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La Scienza ovvero Beatrice

ANTONIO GAGLIARDI
Università di Torino

Un’indagine sulla lingua del Duecento e sulla formazione del


lessico intellettuale ha bisogno di una ragione critica in grado di
discriminare nelle forme del linguaggio e di scoprirne le radici del
mutamento in sintonia con un mondo che sta cambiando velocemente.
Una ragione storicizzante e non soltanto formalistica permette di sondare
la tridimensionalità di una lingua intellettuale e poetica attraversata da
forze centrifughe in grado di produrre movimenti che sfuggono alla sua
apparente unicità sistematica. Non sempre la dinamica linguistica è
visibile e rimane anche incomprensibile la trasformazione culturale.
Lingua e cultura sono dinamicamente fuse e nel tempo in questione
soltanto la reciproca illuminazione può rendere conto di come si
formano nuovi spazi di azione intellettuale.
Nel secolo XIII un vistoso campo di tensioni si produce entro la
testualità culturale a livello filosofico-scientifico, da cui poi si
genererà un cambio di significati entro campi semantici dell’intera
cultura. A partire pressapoco dalla metà del secolo, i modelli
tradizionali del sapere entrano in crisi per la diffusione
nell’Occidente di opere scientifiche e filosofiche greche e arabe,
presto tradotte, in Spagna, Germania, Sicilia (Corti 2003:63).
Quel campo di tensioni giunge alla rottura per la reciproca
incompatibilità di contenuto intellettuale nel momento in cui due totalità,
quella filosofica e quella cristiana si assumono il compito di indicare il
cammino e il fine dell’uomo. La lingua di queste tensioni e dei conflitti
conseguenti non sempre appare nella superficie delle scritture e soltanto
rendendo evidenti le radici dottrinali si individuano le frontiere e le
incompatibilità tra universi in contesa.

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[…] in filosofia e nelle scienze umane si verifica un coassiale


spostamento di significati in alcune aree della cultura per parole
tecniche già in uso. L’operazione del linguista o del semiologo si fa
stimolante in quanto rivolta, come si diceva, a intendere in che
modo <<parla>> una cultura. Poiché essa parla come pensa e come
pensano le sue auctoritates, se è cresciuta per influsso aristotelico la
riflessione sulle virtù e attività dell’uomo, i vocaboli già tecnici
diventeranno polisemici, soggetti a stratificazioni semantiche (ivi,
p. 65).
Per comprendere la molteplicità dei problemi che il lessico
intellettuale comporta nell’età di Dante proprio il termine scienza offre
interessanti opportunità di indagine. La polisemia entra nella storia e
mostra il modo di funzionamento di una biblioteca appena giunta dal
mondo arabo nella quale è compresa anche quella della filosofia greca e,
in particolare, Aristotele. C’è un problema di lingua che può essere
risolto soltanto entrando nell’ordine critico di questo ritorno che ha
prodotto il proprio linguaggio intellettuale. Non soltanto si crea
polisemia nel medesimo ambito tecnico, filosofico o scientifico, ma la
polisemia si muta in ambiguità quando una medesima lingua copre
territori intellettuali diversi e in competizione tra loro. La filosofia e la
dottrina cristiana parlano la medesima lingua ma propongono universi
culturali in contesa, diverse e opposte immagini dell’uomo e dei fini che
gli competono. Il miraggio della lingua comune può far perdere il senso
della differenza unificando ordinamenti dottrinali differenti e diverse
opzioni intellettuali.
Il ritorno in Occidente di Aristotele in compagnia dei commenti
averroisti soprattutto comporta una svolta complessa nei confronti della
sapienza cristiana e della sua escatologia di salvezza e beatitudine. In
questa svolta proprio la scienza determina la più clamorosa rottura
dell’ordine cristiano producendo un’alternativa radicale ai fondamenti
medesimi del cristianesimo. Per questo motivo è necessario individuare
quel lessico intellettuale che innova i significati e produce conflitto,
comprendere come il linguaggio univoco del cristianesimo diventa

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equivoco. Se c’è una qualche coscienza intellettuale che traduce nella


propria identità quei significati e produce le scritture in grado di gestirli
si ha la testimonianza di come la lingua diventa storia o permette di
leggere una storia altrimenti inaccessibile.
Dante è dentro questo campo di tensioni e sulla frontiera dei
conflitti. La sua biografia intellettuale è incomprensibile senza i conflitti
prodotti dalla filosofia nei confronti della sua coscienza cristiana. Le
alterne vicende della sua produzione poetica e filosofica hanno in questa
storia collettiva la ragione personale. Ma anche la diversità dei tempi e
delle sue posizioni intellettuali è comprensibile soltanto sulla doppiezza
delle dottrine e dei linguaggi altrimenti rimane un intellettuale sempre
uguale a se stesso dai primi componimenti fino alla Commedia. Se nei
testi poetici e nella Vita Nova, per la natura metaforica di queste
scritture, è difficile comprendere i modi della sua identità intellettuale,
nel momento in cui tenta in forma diretta il progetto filosofico, come nel
Convivio, è più facile rendersi conto di come una lingua filosofica
produce una frontiera di diversità rispetto a un universo cristiano
diventato totalità autosufficiente.
All’inizio del Convivio si trova immediatamente una proposizione
sorprendente la cui alterità può essere completamente compresa soltanto
se si svolge tutto il potenziale dottrinale in essa contenuto.
Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia,
tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che
puote essere ed è che ciascuna cosa, da provvidenza di prima natura
impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione: onde, acciò che la
scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la
nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo
subietti (Conv. I i 1).
Vi sono alcuni concetti che è necessario porre immediatamente in
rilievo. Il rapporto tra la scienza e la perfezione ultima, tra la scienza e la
felicità ultima dell’uomo. Ciò che è ultimo nell’ordine temporale è anche
tale nell’ordine dei fini e comporta un itinerario tra uno stato primo e

