogante, impertinente», tagliare la corda per
«scappare».
63
Leonardo Sebastio

Alcuni di questi sono apertamente triviali, altri meno: il docente


farà bene a consigliare, in un caso e nell’altro, la formula più tradi-
zionale ed elegante; ma a rigore, visto che sono entrati nel linguaggio
comune e che la maggior parte dei parlanti li ha adottati, non posso-
no essere valutati errori: tutt’al più, abbiamo detto, vanno considerati
gergali.
Assai forte è nell’italiano moderno la tendenza ad abbreviare,
come auto per «automobile», cine e cinema per «cinematografo»,
moto per «motocicletta», disco per «discoteca», bici per «biciclet-
ta», prof per «profesore» o «professoressa».
In questo caso si tratta di una tendenza propria di tutte le lingue,
italiano compreso, alla rapidità della comunicazione, dunque mag-
giore tolleranza, tutt’al più il consiglio di alternare le forme abbrevia-
te con le forme distese, sia nell’orale che nello scritto. Un linguaggio
più curato preferisce le seconde.
Diffusa anche la preferenza per la formazione con suffisso zero di
nomi da verbi come blocco da «bloccare», bonifico da «bonificare»,
convalida da «convalidare», verifica, decodifica, qualifica, rettifica ec-
cetera.
Su questi vocaboli c’è poco da discutere: in sostanza non solo non
esistono sinonimi, ma ricorrono in contesti tecnici e quindi hanno
un significato ben preciso che è bene evitare di compromettere.
Molte le derivazioni di verbi da nomi con suffisso in -are come
presenziare, revisionare, sovvenzionare, ipotizzare, massimizzare, mi-
nimizzare, ottimizzare, strumentalizzare, testare, digitalizzare, scan-
nerizzare.
Anche in questo caso i nuovi vocaboli rispondono alle leggi pro-
prie dell’italiano per la formazione delle parole. Qualche riserva de-
stano quelle che derivano da vocaboli stranieri, soprattutto inglesi
come testare, digitalizzare, ottimizzare ma sono riserve pseudo-pu-
ristiche: l’italiano è ricchissimo di parole importate da altre lingue e
64
Manuale di storia della lingua italiana

adattate secondo le caratteristiche della nostra lingua (ad es. filmare,


filmato, filmistico, filmico, ecc.); fare perciò ostruzionismo, oltre che
inutile, è fuori luogo; ché ad essere cruscanti alla vecchia maniera do-
vremmo rinunziare a tanti vocaboli che ci risulterebbe difficile parla-
re. Ma su ciò si veda quanto si scriverà più avanti.
Da respingere con intelligenza dallo scritto sono invece quei voca-
boli assai ricorrenti nel parlato e che potremmo chiamare tuttofare;
alcuni sono: roba («Ho mangiato tanta roba da scoppiare»), affare
(«scriveva alla lavagna con un affare che dava fastidio ai timpani»),
fare («faccio l’esame», «mi faccio un’auto», «sei fatto un modo
strano»), fatto («l’esame è un fatto mio», «non dire i fatti miei»),
cosa («l’amore è una cosa meravigliosa», «devo fare una cosa impor-
tante»), coso («Sei un coso intelligente», «aveva un coso che cor-
reva come il vento»), tipo («Era un tipo chiacchierone»), mettere
(«Mettiti l’impermeabile»), uno, tizio («È venuto a cercarti uno/un
tizio che voleva parlarti»).
Nel parlato abbondano certi diminutivi che possiamo considerare
di cortesia: «aspetta un momentino», «ti ho comprato un regali-
no», «ci vuole un attimino», «dovresti farmi un piacerino». Ac-
canto ai diminutivi abbondano i superlativi enfatici che travolgono
sostantivi, aggettivi, avverbi, verbi: «ho visto un filmissimo», «sono
d’accordissimo con te», «faccio prestissimo», «ti amissimo», «ho
speratissimo che la prova non fosse una cosa complicata». Virgolet-
tato, qualche rara presenza nello scritto è tollerabile.

Nel campo della sintassi è diventata stabile la preferenza per la p a -


rata ss i : si preferiscono periodi semplici con poche subordinate o
addirittura frasi nominali, cioè senza verbo. Il passato remoto si usa
sempre meno, preferendo il passato prossimo o l’imperfetto. Il con-
giuntivo è sostituito sempre più spesso dall’indicativo.
Nella costruzione della frase l’italiano parlato preferisce mettere
65
Leonardo Sebastio

in prima posizione l’elemento più importante (sorvoliamo sui conte-


sti in cui si usano): «quell’esame lo devo ancora sostenere», «il libro
di Camilleri l’ho finito appena di leggere». In queste frasi l’elemento
posto in evidenza è richiamato dal dimostrativo lo. In generale tut-
tavia si tratta di un elemento anaforico: «alla prima il professore le
ha consigliato di ritirarsi dall’esame». Simile a questi casi è quello
del così detto n om inativo a sso luto : di fatto si tratta di un mero
anacoluto in cui al nominativo iniziale, segue un cambio di soggetto
del tipo: «Il professore, stamattina alle 8 siamo stati nel suo studio»,
«Maria, non l’ho neppure salutata»; come si vede il nominativo as-
soluto è poi richiamato nella vera e propria reggente.
Simile è la f ra se scissa in cui l’elemento che si ritiene più im-
portante da comunicare occupa la prima posizione nella frase pre-
ceduto dal verbo essere, ed è seguito da una relativa: «È Maria che è
stata chiamata a sostenere l’esame», «È il pranzo, che è veramente
squisito». A marcare i concetti serve anche il c’è pres entativo :
«C’è una cosa che ti voglio dire», «C’è una regola che è bene ricor-
dare».
Questo linguaggio marcato si ritrova anche nello scritto, e non
solo nel discorso diretto o indiretto della scrittura narrativa. In ge-
nere la ripetizione dell’elemento marcato nel pronome dimostrativo
disturba il grammatico purista («il panino l’ho mangiato subito»):
tuttavia la marcatura può nello scritto rappresentare un carattere sti-
listico, salvo che non sia una prassi monotona. Ancora una volta si
deve fare riferimento all’equilibrio di gusto del docente, alla sua ca-
pacità di accogliere le novità della lingua senza dimenticare il passato
che tutt’ora appare più elegante in grazia di un secolare studio e uso
letterario.
Decisamente errato e assolutamente non ammissibile è l’uso ana-
forico della particella pronominale ne preceduto da dimostrativo
come in «di questo problema te ne parlerò domani», «di questi er-
rori ce ne sono pochi», o semplicemente «di questi ne esistono mol-
66
Manuale di storia della lingua italiana

ti». Erroneo perché la marcatura resta anche senza il ne: «Di questo
problema ti parlerò domani» e dunque le ragioni dell’efficacia non
sono sufficienti a giustificare la violazione della grammatica.
Un’altra attitudine del parlato moderno è costituto dall’uso di
frasi coordinate a costituire lunghi periodi e addirittura discorsi:
«pioveva e sono uscito senza ombrello e mi son preso una bella in-
freddatura», «la lezione era alle nove e l’aula era piena e si sentiva
un vocio continuo». È il segno dell’indebolirsi delle congiunzioni
subordinanti. La e, perciò, assume altre funzioni oltre a quella c opu-
lati va : la e sp l icativa : «la lezione era alle nove e l’aula era piena e
si sentiva un vocio continuo», «ho studiato e sono preparato»; av-
ver s ati va : «pioveva e sono uscito senza ombrello»; c onclusiva :
«sono uscito senza ombrello e mi son preso una bella infreddatura»,
rafforzativa: «sei bello e spacciato»; in iz io d i d is c ors o : «E do-
mani è un altro giorno».
Alla medesima attitudine appartiene la costruzione di periodi co-
stituiti da frasi brevi, che si succedono senza alcun segnale di subordi-
nazione o di coordinazione: «Pioveva. Sono uscito senza ombrello.
Mi son preso una bella infreddatura. Oggi resterò in casa. Domani
verrò a lezione». In realtà le congiunzioni subordinanti – soprattut-
to – sono sottintese: certo è che nel parlato i perché, poiché, affinché,
sebbene, tuttavia hanno vita grama. Florida è invece la vita di dato che,
visto che, dal momento che e, inspiegabilmente, un comunque che va
prendendo il posto del cioè di qualche anno fa.
Il passaggio di questo modo di parlare allo scritto da taluni è ac-
colto con qualche favore: è scrittura agile, adeguata alla comunicazio-
ne giornalistica; anzi, è lo stile giornalistico. Forse; a patto che la elu-
sione delle congiunzioni subordinanti non nasconda una pericolosa
superficialità ed incomprensione della realtà. Dal punto di vista della
didattica dell’italiano, però, ed in particolare della scrittura, esso va
annoverato tra i modi decisamente sconsigliabili. È bene, infatti, che
nella scuola dalla primaria e all’università lo studente chiarisca, prima
67
Leonardo Sebastio

a sé stesso, i nessi logici affinché la realtà di per sé complessa e caotica


possa essere compresa, studiata, giudicata nei suoi nessi probabili, e
affinché siano più saldamente posseduti i nessi causali e finali delle
scienze e così via. Quando il possesso dei nessi sarà ben saldo, potrà
sottintenderli e adottare lo stile – per chi scrive queste pagine sempre
sconsigliabile – giornalistico (chissà poi perché i giornalisti dovreb-
bero essere, se non illogici, a-logici).
Particolarmente accentuato è il fenomeno del che p o l iva lente :
si tratta di un che che subordina in maniera non definibile con pre-
cisione. Non nuovo nella lingua italiana, appare oggi nel parlato, e
nello scritto, con una frequenza inusitata: «aspettami che vengo su-
bito», «sono venuto pian piano che pioveva», «vado a casa che ho
bisogno di dormire». Il suo uso è attestato ad esempio in Alla luna
di Giacomo Leopardi: «E tu pendevi allor su quella selva Siccome
ora fai, che tutta la rischiari» in cui il valore consecutivo è sfumato
con grande efficacia estetica (a latere si noti l’uso dell’e come inizio
di discorso).
Decisamente erroneo è nello scritto e nell’orale l’uso del che rela-
tivo polivalente in uso nel parlato meno colto, ad esempio: «è occu-
pata l’aula che siamo stati ieri», «pantaloni che hai risparmiato per
comprarteli».
Assai incerto è nell’italiano d’oggi l’uso dei tempi e dei modi del
verbo tanto nel parlato quanto nello scritto dove va corretto con de-
cisione, perché insieme con il disuso delle congiunzioni subordinanti
rende il discorso vago e provvisorio. Se pensi a un enunciato come:
«avevo appuntamento alle 9, ma piove e arriverò tardi». La parte del
leone la fa l’imperfetto indicativo che verrebbe voglia di chiamare
imperfetto polimodale e politemporale tante sono le funzioni che si
vede assegnare nella lingua attuale. Sostituisce il condizionale nelle
apodosi del periodo ipotetico dell’impossibilità: «se avessimo preso
il pullman, arrivavamo in tempo per la lezione», «se fossi stata pre-
parato, superavi l’esame». Sostituisce il congiuntivo nella protasi e
68
Manuale di storia della lingua italiana

nell’apodosi del periodo ipotetico della possibilità: «se pioveva, mi


bagnavo», «se ero attento, imparavo». Fuori del periodo ipotetico
sostituisce il condizionale (che, a differenza di quanto, si crede è il
modo più vicino all’estinzione) assumendo il valore di p otenz ia le :
«la lezione è alle 8, il professore doveva essere già qui», «dovevano
essere già stati interrogati». Assai frequente e tollerato è l’imperfetto
di cortesia: «siamo qui perché volevamo chiedere di rinviare l’appel-
lo», «cameriere, desideravo mangiare un pizza». Il docente evite-
rà che questa tendenza passi nello scritto dei suoi alunni di qualsiasi
classe siano.
Invece vita grama conduce attualmente il futuro sempre più rim-
piazzato dal presente in espressioni tipo: «l’estate prossima faccio un
viaggio in Puglia», «se sono promosso all’esame di dopodomani,
vado a festeggiare in pizzeria con Maria». Sopravvive nell’area del-
le espressioni di cortese incertezza: «Volevo chiederle delle notizie,
avrà un minuto per me ?», «sono in ritardo, avrà pensato che avevo
dimenticato l’appuntamento». Se queste modalità rispondono alla
necessità di semplificare la comunicazione e possono essere tollerate
per la naturale scarsa frequenza con cui occorre il futuro, meno ele-
ganti risultano i modi derivati dal francese per esprimere un’azione o
una condizione future: «vado a parlarvi di Dante», «sto per soste-
nere l’esame di didattica della lingua», «Maria sta andando a Bari,
vuoi che prenda le date degli esami ?»; e i terribili: «vengo a propor-
vi un’ipotesi», «sto a leggere le formule, poi risolvo il problema».
Al contrario di quello che il luogo comune sostiene il congiuntivo
è ben lontano dall’estinzione, soprattutto nello scritto. Nel parlato
in generale, ma non egualmente nella penisola, cede qua e là specie
nelle soggettive e nelle oggettive del tipo: «mi sembra che piove»,
«mi pare che tu sei ammalato»; «credo che non parto più», «pensi
che non sei preparato  ?». Anche nel periodo ipotetico cede terre-
no, specialmente nel linguaggio più colloquiale: «se mi raffreddo,
non parto più», «se studiavo, l’esame lo superavo facile». Poiché il
69
Leonardo Sebastio

congiuntivo nelle tre persone singolari ha forme eguali, per evitare


equivoci è utile utilizzare i pronomi personali e comunque i soggetti:
ciò che da molti studiosi è ritenuta la causa della debolezza del con-
giuntivo, a noi pare necessario nello scritto, dove ogni strumento di
chiarificazione è opportuno.
Un altro luogo comune va qui sfatato: l’uso come soggetti dei pro-
nomi lui, lei, loro è ritenuto un segno del degrado della lingua italia-
na; in realtà quell’uso è attestato in classici della letteratura e della
lingua come I promessi sposi. Così erroneo è tenuto l’uso di gli per «a
lei» e «a loro», al posto di le e loro. Ormai, tuttavia, l’uso è invalso
anche in buoni scrittori e in genere pare tollerato con maggiore faci-
lità. Il buon docente consigli la forma più grammaticale, ma non se ne
faccia una tragedia, come per a me mi, ma però.

70
I PRESTITI

Uno dei fenomeni più vistosi nelle lingue che si raggruppano sot-
to il nome di romanze (italiano, francese, spagnolo, rumeno, ecc.) è
che queste parlate, e soprattutto l’italiano, raccolgono il loro baga-
glio lessicale non tanto dal fondo della romanità popolare quanto dal
recupero della classicità operato in varie tappe prima nel Medioevo
carolingio, poi nel Trecento toscano ed infine nell’Umanesimo e nel
Rinascimento. Il patrimonio lessicale delle lingue moderne romanze
non deriva se non in minima parte dall’antica e provinciale latinità
– benché questa stia alla base della loro struttura fondamentale –: è
invece larghissimamente attinto dalla costante e generalizzata lettura
ed imitazione delle opere classiche. Non c’è scrittore nato nella peni-
sola, sino alle soglie del xx secolo, che non abbia dato il suo apporto
lessicale attingendolo alla classicità latina.
L’Italia, dunque, eredita da Roma la struttura sintattica della fra-
se, e quella che di gran lunga è la maggior parte della sua ricchezza
lessicale. Ma la lingua di un territorio è il riflesso della sua storia, spe-
cialmente per una nazione come la nostra, posta al centro del Medi-
terraneo, mèta ambita prima dei popoli del nord, poi di quelli più
vicini. Era inevitabile che nell’italiano si depositassero termini dei
vari popoli dominatori: anche di quelli che venivano detti barbari. E,
naturalmente, non solo parole: questi popoli apportarono mutamen-
Leonardo Sebastio

ti fonetici che poi restarono per sempre nella pronuncia dell’italiano.


In questa sede dopo aver tracciato una (assai) sommaria storia
della nostra lingua ci soffermeremo sull’apporto esterno perché nelle
parole ‘importate’ si senta un’eco dei popoli e della loro storia, così
che il lettore ritrovi in sé stesso la vicenda dei millenni e dell’intera
umanità. E, ancor più, ritrovi e faccia ritrovare nel suo lessico quoti-
diano la propria origine europea e mediterranea.

Nel 489 gli Ostrogoti (ramo orientale dei germani Goti), la cui
origine era nella penisola scandinava, invasero l’Italia guidati dal re
Teodorico e posero la loro capitale in Ravenna. La loro dominazio-
ne durò sino al 553, anno in cui furono sconfitti da Narsete, generale
dell’imperatore d’Oriente Giustiniano.
La loro dominazione lasciò un’eredità linguistica in gran parte
militaresca:
albergo < hari-berg riparo per l’esercito;
arengo < hrings cerchio;
arringare < “ parlare al centro di un cerchio di persone;
arredare < (ga-)rēdan avere cura;
astio < haifsts litigio;
banda < binda striscia di stoffa che distingueva i soldati;
bandiera < “ la stoffa che indicava il luogo dove i soldati
si radunavano e giuravano fedeltà;
briglia < bridgil;
elmo < hilms;
fiasco < flaskō recipiente rivestito di vimini;
guardare < wardōn stare in guardia;
guardia < “
nastro < nastilo cinghia di cuoio;
sghembo < slimbs obliquo;
smaltire < smaltjan fondere;
stanga < stange(?) lungo legno squadrato;
stecca < stika bastone, pezzo di legno.
72
Manuale di storia della lingua italiana

Nel 568 i Longobardi, un popolo germanico che s’era stanziato


alle rive del mare del Nord, guidati da Alboino irrompono nell’Italia
settentrionale. Nei pochi anni successivi guadagnano gran parte della
penisola, meno la Sicilia, il Lazio e l’esarcato di Ravenna. Il loro do-
minio durò due secoli, fino a quando furono sconfitti nella battaglia
di Pavia – che era la loro capitale  – da Carlo Magno nel 774. È questa
la battaglia che fa da sfondo alla tragedia Adelchi di Alessandro Man-
zoni. Il loro lungo dominio doveva lasciare nell’italiano tracce più
ampie rispetto agli ostrogoti e soprattutto che investono molti campi
della vita quotidiana.
Sono termini attinenti alla vita militare:
bianco < blank dal colore del manto dei cavalli;
bruno < brūna- dal colore del manto dei cavalli;
predella < predel tavoletta;
sguattero < wahtari guardiano;
spalto < spald/spalt massa di terra antistante i fossati di difesa;
staffa < staffa sostegno per montare a cavallo;
stamberga < stainberga casa di sassi di una sola stanza;
strale < ? freccia.
Alla posizione sociale:
gramo < gram affanno;
ricco < rīhhi potente;
sgherro < skarrjo capitano;
manigoldo < mundivald colui che esercita un potere;
(mani)scalco < skalk servo.
Alle parti del corpo:
anca < hanca gamba, femore;
ciuffo < zupfa ciocca di capelli;
grinza < grimmisōn corrugare la fronte;
guancia < wankja/wangja;
guanciale < “
milza < milzi;
nocca < knohha giuntura;
73
Leonardo Sebastio

schiena < skena/skina;


stinco < skinko tibia, femore;
zazzera < zazera/zazza ciocca di capelli.
Tra i verbi ricorderemo:
(ar)raffare < (h)raffōn afferrare con violenza;
(s)gualcire < walkan rotolare;
(im)bastire < bastire;
russare < hrūzzan;
scherzare < skerzōn;
spaccare < spahhan fendere;
spruzzare < spruzz(j)am [così sprazzo];
strofinare < straufinōn.

La vittoria di Carlo Magno sui Longobardi sancì il dominio dei


Franchi sull’Italia settentrionale e centrale, mentre una buona parte
dell’Italia meridionale restava ancora in mano ai Bizantini dell’Im-
pero d’Oriente. La distanza del potere centrale e, soprattutto, l’orga-
nizzazione in feudi dell’impero fece sì che le terre conquistate aves-
sero una sostanziale autonomia e non dovessero scontare, se non in
piccola parte, la presenza di forze militari e – quel che a noi interessa
– linguistiche esterne. Il lascito di quella popolazione germanica nel
lessico italiano fu, perciò, limitato.

Più rilevante è invece l’influsso bizantino nella terminologia mari-


nara che attesta l’intensità degli scambi tra Roma e Bisanzio:
argano < (t)à (ó)rgana strumenti;
bambagia < bambákion;
gondola < kondûra una specie di barca;
ormeggiare < hormízein.
Altri termini di origine bizantina sono quelli che riguardano i
nomi di alcuni territori dell’Italia meridionale. La provincia di Foggia
è della Capitanata: questo nome deriva da catapano, che era il nome
74
Manuale di storia della lingua italiana

di un funzionario bizantino, a sua volta derivato dal greco kat’epáno,


«in direzione dell’alto». La Basilicata trae il suo nome da quello del
sottufficiale detto basilikós «rappresentante regio».

I secoli x e xi vedono l’ascesa del potere pontificio, corrispetti-


va all’indebolimento del potere imperiale. È in quei due secoli che
emergono i volgari (dialettali) italici, anche nelle scritture. La prima
attestazione scritta, universalmente riconosciuta, è costituita dai pla-
citi cassinesi: sono quattro documenti pressoché identici, quattro te-
stimonianze di uomini non letterati che vengono registrate così come
vengono pronunziate per fedeltà notarile. Il primo è del 960 e recita:
«sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene, trenta anni le pos-
sette parte Sancti Benedicti». In una sintesi estrema e, ovviamente,
superficiale, diremo che da ora in poi i volgari regionali si consolida-
no e, soprattutto, si consolida il toscano destinato a divenire italiano.

Poiché questo capitolo è centrato sull’apporto delle lingue degli


altri popoli da cui il territorio italiano è stato dominato, o con i quali
la popolazione ha avuto scambi, ci soffermeremo sulla regione che nel
xii secolo assunse grande importanza anche dal punto di visto lingui-
stico: la Sicilia, la Sicilia araba. Oggi è assai difficile dire quali termini
di origine araba siano confluiti nell’italiano dalla Sicilia: tra le sicure
una è ammiraglio dall’arabo amīr, da cui anche emiro; e zàgara che è
il fiore d’arancio da zahra. Ma ecco un breve elenco di parole derivate
dall’arabo:
aguzzino < al-wazīr luogotenente;
alchimia < alkīmīya pietra filosofale;
algebra < al-ǧabr riduzione;
almanacco < manāh calendario;
amalgama < ‘amal al-ǧama’ attuazione di un’unione;
ambra < ‘anbar;
arancio < nāranǧ;
75
Leonardo Sebastio

arsenale < dār as-sinā casa del lavoro;


assassino < hašīšya fumatore di hascisc;
azimut < samūt direzione della testa [è il plurale di samt ar-
ru‘ūs che dà zenit];
bagarino < baqqālīn rivenditore di seconda mano;
baldacchino < bagdādī stoffa preziosa di Bagdad;
bazar < bāzār mercato;
bricco < ibrīq;
catrame < qaṭran pece liquida;
cifra < sifr vuoto [fino al 1700 si usava per indicare lo
zero];
dogana < dīwān libro dove si segnano le merci in transito;
elisir < iksīr pietra filosofale;
fondaco < funduq alloggiamento per mercanti;
libeccio < lebeg;
magazzino < maŠzin deposito;
marzapane < martabān vaso di porcellana;
materasso < matrah luogo dove si getta qualcosa;
melanzana < bādingiān;
moschea < masgid luogo dove ci si deve prostrare;
racchetta < rāhāt;
ragazzo < raqqās corriere portalettere;
ricamare < raqama tessere una stoffa;
scirocco < šuluq vento del mezzogiorno;
sciroppo < šarab bevanda;
sultano < sultān padrone assoluto;
talco < talq amianto e minerali simili;
tamburo < tambur strumento a corda;
tariffa < ta‘rifa notificazione;
tazza < tāsa;
zenit < samt ar-ru‘ūs direzione della testa;
zerbino < zirbiy tappeto;
zero < sifr vuoto;
zucchero < sukkar.
76
Manuale di storia della lingua italiana

Negli stessi anni in cui Pietro Bembo lavorava l’Italia veniva inva-
sa dallo straniero. Seguire le vicende politiche e linguistiche di questo
periodo è estremamente arduo, né è questa la sede per tracciarne un
profilo sia pure rapido. Si procederà perciò a grandi linee, seguendo
gli apporti che francesi e spagnoli ebbero a fornire indipendentemen-
te dalle alterne e varie fasi delle loro dominazioni nelle regioni italia-
ne.
Cominceremo dal francese che esercitò sull’italiano una grande
influenza più tardi, durante il ’700, in grazie del prestigio di cui godé
la sua cultura. Nel Cinquecento entrano pochi vocaboli dalla Fran-
cia:
appannaggio < apanage dare del pane;
batteria < batterie che batte;
birra < bière dal tedesco bier;
busta < boiste scatola di bosso;
cadetto < cadet capo;
equipaggio < équipage a sua volta da équiper = imbarcare;
gabinetto < cabinet piccola cabina;
galleria < galerie;
marciare < marchier pestare i piedi;
massacro < massacre;
petardo < pétard mortaio;
trincea < trancchée fossato.

Anche l’influenza della Spagna si fa sentire sin dal Cinquecento. Il


suo apporto lessicale (come al solito ci limitiamo a questo) può essere
rappresentato da:
accudire < acudir assistere;
appartamento < apartamiento luogo appartato;
azienda < hacienda
baciamano < besamanos;
baia < baga curva;
buscare < buscar cercare, raccogliere;
77
Leonardo Sebastio

complimento < cumplimiento a sua volta da cumplir = compiere voti e au-


guri
disdoro < desdoro a sua volta da desdorar = togliere l’oro, l’o-
nore;
disimpegno < desempleño;
dispaccio < despacho a sua volta da despachar = disbrigare;
fanfarone < fanfarron;
flotta < flota;
grandioso < grandioso;
guerriglia < guerilla piccola guerra;
lindo < lindo a sua volta dal latino legitimu(m)
marmellata < marmelata a sua volta da marmelo [portoghese] mela
cotogna;
marrano < marrano porco;
puntiglio < puntillo piccolo punto;
quintale < quintal a sua volta dal greco kentēnàrion = peso di
cento libbre;
soppressata < salpresar cospargere di sale;
tonnellata < tonellada a sua volta da tonel = barile;
torrone < turrón a sua volta da turrar = arrostire [le mandor-
le];
vigliacco < bellaco peloso, villano, indolente.

Nel Seicento l’influenza della Spagna si fa più pesante soprattutto


al Sud; si importano termini di grande importanza nel lessico moder-
no italiano:
baccalà < bacalao;
baule < bahúl zaino;
brio < briu;
cioccolato < chocolate;
floscio < flojo;
lazzarone < lazzaro pezzente, lebbroso;
marsina < dal nome del comandante delle truppe spagnole Jean de la
Marsine;
78
Manuale di storia della lingua italiana

mantiglia < mantilla piccola coperta;


nostromo < nuestramo nel linguaggio degli schiavi: nostro padrone
[amo];
pastiglia < pastilla piccola pasta;
pistagna < pestaña orlo;
posata < posada astuccio di legno contenente gli strumenti
per mangiare;
Dalla Francia durante il Seicento vengono importate parole come:
agire < agir;
azzardo < hasard a sua volta dall’arabo zahr= dad0;
bandoliera < bandoulière;
barriere < barrière;
bivacco < bivac;
canapè < canapé;
chingaglie < quincaille [onomatopeico];
coccarda < cocard a sua volta da coq = gallo;
contraccolpo < contre-coup;
dettaglio < détail a sua volta da détailler = tagliare a piccoli
pezzi, poi vendere a piccoli pezzi;
distaccamento < détachement;
galloni < galon nastri d’onore;
gettone < jeton a sua volta da jeter = calcolare;
installare < installer insediare un canonico nel suo stallo;
lingerie < lingerie confezione di biancheria fine;
parrucca < parruque capigliatura posticcia;
plotone < peloton gruppo di soldati;
progettare < projeter esporre;
rango < rang linea di soldati;
rimarchevole < remarcable notevole;
suscettibile < susceptible facile a risentirsi.

Nel Settecento si accentua l’influenza del francese, come s’è detto:


entra nella lingua italiana una gran quantità di termini: molti dei qua-
li sono dei veri e propri latinismi che, perciò, si insediano con grande
79
Leonardo Sebastio

facilità [da B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, San-


soni, 19634]: analisi, aneddoto, belligerante, biografo, cariato, coalizio-
ne, concorrenza, contingente, cosmopolita, deferenza, duttile, emozione,
epoca, esportare, importare, industria [nel significato di utilizzatore di
materie prime], irritabile, patriota, progresso, refrattario, tecnico.
Numerosi i termini più strettamente francesi che vengono italia-
nizzati, mantenendo più o meno il significato originario. Su suggeri-
mento di Giacomo Devoto [Il linguaggio d’Italia, Milano, Rizzoli,
1974] divideremo i termini per campi.
Nel campo dell’abbigliamento:
abbigliare < habiller vestire;
blusa < blouse indumento maschile;
calosce < galoche sovrascarpa;
disabigliè < deshabillé vestaglia [accanto a disabbigliato si usa il ter-
mine francese: in deshabillé];
domino < domino cappa nera con cappuccio;
fermaglio < fermalh [provenzale];
flanella < flanelle stoffa di lana o cotone dalla trama rada;
frisatura < frise acconciatura dei capelli;
ghette < guêtre gambaletto di tessuto che copre le scarpe
gilé < gilet;
négligé < nègligè vestito con negligenza;
pantaloni < pantalon a sua volta derivato dal nome della maschera
veneziana: si diceva «vestito alla pantalo-
na»
scialle < châle.
Nel campo della cucina:
bigné < beignet gonfio alla testa per un colpo, così per la for-
ma del dolce;
cotoletta < côtolette costoletta;
crêpe < crêpe crespo;
derrata < denrée;
fricandò < fricandeau carne lardellata e cotta con verdure;
80
Manuale di storia della lingua italiana

fricassea < fricasser cuocere in salsa;


ragù < ragoût risveglio del gusto;
sciampagna < Champagne [si preferisce il termine originale].
Nel campo dell’arredamento:
bidé < bidet cavallino;
cabaret < cabaret taverna;
canapé < canapé [sia nell’accezione di divano, sia di fetta di
pane imburrata];
cuscino < coissin [a sua volta dal latino cŏxa = coscia];
toilette < toile tela [che ricopriva il tavolino da acconciatu-
ra, poi mobile con specchio].
trumò < trumeau mobile [variamente interpretato nei dialetti
regionali].
Nel campo della vita quotidiana:
abbordare < aborder urtare una nave per attaccarla e montarvi
su;
allarme < à l’arme alle armi;
analizzare < analyser;
approcciare < approche; avvicinare;
approccio < “
batteria < batterie insieme di strumenti [anche batteria da cu-
cina];
bigiotteria < bijouterie gioielleria;
bigotto < bigot a sua volta derivato dall’alto tedesco bî Got
= per Dio;
bisboccia < débouché distolto dal dovere;
brossura < brochure legato con una spilla;
cavaliere < cavalier [provenzale];
dama < dame signora [dal latino domina]
debosciato < débouché distolto dal dovere;
dettagliare < détailler tagliare a pezzi;
equipaggio < équipage a sua volta da èquiper = imbarcare;
evasivo < évasif;
foraggio < forrage rifornimento di paglia;
81
Leonardo Sebastio

imparzialità < impartialité;


irritabile < irritable;
marciare < marchier pestare i piedi sopra qualcosa;
municipalità < municipalité;
passaggio < passage;
risorsa < resource provento;
rondella < rondelle a sua volta da rond = rotondo;
rondò < rondeau componimento musicale con ritornello;
sciarada < charade chiacchiera;
scudiero < escudier;
stendardo < estandart insegna di guerra;
viaggio < veiage.

