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MANUALE DI STORIA
DELLA LINGUA ITALIANA
1 iii, vii, 8.
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Manuale di storia della lingua italiana
Ora gli angeli, per effondere i loro pensieri glorificanti, possiedono una
rapidissima e ineffabile capacità intellettuale, in virtù della quale ciascuno
si fa compiutamente palese all’altro con la sua sola esistenza, o meglio at-
traverso quello Specchio splendidissimo in cui tutti si riflettono nel pieno
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Manuale di storia della lingua italiana
della loro bellezza e si rispecchiano con tutto l’ardore del loro desiderio: è
dunque evidente che essi non avevano bisogno di alcun segno linguistico.1
Dante qui ricorre ad una tesi contenuta nel Liber de causis, del-
la quale s’era servito già nel Convivio. Secondo questa tesi ciascun
intelletto celeste, ciascun angelo cioè, conosce quello che è sopra di
sé e quello che è sotto di sé. Conosce perciò Dio, che è la sua causa,
e conosce l’angelo della gerarchia inferiore che è il suo effetto. Inol-
tre, dal momento che gli angeli conoscono Iddio, che è la causa di
tutte le cose, conoscono tutto. Era questa la premessa per tirare una
conclusione anche per quel che riguarda la lingua: che gli angeli non
hanno bisogno di parlare tra loro: a loro, infatti, tutto è noto, giacché
conoscono ogni cosa, conoscendo Dio. Anzi, per Dante, gli angeli
non possono venire a conoscenza di nulla di nuovo.
1 i, ii, 3
2 Paradiso, xxix, 31‑33.
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Leonardo Sebastio
Tutti i santi, però, vorranno che egli parli e questo avrà ben più alto si-
gnificato che quello di mezzo per che il lettore della Commedia trag-
ga maggior diletto dalla drammatizzazione del poema: significherà
1 Summa Theologiae, i, q. lvii, a. 4 ad 1.
2 Paradiso, xv, 61‑63.
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Manuale di storia della lingua italiana
sua perfezione era più adeguato il più nobile parlare piuttosto che il
meno nobile ascoltare. In altri termini: l’amore infinito per la sua cre-
atura induce il Signore a permetterle di esprimersi con parole. Così
che il linguaggio parlato si manifesta in Adamo, uomo perfetto del
Paradiso terrestre, diremmo prima del linguaggio interiore, almeno
contemporaneamente al linguaggio interiore della mente, del cuore e
delle fede, col quale Dio parla al cuore dell’uomo e questo a Dio. La
lingua prolata è tanto nobile, tanto perfetta, con tanta carità donata,
che Dio stesso tace per ascoltare la voce dell’uomo appena creato:
per Dante, perciò, la lingua nasce e si manifesta prima del peccato
originale, nasce e si manifesta nel momento dell’assoluta perfezione
di Adamo.
Mai è stata cantata più alta lode della parola dell’uomo, mai l’a-
more di Dio è stato pensato più alto di quello che gioisce nell’ascol-
tare e, in quest’ascolto, riconosce e insieme conferisce onore e nobiltà
all’uomo. Mai filosofo o teologo ha tanto amato la lingua, da immagi-
nare un Dio silenzioso ascoltatore della parola dell’uomo. Mai poeta
ha voluto o potuto innalzare a tanto la sua poesia. La nobiltà della lin-
gua precede qualsiasi elaborazione estetico‑formale, se è vero, come
è vero, che priva d’ogni elaborazione formale e del tutto naturale era
la lingua di Adamo: onde nobile è il «linguaggio necessario a tut-
ti», «adoperato non solo dagli uomini ma anche dalle donne e dai
fanciulli»;1 nobile è quella lingua «che i bambini apprendono dalle
labbra di chi sta loro vicino non appena cominciano a distinguere le
parole»; nobile, infine, è quella lingua «che impariamo senza regole,
imitando le nutrici».2 Va da sé che una dottrina sulla lingua volgare
tenderà innanzi tutto a rendere questa aderente il più possibile ai fini
per i quali è stata creata, e dai quali s’è allontanata per causa dei pec-
cati d’Adamo, prima, e di Nembrot, dopo.
Al proposito della nobiltà del linguaggio potrà essere utile il con-
1 De vulg. el., i, i, 1.
2 De vulg. el., i, i, 2.
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Manuale di storia della lingua italiana
questo Dio parlasse quello che noi chiamiamo un linguaggio. Chi infatti
dubita che tutto ciò che esiste si pieghi docilmente al cenno di Dio, da cui
appunto tutto è fatto, tutto è conservato, tutto è altresì governato? Il co-
mando della natura inferiore, che è ministra e creatura di Dio, induce l’aria
a muoversi con perturbazioni tali da far rimbombare tuoni, da far lampeg-
giare fiamme, da far piovere acqua, da sparger neve, da scagliare grandine: e
dunque il comando di Dio non la indurrà a muoversi per far risonare alcune
parole, che saranno rese articolate e distinte proprio da Colui che cose ben
maggiori separò e distinse? E perché no?1
che esso fosse unico per tutti gli uomini. Il filosofo arabo non si era
occupato di lingua nel commento al De anima, dove esprimeva que-
ste idee, tuttavia chi al De anima di Aristotele si fosse rifatto trattan-
do del linguaggio degli uomini di necessità doveva concludere che il
linguaggio è eterno e comune a tutti gli uomini.
L’eternità e l’unicità dell’intelletto possibile erano state oggetto
di molte contestazioni da parte dei pensatori cristiani: e non poteva
che essere così, visto che l’una e l’altra minavano alla base il concetto
stesso di religione: come è possibile la salvezza o la dannazione indi-
viduali se l’intelletto è unico per tutta l’umanità e per l’umanità di
tutti i tempi ?
Ma Aristotele era, per gli intellettuali del tempo di Dante, l’incar-
nazione stessa della filosofia e della ragione. Rinunciare al pensiero
dei filosofo greco equivaleva a rinunciare all’unico strumento per la
comprensione dell’universo naturale e dell’universo umano. Era ne-
cessario adattarlo al cristianesimo, se non si voleva restare schiacciati
dalla cultura, dalla matematica, dalla scienza, dalla filosofia, insom-
ma, degli arabi. Di qui una serie di commenti alle sue opere: pensiamo
ad Alberto Magno, pensiamo a Tommaso d’Aquino, che studiano e
rielaborano i suoi testi, li adattano al contesto cattolico. L’aristote-
lismo duecentesco – anche quello di Alberto e di Tommaso – nasce
per contrapporsi alla filosofia islamica, ed in particolare all’aristoteli-
smo arabo: non meraviglia, perciò, se la maggior parte filosofi cristia-
ni hanno come mira polemica i commenti ad Aristotele di Averroè.
Erano stati gli arabi a scoprire il pensiero greco, erano stati gli arabi
a restituire quel pensiero all’Occidente. E tra i grandi filosofi arabi,
il più grande era stato Averroè, che aveva voluto studiare da filosofo
il filosofo greco, liberandolo dalle sovrastrutture e dalle incrostazio-
ni platoniche. Averroè presentava Aristotele, diciamo, nella versione
più vicina alla laicità pagana. È chiaro a questo punto che quanto più
si amasse Aristotele, quanto più si volesse essergli fedele, tanto più
ci si doveva avvicinare al filosofo arabo e a quei rischi teologici cui
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Leonardo Sebastio
abbiamo accennato.
Dante, diciamo subito, che vuol essere ed è un buon cristiano, so-
stituisce alla nozione averroistica di eternità, quella di perpetuità, per
cui l’intelletto possibile nasce con l’umanità e dura per quanto dura
l’umanità; e sostituisce all’esistenza staccata dall’umanità, l’esistenza
della potenzialità infinita in ciascun uomo. Noi abbiamo diggià visto
come il poeta risolva la questione della perpetuità ed abbiamo accen-
nato a quali conseguenze derivino sul piano della lingua. La prima
di queste conseguenze è la dimensione eminentemente sociale del
linguaggio.
Tale dimensione è presente sino nei termini usati da Dante per la
definizione stessa di lingua, che nel De vulgari eloquentia è: «parlare
è esprimere agli altri ciò che la nostra mente concepisce». Sarebbe
semplicistica osservazione la forte pregnanza sociale di quegli «al-
tri» così prepotentemente inseriti nella definizione. Noi partiremo
invece dalla nozione di ‘mente’.
A tale nozione Dante dedica un’ampia trattazione quasi in aper-
tura di quel iii trattato del Convivio, che è anche cronologicamente
addossato al De vulgari. Il suo pensiero esplicitamente si rifà al De
anima e all’Etica nicomachea d’Aristotele – ma v’è anche Boezio –. Il
ricorso allo Stagirita costituisce un fatto assai interessante, in quanto
permetteva al poeta di sfuggire a quello che era stato un vero e pro-
prio predominio di S. Agostino in questo ambito. Il santo, infatti,
aveva nel De Trinitate identificato nella ‘mente’ la parte dell’anima
più prossima a Dio: Dio crea l’anima prima di immetterla nel corpo
appena nato. E l’anima vede allora, prima di nascere, il suo Creatore,
e ne conserva, nascosto, il ricordo nella mente, dove, mediante un
processo di fervente anamnesi, dovrà essere recuperato. Così, grazie
alla ‘mente’, l’anima umana supera tutto ciò che le è inferiore, e può
giungere a cogliere l’immagine di Dio rimastavi impressa. Dante, in-
vece, sulla scia del razionalismo averroistico, proponeva il recupero
dell’uomo come termine ad quem del progetto stabilito da Dio: quel
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Manuale di storia della lingua italiana
fanno sì che nessun uomo da solo possa possederla per intera; certo vi
saranno i grandi che accoglieranno una maggiore quantità di scienza:
Virgilio sarà il «mar di tutto il senno»» e Aristotele il «maestro di
color che sanno»; e vi saranno uomini che si pasceranno dell’umile
pasto delle bestie: «ghiande gire mangiando». Sempre però finita
è la quantità di ragione che singolarmente preso ogni essere umano
può attuare. Dunque singolarmente preso ogni essere umano è desti-
nato all’infelicità, a subire la sperequazione tra l’infinità della propria
potenzialità e la limitatezza della sua attuazione. Perché la ragione
viva nella sua intierezza e nella sua perfezione è necessario che l’uma-
nità tutta intiera partecipi alla attuazione della sua potenza. E perché
tutta l’umanità possa dedicarsi alla filosofia, attuandola, è necessario
che vi sia pace e tranquillità.
Quanto al primo connotato della filosofia, l’eternità, diremo che
il pensiero dantesco, che qui s’impronta all’averroismo, imponeva
che la scienza fosse eternamente in atto e perpetuamente. Il che vole-
va dire che sempre, sin dalla sua creazione l’uomo doveva attuare la
potenza del suo intelletto: è per questo che l’Adamo dantesco parla
appena creato, giacché, parlando, esprime il suo sapere.
Affinché, poi, la teoria averroistica fosse pienamente corredata di
prove era necessario che sin dal primo istante di vita dell’umanità si
esprimesse tutto il sapere dell’uomo. Adamo deve, dunque, esprimere
la propria natura razionale esprimendo la scienza nella lingua, ma già
la prima parola deve essere espressione di tutto l’umano sapere. E qui
averroismo e fede cristiana possono ritrovare vie di convergenza, an-
che se al di fuori della verità scritturale. La parola «El», che significa
in ebraico Dio: essa raccoglie in un istante tutto il sapere dell’umani-
tà che, appunto, in quella sola sillaba si manifesta e si attua.
Occorreva, inoltre, che quella tanto densa sillaba fosse pronun-
ciata all’atto stesso della creazione altrimenti ci sarebbe stato un mo-
mento nella storia dell’umanità in cui non si sarebbe attuata la poten-
za dell’intelletto possibile, e, dunque, l’uomo sarebbe stato infelice, e
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Manuale di storia della lingua italiana
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PARTE SECONDA
CENNI DI STORIA DELLA LINGUA
Prima dell’Italiano
I dialetti italiani non sono dialetti dell’italiano, nel senso che non
sono varianti regionali dell’italiano derivate dalla lingua italiana. La
lingua italiana ha le proprie radici in una varietà linguistica sorta dal
latino nell’Italia del primo millennio d.C., e cioè in quella della To-
scana, e più esattamente nel tipo di toscano che si parlava a Firenze.