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uno ultimo secondo durata e mutamento. Ciò che sta prima è imperfetto
e carente e manca di felicità e beatitudine mentre è possibile giungere a
una condizione ultima, dopo la quale non c’è più nulla da desiderare e
ottenere, che si può chiamare perfezione e beatitudine. La scienza porta a
compimento l’itinerario di perfezione e felicità salvando l’uomo dal suo
stato originario di infelicità e imperfezione. L’uomo non è fisso nella sua
natura ma una dinamica interna, guidata dal desiderio di conoscenza, lo
porta a cercare un fine ultimo. Quando si sono raggiunte la perfezione e
la felicità cessa anche il desiderio. Un’ontologia del desiderio determina
i confini entro i quali si svolge l’itinerario dell’uomo verso i fini ultimi.
Scienza, perfezione, felicità, desiderio compongono questa
biblioteca di emblemi linguistici in grado di fornire un quadro intero di
prospettive intellettuali, di costituire un’escatologia dell’uomo tutta
interna alla sua natura. E’ necessario trovare la biblioteca vera nella
quale tutto questo è detto e comprendere come la scienza può portare
alla perfezione ciò che è imperfetto, portare all’atto ciò che è in potenza,
secondo il vero significato di perfezione. Poi formulare un’idea di
felicità, o beatitudine, una felicità che è ultima, secondo un’escatologia
tutta umana e terrena nella quale la scienza ha capacità produttiva
determinante. Assieme alla felicità e alla perfezione anche il desiderio
svolge una funzione fondamentale perché ne misura l’effettualità e il
compimento. E’ evidente che nel momento in cui si sono raggiunte la
perfezione e la felicità il desiderio non c’è più perché il desiderio è
movimento. Nel momento in cui il desiderio ha raggiunto il proprio fine
e oggetto, il movimento cessa.
Nel momento in cui Dante scrive, questi vocaboli sono ancora
totalmente saturi di sapienza cristiana e soltanto per un qualche evento
traumatico è stato possibile il trasferimento in un’altra dimensione
intellettuale. Questo trauma non appare nella scrittura ed è necessario
riformularne la genesi e la fondazione dottrinale. Le parole
apparentemente si assomigliano ma è necessario scoprire ciò che le
rende storicamente nuove, portatrici di un’altra prospettiva intellettuale e
per un uomo in grado di gestirne il significato. Le parole rinascono e si

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rigenerano in una diversa sintassi di razionalità. Beatitudine e perfezione


prodotte dalla scienza, investendo la natura dell’uomo, offrono una
strada e un fine che segnano una frontiera con la storia cristiana della
salvezza.
Nella pienezza storica del nostro presente è quasi impossibile
comprendere il gesto aurorale di chi pone una perfezione ultima e una
felicità ultima in terra come fine massimo dell’uomo e suo sommo bene.
L’opacità del tempo e una storicizzazione carente impediscono di
comprendere la soglia di un evento sismico che sconvolge l’Occidente
cristiano. Ma questa soglia deve essere sempre ricostruita e pensata ogni
qual volta ci si approssima a questi tempi pieni di domande inquietanti.
C’è un inizio della secolarizzazione della beatitudine, attraverso il
principio della perfezione, e questo inizio comporta la genesi di una
nuova storia. La terra diventa luogo di fini ultimi nella realizzazione
della natura umana e nella possibilità che l’uomo consegua uno stato
massimo delle sue condizioni di bene. Felicità è conferma di
un’ontologia della condizione dell’uomo secondo una natura
intellettuale, portata alla realizzazione massima di sé, nella quale la
pienezza del proprio statuto le permette di trovare il fine che porta a
compimento il bene implicito. Il fine è iscritto in quella natura e sta a
ogni uomo realizzarlo.
La funzione perfezionatrice della scienza e l’ottenimento di
un’ultima felicità pone una prospettiva totale e assoluta all’azione della
conoscenza umana. La conoscenza diventa il momento genetico di un
divenire dell’uomo in grado di portare a termine quel progetto di
perfezione e felicità implicito nella natura umana. In particolare il
rapporto tra la perfezione e la felicità ultima ha bisogno di trovare il suo
fondamento dottrinale nell’ambito di una filosofia che pone
un’escatologia nella conoscenza, escatologia di beatitudine così come
non può essere per la dottrina cristiana che ha un fine certo di beatitudine
nella visione di Dio nell’altra vita. Questo fine, però, nel cristianesimo è
acquisibile soltanto tramite Cristo. Cristo riapre quella via alla
beatitudine e alla perfezione che il primo uomo aveva distrutto. E’

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evidente, quindi, che questa relazione tra perfezione intellettuale e


felicità ha una sua fondazione filosofica estranea alla sapienza cristiana.
E’ necessario ricostruire la storia di questi concetti per
comprendere come Dante li adatta al proprio progetto. E’ Averroè il
filosofo che pone direttamente una connessione necessaria tra la
perfezione intellettuale e la felicità nel Proemio alla Fisica di Aristotele
e, prima ancora, nei commenti al De Anima di Aristotele, pone lo statuto
dell’intelletto e della scienza. Si compone un paradigma filosofico
complesso nel quale l’uomo appena nato è simile all’animale senza
ragione, al bruto, poi, assimilando sempre più scienza con virtù,
raggiunge la propria perfezione intellettuale la cui conseguenza ultima è
la conoscenza delle sostanze separate, le intelligenze che muovono i
cieli, fino ad assimilarsi con Dio, conoscere intellettualmente Dio.
Questa è la mistica averroistica, così come viene ricostruita da Bruno
Nardi (1958).
Il compito della presente scrittura consiste proprio nello svolgere
la dottrina averroista della perfezione e beatitudine e dimostrare che
Beatrice è soltanto la personificazione di questa scienza che porta alla
visione di Dio. Tutta la biografia intellettuale di Dante ne viene
condizionata, in alterne vicende. C’è un tempo di giovanile adesione alla
dottrina di Averroè. Poi, nella Vita Nova, viene ricostruita la crisi e il
ritorno di una coscienza cristiana che mostra l’impossibilità di coniugare
escatologia filosofica e cristiana. Nel Convivio la precedente negazione
della visione di Dio diventa teorema alternativo a quello di Averroè.
Nella Commedia si rovescia tutta la prospettiva intellettuale e Dante
costruisce una sintesi assoluta tra averroismo e cristianesimo.
Beatrice, la scienza che porta alla perfezione intellettuale e alla
beatitudine della visione di Dio, segue necessariamente la vicenda
intellettuale di Dante. Sparisce nella Vita nova. Nel Convivio viene
sostituita dalla Donna gentile. Ritorna nella Commedia per sancire
l’assimilazione tra la scienza e la grazia, nell’azione salvifica di Cristo
(Gagliardi 1992, 1998 e 2003).