Nell’Ottocento è ancora il francese che contribuisce in maniera


sostanziosa all’arricchimento del nostro lessico, e attraverso il fran-
cese giungono vocaboli d’altre lingue. Tra i più comuni ricordere-
mo i termini che riguardano il sistema metrico decimale: metro, li-
tro, grammo. Tra i termini che riguardano la cucina varrà ricordare
trattoria e trattore che derivano da traiter e traitement che indicava
l’atto di ricevere qualcuno a tavola. Molti riguardano ovviamente la
moda come bretelle, percalle e pon pon Sono d’origine francese molti
dei vocaboli che terminano in -aggio come lavaggio, vagabondaggio,
brigantaggio, ecc.; così anche il suffisso -ista con valore di inerente
(moda - modista).
Se il Settecento e l’Ottocento sono francesizzanti, il Novecen-
to, soprattutto la seconda metà, è anglicizzante. C’è, tuttavia, una
profonda differenza tra il modo con cui i vocaboli penetravano sino
all’Ottocento e quello con cui sono accolti oggi: ché allora i vocaboli
subivano un processo d’italianizzazione, assumendo la morfologia
della lingua accogliente tanto che noi oggi giureremmo su una loro
assoluta italianità, i vocaboli inglesi d’oggi subiscono raramente lo
stesso processo di adattamento e restano nella grafia e nella pronun-
cia originale probabilmente a causa dell’assenza della comune radice
82
Manuale di storia della lingua italiana

latina. Provocano così una spezzatura, o almeno un’incrinatura nel


sistema dell’italiano nel quale le vocali si leggono (sia pure non per-
fettamente) così come sono scritte, né mai sono sfumate se non nelle
parlate regionali. Si presentano perciò come straniere e per la loro
comprensione è necessario far riferimento alla lingua di provenienza
la cui conoscenza è riservata solo ad una piccola élite. L’irritazione
che quei vocaboli generano in non piccola parte degli abitanti della
penisola è dettata dal fatto che spesso si sovrappongono a termini
italiani perfettamente in grado di esprimere i medesimi concetti, ri-
sultando così inutili: sono avvertiti come espressione di moda, esibi-
zione di competenza specifica, appartenenza ad una classe egemone.
Ecco un breve elenco di vocaboli inglesi entrati nell’uso comune:
access ciak gay pride
Antitrust clan golden share
Authority clown gossip
baby-sitter cocktail grandtourist
best seller columnist happening
big core business holding
black-bloc deejay horror
blitz deficit hotel
bluff docu-fiction investment bank
bodywork dossier joint venture
boom family day junior
bound fast-food leasing
broadcaster fiction low cost
budget first lady manager
bunker flop marketing
bus force mass media
business -free (sugar-free, ogm- master
bye-bye free, ecc) merchant bank
cash-dispenser gag multi utility
check point gay musical

83
Leonardo Sebastio

new business racket snob


new economy raider soft
news rating spending review
no comment real tv sponsor
off reality staff
ok record stop
opa cash relax strip-tease
open road reporter supervisory board
open space restyling take over
part time scoop task
partner sequel test
party set ticket
pay tv shock top manager
peer to peer shore transgender
performance short story trend
pool show utility
prime time shuttle. week-end
privacy sit-in wildlife strikes
quiz sketch

Ecco un elenco di parole inglesi in uso in pedagogia:


acting-out Scarica parziale degli impulsi tenuti a freno;
agreement gradimento;
background retroterra (culturale, sociale, ecc.);
cooperative learning tecnica pedagogica basata sull’idea che l’apprendi-
mento migliore sia quello che viene dalla
collaborazione degli allievi, mentre al do-
cente è affidato solo il compito di guida;
counseling attività fornita da servizi sociali (dà consigli, informazio-
ni, spiegazioni giuridiche, ecc);
drop-out persona che si mette ai margini della società;
empowerment vale rendere, rendersi capace do sostenere responsabilità;
fair play comportamento corretto e diplomatico;
feed-back letteralmente retroazione: revisione del comportamento
84
Manuale di storia della lingua italiana

in base al risultato che esso ottiene;


flash notizia lampo, breve;
gap divario tra persone o situazioni;
handicap ritardo o limitazione nello sviluppo;
hard forte, intenso;
home video registrazione di uno spettacolo o altro su supporto magne-
tico o elettronico;
humour senso dell’umorismo;
imprinting segno lasciato su un animale, o su qualunque essere viven-
te, sin dalla nascita;
input introduzione di dati in un sistema, per estensione azione
di stimolo su qualcuno;
leader trascinatore;
leadership condizione di leader;
management persone o condotta di una o più persone che gestiscano
un’organizzazione o un’azienda;
manager colui che si occupa della organizzazione e gestione di
un’organizzazione o di una azienda;
marketing complesso di tecniche che servano a collocare un prodot-
to;
mastery learning tecnica pedagogica che mira ad ottenere il massimo rendi-
mento di tutti gli allievi che collaborano tra
loro nell’apprendimento;
privacy vita personale privata;
problem solving strategia per l’apprendimento che parte da un problema
da risolvere usato come stimolo al pensiero;
role-taking letteralmente assunzione di un ruolo, significa la capaci-
tà di assumere un punto di vista diverso dal
proprio;
self-controll autocontrollo;
team teaching insegnamento impartito da un gruppo di docenti;
test prova organizzata per verificare un aspetto o una capacità
specifica, la prova è più complessiva;
transfer processo di trasferimento di un apprendimento in un con-
testo diverso;
85
Leonardo Sebastio

tutor persona che si fa carico di seguire un allievo durante un


tirocinio o la formazione al lavoro;
tutoring attività del tutor;
workshop seminario.

86
PARTE TERZA
Manuale di storia della lingua italiana

Dante Alighieri
Convivio I, III, 3-11 (1304)

Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la1 mia


scusa mai non fosse stata! che né altri contra me avria2 fallato,3 né io sofferto
avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate.4 Poi che fu pia-

1 Prevalgono le forme de lo, de la, ne lo, ne la, ecc. – ma nel.


2 Sicilianismo
3 Dal lat. fallere, forse mediato dal provenzale.
4 Sono forme latineggianti: spesso Dante traduce la x (exilium) latina con ss (es-
silio). Povertate conserva la forma latina dell’accusativo paupertatem. Nel sec. xiii
sussistono le due forme povertate (povertade) - povertà (ma cfr. anche veritade, ca-
ritade). Così come sopravvivenza latina è la conservazione della nasale di cum- nei
composti: conspetto, conscienza. Non si tratta di veri e propri latinismi essendo atte-
stati largamente prima di Dante; ma il poeta sceglie la variante più aulica. In fondo
qui egli sta sperimentando per la prima volta il volgare italiano in un contesto im-
pegnativo per i contenuti, ben diverso dal volgare che aveva utilizzato nelle poesie e
nella prosa amorosa della Vita nuova. Nel Convivio vuole dimostrare che il volgare
è in grado quanto il latino di esprimere ogni contenuto della mente. Dante, però,
vuole anche dimostrare che è elegante tanto quanto (e come) il latino. Così dopo il
primo periodo (che contiene una esclamativa, la costruzione chiasmica «avria fal-
lato», «offerto avria», e l’anafora che introduce l’aggiunta chiarificatrice «pena…
pena, dico…») segue una costruzione sintattica assai complessa, ricca di incisi, ma
nella quale la successione degli argomenti va dalla causa all’effetto, partendo dal
tema dell’esilio del periodo precedente, che viene così enfatizzato e quindi indicato
a movente primo del discorso e dell’opera. L’effetto è l’andare «peregrino, quasi
mendicando», che comporta il rischio della attribuzione al malcapitato della col-
pa. All’interno di questo periodo così complesso si vedano le perifrasi e le metafore
«figlia di Roma», «dolce seno», «colmo de la vita», «terminare lo tempo che
m’è dato», «le parti…. a le quali questa lingua si stende», «la piaga de la fortuna».
A chiudere il periodo un «ingiustamente» che si ripete pressoché nella medesima
posizione del primo periodo. Dal punto di vista della strategia retorica (meglio: dei
valori prelocutivi)assai interessante è notare come il poeta non attacchi i fiorentini
se non nei termini d’errore: hanno preso un abbaglio nei suoi confronti. E ancora:
Firenze è «bellissima e famosissima», erede della grande tradizione culturale e po-
litica di Roma. È che Dante spera di tornare: un attacco frontale avrebbe irritato i
suoi concittadini che si sarebbero irrigiditi sulla posizione di rifiuto del poeta.
89
Leonardo Sebastio

cere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza,1


di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al
colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con
tutto lo2 cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è
dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino,
quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de
la fortuna che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputa-
ta. Veramente io sono stato legno sanza3 vela e sanza governo portato a
diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade,
e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra
forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia
persona invilio,4 ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come
quella che fosse a fare.5 La ragione per che ciò incontra – non pur in me,
ma in tutti – brievemente6 or qui piace toccare: e prima, perché la stima
oltre la veritade si sciampia7 e poi, perché la presenzia8 oltre la veritade strin-

1 La forma etimologica (da fiore; da cui pure fiorentino) è quella usata pressoché
sempre da Dante.
2 È ancora l’articolo dominante.
3 È la forma più utilizzata da Dante.
4 Forma epitetica del pass. rem.; oggi invilì.
5 Anche questo periodo procede da causa a effetto. Anche questa volta la causa
è strettamente legata alla chiusa del periodo precedente non solo concettualmen-
te ma anche linguisticamente. La «piaga della fortuna» in grazia dell’accezione
di fortuna come fortunale, tempesta marina risulta essere la premessa sottaciuta
dell’immagine della nave «sanza vela e sanza governo» (timone). La furia della
tempesta è poi esplicitata nell’accumulazione di «porti e foci e liti», più o meno
tranquilli (i porti) più o meno remoti (liti). Eppure quella nave ha «alcuna fama»,
ma tale fama non giova al naufrago, ché molti l’avevano immaginato diverso. La
delusione che desta l’incontro di persona, ed è qui il punto che sta a cuore al poeta,
si riversa anche sulle sue opere, quelle già scritte, che appaiono più modeste, e so-
prattutto sulle opere da scrivere e su questa, il Convivio. Consegue che la lingua e lo
stile con cui il trattato è scritto possono essere lo strumento di riscatto del poeta.
6 La -ie- è esito della dittongazione spontanea toscana della e aperta (/ε/) in silla-
ba aperta.
7 Da exampliare: amplificare, estendersi. È lezione molto discussa. Sarebbe una
delle poche parole dantesche non sopravvissute nella lingua moderna.
8 Nel toscano si alternano uscite di -tja un -za e in -zia: justitia - giustizia, letitia-
90
Manuale di storia della lingua italiana

ge.1 La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la


mente de l’amico, e da quella è prima partorita; ché la mente del nemico,
avvegna che riceva lo seme, non concepe. Quella mente che prima la parto-
risce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l’amico che lo
riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per orna-
re ciò che dice li passa, contra conscienza parla: quando inganno di caritade
li fa passare, non parla contra essa. La seconda mente che ciò riceve non
solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma ’l suo riportamento,
sì come qu<as>i suo effetto, procura d’adornare; e sì, che per questo fare e
per lo ’nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa
che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la
prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. E
così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione
de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel
quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza
per andare.2 Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per
sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa
imaginata nel vero stato.3

Divina Commedia - Inferno, i, 1-27 (1304-1308)


Nel mezzo del cammin di nostra vita

letizia. Oggi abbiamo presenza, ma presenziare.


1 Questo periodo introduce una diversa modalità di scrittura: subentra qui l’ar-
gomentazione sillogistica; il periodo si fa breve; va da premesse a conseguenze,
senza slabbratura alcuna di perifrasi o metafora; la premessa è di per sé evidente,
o largamente condivisibile: la «buona fama» è generata dalla mente «buona»
dell’amico. La mente malvagia, o di un nemico, non può promuovere la buona
fama. L’amico invece eccede per amore («caritade»): si badi l’eccesso per amore
è inganno contro la verità e non contro l’amore. Il secondo che accoglie le notizie
dal primo amico dal quale è partita la lode, a sua volta la amplifica allontanandosi
ancora più dalla verità. Ormai è innescato il processo che porta poi alla delusione
di chi poi si confronta con la realtà.
2 L’argomentazione sillogistica si chiude con una auctoritas che conferma le con-
clusioni cui è giunto il poeta.
3 Riassunto e affermazione solidamente dimostrata.
91
Leonardo Sebastio

mi ritrovai per una selva oscura


ché1 la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta2 selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova3 la paura!
Tant’è amara che poco è piú morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,4
tant’era pien di sonno a quel punto
che5 la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,6
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.7
1 La maggior parte dei commentatori intende questo ché causale (quindi accen-
tata); alcuni lo intendono modale («nella situazione d’aver smarrito la via). L’in-
terpretazione causale modifica il senso di «ritrovai», cui verrebbe meno il valore il
«prendere coscienza di essere» di essere in una «selva scura». Noi crediamo che
già in questi versi il poeta alluda ad un viaggio, il «cammin» della vita, al quale
contrapporrà «altro viaggio» del v. 91.
2 Dal latino istu(m) che nell’italiano del Due-Trecento dà esto, assai usato da
Dante e nella lirica precedente. Per aferesi della prima sillaba abbiamo l’odierno sto,
divulgatissima forma dialettale, ma anche stasera, stavolta ecc.
3 Dal latino ri(e)-novare, etimologicamente senza il raddoppiamento della n.
4 Dal latino intrare.
5 Anche Dante adopera il che polivalente, frequente in un registro medio, mentre
il registro aulico avrebbe richiesto (e richiede) in cui: ad esempio «al punto in cui
siamo la crisi deve essere risolta»
6 La forma transitiva del verbo compungere (rattristare) è pressoché scomparsa
nell’italiano moderno, nel qual sopravvive la forma riflessiva nel significato di pen-
tirsi. Più largo è oggi l’uso del sost. compunzione quasi esclusivamente in contesto
religioso; dell’agg. (part. pass.) compunto e dell’avverbio compuntamente nelle due
accezioni di pentito, contrito, e di umile, modesto
7 Il periodo si stende solitamente in una terzina; quando ne occupa due la prima
92
Manuale di storia della lingua italiana

Allor fu la paura un poco queta


che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago1 a la riva
si volge a l’acqua perigliosa e guata,2
cosí l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo3 passo
che non lasciò già mai persona viva.4
contiene una o più frasi in sé conchiuse: in queste due terzine notiamo nella prima
una temporale ed una subordinata relativa di 2º grado, rette dalla principale «guar-
dai in alto» che apre la seconda terzina cui è legata, prima una coordinata «e vidi»
che a sua volta una relativa subordinata di 1º grado.
1 È vocabolo prettamente latino, raramente usato prima di Dante, usatissimo da
Petrarca. Dante lo alterna con «mare» (si ricordi «l’alto mare aperto» di Ulisse).
La scrittura della Commedia abbonda di varianti (si pensi a «speranza», «spe-
me», «spene»): tale varietà è il segnale della grande libertà del poeta che accoglie
quanto la cultura classica, quella fiorentina ha elaborato. E non solo della cultura,
ma anche parole plebee. Indubbiamente assai larga è la presenza dei latinismi, so-
prattutto nei canti dottrinali, nei quali si sentire assai vigorosa l’influenza dottrina-
le della scolastica e della scuola. Ma non solo in quelli dottrinali, ché spesso i latini-
smi servono a caratterizzare i personaggi (vedi ad esempio Giustiniano). Dunque
Dante attinge largamente da ogni parte. E per di più inventa moltissimi vocaboli:
moltissime sono le derivazioni prefissali («appulcrare», «ingigliarsi», «sganna-
re» ecc.); molte parole sono formate da possessivi e da numerali («immiare», «in-
luiarsi», «indovarsi»).
2 Da franco wahta «guardia», guatare è comune nell’italiano antico.
3 Sull’articolo lo come articolo dominante s’è detto.
4 La similitudine si stende nelle due terzine equamente divisa tra i due operatori
(come, così). Ha scritto Giacomo Devoto a proposito del linguaggio di Dante: «In
fatto di lessico essa [l’opera di Dante] rappresenta un arricchimento poderoso. La
tradizione volgare, dopo l’esperienza di Dante, annulla di colpo tutte le inferiorità
che trascinava con sé da sette secoli di povertà, sottosviluppo, limitatezza parroc-
chiale. Questo arricchimento non ha nulla del procedimento tecnico che crea o
introduce parole come etichette. Il vocabolario trasmesso dalla Divina Commedia è
atto a qualsiasi argomento, poetico e prosastico, lirico e filosofico, perché il crogiolo
non ha agito in connessione con il mondo ben delimitato delle opere specializzate,
ma nell’ambito dell’universalità degli interessi e degli affetti della Divina Comme-
dia […] L’arricchimento non cosiste soltanto nel sodisfare sfumature semantiche
93
Leonardo Sebastio

Dino Compagni
Cronica della cose occorrenti ai tempi suoi, i, 21 (1310-12)

Uno1 giovane gentile, figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile


cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e in-
tento allo studio, nimico2 di messer Corso, avea più volte diliberato offen-
derlo3. Messer Corso forte4 lo temea,5 perché lo conoscea di grande animo;
e cercò d’assassinarlo, andando6 Guido in pellegrinaggio a San Iacopo; e
sempre più differenziate e sottili, ma anche nella possibilità di evocare sia immagini
nove sia nuovi affetti e toni». G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, § 167.
1 Compagni adopera indifferentemente le forme uno, un. Ma davanti a s impura
sempre uno.
2 Compagni preferisce la forma latineggiante che conserva la ĭ protonica de nor-
malmente darà e.
3 È la costruzione latina di deliberare e inf. senza la preposizione di.
4 Nell’italiano antico è consueto l’uso dell’aggettivo forte con valore di avverbio.
È tuttora in uso, benché da qualche parte se ne sconsiglia l’uso.
5 Le forme dell’imperfetto indicativo italiano derivano da quelle latine amabam
> amava, legebam > leggeva, punibam > puniva. Mentre la v (< b) degli imperfetti
in -ava e -avano è salda, quella degli imperfetti in -eva e - iva poteva cadere per
dare orifine a forme come leggea, leggeano, pinia, puniano, temea, conoscea. Più tarde
sono le forme in -avo, evo, ivo, per la prima persona singolare. Cfr. qui «conoscea»,
«moveano», «temeano», «diceano», «aveano», «dicea»e «diceva», ma sem-
pre «chiamava», «spregiava», «chiamava», «rapportava»
6 Esistono due tipi fondamentali di gerundi: il gerundio di predicato («Maria ha
imparato le frazioni, studiandole», grazie allo studio, per mezzo dello studio), il
gerundio di frase («Spiegando il professore puntualmente, Maria ha imparato le
frazioni», poiché il professore spiegava puntualmente, Maria ecc.). Nelle frasi cau-
sali, ipotetiche e concessive (sono le funzioni del gerundio) con soggetto diverso
da quello della principale oggi preferiamo la forma esplicita. Nel gerundio di frase,
non è necessario che il soggetto sia espresso: in questo caso solitamente il soggetto
della frase gerundiva è lo stesso della principale. Con il soggetto espresso come nel
caso che stiamo esaminando, possiamo avere coincidenza o non dei soggetti. Nel
nostro caso i soggetti sono diversi. La costruzione della frase gerundiva con sogget-
to espresso diverso da quello della principale è assai frequente nella prosa antica.
È indice di uno stile alto. Si noti la frequenza dell’uso del gerundio un questa pur
breve pagina di Dino Compagni: «Essendo… a cavallo», «credendosi», «trascor-
rendo», «non lo giugnendo», «chiamandolo».
94
Manuale di storia della lingua italiana

non li venne fatto. Per che, tornato1 a Firenze e sentendolo, inanimò2 molti
giovani contro a3 lui, i quali li promisono4 esser in suo aiuto. E essendo un
dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il
cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguìto da’ Cerchi, per farli
trascorrere5 nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale
andò in vano. Era quivi, con messer Corso, Simone suo figliuolo, forte e
ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri, con le spade; e corsogli
dietro: ma non lo giugnendo,6 li gittarono de’ sassi; e dalle finestre gliene
furono gittati, per modo fu ferito nella mano.
Cominciò per questo l’odio a multiplicare.7 E messer Corso molto spar-
lava di messer Vieri, chiamandolo l’asino di Porta, perché era uomo bellissi-
mo, ma di poca malizia, né di bel parlare; e però spesso dicea: “Ha raghiato
oggi l’asino di Porta?”; e molto lo spregiava. E chiamava Guido, Cavicchia.
E così rapportavano i giullari, e spezialmente8 uno si chiamava Scampolino,
che rapportava molto peggio9 non si diceva, perché i Cerchi si movessero a

1 Benché il soggetto della frase precedente sia Corso – al quale (li) non venne
fatto d’uccidere Guido – il participio passato si riferisce a Guido: è, infatti, Guido
che è partito in pellegrinaggio, non Corso che quindi non può tornare.
2 Pass. remoto di inanimare derivato da in illativo (che porta dentro: inorgoglire
= entrare nell’orgoglio) anima, col significato di «dare coraggio»; il verbo fu uti-
lizzato sino al ’700 anche se si trova qualche attestazione nell’ ’800.
3 La preposizione contro si può costruire seguita o no da altra preposizione di, a.
Preferibilmente senza («contro un albero»), a meno che non di tratti di un prono-
me («contro di me»).
4 Per la terze persona plurale del passato remoto nel Trecento (ma ancora nel
Quattro e Cinquecento) è ancora assai notevole l’oscillazione fra le forme del tipo
scrissono (come nel nostro caso), scrissoro, scrissero, andaro, andarono, andorno, an-
donno. Vedi qui oltre a «promisono», «gittarono», «infamarono»
5 Passare, quindi coinvolgere; costruzione frequente nella lingua Duo-Tecente-
sca.
6 La collocazione a sinistra del pronome rispetto al gerundio, assai frequente nel
Trecento, oggi è al tutto scomparso.
7 Ha valore riflessivo.
8 Ancora oscillante è l’adattatamento al volgare dello j latino: così abbiamo tanto
speciale quanto speziale, socio e sozio.
9 Frequentissima sarà nel Quattrocento l’elisione del che.
95
Leonardo Sebastio

briga co’ Donati. I Cerchi non si moveano, ma minacciavano con l’amistà1


de’ Pisani e delli Aretini. I Donati ne temeano, e diceano che i Cerchi ave-
ano fatta lega co’ Ghibellini di Toscana: e tanto l’infamarono, che venne a
orecchi del Papa.

Giovanni Boccaccio
Decameron ii, 5 (1348)

E2 in questi trattati stando,3 avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne


che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a com-
piacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua
borsa vide e subito seco disse: – Chi starebbe meglio di me se quegli4 denari
fosser miei? – e passò oltre.

1 Adattamento del provenzalismo amistat a sua volta derivato dal lat. amicitate(m):
in volgare avremo amistate, amistanza, amistà.
2 Periodo complesso: comincia con due frasi gerundive, entrambe con valore
temporale, ma con sfumature diverse (perciò non sono coordinate): la prima pro-
pone una situazione continuativa ed attuale (“Andreuccio continuava le trattative
per l’acquisto dei cavalli”); la seconda propone un’azione già conclusa da collocarsi
all’inizio delle trattative. Dopo le due frasi gerundive s’avvia la principale che è
subito interrotta da un inciso dl qual varrà notare la congiunzione avversativa che
si oppone all’aggettivo «bellissima» quasi che la bellezza esteriore dovesse esse-
re garanzia di quella interiore. Interessante è la contrapposizione tra il superlativo
«bellissima» ed il superlativo negativo «piccol pregio» (prezzo, dal tardolatino
pretiāre, a sua volta derivato da pretium. Il gruppo latino tj – che si leggeva come
tsi – in Toscana dà sia zz – palatium > palazzo, sia gi – rationem > ragione –; avremo
pertanto le due forme prezzo e pregio). Segue una proposizione esclusiva implicita
col soggetto posposto al verbo. Finalmente si conclude la principale col comple-
mento di luogo dopo il verbo secondo una costruzione complessa ma naturale;
a differenza delle due seguenti subordinate che invertono l’ordine naturale, non
solo, ma sono altresì brevissime, come brevissima è la conclusione dopo il discorso
diretto. Si quindi un periodo dall’avvio lento, per poi concludersi con una serie
velocissima di azioni, di pensieri, di decisioni.
3 Boccaccio usa con grande frequenza l’iperbato (l’inversione di elementi della
frase rispetto all’ordine naturale).
4 Il plurale dell’articolo maschile lo solitamente è li, ma più raramente, anche
davanti a consonante come nel nostro caso, gli.
96
Manuale di storia della lingua italiana

Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana,1 la quale, come
vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a
abbracciarlo: il che la giovane veggendo,2 senza dire alcuna cosa, da una del-
le parti la cominciò a attendere.3 Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e cono-
sciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo,
senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì:4 e Andreuccio si tornò5 a
mercatare ma niente comperò la mattina.
La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua
vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a
dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a doman-
dare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse.6 La
quale ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come
avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che7 lungamente in Cicilia

1 B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze, 1963, p. 237: «…


talora i non Toscani hanno fatto traboccare la bilancia a favore del latinismo e a
spese della forma più “idiotica”. Si veda p. es. con quale sicurezza e stabilità i Toscani
nel Trecento adoperano, in Prosa (Boccaccio) e in poesia (Dante, Petrarca) Cicilia,
ciciliano (“per la varietà di volgari degli abitanti è oggi da loro chiamata Sicilia, e da
noi Italiani Cicilia”: Villani, Cron., i, 8): poi Sicilia, appoggiandosi al latino finirà
col prevalere definitivamente».
2 Si noti la quantità dei gerundi in questo breve lacerto: «stando», «avendo»,
«veggendo», «promettendogli», «dicendole».
3 Cominciò ad aspettarla da qualche parte, in disparte.
4 Boccaccio tende a porre il verbo significativo della frase di modo finito, alla fine,
mentre i preliminari vengono affidati a participi passati e gerundi.
5 L’etimo di questo verbo si rifà a tornare = lavorare al tornio ed ha valore di
volgersi, dirigersi al luogo da dove si è partiti. Frequentissimo è l’uso della forma
riflessiva nel senso di dirigersi indietro nell’opera del Villani. Boccaccio nello stesso
senso adopera equamente la forma riflessiva (generalmente al pass. rem.; a es.: «si
tornò a dormire col suo prete» ix, 2) quanto quella non riflessiva (soprattutto se
all’infinito preceduto da un servile; ad es.: verso il cavaliere cominciò a tornare»,
iii, 5).
6 Si noti come anche questa frase cominci per così dire lentamente: prima il sog-
getto subito seguito da una serie si subordinate o incisive, infine il verbo «incomin-
ciò a domandare» seguito da quattro rapide interrogative coordinate tra loro.
7 La formula «sì come colui/lei che» è spesso utilizzata da Boccaccio, ma fre-
quente nel Due-Trecento anche quando si riferisce ad una persona precisa e deter-
97
Leonardo Sebastio

col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove
tornasse1 e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al
suo appetito fornire2 con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua inten-
zione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò
che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale
essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò
all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui
medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale
dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: – Messere, una
gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri.