Storicamente, quindi, la lingua italiana è una sorella degli altri dialetti
d’Italia. Il fiorentino, infatti, del Medio Evo era uno tra la folla dei
dialetti: questa folla linguistica è il romanzo, un gruppo cioè di varie-
tà linguistiche originatesi dal latino parlato ed usate in vasti territori
dell’impero romano (nell’Iberia – Spagna e Portogallo –, nella Gallia
– Francia –, nell’Italia, nella Svizzera – Grigioni e Canton Ticino –,
nella Romania).
In vero non c’è una sostanziale differenza tra un dialetto ed una
lingua. La parola dialetto assai approssimatamente si definisce in
contrapposizione alla parola lingua: questa è, per convenzione, la va-
riante linguistica che nella storia ha acquistato prestigio culturale e
politico, e che viene utilizzata in un territorio più o meno – ma an-
che più e meno – coincidente con un territorio nazionale; il dialetto
Leonardo Sebastio
le sue radici: in questo prodigio della Commedia, che in sol atto unico
genera poesia e lingua. Le scelte linguistiche del Dante della Divina
Commedia hanno determinato, non ostanti le tante contestazioni ed
opposizioni, si sono rivelate definitive: gran parte dei vocaboli del
poema sono tutt’oggi in uso; né esiste nelle letterature occidentali
altra opera delle origini che possa leggersi nell’originale come la dan-
tesca.
Francesco Petrarca con i Rerum vulgarium fragmenta – il Can-
zoniere – dà un contributo notevole alla formazione dell’italiano:
notevole per il fatto che egli opera in direzione di un ingentilimento
della lingua. Come nessun altro Petrarca seppe «scegliere», scriveva
Ugo Foscolo, «le più eleganti parole e frasi». Petrarca infatti con-
cepisce l’amore come fatto prevalentemente, se non esclusivamente,
psicologico; egli lo libera perciò dalle implicazione filosofiche e teo-
logiche che erano tipiche di Dante. Quasi di conseguenza la lingua
perde le capacità argomentative e logiche: la sintassi petrarchesca è
infatti elementare, nel lessico prevalgono sostantivi ed aggettivi. «La
cura di Petrarca va a una lingua considerata come mezzo di esercita-
zione letteraria e non già di comunicazione e riscatto culturale come
proclamava con grande enfasi Dante. Non c’è nel poeta di Laura nul-
la che faccia pensare a una consapevolezza […] del ruolo del volgare
nel progetto di emancipazione degli uomini, ben presente invece a
Dante […]».1 La lingua italiana si avvia con Petrarca a diventare lin-
gua letteraria, elitaria, degli scrittori: è Petrarca che opera il distacco
dell’italiano dalla lingua realmente parlata, cosa che provocherà il
bilinguismo degli abitanti della penisola, ancor oggi capace di tor-
mentare i giovani scolari. Aneddoti come quello della vecchina o del
fabbro che recitano i versi della Commedia sono del tutto assenti nel-
la fortuna dei Rerum vulgarium.
Benché la sua influenza non si avverta sino al Cinquecento, l’ap-
porto che Giovanni Boccaccio con la prosa del suo Decameron dà
1 V. Coletti, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, p. 58.
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Manuale di storia della lingua italiana
…i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitu-
dine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’
dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive
bene; ché del popolo non fanno caso. adunque da scriver bene più che si
può, perciò che le buone scritture, prima a’ dotti e poi al popolo del loro
secolo piacendo, piacciono altresí e a’ dotti e al popolo degli altri secoli
parimente. Ora mi potreste dire: Cotesto tuo scriver bene onde si ritrae
egli, e da cui si cerca? Hass’egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi
e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano [uno degli interlocutori del
dialogo], ma si bene ogni volta che migliore e più lodato è il parlare nelle
scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture
de’ vivi… Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate
stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per
noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello
del nostro tempo meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e
del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremmo a ragionare
col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che
non ragioniamo noi. Né fia per questo che dire si possa, che noi ragioniamo
e scriviamo a’ morti più che a’ vivi. A’ morti scrivono coloro, le scritture de’
quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que’
tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e così le malvagie cose leggono
come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chia-
mare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime
carte. [P. Bembo, Prose della volgar lingua, i, xix].
diana della gran parte degli italiani non soltanto in senso strutturale,
bensì anche dal punto di vista funzionale, in quanto era rimasto trop-
po aristocratico e colto rispetto alle esigenze della vita di tutti i giorni,
e dunque era insufficiente ed inadatto per gli usi quotidiani. Manzoni
proponeva, tra l’altro, che fosse il fiorentino parlato contemporaneo
(nella sua varietà ‘colta’), e non il fiorentino letterario arcaico, a for-
mare la base della lingua nazionale. Il punto culminante della rifles-
sione di Manzoni sul problema fu la relazione (1868) sull’unità della
lingua italiana e sui mezzi per diffonderla, nella quale egli propose,
tra l’altro, l’insegnamento del fiorentino nelle scuole e la pubblica-
zione di un dizionario fiorentino:
… nel caso della Germania, l’uso è veramente creato o stabilito dalla let-
teratura comune, e nel caso della Francia è stabilito o creato dalla conversa-
zione e dalle lettere di quel municipio, nel quale si accentra ogni movimen-
to civile della nazione; che perciò, in entrambi i casi, la unità dell’idioma
intanto si estende, in quanto lo importa la virtù indefettibile della comunità
del pensiero o l’azione imperativa dell’intelletto nazionale, la quale s’incar-
na nell’idioma medesimo, e non incontra nessuno, che voglia o possa a lei
sottrarsi; cosicché il vocabolario ivi risulta, come vuole la natura della cosa,
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Leonardo Sebastio
Il ’900
nel 1889 da Giosuè Carducci, che ad es. nel Congresso del ’13 prese
posizione contro le insegne esotiche).
Il fascismo perseguì nella scuola una vigorosissima azione antidia-
lettale. Era stato Giuseppe Lombardo Radice a varare nelle elementa-
ri un programma dal titolo «dal dialetto alla lingua», che diede luo-
go a largo seguito e fu accolto nella riforma Gentile. Mussolini stesso,
in una campagna del ’31-’32, intervenne di persona. Fatto sta che coi
programmi Ercole dell’ottobre 1934 il dialetto scomparve dalla scuo-
la anche come semplice strumento di apprendimento dell’italiano.
Ad esempio: in 2ª classe rimane l’attenzione agli esercizi di correzio-
ne degli errori «suggeriti» (’23) o «favoriti» (’34) del dialetto; in
3ª classe scompaiono gli esercizi con riferimento al dialetto e quelli di
traduzione da esso di proverbi, indovinelli, novelline. In 5ª scompaio-
no il «sistematico riferimento al dialetto» e gli esercizi di traduzione
indicati.
Anche le indicazioni riguardo alla grammatica vengono rese più
categoriche. Giuseppe Lombardo Radice considerava la grammatica
come un elemento da apprendere contemporaneamente al processo
di apprendimento della lingua viva e pertanto aveva progettato un
percorso in cui la pratica, appunto, linguistica si intrecciava al dialet-
to secondo la formula «nozioni pratiche di grammatica ed esercizi
grammaticali con riferimento al dialetto». Ora, nel ’34, le nozioni
pratiche vengono sostituite da «esercizi di grammatica».
Il bando dalla scuola del dialetto comportò l’allentamento dell’ap-
porto che esso poteva dare alla lingua: ciò sia in generale, sia nello
specifico scolastico. Per converso assunse grande rilievo quell’elemen-
to sclerotizzante delle lingue che è la grammatica, tanto più sclerotiz-
zante quanto più puristica e normativa essa si presenta. Il trionfo della
italiana trascinò con sé l’insegnamento della grammatica di tutte le
lingue (1936) preferito alla pratica, e al centro di ogni insegnamento
linguistico venne posto, direttamente o indirettamente, il latino.
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Leonardo Sebastio
do Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: «Non si dice
lalla, si dice aradio».
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vo-
stra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla
scuola.
«Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua». L’ha detto
la. Costituzione pensando a lui [Lettera a una professoressa, 1967].
7. Per le capacità sia ricettive sia produttive, sia orali sia scritte, occorre
sviluppare e stimolare la capacità di passaggio dalle formulazioni più
accentuatamente locali, colloquiali, immediate, informali, a quelle più
generalmente usate, più meditate, riflesse e formali.
8. Seguendo la regola precedente, si incontra la necessità di addestrare alla
conoscenza e all’uso di modi istituzionalizzati d’uso della lingua comu-
ne (linguaggio giuridico, linguaggi letterari e poetici ecc.).
9. Nella cornice complessiva delle varie capacità linguistiche, occorre curare
e sviluppare in particolare, fin dalle prime esperienze scolari, la capacità,
inerente al linguaggio verbale, di autodefinirsi e autodichiararsi e analiz-
zarsi. Questa cura e questo sviluppo possono cominciare a realizzarsi fin
dalle prime classi elementari arricchendo progressivamente le parti di
vocabolario più specificamente destinate a parlare dei fatti linguistici, e
innestando così in ciò, nelle scuole postelementari, lo studio della realtà
linguistica circostante, dei meccanismi della lingua e dei dialetti […].
10. In ogni caso e modo occorre sviluppare il senso della funzionalità di ogni
possibile tipo di forme linguistiche note e ignote. La vecchia pedagogia
linguistica era imitativa, prescrittiva ed esclusiva. Diceva: «Devi dire
sempre e solo così. Il resto è errore». La nuova educazione linguistica
(più ardua) dice: «Puoi dire così, e anche così e anche questo che pare
errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel
dire così o così» […].
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Manuale di storia della lingua italiana
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L’ITALIANO D’OGGI TRA ORALITÀ E SCRITTURA
ti». Erroneo perché la marcatura resta anche senza il ne: «Di questo
problema ti parlerò domani» e dunque le ragioni dell’efficacia non
sono sufficienti a giustificare la violazione della grammatica.
Un’altra attitudine del parlato moderno è costituto dall’uso di
frasi coordinate a costituire lunghi periodi e addirittura discorsi:
«pioveva e sono uscito senza ombrello e mi son preso una bella in-
freddatura», «la lezione era alle nove e l’aula era piena e si sentiva
un vocio continuo». È il segno dell’indebolirsi delle congiunzioni
subordinanti. La e, perciò, assume altre funzioni oltre a quella c opu-
lati va : la e sp l icativa : «la lezione era alle nove e l’aula era piena e
si sentiva un vocio continuo», «ho studiato e sono preparato»; av-
ver s ati va : «pioveva e sono uscito senza ombrello»; c onclusiva :
«sono uscito senza ombrello e mi son preso una bella infreddatura»,
rafforzativa: «sei bello e spacciato»; in iz io d i d is c ors o : «E do-
mani è un altro giorno».
Alla medesima attitudine appartiene la costruzione di periodi co-
stituiti da frasi brevi, che si succedono senza alcun segnale di subordi-
nazione o di coordinazione: «Pioveva. Sono uscito senza ombrello.
Mi son preso una bella infreddatura. Oggi resterò in casa. Domani
verrò a lezione». In realtà le congiunzioni subordinanti – soprattut-
to – sono sottintese: certo è che nel parlato i perché, poiché, affinché,
sebbene, tuttavia hanno vita grama. Florida è invece la vita di dato che,
visto che, dal momento che e, inspiegabilmente, un comunque che va
prendendo il posto del cioè di qualche anno fa.