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Per comprendere il fondamento dottrinale è necessario passare ai


testi di Averroè, i commenti al De Anima di Aristotele dove tutta
l’azione perfezionatrice della scienza viene descritta analiticamente. E’
necessario ricostruire lo statuto della scienza e dell’intelletto. Le dottrine
più note del filosofo di Cordova riguardano l’unicità dell’intelletto per
tutta la specie umana e la sua separatezza, l’essere non corpo né facoltà
corporea. L’intelletto non è parte dell’anima la quale sorge dalla potenza
della materia ed è mortale. Già questo dualismo mostra la totale
estraneità al cristianesimo di quelle dottrine. Per lo più rimane
incompresa la condizione più importante, quella che è all’origine di tutta
la dinamica della natura umana e si conclude con il raggiungimento della
perfezione intellettuale. L’intelletto è originariamente soltanto potenza,
analogo alla materia prima e la scienza, la forma conosciuta dei singoli
enti, diventa la sostanza dell’intelletto. Nella dinamica tra la materia, o
potenza dell’intelletto, e la forma, forma o species intelligibilis, si ha la
perfezione dell’intelletto.
Idest, necesse est igitur, si comprehendit omnia existentia extra
animam, ut ante comprehensionem sit nominatus ex hoc modo in
genere virtutum passivarum, non activarum, et ut sit non mixtus
cum corporibus, scilicet neque corpus neque virtus in corpore
naturalis aut animalis, sicut dixit Anaxagoras. […] Idest, et necesse
est ut sit non mixtus, ut comprehendat omnia et recipiat ea. Si enim
fuerit mixtus, tunc erit aut corpus aut virtus in corpore. Et si fuerit
alterum istorum, habebit formam propriam, que forma impediet
eum recipere aliquam formam alienam (Averrois Cordubensis
1953: 383-4 e Illuminati 1996).
Niente può giungere nell’intelletto se prima non passa attraverso i
sensi. Il senso privilegiato è la vista e la forma della cosa la attraversa e
giunge nell’intelletto apportandovi la propria sostanza universale. Alla
recettività e passività dell’intelletto corrisponde l’attività delle forme
ricevute dalle cose esterne.
Et quia res non movet nisi secundum quod est in actu, et
movetur secundum quod est in potentia, necesse est, inquantum

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forme rerum sunt in actu extra animam, ut moveant animam


rationalem secundum quod comprehendit eas, quemadmodum
sensibilia, inquantum sunt entia in actu, necesse est ut moveant
sensus et ut sensus moveantur ab eis. Et ideo anima rationalis
indiget considerare intentiones que sunt in virtute ymaginativa, sicut
sensus indiget inspicere sensibilia (Averrois Cordubensis 1953:
384).
La cosa (e non la parola) è il principio della conoscenza. Qui c’è
già tutto il processo della conoscenza dalla cosa all’intelletto passando
per gli occhi, i sensi propri della conoscenza, e l’immaginazione. Le
forme estratte dalla materia, forme materiali, sono il principio
dell’intellezione.
Quarum una est quod ista substantia recipit omnes formas
materiales […]. Et quia forme materiales sunt corpus aut forme in
corpore, manifestum est quod ista substantia que dicitur intellectus
materialis neque est corpus neque forma in corpore […] (ivi).
Soprattutto nel quinto commento del terzo libro la dinamica della
conoscenza mostra la natura di questa forma e dell’intelletto e come si
genera un intelletto personale, essendoci originariamente soltanto un
intelletto unico per tutta la specie umana. L’intelletto possiede soltanto la
natura della possibilità ed è privo di una propria essenza.
Idest, illud igitur ex anima quod dicitur intellectus materialis
nullam habet naturam et essentiam qua constituatur secundum quod
est materialis nisi naturam possibilitatis, cum denudatur ab omnibus
formis materialibus et intelligibilibus (p.387).
Da questa condizione segue la definizione dell’intelletto materiale
o possibile.
Idest, diffinitio igitur intellectus materialis est illud quod est in
potentia omnes intentiones formarum materialium universalium, et
non est in actu aliquod entium antequam intelligat ipsum (p.387).

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Ne consegue che l’intelletto non è ente in atto prima


dell’intellezione. Si propone l’analogia e la differenza con la materia
prima.
Et cum ista est diffinitio intellectus materialis manifestum est
quod differt apud ipsum a prima materia in hoc quod iste est in
potentia omnes intentiones formarum universalium materialium,
prima materia est in potentia omnes iste forme sensibiles non
cognoscens neque comprehendens (pp. 387-388).
Se c’è soltanto un intelletto per tutta l’umanità viene a mancare
l’individualità. Per sopperire a questa mancanza si forma un intelletto
personale, intelletto speculativo o in abito, attraverso il medesimo
processo di conoscenza. Questo intelletto costituisce l’ultima perfezione
dell’uomo nominata da Dante.
Et est quod, si intellectus materialis est prima perfectio hominis,
ut declaratur de diffinitione anime, et intellectus speculativus est
postrema perfectio […] (p. 392).
Senza questo intelletto l’individuo umano è soltanto animale, il
bruto senza razionalità. L’intelletto possibile non ha alcuna sostanza
propria e non è in atto.
Et iam declaratum est quod intellectus materialis impossible est
ut habeat formam in actu, cum substantia et natura eius est ut
recipiat formas secundum quod sunt forme (p. 398).
Il bambino appena nato è intelligente soltanto in potenza perché
l’intelletto unico è congiunto a lui soltanto in potenza.
Et ideo dicere puerum esse intelligentem in potentia potest
intelligi duobus modis, quorum unus est quia forme ymaginate que
sunt in eo sunt intellecte in potentia, secundus autem et quia
intellectus materialis, qui innatus est recipere intellectum illius
forme ymaginate, est recipiens in potentia et continuatus nobis in
potentia (p. 405).