Francesco Petrarca
Canzoniere 16 (1366-94)
Movesi il vecchierel canuto et biancho3
minata, accentuando così la funzione dichiarativa potendosi assimilare ad un infat-
ti: cfr. sempre nel Decameron, i, 1: «Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandis-
simo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo»;
e ancora nella novella di ser Ciappelletto: «e ultimamente cominciò a sospirare e
appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea».
1 Dove tornasse dopo il mercato: quindi in albergo.
2 Al… fornire. è una finale: Fornire ha senso si completare, finire, quindi soddisfa-
re il suo desiderio.
3 La grafia del Petrarca è fortemente latineggiante. Della lingua di Petrarca scrive
G. Contini: «… se non monoglottia letterale, è certa l’unità di tono e di lessico, in
particolare, benché non esclusivamente, nel volgare. Questa unificazione si compie
lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumenta-
le, meramente funzionale e comunicativa e pratica. Tuttavia codesto lume trascen-
dentale del linguaggio è un ideale assolutamente spontaneo, non compatibile con
razionale opera di riflessione. Nessun lacerto teoretico sulla lingua si può avellere
da Petrarca. Se in una Familiare a Francesco Nelli (xvi 14) si ricanta la solita can-
zone della convenzionalità e mutevolezza del linguaggio, quello che ivi domina è
però l’agostiniano (e del resto prettamente oratorio) lamento sulla maggior cura
prestata allo stile che alla permanente legge morale. Sintomatici parranno semmai i
rigurgiti d’impazienza nei riguardi di Dante. Posto che per sua biologica salute, per
il funzionamento della propria organizzazione stilistica, egli doveva imporsene (o
98
Manuale di storia della lingua italiana

del1 dolce loco ov’à sua età fornita2


et da la famigliuola3 sbigottita
che vede il caro padre venir manco;4

procurarsene) l’ignoranza, la sua fioca potenza speculativa non poteva che masche-
rare tanto santa e legittima ignoranza sotto larve di pretesti psicologici. Al nostro
scopo importa che nella lettera famosissima al Boccaccio, quella dove s’affanna a
negare la propria invidia e dove ammette (o simula?) di non essersi procurato la
Commedia per sfuggire ogni pericolo d’imitazione al tempo che, spregevole im-
presa giovanile, egli poetava in volgare, figurino espressioni come queste (Petrarca
ripeteva da Cicerone la tripartizione, e gerarchica, degli stili): “stilus in suo gene-
re optimus”; “popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem haud dubie
nobilis poëtae”. Quanto allo sdoppiamento linguistico, esso sottostà all’innocua
giustificazione che immane nel predicato di nugae o nugellae.
Quarto punto: nessun esperimento, ove non sia quello di lavorare tutta una vita
attorno agli stessi testi fondamentali. O al massimo un esperimento, per stimo-
lo alieno, e non concluso, è da ravvisare nei Trionfi; che sono un vero equivoco,
obliterando come fanno ogni fermento d’accensione narrativa in vantaggio di
un’irrelata visione; trasformando in ingranaggio per mere sorprese foniche quello
straordinario apparecchio per sorprese tematiche ed euristiche: ritmica astratta e
simbolica da autentico Autunno del medio evo. Dunque, perfetta coerenza; ma la
generale uniformità inevitabilmente accentua e ingrandisce le differenze minime,
quali quelle fra canzone e sonetto, o addirittura fra gruppo e gruppo di sonetti…
Fiorentinità anch’essa trascendentale è, per contro, la fiorentinità di questo fioren-
tino della Diaspora bianca, nato esule e stato giusto a balia in Valdarno, cresciuto in
quel Laterano super flumina Babylonis che fu Avignone: la medesima Avignone di
dove il suo amico Simon Martini getterà il seme del gotico internazionale. Ritiene
un senso di presagio, che il fondo italiano su cui di preferenza vediamo campirsi
l’irrequieto turista sia, nonostante le alcune soste nel Centro, da Pisa a Napoli, e
perfino, perfino in Firenze che quel fondo sia piuttosto la goliardica Bologna o
l’agro parmense o la periferia di Milano con la Bassa lombarda, o infine la tratta
euganea fra la laguna e Arquà». G. Contini, Introduzione, a F. Petrarca, Can-
zoniere, Torino, Einaudi, 1964.
1 Significa dal: forse latinismo da de + articolo. Ma cfr. «dal cammino stanco».
2 Il termine è largamente attestato sia nell’accezione di dotare sia in quello di
compiere, eseguire. È derivato dal franco frumjan che aveva l’accezione di eseguire.
3 Il diminutivo è scarsamente attestato.
4 Il valore è di venir meno, ma «manco» deriva dal latino: măncu(m) è una voce
dotta che vale infermo
99
Leonardo Sebastio

indi1 trahendo poi l’antiquo2 fianco


per l’extreme3 giornate di sua vita,
quanto piú pò,4 col buon voler s’aita,5
rotto dagli anni, et dal cammino stanco;6
et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza7 di colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:
cosí, lasso, talor vo cerchand’io,8
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.

Leon Battista Alberti


Della famiglia, l. i (1433-34)

Facciano9 e’ padri sempre riputarsi pur padri, porgansi non odiosi, ma

1 Di lì, dal «dolce loco».


2 Dante preferisce la forma antico/a.
3 Raro in Dante nella forma estremo/a, non esiste nella forma extremo/a. Situa-
zione esattamente opposta in Petrarca.
4 Il fiorentino dittonga un uo. Dante adopera raramente questa forma (due sole
volte nella Commedia). Petrarca spesso. Ma cfr. subito dopo «buon»
5 Dal provenzale aidar, ma era termine assai usato nella lirica siciliana e stilnovi-
stica.
6 Uso assai raro di stanco con valore di participio passato passivo.
7 Dal provenzale semblansa.
8 Se il gerundio eliso è attestato nella poesia italiana sino al Trecento, raro se non
unico è il caso dell’elisione in rima.
9 Scrive a difesa del volgare nel Proemio al iii libro: «Più tosto forse e’ prudenti
mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare
a molti che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dí e’ litterati. E
molto qui a me piacerebbe se chi sa biasimare, ancora altanto sapesse dicendo farsi
lodare. Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e ornatissi-
ma, ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto d’averla in odio, che
in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia. A me par assai di presso
dire quel ch’io voglio, e in modo ch’io sono pur inteso, ove questi biasimatori in
quella antica sanno se non tacere, e in questa moderna sanno se non vituperare chi
100
Manuale di storia della lingua italiana

gravi, non troppo familiari, ma umani. E ricordisi ciascuno padre e mag-


giore1 che lo imperio retto per forza sempre fu manco stabile che quella
signoria quale sia mantenuta per amore. Niuna paura può troppo2 durare:3
l’amore dura molto assai.4 La paura in tempo scema: l’amore di dí in dí
sempre cresce. Chi adunque sarà sí pazzo che stimi in ogni cosa necessario
monstrarsi5 severo e aspro? La severità senza umanità acquista più odio che
autorità. L’umanità quanto sarà più facile e più segiunta6 da ogni durezza,
tanto più meriterà benivolenza e grazia. Né chiamo diligenza, quale par co-
stume più di tiranni che de’ padri, monstrarsi nelle cose troppo curioso. E
fanno queste austeritati7 e durezze più volte diventare gli animi contro e’
maggiori molto più sdegnosi e maligni che ubbidienti. E hanno e’ gentili8
ingegni in sé per male ove siano non come figliuoli ma come servi trattati.
E passino alcuna volta e’9 maggiori non volendo conoscere ogni cosa, più
tosto che non correggendo quello qual monstrano di conoscere. E nuoce
manco al figliuolo in qualche cosa stimar il padre ignorante, che provarlo
negligente. Chi s’avezza a ingannare il padre, meno stima romper fede a

non tace. E sento io questo: chi fusse più di me dotto, o tale quale molti vogliono
essere riputati, costui in questa oggi commune troverrebbe non meno ornamenti
che in quella, quale essi tanto prepongono e tanto in altri desiderano. Né posso io
patire che a molti dispiaccia quello che pur usano, e pur lodino quello che né inten-
dono, né in sé curano d’intendere. Troppo biasimo chi richiede in altri quello che
in sé stessi recusa. E sia quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena
d’autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra s’e’
dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e polita».
1 Persona anziana, ma anche figlio primogenito.
2 Troppo è un avverbio di origine francone, entrata ben presto nel volgare italia-
no; il senso originario è molto, poi con Boccaccio subentra il senso di eccessivo. Il
senso originario è stato recentemente recuperato nel gergo giovanile.
3 Anche nell’uso dell’Alberti l’iperbato è assai frequente
4 Nell’italiano antico e in quello del Quattrocento i superlativi sono spesso ac-
compagnati da intensivi.
5 La grafia latineggiante è quella preferita nell’Alberti e nel Quattrocento.
6 Disgiunta. Latinismo da sēiungo, dove il prefisso se(d) indica allontanamento.
7 Latinismo; ma cfr. «severità», «umanità».
8 Ha valore di nobile.
9 E’ e el sono gli articoli consueti del Toscano: diventeranno i e il.
101
Leonardo Sebastio

qualunque altro si sia istrano.1 In ogni modo adunque si sforzino e presenti


e assenti essere da’ minori pure riputati padri. Alla qual cosa in prima gio-
verà la diligenza. Sarà la diligenza quella che sempre el2 farà da’ suoi amato
e riverito. Sí bene testé, s’e’ padri per premio della passata negligenza loro
si truovano3 avere4 uno cresciuto cattivo, dispongano l’animo più tosto non
lo volere chiamare figliuolo che vederselo disonesto e scelerato.5 Le nostre
leggi ottime, l’usanza della terra nostra, el giudicio6 di tutti i buoni in questo
permetteno7 utile rimedio. Se il figliuolo tuo non ti vuole per padre, nollo8
avere per figliuolo. Se non ti ubbidisce come a padre, sia in lui alquanto più
duro che in uno obbediente figliuolo. Piacciati prima9 la punizione d’uno
cattivo che la infamia della casa. Dolgati manco avere uno de’ tuoi rinchiu-
so in prigione e legato, che uno inimico in casa libero, o fuori una tua pu-
blica infamia. Assai a te sarà inimico chi ti darà dolore e maninconia.10 Ma
certo, Adovardo, chi a tempo ne’ suoi, come tu ne’ tuoi, sarà diligentissi-
mo, costui già mai s’abbatterà in alcuna età se non ricevere da’ suoi molta
1 Non è vocale prostetica (che si ha davanti ai gruppi con s, ma sempre dopo con-
sonante): è un latinismo: extraneu(m).
2 L’Alberti scrive nella Grammatica della lingua toscana: «E’ ed el, lo e la, le e
gli, quali, giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano
pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc.»
3 Negli scrittori toscani del Quattrocento come l’Alberti prevalgono le forme
dittongate; cfr. anche «figliuolo/i» forma che oggi è ancora usata, insieme con
«figliolo/i»
4 L’Alberti preferisce elidere le preposizioni e le congiunzioni davanti all’infinito
retto da verbo.
5 Dal lat. scelus, -eris.
6 Abbiamo già visto come il gruppo latino tj in toscano dia sia zi sia ci o gi.
7 Assai frequente l’uscita in -eno dell 3ª pl. del pres. ind., dell’imperf. ind., del
pass. rem., del condizionale pres.
8 Lo enclitico della negazione assimila la nasale.
9 Prima ha valore comparativo, raro nella lingua scritta e parlata: cfr. Dante,
Convivio, iv, xi, 14: «quelli prima vorrebbero morire che ciò farebbero volentie-
ri», nell’Alberti cfr. qui nel lib. i : «Né a voi sia più caro, né prima desiderata alcuna
cosa che la virtù»; «prima patirò che a’ miei proprii ogni cosa manchi»
10 Non infrequente la forma maninconia, e derivati, nelle scritture Due-Quattro-
centesche, l’Alberti la preferisce a malinconia, che per essere la forma preferita da
Boccaccio e più aderente alla parola greca da cui deriva, risulterà vincente.
102
Manuale di storia della lingua italiana

riverenza e onore, sempre ne riceverà contentamento1 e letizia. Sta la virtù


de’ figliuoli nella cura de’ padri; tanto cresce2 ne’ figliuoli costumi e tema
quanto vogliono e’ maggiori e padri. Né stimi alcuno ne’ suoi verso e’ mag-
giori scemare osservanza e subiezione, se ne’ maggiori non cresce desidia3
e ignavia.

Niccolò Machiavelli
Mandragola (1519)

Ligurio4 Io non credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui;
e quanto la fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lei bella donna, savia,
costumata, ed atta a governare un regno.5 E parmi che rare volte si
verifichi quel proverbio ne’ matrimoni, che: “Dio fa gli uomini, e’6
si appaiono”; perché spesso si vede uno7 uomo ben qualificato sortire
una bestia e, per avverso, una prudente donna avere un pazzo. Ma
della pazzia di costui se ne8 cava questo bene, che Callimaco ha che
sperare. Ma eccolo. Che vai tu9 appostando,10 Callimaco?
Callimaco Io ti aveva veduto col dottore, ed aspettavo che tu ti spiccassi

1 Il suffisso -mento è tra più antichi strumenti, derivato dai provenzali, per la for-
mazione delle parole in italiano
2 Costruzione a senso: il verbo cresce è concordato con uno dei due soggetti, «co-
stumi» e «tema». Qui l’Alberti lo concorda con il secondo dei due soggetti.
3 Pigrizia, dal lati. dese, -idis = ozioso.
4 Ligurio si esprime in una lingua colloquiale, non popolare, ma semplice assai
vicina la parlato; mentre Callimaco è più artificiato nel linguaggio.
5 L’ellissi del verbo è la marca evidente della volontà di Machiavelli di riprodurre
il parlato.
6 Vale il pronome pers. di terza pl.
7 Nell’oscillazione tra un uomo e uno uomo, prevale in Machiavelli questa seconda
forma.
8 La ridondanza del ne («della pazzia… se ne») è ammissibile nella lingua parlata
popolare. Meno tollerabile nella scrittura e nei discorsi formali.
9 La posposizione del pronome personale al verbo è caratteristica della scrittura
teatrale di Machiavelli.
10 Da appostare = fare la guardia.
103
Leonardo Sebastio

da lui, per intendere quello avevi fatto.


Ligurio Egli è uno uomo della qualità che tu sai, di poca prudenzia, di
meno animo: e partesi mal volentieri da Firenze. Pure, io ce l’ho ri-
scaldato, e mi ha detto infine che farà ogni cosa. E credo che, quando
e’1 ti piaccia questo partito, che noi ve lo condurreno;2 ma io non so
se noi ci3 fareno el bisogno nostro.
Callimaco Perché?
Ligurio Che so io? Tu sai che a questi bagni va d’ogni qualità gente, e po-
trebbe venirvi uomo a chi4 madonna Lucrezia piacessi5 come a te, che
fussi ricco più di te, che avessi piú grazia di te: in modo che si porta
pericolo6 di non7 durare questa fatica per altri, e che intervenga8 che
la copia de’ concorrenti la faccino9 piú dura, o che dimesticandosi, la10
si volga ad un altro e non a te.
Callimaco Io conosco che tu di’ el vero. Ma come ho11 a fare? Che partito
ho a pigliare? Dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche
cosa, sia grande, sia periculosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è mo-
rire che vivere cosí. Se io potessi dormire la notte, se io potessi man-
giare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa
1 L’uso del pronome personale (e’) con i verbi impersonali è normale nel fioren-
tino antico.
2 È la forma popolare della 1ª pers. pl. nel futuro. Così anche «fareno» subito
dopo.
3 Ridondanza popolare del pronome personale.
4 Nota l’uso di chi come semplice relativo.
5 Le forme della 3ª pers. sing. del congiuntivo imperfetto in -assi, -essi. -issi sono
assai usate dal Machiavelli benché i grammatici li ritenessero popolari e ne sconsi-
gliassero l’uso. Cfr. subito dopo «avessi».
6 Pur attestata sin dalle scritture del Duecento, l’espressione portare pericolo è
particolarmente amata dal Machiavelli.
7 Eredità dai verba timedi latini che richiedevano dopo il verbo il non.
8 Il significato primario di accadere, capitare, ecc. largamente usato sino al primo
Novecento sta lasciando ilposto al significato di prendere parte.
9 Plurale – popolare – concordato con sostantivo collettivo «copia».
10 Tipico del parlato fiorentino il personale sovrabbondante.
11 Assai largo e vivo è l’uso di avere seguito dalla preposizione a con valore di do-
vere. La sua larga presenza è attestata sin dalla poesia delle origini.
104
Manuale di storia della lingua italiana

veruna,1 io sarei piú paziente ad aspettare el tempo; ma qui non ci è


rimedio; e, se io non sono tenuto in speranza da qualche partito, io
mi morrò in ogni modo; e, veggendo di avere a morire, non sono per
temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele,
nefando.
Ligurio Non dire così, raffrena cotesto impeto dell’animo.
Callimaco Tu vedi bene che, per raffrenarlo, io mi pasco di simili pen-
sieri. E però è necessario o che noi seguitiamo di mandare costui al
bagno, o che noi entriamo per qualche altra via, che mi pasca d’una
speranza, se non vera, falsa almeno, per la quale io nutrisca un pen-
siero, che mitighi in parte tanti mia2 affanni.
Ligurio Tu hai ragione, ed io sono per farlo.
Callimaco Io lo credo, ancora che3 io sappia ch’e pari tuoi vivino d’uc-
cellare4 li uomini. Nondimanco,5 io non credo essere in quel nume-
ro, perché, quando tu el facessi ed io me ne avvedessi, cercherei di
valermene,6 e perderesti ora l’uso della casa mia, e la speranza di avere
quello che per lo avvenire t’ho promesso.
Ligurio Non dubitare della fede mia, ché, quando e’ non ci fussi l’utile
che io sento e che io spero, ci è che ’l tuo sangue si affà7 col mio, e
desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto8 tu.
Ma lasciamo ire9 questo. El dottore mi ha commesso10 che io truovi
un medico, e intenda a quale bagno sia bene andare. Io voglio che tu
1 Ha valore di alcuna. Pronome tipicamente fiorentino.
2 Possessivo plur. femm. eredità del Quattrocento.
3 Ancorché, benché.
4 Uccellare: catturare uccelli con trappole, reti, panie; ingannare insomma.
5 Congiunzione tipica se non esclusiva di Machiavelli che la preferisce di gran
lunga alla assai più usata nondimeno.
6 Vendicarmi.
7 Affare è stato generalmente usato come intransitivo di solito accompagnato da
particelle pronominali mi, ti, ecc.; vale confare. Oggi è assai poco usato.
8 Locuzione rara nella letteratura; vale quasi quanto…
9 Latinismo
10 Anche in questo caso Ligurio adopera un termine di immediata derivazione
latina, committere, con accezione – letteraria – di affidare un compito
105
Leonardo Sebastio

faccia a mio modo, e questo è che tu dica di avere studiato1 in medi-


cina, e che abbi fatto a Parigi qualche sperienzia: lui è per crederlo2
facilmente per la semplicità sua, e per essere tu litterato e poterli dire
qualche cosa in grammatica.
Callimaco A che ci ha a3 servire cotesto?
Ligurio Serviracci a mandarlo a qual bagno noi vorreno, ed a pigliare
qualche altro partito che io ho pensato, che sarà piú corto, piú certo,
piú riuscibile che ’l bagno.
Callimaco Che di’ tu?
Ligurio Dico che, se tu arai4 animo5 e se tu confiderai in me, io ti do questa
cosa fatta, innanzi che sia domani questa otta.6 E, quando e’ fussi7
uomo che non è, da ricercare se tu se’ o non se’ medico, la brevità
del tempo, la cosa in sé, farà o che non ne ragionerà o che non sarà a
tempo a guastarci el disegno, quando bene e’ ne ragionassi.
Callimaco Tu mi risusciti. Questa è troppa8 gran promessa, e pascimi di
troppa gran speranza. Come farai?
Ligurio Tu el saprai, quando e’ fia9 tempo; per ora non occorre che io te
1 Studiare è usato con valore intransitivo; assai frequente nell’italiano antico,
oggi va scomparendo soppiantato dal uso transitivo; tuttavia sopravvive nella locu-
zione studiare di.
2 È una proposizione di adeguatezza implicita (una sorta di consecutiva del tipo è
tale da crederlo; ali piccole per volare).
3 Il verbo avere + da (più raramente a) esprime un’azione futura. Residuo della
formazione del futuro volgare dall’infinito+ habeo.
4 Il futuro arò, arai, arà (avrò, ecc.) è appartiene all’area più larga della Toscana: il
fiorentino preferisce avrò, ecc.
5 Ha significato di coraggio.
6 Largamente usato da Fra Giordano da Pisa nel Duecento e fa Gian Francesco
Grazzini nel Cinquecento il termine è attestato nella letteratura sino alla fine del
xvi secolo. Vale ora.
7 È, nel Quattrocento, la forma prevalente della 3ª pers. sing. cong. imperf. del
verbo essere.
8 È avvertito come aggettivo ma usato con valore di avverbio qui e subito dopo.
Oggi è avverbio quando precede un aggettivo: troppo grande.
9 G. Rohlfs lo dice relitto dell’antico futuro latino; sopravvive sino ai nostri gior-
ni.
106
Manuale di storia della lingua italiana

lo dica, perché el tempo ci mancherà a fare nonché dire.1 Tu, vanne


in casa, e quivi m’aspetta, ed io anderò a trovare el dottore, e, se io lo
conduco a te, andrai seguitando el mio parlare ed accomodandoti2
a quello.
Callimaco Cosí farò, ancora che tu mi riempia d’una speranza, che io
temo non se ne vadia3 in fumo.

Ludovico Ariosto
Orlando Furioso l.i (1532)
8
Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che entrambi avean4 per la bellezza rara
d’amoroso disio5 l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse,6 e diè in mano al duca di Bavera;

9
in premio promettendola a quel d’essi,
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli7 più copia uccidessi,

1 Nota qui e in altri passi la soppressione di preposizioni, congiunzioni, aggettivi


in frasi coordinate.
2 Adattandoti.
3 Congiuntivo presente da vado, is, cfr. In Dante debbia, caggia, aggia, ecc.
4 Forma usuale in vero dell’imperfetto indicativo di avere; solo assai di recente in
via di scomparsa.
5 Disio e desio hanno goduto di grande fortuna nella lirica sino al Novecento.
6 Prendere, levare di mezzo.
7 È forma più latineggiante: Ariosto l’adopera una sola volta, qui. Nel corso del
poema usa la forma infedele.
107
Leonardo Sebastio

e di sua man prestasse1 opra più grata.


Contrari ai voti poi furo2 i successi3;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.4

10
Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi5 al caso6 era salita in sella,
e quando bisognò7 le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella8
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò9 un cavallier ch’a piè venìa.

Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino vi, x (1619)

Il decreto del sacrificio10 non ritrovo nelle memorie11 che porgesse materia

1 Nota le due forme del congiuntivo imperfetto «uccidessi» e «prestasse».


2 Forma arcaica del pass. rem.; altre forme: fuoro, furon, fur.
3 Nel significato di eventi posteriori, successivi.
4 Dove era tenuta prigioniera Angelica, che comunque era già fuggita.
5 La forma non raddoppiata si alterna con innanzi paritariamente sino a tutto il
Seicento.
6 Prima della sconfitta dei Cristiani.
7 Quando si presentò l’occasione.
8 Variante, in verità non molto amata da Ariosto, di ribelle.
9 Forma già attestata nelle lirica stilnovista e sopravvissuta sino all’Ottocento
inoltrato.
10 Sacrificio vale messa. Si tratta di un decreto del concilio che riguardava anche la
lingua in cui si dovesse officiare.
11 Ha valore di rendiconti, note e così via, insomma documenti che tenessero me-
moria di fatti e discorsi. Il termine è ancor oggi in uso nel linguaggio giuridico.
108
Manuale di storia della lingua italiana

a’ raggionamenti,1 e forse causa ne fu perché la lezzione2 delle parole non


rapresenta cosí facilmente il senso, essendo la congettura3 piena di molti et
inculcati4 iperbati,5 quali, se attentamente non sono separati dalle parti pro-
prie dell’orazione, distraono6 l’un dopo l’altro la mente del lettore a diverse
considerazioni, che quando è ridotto7 al fine, non sa che cosa abbia letto.
Della sola proibizione della lingua volgare nella messa da’ protestanti era
detto qualche cosa. E pareva loro contradizzione8 dall’un canto dire che la
messa contiene molta erudizione9 del popolo fedele, e lodare che una parte
sia detta sotto voce e proibir in tutto la lingua volgare, ma poi commandar10
a’ pastori di decchiarare qualche cosa al popolo. A che altri ben risponde-
vano nella messa esser alcune cose recondite, che debbono sempre restar
coperte al popolo incapace, per causa del quale sono sommessamente dette
e tenute in lingua litterale,11 altre di buona edificazione et erudizione, che è
commandato di decchiarare al popolo. Ma a questo veniva replicato con due
opposizioni: l’una, che adonque questa seconda sorte conveniva metterla in
volgare; l’altra, che bisognava distinguere quali sono e queste e quelle, per-

1 V’è nel Seicento non fiorentino, non toscano, molta incertezza circa l’uso delle
doppie. Cfr. subito dopo rapresenta per il quale si può ipotizzare il latino repraesen-
tare. Quanto alla semantica del temine lezzione oggi diremmo significante, mentre
il successivo termine senso corrisponde a significato.
2 Per la zz fu in voga una regola secondo la quale il ti latino seguito da vocale dà z,
il cti e il pti danno zz come in questo caso; ma cfr. anche contradizzione che vengono
rispettivamente da lectione(m) e -dictione(m), mentre considerazioni che deriva da
consideratione(m) e decchiarazione che deriva da declaratione(m).
3 Nella Bibbia volgare del 1500 congettura vale significato.
4 Forzati, dal latino inculcare, mettere a forza.
5 L’iperbato, come abbiamo già detto, è figura retorica che consiste nell’inversio-
ne di elementi della frase rispetto all’ordine naturale.
6 Latinismo: da distrahunt.
7 Giunto.
8 Dal latino contradictione(m), dunque con una d, mentre il nesso latino ct dà zz.
9 Ha valore attivo: «contiene molti contenuti che possono educare il popolo dei fede-
li»
10 Imposto.
11 Latina.
109
Leonardo Sebastio

ché coll’aver commesso1 a’ pastori che spesso decchiarino qualche cosa di


quello che si legge e non distinto che,2 soprastà pericolo che, per defetto di
saper, alcuno de’ pastori decchiari quello che debbe esser conservato in ar-
cano e tralasci quello che merita decchiarazione. I3 studiosi dell’antichità si
ridevano di tali discorsi, essendo cosa notissima che ogni lingua litterale et
al presente ridotta in arte4 fu al suo tempo, nel proprio paese, volgare, e che
la latina, quando in Roma, in Italia tutta e nelle colonie romane, in diverse
provincie fu introdotta nella Chiesa, piú centenara5 d’anni anco dopo fu in
quei luoghi la lingua del volgo; e che resta ancora nel pontificale romano6 la
forma dell’ordinazione de’ lettori7 nella Chiesa, dove si dice che studiano a
legger distinta e chiaramente, acciò il popolo possa intender.
Ma per saper in che lingua debbiano esser trattate le cose sacre, non es-
ser bisogno di gran discorsi: bastar solamente leggere il capo xiv di san Pa-
8

olo nella prima A Corinzii, che, non ostante ogni preoccupazione contraria
della mente, qual si voglia persona resterà ben informata, e chi vorrà saper
qual fosse già il senso della Chiesa romana e quando e perché la corte mutas-
se pensiero, potrà osservare che Gioanni papa viii, dopo aver per l’inanzi
fatto una severissima riprensione a moravi del celebrar la messa in lingua
slava, con precetto d’astenersene, nondimeno, meglio informato, dell’880
scrisse a Sfentopulcro, loro prencipe, overo conte, una longa lettera, dove
non per concessione, ma per decchiarazione afferma che non è contrario
1 Affidato.
2 Neutro: che cosa.
3 Ancora nell’Ottocento era usuale trovare l’articolo plurale i davanti a s seguita
da consonante. Cfr. L. Ariosto, Cinque canti, iii, 78: «e fermati a Valenza avea
i stendardi»; B. Castiglione, Libro del Cortegiano, II, 37: «tanto forte, che i
staffieri non possan lor tener dietro»; G. Vasari, Vite, iii, 50, Perino del Vaga, 126:
«vi si lavorava di già i stucchi».
4 Ora grammaticalizzata.
5 Centinaia.
6 Il Pontificale Romano è la raccolta delle prescrizioni liturgiche per i riti della
Chiesa Cattolica.
7 I lettori erano collaboratori degli officianti. Essi ricevevano l’investitura dal
papa che affidava loro il libro delle Sacre Scritture; non erano ordinati, come affer-
ma il Sarpi: l’ordinazione era riservata ai sacerdoti.
8 È un infinito gnomico; come il successivo bastar.
110
Manuale di storia della lingua italiana

alla fede e sana dottrina il dire la messa e le altre ore1 in lingua slava, perché
chi ha fatto la lingua ebrea, greca e latina, ha fatto anco le altre a sua gloria,
allegando per questo diversi passi della Scrittura et in particolar l’ammoni-
zione di san Paolo a’ Corinzii.