Il passaggio di questo modo di parlare allo scritto da taluni è ac-
colto con qualche favore: è scrittura agile, adeguata alla comunicazio-
ne giornalistica; anzi, è lo stile giornalistico. Forse; a patto che la elu-
sione delle congiunzioni subordinanti non nasconda una pericolosa
superficialità ed incomprensione della realtà. Dal punto di vista della
didattica dell’italiano, però, ed in particolare della scrittura, esso va
annoverato tra i modi decisamente sconsigliabili. È bene, infatti, che
nella scuola dalla primaria e all’università lo studente chiarisca, prima
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I PRESTITI
Uno dei fenomeni più vistosi nelle lingue che si raggruppano sot-
to il nome di romanze (italiano, francese, spagnolo, rumeno, ecc.) è
che queste parlate, e soprattutto l’italiano, raccolgono il loro baga-
glio lessicale non tanto dal fondo della romanità popolare quanto dal
recupero della classicità operato in varie tappe prima nel Medioevo
carolingio, poi nel Trecento toscano ed infine nell’Umanesimo e nel
Rinascimento. Il patrimonio lessicale delle lingue moderne romanze
non deriva se non in minima parte dall’antica e provinciale latinità
– benché questa stia alla base della loro struttura fondamentale –: è
invece larghissimamente attinto dalla costante e generalizzata lettura
ed imitazione delle opere classiche. Non c’è scrittore nato nella peni-
sola, sino alle soglie del xx secolo, che non abbia dato il suo apporto
lessicale attingendolo alla classicità latina.
L’Italia, dunque, eredita da Roma la struttura sintattica della fra-
se, e quella che di gran lunga è la maggior parte della sua ricchezza
lessicale. Ma la lingua di un territorio è il riflesso della sua storia, spe-
cialmente per una nazione come la nostra, posta al centro del Medi-
terraneo, mèta ambita prima dei popoli del nord, poi di quelli più
vicini. Era inevitabile che nell’italiano si depositassero termini dei
vari popoli dominatori: anche di quelli che venivano detti barbari. E,
naturalmente, non solo parole: questi popoli apportarono mutamen-
Leonardo Sebastio
Nel 489 gli Ostrogoti (ramo orientale dei germani Goti), la cui
origine era nella penisola scandinava, invasero l’Italia guidati dal re
Teodorico e posero la loro capitale in Ravenna. La loro dominazio-
ne durò sino al 553, anno in cui furono sconfitti da Narsete, generale
dell’imperatore d’Oriente Giustiniano.
La loro dominazione lasciò un’eredità linguistica in gran parte
militaresca:
albergo < hari-berg riparo per l’esercito;
arengo < hrings cerchio;
arringare < “ parlare al centro di un cerchio di persone;
arredare < (ga-)rēdan avere cura;
astio < haifsts litigio;
banda < binda striscia di stoffa che distingueva i soldati;
bandiera < “ la stoffa che indicava il luogo dove i soldati
si radunavano e giuravano fedeltà;
briglia < bridgil;
elmo < hilms;
fiasco < flaskō recipiente rivestito di vimini;
guardare < wardōn stare in guardia;
guardia < “
nastro < nastilo cinghia di cuoio;
sghembo < slimbs obliquo;
smaltire < smaltjan fondere;
stanga < stange(?) lungo legno squadrato;
stecca < stika bastone, pezzo di legno.
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Manuale di storia della lingua italiana
Negli stessi anni in cui Pietro Bembo lavorava l’Italia veniva inva-
sa dallo straniero. Seguire le vicende politiche e linguistiche di questo
periodo è estremamente arduo, né è questa la sede per tracciarne un
profilo sia pure rapido. Si procederà perciò a grandi linee, seguendo
gli apporti che francesi e spagnoli ebbero a fornire indipendentemen-
te dalle alterne e varie fasi delle loro dominazioni nelle regioni italia-
ne.
Cominceremo dal francese che esercitò sull’italiano una grande
influenza più tardi, durante il ’700, in grazie del prestigio di cui godé
la sua cultura. Nel Cinquecento entrano pochi vocaboli dalla Fran-
cia:
appannaggio < apanage dare del pane;
batteria < batterie che batte;
birra < bière dal tedesco bier;
busta < boiste scatola di bosso;
cadetto < cadet capo;
equipaggio < équipage a sua volta da équiper = imbarcare;
gabinetto < cabinet piccola cabina;
galleria < galerie;
marciare < marchier pestare i piedi;
massacro < massacre;
petardo < pétard mortaio;
trincea < trancchée fossato.
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PARTE TERZA
Manuale di storia della lingua italiana
Dante Alighieri
Convivio I, III, 3-11 (1304)
1 La forma etimologica (da fiore; da cui pure fiorentino) è quella usata pressoché
sempre da Dante.
2 È ancora l’articolo dominante.
3 È la forma più utilizzata da Dante.
4 Forma epitetica del pass. rem.; oggi invilì.
5 Anche questo periodo procede da causa a effetto. Anche questa volta la causa
è strettamente legata alla chiusa del periodo precedente non solo concettualmen-
te ma anche linguisticamente. La «piaga della fortuna» in grazia dell’accezione
di fortuna come fortunale, tempesta marina risulta essere la premessa sottaciuta
dell’immagine della nave «sanza vela e sanza governo» (timone). La furia della
tempesta è poi esplicitata nell’accumulazione di «porti e foci e liti», più o meno
tranquilli (i porti) più o meno remoti (liti). Eppure quella nave ha «alcuna fama»,
ma tale fama non giova al naufrago, ché molti l’avevano immaginato diverso. La
delusione che desta l’incontro di persona, ed è qui il punto che sta a cuore al poeta,
si riversa anche sulle sue opere, quelle già scritte, che appaiono più modeste, e so-
prattutto sulle opere da scrivere e su questa, il Convivio. Consegue che la lingua e lo
stile con cui il trattato è scritto possono essere lo strumento di riscatto del poeta.
6 La -ie- è esito della dittongazione spontanea toscana della e aperta (/ε/) in silla-
ba aperta.
7 Da exampliare: amplificare, estendersi. È lezione molto discussa. Sarebbe una
delle poche parole dantesche non sopravvissute nella lingua moderna.
8 Nel toscano si alternano uscite di -tja un -za e in -zia: justitia - giustizia, letitia-
90
Manuale di storia della lingua italiana
Dino Compagni
Cronica della cose occorrenti ai tempi suoi, i, 21 (1310-12)
non li venne fatto. Per che, tornato1 a Firenze e sentendolo, inanimò2 molti
giovani contro a3 lui, i quali li promisono4 esser in suo aiuto. E essendo un
dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il
cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguìto da’ Cerchi, per farli
trascorrere5 nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale
andò in vano. Era quivi, con messer Corso, Simone suo figliuolo, forte e
ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri, con le spade; e corsogli
dietro: ma non lo giugnendo,6 li gittarono de’ sassi; e dalle finestre gliene
furono gittati, per modo fu ferito nella mano.
Cominciò per questo l’odio a multiplicare.7 E messer Corso molto spar-
lava di messer Vieri, chiamandolo l’asino di Porta, perché era uomo bellissi-
mo, ma di poca malizia, né di bel parlare; e però spesso dicea: “Ha raghiato
oggi l’asino di Porta?”; e molto lo spregiava. E chiamava Guido, Cavicchia.
E così rapportavano i giullari, e spezialmente8 uno si chiamava Scampolino,
che rapportava molto peggio9 non si diceva, perché i Cerchi si movessero a
1 Benché il soggetto della frase precedente sia Corso – al quale (li) non venne
fatto d’uccidere Guido – il participio passato si riferisce a Guido: è, infatti, Guido
che è partito in pellegrinaggio, non Corso che quindi non può tornare.
2 Pass. remoto di inanimare derivato da in illativo (che porta dentro: inorgoglire
= entrare nell’orgoglio) anima, col significato di «dare coraggio»; il verbo fu uti-
lizzato sino al ’700 anche se si trova qualche attestazione nell’ ’800.
3 La preposizione contro si può costruire seguita o no da altra preposizione di, a.
Preferibilmente senza («contro un albero»), a meno che non di tratti di un prono-
me («contro di me»).
4 Per la terze persona plurale del passato remoto nel Trecento (ma ancora nel
Quattro e Cinquecento) è ancora assai notevole l’oscillazione fra le forme del tipo
scrissono (come nel nostro caso), scrissoro, scrissero, andaro, andarono, andorno, an-
donno. Vedi qui oltre a «promisono», «gittarono», «infamarono»
5 Passare, quindi coinvolgere; costruzione frequente nella lingua Duo-Tecente-
sca.
6 La collocazione a sinistra del pronome rispetto al gerundio, assai frequente nel
Trecento, oggi è al tutto scomparso.
7 Ha valore riflessivo.
8 Ancora oscillante è l’adattatamento al volgare dello j latino: così abbiamo tanto
speciale quanto speziale, socio e sozio.
9 Frequentissima sarà nel Quattrocento l’elisione del che.
95
Leonardo Sebastio
Giovanni Boccaccio
Decameron ii, 5 (1348)
1 Adattamento del provenzalismo amistat a sua volta derivato dal lat. amicitate(m):
in volgare avremo amistate, amistanza, amistà.
2 Periodo complesso: comincia con due frasi gerundive, entrambe con valore
temporale, ma con sfumature diverse (perciò non sono coordinate): la prima pro-
pone una situazione continuativa ed attuale (“Andreuccio continuava le trattative
per l’acquisto dei cavalli”); la seconda propone un’azione già conclusa da collocarsi
all’inizio delle trattative. Dopo le due frasi gerundive s’avvia la principale che è
subito interrotta da un inciso dl qual varrà notare la congiunzione avversativa che
si oppone all’aggettivo «bellissima» quasi che la bellezza esteriore dovesse esse-
re garanzia di quella interiore. Interessante è la contrapposizione tra il superlativo
«bellissima» ed il superlativo negativo «piccol pregio» (prezzo, dal tardolatino
pretiāre, a sua volta derivato da pretium. Il gruppo latino tj – che si leggeva come
tsi – in Toscana dà sia zz – palatium > palazzo, sia gi – rationem > ragione –; avremo
pertanto le due forme prezzo e pregio). Segue una proposizione esclusiva implicita
col soggetto posposto al verbo. Finalmente si conclude la principale col comple-
mento di luogo dopo il verbo secondo una costruzione complessa ma naturale;
a differenza delle due seguenti subordinate che invertono l’ordine naturale, non
solo, ma sono altresì brevissime, come brevissima è la conclusione dopo il discorso
diretto. Si quindi un periodo dall’avvio lento, per poi concludersi con una serie
velocissima di azioni, di pensieri, di decisioni.
3 Boccaccio usa con grande frequenza l’iperbato (l’inversione di elementi della
frase rispetto all’ordine naturale).
4 Il plurale dell’articolo maschile lo solitamente è li, ma più raramente, anche
davanti a consonante come nel nostro caso, gli.
96
Manuale di storia della lingua italiana
Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana,1 la quale, come
vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a
abbracciarlo: il che la giovane veggendo,2 senza dire alcuna cosa, da una del-
le parti la cominciò a attendere.3 Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e cono-
sciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo,
senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì:4 e Andreuccio si tornò5 a
mercatare ma niente comperò la mattina.
La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua
vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a
dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a doman-
dare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse.6 La
quale ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come
avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che7 lungamente in Cicilia
col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove
tornasse1 e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al
suo appetito fornire2 con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua inten-
zione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò
che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale
essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò
all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui
medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale
dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: – Messere, una
gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri.
Francesco Petrarca
Canzoniere 16 (1366-94)
Movesi il vecchierel canuto et biancho3
minata, accentuando così la funzione dichiarativa potendosi assimilare ad un infat-
ti: cfr. sempre nel Decameron, i, 1: «Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandis-
simo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo»;
e ancora nella novella di ser Ciappelletto: «e ultimamente cominciò a sospirare e
appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea».
1 Dove tornasse dopo il mercato: quindi in albergo.
2 Al… fornire. è una finale: Fornire ha senso si completare, finire, quindi soddisfa-
re il suo desiderio.