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Fino a quando l’intelletto universale non sarà congiunto con


l’individuo formando un intelletto personale vi sarà soltanto un uomo in
potenza, un bruto che diventerà uomo soltanto se acquisirà le forme
universali delle cose, le specie. Queste forme universali cedono la loro
sostanza all’intelletto attuandolo, portandolo alla perfezione. Così il
bruto diventa uomo. Soltanto la scienza permette all’animale senza
ragione di diventare uomo.
Ma la perfezione intellettuale non è il solo fine dell’uomo. Il
suo intelletto può conoscere anche le intelligenze celesti. «Cum enim
intellexerit formas materiales, dignior est ut intelligat formas non
materiales» (p. 410).
Per tutta l’opera viene affermata la sostanzialità della scienza,
l’essere la forma conosciuta. La scienza è la cosa nel modo in cui viene
conosciuta. «T.27: Et scientia que est in actu est ipsa res […]. Comm.: Et
scientia que est in actu est ipsum scitum» (ivi).
Il primo stadio che conduce l’uomo alla conoscenza intellettuale
di Dio consiste nell’adeptio, la copulazione (copulatio) tra l’intelletto
individuale (in abito, speculativo) e l’intelletto agente. Il commento 36
spiega come si può giungere a questo fine. E’ necessario che prima si
raggiunga la perfezione intellettuale. Appena l’intelletto individuale avrà
conosciuto le forme universali di tutte le cose si salderà con l’intelletto
agente. A queste condizioni l’uomo sarà simile a Dio.
L’avvicinamento è progressivo.
Et manifestum est quod, cum omnia intellecta speculativa
fuerint existentia in nobis in potentia, quod ipse erit copulatus
nobiscum in potentia. Et cum omnia intellecta speculativa fuerint
existentia in nobis in actu, erit ipse tunc copulatus nobis in actu. Et
cum quedam fuerint potentia et quedam actu, tunc erit ipse
copulatus secundum partem et secundum partem non; et tunc
dicimur moveri ad continuationem (p. 500).

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Soltanto nel completamento della conoscenza avverrà la


saldatura.
Soltanto la conoscenza delle forme universali di tutti gli enti
permette la copulazione con l’intelletto agente. Bisogna conoscere tutto,
vedere tutto.
Et manifestum est quod, cum iste motus complebitur, quod
statim iste intellectus copulabitur nobiscum omnibus modis. Et
tunc manifestum est quod proportio eius ad nos in illa
dispositione est sicut proportio intellectus qui est in habitu ad
nos. Et cum ita sit, necesse est ut homo intelligat per
intellectum sibi proprium omnia entia, et ut agat actionem sibi
propriam in omnibus entibus, sicut intelligit per intellectum qui
est in habitu, quando fuerit continuatus cum formis
ymaginabilibus, omnia entia intellectione propria (p. 500).
L’uomo in questo modo diventa simile a Dio.
Homo igitur secundum hunc modum, ut dicit Themistius,
assimilatur Deo in hoc quod est omnia entia quoquo modo, et
sciens ea quoquo modo; entia enim nichil sunt nisi scientia eius,
neque causa entium est aliud nisi scientia eius. Et quam mirabilis
est iste ordo, et quam extraneus est iste modus essendi! (p. 501).
La copulazione con l’intelletto agente può avvenire soltanto verso
la fine della vita.
Et est manifestum ex hoc quare non continuamur cum hoc
intellectu in principio, sed in postremo (ivi).
Anche la conoscenza teorica deve essere analoga a quella degli
enti reali.
Et ex hoc apparet quod sua intellectio non est aliquid
scientiarum speculativarum, sed est aliquid currens cursu rei
generate naturaliter a disciplina scientiarum speculativarum
(pp. 501-502).

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Si completa in questo modo il cammino della forma dagli occhi


all’intelletto portandolo dalla potenza all’atto e mettendolo in grado di
copulare con l’intelletto agente. Nel Proemio alla Fisica si ripete in modo
sintetico la necessità della perfezione intellettuale, accompagnata dalle
virtù morali, se l’uomo vuole essere diverso dalla statua di marmo o dal
corpo morto, analogamente al bruto (Bianchi 1990).
[ ...]et declaratum est in scientia consyderante in
operationibus voluntariis quod esse hominis secundum ultimam
perfectionem ipsius, et substantia eius perfecta est ipsum esse
perfectum per scientiam speculativam: et ista dispositio est sibi
felicitas et sempiterna vita. Et in hac scientia manifestum est quod
praedicatio nominis perfecti a scientia speculativa, et non perfecti
sive non habentis aptitudinem quod perfici possit est aequivoca:
sicut nomen hominis, quod praedicatur de homine vivo, et de
homine mortuo: sive praedicatio hominis de rationali et de
lapideo1.
La sola scienza non è sufficiente ma è necessaria la pratica di tutte
le virtù.
Et cum hoc consequitur cognitionem scientiae speculativae
scientia de moralitate virtuosa, quoniam scientes istam scientia,
cum erunt secundum ordinem naturalem, oportet eos de necessitate
esse virtuosos in omnibus specibus virtutum moralium, quae sunt
Iustitia, Temperantia, Fortitudo, Magnanimitas, Liberalitas, Veritas,
Fiducia, Mansuetudo, et aliae de virtutibus hominun (ivi).
Virtù e scienza permettono all’uomo di navigare per i mari del
mondo fino all’estremo limite. Ogni filosofo è Ulisse per una promessa
di beatitudine che si può cogliere soltanto oltre il confine dell’umano e
del terreno. La promessa della felicità e della vita eterna come quella
della somiglianza con Dio aprono lo scenario più conflittuale della
tradizione biblico-cristiana, quello di Adamo e del primo peccato per
opera della scienza nel giardino delle delizie. Un altro serpente invita a
mangiare la mela della scienza. Su questa premessa è da misurare la vera
radice dello scontro tra la dottrina di Averroè e la teologia cristiana.

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Il primo commento al secondo libro della Metafisica porta l’uomo


alla conoscenza di Dio. E’ un testo essenziale per comprendere l’ascesa
dell’uomo fino a diventare Dio. Soprattutto su questo testo si comprende
la lingua della storia.
[... ] quia comprehensio veritatis non est impossibilis in
multis rebus credimus enim necessario nos scire veritatem in
multis rebus. Et signum eius est quod habemus desyderium ad
sciendam veritatem quoniam si comprehensio esset impossibilis
tunc desyderium esset ociosum et concessum est ab omnibus
quod nulla res est ociosa in fundamento naturae et
creaturae[...]. Et signum facilitatis eius est hoc, quod non
ignoraverunt eam omnes homines, quoniam, si inveniremus
quos omnes homines, de quibus audivimus loqui, nihil scirent
de veritate, tunc iudicaremus ipsam esse difficilem et non
impossibilem propter longitudinem temporis quod est
necessarium in sciendo veritatem et quasi brevitas temporis in
quo scita fuit veritas, aut tota aut aliqua quantitas, indicat
facilitatem eius[...]. Et quasi innuit se comprehendere veritatem
simpliciter aut im maiori parte, secundum quod est possibile in
humana natura[...]. Et, quia dispositio intellectus de re
intelligibili est sicut dispositio sensus de re sensibili, assimilavit
virtutem intellectus in comprehendendo intellecta abstracta a
materia modo debilissimo visui in sentiendo, sicut
vespertilionis, non comprehendendo maximum sensibilium,
sicut Solem. Sed hoc non demostrat res abstractas intelligere
esse impossibile nobis: sicut inspicere Solem est impossibile
vespertilioni, quia fecit illud, quod est in se naturaliter
intelligibilem, non intellectum ab alio: sicut si fecisset Solem
non comprehensum ab aliquo visu.
C’è, nella natura umana, un desiderio che indica il fine dell’uomo.
Il pipistrello diventa storicamente il simbolo di questa possibilità di
visione di Dio, come guardare il sole. Si rimane abbagliati ma un raggio
della luce divina penetra nell’intelletto dell’uomo facendolo partecipare
del divino in modo sostanziale.