Cortese, Giulio Cesare


Li travagliusi ammuri de Ciullo e Perna (1614)

L’affezione grande che porto a V.S. e l’obreco che tengo de correspon-


nere ’n vita ’ternale a li favore, che me avite sempre maie fatto, me sfrozano
de fare testemonio a lo munno co lo presente libro, che le dedeco, de quanto
desederio aggio de servireve. Siate adonca contento de receverelo de buono
anemo; né ve sia a nespiacere, che a na persona, che ha fatto acossí luongo
studio alle lettere toscanese commo V. S., venga io mo a dare n’opera ’n len-
gua napoletana: perché se volimmo buono conziderare la lengua nostra non
have che ’nmediare alla sciorentina, né lo sciummo d’Arno pò fare n’accepe
cappiello allo Sebeto2 nuostro. Perché, se la lengua de Sciorenza oie è lo cuc-
copinto delli scritture, grammerzé allo Voccaccio che co la vocca d’urzo le
ieze danno forma, la nostra se avesse auto n’autro che l’avesse scergata co na
cotena de lardo, fuorze, sarria deventata chiú lustra e chiú bella de na cascia
de noce.
Tanto chiú che la materia è cossí atta a recevere bella forma, commo
la sciorentina, e fuorze meglio: perché, levannoce la passione dall’uocchie,
vedarrimmo che, se ben sta votte della lengua napoletana pe lo concurzo
delli lanze scotte e de tant’aute barbare che vennero co li Gotte a ’Talia ha
pigliato no poco d’acito, tutta vota ancora se canoscie ch’è stata de grieco
buono ped esserence restato quarche rommasuglia de chello buono addore.
E che sia lo vero fi’ ad oie se sente pe bocca dello puopolo dicere «chiafeo»,
«pacchiano», «vastaso», «catamelle», «cato», «astraco», «scafuta-
re», «sciglio», «ienimma» e ba descorrenno, che ponno servire de fede
e de credeto, pe pigliare dallo banco della fama tanta grolia d’essere la chiú

1 Sono le ore liturgiche della giornata: il Mattutino, il Vespro ecc.


2 È il fiume di Napoli.
111
Leonardo Sebastio

bella lengua de ’Talia.1

Parini Giuseppe
Orazione inaugurale (1769)

… convien confessare che ne la pittura, ne la scultura, ne le altre arti, che


vanno al nostro cuore per la via dell’occhio, non possono gran fatto servire
alla perfezione dell’eloquenza e della poesia, alle quali si riferiscono tutte

1 Il grande affetto che porto alla Signoria Vostra e l’obbligo contratto di dare
eternamente riscontro dei favori che sempre mi avete fatto, mi costringono a darne
testimonianza pubblica con il presente libro, che Vi dedico con tutto il desiderio
che ho di servirvi. Compiacetevi, dunque, di ricerverlo di buon animo; e non vi
dispiaccia che io venga ora ad offrire un libro in lingua napoletana ad una persona
che, come la Signoria Vostra, ha fatto lunghi studi sulle lettere toscane: perché, se
vogliamo ben considerare, la nostra lingua non ha nulla da invidiare alla fiorentina,
né il fiume Arno ha nulla da insegnare al nostro Sebeto; ché, se la lingua di Firenze
oggi è l’oggetto del desiderio di tutti gli scrittori (grazie a Boccaccio che con una
bocca d’orzo le dette forma) la nostra, se avesse avuto un altro che l’avesse levigata
con una cotenna di lardo, sarebbe forse diventata più lucida e più bella d’una cassa
di noce. Tanto più che la materia è così adatta a ricevere una forma bella, quanto la
fiorentina, e forse anche migliore: infatti, anche a toglierci dagli occhi il velo della
passione, vedremmo che, benché questa botte della lingua napoletana sia andata
un poco in aceto, per le incursioni dei lanzichenecchi e dei tanti altri barbari che
vennero in Italia con i Goti, tuttavia ancora si può riconoscere che è derivata da
buon greco perché è rimasto qualche residuo di quel buon odore. E che sia vero
(si vede dal fatto che) sino ad oggi si sente dire da popolani «chiafeo», «pacchia-
no», «vastaso», «catamelle», «cato», «astraco», «scafutare», «sciglio», «ie-
nimma» e via discorrendo, che possono servire come salda garanzia per prendere
dal banco della fama la gran gloria d’essere la più bella lingua d’Italia. Ma perché
dubitare ? io sono sicuro che non sdegnerete cose scritte in questa lingua: poiché
alla greca, alla latina e alla toscana, in ciascuna delle quali siete tanto fecondo, avete
voluto aggiungere la napoletana, nella quale scrivete con tanta grazia: giacché v’è
parso che, così come il carro del Sole è tirato da quattro cavalli, il carro della vostra
luce non potesse andare diritto con tre lingue solamente. Per questo, dunque, con
animo di leone vi faccio questo presente, e se potessi darvi cosa più ponderosa,
lo farei tanto volentieri dal momento che il dare a voi è dare a me stesso: poiché
proprio a causa dell’amicizia, che intercorre fra noi, le nostre anime sono un stessa
cosa.
112
Manuale di storia della lingua italiana

le opere che si chiamano d’immaginazione e di sentimento; e ciò, a mio


parere, per due ragioni. La prima di queste, e la più ovvia, si1 è che le ope-
re del pennello e dello scarpello2 non sono facilmente traducibili di luogo
in luogo, e sono manco3 atte ad esser divulgate e multiplicate col genuino
loro carattere fra le nazioni. L’altra e la più forte si è che, non valendo né
la pittura né la scultura se non a cogliere un istante circoscrittissimo dell’a-
zione o della passione, ed a rapresentarlo4 colla verità che gli conviene nella
tela o nel marmo, non possono esse altro fare fuorché un’impressione mo-
mentanea sul nostro spirito; e siccome questo momento indivisibile non
ammette successione veruna, e per conseguenza nessun cambiamento d’af-
fetti e d’espressione, noi non torniamo così facilmente alla contemplazione
dell’oggetto che prima ci era piaciuto, o non vi torniamo colle innocenti
disposizioni di prima.5 Ma tutto altrimenti6 accade delle opere d’eloquenza,
di poesia, e di tutte in somma7 le opere d’immaginazione o parlate o dipin-
te col segno della parola. Siccome queste rappresentano azioni e passioni
successive, che camminano per gradi e vanno di passo in passo crescendo; e

1 Particella pronominale pleonastica: cfr. il fatto si è che. Forse su calco del france-
se che esige il soggetto il anche negli impersonali. In italiano l’uso della particella
pronominale col verbo essere è raro o ricercato.
2 È una delle tante varianti grafiche dell’italiano del ’700. Varianti grafiche sono
pure «multiplicare», «benivolenza».
3 Meno.
4 Permaneva l’oscillazione tra doppie e scempie soprattutto in quelle parole in cui
l’uso toscano differiva da quello latino.
5 Periodo complesso per contenuto: poggia su due frasi distinte dal punto e vir-
gola: la seconda esprime la conseguenza di ciò che è affermato come verità evidente.
Nella prima frase avremo l’avvio della principale con la congiunzione introduce
una soggettiva con funzione di predicato (L’altra… che) che subisce l’interruzione
di un lungo inciso costituito da una causale implicita gerundiva che a sua suolta
regge due limitative coordinate, e finalmente la esplicitazione della soggettiva che
contiene la tesi principale. La seconda frase inizia con una causale, prosegue con
una consecutiva e solo dopo le principali coordinate da un’avversativa con conten-
gono la dimostrazione della tesi. Tutto il passo qui citato si modula su questo tipo
di architettura classica del periodo.
6 In altro modo, diversamente.
7 Parini preferisce le forme distinte.
113
Leonardo Sebastio

queste passioni massimamente conducono seco1 varie gradazioni d’interes-


se, e per conseguenza corredo sempre diverso di sentimenti e d’immagini,
e progressiva e continua novità ne’2 modi e ne’ colori dell’espressione; così,
colle replicate loro ma sempre diverse scosse, richiamano continuamente,
per la via del cuore, l’attenzione del nostro spirito, esercitano lungamente la
nostra facoltà di sentire, e la rendono piú delicata e più agevolmente altera-
bile alla presentazione del Bello. Alle quali frequenti e dolci perturbazioni
dell’animo si risente,3 si sveglia la fantasia del giovane artista; crea egli, an-
che non volendo, delle immagini conformi,4 sente la ricchezza delle proprie
forze; finalmente, subentrando l’amor della gloria, tenta, riesce, si applaude
e grida coll’immortale Correggio: – Io son pittore anch’io. – Aggiunga-
si che, per agevolar5 tanto più questo, per così dire, nobile innestamento
dell’entusiasmo,6 sono troppo facili a multiplicarsi ed a divulgarsi gli eccel-
lenti esemplari dell’eloquenza e della poesia; e possono essi, per mezzo della
scrittura, volare inalterabili da un capo all’altro della terra, e passar sotto gli
occhi e penetrar per gli orecchi di tutti, e, in un’arte o nell’altra, risvegliar
dei talenti che senza di questo avrebbon7 perpetuamente dormito.
Io non rifletto giammai a quella famosa età della Repubblica d’Ate-
ne, nella quale si vide, quasi in un momento, sorgere e perfezionarsi ogni
bell’arte, diffondersi l’ordine, l’eleganza, la venustà, la magnificenza sopra
tutto il materiale della città, e nel tempo medesimo l’eloquenza, la gentilez-
za, la soavità, la benivolenza, l’atticismo8 finalmente, spargersi per tutte le
1 Latinismo da secum, con lui/lei. Di uso letterario le forme latine meco teco sono
state recuperate dal gergo giovanile.
2 Pressoché costante nel ’700 la forma tronca di nel, nei.
3 Torna in sé.
4 Simile ai suoi sentimenti.
5 Favorire lo slancio poetico.
6 L’entusiasmo, sentimento d’esaltazione con il convincimento di possedere la
verità, fu a lungo ritenuto fonte della poesia, da Platone ad Aristotele. Più vicino a
Giuseppe Parini ne scrissero Giovan Vincenzo Gravina (Della ragion poetica), Save-
rio Bettinelli (Dell’entusiasmo delle belle arti), Ludovico Antonio Muratori (Della
forza della fantasia umana).
7 L’uscita in -ebbono della terza plurale del condizionale presente è, nel ’700, con-
siderata normale.
8 Etimologicamente indica la proprietà di linguaggio, in questo contesto ha
114
Manuale di storia della lingua italiana

case, e formare il carattere di tutti i cittadini ; io, dissi, non rifletto giammai
a quella famosa età, che non mi paia di vedere il facondo Pericle così ragio-
nare al popolo ateniese…

Giacomo Leopardi
Operette morali. Dialogo di Plotino e Porfirio (1827)

Plotino. Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei
maravigliare se io vengo osservando1 i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo
stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai
sul cuore.2 Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso
molto; hai una certa guardatura,3 e lasci andare certe parole: in fine,
senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi4 in
capo una mala intenzione.
Porfirio. Come, che vuoi tu dire?
Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo
augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non
far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tan-
to tempo. So bene che io ti fo5 dispiacere a muoverti questo discorso;
e intendo che ti sarebbe stato caro di6 tenerti il tuo proposito celato:
ma in cosa di tanto momento io non poteva7 tacere; e tu non dovresti
avere a male di conferirla8 con persona che ti vuol tanto bene quanto
a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando

estensione più ampia ed indica gusto, urbanità, eleganza.


1 È una costruzione modellata sulla lingua francese.
2 Espressione caduta in disuso, ma frequente nella lingua italiana sino al primo
Novecento. Probabilmente sostituita a nel cuore per distinguerla da stare sullo sto-
maco.
3 Sguardo. È termine antico della lingua italiana tuttora in uso.
4 Frequente questa terminazione del congiuntivo presente: abbi, facci, vadi, ecc.
5 È la forma toscana che s’è generata per analogia con do e sto.
6 Introduce una soggettiva. In antico si usava il che; oggi si preferisce senza.
7 È ancora assai frequente l’uscita in -a dell’imperfetto indicativo.
8 È usato transitivamente: usa oggi pressoché scomparso.
115
Leonardo Sebastio

le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io


merito da te questo: e in ultimo io non sono già per impedirti1 che tu
non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.
Porfirio. Io non ti ho mai disdetto2 cosa che tu domandassi, Plotino mio.
Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non
confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che
tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci
ponghiamo3 a ragionare sopra questa materia; benché l’animo4 mio
ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni pare che si com-
piacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri
ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io
sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io
stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna
sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi soprag-
giunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così
veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non so-
lamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa
che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l’intelletto
mio, ma tutti i sentimenti,5 ancora6 del corpo, sono (per un modo
di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui
primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non
sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella7 in buona

1 Costruzione alla latina col ne e il congiuntivo: cfr. Cicerone, De fato, § 1: «in


hac disputatione de fato casus quidam ne facerem impedivit»
2 Obsoleto è il significato di rifiutato: scomparso nei primi decenni dell’Ottocen-
to.
3 G. Rohlfs parla di un gruppo di verbi toscani che al presente hanno l’uscita in
-go non etimologica: vengo, tengo, pongo, rimango ecc. che sarebbe originato dal pa-
rallelismo antico con giugniamo, pugniamo, fragniamo, piagniamo, ecc. e vegniamo,
pogniamo, rimagniamo ecc. La velare della prima persona si sarebbe poi estesa ad
altre persone così si è avuto tenghiamo, venghiamo, ponghiamo ecc.
4 Intento, decisione.
5 Ingloba il significato di sensazioni.
6 Ha valore di congiunzione: anche, inoltre.
7 Si riferisce a «disposizione», non a persona.
116
Manuale di storia della lingua italiana

parte provenga da qualche mal essere1 corporale. Ma ella nondimeno


è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori
di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi 2che la
vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual
meno, rimote3 dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in
qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è più ragionevole che
la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell’a-
nimo, per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia,
a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico
del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual nasce sem-
pre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non
è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro vano,
alla noia riducasi, e in lei4 consista, quanto la vita degli uomini ha di
sostanzievole5 e di reale.

Alessandro Manzoni
I promessi sposi (1840)

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso
casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628 don Abbondio, cura-
to d’una delle terre accennate di sopra:6 il nome di questa, nè il casato del
1 Frequente è l’uso delle forme separate.
2 Si noti l’uso dei due modi «si vive» e «stimasi».
3 Cfr. Passero solitario: «… in questa parte / rimota alla campagna». Dopo la
storia dell’astronomia sempre la forma rimoto.
4 Come ella anche lei si riferisce a noia: non che manchino nelle Operette le forme
esso, essa, che pure hanno largo impiego; i pronomi si alternano in maniera indiffe-
renziata.
5 Forma aggettivale arcaicizzante, letteraria e rara di sostanza; le uscite in -evole
furono care a G.B. Vico ed Alessandro Verri.
6 Il primo periodo di quest’avvio di narrazione è costituito da cinque proposi-
zioni reggenti coordinate distinte in due gruppi (le prime 3 con la congiunzione
e, come le ultime 2). I 2 gruppi sono distinti dai due punti (:) che qui non han-
no la specifica funzione dichiarativa esplicativa, ma quella, più rara, di semplice
scansione del periodo, le cui parti sono insieme divise e collegate (il collegamento
è qui evidente nell’avv. temporale poi). All’interno di ogni reggente v’è almeno
117
Leonardo Sebastio

personaggio, non si trovan1 nel manoscritto, nè a questo luogo nè altrove.


Diceva tranquillamente il suo ufizio,2 e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiu-
deva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra,
e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino,
guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che fa-
cevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli

una subordinata implicita espressa col part. passato o col gerundio: tenendo, messa,
guardando, buttando ecc. che arricchiscono il patrimonio delle subordinate espli-
cite: la relativa che facevano, la locativa dove ... si dipingeva. Fatta eccezione per la 1ª
propos. (Diceva tranquillamente il suo ufizio che presenta tuttavia l’avv. tra il verbo
e il compl. oggetto) nelle altre il sogg. è distanziato dal verbo con incisi solitamente
verbali, che precisano, arricchendola l’azione. Ciò conferisce alla scrittura di M.
un andamento largo e piano, che mira a cogliere la complessa varietà delle vicende,
degli uomini, delle cose. Il periodo successivo, pur venendo dopo un punto fermo,
presenta un poi, identico a quello utilizzato nel precedente ed offre la stessa strut-
tura sintat­tica (cfr. l’uso del (:) non dichiarativo) sì da sembrarne naturale, non
sintattica, prosecuzione. Nuovo è quello che inizia con Dopo la voltata, nel quale la
sintassi cambia: presenta lo schema diretto di sogg.-verbo-espansioni che affretta e
drammatizza il racconto. Ma cfr. Il curato, voltata… in cui torna la struttura allarga-
ta del periodo. M., dunque, procede alternando una modalità all’altra.
1 L’apocope è frequentissima nella prosa manzoniana.
2 Termini come casato, ufizio, oziosamente, fessi, squarcio, confluente, omero ecc.
appartengono ad un lessico che oggi noi sentiamo come letterario, come pure
sentiamo letteraria la struttura del periodo manzo­nia­no. L’autore, invece, faceva
riferimento al linguaggio medio, parlato, che a quello letterario si opponeva: il ro-
manzo rappresenta infatti una vera e propria rivoluzione linguistica in direzione
del popolare e del vivo. Notoriamente l’autore sottopose l’edizione del 1827 (in cui
la popolarità coincideva col dialetto milanese) alla risciacquatura in Arno; ciò però
non significò l’adozione di forme popolaresche come ad es. spengere per spegnere,
piagnere per piangere; o delle forme dell’imperf. indic. in -ea, alle quali preferisce
quelle in -eva. I Promessi Sposi valsero anche a regolarizzare definitivamente molte
forme della lingua italiana e ad individuare un linguaggio ‘medio’ capace di unifi-
care la nazione appena nata. Qui non è il luogo d’illustrare meriti e peculiarità della
lingua manzoniana: piuttosto andrà notato che la distanza che oggi noi avvertiamo
da essa corrisponde ad un itinerario d’impoverimento dell’italiano medio, nel qua-
le l’uso di vocaboli stranieri assume anche, se non sempre più, il ruolo di supplenza
a termini, pur italiani, ma perduti dall’uso comune. Un recu­pero, sia pur parziale,
del lessico del romanzo manzoniano varrà ad arricchire di eleganza e di precisione
terminologica il nostro linguaggio moderno.
118
Manuale di storia della lingua italiana

occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già
scomparso, scappando per i fessi1 del monte opposto, si dipingeva qua e là
sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi
di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata del-
la stradetta dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi
dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata,2 la strada correva
diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia
d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura:3 l’altra
scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arri-
vava che all’anche del passeggiero.4 I muri interni delle due viottole in vece
di riunirsi ad angolo terminavano in un tabernacolo sul quale eran dipinte
certe figure lunghe, serpeg­gianti, che finivano in punta, e che, nell’inten-
zion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato volevan dir fiamme;
e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che
volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur5
un fondo bigiognolo,6 con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, volta-
ta7 la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide
una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomi-
ni stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due
viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba
spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il com-
pagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’a-
bito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva
distinguer del­l’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’ome-
ro sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un

1 Da fendere, vale fessura, in Dante, Inf. xxviii, 32-33 «Alì, / fesso nel volto dal
mento al ciuffetto»; Purg. ix, 75-77: «pur come un fesso che muro diparte, / vidi
una porta, e tre gradi di sotto».
2 Raro ma non rarissimo nel senso di svolta, curva.
3 Parrocchia.
4 La grafia delle palatali è ancora oscillante.
5 Si tratta di un r parassita, quindi vale semplicemente su.
6 Colore tendente al grigio chiaro.
7 È part. passato: dopo aver percorso la stradetta che curvava.
119
Leonardo Sebastio

enorme ciuffo: due lunghi mustacchi1 arricciati in punta: una cintura lucida
di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,
cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spun-
tava fuori d’un ta­schi­no degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una
gran guardia traforata a lamine d’ottone, con­gegnate come in cifra, forbite
e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’
bravi.

Giovanni Verga
Rosso Malpelo (1878)

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli


rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire2
un fior di birbone.3 Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Mal-
pelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi
dimenticato il suo nome di battesimo.4
Del resto, ella5 lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa
con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a te-

1 Baffi.
2 Variante meno usuale di riuscire.
3 Parola assai cara ad A. Manzoni.
4 In questo primo capoverso si contano due periodi. Entrambi costituiti da due
frasi nettamente distinte dal punto e virgola. La prima frase è costituita da una
principale ed una dichiarativa. La seconda, introdotta dalla coordinazione, sembra
ripetere lo schema e le parole della prima: ma questa volta il perché non è dichia-
rativo ma causale. Chiude il periodo una semplice relativa. Nel secondo periodo la
prima frase dovrebbe essere una principale, ma è introdotta da un sicché consecu-
tivo, tal che deve essere interpretata come una conclusiva; la seconda frase si apre
con una coordinazione, e contiene un’inciso, una causale implicita all’infinito di
stampo colloquiale. Il lessico è piuttosto sostenuto («ragazzo malizioso e cattivo»,
«prometteva di riescir un fior di birbone», ««sentirgli dir sempre a quel modo»).
Innovativa la sintassi: il periodo breve rivoluziona i nessi della scrittura manzonia-
na e si avvicina al parlato nel quale la e svolge una funzione di aggiunzione quasi
improvvisata.
5 Ella è più letterario di essa, che invece Manzoni preferì, addirittura sostituendo-
la perché avvertita meno colta, per avvicinarsi alla lingua parlata.
120
Manuale di storia della lingua italiana

mere che ne sottraesse1 un paio, di quei soldi:2 nel dubbio, per non sbagliare,
la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non
più; e in coscienza3 erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio4 che
nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can
rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero5 un brutto ceffo,6 torvo, ringhioso, e selvatico. Al mez-
zogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio
la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantuc-
ciarsi col suo corbello7 fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane otto
giorni, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteg-
giandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante8 lo rimandava al lavo-
ro con una pedata.9 Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio

1 Nota questo esattissimo imperfetto congiuntivo.


2 Ripetizione tipica del parlato: tanto che pare che sia parole dette dalla madre.
3 Qui comincia il discorso indiretto libero, senza alcun indicatore (disse, pensò
ecc.), tecnica del tutto sconosciuta al Manzoni e ai ronazieri ‘classici’.
4 Ben strano questo termine in bocca al padrone della cava, certo furfante e pro-
fittatore dei suoi sottoposti. Con monellaccio il grillo parlante definisce Pinocchio.
Il peggiorativo in -accio è toscano, in siciliano avremmo -azzo.
5 Questo «davvero» sembra confermare le parole de padrone della miniera.
6 Il ceffo è propriamente il muso del cane; si ricollega a «can rognoso» e prelude
a «ringhioso» (e «selvatico») e a «rosicchiarsi» e «bestie sue pari». Il paragone
diventa metafora e la metafora realtà.
7 È termine ricercato per indicare un cesto di vimini o di legno per usi vari: in
questo caso per contenere e trasportare carbone.
8 Come aggettivo è ricorrente in letteratura; sostantivato, per indicare una carica,
è del Verga che più avanti conia cottimante, per altro assai restio a sostantivare i
participi presenti (fatta eccezione dello comune comandante).
9 Qui il periodo si distende in un serie di subordinate e coordinate; tuttavia man-
tiene una solida linearità: la temporale («mentre…» e la sua coordinata) precede,
come avviene preferibilmente in italiano, la principale il cui soggetto è Rosso segui-
ta dalla comparativa; la «e» che segue non coordina ma ha funzione aggiuntiva,
tant’è che il soggetto cambia e tornano ad essere gli «altri operai», inaugurando
una nuova frase che poteva benissimo essere preceduta da un punto fermo. Scrive
L. Russo:«Gli e sono i legamenti popolareschi rifatti con sorvegliata malizia dallo
scrittore, come se lasciasse la parola a uno di quei primitivi […]. Gli e così numero-
121
Leonardo Sebastio

dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo1 di rena
rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo:2 nondimeno
era conosciuto come la bettonica3 per tutto Monserrato e la Carvana,4 tanto
che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto
al padrone gli5 seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e
perché mastro Misciu,6 suo padre, era morto nella cava.
Era morto così, che7 un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso
a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che
non serviva più, e s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40
carra8 di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava
ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un
minchione9 come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare10 a questo11
modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed
era l’asino da basto di tutta la cava. Ei,12 povero diavolaccio, lasciava dire, e si
contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso
ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio,13 come se quelle
samente assiepati, come gli e di certe prose candide e ingenue del Trecento […]»,
La lingua di Verga, Bari, Laterza 1941, p. 45.
1 Più tardi preferirà sporco, forse perché «lordo» è assai vicino al siciliano lordu.
2 Altre locuzioni di una colloquialità ricercata.
3 È un erba assai diffusa, ritenuta medicinale. La locuzione è di origine letteraria,
divenuta poi popolare. In dial. bittonica.
4 Due località nei pressi di Catania.
5 La ripetizione pronominale è tipica della lingua parlata.
6 Ipocorismo di Domenico.
7 È un che che non ha funzione sintattica, è della lingua popolare. Verga qui sem-
bra affidarsi al racconto di qualcuno: si notino le tante e aggiuntive che costellano
il periodo e di cui s’è detto.
8 L. Russo, op. cit. p. 48, dice questo termine (neutro plurale) toscano «letto
probabilmente su qualche via di Toscana. In dial. siciliano sarebbe carrata, quanto
può in una volta portare una carro.
9 Vera e propria traslitterazione del siciliano minchiuni.
10 Anche il siciliano ha gabbari.
11 È spia del discorso diretto libero.
12 Introduce due periodi dal lessico più ricercato, ma dalla sintassi colloquiale.
13 Forma rara in letteratura. Probabile traslitterazione dal siciliano del dispregiati-
122
Manuale di storia della lingua italiana

soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quel-
le occhiate che facevano dire agli altri: – Va là,1 che tu non ci morrai nel tuo
letto, come tuo padre –.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buo-
na bestia. Zio Mommu2 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non
l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è
pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare
l’avvocato.3

D’Annunzio Gabriele
Il piacere

Alle undici egli era d’innanzi al palazzo; e l’ansia e l’impazienza lo di-


voravano. La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero,
l’incertezza gli accendevano l’imaginazione, lo sollevavano dalla realità.
Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbraio, un plenilu-
nio favoloso, di non mai veduto lume. L’aria pareva impregnata come d’un
latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno,
parevano imagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan esser vi-
sibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve co-
priva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un’opera
di ricamo più leggera e più gracile d’una filigrana, che i colossi ammantati
di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giar-
dino fioriva a similitudine d’una selva immobile di gigli enormi e difformi,
congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime
paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava
l’aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un’ombra ceru-
lea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano
alla vera architettura dell’edifizio il fantasma d’una prodigiosa architettura
ariostèa.
vo -azzu
1 Verga toscaneggia, teme l’uso generalizzato degli idiotismi dal dialetto.
2 Ipocorismo di Giacomo.
3 Detto siciliano italianizzato.
123
Leonardo Sebastio

Chino a riguardare, l’aspettante1 sentiva sotto il fascino di quel miracolo


che i fantasmi vagheggianti dell’amore si risollevavano e le sommità liriche
del sentimento riscintillavano come le lance ghiacce dei cancelli alla luna.
Ma egli non sapeva quale delle due donne avrebbe preferita in quello scena-
rio fantastico: se Elena Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres vestita
d’ermellino. E, come il suo spirito piacevasi d’indugiare nell’incertezza del-
la preferenza, accadeva che nell’ansia dell’attesa si mescessero e confondes-
sero stranamente due ansie, la reale per Elena, l’imaginaria per Maria.
Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibran-
te; e pareva come se qualche cosa di vitreo nell’aria s’incrinasse a ognun de’
tocchi. L’orologio della Trinità de’ Monti rispose all’appello; rispose l’oro-
logio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Erano le undici
e un quarto.
Andrea guardò, aguzzando la vista,2 verso il portico. – Avrebbe ella osa-
1 I participi presente qui usati, aspettante, vagheggianti, recuperano la funzio-
ne verbale che nel linguaggio parlato è del tutto estranea: tale funzione ricorre (e
raramente) nella letteratura, D’A., invece, l’accentua, ottenendo lo scopo di una
descrizione sincretica del complesso stato d’animo di Andrea Sperelli: è così che
i fantasmi dell’amore sono vagheggianti: non sono semplicemente immagini che
appaiono alla mente, ma di loro la mente si compiace con desiderio e passione.
Tuttavia servono anche ad allontanare dal quotidiano e dalla realtà la situazione.
Tutto in questo capoverso è fuga dal banale: le pulsioni del sentimento diventano
sommità liriche, che si accendono non delle solite fiamme della passione, ma, con
un originale ossimoro, dei bagliori candidi e freddi della neve che ricopre le lance...
dei cancelli. Quella neve ghiacciata riscintilla. Non meraviglia che nello scenario
fantastico, ove s’avverte il fascino del miracolo, realtà, sogni e simbolo (porpora =
la passione; ermellino = la purezza) vivano insieme in una dimensione estetica.
2 Il periodo sintattico di D’A. si presenta per solito nella struttura di sogg. verbo
oggetto o espansioni: pertanto il suo stile è, sintatticamente, elementare, tanto più
che tra le frasi e tra i periodi prevale la paratassi (la coordinazione). Rara la subor-
dinazione, all’interno della quale D’A. predilige le forme implicite del gerundio e
del participio (pres. e pass.) che non si pongono come proposizione diversa dalla
reggente: Andrea guardò, aguzzando la vista, verso… Ogni periodo pertanto enun-
cia un solo particolare, con l’effetto di frammentare la narrazione, tanto più che i
periodi si succedono con egual valore: è evidente l’intenzione di farli coincidere
cronologicamente, sì che i particolari sono allineati l’un dopo l’altro per destare nel
lettore un’impressione unica e sincronica. Proprio per questo modo di procedere
senza legami tra i periodi (asindeto) e per il fine di comunicare un’impressione
124
Manuale di storia della lingua italiana

to attraversare a piedi il giardino? – Pensò la figura di Elena tra il gran can-


dore. Quella della senese risorse spontanea, oscurò l’altra, vinse il candore,
candida super nivem. La notte di luna e di neve era dunque sotto il dominio
di Maria Ferres, come sotto una invincibile influenza astrale. Dalla sovrana
purità delle cose nasceva l’imagine dell’amante pura, simbolicamente. La
forza del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta.
Allora, sempre guardando se l’altra venisse, egli si abbandonò al sogno
che gli suggerivano le apparenze delle cose.

Luigi Pirandello
Il treno ha fischiato

Farneticava.1 Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo


unitaria si può affermare che quello che la sintassi chiama periodo sia da D’A. sosti-
tuito dall’intero capoverso in cui i periodi coincidono con le proposizioni, paratat-
tiche e asindetiche: il periodo Un orologio suonò da presso … è significativo. Il primo
periodo è costituito da due proposizioni divise dal punto e virgola ma unite dalla
coordinazione e con funzione esplicativa – a rigore dovrebbero essere due periodi
distinti visto che il punto e virgola è assimilabile al punto fermo –. Subito dopo 1)
un periodo legato al precedente dal significato del verbo rispose; e poi 2-3)altre due
proposizioni-periodi il cui legame con il n. 1) non è logico ma formale, per la ripe-
tizione (anafora) del verbo rispondere. Dunque i campanili di Roma suonano l’ora:
lo scrittore li distingue e distinguendoli accumula particolari ed allarga spazialmen-
te la dimensione del suono. L’ultimo periodo, Erano le undici e un quarto, benché
non presenti alcun nesso sintattico esplicito, aggruma in un unico spazio temporale
tutte le precedenti pro­posizioni, sì che i rintocchi della campane provenienti da
luoghi diversi si fondono nell’attimo in cui Andrea Sperelli prende atto dell’ora.
1 Il primo periodo della novella è costituito da una sola frase: la frase da un solo
verbo: manca il soggetto. Farneticava vien dato come il dato più rilevante, già come
l’oggetto di cui l’autore disvelerà l’ingannevolezza. In questa maniera il narratore
anticipa il nucleo della vicenda che in seguito esporrà (prole s si della vicenda). Il
2º periodo è costituito da quattro frasi di cui la 1ª è un d i s cor s o d i re t to , benché
non presenti le rituali i nter pu n z ion i di riconoscimento; anche in questa occupa
la prima posizione un’espressione che è conferma del concetto contenuto nel 1º
periodo: Principio di febbre cerebrale è traduzione in termini medici del comune e
popolare farneticava.
125
Leonardo Sebastio

ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospi-


zio, ov’erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termi-
ni scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che
incon­travano per via:
– Frenesia, frenesia.
– Encefalite.
– Infiammazione della membrana.
– Febbre cerebrale.
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per
quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospi-
zio al gajo azzurro della mattinata invernale.
– Morrà ? Impazzirà ?