3 La grafia del Petrarca è fortemente latineggiante. Della lingua di Petrarca scrive
G. Contini: «… se non monoglottia letterale, è certa l’unità di tono e di lessico, in
particolare, benché non esclusivamente, nel volgare. Questa unificazione si compie
lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumenta-
le, meramente funzionale e comunicativa e pratica. Tuttavia codesto lume trascen-
dentale del linguaggio è un ideale assolutamente spontaneo, non compatibile con
razionale opera di riflessione. Nessun lacerto teoretico sulla lingua si può avellere
da Petrarca. Se in una Familiare a Francesco Nelli (xvi 14) si ricanta la solita can-
zone della convenzionalità e mutevolezza del linguaggio, quello che ivi domina è
però l’agostiniano (e del resto prettamente oratorio) lamento sulla maggior cura
prestata allo stile che alla permanente legge morale. Sintomatici parranno semmai i
rigurgiti d’impazienza nei riguardi di Dante. Posto che per sua biologica salute, per
il funzionamento della propria organizzazione stilistica, egli doveva imporsene (o
98
Manuale di storia della lingua italiana
procurarsene) l’ignoranza, la sua fioca potenza speculativa non poteva che masche-
rare tanto santa e legittima ignoranza sotto larve di pretesti psicologici. Al nostro
scopo importa che nella lettera famosissima al Boccaccio, quella dove s’affanna a
negare la propria invidia e dove ammette (o simula?) di non essersi procurato la
Commedia per sfuggire ogni pericolo d’imitazione al tempo che, spregevole im-
presa giovanile, egli poetava in volgare, figurino espressioni come queste (Petrarca
ripeteva da Cicerone la tripartizione, e gerarchica, degli stili): “stilus in suo gene-
re optimus”; “popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem haud dubie
nobilis poëtae”. Quanto allo sdoppiamento linguistico, esso sottostà all’innocua
giustificazione che immane nel predicato di nugae o nugellae.
Quarto punto: nessun esperimento, ove non sia quello di lavorare tutta una vita
attorno agli stessi testi fondamentali. O al massimo un esperimento, per stimo-
lo alieno, e non concluso, è da ravvisare nei Trionfi; che sono un vero equivoco,
obliterando come fanno ogni fermento d’accensione narrativa in vantaggio di
un’irrelata visione; trasformando in ingranaggio per mere sorprese foniche quello
straordinario apparecchio per sorprese tematiche ed euristiche: ritmica astratta e
simbolica da autentico Autunno del medio evo. Dunque, perfetta coerenza; ma la
generale uniformità inevitabilmente accentua e ingrandisce le differenze minime,
quali quelle fra canzone e sonetto, o addirittura fra gruppo e gruppo di sonetti…
Fiorentinità anch’essa trascendentale è, per contro, la fiorentinità di questo fioren-
tino della Diaspora bianca, nato esule e stato giusto a balia in Valdarno, cresciuto in
quel Laterano super flumina Babylonis che fu Avignone: la medesima Avignone di
dove il suo amico Simon Martini getterà il seme del gotico internazionale. Ritiene
un senso di presagio, che il fondo italiano su cui di preferenza vediamo campirsi
l’irrequieto turista sia, nonostante le alcune soste nel Centro, da Pisa a Napoli, e
perfino, perfino in Firenze che quel fondo sia piuttosto la goliardica Bologna o
l’agro parmense o la periferia di Milano con la Bassa lombarda, o infine la tratta
euganea fra la laguna e Arquà». G. Contini, Introduzione, a F. Petrarca, Can-
zoniere, Torino, Einaudi, 1964.
1 Significa dal: forse latinismo da de + articolo. Ma cfr. «dal cammino stanco».
2 Il termine è largamente attestato sia nell’accezione di dotare sia in quello di
compiere, eseguire. È derivato dal franco frumjan che aveva l’accezione di eseguire.
3 Il diminutivo è scarsamente attestato.
4 Il valore è di venir meno, ma «manco» deriva dal latino: măncu(m) è una voce
dotta che vale infermo
99
Leonardo Sebastio
non tace. E sento io questo: chi fusse più di me dotto, o tale quale molti vogliono
essere riputati, costui in questa oggi commune troverrebbe non meno ornamenti
che in quella, quale essi tanto prepongono e tanto in altri desiderano. Né posso io
patire che a molti dispiaccia quello che pur usano, e pur lodino quello che né inten-
dono, né in sé curano d’intendere. Troppo biasimo chi richiede in altri quello che
in sé stessi recusa. E sia quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena
d’autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra s’e’
dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e polita».
1 Persona anziana, ma anche figlio primogenito.
2 Troppo è un avverbio di origine francone, entrata ben presto nel volgare italia-
no; il senso originario è molto, poi con Boccaccio subentra il senso di eccessivo. Il
senso originario è stato recentemente recuperato nel gergo giovanile.
3 Anche nell’uso dell’Alberti l’iperbato è assai frequente
4 Nell’italiano antico e in quello del Quattrocento i superlativi sono spesso ac-
compagnati da intensivi.
5 La grafia latineggiante è quella preferita nell’Alberti e nel Quattrocento.
6 Disgiunta. Latinismo da sēiungo, dove il prefisso se(d) indica allontanamento.
7 Latinismo; ma cfr. «severità», «umanità».
8 Ha valore di nobile.
9 E’ e el sono gli articoli consueti del Toscano: diventeranno i e il.
101
Leonardo Sebastio
Niccolò Machiavelli
Mandragola (1519)
Ligurio4 Io non credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui;
e quanto la fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lei bella donna, savia,
costumata, ed atta a governare un regno.5 E parmi che rare volte si
verifichi quel proverbio ne’ matrimoni, che: “Dio fa gli uomini, e’6
si appaiono”; perché spesso si vede uno7 uomo ben qualificato sortire
una bestia e, per avverso, una prudente donna avere un pazzo. Ma
della pazzia di costui se ne8 cava questo bene, che Callimaco ha che
sperare. Ma eccolo. Che vai tu9 appostando,10 Callimaco?
Callimaco Io ti aveva veduto col dottore, ed aspettavo che tu ti spiccassi
1 Il suffisso -mento è tra più antichi strumenti, derivato dai provenzali, per la for-
mazione delle parole in italiano
2 Costruzione a senso: il verbo cresce è concordato con uno dei due soggetti, «co-
stumi» e «tema». Qui l’Alberti lo concorda con il secondo dei due soggetti.
3 Pigrizia, dal lati. dese, -idis = ozioso.
4 Ligurio si esprime in una lingua colloquiale, non popolare, ma semplice assai
vicina la parlato; mentre Callimaco è più artificiato nel linguaggio.
5 L’ellissi del verbo è la marca evidente della volontà di Machiavelli di riprodurre
il parlato.
6 Vale il pronome pers. di terza pl.
7 Nell’oscillazione tra un uomo e uno uomo, prevale in Machiavelli questa seconda
forma.
8 La ridondanza del ne («della pazzia… se ne») è ammissibile nella lingua parlata
popolare. Meno tollerabile nella scrittura e nei discorsi formali.
9 La posposizione del pronome personale al verbo è caratteristica della scrittura
teatrale di Machiavelli.
10 Da appostare = fare la guardia.
103
Leonardo Sebastio
Ludovico Ariosto
Orlando Furioso l.i (1532)
8
Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che entrambi avean4 per la bellezza rara
d’amoroso disio5 l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse,6 e diè in mano al duca di Bavera;
9
in premio promettendola a quel d’essi,
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli7 più copia uccidessi,
10
Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi5 al caso6 era salita in sella,
e quando bisognò7 le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella8
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò9 un cavallier ch’a piè venìa.
Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino vi, x (1619)
Il decreto del sacrificio10 non ritrovo nelle memorie11 che porgesse materia
1 V’è nel Seicento non fiorentino, non toscano, molta incertezza circa l’uso delle
doppie. Cfr. subito dopo rapresenta per il quale si può ipotizzare il latino repraesen-
tare. Quanto alla semantica del temine lezzione oggi diremmo significante, mentre
il successivo termine senso corrisponde a significato.
2 Per la zz fu in voga una regola secondo la quale il ti latino seguito da vocale dà z,
il cti e il pti danno zz come in questo caso; ma cfr. anche contradizzione che vengono
rispettivamente da lectione(m) e -dictione(m), mentre considerazioni che deriva da
consideratione(m) e decchiarazione che deriva da declaratione(m).
3 Nella Bibbia volgare del 1500 congettura vale significato.
4 Forzati, dal latino inculcare, mettere a forza.
5 L’iperbato, come abbiamo già detto, è figura retorica che consiste nell’inversio-
ne di elementi della frase rispetto all’ordine naturale.
6 Latinismo: da distrahunt.
7 Giunto.
8 Dal latino contradictione(m), dunque con una d, mentre il nesso latino ct dà zz.
9 Ha valore attivo: «contiene molti contenuti che possono educare il popolo dei fede-
li»
10 Imposto.
11 Latina.
109
Leonardo Sebastio
olo nella prima A Corinzii, che, non ostante ogni preoccupazione contraria
della mente, qual si voglia persona resterà ben informata, e chi vorrà saper
qual fosse già il senso della Chiesa romana e quando e perché la corte mutas-
se pensiero, potrà osservare che Gioanni papa viii, dopo aver per l’inanzi
fatto una severissima riprensione a moravi del celebrar la messa in lingua
slava, con precetto d’astenersene, nondimeno, meglio informato, dell’880
scrisse a Sfentopulcro, loro prencipe, overo conte, una longa lettera, dove
non per concessione, ma per decchiarazione afferma che non è contrario
1 Affidato.
2 Neutro: che cosa.
3 Ancora nell’Ottocento era usuale trovare l’articolo plurale i davanti a s seguita
da consonante. Cfr. L. Ariosto, Cinque canti, iii, 78: «e fermati a Valenza avea
i stendardi»; B. Castiglione, Libro del Cortegiano, II, 37: «tanto forte, che i
staffieri non possan lor tener dietro»; G. Vasari, Vite, iii, 50, Perino del Vaga, 126:
«vi si lavorava di già i stucchi».
4 Ora grammaticalizzata.
5 Centinaia.
6 Il Pontificale Romano è la raccolta delle prescrizioni liturgiche per i riti della
Chiesa Cattolica.
7 I lettori erano collaboratori degli officianti. Essi ricevevano l’investitura dal
papa che affidava loro il libro delle Sacre Scritture; non erano ordinati, come affer-
ma il Sarpi: l’ordinazione era riservata ai sacerdoti.
8 È un infinito gnomico; come il successivo bastar.
110
Manuale di storia della lingua italiana
alla fede e sana dottrina il dire la messa e le altre ore1 in lingua slava, perché
chi ha fatto la lingua ebrea, greca e latina, ha fatto anco le altre a sua gloria,
allegando per questo diversi passi della Scrittura et in particolar l’ammoni-
zione di san Paolo a’ Corinzii.
Parini Giuseppe
Orazione inaugurale (1769)
1 Il grande affetto che porto alla Signoria Vostra e l’obbligo contratto di dare
eternamente riscontro dei favori che sempre mi avete fatto, mi costringono a darne
testimonianza pubblica con il presente libro, che Vi dedico con tutto il desiderio
che ho di servirvi. Compiacetevi, dunque, di ricerverlo di buon animo; e non vi
dispiaccia che io venga ora ad offrire un libro in lingua napoletana ad una persona
che, come la Signoria Vostra, ha fatto lunghi studi sulle lettere toscane: perché, se
vogliamo ben considerare, la nostra lingua non ha nulla da invidiare alla fiorentina,
né il fiume Arno ha nulla da insegnare al nostro Sebeto; ché, se la lingua di Firenze
oggi è l’oggetto del desiderio di tutti gli scrittori (grazie a Boccaccio che con una
bocca d’orzo le dette forma) la nostra, se avesse avuto un altro che l’avesse levigata
con una cotenna di lardo, sarebbe forse diventata più lucida e più bella d’una cassa
di noce. Tanto più che la materia è così adatta a ricevere una forma bella, quanto la
fiorentina, e forse anche migliore: infatti, anche a toglierci dagli occhi il velo della
passione, vedremmo che, benché questa botte della lingua napoletana sia andata
un poco in aceto, per le incursioni dei lanzichenecchi e dei tanti altri barbari che
vennero in Italia con i Goti, tuttavia ancora si può riconoscere che è derivata da
buon greco perché è rimasto qualche residuo di quel buon odore. E che sia vero
(si vede dal fatto che) sino ad oggi si sente dire da popolani «chiafeo», «pacchia-
no», «vastaso», «catamelle», «cato», «astraco», «scafutare», «sciglio», «ie-
nimma» e via discorrendo, che possono servire come salda garanzia per prendere
dal banco della fama la gran gloria d’essere la più bella lingua d’Italia. Ma perché
dubitare ? io sono sicuro che non sdegnerete cose scritte in questa lingua: poiché
alla greca, alla latina e alla toscana, in ciascuna delle quali siete tanto fecondo, avete
voluto aggiungere la napoletana, nella quale scrivete con tanta grazia: giacché v’è
parso che, così come il carro del Sole è tirato da quattro cavalli, il carro della vostra
luce non potesse andare diritto con tre lingue solamente. Per questo, dunque, con
animo di leone vi faccio questo presente, e se potessi darvi cosa più ponderosa,
lo farei tanto volentieri dal momento che il dare a voi è dare a me stesso: poiché
proprio a causa dell’amicizia, che intercorre fra noi, le nostre anime sono un stessa
cosa.