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C’è un altro testo che conferma la possibilità della conoscenza


delle sostanze separate alla fine del nono libro della Metafisica.
L’analogia con la cecità dimostra ancora la possibilità naturale di
giungere alla visione della trascendenza.
Et hoc intendebat cum dicit: intelligere eas non est verum idest
cum dicimus quod apud nos non est verum de substantiis
simplicibus, non intendimus quod accidit nobis error, qui est
ignorantia secundum habitum, sed accidit privatio veritatis quae est
ignorantia tantum et hoc est in virtute rationali sicut caecitas in
oculo. Et innuit per hoc quod non intelligere res separatas per
intellectum humanum est in intellectu nostro in primo simile
caecitati in oculo antequam perficiatur intellectus. Hoc enim non
sollummodo reperitur in hac virtute in suo primo esse sed in suo
esse ultimo et hoc iam declarabimus in alio loco. Et declarabimus
quod fortunitas maxima quae est inspicere intellectum separatum
est per potentiam quae fit in intellectu speculativo apud suam
ultimam perfectionem[...]. Et intendebat per omnia ista, quod scire
ea quae sunt in actu est nobilius quam scire ea quae sunt in potentia.
Et illud cuius est scientia nobilior, est nobilius.
La perfezione intellettuale libera l’uomo dalla cecità e permette di
congiungersi con l’intelletto agente, l’intelletto separato. Questa è la
massima felicità dell’uomo. Alla fine è possibile la congiunzione con
Dio, il principio dal quale dipende il cielo.
Intelligentia agens in quantum est abstracta est principum nobis,
necesse est ut moveat nos secundum quod amatum amans. Et si
omnis motus necesse est ut continuetur cum eo, a quo sit secundum
finem, necesse est ut in postremo continuetur cum hoc intellectu
abstracto, ita quod erimus dependentes a tali principio a quo
coelum dependet, quanvis hoc sit in nobis modico tempore, sicut
dixit Aristoteles (L. XII, comm. 38).
Il cammino dell’uomo è stabilito da quello della scienza e l’uomo
può diventare Dio assimilandosi intellettualmente con lui. La scienza
porta l’uomo alla beatitudine. Il cristianesimo viene scardinato dalle
radici. La scienza e non Cristo porta alla beatitudine della visione di Dio.

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Non solo. Tutto questo avviene durante la vita terrena. Si ripete il gesto
di Adamo che lo condannò alla morte e all’esilio da Dio. L’uomo ancora
attraverso la scienza può diventare simile a Dio.
Una meditazione su questa contraddizione è necessaria per
comprendere il senso di un antagonismo che allarma tutte le coscienze
cristiane. Senza la misura dell’escatologia cristiana, l’incarnazione, la
passione e la morte di Cristo per ricondurre l’uomo peccatore alla
visione di Dio nell’altra vita, non appare la necessità storica ed
intellettuale di formulare un paradigma dottrinale averroista. Si ha
averroismo soltanto in conflitto con il cristianesimo.
La testimonianza di Tommaso d’Aquino è essenziale per
comprendere la forma storica di questo conflitto e la lingua più interna.
Per tutta la sua vita combatte il paradigma averroista e in particolare
afferma che neanche nell’utero della madre il bambino è assimilabile al
bruto (Contra gentiles, L. III, c. LIX) (Gagliardi 2002). Tutto il suo
lavoro consiste nel negare la possibilità per l’uomo di giungere alla
visione di Dio in questa vita. Se Tommaso nega che ci sia uno stadio
originario di pura condizione animale, per altri filosofi contemporanei
c’è la certezza di questo inizio e la necessità del suo superamento.
Abbracciando la totalità del sapere, possedendo ogni virtù
intellettuale e morale, il filosofo rappresentava il massimo della
perfezione raggiungibile sulla terra. Innalzandosi fino alla visione
degli enti metafisici più elevati -le sostanze separate e Dio- egli
portava infatti a piena realizzazione ciò che vi è di più
specificamente umano, la razionalità. [...] Chi non è filosofo
-scriveva senza mezzi termini Alberico di Reims- «non est homo
nisi equivoce»; il sommo bene cui un mortale può e deve aspirare
-chiariva Boezio di Dacia- consiste nel piacere ricavabile
dall’esercizio della virtù e dalla conoscenza del vero, e chiunque
non lo raggiunga «non habet rectam vitam» e deve sapere di
essere «imperfectum individuum in specie sua, nec habet actiones
humanas». Quanti rinunciano a realizzarsi intellettualmente
-faceva eco Giacomo di Douai nella chiusa delle sue inedite
questioni sul De anima- non si distinguono dai bruti, e non