Il giudizio della condizione del protagonista tende a divenire inconfutabile proprio


dall’autorevolezza del lessico medico, prima ancora che dalla esplicitazione che si
tratta di un referto medico. La 2ª frase del periodo è introdotta da una e che ha valo-
re e spl ic at i vo (=perciò) e dunque è ulteriore conferma, come lo sono la seguente
re l at i va (ritornavano) e la lo c at i va (visitarlo). La relativa allarga l’orizzonte del-
la realtà umana in cui s’è originato (o, meglio, da cui è stato determinato) l’evento
frenetico e nel quale stesso risiede ogni assurdità poiché lì, ancora, viene formulato
il giudizio sulla follia di Belluca. L’assurdità è chiarita nel secondo capoverso (che
logicamente, se non proprio sintatticamente, si estende sino alla chiusura della pri-
ma parte della novella): in quel gusto particolare, così in contrasto con la situazione
dolorosa di Belluca; più avanti il gusto si svelerà essere contentezza. P., insomma,
denuncia la generale convinzione della società che Belluca sia impazzito, e dunque
non ha responsabilità alcuna, e l’immorale – o folle ? – autocompiacimento sempre
della società circa la propria sanità mentale (la pienezza della salute): allo scopo si
serve dell’anonimia degli interventi orali che evidenzia la generalità del giudizio.
L’ultimo periodo della parte è introdotto da una e avversativa (=invece). Il disvela-
mento della verità in opposizione a quanto detto sinora viene realizzato attraverso
un largo uso di s up erl at i v i a s s olut i e re l at i v i : specialissime, la più semplice e 2
volte naturalissimo. P. con questi enfatizza il ruolo della ragione a petto della quale
il compiacimento dei colleghi di Belluca appare vera stupidità: dell’evento frene-
tico che colpisce un uomo occorre indagare le cause, non fermarsi alle apparenze e
la ricerca delle cause potrà mettere in evidenza che la vera pazzia è quella di chi si
ritiene sano e che crede di non avere responsabilità del mancato riconoscimento in
sé e negli altri dell’umano.
126
Manuale di storia della lingua italiana

– Mah !
– Morire, pare di no...
– Ma che dice ? che dice ?
– Sempre la stessa cosa. Farnetica...
– Povero Belluca !
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in
cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere na-
turalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio,
sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di
quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato
al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non
gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si
trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di
Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto...1 sì, chi l’aveva definito così ? Uno dei suoi compagni d’uf-
1 Il periodo coscritto... si distende benché non vi siano evidenti i connettivi che
leghino una frase all’altra, un periodo all’altro (op erator i le s sic a l i e g ra m-
m at ic a l i). Tuttavia la parola coscritto viene posta in corsivo e ad inizio di capo-
verso: è un segnale tipografico che connota l’aggettivo di forte autonomia, il cui
valore sarà spiegato subito dopo: si tratta della definizione che di Belluca e del suo
comportamento avevano dato i colleghi d’ufficio. Il 2º periodo è ellittico del verbo
perché vuole avere, ed ha, il valore di risposta secca. L’a n a f ora (la ripetizione di
uno o più termini: in questo caso coscritto), poi, seguita dall’esclamativa, stabilisce
la coesione logico-sintattica con la ’risposta’ alla quale è omogenea per via dell’el-
lissi del verbo – così il terzo periodo – che assolve al ruolo di connettivo stilistico.
Il risultato è quello di una grande rapidità di scrittura, e quindi di intensa dram-
maticità. Tanto più s’avverte intensa se si tien conto del ricorso che P. fa – qui
e nel successivo periodo – ad un procedimento retorico che va sotto il nome di
a mpl i f ic a z ione , consistente nell’aggiunta di elementi lessicali, che, riferiti ad
uno stesso a mbito s em a nt ico (significato), precisano il significato ed il grado
del concetto prima espresso più genericamente. In vero qui P. combina a mpl i f i-
c a z ione ed a c c u mu l a z ione , che a sua volta allinea una nuova serie di elementi
lessicali che ribadiscono l’idea. Nello specifico limiti angustissimi e arida mansio-
ne di computista (già computista allude ad un’attività priva d’ogni orizzonte spiri-
tuale) esplicitano il valore della coscrizione. La cui limitatezza viene amplificata da
127
Leonardo Sebastio

ficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida
mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte,
di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impo-
stazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario
ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un
passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene,1 cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato

senz’altra memoria, la cui seguente elencazione serve solo a segnare i limiti dell’at-
tività (inesistente) spirituale di Belluca: di partite semplici o doppie o di storno, e
di defalchi... L’ultimo periodo del capoverso ancora ellettico del verbo si apre con
una me t a f ora , casellario ambulante, che è coerente a mpl i f ic a z ione di quanto
detto nel precedente periodo e definitiva oggettualizzazione di Belluca (a momenti
sarà animale): non più essere umano; ma oggetto privo di vita, archivio e memoria,
forse ordinata, certo vuota d’ogni palpito e d’ogni fantasia. E P. si serve ancora una
volta di un’a mpl i f ic a z ione (si vedano la relativa che tirava zitto zitto; e d’un
passo e per la stessa strada, che metteno in evidenza la natura del tutto sottomessa
dell’animale-Belluca) combinata con l’a n a f ora (sempre ... sempre).
1 La tensione verso l’oralià o verso la teatralità è evidenziata da certi nessi, in par-
ticolare da quell’orbene (questo discorso vale per tutta la novella), nell’uso assai
modesto dell’ip ot a s si (subordinazione), alla quale si preferiscono a n a f ore di
tutti i tipi (semplici: pareva ... pareva; esplicative: ilare ... ilarità). La tensione all’o-
ralità è visibile anche nelle esclamazioni, niente !, in certi f at i sm i ple on a s t ic i ,
così, dunque, veramente, nel ricorso all’a uto cor re z ione , o meglio. Tutto questo
convive facilmente con la me t a f ora Belluca-asino, che è metafora popolare e d’u-
so comune, nel quale l’accezione di somaro=sciocco, ignorante è largamente accetta-
ta (oggi si preferiscono metafore sessuali), come lo è quella asino=lavoratore. Con
grande facilità comunicativa (non sono necessari altri supporti per decodificare la
metafora) il narratore-testimone utilizza i derivati imbizzire, calcio, frustate, pun-
ture, bastonature. La metafora resta facile, anzi, assume i toni della popolarità, ed
immediatamente comprensibile.
Naturalmente questa tipologia scrittoria non significa superficialità: qui conta la
costruzione degli eventi. Si veda il processo verbale con cui Belluca opera la sua
liberazione, come la aperta confessione al capo-ufficio della sua fantasia e la conse-
guente riconquista della sua umanità: e se sapesse dove sono arrivato ! La formulazio-
ne della frase è lenta e parte da una comunicazione non verbale: aprendo le mani;
poi da una parola insignificante: niente, seguita dal sostantivo che farà da soggetto
alla frase-rivelazione, ma che per il momento, privo com’è di verbo, richiede il com-
pletamento logico. P. strategicamente fa intervenire il capoufficio che sospende la
rivelazione del verbo e il completamento della frase: Il treno ? Che treno ? e poi il
128
Manuale di storia della lingua italiana

senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbiz-
zire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute,
se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio.
Niente ! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace,
sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non
le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni basto-
nature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come
effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio
aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina,
con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che
so  ? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i pa-
raocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalanca-
to d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi
tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci,
suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato
all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri,
le carte:
– E come mai ? Che hai combinato tutt’oggi ?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza,
aprendo le mani.
– Che significa ? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi
e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca !
– Niente, « aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impu-
denza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere.

il verbo. Mano a mano che Belluca disvela il suo sentire (che è sentire di fantasia)
aumenta l’irritata incomprensione del capo-ufficio che interviene interrompendo
la pur breve frase di Belluca. Conviene appuntare l’attenzione sull’antagonismo tra
la calma un po’ folle dell’impiegato e la furia del suo superiore: è questo uno dei
momenti in cui la strategia drammatico-narrativa di P. si fa più evidente.
129
Leonardo Sebastio

– Il treno ? Che treno ?


– Ha fischiato.
– Ma che diavolo dici ?
– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare...
– Il treno ?
– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato ! In Siberia... oppure oppu-
re... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere !
Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati
nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urta-
to da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la man-
sueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di
tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del
treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito
fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei mat-
ti.

Italo Svevo
La coscienza di Zeno

Proprio quella mattina ebbi un’idea che credo m’abbia fortemente dan-
neggiato privandomi di quel poco d’iniziativa virile che quel mio curio-
so stato d’adolescenza m’avrebbe concesso. Un dubbio doloroso: e se Ada
m’avesse sposato solo perché indottavi dai genitori, senz’amarmi ed anzi
avendo una vera avversione per me ? Perché certamente tutti in quella fa-
miglia, cioè Giovanni, la signora Malfenti, Augusta e Alberta mi volevano
bene; potevo dubitare della sola Ada. Sull’orizzonte si deli­neava proprio
il solito romanzo popolare della giovinetta costretta dalla famiglia ad un
matrimonio odioso. Ma io non l’avrei permesso. Ecco la nuova ragione per
cui dovevo parlare con Ada, anzi con la sola Ada. Non sarebbe bastato di
dirigerle la frase fatta che avevo preparata. Guar­dandola negli occhi le avrei
130
Manuale di storia della lingua italiana

domandato: “Mi ami tu ?” E se essa m’avesse detto di sì, io l’avrei serrata fra
le mie braccia per sentirne vibrare la sincerità.1
Così mi parve d’essermi preparato a tutto. Invece dovetti accor­germi
d’esser arrivato a quella specie d’esame dimenticando di rivedere proprio
quelle pagine di testo di cui mi sarebbe stato imposto di parlare.2
Fui3 ricevuto dalla sola signora Malfenti che mi fece accomodare in un

1 Il primo capoverso proposto riporta le riflessioni di Zeno. Dieci periodi lo com-


pongono, fortemente connessi l’uno all’altro attraverso rinvii anaforici pur con di-
versa referenza (ebbi un’idea ... un dubbio doloroso; ... parlare con Ada ... dirigerle
la frase...), od opposta referenza (certamente ... potevo dubitare) o con nessi dichia-
rativi (perché certamente...; ecco la nuova ragione ...), o congiunzioni coordinative
(di particolare interesse le due interrogative indirette introdotte dal se più la e con
funzione aggiuntivo-rafforzativa: e se Ada m’avesse sposato...; e se essa m’avesse
detto di sì). Un periodo, con valore chiaramente conclusivo, sull’orizzonte si deli-
neava... (dal quale dipendono altri sei periodi) non ha connettivo esplicito.
2 Il secondo capoverso si compone di due periodi legati dall’avversativa invece
che introduce una metafora attenuata da specie. Della quale metafora andrà notato
non tanto il valore estetico che non esiste, quanto la connotazione che conferi-
sce all’incontro con la possibile suocera. Per vero esiste una vera e propria casistica
degli esami ne La coscienza di Zeno: qui basti: « Stavo preparandomi a Graz per
il primo esame di stato e accuratamente avevo notati tutti i testi di cui abbisogna-
vo fino all’ultimo esame. Finì che pochi giorni prima dell’esame m’accorsi di aver
studiato delle cose di cui avrei avuto bisogno solo alcuni anni dopo. Perciò dovetti
rimandare l’esame ». È all’interno di tale casistica che occorre inquadrare questa
occorrenza. Ciò vale per Svevo come per ogni altro autore di comunicazione scrit-
ta. Insomma, tanto in sede di analisi di un testo, quanto in quella di composizione
di un testo è opportuno tenere in conto il ruolo di certe ripetizioni vuoi sempli-
cemente lessicali, vuoi di espressioni per misurare l’effetto di quale che sia comu-
nicazione. L’analisi, o la costruzione, delle relazioni intertestuali, dell’intertesto,
sono alla base d’ogni comprensione di ciò che è scritto. Solo dopo di ciò è possibile
dedicarsi al quello che si chiama extra-testo (il tessuto ideologico, storico e così via
che sta fuori della comunicazione scritta presa in esame e che può attenere tanto
all’autore medesimo quanto alla società cui appartiene) che permetterà la più am-
pia visione delle implicazioni contenute nel testo. Del tutto fuorviante può essere il
procedimento che dall’extra-testo vuol passare alla comprensione del (inter-)testo.
3 Il terzo capoverso introduce un altro personaggio, non nuovo nella storia: è
la madre della donna di cui è innamorato, Ada, e di Augusta, la donna che non
ostante tutto finirà per sposare. La signora Malfenti gioca adesso un ruolo assai
importante per il futuro di Zeno: sta mettendo in atto il primo serio tentativo di
131
Leonardo Sebastio

angolo del grande salotto e si mise subito a chiacchierare vivace­mente impe-


dendomi persino di domandare delle notizie delle fanciulle. Ero perciò al-
quanto distratto e mi ripetevo la lezione per non dimen­ticarla al momento
buono. Tutt’ad un tratto fui richiamato all’atten­zione come da uno squillo
di tromba. La signora stava elaborando un preambolo. M’assicurava1 dell’a-
sostituire nelle mire matrimoniali del giovane Augusta ad Ada. La futura suocera
gioca d’anticipo, ponendo in atto una fine strategia donnescamente furba. Non
ostante la qualità dell’episodio, la scrittura resta distaccata: è ancora la mera regi-
strazione di fatti, detti, personaggi ed eventi. Il primo periodo (una reggente, una
rapida relativa cui si coordina un’altra relativa, ed infine una subordinata implicita)
ha per soggetto sintattico e narrativo la signora Malfenti. Nel secondo l’attenzione
si sposta su Zeno che subisce le conseguenze (perciò) dell’azione dell’interlocutrice.
Nel primo periodo due soli aggettivi, sola e grande: l’uno e l’altro apparentemen-
te neutri – sono in posizione prenominale e quindi con valore presumibilmente
accessorio – sono fortemente funzionali a chiarire la condizione del giovane, che,
dunque, si trova in un colloquio riservatissimo (sola) ed ufficiale (grande), senza te-
stimoni, ma anche senza la possibilità di creare un diversivo al discorso. Fortemente
funzionale è altresì l’avverbio vivacemente: la vivacità è strumento tattico della Mal-
fenti che così riserva a sé stessa tutta l’iniziativa del colloquio, relegando Zeno in
un ruolo subordinato se non passivo. L’affabulazione violenta della Malfenti non
era stata prevista: Zeno ha un suo schema mentale col quale avrebbe affrontato (o
avrebbe voluto affrontare) la realtà (se questa fosse dipesa solamente da lui): egli
sembra non sentire la donna, è distratto, part. pass. aggett. con chiara funzione
predicativa.
1 Il terzo periodo s’accentra su una locuzione a metà tra metaforica e luogo co-
mune, simile a specie d’esame del capoverso precedente: nell’un caso e nell’altro
sembrano segnare il momento in cui Zeno comprende la situazione in cui sta per, o
già si trova a, confrontarsi con la realtà. La presa di coscienza della situazione si fa
rilevare anche dal discorso indiretto, le frasi-periodi sono brevissimi e si susseguono
velocemente, legate dalla semantica della conoscenza e della stima. Il discorso di-
retto emerge su un dato trascurabile: da quanti mesi Zeno frequenta casa Malfenti.
La donna aveva quantificato all’ingrosso; il giovane corregge: « Cinque ! », ma la
sua precisazione è un’ammissione di colpa, o meglio la signora Malfenti l’interpre-
ta e impone l’interpretazione come un’ammissione di colpa. Di qui quell’aria di
rimprovero con cui trova espressione il disegno della madre, A me sembra che voi
compromettiate Augusta. Il che voleva dire che il comportamento tenuto sino ad
allora da Zeno, e cui egli aveva attribuito il significato di corte serrata alla sorella
più grande e più bella, veniva interpretato ufficialmente (visto che a dirglielo è la
moglie del capo di casa) come lusinga alla più brutta delle sorelle. E questo veniva
espresso con la secchezza dell’essenzialità della comunicazione. Il discorso diretto
132
Manuale di storia della lingua italiana

micizia sua e del marito e dell’affetto di tutta la famiglia loro, compresavi


la piccola Anna. Ci conoscevamo da tanto tempo. Ci eravamo visti giornal-
mente da quattro mesi.
– Cinque ! – corressi io che ne avevo fatto il calcolo nella notte, ricor-
dando che la mia prima visita era stata fatta d’autunno e che ora ci trovava-
mo in piena primavera.
– Sì ! Cinque ! – disse la signora pensandoci su come se avesse voluto
rivedere il mio calcolo. Poi, con aria di rimprovero: – A me sembra che voi
compromettiate Augusta.
– Augusta ? – domandai io credendo di aver sentito male.
– Sì ! – confermò la signora. – Voi la lusingate e la compromettete. 2
Ingenuamente rivelai il mio sentimento.
– Ma io l’Augusta non la vedo mai.
Essa ebbe1 un gesto di sorpresa e (o mi parve ?) di sorpresa dolorosa.

più che un dialogo è un botta e risposta, una sticomitia di cinque battute.


1 Il capoverso Essa ebbe – che chiude il frammento di discorso diretto – è compo-
sto da un solo periodo di due frasi delle quali una incisa, tra parentesi. Esso attiene
alla signora Malfenti: le sue reazioni sono così riassunte in un’impressione, neppur
poi, così certa, semmai fuggitiva. Invece i capoversi successivi, in cui Svevo espone
pensieri ed emozioni di Zeno, sono larghi, composti di più periodi, a loro volta co-
stituiti da più frasi. Il primo io intanto tentavo... ha un preciso perno semantico che
costituisce il filo conduttore semantico: equivoco ... aveva parlato ... spiegasse ... mie
storie ... doveva parlare ... dirle ... avevo risolto di parlare ... avessi parlato. È che Zeno
si era presentato a casa Malfenti con l’intenzione di mettere in chiaro le cose con
Ada e finalmente farsi dire chiaramente l’inevitabile (supposta !) corrispondenza
degli amorosi affetti. Ora la manifestazione verbale dei suoi pensieri si rivela essere
arma a doppio taglio: esiste un modo per togliere di mezzo ogni equivoco (non po-
tendo sposare Ada...), ma egli è completamente dominato dalla veloce chiacchiera
dell’interlocutrice: perciò tace. Si veda l’ultimo periodo del capoverso. Si tratta di
una reggente costituita dal solo verbo: tacqui, introdotta dalla coordinazione e con
valore conclusivo, e preceduta da due subordinate implicite, lasciandomi e sentite,
di cui la seconda è un ablativo assoluto (più relativa) epperciò fortemente condizio-
nante. L’essenzialità di quest’ultimo periodo, che afferma una non-azione, un non-
fare, contrasta con i precedenti introdotti da elementi chiaramente orientati nella
segnalazione dell’incertezza: tentavo... infatti, talvolta... ma solo... ma poco prima...
forse se... Il capoverso successivo presenta uno schema assai simile: dopo la serie
confusione..., volevo intendere..., si vedono meno bene... ma forse..., Zeno confessa la
133
Leonardo Sebastio

Io intanto tentavo di pensare intensamente per arrivare presto a spie-


gare quello che mi sembrava un equivoco di cui però subito intesi l’im-
portanza. Mi rivedevo in pensiero, visita per visita, durante quei cinque
mesi, intento a spiare Ada. Avevo suonato con Augusta e, infat­ti, talvolta
avevo parlato piú con lei, che mi stava a sentire, che non con Ada, ma
solo perché essa spiegasse ad Ada le mie storie accompagnate dalla sua
approvazione. Dovevo parlare chiaramente con la signora e dirle delle mie
mire su Ada ? Ma poco prima io avevo risolto di parlare con la sola Ada
e d’indagarne l’animo. Forse se avessi parlato chiara­mente con la signora
Malfenti, le cose sarebbero andate altrimenti e cioè non potendo sposare
Ada non avrei sposata neppure Augusta. Lasciandomi dirigere dalla ri-
soluzione presa prima ch’io avessi veduta la signora Malfenti e, sentite le
cose sorprendenti ch’essa m’aveva dette, tacqui.
Pensavo intensamente, ma perciò con un po’ di confusione. Volevo in-
tendere, volevo indovinare e presto. Si vedono meno bene le cose quando
si spalancano troppo gli occhi. Intravvidi la possibilità che volessero but-
tarmi fuori di casa. Mi parve di poter escluderla. Io ero innocente, visto
che non facevo la corte ad Augusta ch’essi volevano proteggere. Ma forse
m’attribuivano delle intenzioni su Augusta per non compromettere Ada.
E perché proteggere a quel modo Ada, che non era piú una fanciullina ?
Io ero certo di non averla afferrata per le chiome che in sogno. In realtà
non avevo che sfiorata la sua mano con le mie labbra. Non volevo mi si
interdicesse l’accesso a quella casa, perché prima di abbandonarla volevo
parlare con Ada. Perciò con voce tremante domandai:
– Mi dica Lei, signora, quello che debbo fare per non spiacere a nes-
suno.
Essa esitò. Io avrei preferito di aver da fare con Giovanni che pensava
urlando. Poi, risoluta, ma con uno sforzo di apparire cortese che si mani-
festava evidente nel suono della voce, disse:
– Dovrebbe per qualche tempo venir meno frequentemente da noi;
dunque non ogni giorno, ma due o tre volte alla settimana.
È certo che se mi avesse detto rudemente di andarmene e di non ritor-
nare piú, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei supplicato che mi si

sua resa: mi dica Lei ... quello che debbo fare...


134
Manuale di storia della lingua italiana

tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire
i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, piú miti di quanto avessi
temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risenti­mento:
– Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò piú piede !
Venne quello che avevo sperato. Essa protestò, riparlò della stima di
tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei. Ed io mi dimostrai
magnanimo, le promisi tutto quello ch’essa volle e cioè di astenermi dal
venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con
una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non
tenerle rancore.

Riccardo Bacchelli
Il mulino del Po.

Era così lontana da ‘montarsi la testa’,1 che anzi credeva al sospetto del

1 Il capoverso Era così lontana..., legato narrativamente al precedente dall’anafora


della locuzione ‘montarsi la testa’, presenta due atteggiamenti psicologici contra-
stanti di Dosolina: per un verso certa timida umiltà derivata dalla coscienza della
povertà; per altro verso la fiducia del sogno e della fantasia derivatale dalle parole
della madre. In questa sede basterà accennare di sfuggita alla considerazione che
l’uno e l’altro sentimento della fanciulla derivano dalle parole dei genitori. Qui in-
teressa sottolineare come non vi sia nesso oppositivo, ma semplicemente tempora-
le: Aveva già pensato [...] e già chinato il capo [...] quando il discorso della madre [...].
Il periodo successivo concreta la persuasione della giovane senza alcun segnale
sintattico, neppure quello dichiarativo: così alla pena confusa, ed all’angustia
smarrita succedono senza soluzione di continuità l’animo giovane e la calda e
tenera fantasia.
Per altro non è senza significato che i periodi si succedono ai periodi, i capoversi
ai capoversi legandosi preferibilmente per via anaforica o coordinativa: difficil-
mente la subordinazione supera il secondo grado (subordinata di subordinata)
comprendendo anche le implicite. Si veda la successione che principia col capo-
verso che abbiamo preso d’esempio: ◊1ª principale (era)+consecutiva (credeva)
≠ segno di separazione (;) ≈ principale coordinata (s’era chie­sto)+relativa sub. di
primo grado (è prodotta)+relativa sub. di secondo grado (possono... rassegnarsi)≈
avversativa ellittica asindetica ≠ segno di separazione (.)◊ 2ª principale (aveva...
pensato) ≠ segno di separazione(:) ≠ discorso diretto-◊3ª principale (scherni-
scono)+sub.causale di primo gr.≠ segno di separaz. ≈ principale coord. alla 2ª,
135
Leonardo Sebastio

padre, dolorosamente; e già s’era chiesto il perché di una cattiveria fatta a


una poverina come lei, con quella pena confusa, con quell’angustia smarri-
ta, che nei buoni è prodotta dalla scoperta della malignità cattiva, alla quale,
per forza d’esperienza, posson ben rassegnarsi, non mai comprenderla. Ave-
va già pensato: « Mi scherniscono perché son così povera », e già chinato il
ellittica dell’ausiliare+temporale sub. di primo gr.+oggettiva sub. di secondo
gr.≠ segno di separazione ◊ 4ª principale (correvano){+}relativa implicita sub.
di primo grad. ≠ segno di separaz.(;) ≈ principale coord. alla 4ª (erano di cor-
ruccio)+ oggettiva sub. primo grado (potessero riuscire)≠ segno di separaz. (.) ◊5ª
olofrastica (no) ≠ segno di separazione (:) 6ª◊ principale. Utilizzando i simboli
premessi alle definizioni avremo uno schema del genere (computando implicite
ed olofrastiche frasi logiche):
1.◊ +1 ≠ ≈ +1 +2 ≈ ≠
2.◊ ≠ ≈ +1 +2 ≠
3.◊ +1 ≠
4.◊ {+}1 ≠ +2 ≠
5.◊ ≠
6.◊ ≠
Se si tien conto che le principali sono giustapposte e non presentano nessun nes-
so esplicito di collegamento sì che il capoverso si configura come una sorta di
polisindeto narrativo, risulta una scrittura piana di microeventi gustati e da far
gustare singolarmente, che dissimula il pur presente impegno psicologico sul per-
sonaggio. A completare il quadro si veda la fedeltà costante all’ordine naturale
(soggetto-verbo-oggetto o espansione immediata del verbo) nella disposizione
dei complementi all’interno della frase. A petto di questa facile semplicità di
costruzione sintattica si collocano la scelta di un lessico letterario, ma antidan-
nunziano, e soprattutto la gestione degli aggettivi: poverina (e viene in mente
la Gertrude manzoniana costretta a subire la prepotenza paterna), pena confusa,
angustia smarrita, buoni (cfr. alla fine del cap. iv de I promessi sposi:« angustia
scrupolosa che spesso tormenta i buoni »), malignità cattiva, vili sentimenti; de-
gli avverbi e in particolare quel dolorosamente staccato dal verbo, non solo dalla
distanza, ma dalla pausa della virgola, sì da variare l’ordine naturale delle paro-
le e proporre un’accezione assoluta. Di particolare efficacia la descrizione della
nascita nell’animo di Dosolina del sogno d’amore: ché il riferimento all’animo
giovane e alla calda ... fantasia si stempera in tenera, ed affonda nella discrezio-
ne attraverso un crescendo (gradatio) verso l’astrazione (idea, sogno, segreto),
rafforzata dallo scarto linguistico costituito da quattro aggettivi, uno dei quali
sostantivato (cotesto, ignoto, meraviglioso, venuto), un’apoteosi di vaghezza e di
leggerezza poiché cavaliero e mondo portano con loro tutto l’implicito valore
letterario reso palese da favola.
136
Manuale di storia della lingua italiana

capo a questo destino, quando il discorso della madre la persuase, quasi con
violenza, d’avere un innamorato. L’animo giovane, la calda e tenera fantasia,
correvano all’idea, al sogno, al segreto di cotesto ignoto meraviglioso, venu-
to dal mondo come il cavaliero della favola; e quei primi e vili sentimenti, di
timore e d’umiliazione, adesso erano già di corruccio e d’aborrimento pur
dal pensare che le speranze e il suo sogno potessero riuscire uno scherno,
non piú della gente, ma della sorte. No: era il maio d’un innamorato.
Di fatto, nei vari paesi, usavano diverse frasche, a seconda che il maio
voleva significare amore, o gelosia, o disprezzo e ripudio. E, fra genti sem-
pre state inclini alle burle e ai detti mordaci, usava anche il maio da burla,
per castigo o vendetta delle ragazze superbe o dispettose o vane, o per
semplice derisione, come aveva temuto Princivalle.
Al dì dell’Ascensa, portan maio a chi non se ’l pensa; – il detto, non
che a sperare amore, dunque dava anche a temere odio.
Il ben che ti ho voluto sia un cortello.
Ma certo nessuno odiava Dosolina. Donata si intestardiva a cercare
chi si fosse arrischiato a tentarle la figliuola, e nei grami casolari sparsi
della Diamantina stava diventando una favola davvero, da farle cantar da-
vanti casa qualche quartina satirica:

Dosolina, non far tanto la granda,


Perché ’l tuo padre non è ’l re di Francia,
E la tua madre non è la regina:
Non far tanto la granda, o Dosolina!

Quel forestiero cacciatore era passato molte volte da Palazzo; e smon-


tava da cavallo, o per farlo bere, o per comprar qualcosa, fingendo di
credere all’insegna della bottega; e ogni volta Dosolina gli aveva dovuto
rispondere che la bottega era sprovveduta. Non per questo costui aveva
fatto come gli altri, che chiedevano con sorrisi pungenti che negozio fos-
se, se non c’era mai nulla, e avevan finito per seccarsi anche dello scherzo.
Quel forestiero perseverava, con discrezione; e non sorrideva, e mostrava
di credere, gravemente, all’impacciata Dosolina che gli diceva, arrossendo
della bugia:
137
Leonardo Sebastio

« Dobbiamo rifornirci proprio in questi giorni ».