112
Manuale di storia della lingua italiana
1 Particella pronominale pleonastica: cfr. il fatto si è che. Forse su calco del france-
se che esige il soggetto il anche negli impersonali. In italiano l’uso della particella
pronominale col verbo essere è raro o ricercato.
2 È una delle tante varianti grafiche dell’italiano del ’700. Varianti grafiche sono
pure «multiplicare», «benivolenza».
3 Meno.
4 Permaneva l’oscillazione tra doppie e scempie soprattutto in quelle parole in cui
l’uso toscano differiva da quello latino.
5 Periodo complesso per contenuto: poggia su due frasi distinte dal punto e vir-
gola: la seconda esprime la conseguenza di ciò che è affermato come verità evidente.
Nella prima frase avremo l’avvio della principale con la congiunzione introduce
una soggettiva con funzione di predicato (L’altra… che) che subisce l’interruzione
di un lungo inciso costituito da una causale implicita gerundiva che a sua suolta
regge due limitative coordinate, e finalmente la esplicitazione della soggettiva che
contiene la tesi principale. La seconda frase inizia con una causale, prosegue con
una consecutiva e solo dopo le principali coordinate da un’avversativa con conten-
gono la dimostrazione della tesi. Tutto il passo qui citato si modula su questo tipo
di architettura classica del periodo.
6 In altro modo, diversamente.
7 Parini preferisce le forme distinte.
113
Leonardo Sebastio
case, e formare il carattere di tutti i cittadini ; io, dissi, non rifletto giammai
a quella famosa età, che non mi paia di vedere il facondo Pericle così ragio-
nare al popolo ateniese…
Giacomo Leopardi
Operette morali. Dialogo di Plotino e Porfirio (1827)
Plotino. Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei
maravigliare se io vengo osservando1 i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo
stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai
sul cuore.2 Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso
molto; hai una certa guardatura,3 e lasci andare certe parole: in fine,
senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi4 in
capo una mala intenzione.
Porfirio. Come, che vuoi tu dire?
Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo
augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non
far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tan-
to tempo. So bene che io ti fo5 dispiacere a muoverti questo discorso;
e intendo che ti sarebbe stato caro di6 tenerti il tuo proposito celato:
ma in cosa di tanto momento io non poteva7 tacere; e tu non dovresti
avere a male di conferirla8 con persona che ti vuol tanto bene quanto
a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando
Alessandro Manzoni
I promessi sposi (1840)
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso
casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628 don Abbondio, cura-
to d’una delle terre accennate di sopra:6 il nome di questa, nè il casato del
1 Frequente è l’uso delle forme separate.
2 Si noti l’uso dei due modi «si vive» e «stimasi».
3 Cfr. Passero solitario: «… in questa parte / rimota alla campagna». Dopo la
storia dell’astronomia sempre la forma rimoto.
4 Come ella anche lei si riferisce a noia: non che manchino nelle Operette le forme
esso, essa, che pure hanno largo impiego; i pronomi si alternano in maniera indiffe-
renziata.
5 Forma aggettivale arcaicizzante, letteraria e rara di sostanza; le uscite in -evole
furono care a G.B. Vico ed Alessandro Verri.
6 Il primo periodo di quest’avvio di narrazione è costituito da cinque proposi-
zioni reggenti coordinate distinte in due gruppi (le prime 3 con la congiunzione
e, come le ultime 2). I 2 gruppi sono distinti dai due punti (:) che qui non han-
no la specifica funzione dichiarativa esplicativa, ma quella, più rara, di semplice
scansione del periodo, le cui parti sono insieme divise e collegate (il collegamento
è qui evidente nell’avv. temporale poi). All’interno di ogni reggente v’è almeno
117
Leonardo Sebastio
una subordinata implicita espressa col part. passato o col gerundio: tenendo, messa,
guardando, buttando ecc. che arricchiscono il patrimonio delle subordinate espli-
cite: la relativa che facevano, la locativa dove ... si dipingeva. Fatta eccezione per la 1ª
propos. (Diceva tranquillamente il suo ufizio che presenta tuttavia l’avv. tra il verbo
e il compl. oggetto) nelle altre il sogg. è distanziato dal verbo con incisi solitamente
verbali, che precisano, arricchendola l’azione. Ciò conferisce alla scrittura di M.
un andamento largo e piano, che mira a cogliere la complessa varietà delle vicende,
degli uomini, delle cose. Il periodo successivo, pur venendo dopo un punto fermo,
presenta un poi, identico a quello utilizzato nel precedente ed offre la stessa strut-
tura sintattica (cfr. l’uso del (:) non dichiarativo) sì da sembrarne naturale, non
sintattica, prosecuzione. Nuovo è quello che inizia con Dopo la voltata, nel quale la
sintassi cambia: presenta lo schema diretto di sogg.-verbo-espansioni che affretta e
drammatizza il racconto. Ma cfr. Il curato, voltata… in cui torna la struttura allarga-
ta del periodo. M., dunque, procede alternando una modalità all’altra.
1 L’apocope è frequentissima nella prosa manzoniana.
2 Termini come casato, ufizio, oziosamente, fessi, squarcio, confluente, omero ecc.
appartengono ad un lessico che oggi noi sentiamo come letterario, come pure
sentiamo letteraria la struttura del periodo manzoniano. L’autore, invece, faceva
riferimento al linguaggio medio, parlato, che a quello letterario si opponeva: il ro-
manzo rappresenta infatti una vera e propria rivoluzione linguistica in direzione
del popolare e del vivo. Notoriamente l’autore sottopose l’edizione del 1827 (in cui
la popolarità coincideva col dialetto milanese) alla risciacquatura in Arno; ciò però
non significò l’adozione di forme popolaresche come ad es. spengere per spegnere,
piagnere per piangere; o delle forme dell’imperf. indic. in -ea, alle quali preferisce
quelle in -eva. I Promessi Sposi valsero anche a regolarizzare definitivamente molte
forme della lingua italiana e ad individuare un linguaggio ‘medio’ capace di unifi-
care la nazione appena nata. Qui non è il luogo d’illustrare meriti e peculiarità della
lingua manzoniana: piuttosto andrà notato che la distanza che oggi noi avvertiamo
da essa corrisponde ad un itinerario d’impoverimento dell’italiano medio, nel qua-
le l’uso di vocaboli stranieri assume anche, se non sempre più, il ruolo di supplenza
a termini, pur italiani, ma perduti dall’uso comune. Un recupero, sia pur parziale,
del lessico del romanzo manzoniano varrà ad arricchire di eleganza e di precisione
terminologica il nostro linguaggio moderno.
118
Manuale di storia della lingua italiana
occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già
scomparso, scappando per i fessi1 del monte opposto, si dipingeva qua e là
sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi
di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata del-
la stradetta dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi
dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata,2 la strada correva
diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia
d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura:3 l’altra
scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arri-
vava che all’anche del passeggiero.4 I muri interni delle due viottole in vece
di riunirsi ad angolo terminavano in un tabernacolo sul quale eran dipinte
certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’inten-
zion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato volevan dir fiamme;
e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che
volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur5
un fondo bigiognolo,6 con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, volta-
ta7 la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide
una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomi-
ni stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due
viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba
spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il com-
pagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’a-
bito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva
distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’ome-
ro sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un
1 Da fendere, vale fessura, in Dante, Inf. xxviii, 32-33 «Alì, / fesso nel volto dal
mento al ciuffetto»; Purg. ix, 75-77: «pur come un fesso che muro diparte, / vidi
una porta, e tre gradi di sotto».
2 Raro ma non rarissimo nel senso di svolta, curva.
3 Parrocchia.
4 La grafia delle palatali è ancora oscillante.
5 Si tratta di un r parassita, quindi vale semplicemente su.
6 Colore tendente al grigio chiaro.
7 È part. passato: dopo aver percorso la stradetta che curvava.
119
Leonardo Sebastio
enorme ciuffo: due lunghi mustacchi1 arricciati in punta: una cintura lucida
di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,
cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spun-
tava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una
gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite
e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’
bravi.
Giovanni Verga
Rosso Malpelo (1878)
1 Baffi.
2 Variante meno usuale di riuscire.
3 Parola assai cara ad A. Manzoni.
4 In questo primo capoverso si contano due periodi. Entrambi costituiti da due
frasi nettamente distinte dal punto e virgola. La prima frase è costituita da una
principale ed una dichiarativa. La seconda, introdotta dalla coordinazione, sembra
ripetere lo schema e le parole della prima: ma questa volta il perché non è dichia-
rativo ma causale. Chiude il periodo una semplice relativa. Nel secondo periodo la
prima frase dovrebbe essere una principale, ma è introdotta da un sicché consecu-
tivo, tal che deve essere interpretata come una conclusiva; la seconda frase si apre
con una coordinazione, e contiene un’inciso, una causale implicita all’infinito di
stampo colloquiale. Il lessico è piuttosto sostenuto («ragazzo malizioso e cattivo»,
«prometteva di riescir un fior di birbone», ««sentirgli dir sempre a quel modo»).
Innovativa la sintassi: il periodo breve rivoluziona i nessi della scrittura manzonia-
na e si avvicina al parlato nel quale la e svolge una funzione di aggiunzione quasi
improvvisata.
5 Ella è più letterario di essa, che invece Manzoni preferì, addirittura sostituendo-
la perché avvertita meno colta, per avvicinarsi alla lingua parlata.
120
Manuale di storia della lingua italiana
mere che ne sottraesse1 un paio, di quei soldi:2 nel dubbio, per non sbagliare,
la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non
più; e in coscienza3 erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio4 che
nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can
rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero5 un brutto ceffo,6 torvo, ringhioso, e selvatico. Al mez-
zogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio
la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantuc-
ciarsi col suo corbello7 fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane otto
giorni, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteg-
giandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante8 lo rimandava al lavo-
ro con una pedata.9 Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio
dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo1 di rena
rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo:2 nondimeno
era conosciuto come la bettonica3 per tutto Monserrato e la Carvana,4 tanto
che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto
al padrone gli5 seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e
perché mastro Misciu,6 suo padre, era morto nella cava.
Era morto così, che7 un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso
a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che
non serviva più, e s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40
carra8 di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava
ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un
minchione9 come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare10 a questo11
modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed
era l’asino da basto di tutta la cava. Ei,12 povero diavolaccio, lasciava dire, e si
contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso
ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio,13 come se quelle
samente assiepati, come gli e di certe prose candide e ingenue del Trecento […]»,
La lingua di Verga, Bari, Laterza 1941, p. 45.
1 Più tardi preferirà sporco, forse perché «lordo» è assai vicino al siciliano lordu.
2 Altre locuzioni di una colloquialità ricercata.
3 È un erba assai diffusa, ritenuta medicinale. La locuzione è di origine letteraria,
divenuta poi popolare. In dial. bittonica.
4 Due località nei pressi di Catania.
5 La ripetizione pronominale è tipica della lingua parlata.
6 Ipocorismo di Domenico.
7 È un che che non ha funzione sintattica, è della lingua popolare. Verga qui sem-
bra affidarsi al racconto di qualcuno: si notino le tante e aggiuntive che costellano
il periodo e di cui s’è detto.
8 L. Russo, op. cit. p. 48, dice questo termine (neutro plurale) toscano «letto
probabilmente su qualche via di Toscana. In dial. siciliano sarebbe carrata, quanto
può in una volta portare una carro.