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Tenzone nº 4 2003

meritano pienamente la definizione di uomini, essendo tali solo in


potenza [...] (Bianchi 1990:156-7).
Sigieri di Brabante più volte afferma che la scienza è forma
sostanziale.
Arguitur autem quod cadat in praedicamentum substantiae, quia
scientia non est nisi quidditas sciti separata a materia.[…] Unde
secundum Commentatorem, sicut materia prima nihil entium est in
actu in genere sensibilis naturae, ita nec intellectus possibilis in
genere intellectualis naturae. Et hoc apparet, quia secundum se non
est intelligibilis antequam actu intelligat. Scientia igitur forma
substantialis est (Maurer 1983:275).
Il cammino di Ulisse, tra il bruto e il confine con il divino, rimane
il modello di questo oltraggio.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
(Inf. XXVI, 118-120)
L’uomo nasce simile al seme in natura, potenza naturale che deve
essere portata all’atto, alla perfezione. Il seme e l’uomo ancora bruto
sono analoghi nell’essere soltanto potenza rispetto al frutto e all’uomo
perfetto. Da questa premessa deriva la necessità di una riflessione
fondamentale su di sé per comprendere quel è il fine ultimo da
conseguire. C’è una considerazione, una forma di coscienza originaria
che separa dall’incoscienza dell’animale, pensando la differenza segnata
dal «ma» che oppone il bruto al fine conseguibile tramite virtù e
conoscenza. Anche se l’uomo nasce simile al bruto, all’animale senza
ragione, non è condannato a restare tale per tutta la vita. Il bruto vero non
può uscire dal suo stato permanente di animalità mentre per l’uomo si
tratta di uno stadio iniziale e transitorio. Come il seme non rimane tale
ma è destinato a diventare frutto maturo. Soltanto la scienza può operare
questo miracolo. Il viaggio di conoscenza fino all’estremo limite tra
l’umano e il divino, per conoscere tutto, porta a compimento

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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completamente quel seme, il seme dell’uomo, facendolo diventare uomo


perfetto fino ad attraversare la frontiera vietata che lo separa da Dio.
L’uomo appena nato di per sé non è un bruto destinato a
rimanere tale ma l’analogia spiega fino in fondo la mancanza della sua
natura vera, l’intelletto. Quell’intelletto gli viene donato dalla scienza,
attraverso l’assimilazione della sostanza della species intelligibilis
estratta dalle cose conosciute. Come il seme svolge il proprio potenziale
per via naturale, fino a diventare frutto così il bambino, seme dell’uomo,
attraverso la scienza diventa uomo perfetto. Il divenire della natura si
trasforma in dover essere, in un imperativo morale ed intellettuale per
realizzare l’uomo latente nel seme e nel bruto. Ulisse ripete, in modo
sintetico, l’incipit del Convivio. Anche per lui la scienza, accompagnata
dalla virtù, è perfezione sostanziale del seme dell’uomo, del bruto
originario. La dottrina averroista ha trovato il mito in grado di
rappresentare il cammino umano della conoscenza, il divenire dell’uomo
per le strade della terra, praticando le virtù che liberano dalle passioni e
dagli impedimenti per l’acquisizione della scienza.
Così la coscienza cristiana di Dante si pone come forma storica
di una dottrina altrimenti incomprensibile. Il dialogo tra le forme mitiche
e poetiche e le formule propriamente filosofiche permette di estrarre il
senso complessivo di una vicenda che ormai è diventata storia e
coscienza collettiva. Viene formulata nella Commedia sia la
contraddizione tra la scienza e Cristo, tra il conoscere tutto di Averroè e
la venuta di Cristo, sia la conciliazione. Il poema dantesco è il luogo di
tutti i conflitti e nello stesso tempo il massimo progetto di conciliazione.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sostanza in tre persone.
State contenti, umana gente al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria; (Purg. III, 34-39)

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Tenzone nº 4 2003

E’ folle chi spera che l’intelletto umano possa, con le sue sole
forze, attraversare la via infinita che separa l’uomo dalla Trinità. Bisogna
contenersi (ma anche accontentarsi, essere contento e appagato), mentre
si è ancora in vita, di ciò che viene dato alla comprensione immediata,
perché la conoscenza (nell’identità di conoscere e vedere) del tutto non
può sostituire Maria e il suo parto di salvezza e beatitudine, Cristo.
Ma questo non basta. Dante non si ferma all’enunciazione del
limite e del negativo. E’ necessario superare l’alternativa tra la scienza e
Cristo. Le frontiere sono disegnate, ora è necessario eliminarle in una
sintesi superiore. Nel momento in cui è concesso a qualcuno di varcare
la soglia vietata tra l’umano e il divino è necessario mostrare come la
strada dell’ascesa passa necessariamente per Cristo. La scienza e Cristo
devono ritrovarsi in un appuntamento senza alternative affinché sia
produttiva la storia della redenzione e, nello stesso tempo, l’acquisizione
mondana della scienza. Ormai l’uomo non può fare a meno della scienza
e il cristiano non può venire meno ai propri principi. La commedia è tale
perché appresta un lieto fine al più drammatico conflitto del tempo per
tutti quelli che credono in un cristianesimo che non può rinunciare a
un’intelligenza completa dell’uomo e del mondo.
Per comprendere nella Commedia il modo in cui avviene la
conciliazione tra la scienza e Cristo e identificare la scienza in Beatrice è
necessario trovare quel linguaggio proprio in grado di superare tutte le
forme metaforiche e prima di tutto il principio di personificazione che ha
tradotto un ente astratto nell’immagine della donna. Il passaggio dalla
scienza a Beatrice è senza testimonianze dirette mentre per il processo
inverso è possibile trovare la formula di commutazione. Dalla lingua dei
poeti si passa a quella della filosofia così come anche Guido Cavalcanti
nel momento critico dello scontro in Donna me prega. Non soltanto per
quel che riguarda il concetto di scienza ma anche per l’identità tra
conoscenza e amore. Il cammino attraverso questo linguaggio dà la
possibilità di identificare, oltre la lingua poetica, i nodi intellettuali.
Sciogliere i nodi della personificazione, fino a oltrepassare anche i

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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simboli personificati, è possibile se si apre un adito oltre il piano


illusorio degli emblemi intellettuali diventati persone.
In Guido Cavalcanti c’è un raro momento in cui la lingua poetica
si dissolve e lascia intravedere i fondamenti dottrinali di questa poesia.
Donna me prega è il testo che parla direttamente la lingua della filosofia
e della scienza medica ed espone il modo in cui si genera l’amore.
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende- nel possibile intelletto,
come in subietto,- loco e dimoranza. (vv. 21-23)
C’è una forma che passa per gli occhi e, diventando intentio
(intendere, in una forma ambigua tra il tendere e l’essere portatrice di
conoscenza), giunge nell’intelletto la cui condizione ontologica è come
quella della materia prima, il subietto. Qui quella forma si colloca
diventando habitus stabile (dimoranza). Si tratta, come abbiamo visto,
della dottrina averroista dell’intelletto e della forma intelligibilis, fino
alla formazione dell’ intellectus in habitu o abito di scienza. Guido
fornisce la dottrina dell’intelletto e della forma, dotata di sostanza, per la
perfezione intellettuale. Questa forma che attraversa gli occhi diventando
visione e giunge all’intelletto è proprio la forma intelligibilis, la scienza,
e l’amore per questa forma, personificata nell’immagine di una donna, è
l’archetipo dell’amore cantato da tutti questi poeti.
Dopo le traversie della Vita Nova e del Convivio Dante tenta la
grande sintesi tra la dottrina di Averroè e quella di Cristo, tra la scienza e
la grazia. La Commedia rovescia il cammino intellettuale di Dante e
propone un progetto nuovo. La negazione della possibilità di giungere
alla visione di Dio e delle sostanze separate della Vita Nova viene
cancellata. Viene annullato il teorema del Convivio con il quale era stata
negata l’originarietà del desiderio di vedere Dio (Gagliardi 2002).
Beatrice ritorna per fornire la guida al cammino più alto. Il suo ritorno
sancisce la possibilità di unificare il cammino del filosofo e quello del
cristiano. Tra le pieghe della scrittura è possibile trovare la medesima