Il forestiero era garbato, e, in arcioni1 sul cavallo grande ed estroso,2
col fucile a tracolla, col ferraiuolo3 o senza, aveva un’aria venturiera4 da
colpire la fantasia. Egli capitava sempre quando la madre era fuori, ragion
per cui Dosolina cercava d’abbreviare i discorsi, benché neanche lui per
indole fosse uomo da allungarli. Aveva imparato da lui ch’era un mugnaio
di Po. Dopo averla vista, quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro, il nostro
Lazzaro era andato dal miglior sarto di Crespino, civile e grosso borgo5
d’oltrepò, a farsi fare il vestito nuovo ed attillato,6 di fustagno, che in dos-
so ad uno ch’era già stato bel soldato, s’attagliava con una certa franca
galanteria,7 da piacere alle donne come al tempo delle parate militari na-
1 In arcioni sul cavallo: è, apparentemente, un’espressione pleonastica, è vero in-
fatti che stare in arcione vale stare a cavallo, ma è anche vero che arcione indica solo
la sella. Così D’Annunzio ne Il piacere: « ... a destra e a sinistra passarono a gran
trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca
di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello ». Dun-
que B. lo adopera nell’accezione più precisa e ristretta. Come anche V. Pratolini,
Scialo: « La tirai su per il braccio e la misi sul cavallo davanti a me, in arcione, come
cavalcavo io ».
2 Cavallo grande ed estroso: anche estroso è utilizzato nel suo valore etimologico,
che va a estri, Tommaseo-Bellini: «l’e. ha impeti d’impazienza ».
3 Ferraiuolo: Tommaseo cita Capponi: « ... il ferrajuolo ch’è proprio degl’Italiani
e degli Spagnuoli, suol essere così ampio che si ravvolge sulla persona quasi due
volte comodamente, alzando cioè una delle estremità inferiori di esso (la destra per
l’ordinario), così che venga a posare sull’opposta spalla a ricadere sopra la schiena;
costume nostro e dignitoso, e che ritiene del bello dell’arte, ... ».
4 Aria venturiera: non ostante quell’aria risulti affascinante il termine non ha ac-
cezione positiva, altrove nel Mulino stesso ha dichiaratamente valore brigantesco e
furfantesco.
5 Civile e grosso borgo: se borgo indica un piccolo centro abitato, civile lo connota
come fornito dei servizi e delle attività proprie di una cittadina.
6 Vestito nuovo e attillato: attillato oltre all’accezione di aderente ha quella di ele-
gante, raffinato, che certo è l’accezione che si confà alla situazione narrata.
7 Franca galanteria: la galanteria ha in sé il valore di eleganza a cui s’aggiunge una
disposizione alla comunicazione complimentosa nelle relazioni interpersonali, so-
prattutto degli uomini verso le donne allo scopo di sedurle. Tal che può annettersi
il senso di vanitoso. Che qui B. evita con quel franca che dispone la galanteria su un
piano di schiettezza ed onestà.
138
Manuale di storia della lingua italiana

poleoniche. Rivestito a modo, era andato poi dal barbiere:


« Riducetemi in buona forma questa barba da mago sabino ».
Il barbiere gli aveva proposte due o tre foggie, prima di metter le for-
bici in quella selva.
« Barba da zappatore », ordinò l’antico soldato del genio, ricordan-
dosi dei tempi suoi, quando la barba intiera era privilegio dei soldati del
genio, concessa, per distinzione, soltanto a militari scelti, nelle altre armi.
Il barbiere sapeva invece che ora le barbe intiere si portavan dalle teste
calde, dai liberali; e stava lì incerto, colle forbici infilate nell’indice e pol-
lice. Da zappatore? Non sapeva come fosse fatta; e lo Scacerni si ricordò
con un repentino velo di melanconia sull’animo, gli anni andati, i tempi
in cui barbiere che si rispettasse avrebbe inteso senza spiegazioni. Che cre-
deva costui: a uno zappaterra forse? Gli anni eran dunque già parecchi; e
benché non gli pesassero, lo spaventavano, a confrontarli con quelli d’una
certa ragazzina, e l’indispettivano. Spiegò al barbiere la foggia voluta.
« O Lazzaro », disse fra sé guardandosi nello specchio a operazione
finita, « vuoi indispettirti cogli anni perché passano? ».
C’era nel detto un po’ di stizza, una specie di indignazione, assai ti-
more, perché l’uomo, senza volerselo confessare, conosceva d’essere in-
namorato di vero amore per la prima volta adesso; e s’arrabbiava di non
essersi accorto come gli fosse entrato in animo; e gli pareva che se potesse
ricordarsi del punto preciso e del modo, avrebbe saputo rimandarlo fuori
e liberarsene; e per questa ragione (ossia, quest’era la ragione che egli si
dava), tornava il piú spesso che poteva a veder Dosolina Malvegoli. Le
giornate lontano da lei gli eran diventate lunghe e noiose. Intanto, sarto e
barbiere l’avevano rincivilito, ma Dosolina e Donata avrebber pensato a
tutti prima che a lui, quand’ebbe piantato il maio davanti alla sua porta la
notte della vigilia dell’Ascensione; e quanto a lui, arrabbiava di non trovar
modo d’entrarne in discorso colla fanciulla. Stupiva molto che l’amore
penetrato così di nascosto e con tanta forza, fosse tanto scabroso da pale-
sare. Tutti i modi tenuti trattando con altre donne, e con buon esito, verso
Dosolina non solo gli apparivano disadatti, ma offensivi, e si vergognava
anche solo al pensiero d’applicarli a lei.
139
Leonardo Sebastio

Eugenio Montale
Ossi di seppia: Meriggiare1
Meriggiare2 pallido e assorto

1 La lirica è composta da quattro strofe, tre delle quali di quattro versi, l’ul-
tima di cinque. La prima e la terza strofa presentano rime baciate; la seconda e
la quarta alternate: nella quarta il terzo verso (comunque in assonanza con gli
altri) divide con una terza rima le coppie di rime alternate. I versi sono di varia
lunghezza: 9-9-11-10 / 11-11-11-10 / 11-9-11-9 / 9-10-11-11-11. Il periodo sintattico
corrisponde alla strofa. La prima strofa è composta da due principali (meriggiare
e ascoltare) coordinate per asindeto: anche se la presenza dei due qualificativi
pallido e assorto suggerisce che meriggiare è un infinito sostantivato e, dunque,
a rigore di principali non ve ne sarebbe che una, ascoltare che ha più chiara fun-
zione verbale. Contro quest’interpretazione sta la coordinazione: resta certa fri-
zione tra il primo ed il secondo infinito; ma dalla poesia non si deve richiedere
chiarezza nei nessi sintattici. Più semplici le altre strofe. La seconda è composta
da una principale, che occupa i primi due versi, e da una subordinata relativa che
ha una coordinata. La terza strofa è egualmente composta da una principale, che
occupa anche qui i primi due versi, e da una temporale. La quarta strofa è più ar-
ticolata: la principale regge un’oggettiva che a sua volta regge una relativa; per di
più legata alla principale una temporale implicita (andando) e nell’oggettiva un
verbo sostantivato. Sostantivati o verbali gli infiniti conferiscono alla lirica una
dimensione di uniforme continuità, di una condizione immutabile nel tempo e
generalizzato per via dell’assenza (evidente nella regola morfologica) del sogget-
to. Di qui la connotazione metafisica di una condizione dell’esistenza concreta,
ma senza parametri razionalizzabile di riferimento.
2 Meriggiare: il verbo, non ostante l’attenzione dedicatagli da G. Ioli, G. Gavaz-
zeni, P.V. Mengaldo, conserva qualche ambiguità. La storia del termine è si trova
con qualche facilità in Gdli che dà come significato principale: «Trascorrere in
piacevole ozio le ore più calde della giornata, per lo più in luogo aperto e ameno,
rinfrescato da ombre e da acque», e nelle attestazioni, che partono dall’Esopo
volgarizzato, riporta l’occorrenza montaliana. In tal caso gli aggettivi pallido e
assorto potrebbero essere connotazioni del soggetto logico (un sole meridiano se
pallido non fa rovente il muro dell’orto), un «io» generico seppur non quello
del poeta, come nel caso degli altri infiniti acronici, sì, ma non assolutamente
impersonali: io, pallido e assorto, trascorro le ore del meriggio presso un muro.
Naturalmente cadrebbero alcuni elementi caratterizzanti il significato del verbo:
la piacevolezza e l’ombra (ma a noi pare divengano insostenibili anche le deriva-
zioni da Boine e da Boito). Concessa l’accezione non ombreggiata e non riposata
140
Manuale di storia della lingua italiana

presso un rovente muro d’orto,


ascoltare tra i pruni1 e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.2

Nelle crepe del suolo o su la veccia3 5


spiar le file di rosse formiche4
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.5

Osservare tra frondi il palpitare


lontano di scaglie di mare6 10
mentre si levano tremuli scricchi7
di cicale dai calvi picchi.8

resta problematica l’interpretazione di pallido: sarebbe una connotazione fisica


personalistica pressoché unica nella lirica montaliana. L’altra occorrenza sugge-
rita da Mengaldo e dal Gdli si trova in G. Gozzano, L’ipotesi, v. 62: «La sala da
pranzo che sogna nel meriggiare sonnolento» dove il verbo ha valore intrans. ed
impers., del tipo ‘albeggiare’, ‘annottare’; avremmo: è un mezzodì pallido (come
in Vento e bandiere: cielo pallido; e in Barche sulla Marna: plenilunio pallido) e
assorto. Il meriggio sarà sonnolento in Spesso il male di vivere ed in Gozzano, non
assorto, (assorti saranno più spesso esseri umani) però; e tuttavia si potrebbe pen-
sare ad un uso traslato dell’agg. Il v. 2 tuttavia contiene un’indicazione di luogo
che localizzerebbe il verbo impers. Occorrerà probabilmente optare per un’ac-
cezione equivoca dei versi, più che delle singole parole: trovarsi in un mezzodì
pallido e assorto, Presso un rovente muro d’orto.
1 Pruni: arbusti spinosi.
2 Sterpi ... serpi: cfr. Inf. xiii, 37-39.
3 Veccia: pianta delle leguminose.
4 Formiche ... biche: cfr. Inf. xxix, 62-9.
5 Biche: piccoli mucchi di terra che si formano durante la costruzione dei formi-
cai, che hanno, perciò, l’ingresso proprio in cima.
6 Scaglie di mare: il riflesso solare delle onde.
7 Scricchi: il frinire della cicale è avvertito come scricchiolìo.
8 Scricchi ... picchi: cfr. Inf. xxxii, 29-30. Calvi picchi: cime di alture senza vegeta-
zione.
141
Leonardo Sebastio

E andando nel sole che abbaglia


sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio 15
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

I limoni1

1 Il primo periodo si compone di due frasi: entrambe principali: la prima ha il ver-


bo all’imperativo (ascoltami) ed introduce un discorso diretto. La seconda frase (si
muovono), benché divisa dalla virgola è l’avvio del discorso diretto che occupa l’in-
tera lirica. Il periodo si chiude con una frase nominale. I vv 4-7 contengono tre frasi
(la reggente, amo, una relativa, riescono, una locativa, agguantano). Tutte e tre le frasi
sono in diverso modo ’spezzate’: la prima dall’inciso per me, le altre dall’enjambe-
ment della versificazione. Per di più l’ultima presenta l’anastrofe verbo-sg. La prima
strofa ha, dunque, 10 vv. di diversa lunghezza, dei quali l’8 e il 10 rimati; i vv 2 e 3
sono assonanti piANTe-acANTi; ma l’assonanza è variamente diffusa: poZZanghe-
re, meZZo, ragaZZi, viuZZe, e boSSi, foSSi. La seconda strofa ha due periodi: meglio
... inquieta; qui ... limoni. La prima frase del 1º periodo è un’ipotetica di 1º tipo con
l’apodosi ellittica. La 2ª frase è una dichiarativa con il verbo impersonale che due
oggetti (susurro e sensi). Più improbabile il si passivante, concordato a senso. Dalla
dichiarativa dipendono le due relative (muove e sa) riferite rispettivamente ad aria
e ad odore. Naturalmente dichiarativa sarà la 3ª frase coordinata con la e alla prece-
dente: anche questa presenta il verbo impers. piove parallelo a si ascolta. Il 2º periodo
è di 3 frasi coordinate, ma di diverso valore: le prime due con l’anafora del qui; la 3ª
introdotta dalla ed con chiaro valore esplicativo. D’interesse è la forte anastrofe del
compl. di spec. al v. 18-19; e le due, meno forti dei vv. 20 e 21. Anche in questa strofa
i vv. sono di varia lunghezza, qua e là legati da rime, come i vv. 12 e 13; 16 e 19; 18
e 21. Di rilievo ancora le assonanze come gaZZaRRe e aZZuRRo, che riprendono
quella della strofa precedente ed introducono alla rima di gueRRa e teRRa. Un solo
enjambement (ai vv. 13-14) interrompe la lineare scorrevolezza della strofa che, dun-
que, riflette nella struttura sintattico-metrica il diffondersi della dolcezza inquieta.
La densità concettuale si riflette nella più complessa costruzione sintattica della 3ª
strofa, di tutte la più lunga: non a caso si apre con l’esortazione dell’imperativo vedi
con quale ribadisce, per inciso, il registro colloquiale della composizione. La relativa
del 1º periodo, che s’interpone tra il compl. di tempo ed il verbo, esprime la nozione
dell’eccezionalità dell’evento nel quale la realtà allenta il suo assedio all’uomo: in al-
tri termini la posizione anticipata della relativa sottolinea la rilevanza che quell’even-
to ha nel suo discorso. Bilancia quest’anticipazione l’assenza d’ogni enjambement
nel 1º periodo (con la corrispettiva coincidenza dei concetti con il verso). Si vedano i
142
Manuale di storia della lingua italiana

Ascoltami, i poeti laureati1

vv. 26 e 27 che contengono un’enumerazione sinonimica, che si colloca distesamen-


te. I vv. 28 e 29, invece presentano un enjambement fortemente emotivo di cui il 2º v.
è un novenario tronco, verità (uno dei due – l’altro è il v. 46 – della lirica, entrambi
con lo stesso valore; v. 36 è un endecasillabo), il cui ritmo ed accento enfatizzano
funzione e significato dopo il rallentamento imposto dall’enjambement. Il 2º perio-
do occupa i vv. 30-33: sono versi piani, il discorso si fa disteso: la, meglio le reggenti
formano un grappolo di quattro verbi coordinati per asindeto con due sg, ma non
è accumulazione sinonimica, semmai è una successione di atti, prima dello sguardo,
poi della mente, la cui connotazione di sospensione è affidata alla rima (disunisce,
languisce, ma anche indaga, dilaga), e, nei vv. successivi, dall’assonanza di ombrA
umAnA AllontAnA: una sorta di eco nel vuoto. L’ultimo periodo della strofa sta-
bilisce un forte legame logico anaforizzando l’espressione silenzi in cui, che prelude
allo spostamento dell’attenzione dal mondo della natura a quello umano a quello
mitico, epperciò, metaforicamente e concettualmente, lontano delle Divinità. An-
che in questo caso è di grande pregnanza la pausa richiesta dal troncamento del verso
raddoppiata dalla fine della strofa e dal passaggio ad una nuova. Pausa lunga, perciò,
premessa necessaria all’avversativa con cui si apre l’ultima strofa. Il cui 1º periodo
procede con una sintassi fratta: il v. 37 contiene infatti due frasi coordinate la se-
conda delle quali, anastrofica verbo-sg, è anche spezzata da enjambement con cui
prosegue al verso successivo. Altro enjambement ai vv 38-39 seguito da due locuzio-
ni locative scandite nettamente dalle virgole. La medesima sintassi fratta, attediata
diremmo, nel 2º periodo, dove ha grande forza l’anastrofe verbo-sg fratta dall’enjam-
bement dei vv 40-41. Sino alla pausa, con valore conclusivo, del v. 42 tra avara e
amara che allunga i tempi della rima e giungendo ad una dimensione senza tempo.
La congiunzione temporale quando, rafforzata dalla locuzione un giorno, riapre il
discorso opponendo, avversativa all’avversativa, luogo a luogo (città rumorose/corte
– silenziosa ?), colore a colore (azzurro ... a pezzi/gialli – plurale!). E viene opposta
condizione a condizione esistenziale (tedio/gelo del cuore si sfa): del v. 46 e del suo
parallelismo metrico-concettuale con v 29, s’è detto. Gli ultimi tre versi presentano
la ’lunga’ anastrofe del verbo-ogg-sg che pone la parola tronca in fine di lirica, in
posizione cioè di assoluta evidenza. Le frase di questo ultimo periodo sono legate
non solo dalla coordinazione, ma anche dalle rime (interne e non: limoni-canzoni;
mostrano-scrosciano) e dalle assonanze (pORTone- cORTe-mOsTRano-sCROsciano-
TROmbe): dunque il periodo procede per aggiunzioni compatte di concetti. Un’ul-
tima nota può essere dedicata ai locativi: nella lirica infatti sono presenti 19 compl;
3 frase. locative; 2 avv. Del pari avremo 15 verbo di movimento cui bisognerebbe ag-
giungere amo in opposizione a si muovono: dal che può dedursi qualche conclusione
sulla dinamica tra realtà esterna e mondo interiore nella poesia di M.
1 Laureati: coronati dell’alloro della gloria.
143
Leonardo Sebastio

si muovono soltanto fra le piante


dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.1
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere 5
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:2
le viuzze che seguono i ciglioni,3
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. 10

Meglio se le gazzarre4 degli uccelli


si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi5 di quest’odore 15
che non sa staccarsi da terra
e piove6 in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni7
1 Bossi: arbusto sempreverde utilizzato lungo i viali dei giardini. Ligustri: alberel-
lo utilizzato per formare siepi.
Acanti: pianta erbacea dalle foglie larghe e fesse. Sono rappresentate nei capitelli
corinzi. I poeti laureati ... acanti: le piante nominate, oggetti concreti della natura,
rappresentano (sono il correlativo oggettivo de) la poesia aulica; ma tutta la lirica è
fondata sulla medesima tecnica. Ma vedi quanto si dice più giù.
2 Sparuta anguilla: magra anguilla.
3 Ciglioni: orli dei fossi o delle terrazze tipiche del paesaggio ligure.
4 Gazzarre: baccani.
5 Sensi: le sensazioni suscitate dall’odore.
6 E piove: è frase coordinata alla relativa che non sa, il verbo è usato transitiva-
mente.
7 Divertite passioni: passioni ora allontanate (altro latinismo). Meglio se le gazzar-
re ... Odore dei limoni: meglio se il frastuono della realtà che circonda l’uomo tace:
allora infatti è possibile cogliere i segni più segreti dell’esistenza, il susurro (scritto
alla latina) dei rami, quest’odore, ecc. Può essere utile riflettere sul ruolo degli ’og-
getti’ nella lirica montaliana: quando si dice che essi sono il correlativo di concetti
astratti, non si vuol dire che essi perdano di realtà e concretezza, al contrario essi
sono l’incarnarsi dei concetti in tangibile e durissima realtà: la pioggia, le cimase, il
144
Manuale di storia della lingua italiana

per miracolo tace la guerra,


qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza 20
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose


s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta 25
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello1 che non tiene,
il filo da disbrogliare2 che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno, 30
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana 35
qualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione3 manca e ci riporta il tempo


nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.4

tedio dell’inverno, sono gli oggetti che costituiscono realmente il tedio del vivere,
e sono metafora (verrebbe da dire esempio) del tedio dell’esistenza. Naturalmente
per la poesia in genere e per quella di M. in particolare, non è possibile fissare leggi,
tutt’al più indicazioni di massima: così i limoni del v. 10 hanno un più evidente
valore simbolico quelli del v. 21 ne hanno uno più realistico.
1 Anello: l’anello della catena della vita che ci avviluppa.
2 Il filo da disbrogliare: è uno dei temi più ricorrenti della lirica di M.: altrove sarà
il varco, o la maglia rotta nella rete che permetta il superamento della muraglia e la
conquista della libertà dal tedio e della verità del reale.
3 Ma l’illusione: l’illusione viene subito meno assai presto ed il tempo ci riporta
nelle città rumorose, alla vita quotidiana densa del tedio dell’esistenza.
4 Cimase: elementi ornamentali delle parti più alte degli edifici.
145
Leonardo Sebastio

La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta1 40


il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara2 – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte3
ci si mostrano i gialli dei limoni; 45
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.4

Carlo Emilio Gadda


Quattro figli egli ebbe e tutte regine

Felice creatura ! Con due sorelle in Ariete le quali «non riuscivano in


matematica»: ributtate sicché a piene corna da quel capron fottuto d’un
ginnasio, tanto più che a conti fatti «non riuscivano» neanche in latino,
e, sembra, neppure in italiano; e, si sospetta, nemmeno in geografia e storia
patria. «Il latino è una lingua morta !», decretò un bel giorno, furibonda,
donna Giulia de’ Marpioni: «e l’è inutil pagà i tass… e spend tant danée, e
tra via tanti ann a imparàa di cialàat… che hin bon per conclüd nagott…»:
e dopo un qualche altro brontolìo diede in una definitiva alzata delle spalle.
«Quanti ball!»a
Sicché adesso le studiavano «privatamente»: «ah! privatamente ?»:
«sì, privatamente…» «E che cosa studiavano ?» «Il francese… e anche
l’inglese …» «Ah, studiavano il francese ?… e l’inglese ?» «Sì, francese e
inglese. Ma un po’ per volta, e in modo da imparare la vera pronuncia…».
1 Affolta: il tedio dell’inverno si addensa sulle case.
2 La luce si fa avara: d’inverno il giorno dura meno ed è spesso nuvolo.
3 Corte: cortile..
4 Ci scrosciano ... della solarità: trombe d’oro sono il soggetto; canzoni l’oggetto
del verbo usato transitivamente . Il giallo dei limoni echeggia nell’anima di chi li
veda all’improvviso nei cortili, come il suono delle trombe, la cui gaia felicitante
esuberanza, è simile a quella trasmessa da una giornata solare; sì che come il sole
allontana il tedio della pioggia, quel giallo allontana il tedio della vita.
146
Manuale di storia della lingua italiana

E adoravano quell’angiolo della loro Pipina, così blanche et rose, dicevano,


da essere il ritratto stesso della salute.
Pipina felix ! Con una mamma, viceversa, che da «signorina» aveva
ottenuto a pieni voti il diploma di allevatrice – di polli e animali da corti-
le – all’Istituto Trivulzio per le massaie di civile condizione: quello di via
della Meregonda, sapete bene, con campo sperimentale però alla Cassina
Borlanda, in fondo all’odierno vintott.(9) E aveva quindi il buon senso
(per analogia con i porcellini) di abbandonare i glutei della sua creatura alla
libertà naturale del corridoio del Forlina, meglio che star lì tutto il santo
giorno a gridarla, a sculacciarla, a intimidirla, a inibirla: per poi finir magari
col lavarglielo, odorarglielo, baciarglielo: e infarinarglielo vittoriosamente
di borotalco (il cocò): come salare un cappone, pronto di già per lo spiedo.
«Non voglio tirar su delle smorfiose !», emanava imperatoriamente.
«Voglio che vengano su senza tante storie e lascino giù le arie in fin del prin-
zippi: e se anche mi stassero giù per terra dalla mattina a la sira, meglio giù
per terra o giù in giardino a giocare tutto il giorno, all’aria libera, che star su
la sira a legger romanzi, dove c’è su tutte quelle asinate…». Dopo un tanto
acquazzone di giù e di su, i presenti non potevano che annuire, è ovvio, il
nobil’uomo e marito poi non parliamone: era già ammutolito da un pezzo:
più che persuasi in cuor loro dalle verità luminose della dottrina. «Tout
est bien, sortant des mains de l’Auteur des choses».a Quando una donna
Giulia o Teresa, e moglie e madre, ha raggiunto quello stato di completezza
fisiopsichica per cui la si sente «sicura del fatto suo», e quando un demonio
appropriato al caso le si agita in corpo, state pur certi che il fuoco tambu-
reggiante de’ suoi apoftegmi non conosce rimbecco, né dilazione possibile.
La Mapeppa, del resto, oltre a sorelle e mamma, (questa piuttosto
asciutta d’opinioni, come già oramai s’è intuito), benigna stella non l’ave-
va defraudata nemmanco de’ rimanenti capi di corredo: una nonna, e una
contrononna:1 otto zie, fra i tredici e i quarantasette anni: nove fra cugine
e cuginette; e un paio d’altre dozzine di serbatoi di saliva2 assortiti a sua
1 Contrononna: Neologismo che, probabilmente, allude ad una signora, non lega-
ta da diretta paren-tela, ma che d’abitudine ha assunto le funzioni della nonna.
2 Serbatoi di saliva assortiti: metonìmia per signore di diverso legame parentale
o amicale disposte a baciarla. Vedrei anche la presenza dell’iperbole in serbatoi che
mette in rilievo l’eccesso di trasporto affettivo verso la piccola.
147
Leonardo Sebastio

disposizione: che la indennizzavano1 anche troppo largamente d’ogni man-


cata secrezione delle paròtidi materne.2 Queste due dozzine di insalivatrici
aggiunte3 – serravano i ranghi a rincalzo dopo la falange delle titolari, specie
ne’ dì di sabato, e di domenica – erano state ricevute col titolo di zia, se pure
soltanto onorario, nei penetrali del Brügna, ossia Forlina, dopo i meandri
del Gesù Borgospesso Bagutta Baguttino Sant’Andrea: e come zie o mam-
mane4 erano ammesse rotativamente al leccamento5 della Mapeppa e in ge-
nere all’usufrutto linguereccio6 delle più rosate e allettanti pinguizie del di
lei corpiciàttolo. Talora il comprensorio linguàtico7 si estendeva anche al
cocò. Talché,8 nere, dopo qualche prima incertezza gravitazionale sui più
1 Indennizzavano: il verbo ha nell’uso comune una forte accezione economica:
ma data l’età della protagonista pare adeguatissimo.
2 Mancata secrezione delle parotidi materne: metonìmia per indicare l’assenza di
effusioni affettive dell madre, troppo occupata nei rapporti sociali. Tipo di G. è
altresì il ricorso alla terminologia medica: in particolare secrezione e parotidi, che
rendono il carattere freddo e distaccato di Donna Giulia.
3 Insalivatrici aggiunte... titolari: ricorrono qui alcuni termini tecnici propri della
burocrazia e specif. militare: aggiunto, serrare, ranghi, rincalzo, titolare. Militare e
classico è falange. Andrà sottilineato il variare della terminologia ?
4 Mammane: il termine deriva dai dialetti meridionali (ma reso letterario da Pi-
randello) nei quali ha accezione di levatrice.
5 Rotativamente ... leccamento: benché sia d’uso l’agg. rotativo utilizzato in mec-
canica e in agraria, noi crediamo che qui occorra rifarsi alla macchina tipografica
detta rotativa nella quale un cilindro-matrice intriso d’inchiosto lascia la sua traccia
sulla carta trascinata da un altro cilindro che la preme contro il primo.
6 Usufrutto linguereccio: di origine giuridica usufrutto conserva il valore di diritto
a godere con la lingua. Persiste, ovviamente il registro comico, in quest’allargar-
si, moltiplicarsi delle persone che ambiscono sbaciucchiare la bimba, ma il gesto
affettuoso è fortemente correlato all’eccesso di trasporto, sì che il gesto acquista
dell’animalesco.
7 Comprensorio linguàtico: il sostantivo indica un territorio sottoposto a partico-
lari vincoli o benefici. Qui la metafora vale per le parti del corpo che era possibile
baciare.
8 Talché....demarpiònica: il fil rouge concettuale potrebbe essere la volontà di
traguardare le pretese di nobiltà dei de Marpioni dal punto di vista, provocato-
riamente comico, della più banale azione della più piccola delle componenti della
famiglia. Ora, quelle pretese hanno modo di manifestarsi nella presenza, attorno a
donna Giulia, di tante figure di più o meno parenti che fanno atto di sottomissione
148
Manuale di storia della lingua italiana

timorati esagoni1 d’anticamera, (indi gabinetti), erano oggimai2 pervenute


a orbitare con regolarità copernicana nel proliferante piano dell’eclittica
demarpiònica.
Accadeva dunque, ciò è ovvio, che una almeno di queste zie, o nonne,
o cugine, o sorelle «che non riuscivano in aritmetica», o anche addirit-
tura la madre pollicultrice, si trovasse ogni volta presente al fatto, voglio
dire all’adacquamento d’uno o d’altro bernòccolo della migliorìa Ballabio.
Ad estrarre dalla indiavolata vitalità della Mapeppa il meglio della sua pro-
duzione non occorreva di certo il catetére, come s’è visto: e nemmeno un
senatoconsulto. Per modo che «c’era lì», sempre, qualcuno di famiglia, da
poter sovrintendere tutte le operazioni di soccorso, con la lucidità di spirito
e la conseguente autorevolezza e prontezza di delibere che si dimandano
in circostanze di tal fatta. Appena lei, povero angiolo!, congedato inopina-
tamente il diavolo che aveva in corpo, si faceva a diramare il suo compun-
to e implorativo s.o.s.: «ho atto pipì a otto !» (ho fatto la pipì addosso),
come un ministro venezuelano che ne abbia appena combinata una delle
sue, imperiosi decreti venivano immantinente radiotrasmessi lungo le anse
del budello noeufcentdesdòtt, con destinazione Giovanna ! Giovanna !
Romualdo ! E quella specie di tromba d’Eustachio che era il passaggio fra
latrina e cucina fungeva da condensatore in stazione arrivo, e ingigantiva il
messaggio provocando repentini sbalzi nel regime di circolo (sanguigno-
respiratorio) della conturbata Giovanna la quale soffriva di arteriosclero-
si, e bloccando la peristalsi d’un esofago piuttosto delicato, alle prese con
una patata. Questo, dopo pranzo. Il traballante Romualdo, invece, andava
esente da ogni obbligo di recezione, sia perché prossimo a venir inscritto
nell’Albo Nazionale dei Paralitici, sia perché un po’ duro d’orecchi: era anzi
sordo come un caciocavallo: a un tal punto, sordo, che a domandargli chi
fosse, che aveva sonato, rispondeva «giovedì, gioedì sédess».

esibendo l’(eccessivo) affetto per la piccola. G. sviluppa la metafora d’uso comune


essere nell’orbita di...: di qui la terminologia astronomica incertezza gravitazionale,
orbitare, regolarità copernicana, piano dell’eclittica.
1 Timorati esagoni: mattonelle timorose epperciò tremanti, traballanti, o, meglio,
che riflettevano il timore di chi vi passava(che è un’ipallage). Più su abbiamo trova-
to timorato riferito a scarafaggio.
2 Oggimai: forma letteraria per ormai.
149
Leonardo Sebastio

La cognizione del dolore

Il figlio, di sopra, stava a lavarsi: a riporre una spazzola in un tiretto. Ella


ne udiva il passo, ammorzato, sopra la soffittatura.1
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente ne-
cessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto
più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Al-
trimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della
campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai,
un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scor-
bacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la
memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperi osceni
tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su,