9 Vera e propria traslitterazione del siciliano minchiuni.
10 Anche il siciliano ha gabbari.
11 È spia del discorso diretto libero.
12 Introduce due periodi dal lessico più ricercato, ma dalla sintassi colloquiale.
13 Forma rara in letteratura. Probabile traslitterazione dal siciliano del dispregiati-
122
Manuale di storia della lingua italiana
soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quel-
le occhiate che facevano dire agli altri: – Va là,1 che tu non ci morrai nel tuo
letto, come tuo padre –.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buo-
na bestia. Zio Mommu2 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non
l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è
pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare
l’avvocato.3
D’Annunzio Gabriele
Il piacere
Luigi Pirandello
Il treno ha fischiato
– Mah !
– Morire, pare di no...
– Ma che dice ? che dice ?
– Sempre la stessa cosa. Farnetica...
– Povero Belluca !
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in
cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere na-
turalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio,
sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di
quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato
al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non
gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si
trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di
Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto...1 sì, chi l’aveva definito così ? Uno dei suoi compagni d’uf-
1 Il periodo coscritto... si distende benché non vi siano evidenti i connettivi che
leghino una frase all’altra, un periodo all’altro (op erator i le s sic a l i e g ra m-
m at ic a l i). Tuttavia la parola coscritto viene posta in corsivo e ad inizio di capo-
verso: è un segnale tipografico che connota l’aggettivo di forte autonomia, il cui
valore sarà spiegato subito dopo: si tratta della definizione che di Belluca e del suo
comportamento avevano dato i colleghi d’ufficio. Il 2º periodo è ellittico del verbo
perché vuole avere, ed ha, il valore di risposta secca. L’a n a f ora (la ripetizione di
uno o più termini: in questo caso coscritto), poi, seguita dall’esclamativa, stabilisce
la coesione logico-sintattica con la ’risposta’ alla quale è omogenea per via dell’el-
lissi del verbo – così il terzo periodo – che assolve al ruolo di connettivo stilistico.
Il risultato è quello di una grande rapidità di scrittura, e quindi di intensa dram-
maticità. Tanto più s’avverte intensa se si tien conto del ricorso che P. fa – qui
e nel successivo periodo – ad un procedimento retorico che va sotto il nome di
a mpl i f ic a z ione , consistente nell’aggiunta di elementi lessicali, che, riferiti ad
uno stesso a mbito s em a nt ico (significato), precisano il significato ed il grado
del concetto prima espresso più genericamente. In vero qui P. combina a mpl i f i-
c a z ione ed a c c u mu l a z ione , che a sua volta allinea una nuova serie di elementi
lessicali che ribadiscono l’idea. Nello specifico limiti angustissimi e arida mansio-
ne di computista (già computista allude ad un’attività priva d’ogni orizzonte spiri-
tuale) esplicitano il valore della coscrizione. La cui limitatezza viene amplificata da
127
Leonardo Sebastio
ficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida
mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte,
di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impo-
stazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario
ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un
passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene,1 cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato
senz’altra memoria, la cui seguente elencazione serve solo a segnare i limiti dell’at-
tività (inesistente) spirituale di Belluca: di partite semplici o doppie o di storno, e
di defalchi... L’ultimo periodo del capoverso ancora ellettico del verbo si apre con
una me t a f ora , casellario ambulante, che è coerente a mpl i f ic a z ione di quanto
detto nel precedente periodo e definitiva oggettualizzazione di Belluca (a momenti
sarà animale): non più essere umano; ma oggetto privo di vita, archivio e memoria,
forse ordinata, certo vuota d’ogni palpito e d’ogni fantasia. E P. si serve ancora una
volta di un’a mpl i f ic a z ione (si vedano la relativa che tirava zitto zitto; e d’un
passo e per la stessa strada, che metteno in evidenza la natura del tutto sottomessa
dell’animale-Belluca) combinata con l’a n a f ora (sempre ... sempre).
1 La tensione verso l’oralià o verso la teatralità è evidenziata da certi nessi, in par-
ticolare da quell’orbene (questo discorso vale per tutta la novella), nell’uso assai
modesto dell’ip ot a s si (subordinazione), alla quale si preferiscono a n a f ore di
tutti i tipi (semplici: pareva ... pareva; esplicative: ilare ... ilarità). La tensione all’o-
ralità è visibile anche nelle esclamazioni, niente !, in certi f at i sm i ple on a s t ic i ,
così, dunque, veramente, nel ricorso all’a uto cor re z ione , o meglio. Tutto questo
convive facilmente con la me t a f ora Belluca-asino, che è metafora popolare e d’u-
so comune, nel quale l’accezione di somaro=sciocco, ignorante è largamente accetta-
ta (oggi si preferiscono metafore sessuali), come lo è quella asino=lavoratore. Con
grande facilità comunicativa (non sono necessari altri supporti per decodificare la
metafora) il narratore-testimone utilizza i derivati imbizzire, calcio, frustate, pun-
ture, bastonature. La metafora resta facile, anzi, assume i toni della popolarità, ed
immediatamente comprensibile.
Naturalmente questa tipologia scrittoria non significa superficialità: qui conta la
costruzione degli eventi. Si veda il processo verbale con cui Belluca opera la sua
liberazione, come la aperta confessione al capo-ufficio della sua fantasia e la conse-
guente riconquista della sua umanità: e se sapesse dove sono arrivato ! La formulazio-
ne della frase è lenta e parte da una comunicazione non verbale: aprendo le mani;
poi da una parola insignificante: niente, seguita dal sostantivo che farà da soggetto
alla frase-rivelazione, ma che per il momento, privo com’è di verbo, richiede il com-
pletamento logico. P. strategicamente fa intervenire il capoufficio che sospende la
rivelazione del verbo e il completamento della frase: Il treno ? Che treno ? e poi il
128
Manuale di storia della lingua italiana
senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbiz-
zire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute,
se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio.
Niente ! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace,
sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non
le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni basto-
nature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come
effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio
aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina,
con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che
so ? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i pa-
raocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalanca-
to d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi
tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci,
suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato
all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri,
le carte:
– E come mai ? Che hai combinato tutt’oggi ?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza,
aprendo le mani.
– Che significa ? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi
e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca !
– Niente, « aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impu-
denza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere.
il verbo. Mano a mano che Belluca disvela il suo sentire (che è sentire di fantasia)
aumenta l’irritata incomprensione del capo-ufficio che interviene interrompendo
la pur breve frase di Belluca. Conviene appuntare l’attenzione sull’antagonismo tra
la calma un po’ folle dell’impiegato e la furia del suo superiore: è questo uno dei
momenti in cui la strategia drammatico-narrativa di P. si fa più evidente.
129
Leonardo Sebastio
Italo Svevo
La coscienza di Zeno
Proprio quella mattina ebbi un’idea che credo m’abbia fortemente dan-
neggiato privandomi di quel poco d’iniziativa virile che quel mio curio-
so stato d’adolescenza m’avrebbe concesso. Un dubbio doloroso: e se Ada
m’avesse sposato solo perché indottavi dai genitori, senz’amarmi ed anzi
avendo una vera avversione per me ? Perché certamente tutti in quella fa-
miglia, cioè Giovanni, la signora Malfenti, Augusta e Alberta mi volevano
bene; potevo dubitare della sola Ada. Sull’orizzonte si delineava proprio
il solito romanzo popolare della giovinetta costretta dalla famiglia ad un
matrimonio odioso. Ma io non l’avrei permesso. Ecco la nuova ragione per
cui dovevo parlare con Ada, anzi con la sola Ada. Non sarebbe bastato di
dirigerle la frase fatta che avevo preparata. Guardandola negli occhi le avrei
130
Manuale di storia della lingua italiana
domandato: “Mi ami tu ?” E se essa m’avesse detto di sì, io l’avrei serrata fra
le mie braccia per sentirne vibrare la sincerità.1
Così mi parve d’essermi preparato a tutto. Invece dovetti accorgermi
d’esser arrivato a quella specie d’esame dimenticando di rivedere proprio
quelle pagine di testo di cui mi sarebbe stato imposto di parlare.2
Fui3 ricevuto dalla sola signora Malfenti che mi fece accomodare in un
tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire
i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, piú miti di quanto avessi
temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:
– Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò piú piede !
Venne quello che avevo sperato. Essa protestò, riparlò della stima di
tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei. Ed io mi dimostrai
magnanimo, le promisi tutto quello ch’essa volle e cioè di astenermi dal
venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con
una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non
tenerle rancore.
Riccardo Bacchelli
Il mulino del Po.
Era così lontana da ‘montarsi la testa’,1 che anzi credeva al sospetto del
capo a questo destino, quando il discorso della madre la persuase, quasi con
violenza, d’avere un innamorato. L’animo giovane, la calda e tenera fantasia,
correvano all’idea, al sogno, al segreto di cotesto ignoto meraviglioso, venu-
to dal mondo come il cavaliero della favola; e quei primi e vili sentimenti, di
timore e d’umiliazione, adesso erano già di corruccio e d’aborrimento pur
dal pensare che le speranze e il suo sogno potessero riuscire uno scherno,
non piú della gente, ma della sorte. No: era il maio d’un innamorato.
Di fatto, nei vari paesi, usavano diverse frasche, a seconda che il maio
voleva significare amore, o gelosia, o disprezzo e ripudio. E, fra genti sem-
pre state inclini alle burle e ai detti mordaci, usava anche il maio da burla,
per castigo o vendetta delle ragazze superbe o dispettose o vane, o per
semplice derisione, come aveva temuto Princivalle.
Al dì dell’Ascensa, portan maio a chi non se ’l pensa; – il detto, non
che a sperare amore, dunque dava anche a temere odio.
Il ben che ti ho voluto sia un cortello.
Ma certo nessuno odiava Dosolina. Donata si intestardiva a cercare
chi si fosse arrischiato a tentarle la figliuola, e nei grami casolari sparsi
della Diamantina stava diventando una favola davvero, da farle cantar da-
vanti casa qualche quartina satirica:
Eugenio Montale
Ossi di seppia: Meriggiare1
Meriggiare2 pallido e assorto
1 La lirica è composta da quattro strofe, tre delle quali di quattro versi, l’ul-
tima di cinque. La prima e la terza strofa presentano rime baciate; la seconda e
la quarta alternate: nella quarta il terzo verso (comunque in assonanza con gli
altri) divide con una terza rima le coppie di rime alternate. I versi sono di varia
lunghezza: 9-9-11-10 / 11-11-11-10 / 11-9-11-9 / 9-10-11-11-11. Il periodo sintattico
corrisponde alla strofa. La prima strofa è composta da due principali (meriggiare
e ascoltare) coordinate per asindeto: anche se la presenza dei due qualificativi
pallido e assorto suggerisce che meriggiare è un infinito sostantivato e, dunque,
a rigore di principali non ve ne sarebbe che una, ascoltare che ha più chiara fun-
zione verbale. Contro quest’interpretazione sta la coordinazione: resta certa fri-
zione tra il primo ed il secondo infinito; ma dalla poesia non si deve richiedere
chiarezza nei nessi sintattici. Più semplici le altre strofe. La seconda è composta
da una principale, che occupa i primi due versi, e da una subordinata relativa che
ha una coordinata. La terza strofa è egualmente composta da una principale, che
occupa anche qui i primi due versi, e da una temporale. La quarta strofa è più ar-
ticolata: la principale regge un’oggettiva che a sua volta regge una relativa; per di
più legata alla principale una temporale implicita (andando) e nell’oggettiva un
verbo sostantivato. Sostantivati o verbali gli infiniti conferiscono alla lirica una
dimensione di uniforme continuità, di una condizione immutabile nel tempo e
generalizzato per via dell’assenza (evidente nella regola morfologica) del sogget-
to. Di qui la connotazione metafisica di una condizione dell’esistenza concreta,
ma senza parametri razionalizzabile di riferimento.