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Tenzone nº 4 2003

proposizione cavalcantiana, anche se in modo più sintetico, come


attributo proprio di Beatrice.
se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e l’intelletto.
Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice; (Purg. VI, 44-46)
Virgilio annuncia Beatrice in modo quasi enigmatico e ne
dispiega il significato essenziale, dubitando anche della capacità di
Dante di comprenderlo. Si tratta di un invito alla riflessione sulla
difficoltà e sulla formula sintetica usata. Svolgendo gli estremi del
processo di conoscenza si recupera tutto lo spazio teorico. Beatrice è
colei che illumina il cammino (nell’immagine fondamentale della donna
di luce di tutti questi poeti) tra l’essere materiale (nell’identità tra essere
e vero), la cosa esistente all’esterno dell’anima, e l’intelletto. Tra la
forma vera, congiunta alla materia, e l’intelletto. Questo è il cammino
della conoscenza attraverso una forma che passa per gli occhi e giunge
fino all’intelletto possibile. Chi produce conoscenza tra l’ente materiale
e l’intelletto è ancora una volta la forma intelligibilis, la scienza di
Averroè. Beatrice è la scienza che porta alla perfezione e alla felicità.
Questa teoria della conoscenza viene ripresentata altrove.
Vostra apprensiva da essere verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l’animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come ‘l foco movesi in altura
per la sua forma ch’è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire. (ivi, XVIII, 22-23)

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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Intenzione (intentio) vale forma: «intentio, idest forma» ( De


Anima, p. 421). La forma che viene estratta dall’essere materiale (essere
verace), per la conoscenza, diventa anche oggetto d’amore. Si spiega in
questo modo l’identità di amore e conoscenza per quella forma
personificata che si chiama Beatrice. Così anche il nome di lei mostra il
fine massimo dell’uomo, la beatitudine, secondo il principio aristotelico
già presente nella Vita Nova per il quale nomina sunt consequentia
rerum. L’etimo della parola diventa la sostanza del significato, oltre ogni
ipotesi realistica, perché si parte dalla parola per giungere alla
costruzione della persona. Dalla beatitudine si giunge a Beatrice per
poterla rappresentare poeticamente. Beatrice dovrebbe essere portatrice
di beatitudine o, sempre nella Vita Nova, di salute. Ma non sempre è così
o non sempre è accettabile nella sua funzione.
Ogni donna amata da questi poeti è la scienza che porta alla
perfezione intellettuale e alla visione di Dio. Dopo gli anni del conflitto
arriva, con la Commedia, il tempo della conciliazione. E’ possibile e
necessario ricomporre Beatrice e Cristo, la scienza e la grazia, riportare
Beatrice nella storia della redenzione. Nel ritorno di Beatrice (Bologna
1998) c’è la possibilità di superare tutti i conflitti storici tra filosofia e
cristianesimo e di risanare anche la diaspora personale dal gruppo dei
poeti fiorentini.
Così è possibile giungere alla visione di Dio durante il tempo
dell’uomo vivente. La differenza con Guido Cavalcanti è tutta qui.
Nell’incontro infernale con il padre di Guido Dante precisa questa
differenza e prende le distanze dal tempo in cui i due giovani poeti
pensavano di poter oltrepassare il confine tra l’umano e il divino. Ora
non è più così. Non per altezza d’ingegno si oltrepassa il confine tra il
terreno e la trascendenza, come pretendono i filosofi, ma è necessario il
parto di Maria, Cristo.
Nell’apparizione di Beatrice amore e conoscenza si ritrovano e
Cristo diventa il primo oggetto di conoscenza di lei.

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Tenzone nº 4 2003

Mille desiri più che fiamma caldi


strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra ‘l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava. (ivi, 118-125)
Tutti i desideri si ricompongono in un atto d’amore e di
conoscenza. Gli occhi di Dante contro gli occhi di Beatrice sono l’atto
originario che fonde amore e conoscenza. Ma negli occhi di Beatrice si
specchia il grifone Cristo. L’incontro a due diventa a tre. Cristo che si
specchia negli occhi di Beatrice salda non soltanto scienza filosofica e
teologia cristiana, sapienza profana e sapienza cristiana, ma connatura,
trasforma in un’unica sostanza i due nell’atto della conoscenza. La
trasmutazione della natura di Cristo negli occhi di Beatrice mostra come
in lei il mistero dell’incarnazione, la coesistenza della natura umana e
quella divina, può essere conosciuto perché in quell’atto di conoscenza
Beatrice è diventata Cristo. Nella scienza il conoscente e il conosciuto si
assimilano e la scienza dei filosofi diventa la sapienza incarnata.
Ora la scienza e Cristo si incontrano fino all’identificazione.
Viene scongiurato l’avvento di un anticristo in grado di annichilire
l’azione salvifica del figlio di Dio. Questo è l’evento che trasforma la
Commedia in un poema storico, trasformando un conflitto in progetto. Si
giunge a Cristo attraverso Beatrice ma Beatrice, nella visione di Cristo,
ha assimilato la sua natura ed è stata rigenerata nella sapienza incarnata.
Dalla sapienza si passa all’azione di redenzione. In conseguenza di
questa assimilazione tra Cristo e Beatrice lei può anche assumere la
funzione sacerdotale e riportare Dante nell’innocenza originaria. La
confessione e il battesimo manifestano la capacità salvifica propria di
Cristo ormai integrata nella natura di Beatrice.