1 Il pastiche linguistico di Gadda è stato collocato (da G. Contini, C. Segre, E.


Manzotti) nell’arco storico che va da T. Folengo e Rablais e giunge a Faldella, Car-
lo Dossi e qualche altro «scrittore arzigogolato e barocco» e di compone soprat-
tutto dei dialetti, di quello lombardo in particolare qui nella Cognizione, nel qual
romanzo si farcisce, e si deforma, di spagnolo. Tuttavia i/il dialetto in G. non ha
valore mimetico, non riproduce, cioè, la realtà del personaggio: spesso infatti dal
personaggio passa al narratore; inoltre gli elementi dialettali sono spesso accosta-
ti a elementi linguistici di rango opposto: è che l’effetto che lo scrittore intende
raggiungere con una scrittura continuamente mistilingue è quello di manifestare
il miscuglio, pieno insieme di compatibilità ed incompatibilità, di accordi e disac-
cordi, di armonie e di stridori. Questo miscuglio è di per sé metafora della realtà,
dalla quale lo scrittore prende le distanze, non solo per sentirsene estraneo, ma so-
prattutto per manifestarla e manifestandola dominarla per il tramite della lingua.
Per ciò siamo in buon accordo con quanto ha scritto recentemente E. Manzotti:
« In qualche misura direi che è operante ... il gusto ’materico’ per una lingua estra-
niata, che non sia solo un veicolo trasparente del pensiero. E sarà altresì operante il
bisogno di moltiplicare le manifestazioni della ’polifonia’, che è, ..., il modo d’essere
della mente gaddiana. L’etimo profondo mi sembra tuttavia vada cercato nell’altra
tendenza propria a Gadda: quella di distanziare, dominandola, la propria mate-
ria: a cui non si consente di manifestarsi se non dopo essere stata sottoposta ad
una spinta elaborazione intellettuale. Non per nulla i modi più caratteristici della
rappresentazione gaddiana sono lo scherzo e l’ironia. Ecco, alla scelta gaddiana di
travestire l’attualità, a volte la scottante attualità biografica, ..., sembra presiedere la
stessa operazione mentale del descrivere per contrasto una situazione bassa in stile
elevato (contemporaneo), cosa che è la regola in Gadda».
150
Manuale di storia della lingua italiana

su, fino al fabbricatore di Adamo.1 Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella


non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvol-
gendo nella turpitudine pazza che lo animalava2 in quei momenti financo il
sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl) e il Prado, e Luko-
nes, ed Iglesia, e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci,
i cocchieri, e via via tutto il Serruchón maledetto e testa di càvolo (così, o
press’a poco, si esprimeva); tutte le infinite ville del Serruchón, i calibani
gutturaloidi3 della Néa Keltiké, lerci, ch’egli avrebbe impiccato volentieri,
se potesse, dal primo all’ultimo.
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99,
aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza4 – il
trionfo serpentesco della «sua» villa sopra le rivali keltikesi che non crede-
vano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace5 che le era venuto fatto, in un giorno

1 Fabbricatore di Adamo: la perifrasi, pur chiarissima, evita l’aperta blasfemìa.’


2 Animalava: rendere simile ad un animale.
3 Calibani gutturaloidi: Calibano,come Gonzalo, è uno dei personaggi de La
tempesta di W. Shakespeare: è spirito d’ottusa malvagità, che vive in un’isola de-
serta dove naufragherà Prospero il quale lo sottometterà. Di qui G. potrebbe aver
attinto. Ma, scrive E. Manzotti: «Il qualificativo ’calibano’ in sé, fuori dallo ha-
pax del nesso con gutturaloidi, non è comunque invenzione dal nulla di Gadda.
Nella Francia di fine Ottocento, ad esempio, Caliban è designazione (abbastanza)
corrente, che può equivalere, positivamente, ad ingénu... Ma sospetto che il termi-
ne sia stato suggerito a G. (più che dalla Prefazione del Ritratto di Dorian Gray e
dalla conseguente citazione joyciana nelle prima pagine dell’Ulisse) dalla lettura
di un passo di Peau di chagrin di Balzac... Il termine di ’calibano’, oltretutto, po-
trebbe provenire dalla fonte stessa del titolo della Cognizione. Accade in effetti che
Schopenhauer nel “Proemio alla seconda edizione” del Mondo come volontà e rap-
presentazione, definisca Hegel, spregiativamente, un “calibano intellettuale”...». In
conclusione di nota Manzotti rimanda ad uno studio sul Calibano shakespiriano.
4 Avvampante splendore di giovinezza: l’espressione romantica trae la forza dissa-
cratoria quando viene riferito sintatticamente al trionfo serpentesco e logicamente al
referente la costruzione della villa, e la rivalsa sui rivali che ritenevano i Pirobutirro
impossibilitati a sostenerne la spesa.
5 Tirso di brace: il tirso era un’asta ornata di pampini portata dalle baccanti (ebbre
e violente sacredotesse di Bacco) che raggiungevano grazie alla musica la mistica
unione col dio.
151
Leonardo Sebastio

lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-


cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad on-
nipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza piú misura né
termine:1 l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un
cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido.
Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazio-
ne, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita ma-
glia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco
sogghigno della morte. La Idea Matrice della villa2 se l’era appropriata quale
organo rubente od entelechia prima consustanziale ai visceri, e però inalie-
nabile dalla sacra interezza della persona: quasi armadio od appiccapanni
di De Chirico, carnale ed eterno dentro il sognante cuore dei lari. A quella
pituita somma,1 recòndita, noumènica, corrispondeva esternamente – gio-
iello o bargiglio primo fuor dai confini della psiche – la villa obbiettiva, il
dato. Operando in lei,3 durante quarant’anni, gli ormoni infaticabili della
1 E quell’orgoglio... senza più misura né termine: G. stigmatizza il narcisismo so-
ciale della madre di Gonzalo che assume proporzioni tali da concellare ogni altro
interesse ed ogni altro valore. Il possesso della villa è trionfo sociale e nello stesso
tempo ragione di vita, ed infine è felicità capace di spingere indietro (acculare) la
presenza stessa della morte. La villa aveva fatto scomparire ogni altra interna mise-
ria, dalla scarsezza del cibo alla usura dei abiti dei figli, ed ogni altro evento grande,
o insignificante (tenca, per tinca, pesce cioè di poco valore).
2 La Idea Matrice della villa ... il dato: è questo uno dei passi più notabili dell’in-
tero romanzo nel quale il bisogno borghese di esibire la villa si fa carne ed insieme
filosofia di vita: e, dunque, denotazione del vivere stesso, senza la quale essa perde
significato. L’operazione linguistica gaddiana consiste nel dare concretezza di lessi-
co a ciascuno degli elementi ideologici tratti in gioco. Così la fisicità trova espressio-
ne in organo rubente, visceri, interezza della persona, e poi, pituita; dall’altra parte
vengono recuperati temini della filosofia pre-illuministica entelechia consustanziale,
ancora pituita somma, recòndita, noumènica. Quanto più alta sarà la designazione
filosofia tanto più materialistico è il correlato: la villa ha, cartesianamente, sede na-
scosta nel cervello (recòndita), è fonte d’ogni pensiero (noumènica), è, insomma,
l’anima (pituita somma); e, nello tempo gioiello e bargiglio gallinaceo, escrescenza
che vien fuori dall’anima: oggettivazione dell’idea – fissa –. Tale oggettivazione è
possibile perché nella madre operano infaticabilmente gli ormoni (ancora corporea
fisicità) dell’anagènesi che sono presupposti dal – risibile – luogo comune che ciò
che la donna prende, viene sempre reso sotto altra forma.
3 Operando in lei...: il discorso che sinora ha riguardato solo una donna, la madre
152
Manuale di storia della lingua italiana

anagènesi: ciò che donna prende, in vita lo rende: quella costanza imper-
territa, quella felice ignoranza dell’abisso, del paracarro, sicché, dàlli e dàlli,
d’un cetriolo, arrivano a incoronar fuori un ingegnere; la formidabile capa-
cità di austione, di immissione dello sproposito nella realtà, che è propria
d’alcune meglio di esse: le piú deliberate e di piú vigoroso intelletto. Tali
donne, anche se non sono isteriche, impegnano magari il latte, e la capar-
bietà di tutta una vita, a costituire in thesaurus certo, storicamente reale,
un qualsiasi prodotto d’incontro della umana stupidaggine: il primo che
càpiti loro fra i piedi, a non dir fra le gambe, il piú vano: simbolo efimero di
una emulazione o riverenza od acquisto che conterà nulla: diploma grande,
villa, sissignora, piumacchio. C’è poi da aggiungere che il piú degli uomini
si comportano tal’e quale come loro. Ed è una proprio delle meraviglie di
natura, a volerlo considerare nei modi e nei resultati, questo processo di
accumulo della volizione: è l’incedere automatico della sonnambula verso il
suo trionfo-catàstrofe: da un certo momento in poi l’isteria del ripicco per-
viene a costituire la loro sola ragione d’essere, di tali donne, le adduce alla
menzogna, al reato: e allora il vessillo dell’inutile, con la grinta buggerona
della falsità, è portato avanti, avanti, sempre piú ostinatamente, sempre piú
inutilmente, avverso la rabbia disperata della controparte. Sopravviene la
tenebra liberatrice, che a tutte parti rimedia.1
Impotente rabbia era in lui, nel figlio: dàtole un pretesto, subito si libe-
rava in parole, tumultuando, vane e turpi: in efferate minacce. Come urlo di
demente dal fondo di un carcere.
Qualcosa da cenare! La madre, cercando riprendersi, guardò per la cuci-
na, vuota e fredda, schiuse un’anta della credenza dove l’ombre s’erano ad-
dormite su quel po’ di sentor di lardo e d’avanzi: in cucina non v’era quasi
nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle
galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa
estromissione. Ne teneva piú d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi,

di Gonzalo, diviene paradigma di una costante femminile (eminentemente fem-


minile ma anche maschile): la caparbia ostinazione con cui le madri perseguono
la costituzione di un thesaurum certo, che soddisfi l’orgoglio loro – sia un diploma
grande, una villa, sia il piumacchio (diploma con cui si conferisce un titolo), benché
non abbia utilità alcuna oppure sia semplicimente infelicitante.
1 A tutte parti rimedia: riecheggia Inf. i, 127: «In tutte parti impera».
153
Leonardo Sebastio

marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora


bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse,
per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il
gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr....
; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio «gallinam in ma-
rem, gallum in foeminam se se vertisse....». E, atrocemente, sghignazzando,
aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse
una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo
bardassa,1 meglio di tutti i padri della Keltiké lurida, aveva urlato, «così
non generava dei Keltikesi». Tremò di nuovo, umiliata; la beffa le risuona-
va ancora negli orecchi. Poi aveva maledetto e rimaledetto tutti i parenti,
compreso quelli che non erano mai esistiti davanti alle leggi, nel timore di
tralasciarne alcuno, od alcuna. No, no: la disperazione del suo figlio, a volte,
non conosceva misura.

Pier Vittorio Tondelli


Autobahn

Così me ne corro e quanti di pensieri che tengo nella mia crapa o piutto-
sto pensieri di stomaco, la testa ronza solamente come il monoscopio della
tivú; nella pancia invece è lì che ci tengo tutti i miei fumamenti come busso-
lotti del lotto dite un numero vi guardo dentro che pensiero ci sta.
Ma continuo a volare e dovete sapere che fatti dieci chilometri, fatti ven-
ti comincia a stringermi la vescica in mezzo alle gambe. Tengo duro ’codio
io ci ho fatto un patto di non fermarmi questa notte di libertà perché so che
se mi fermo poi vien su la malinconia del viaggiatore e faccio il gran filosofo,
dico vado non vado, torno non torno e non è proprio bello a questo punto
menare le cazzate.2
1 Bardassa: omosessuale. Letterar.
2 Il primo capoverso contiene già tutti gli elementi di una contestazione globale
della scrittura letteraria; formule come me ne corro, quanti di... che, nella pancia...
è lì che ci, appartengono al linguaggio popolare. Si aggiungano termini come cra-
pa, pensieri di stomaco, fumamenti, uno derivato dal dialetto, uno prodotto da un
ossimoro, il terzo neologismo. E poi la riduzione alla banalità quotidiana operata
attraverso le due similitudini: la testa ronza come un monoscopio della tivù, e nella
154
Manuale di storia della lingua italiana

pancia... ci tengo... i miei fumamenti come bussolotti del lotto. Infine l’improvviso
scarto sintattico costituito da dite un numero vi guardo dentro che pensiero ci sta,
che non si configura come flusso di coscienza, né come discorso diretto libero, ma
è traduzione immediata del sarcasmo e della rabbia contro sé stesso, contro la sua
depressione i cui motivi gli sono ignoti. E si veda il 2º capoverso che nel periodo
iniziale allinea due coordinate nelle quali non solo i sogg sono diversi ma lo sono
i contenuti, tanto che per la seconda vien da pensare che si tratti di un’avversativa,
l’assenza della punteggiare, però, indica piuttosto la natura di copula. L’assenza di
punteggiatura e la sintassi, volutamente incerta, caratterizzano il successivo perio-
do tengo duro ’codio io ci ho fatto... dove la bestemmia può indicare il mutamento
logico-sintattico (benché sia impossibile stabilire se appartenga alla prima o alla
seconda frase): si passa dal momento diegetico (ma anche questo potrebbe non
essere vero, e la frase potrebbe essere un pensiero) ad un momento di spiegazione di
quella decisione di non arrendersi al bisogno fisiologico: dunque una dichiarativa,
o una causale. Io ci ho fatto... è esplosione umorale ribellione, ancora, alle esigenze
del corpo, e a sé stesso. L’assenza di veri e propri nessi logico-sintattici fa sì che il
testo di T. si offra come una accumulazione di fatti irrazionali, apparentemente
slegati gli uni dagli altri: allineamento di impressioni ricordi luoghi comuni senti-
menti e sensazioni; nei quali l’unico collante possibile è l’io dello scrittore che cerca
identiche risonanze nel lettore. Al quale ripetutamente T. si rivolge: dovete sapere,
che fumata lettori miei !, così timidini tuttedue che voi lettori furbacchioni non ve lo
sareste mai aspettato da un duro come me, Che ne dite lettori miei ?, sino alla richiesta
di un’esplicita complicità quando narrando dell’incontro con la fanciulla in un’a-
rea di servizio dell’autostrada le racconta un gran numero di fandonie sulla propria
attività e personalità: tutte menate voi che lo sapete che sono un povero diavolo con su
gli scoramenti. O alla proposta di stabilire un vero e proprio dialogo quando enun-
cia la teoria che i momenti di depressione vanno tenuti sotto controllo con l’alcool:
se li fate raffreddare sarà tutto un umor di novembre, tetro e nuvoloso e allora me la
scrivete poi voi una cartolina dall’asilo degli sbalinati. Così è che il racconto sembra
farsi durante la lettura nella continua confessione-coinvolgimento al/del lettore.
Il legame scrittore-lettore è fondamentale nel testo di T. giacché il coinvolgimento
avviene attorno a temi che avrebbero una qualche carica sovversiva dell’ordine (cul-
turale) costituito, gli scoramenti, la pisciata, il fernet e così via – come in generale
in Altri libertini, la droga, l’omosessualità ecc. – e tuttavia gli spunti polemici più
spesso abortiscono nel compiacimento per il paradosso, in un macabro narcisimo
scatologico: tanta pipì che ingrosserei il delta e le valli di Comacchio; ... la testa china
a guardare il prodigio fumante; quel che salta fuori è un ruttazzo, ma un ruttazzo che
sembra tremino le montagne e arrivare il terremoto; la gente ... sulla piazzetta in mez-
zo agli sporchi della mia pancia e ai puzzi e rumoracci sbrang dei ventoni, olé, è digià
sciupada la terza guerra mondiale coi gas atomici e tutto il resto... È in questo vomito
155
Leonardo Sebastio

in queste secrezioni gastointestinali un modello di contestazione dell’etica, del bon


ton, dell’estetica borghese: e tuttavia non può sfuggire che la corsa del protagoni-
sta è verso il Mar del Nord inseguendo l’odore che scende lungo l’autostrada del
Brennero. Insomma è una corsa romantica, vaga, sentimentale: odore, odorino mio
di Mar del Nord, li libertà di gioventù. D’altra parte egli rifiuterà, per non lasciare
la sua ’Bianchina’, il suo ronzinante, di seguire il giovane cinematografaro che ha
scelto di documentare non l’Italia delle periferie, ma quella respinta (e respingente)
ogni gruppo sociale, l’Italia degli sbandati e degli irregolari, quelle che respingono
ogni tipo di aggregazione sociale. Tal che il messaggio finale dell’intero Altri liber-
tini è sostanzialmente romantico: Solo questo vi voglio dire credete a me lettori cari.
Bando a isterismi, depressioni scoglionature e smaronamenti. Cercatevi il vostro odore
eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha importanza alcuna se sarà
di sabbia del deserto o di montagne rocciose, ... No, sarà pure l’odore dell’arcobaleno
e del pentolino pieno d’ori, degli aquiloni bimbi miei, degli uccelletti, dei boschi verdi
con in mezzo ruscelletti gai e cinguettanti, delle giungle, sarà l’odore delle paludi, dei
canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle bettole di Marrakesh o delle
fumerie di Istanbul, ah buoni davvero buoni odori in verità, ma saran pur sempre i
vostri odori e allora via, alla faccia di tutti avanti! Col naso in aria fiutate il vento,
strapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro
all’avventuraaaaa!
Lo stesso legame scrittore-lettore, presiede all’impasto linguistico. Si è già alluso
ad una sostanziale trasposizione del linguaggio dialogico, anzi, parlato, fortemente
emotivo; qui si aggiunge che si tratta del gergo giovani (cazzo, maroni, rottinculo,
sculato, cagarsi, cicalare, infognarsi, gasare, srugginarsi) nel quale, in morfosintassi
popolare, confluiscono parole dialettali e parole colte (ramingare, ronzinante, de-
fenestrazione), neologismi (caromio, ciaociao, cinematografaro, cineocchio, doicc, im-
perplessato, mercedulo, mercuriato, primaoppoi, stoppista) ed onomatopee, inglese,
spagnolo (garrota, mileu) e fonemi tratti dai fumetti (bleah, grrrr, mumble mumble,
ooohhhhhhh, scrash scrash, uuuahhhhh). Un peculiare categoria di parole è quella
costituita dai nomi delle marche che sostituiscono il prodotto: è il caso di: faccio
rollare una sigarette col (tabacco della marca) Samson; Ecco l’Arriflex (macchina per
riprese cinematografiche con pellicola).
Il continuo dialogo col lettore si unisce e si mescola con il dialogo dello scrittore
con il sé personaggio: conta che nessun segno di punteggiatura, nessun indicatore
lessicale o sintattico avverta il lettore. Si veda come alla diegesi: Canto una canzo-
ne e mi faccio da me l’accompagnamento segua una notazione metadiegetica: come
qualche pagina indietro battendo i piedi e le mani sul ferro della capote scappottata. E
senza soluzione di continuità riprenda il racconto: e insomma vedo in alto le stelle e
dopo, fatti altri chilometri, anche delle ombre nere. A un piú attento esame rivelatesi
le montagne sopra Verona. Qui la fine la capoverso segna il mutamento della moda-
156
Manuale di storia della lingua italiana

Fatti altri chilometri passo quindi sopra al flumen Po tutto luccicante


nella notte che sembra la stagnola di un presepio che fa il ruscelletto eppoi
finisce nello specchietto della mamma vicino alla grotta a far da laghetto, io

lità narrativa: ché adesso il narratore si rivolge a sé stesso, con certo gusto lessicale,
indugiando su termini letterari, o formando neologismi arcaicizzanti (alla fin fine
una sorta di autoironia per un momento di pacificazione interiore): Goditi dunque
occhio mio il ramingar contando stelle, goditi queste montagne che paiono ostriconi
arribaltati, goditi il canto del ronzinante, dei pistoni e dei cilindri, il traballio lucente
e mercuriato del­l’Adige, ora a sinistra dopo un ponte un’ansa e a destra, ma dritto
l’asfalto, ah chi ci fermerà? Il discorso diretto libero che lo scrittore intrattiene con
sé, vaga da un oggetto all’altro; ora egli ripensa all’incontro con la fanciulla dinanzi
al bar della stazione di servizio ed ecco che esplode nuovamente ira ed il disprezzo
(fors’anche con qualche punta di paranoia) per il mondo circostante. E cambia il
linguaggio che ridiventa popolare se non triviale: Alla faccia del cazzo e della mia
visione, brutta fatina che volevi arrestarmi! Alla faccia vostra vado finché ho benzina
vado, porci scoramenti che bollite in pancia ora vi centrifugo dal muscoletto mio, fuori
fuori che sto correndo addosso alla mia felicità. Senza alcun segnale T. riprende la
modalità narrativa, diegetica: Però poi son costretto a fermarmi di nuovo che il ron-
zinante fa sput sput. Dove ricorre, accanto alla citazione letteraria, l’onomatopea
da fumetto che conferisce una non lieve connotazione autoironica che prosegue
nel periodo suggessivo che innova interlocutore – questa volta è l’automobile –:
Ehi, ehi, carcassetta mia non abbandonarmi proprio ora, altri chilometri altra strada,
tanto non ci ho soldi damned damned! Vai fin che puoi! E qui si noti il vezzeggiativo
aulicizzante accanto al fumettistico damned damned. Dialogo col lettore, con sé
personaggio, ed ancora dialogo del sé personaggio con altri personaggi si susseguo-
no senza essere marcati in un complesso ed articolato flusso di coscienza che risente
della lezione joyciana, privata dell’ironia e della volontà autoconoscitiva, e rivolta
all’espressione immediata delle emozioni, del disagio e dell’incapacità di aderire ad
una sia pur momentanea visione della vita: qui caromio nessuno sa piú un cazzo. In
questa direzione si vedano quello che dovrebbero essere le parole del cineasta in-
contrato per caso: che se sembrano contestare, e con violenza, le strutture culturali
della società borghese (... alla fucilazione! all’impiccagione! alla defenestrazione i
mafiosi i teoreti i politologhi, i cor­sivisti, le penne d’oro, le grandifirme, gli speculatori
del grassetto e del filmetto, a morte! a morte! i misti­ficatori, le conventicole, i salotti, ...)
poi traccia, in una enumeratio affollatissima, un panorama della cultura giovanile
degli anni ’70-’80 spesso contraddittorio, certo frammenatrio e alla fine caotico:
e ciò avviene benché, anzi, proprio perché T. tenta raggruppamenti all’interno dei
quali non di rado è dato di trovare raddoppiamenti di etichette che spesso sem-
brano connotarsi di ironia: ... e poi marchette trojette ruffiani e spacciatori, precari
assistenti e supplenti, suicidi anco ed eterosessuali ...
157
Leonardo Sebastio

e mio fratellino grande ci mettevamo le oche, mio cugino invece ci faceva la


pipì da sopra una sedia e diceva piove piove sul laghetto.
Passato il Po tanta pipì che ingrosserei il delta e le valli di Comacchio se
dovessi scaricarmi da quassú. Così mi costringo e faccio sosta in una piaz-
zola, ma non per far pipì quanto piuttosto bisogno di un fernet sennò gli
scoramenti, quelle fiere, tornano a saltar fuori. Bisogna sempre tenerli caldi
caldi che scottino se li fate raffreddare sarà tutto un umor di novembre,
tetro e nuvoloso e allora me la scrivete poi voi una cartolina dall’asilo degli
sbalinati.
All’Area di Servizio Po, parcheggio la mia cinquecento ma prima di
scappar giú a cambiar acqua al merlo mi conto i soldi in tasca, magari mi
son sbagliato e ci ho piú grano di quel che ho contato l’ultima volta, insom-
ma mille lire in piú per un panino. Niente, porca la miseria, solo monetaccia
spicciolata, ottocentocinquanta lire e dieci dracme, ma quelle mica le posso
spendere che sono un regalo di un amico mio.
Raggiungo dunque il posto per lo scaricamento che non ne posso pro-
prio piú. Dopo, che pisciata! A gambe larghe e chiappe strette una mano
dura sulle piastrellette di formica a lato, e la testa china a guardare il pro-
digio fumante, che fumata lettori miei! Poi saltellando qua e là per la piaz-
zola di sosta mi trovo a svicolare nel baretto solitario e mi metto al banco
dicendo fernet. Uno tutto secco e allampanato che pare Bela Lugosi dice lo
scontrino ce l’hai? E io lo guardo dico no, però versami il fernet che poi lo
faccio. Ma quello niente, sta lì a guardare fisso fisso che sembra proprio l’uo-
mo lupo e attende la fattura così che dopo mi volto e vado alla cassa però
non c’è nessuno seduto lì dietro. Torno a voltarmi con gran sorriso come
dire Bela Lugosi che faccio ora? Ma lui non sta piú lì per cui guardo in alto
e in basso alla ricerca del pipistrellone e dopo me lo vedo alla cassa seduto
che fa tic-tac come alla macchina per scrivere e infine dling! il talloncino.
Lo prendo e vado al banco e dico “fernet please” davanti allo specchio
tanto so il giochettino e Bela Lugosi primaoppoi arriverà. Però altri che
sono entrati non capiscono bene me che parlo a nessuno dicendo “fernet
please” che sembro un disco e mi guardano un po’ storti come dire c’ha
le rotelle ammaccate povero diavolo e dopo vanno a destra del bancone e
lì mangiano e bevono e si ristorano perché da quell’altra parte c’è Bela
158
Manuale di storia della lingua italiana

Lugosi che li serve calmo e placido al passaggio e me non mi caga neanche


un po’, come non c’avessi il talloncino. Tanto che io m’incazzo e grido
brutto canchero uccellone d’un Bela Lugosi, dammi da bere che sennò
ti pianto un palo nella gola e la finisci di fare il lupacchione grrrrr! Dopo
tanta attesa arriva il beveraggio.
Taccagno! Per cinquecento lire me ne versa un goccino che sembra
una caramella al fernet, allora se lo sapevo facevo prima a comperare le
caramelle e spaccarmele in boccuccia come ovini, di certo risparmiavo, ah
se risparmiavo. Alla brutta faccia vostra taccagni dell’autostrada piú bella
che ci sta!
Quindi mentre mi volto infumanato ho una visione. Strabuzzo gli oc-
chi poi metto anche gli occhiali che tenevo in cinquecento. Infatti uscito
e poi tornato. Lei stava sempre lì che guardava col sorriso. Che bella bam-
bina! Ci avrà sì e no quindici anni, però è bella e si vede che mi guarda
bene lì davanti al bancone dei taccagni. Prendo la mia mano nell’altra e
dico be’? Lei mette la sua manina e dice be’ anche lei. Dopo fatta così
conoscenza corriamo fuori e andiamo dietro il casotto che c’è anche un
lampione, sempre dicendo be’ come due pecorine innamorate.
Le do un bacio? daglielo daglielo dice dentro la vocina e così glielo do,
ma quanto coraggio ci è voluto. Poi anche lei mi bacia sulla fronte e tira
via col dito i capelli perché li tengo lunghi e non sta bene per una bambina
baciare i capelli di un giovanotto. Succhiamo succhiamo lei la fronte e io
la guancia così timidini tuttedue che voi lettori furbacchioni non ve lo
sareste mai aspettato da un duro come me. E invece facciamo proprio così
dietro al casotto e vicino al lampione che ora s’è spento però c’è la luna
che ci tiene compagnia, una gran bella luna piena, capita la solfa del Bela
Lugosi? Poi lei dice che io le racconto la mia storia e io chiedo ti fa piacere
davvero? Dice di sì e allora comincio a raccontare, ma quante balle che le
dico, tutte fregnacce, io son questo qui e faccio questo qua, tutte menate
voi che lo sapete che sono un povero diavolo con su gli scoramenti. Ma
Lei spalanca la boccuccia e dice ooohhhhhh a ogni mia fandonia e quante
che ne racconto sono ricco son famoso, son scrittore ah quante che ne
dico che non stan né in cielo né in terra e manco nel mio mare. Il mare, il
mare! io non posso fermarmi qui, ho il mio odore da seguire, devo correre,
159
Leonardo Sebastio

l’autostrada mi aspetta, non ci ho tempo caramia!


E qui svanisce la visione e lei diventa sempre lei però io capisco il truc-
co. Te ti han mandato i correggesi per fermarmi, vattene via stregaccia
bella che fai finta di credere alle mie balle, ora t’ho capito l’inganno, vat-
tene via! Corro al mio ronzinante, salto dentro dalla cappotta metto la
prima e parto forte senza nemmeno salutarla. Lasciata sull’erbetta inglese
del retrocasotto, con su il pullover e i bottoncini rosa in aria, così impara
a voler fermare il mio viaggio!

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Manuale di storia della lingua italiana

APPENDICE

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Leonardo Sebastio

162
Manuale di storia della lingua italiana

STORIE DI PAROLE

Nel 1968 Bruno Migliorini, uno dei padri della linguistica italia-
na, pubblicò un volumetto intitolato Profili di parole,1 nel quale ri-
prendeva alcuni articoli apparsi su riviste ed in altri libri. In ciascuno
di essi tracciava il profilo storico di una parola; i profili erano una
settantina: alcune di quelle parole oggi, a distanza di quasi mezzo
secolo, sono entrate nel linguaggio comune, e qualcuna è già sull’or-
lo dell’obsolescenza. Qui ne riproponiamo alcune per dare, sia pure
molto sommariamente, il senso di come e di quanta storia si depositi
nel nostro linguaggio quotidiano. E di quanta storia, e quanta civiltà,
si perda perdendo le parole: storia di grandi uomini certo, ma, soprat-
tutto, storia quotidiana di semplici parlanti, che a noi pare sopravvi-
vano nell’eredità lessicale che ci hanno affidato.

Cioccolato o cioccolata?

Chi, ponendosi questa domanda, cerchi consiglio nel Nuovissimo Di-


zionario della lingua italiana di F. Palazzi, troverà unicamente cioccolata; chi
consulti invece l’Enciclopedia Italiana troverà solo cioccolato.
Per verificare i titoli di merito delle due varianti, dovremo di necessità ri-
farci all’introduzione in Europa e in Italia della bevanda americana. Come
è accaduto per la maggior parte delle piante, degli animali, degli oggetti del
Nuovo Mondo, i nomi europei di essa risalgono ai principali attori della
conquista, gli Spagnoli: nel nostro caso le varie forme dipendono dallo spa-
gnolo chocolate, che era maschile.