2 Meriggiare: il verbo, non ostante l’attenzione dedicatagli da G. Ioli, G. Gavaz-
zeni, P.V. Mengaldo, conserva qualche ambiguità. La storia del termine è si trova
con qualche facilità in Gdli che dà come significato principale: «Trascorrere in
piacevole ozio le ore più calde della giornata, per lo più in luogo aperto e ameno,
rinfrescato da ombre e da acque», e nelle attestazioni, che partono dall’Esopo
volgarizzato, riporta l’occorrenza montaliana. In tal caso gli aggettivi pallido e
assorto potrebbero essere connotazioni del soggetto logico (un sole meridiano se
pallido non fa rovente il muro dell’orto), un «io» generico seppur non quello
del poeta, come nel caso degli altri infiniti acronici, sì, ma non assolutamente
impersonali: io, pallido e assorto, trascorro le ore del meriggio presso un muro.
Naturalmente cadrebbero alcuni elementi caratterizzanti il significato del verbo:
la piacevolezza e l’ombra (ma a noi pare divengano insostenibili anche le deriva-
zioni da Boine e da Boito). Concessa l’accezione non ombreggiata e non riposata
140
Manuale di storia della lingua italiana
I limoni1
tedio dell’inverno, sono gli oggetti che costituiscono realmente il tedio del vivere,
e sono metafora (verrebbe da dire esempio) del tedio dell’esistenza. Naturalmente
per la poesia in genere e per quella di M. in particolare, non è possibile fissare leggi,
tutt’al più indicazioni di massima: così i limoni del v. 10 hanno un più evidente
valore simbolico quelli del v. 21 ne hanno uno più realistico.
1 Anello: l’anello della catena della vita che ci avviluppa.
2 Il filo da disbrogliare: è uno dei temi più ricorrenti della lirica di M.: altrove sarà
il varco, o la maglia rotta nella rete che permetta il superamento della muraglia e la
conquista della libertà dal tedio e della verità del reale.
3 Ma l’illusione: l’illusione viene subito meno assai presto ed il tempo ci riporta
nelle città rumorose, alla vita quotidiana densa del tedio dell’esistenza.
4 Cimase: elementi ornamentali delle parti più alte degli edifici.
145
Leonardo Sebastio
anagènesi: ciò che donna prende, in vita lo rende: quella costanza imper-
territa, quella felice ignoranza dell’abisso, del paracarro, sicché, dàlli e dàlli,
d’un cetriolo, arrivano a incoronar fuori un ingegnere; la formidabile capa-
cità di austione, di immissione dello sproposito nella realtà, che è propria
d’alcune meglio di esse: le piú deliberate e di piú vigoroso intelletto. Tali
donne, anche se non sono isteriche, impegnano magari il latte, e la capar-
bietà di tutta una vita, a costituire in thesaurus certo, storicamente reale,
un qualsiasi prodotto d’incontro della umana stupidaggine: il primo che
càpiti loro fra i piedi, a non dir fra le gambe, il piú vano: simbolo efimero di
una emulazione o riverenza od acquisto che conterà nulla: diploma grande,
villa, sissignora, piumacchio. C’è poi da aggiungere che il piú degli uomini
si comportano tal’e quale come loro. Ed è una proprio delle meraviglie di
natura, a volerlo considerare nei modi e nei resultati, questo processo di
accumulo della volizione: è l’incedere automatico della sonnambula verso il
suo trionfo-catàstrofe: da un certo momento in poi l’isteria del ripicco per-
viene a costituire la loro sola ragione d’essere, di tali donne, le adduce alla
menzogna, al reato: e allora il vessillo dell’inutile, con la grinta buggerona
della falsità, è portato avanti, avanti, sempre piú ostinatamente, sempre piú
inutilmente, avverso la rabbia disperata della controparte. Sopravviene la
tenebra liberatrice, che a tutte parti rimedia.1
Impotente rabbia era in lui, nel figlio: dàtole un pretesto, subito si libe-
rava in parole, tumultuando, vane e turpi: in efferate minacce. Come urlo di
demente dal fondo di un carcere.
Qualcosa da cenare! La madre, cercando riprendersi, guardò per la cuci-
na, vuota e fredda, schiuse un’anta della credenza dove l’ombre s’erano ad-
dormite su quel po’ di sentor di lardo e d’avanzi: in cucina non v’era quasi
nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle
galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa
estromissione. Ne teneva piú d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi,
Così me ne corro e quanti di pensieri che tengo nella mia crapa o piutto-
sto pensieri di stomaco, la testa ronza solamente come il monoscopio della
tivú; nella pancia invece è lì che ci tengo tutti i miei fumamenti come busso-
lotti del lotto dite un numero vi guardo dentro che pensiero ci sta.
Ma continuo a volare e dovete sapere che fatti dieci chilometri, fatti ven-
ti comincia a stringermi la vescica in mezzo alle gambe. Tengo duro ’codio
io ci ho fatto un patto di non fermarmi questa notte di libertà perché so che
se mi fermo poi vien su la malinconia del viaggiatore e faccio il gran filosofo,
dico vado non vado, torno non torno e non è proprio bello a questo punto
menare le cazzate.2
1 Bardassa: omosessuale. Letterar.
2 Il primo capoverso contiene già tutti gli elementi di una contestazione globale
della scrittura letteraria; formule come me ne corro, quanti di... che, nella pancia...
è lì che ci, appartengono al linguaggio popolare. Si aggiungano termini come cra-
pa, pensieri di stomaco, fumamenti, uno derivato dal dialetto, uno prodotto da un
ossimoro, il terzo neologismo. E poi la riduzione alla banalità quotidiana operata
attraverso le due similitudini: la testa ronza come un monoscopio della tivù, e nella
154
Manuale di storia della lingua italiana
pancia... ci tengo... i miei fumamenti come bussolotti del lotto. Infine l’improvviso
scarto sintattico costituito da dite un numero vi guardo dentro che pensiero ci sta,
che non si configura come flusso di coscienza, né come discorso diretto libero, ma
è traduzione immediata del sarcasmo e della rabbia contro sé stesso, contro la sua
depressione i cui motivi gli sono ignoti. E si veda il 2º capoverso che nel periodo
iniziale allinea due coordinate nelle quali non solo i sogg sono diversi ma lo sono
i contenuti, tanto che per la seconda vien da pensare che si tratti di un’avversativa,
l’assenza della punteggiare, però, indica piuttosto la natura di copula. L’assenza di
punteggiatura e la sintassi, volutamente incerta, caratterizzano il successivo perio-
do tengo duro ’codio io ci ho fatto... dove la bestemmia può indicare il mutamento
logico-sintattico (benché sia impossibile stabilire se appartenga alla prima o alla
seconda frase): si passa dal momento diegetico (ma anche questo potrebbe non
essere vero, e la frase potrebbe essere un pensiero) ad un momento di spiegazione di
quella decisione di non arrendersi al bisogno fisiologico: dunque una dichiarativa,
o una causale. Io ci ho fatto... è esplosione umorale ribellione, ancora, alle esigenze
del corpo, e a sé stesso. L’assenza di veri e propri nessi logico-sintattici fa sì che il
testo di T. si offra come una accumulazione di fatti irrazionali, apparentemente
slegati gli uni dagli altri: allineamento di impressioni ricordi luoghi comuni senti-
menti e sensazioni; nei quali l’unico collante possibile è l’io dello scrittore che cerca
identiche risonanze nel lettore. Al quale ripetutamente T. si rivolge: dovete sapere,
che fumata lettori miei !, così timidini tuttedue che voi lettori furbacchioni non ve lo
sareste mai aspettato da un duro come me, Che ne dite lettori miei ?, sino alla richiesta
di un’esplicita complicità quando narrando dell’incontro con la fanciulla in un’a-
rea di servizio dell’autostrada le racconta un gran numero di fandonie sulla propria
attività e personalità: tutte menate voi che lo sapete che sono un povero diavolo con su
gli scoramenti. O alla proposta di stabilire un vero e proprio dialogo quando enun-
cia la teoria che i momenti di depressione vanno tenuti sotto controllo con l’alcool:
se li fate raffreddare sarà tutto un umor di novembre, tetro e nuvoloso e allora me la
scrivete poi voi una cartolina dall’asilo degli sbalinati. Così è che il racconto sembra
farsi durante la lettura nella continua confessione-coinvolgimento al/del lettore.
Il legame scrittore-lettore è fondamentale nel testo di T. giacché il coinvolgimento
avviene attorno a temi che avrebbero una qualche carica sovversiva dell’ordine (cul-
turale) costituito, gli scoramenti, la pisciata, il fernet e così via – come in generale
in Altri libertini, la droga, l’omosessualità ecc. – e tuttavia gli spunti polemici più
spesso abortiscono nel compiacimento per il paradosso, in un macabro narcisimo
scatologico: tanta pipì che ingrosserei il delta e le valli di Comacchio; ... la testa china
a guardare il prodigio fumante; quel che salta fuori è un ruttazzo, ma un ruttazzo che
sembra tremino le montagne e arrivare il terremoto; la gente ... sulla piazzetta in mez-
zo agli sporchi della mia pancia e ai puzzi e rumoracci sbrang dei ventoni, olé, è digià
sciupada la terza guerra mondiale coi gas atomici e tutto il resto... È in questo vomito
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Leonardo Sebastio
lità narrativa: ché adesso il narratore si rivolge a sé stesso, con certo gusto lessicale,
indugiando su termini letterari, o formando neologismi arcaicizzanti (alla fin fine
una sorta di autoironia per un momento di pacificazione interiore): Goditi dunque
occhio mio il ramingar contando stelle, goditi queste montagne che paiono ostriconi
arribaltati, goditi il canto del ronzinante, dei pistoni e dei cilindri, il traballio lucente
e mercuriato dell’Adige, ora a sinistra dopo un ponte un’ansa e a destra, ma dritto
l’asfalto, ah chi ci fermerà? Il discorso diretto libero che lo scrittore intrattiene con
sé, vaga da un oggetto all’altro; ora egli ripensa all’incontro con la fanciulla dinanzi
al bar della stazione di servizio ed ecco che esplode nuovamente ira ed il disprezzo
(fors’anche con qualche punta di paranoia) per il mondo circostante. E cambia il
linguaggio che ridiventa popolare se non triviale: Alla faccia del cazzo e della mia
visione, brutta fatina che volevi arrestarmi! Alla faccia vostra vado finché ho benzina
vado, porci scoramenti che bollite in pancia ora vi centrifugo dal muscoletto mio, fuori
fuori che sto correndo addosso alla mia felicità. Senza alcun segnale T. riprende la
modalità narrativa, diegetica: Però poi son costretto a fermarmi di nuovo che il ron-
zinante fa sput sput. Dove ricorre, accanto alla citazione letteraria, l’onomatopea
da fumetto che conferisce una non lieve connotazione autoironica che prosegue
nel periodo suggessivo che innova interlocutore – questa volta è l’automobile –:
Ehi, ehi, carcassetta mia non abbandonarmi proprio ora, altri chilometri altra strada,
tanto non ci ho soldi damned damned! Vai fin che puoi! E qui si noti il vezzeggiativo
aulicizzante accanto al fumettistico damned damned. Dialogo col lettore, con sé
personaggio, ed ancora dialogo del sé personaggio con altri personaggi si susseguo-
no senza essere marcati in un complesso ed articolato flusso di coscienza che risente
della lezione joyciana, privata dell’ironia e della volontà autoconoscitiva, e rivolta
all’espressione immediata delle emozioni, del disagio e dell’incapacità di aderire ad
una sia pur momentanea visione della vita: qui caromio nessuno sa piú un cazzo. In
questa direzione si vedano quello che dovrebbero essere le parole del cineasta in-
contrato per caso: che se sembrano contestare, e con violenza, le strutture culturali
della società borghese (... alla fucilazione! all’impiccagione! alla defenestrazione i
mafiosi i teoreti i politologhi, i corsivisti, le penne d’oro, le grandifirme, gli speculatori
del grassetto e del filmetto, a morte! a morte! i mistificatori, le conventicole, i salotti, ...)
poi traccia, in una enumeratio affollatissima, un panorama della cultura giovanile
degli anni ’70-’80 spesso contraddittorio, certo frammenatrio e alla fine caotico:
e ciò avviene benché, anzi, proprio perché T. tenta raggruppamenti all’interno dei
quali non di rado è dato di trovare raddoppiamenti di etichette che spesso sem-
brano connotarsi di ironia: ... e poi marchette trojette ruffiani e spacciatori, precari
assistenti e supplenti, suicidi anco ed eterosessuali ...