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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Così si può attraversare il confine tra la terra e il cielo perché si è


compiuta sia la perfezione intellettuale sia quella cristiana secondo il
principio della redenzione. Non ci sarà la fine di Ulisse anche se la sua
memoria accompagnerà fino alla fine il cammino di Dante quale
ammonimento di un altro modo di compiere il viaggio, per virtù e
conoscenza soltanto. Beatrice illuminata da Dio può, a sua volta,
illuminare il viandante portandolo a livelli sempre più alti di conoscenza.
Fino a guardare il sole, simbolo di Dio, senza rimanere abbagliato.
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila sì non li s’affisse unquanquo.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
………….............................................
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là su rimote. (Par. I, 46-54; 64-66)
Questa scienza non è autonoma. Non può da sé ascendere alla
conoscenza più alta se non è aiutata dal lume divino. Da Dio a Beatrice,
da Beatrice a Dante per giungere a Dio in una circolarità perfetta.
L’assimilazione tra Cristo e Beatrice cancella tutte le antitesi e
permette al filosofo di salire fino alla visione di Dio perché anche il
cristiano si è assimilato nello statuto della sua conoscenza. Non vi sono
più conflitti. Il filosofo cristiano può ottenere quella perfezione
intellettuale che gli permette di ascendere alla visione di Dio e alla
beatitudine purché la strada sia aperta da Cristo, componendo sapienza
filosofica e sapienza biblico-cristiana. La scienza porta alla beatitudine e
alla perfezione purché l’azione salvifica di Cristo rinnovi come pianta

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novella quell’uomo oberato dal peccato. Il bruto e il peccatore sono


all’origine della selva oscura e il cammino penitenziale si trasforma in
cammino di conoscenza dimostrando che tutte le antitesi si sono dissolte.
Per avere un’idea chiara dell’averroismo, nella sua forma storica,
è necessario estrarre dalle parole il senso dell’alternativa tra la filosofia e
il cristianesimo nel modo in cui la scienza porta l’uomo alla perfezione e
alla felicità. La frontiera passa attraverso le parole e la loro radice
storica. Se il cristianesimo ha Cristo per proprio principio, per il filosofo
la scienza, quasi simbolo dell’anticristo. Ambedue perseguono il
medesimo fine, la beatitudine della visione di Dio. La filosofia sulla
terra, dentro la vita dell’uomo. Cristo dopo la vita terrena. Ma per
Averroè una vita dopo quella terrena non esiste perché l’anima
dell’uomo è mortale e sopravvive soltanto l’intelletto unico. La
proposizione condannata nel 1277, «Quod felicitas habetur in hac vita e
non in alia» (Hissette, 1977) costituisce l'essenza dell’averroismo.
Tommaso d’Aquino, sull’ultimo fine dei filosofi, costruisce
l’alternativa cristiana mostrando le frontiere del conflitto tra due
prospettive di perfezione e di beatitudine. Il conoscere tutto, l’iscrizione
di tutto l’universo nell’anima intellettiva dell’uomo, si contrappone a una
visione di Dio promessa per un tempo futuro, dopo la morte.
Unde haec est ultima perfectio ad quam anima potest pervenire,
secundum philosophos, ut in ea describatur totus ordo universi, et
causarum eius; in quo etiam finem ultimum hominis posuerunt, qui
secundum nos erit in visione Dei […] (S.Thomae Aquinatis, 1964).
Così è anche possibile comprendere l’ardimento del progetto di
Dante nel trasformare le antitesi, diventate ormai anche sostanza storica,
in un progetto di conciliazione. Non c’è più differenza tra il Dio cristiano
e il Dio dei filosofi, tra la beatitudine del cristiano e quella del filosofo.
Un’unica via permette di ascendere per i cieli e di giungere a Dio purché
attraversi la traccia disegnata da Cristo. Nel momento in cui una
coscienza cristiana, come quella di Dante, si rende conto dell’alternativa
tra la scienza e Cristo cerca un risposta che salvi il bisogno di

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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conoscenza e l’escatologia della salvezza cristiana. Questa è la


Commedia, cammino verso la visione di Dio da essere vivente prima in
compagnia di Virgilio e la sapienza filosofica precristiana. Poi Beatrice
coniuga scienza divina dei filosofi e sapienza cristiana. Fino al limite in
cui è necessario fare ricorso a colei che ha partorito Cristo permettendo
la storia della redenzione. Soltanto Maria può permettere di salire fino
alla visione di Dio.
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute. (Par. XXXIII, 25-27)
Gli occhi possono levarsi fino all’ultima fonte della beatitudine
soltanto tramite Maria. Questo rimane il limite della scienza. Quegli
occhi che sono l’inizio della conoscenza e dell’amore ora, dinanzi a Dio,
devono fare ricorso a una mediazione esterna al loro medesimo sapere e
potere. La perfezione ultima e l’ultima felicità non sono a disposizione
dell’uomo per via naturale. In questo punto estremo del cammino di
Dante la parola incontra l’altra opera, iniziata con la pretesa di giungere
al fine ultimo tramite la scienza. Bisogna rileggere il testo precedente per
comprendere la dialettica della biografia intellettuale di Dante, i silenzi e
gli scarti, come le convenienze.
Il Convivio viene negato nella sua pretesa di giungere a una
perfezione ultima e a una beatitudine ultima tramite la scienza. Maria e
Cristo erano assenti in quell’opera e ora si scopre il limite del filosofo
nei confronti del cristiano. Il confronto tra le due opere mostra il lavoro
di Dante per formulare il cammino a Dio senza dover sottostare alle
scissioni e alle contrapposizioni del tempo, offrendo quell’unità
progettuale in grado di non sacrificare il filosofo al cristiano. La tragedia
del filosofo, dell’opera precedente, si trasforma nella commedia del
cristiano unificando in Cristo l’azione perfezionatrice della scienza.
Beatrice ritorna alla testa della sapienza cristiana e non soltanto
trasforma il bruto in uomo ma restituisce al peccatore la santità
originaria.

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Io ritornai da la santissima onda


rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle. (Purg. XXXIII, 142-145)
La perfezione filosofica si coniuga con la perfezione cristiana
permettendo a quell’uomo rinnovato di salire fino alla visione di Dio.

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Antonio GAGLIARDI La Scienza ovvero Beatrice
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NOTE
1
I commenti averroisti sono citati da: Aristotelis Opera cum Averrois commentariis,
Edizione anastatica (1962), Minerva G.m.b.H., Frankfurt am Main.

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Tenzone nº 4 2003

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