1 Firenze, Le Monnier, 1968; ma cfr. anche Parole d’autore (Onomaturgia), Fi-


renze, Sansoni, 1975. Brevi storie di parole si troveranno nei vocabolari etimologici
come ad esempio quello di M. Cortellazzo-P. Zolli, Bologna, Zanichelli, 1979.
163
Leonardo Sebastio

Di questo, poi, sappiamo che è l’adattamento di una parola della lin-


gua nahuatl, cioè della lingua degli Aztechi del Messico: quanto alla forma
precisa della voce messicana, rimangono delle incertezze, sulle quali non è
qui il luogo di dissertare. Se risaliamo a quella che è la principale fonte di
conoscenze naturalistiche sul Messico nei decenni successivi alla conquista,
cioè all’opera De historia plantarum Novae Hispaniae di Francisco Hernàn-
dez, il medico toledano che Filippo Il mandò nel Messico per studiarne la
flora, ne concludiamo che probabilmente i conquistatori fecero confusione
tra il nome che indicava una bevanda di cacao sciolto nell’acqua (l’Hernàn-
dez la chiama potio cacaoatl) e il nome di un’altra bevanda, preparata con
egual quantità di semi di cacao e di semi di pochotl (Bombax ceiba), e con
l’aggiunta di un po’ di mais: questa si chiamava, invece, chocolatl. Abbiamo
notizia di tante diverse bevande e misture usate dagli Aztechi che non c’è da
meravigliarsi se i conquistatori, semplificando, confondessero.
Nel Cinquecento si comincia appena ad aver conoscenza in Europa del
cacao e della cioccolata attraverso le notizie che ne danno i viaggiatori. Pie-
tro Martire d’Anghiera nel suo De orbe novo descrive il «cacahum, arbo-
rem et fructum», e la bevanda che se ne fa, ma senza citarne il nome. Il
primo italiano che ne parli diffusamente è il Carletti: giungendo a Firenze
nel 1606, di ritorno dal suo fortunoso viaggio di circumnavigazione, egli
narrava nei suoi Ragionamenti che a San Jonat e nel «Guattimala» cresco-
no i frutti del cacao, e «il suo principal consumo si fa in una certa bevanda,
che gl’indiani chiamano Cioccolate, la quale si fa mescolando dette frutte,
che sono grosse come ghiande, con acqua calda, e zucchero, e prima secche
molto bene, e brustolate al fuoco si disfanno sopra certe pietre… fregando
il pestello, che è anch’esso di pietra, per lo lungo sopra detta pietra piana e
liscia, e così si viene a formare in una pasta, che disfatta nell’acqua serve di
bevanda, che s’usa comunemente bere per tutti i naturali del paese»; e ag-
giunge che anche gli Spagnoli vi si assuefanno talmente da non riuscir poi a
farne a meno. I Ragionamenti del Carletti circolarono qua e là manoscritti,
e furono pubblicati solo nel 1701: presso il Magalotti (che possedeva l’origi-
nale, oggi perduto) il Redi lesse la descrizione più su riportata.
Nel 1620, il Franciosini compilando il suo Vocabolario español e italia-
no, registrava cacao, spiegandolo come «una noce, o nocciuola, della quale
gl’Indiani fanno una bevanda, che chiamano cioccolate», e sotto chocolate
glossava «una bevanda Indiana» (solo in edizioni successive aggiungendo
«detta cioccolate»). Qualche Spagnolo reduce d’America avrà certo por­
tato con sé per curiosità dei semi di cacao, ma solo più tardi è da credere che
164
Manuale di storia della lingua italiana

s’avviassero regolari commerci.


Nei Promessi Sposi, il giorno in cui i familiari hanno indotto Gertru-
de a chieder d’entrare nel chiostro, la giovane vittima «fu fatta sedere sur
una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che a
que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la toga virile». Anche
ammettendo che a Milano, sede dei viceré spagnoli, la cioccolata dovesse
arrivare relativamente presto, alcuni anni prima del 1630 il prendere la cioc-
colata non poteva essere ancora una consuetudine.
Solo qualche decennio più tardi, nel 1660 (o nel 1668?) Tommaso Ri-
nuccini notava nei suoi ricordi sulle Usanze fiorentine: «S’è introdotta in
Firenze quest’anno assai comunemente una bevanda all’uso di Spagna, che
si chiama cioccolata; et anco di questa vende uno de’ sopra detti bottegai in
bicchieretti di terra; e pare che gusti così calda, come fredda».
Fra il 1660 e il 1670 la moda della cioccolata dilaga in Europa: tutti ne
bevono…, e gli eruditi cominciano a dissertare.
Due polemiche s’accendono e si riaccenderanno ad intervalli fin verso
la metà del Settecento. Una fra i teologi, per decidere se la cioccolata è da
considerare una bevanda che non rompe il digiuno, ovvero un cibo che lo
rompe. Si discute sul potere nutritivo, sulla densità del liquido, su cento al-
tre cose, e prevale la tesi che la cioccolata sciolta nell’acqua in soluzione non
troppo densa sia da considerare un liquido. L’altra polemica è fra i medici:
si discute e si disserta sulla salubrità della cioccolata, e sulla quantità e la
frequenza del suo uso.
Fatto interessante, e del resto frequentissimo nell’introduzione di voca-
boli esotici, dappertutto si oscilla nell’imitare la voce spagnola.
In Francia, accanto a un esempio sporadico di la chocolate, si hanno fre-
quentemente le chocolate e le chocolat, finché quest’ultima forma domina
incontrastata. In Inghilterra si oscilla fra chocolate, che finirà con l’imporsi,
e chocolata, chockeley, jacolatt(e). In Germania si esita fra Schokolata, Schoko-
lat, Choc(c)olate, finché si imporrà il femminile Schokolade.
In Italia la forma primitiva cioccolate fu subito alterata nella desinenza e
nel genere. I nomi italiani in ‑ate erano poco frequenti, e nessuno indicava
bevande; perciò la desinenza era soggetta all’attrazione di altre più frequen-
ti: ‑ata, che già aveva con sé l’acqua cedrata, ‑ato, come il gelato, ‑atte, come
già il latte.
Il Redi, che nel Bacco in Toscana aveva biasimato scherzosamente la be-
vanda chiamandola cioccolatte –
Non fia già che il Cioccolatte
165
Leonardo Sebastio

V’adoprassi, ovvero il Tè,


Medicine così fatte
Non saran giammai per me –
nelle sue Annotazioni al ditirambo (1685), dopo aver dato notizia dell’u-
so che se ne fa in Europa («è diventato comunissimo e particolarmente
nelle Corti de’ Principi, e nelle Case de’ Nobili»), e aver parlato dei nuovi
aromi introdotti nella bevanda alla corte di Toscana, registra le varianti del
nome: «in nostra lingua l’uso ha introdotte le voci Cioccolatte, Cioccolate,
Cioccolata e Cioccolato».
Anche in latino (dato che non solo parecchie delle dissertazioni teologi-
che e mediche a cui accennavamo sono scritte in latino, ma anche poemet-
ti in vario metro) fu necessario dare un nome alla cioccolata: e le varianti
sono numerosissime: chocolates, cocolates, cuculates, chocolata, cocolata, ecc.
In quella che è forse la più autorevole fra le dissertazioni teologiche, se non
altro perché composta da un principe della Chiesa, la De chocolatis potu
diatribe del cardinale F. M. Brancaccio, si legge nella prima edizione (che
fu pubblicata senza data ma è del 1662), chocolates al femminile, mentre le
successive ristampe (nel 1664, e poi con altre Dissertationes del cardinale nel
1672) portano chocolates al maschile. Invece l’ode del p. Ferroni che accom-
pagna la dissertazione, forse per opportunità metrica, canta la cioccolata
nettare celeste chiamandola chocolata: «Aethereum chocolata nectar», e il
p. Forzoni inviterà così il Redi a lodare la bevanda:
Quare age, culte Redi, cocolatem tollere cantu
Incipe, namque illi haec gloria sola deest.
Se quest’invito non fu accolto dal Redi, altri molti non tardarono a ri-
spondere all’appello: nei primi decennii del Settecento la cioccolata è uno
fra gli argomenti più comuni della poesia ditirambica e anacreontica la qua-
le, auspice l’Arcadia, imperversava. Scrivono poemetti il Ghivizzani, il Piaz-
za, il Baruffaldi, il Giuntini: fra i tanti ne ricorderemo qui due soli, anche
perché ci mostrano il formarsi di un luogo comune, l’enumerazione dei vari
nomi, attraverso un’amplificazione delle citate note del Redi.
[…] L’uso incerto, e i richiami degli scrittori a questa oscillazione dura-
no ancora a lungo: in una delle sue commedie il Fagiuoli dice: «Il ciocco-
lato, o sia il cioccolatte, detto comunemente la cioccolata»; il Parini prefe-
risce cioccolatte nei notissimi versi del Giorno, quando al giovin signore che
voglia «porger dolci allo stomaco fomenti» consiglia:
Scegli il brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese, e il Caribeo
166
Manuale di storia della lingua italiana

C’ha di barbare penne avvolto il crine.


Nel Poeta di teatro (1808) il Pananti oscilla fra cioccolata e cioccolatte:
La cioccolata domani allestita
Sia per le sei ....
E fatto insomma il nostro cioccolatte?
Poi, nel secolo passato, cioccolatte rapidamente declina, e restano soli
in lizza, nella lingua scritta, cioccolato e cioccolata. Nei dialetti il processo
di eliminazione è stato più rapido. Il Piemonte e il Veneto, l’Emilia e la
Toscana, Roma, Napoli, la Sicilia hanno optato per il tipo cioccolata, o per
una forma dissimilata plebea che non è mai giunta all’uso scritto, ciccolata.
Invece la Lombardia ha preferito il tipo cioccolato; la Sardegna, infine, il tipo
cioccolate.
Il ritardo dell’unificazione è dovuto certamente a diversi fattori: il com-
piacersi della lingua letteraria nelle molte varianti, l’esistenza di tipi regio-
nali diversi, e forse anche, secondariamente, l’influenza esercitata dai tipi
stranieri corrispondenti (maschile il francese chocolat, femminile il tedesco
Schokolade).
Ci sembra sintomatico, a questo proposito, che l’Arsi, cremonese, pun-
tasse così decisamente sulla forma maschile cioccolato.
Le vie che la lingua segue in casi consimili sono varie. Accanto a quella
consueta che consiste nell’eliminare tutte le varianti salvo una, ce n’è un’al-
tra: quella di adibire una delle forme a un significato, un’altra a un altro. E
quello che sta accadendo per coltura e cultura, forme tratte del pari dal lati-
no cultura e adoperate per secoli promiscuamente. Vediamo che sempre più
decisamente si tende ad attribuire a coltura significato materiale, a cultura
significato spirituale.
Così, si è approfittato della forma maschile gambo, accanto a gamba, per
distinguere il senso figurato dal senso proprio. Il cassetto indica una cosa
diversa dalla cassetta (anche se, a Firenze, ancora s’adoperi comunemente la
cassetta per quello che altrove si chiama il cassetto d’un armadio, e simili). In
senso analogo ci pare tendano a differenziarsi cioccolato e cioccolata.
Faceva una proposta in questo senso già il Gherardini. Dopo avere osser-
vato la sovrabbondanza delle forme, tutte approvate dalla Crusca, egli con-
cludeva (Lessicografia italiana, 2a edizione, Milano, 1849, p. 132): «poiché
abbiamo a nostra disposizione tante maniere di scrivere la parola medesima,
io vorrei destinarne una a significare la pasta, e direi il cioccolate; un’altra ne
destinerei a significar la bevanda fatta con essa pasta, e direi la cioccolata».
Quasi tutte le proposte ortografiche e lessicografiche del valente e bizzarro
167
Leonardo Sebastio

medico sono cadute nell’oblio: questa invece, forse perché egli non face-
va che formulare un uso che cominciava a delinearsi, ha avuto una certa
fortuna nell’uso generale (salvo che, dov’egli diceva cioccolate noi diciamo
cioccolato).
Si tenga presente la diffusione grandissima, in quasi tutta l’Italia, della
forma popolare cioccolata per la bevanda; e si veda d’altro lato con quale
uniformità gl’industriali usino la forma cioccolato per il preparato in tavo-
lette: negli avvisi pubblicitari si legge quasi costantemente cioccolato.
L’uso delle due forme è storicamente giustificatissimo, e d’altra parte
la differenza fra cioccolata in tazza e cioccolato in tavolette (o in polvere) è
funzionalmente utile; la diffusione che essa ormai ha nel campo industriale
ci fa credere che sia destinata a imporsi generalmente.

Cosmetica
Ora che sono di moda, nella scienza e nella fantascienza, i problemi del
cosmo e della cosmonautica, il significato «universale» della parola cosmo
e dei suoi derivati, sta sopraffacendo l’altro meno ampio significato riferito
soltanto alla Terra, quale si aveva per esempio nella parola cosmopolita.
E la cosmetica e i cosmetisti che c’entrano? Il divario fra i due concetti,
quello di «universo» e quello di «cura della bellezza femminile» sembra
così grande che nessun artificio etimologico può arrivare a riconnetterli.
Non si tratta, veramente, di più o meno lunghi salti di canguro: i vecchi
etimologisti si accontentavano di rassomiglianze e di raccostamenti magari
fortuiti, noi dobbiamo invece pretendere riconnessioni storicamente dimo-
strabili. E basta aprire un vocabolario greco per vedere che la parola kosmos
(con i suoi derivati) significa in generale «ordine»: un ordine che può rife-
rirsi agli ordinamenti statali (e a determinate magistrature, in singoli luoghi
dell’antica Grecia), oppure all’ordinamento della Terra o dell’universo, ov-
vero all’adornamento di uomini e cose e, più spesso, all’acconciatura delle
donne.
Nelle lingue europee moderne, mentre si è assunto cosmo nel significa-
to «cosmologico», i derivati hanno preso un’altra strada: anziché riferirsi
agli adornamenti della moda si sono applicati alle risorse della medicina e
dell’igiene per mantenere il corpo giovane e bello. Si è cominciato ad ado-
perare l’aggettivo cosmètico; poi si è ricorsi alle due parole sinonime, che
168
Manuale di storia della lingua italiana

anch’esse già esistevano in greco, la cosmèsi e la cosmetica (cioè l’arte cosmeti-


ca). Recentissimo è invece il derivato cosmetista, accorciamento abbastanza
legittimo di cosmeticista. Parole tutte la cui parentela con l’antico kosmos è
indubitabile.

Glamour
Quelli che adoperano la parola glamour aggiungono spesso, quasi a scu-
sarsene, che è «intraducibile». Ma forse, dopo aver visto l’etimologia della
parola, e altri vocaboli che presentano cambiamenti di significato paralleli,
si potranno trovare parole che le corrispondono abbastanza da vicino.
Glamour è – non ve ne meravigliate – un’alterazione di grammatica.
Il nome della grammatica e quello dei grammatici ha avuto nel Medioevo
fortune assai varie: ora hanno preso valore spregiativo (pedanteria e simili),
talvolta, invece, favorevole. Una delle vie prese dal vocabolo è tipicamente
rappresentata dalla parola francese grimoire, che vuoi dire «libro di strego-
neria»: si era partiti dall’idea di «libro scritto in latino» (e perciò incom-
prensibile al volgo), arrivando a quella di libro scritto con segni misteriosi,
cabalistici. Si pensi, del resto, che nell’italiano antico il vocabolo i caratteri
o le carattere voleva similmente dire «segni magici».
In Scozia la parola prese la forma di glamour o glamer, e il preciso si-
gnificato di «incantesimo»; ed è uno dei tanti termini di «colore locale»
scozzese di cui Scott cosparse i suoi romanzi.
Vediamo ora quello che è successo a parecchie di quelle parole che indi-
cavano opera di stregoneria. Charme e charmer erano nel Medioevo opera-
zioni magiche che rischiavano di condurre al rogo quelli che le eseguivano;
e del resto charme risale direttamente al latino carmen, che è proprio, nel
suo primo significato, la formula ritmica che serve per produrre un incante-
simo. Ma nel Seicento, il secolo in cui più imperversò la metafora, charme e
charmer cominciano ad essere riferiti alla bellezza femminile che esercita la
sua forza magica, incantatrice sugli uomini; e come «le metafore il sole han
consumato», così charme, charmer, charmant sono diventate parole banali.
Identica è la storia di incanto, incantare, incantevole, incantesimo, che
negli scrittori del Trecento e del Cinquecento si riferiscono solo alle arti
magiche, e fra il Seicento e il Settecento allargano il loro significato.
Pure analogo, ma ancor più recente, è l’indebolimento di fascino (che
169
Leonardo Sebastio

prima voleva dire «iettatura, malocchio»); e così quello di malìa, maliar-


da, malioso.
Non diversi, infine, sono stati i passi che glamour ha fatto in inglese pas-
sando dall’idea di ((formula magica)) a quella di «bellezza incantatrice»,
ed estendendosi poi ad indicare qualunque specie di «fascino», da quello
delle belle fanciulle pubblicitarie alla curiosità turistica che spinge a fare un
viaggio in Oriente o a cercare una piccola taverna sconosciuta. Anche in ita-
liano, fascino e malia hanno subìto estensioni non molto diverse, e mi pare
che possano tradurre glamour, sia pure con quel tanto di approssimazione
che per concetti vaghi come questo è inevitabile.
Vorremo concludere, richiamandoci all’etimologia, che la grammatica
equivale al glamour? No, perché tutti sanno che le parole possono cambiare
interamente di significato, fino a indicare il contrario di quello che volevano
dire un tempo. Tuttavia, non vi sembra che anche queste escursioni attra-
verso la grammatica abbiano un poco di glamour?

O.K.

Sull’origine di questa sigla, che è senz’alcun dubbio il più diffuso fra tut-
ti quanti gli americanismi, si è discusso a lungo, negli Stati Uniti e fuori. Ma
solo a poco a poco si è giunti a datare con esattezza i primi esempi, e infine a
raggiungere una soluzione che è probabilmente la definitiva.
Già si sapeva dal Supplemento al grande dizionario di Oxford e dall’A-
merican Language del Mencken (4a ed., New York, 1936, più volte ristam-
pato), che la sigla era apparsa in occasione dell’elezione presidenziale del
1840, in ambiente democratico. Soltanto poco tempo fa, con una paziente
lettura dei quotidiani di quell’anno, A. W. Read è riuscito a risolvere il pic-
colo enigma (The Evidence on O. K., in «Saturday Review of Literature»,
1 luglio 1941, pp. 3‑11), e il Mencken ne riferisce e ne accetta le conclusioni
nell’ampio volume in cui raccoglie molte aggiunte e correzioni alla sua ope-
ra fondamentale (American Language. Supplement 1, New York, 1945, pp.
269‑279).
Ferveva dunque, nel 1840, la lotta per le elezioni presidenziali: il presi-
dente allora in carica (l’ottavo, Martin van Buren) aveva presentato la sua
candidatura per la rielezione. Dal villaggio in cui era nato, si era foggiato per
designare il presidente il soprannome di «mago di Kinderhook» (come,
170
Manuale di storia della lingua italiana

nella nostra storia parlamentare, abbiamo avuto «il vinaio di Stradella» e


«l’uomo di Dronero», per non citare un esempio anche più vicino e più
scottante). Per appoggiare la sua rielezione, si costituì un comitato di amici,
che prese il nome di Old Kinderhook Club, e abbreviatamente O. K. Club:
la prima riunione fu tenuta il 24 marzo 1840, e annunziata il giorno prece-
dente nel quotidiano di New York «New Era». Fra gli innumerevoli nomi
di comitati elettorali, spesso bizzarri e quasi sempre effimeri, questo piac-
que per la squillante, bellicosa sonorità, ed ebbe larga e fulminea fortuna.
Questa ondata di favore, quasi senza motivazioni logiche, ci aiuta a ren-
derci conto dell’unica difficoltà, che è quella semantica: come cioè la sigla
passasse da motto di partito a formula di approvazione. L’anno medesimo
pullularono le più varie interpretazioni: tra cui la più divulgata fu quella
che cercava di pungere la supposta ignoranza del generale Jackson, il quale
avrebbe letto la sigla O. R. (order recorded) come se fosse O. K., interpretan-
dola, con oltraggio all’ortografia, oll kurrect.
Altri tentativi furono fatti più tardi per spiegare la sigla: circa una venti-
na, e quasi tutti assai cervellotici: si ricorse al greco, al francese, allo scozzese
e persino al finlandese, ma per lo più a nomi di persona o di luogo: aux
Cayes, dal nome di un isolotto delle Antille da cui provengono un ottimo
rum e un ottimo tabacco, of Kendall, dal nome di un pane militare di otti-
ma qualità, ecc. Il presidente Wilson accolse l’ipotesi che si trattasse di una
parola indigena proveniente dagli Indiani Choktaw, cioè okeh; e adoperò
questa ortografia, in luogo di O. K. od okay (o del più raro okey).
La formula si divulgò, com’è ovvio, anzitutto fra gli altri popoli di lin-
gua inglese, e poi, più o meno rapidamente, altrove: in Italia essa si comincia
a conoscere largamente nel periodo interbellico; con l’occupazione alleata
diviene di notorietà generale (e anche, qua e là, di uso scherzoso occasionale
tra Italiani).
Della penetrazione nel mondo britannico il dizionario di Oxford e il
Mencken hanno registrato le tappe principali: nel 1873 i telegrafisti comin-
ciano a servirsene per confermare di aver ricevuto bene un messaggio; verso
il 1880 corre nei music halls londinesi un ritornello «The O. K. thing on
Sunday is the walking in the Zoo». Nel 1932 l’uso, malgrado alcune rimo-
stranze, è diventato generale in Gran Bretagna; e nel medesimo anno, alla
conferenza internazionale delle telecomunicazioni di Madrid, O. K. è rico-
nosciuto come segnale internazionale. Nel 1935 l’accoglie persino il «Ti-
mes», e nel medesimo anno il Privy Council cassa una sentenza della corte
di Rangoon che aveva dichiarato che «O. K. non è buon inglese». Infine
171
Leonardo Sebastio

è stato osservato che il 30 settembre 1941, alla conferenza di Mosca, dopo


la lettura del testo di una convenzione, il rappresentante statunitense, Har-
riman, rispose agreed, mentre quello britannico, lord Beaverbrook, rispose
okay.
Abbiamo, nel caso di O. K., un esempio tipico di etimologia «aneddo-
tica»: di quelle che convincono subito il lettore usuale e invece lasciano
perplesso il linguista, finché non si raggiungano due ordini di prove.
Prima condizione è che l’aneddoto sia sufficiente­mente testimoniato
e non sia una semplice ipotesi eziologica, troppo facile a inventare: come
quella della sigla A. V. F., che avrebbe significato ad usum fa­bricae e si sareb-
be applicata ai materiali da costruzione destinati alla fabbrica di San Pietro
e perciò esenti da ogni tassa: ma l’abbreviazione non poté esistere altro che
nella fantasia di chi l’inventò per spiegare l’origine di a ufo.
Seconda condizione è che non esistano esempi anteriori a quello «aned-
dotico». A questo requisito non risponde, per esempio, la spiegazione che
si dà di solito a color isabella. Isabella, infanta di Spagna e moglie dell’arci-
duca Alberto d’Austria, avendo seguito il consorte nella campagna contro
i Paesi Bassi, avrebbe fatto voto di non mutarsi di biancheria fino alla presa
di Ostenda. Ma essendo l’assedio durato tre anni (1601‑1604) il bianco si
sarebbe cambiato in quel giallo lionato che si chiamò color isabella. Ora,
siccome è stato additato un esempio del luglio 1600, evidentemente bisogna
cercare un’altra spiegazione.
Anche per O. K. si allegano esempi del 1828, del 1790, e addirittura un
testamento di Londra del 1565; ma chi li ha esaminati criticamente ha dimo-
strato che si tratta di riscontri casuali. Devo tuttavia dire che mi lascia un
po’ perplesso una noterella pubblicata nel «Messaggero» del 2 marzo 1930.
Un lettore che firma «Marco d’Aprano, Viterbo», dice testualmente così:
«in una Everybody’s Cyclopaedia edited by G. J. Cary, London 1821 (li-
bro in mio possesso) trovo a pag. 175 «O. K. – All correct; or else – Oll
Korrect (old style, previous 1752)»­
Se l’attestazione rispondesse interamente alla realtà, anche nella data,
sarebbe molto importante; ma un tentativo che ho fatto per verificarla è an-
dato a vuoto: il collega prof. Collinson dell’Università di Liverpool, che ha
cercato per me l’enciclopedia del Cary al British Museum, mi scrive che al
catalogo non figura il nome G. J. Cary, e che non v’è traccia di una Everybo-
dy’s Cyclopaedia pubblicata a Londra nel 1821.
Fino a più sicura documentazione in contrario, dobbiamo dunque rite-
nere che la fortunata sigla sia veramente nata a New York nel marzo 1840.
172
Manuale di storia della lingua italiana

R agazze-squillo
Nel 1953, i giornali degli Stati Uniti erano pieni degli scandali suscitati
dalla scoperta a New York di un’organizzazione di call‑girls. Ora in Italia
sono apparse alla ribalta dell’opinione pubblica le ragazze‑squillo. A occhio
e croce ci sembra si tratti di un calco dell’espressione inglese. La quale si
teneva sulle generali, perché to call può voler dire «chiamare» in generale
oppure «chiamare per mezzo del telefono»: tant’è vero che prima delle
equivoche call‑girls c’erano degli innocentissimi call‑boys con la funzione di
paggi d’albergo, pronti ad accorrere ad un suono di campanello. In italiano
la comunicazione telefonica è stata in questo caso indicata per mezzo di
quella fra le molte azioni concomitanti che più imperiosamente richiama
l’attenzione.
Non si sarebbe potuto dire ragazze‑telefono, o addirittura, con un pre-
fissoide di stile Novecento, fonoragazze, proprio perché la prima idea che
queste parole avrebbero indebitamente suscitato sarebbe stata quella delle
centraliniste telefoniche.
D’altra parte, per esprimere le idee che si riferiscono all’amore social-
mente riprovevole, gli uomini dacché mondo è mondo (stavo per dire dac-
ché mondo è immondo) hanno sempre avuto una particolare ingegnosità
nel cercare parole nuove, con lo scopo di far capire di che si tratta senza
dirlo crudamente: «Non costa nulla – diceva La Fontaine – chiamar le cose
con parole onorevoli».
Sono molte così non solo le locuzioni che semplicemente sottintendo-
no senza dire («una di quelle»), ma espressioni che portano l’uditore o
il lettore al concetto a cui si mira attraverso una rapida concatenazione di
pensieri: «una donna di molto buon cuore» o «di grande filantropia»,
«una Maddalena non ancora pentita», «una che per vivere deve ricorrere
alla propria bellezza» e così via.
C’è un rischio in questa ricerca di eufemismi: che la volgarità del signifi-
cato proprio inesorabilmente emerga di sotto al velo, e dopo un certo tem-
po renda il vocabolo così triviale da non essere più pronunziabile tra gente
per bene. Si pensi al significato primitivo di uno qualsiasi dei nomi che indi-
cavano «quelle signore» (p. es. cortigiana o mondana o traviata) e si vedrà
che in origine era, almeno letteralmente, presentabilissimo. In francese si è
arrivati al punto che per dire «ragazza» non si può più dire «figlia» (fille)
ma bisogna dire «giovane figlia» (jeune fille), perché la parola semplice si
è insudiciata.
173
Leonardo Sebastio

Non che manchino le possibilità di recupero: sappiamo dal Digesto che


amica nella tarda latinità aveva preso un significato ancora più deplorevole
che concubina, eppure la parola è guarita o per lo meno si è salvata. Siccome
c’è telefonata e telefonata, e squillo e squillo, è ancora lecito sperare che gli
scandali delle ragazze‑squillo non impediscano alla parola squillo di conti-
nuare regolarmente a servire anche a scopi non illeciti.

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Manuale di storia della lingua italiana

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Leonardo Sebastio

SOMMARIO

PARTE PRIMA………………………………………………………………………………………… 5
Dante Alighieri e l’invenzione della lingua…………………………………… 7
La funzione sociale della lingua………………………………………………………… 24
PARTE SECONDA…………………………………………………………………………………35
Cenni di storia della lingua…………………………………………………………… 37
Dal ’300 all’ ’800………………………………………………………………………………38
Il ’900………………………………………………………………………………………… 47
Tra questione della lingua e didattica della lingua………………………………… 55
Lingua scritta e lingua parlata…………………………………………………………… 58
L’italiano d’oggi tra oralità e scrittura………………………………………61
I prestiti…………………………………………………………………………………………………71
PARTE TERZA…………………………………………………………………………………… 87
Dante Alighieri…………………………………………………………………………… 89
Convivio I, III, 3-11 (1304)…………………………………………………………………89
Divina Commedia - Inferno, i, 1-27 (1304-1308)…………………………………… 91
Dino Compagni …………………………………………………………………………… 94
Cronica della cose occorrenti ai tempi suoi, i, 21 (1310-12)…………………… 94
Giovanni Boccaccio…………………………………………………………………… 96
Decameron ii, 5 (1348)…………………………………………………………………… 96
Francesco Petrarca…………………………………………………………………… 98
Canzoniere 16 (1366-94)……………………………………………………………………98
Leon Battista Alberti………………………………………………………………… 100
Della famiglia, l. i (1433-34)……………………………………………………………… 100
Niccolò Machiavelli…………………………………………………………………… 103
Mandragola (1519)………………………………………………………………………… 103
Ludovico Ariosto ……………………………………………………………………… 107
Orlando Furioso l.i (1532)………………………………………………………………… 107
Paolo Sarpi …………………………………………………………………………………… 108
Istoria del Concilio tridentino vi, x (1619)………………………………………… 108
Cortese, Giulio Cesare ……………………………………………………………… 111
Li travagliusi ammuri de Ciullo e Perna (1614)…………………………………… 111
Parini Giuseppe …………………………………………………………………………… 112
Orazione inaugurale (1769)…………………………………………………………… 112

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Manuale di storia della lingua italiana

Giacomo Leopardi………………………………………………………………………… 115


Operette morali. Dialogo di Plotino e Porfirio (1827)………………………… 115
Alessandro Manzoni ………………………………………………………………… 117
I promessi sposi (1840)…………………………………………………………………… 117
Giovanni Verga…………………………………………………………………………… 120
Rosso Malpelo (1878)……………………………………………………………………… 120
D’Annunzio Gabriele ………………………………………………………………… 123
Il piacere……………………………………………………………………………………… 123
Luigi Pirandello………………………………………………………………………… 125
Il treno ha fischiato………………………………………………………………………… 125
Italo Svevo…………………………………………………………………………………… 130
La coscienza di Zeno……………………………………………………………………… 130
Riccardo Bacchelli…………………………………………………………………… 135
Il mulino del Po.…………………………………………………………………………… 135
Eugenio Montale………………………………………………………………………… 140
Ossi di seppia: Meriggiare……………………………………………………………… 140
I limoni………………………………………………………………………………………… 142
Carlo Emilio Gadda…………………………………………………………………… 146
Quattro figli egli ebbe e tutte regine………………………………………………… 146
La cognizione del dolore………………………………………………………………… 150
Pier Vittorio Tondelli………………………………………………………………… 154
Autobahn……………………………………………………………………………………… 154
APPENDICE ……………………………………………………………………………………… 161
Storie di parole………………………………………………………………………………… 163
Cioccolato o cioccolata?………………………………………………………………… 163
Cosmetica……………………………………………………………………………………… 168
Glamour……………………………………………………………………………………… 169
O.K.……………………………………………………………………………………………… 170
Ragazze-squillo……………………………………………………………………………… 173

177

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