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Manuale di storia della lingua italiana
APPENDICE
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Manuale di storia della lingua italiana
STORIE DI PAROLE
Nel 1968 Bruno Migliorini, uno dei padri della linguistica italia-
na, pubblicò un volumetto intitolato Profili di parole,1 nel quale ri-
prendeva alcuni articoli apparsi su riviste ed in altri libri. In ciascuno
di essi tracciava il profilo storico di una parola; i profili erano una
settantina: alcune di quelle parole oggi, a distanza di quasi mezzo
secolo, sono entrate nel linguaggio comune, e qualcuna è già sull’or-
lo dell’obsolescenza. Qui ne riproponiamo alcune per dare, sia pure
molto sommariamente, il senso di come e di quanta storia si depositi
nel nostro linguaggio quotidiano. E di quanta storia, e quanta civiltà,
si perda perdendo le parole: storia di grandi uomini certo, ma, soprat-
tutto, storia quotidiana di semplici parlanti, che a noi pare sopravvi-
vano nell’eredità lessicale che ci hanno affidato.
Cioccolato o cioccolata?
medico sono cadute nell’oblio: questa invece, forse perché egli non face-
va che formulare un uso che cominciava a delinearsi, ha avuto una certa
fortuna nell’uso generale (salvo che, dov’egli diceva cioccolate noi diciamo
cioccolato).
Si tenga presente la diffusione grandissima, in quasi tutta l’Italia, della
forma popolare cioccolata per la bevanda; e si veda d’altro lato con quale
uniformità gl’industriali usino la forma cioccolato per il preparato in tavo-
lette: negli avvisi pubblicitari si legge quasi costantemente cioccolato.
L’uso delle due forme è storicamente giustificatissimo, e d’altra parte
la differenza fra cioccolata in tazza e cioccolato in tavolette (o in polvere) è
funzionalmente utile; la diffusione che essa ormai ha nel campo industriale
ci fa credere che sia destinata a imporsi generalmente.
Cosmetica
Ora che sono di moda, nella scienza e nella fantascienza, i problemi del
cosmo e della cosmonautica, il significato «universale» della parola cosmo
e dei suoi derivati, sta sopraffacendo l’altro meno ampio significato riferito
soltanto alla Terra, quale si aveva per esempio nella parola cosmopolita.
E la cosmetica e i cosmetisti che c’entrano? Il divario fra i due concetti,
quello di «universo» e quello di «cura della bellezza femminile» sembra
così grande che nessun artificio etimologico può arrivare a riconnetterli.
Non si tratta, veramente, di più o meno lunghi salti di canguro: i vecchi
etimologisti si accontentavano di rassomiglianze e di raccostamenti magari
fortuiti, noi dobbiamo invece pretendere riconnessioni storicamente dimo-
strabili. E basta aprire un vocabolario greco per vedere che la parola kosmos
(con i suoi derivati) significa in generale «ordine»: un ordine che può rife-
rirsi agli ordinamenti statali (e a determinate magistrature, in singoli luoghi
dell’antica Grecia), oppure all’ordinamento della Terra o dell’universo, ov-
vero all’adornamento di uomini e cose e, più spesso, all’acconciatura delle
donne.
Nelle lingue europee moderne, mentre si è assunto cosmo nel significa-
to «cosmologico», i derivati hanno preso un’altra strada: anziché riferirsi
agli adornamenti della moda si sono applicati alle risorse della medicina e
dell’igiene per mantenere il corpo giovane e bello. Si è cominciato ad ado-
perare l’aggettivo cosmètico; poi si è ricorsi alle due parole sinonime, che
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Manuale di storia della lingua italiana
Glamour
Quelli che adoperano la parola glamour aggiungono spesso, quasi a scu-
sarsene, che è «intraducibile». Ma forse, dopo aver visto l’etimologia della
parola, e altri vocaboli che presentano cambiamenti di significato paralleli,
si potranno trovare parole che le corrispondono abbastanza da vicino.
Glamour è – non ve ne meravigliate – un’alterazione di grammatica.
Il nome della grammatica e quello dei grammatici ha avuto nel Medioevo
fortune assai varie: ora hanno preso valore spregiativo (pedanteria e simili),
talvolta, invece, favorevole. Una delle vie prese dal vocabolo è tipicamente
rappresentata dalla parola francese grimoire, che vuoi dire «libro di strego-
neria»: si era partiti dall’idea di «libro scritto in latino» (e perciò incom-
prensibile al volgo), arrivando a quella di libro scritto con segni misteriosi,
cabalistici. Si pensi, del resto, che nell’italiano antico il vocabolo i caratteri
o le carattere voleva similmente dire «segni magici».
In Scozia la parola prese la forma di glamour o glamer, e il preciso si-
gnificato di «incantesimo»; ed è uno dei tanti termini di «colore locale»
scozzese di cui Scott cosparse i suoi romanzi.
Vediamo ora quello che è successo a parecchie di quelle parole che indi-
cavano opera di stregoneria. Charme e charmer erano nel Medioevo opera-
zioni magiche che rischiavano di condurre al rogo quelli che le eseguivano;
e del resto charme risale direttamente al latino carmen, che è proprio, nel
suo primo significato, la formula ritmica che serve per produrre un incante-
simo. Ma nel Seicento, il secolo in cui più imperversò la metafora, charme e
charmer cominciano ad essere riferiti alla bellezza femminile che esercita la
sua forza magica, incantatrice sugli uomini; e come «le metafore il sole han
consumato», così charme, charmer, charmant sono diventate parole banali.
Identica è la storia di incanto, incantare, incantevole, incantesimo, che
negli scrittori del Trecento e del Cinquecento si riferiscono solo alle arti
magiche, e fra il Seicento e il Settecento allargano il loro significato.
Pure analogo, ma ancor più recente, è l’indebolimento di fascino (che
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Leonardo Sebastio
O.K.
Sull’origine di questa sigla, che è senz’alcun dubbio il più diffuso fra tut-
ti quanti gli americanismi, si è discusso a lungo, negli Stati Uniti e fuori. Ma
solo a poco a poco si è giunti a datare con esattezza i primi esempi, e infine a
raggiungere una soluzione che è probabilmente la definitiva.
Già si sapeva dal Supplemento al grande dizionario di Oxford e dall’A-
merican Language del Mencken (4a ed., New York, 1936, più volte ristam-
pato), che la sigla era apparsa in occasione dell’elezione presidenziale del
1840, in ambiente democratico. Soltanto poco tempo fa, con una paziente
lettura dei quotidiani di quell’anno, A. W. Read è riuscito a risolvere il pic-
colo enigma (The Evidence on O. K., in «Saturday Review of Literature»,
1 luglio 1941, pp. 3‑11), e il Mencken ne riferisce e ne accetta le conclusioni
nell’ampio volume in cui raccoglie molte aggiunte e correzioni alla sua ope-
ra fondamentale (American Language. Supplement 1, New York, 1945, pp.
269‑279).
Ferveva dunque, nel 1840, la lotta per le elezioni presidenziali: il presi-
dente allora in carica (l’ottavo, Martin van Buren) aveva presentato la sua
candidatura per la rielezione. Dal villaggio in cui era nato, si era foggiato per
designare il presidente il soprannome di «mago di Kinderhook» (come,
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Manuale di storia della lingua italiana
R agazze-squillo
Nel 1953, i giornali degli Stati Uniti erano pieni degli scandali suscitati
dalla scoperta a New York di un’organizzazione di call‑girls. Ora in Italia
sono apparse alla ribalta dell’opinione pubblica le ragazze‑squillo. A occhio
e croce ci sembra si tratti di un calco dell’espressione inglese. La quale si
teneva sulle generali, perché to call può voler dire «chiamare» in generale
oppure «chiamare per mezzo del telefono»: tant’è vero che prima delle
equivoche call‑girls c’erano degli innocentissimi call‑boys con la funzione di
paggi d’albergo, pronti ad accorrere ad un suono di campanello. In italiano
la comunicazione telefonica è stata in questo caso indicata per mezzo di
quella fra le molte azioni concomitanti che più imperiosamente richiama
l’attenzione.
Non si sarebbe potuto dire ragazze‑telefono, o addirittura, con un pre-
fissoide di stile Novecento, fonoragazze, proprio perché la prima idea che
queste parole avrebbero indebitamente suscitato sarebbe stata quella delle
centraliniste telefoniche.
D’altra parte, per esprimere le idee che si riferiscono all’amore social-
mente riprovevole, gli uomini dacché mondo è mondo (stavo per dire dac-
ché mondo è immondo) hanno sempre avuto una particolare ingegnosità
nel cercare parole nuove, con lo scopo di far capire di che si tratta senza
dirlo crudamente: «Non costa nulla – diceva La Fontaine – chiamar le cose
con parole onorevoli».
Sono molte così non solo le locuzioni che semplicemente sottintendo-
no senza dire («una di quelle»), ma espressioni che portano l’uditore o
il lettore al concetto a cui si mira attraverso una rapida concatenazione di
pensieri: «una donna di molto buon cuore» o «di grande filantropia»,
«una Maddalena non ancora pentita», «una che per vivere deve ricorrere
alla propria bellezza» e così via.
C’è un rischio in questa ricerca di eufemismi: che la volgarità del signifi-
cato proprio inesorabilmente emerga di sotto al velo, e dopo un certo tem-
po renda il vocabolo così triviale da non essere più pronunziabile tra gente
per bene. Si pensi al significato primitivo di uno qualsiasi dei nomi che indi-
cavano «quelle signore» (p. es. cortigiana o mondana o traviata) e si vedrà
che in origine era, almeno letteralmente, presentabilissimo. In francese si è
arrivati al punto che per dire «ragazza» non si può più dire «figlia» (fille)
ma bisogna dire «giovane figlia» (jeune fille), perché la parola semplice si
è insudiciata.
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SOMMARIO
PARTE PRIMA………………………………………………………………………………………… 5
Dante Alighieri e l’invenzione della lingua…………………………………… 7
La funzione sociale della lingua………………………………………………………… 24
PARTE SECONDA…………………………………………………………………………………35
Cenni di storia della lingua…………………………………………………………… 37
Dal ’300 all’ ’800………………………………………………………………………………38
Il ’900………………………………………………………………………………………… 47
Tra questione della lingua e didattica della lingua………………………………… 55
Lingua scritta e lingua parlata…………………………………………………………… 58
L’italiano d’oggi tra oralità e scrittura………………………………………61
I prestiti…………………………………………………………………………………………………71
PARTE TERZA…………………………………………………………………………………… 87
Dante Alighieri…………………………………………………………………………… 89
Convivio I, III, 3-11 (1304)…………………………………………………………………89
Divina Commedia - Inferno, i, 1-27 (1304-1308)…………………………………… 91
Dino Compagni …………………………………………………………………………… 94
Cronica della cose occorrenti ai tempi suoi, i, 21 (1310-12)…………………… 94
Giovanni Boccaccio…………………………………………………………………… 96
Decameron ii, 5 (1348)…………………………………………………………………… 96
Francesco Petrarca…………………………………………………………………… 98
Canzoniere 16 (1366-94)……………………………………………………………………98
Leon Battista Alberti………………………………………………………………… 100
Della famiglia, l. i (1433-34)……………………………………………………………… 100
Niccolò Machiavelli…………………………………………………………………… 103
Mandragola (1519)………………………………………………………………………… 103
Ludovico Ariosto ……………………………………………………………………… 107
Orlando Furioso l.i (1532)………………………………………………………………… 107
Paolo Sarpi …………………………………………………………………………………… 108
Istoria del Concilio tridentino vi, x (1619)………………………………………… 108
Cortese, Giulio Cesare ……………………………………………………………… 111
Li travagliusi ammuri de Ciullo e Perna (1614)…………………………………… 111
Parini Giuseppe …………………………………………………………………………… 112
Orazione inaugurale (1769)…………………………………………………………… 112
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