Lezione 1
Periodo filosofico molto complesso che non ha avuto un’immediata visibilità negli studi di storia della
filosofia. Questo perché per tanti anni c’è stato un pregiudizio relativamente al fatto che durante l’epoca
medievale la filosofica non fosse presente. Periodo lungo e stratificato culturalmente, ha a che fare con
epoca antica. Manuale e testo di Boezio (edito da La vita Felice) e Brabante: due testi che intervengono
sullo stesso argomento perché si inseriscono in questo dibattito ampio che ha avuto luogo nel XIII secolo.
Sono due maestri delle arti e professori di filosofia all’Università di Parigi, che si interrogano sul rapporto
tra filosofia e teologia, filo rosso che lega tutti i secoli medievali.
Introduzione generale
Due idee generali, due endoxa aristoteliche (quelle all’inizio del processo dialettico, opinioni comuni), che
tradizionalmente vengono associate al Medioevo:
1. Medioevo è unità omogenea, priva di discontinuità dal punto di vista culturale e filosofico;
2. Esiste o no la filosofia nel Medioevo? C’è una parte di edizione di testi manoscritti che hanno
appartenenza filosofica dal punto di vista argomentativo.
Il primo punto prevede di affrontare il problema della periodizzazione: quando inizia e quando finisce il
medioevo filosofico? Si potrebbe partire, ad esempio, dall’aspetto più semplice: i parametri del Medioevo
filosofico coincidono tout court con quello storico (476 d.C. fine Impero Romano Occidente – 1453 d.C.
turchi ottomani conquistano Costantinopoli). Dunque la prima risposta è quella di far coincidere il
medioevo storico con quello filosofico; una seconda risposta è quella per cui il medioevo filosofico dura di
più, trascende i limiti di quello storico: nel Seicento ci sono ancora filosofi che si occupano di argomenti
dell’agenda tematica degli autori medievali (Suarez, Cartesio). Questi concetti dunque travalicano l’epoca
storica e continuano ad essere elaborati, finché si parla di Dio ci sono elementi medievali. Terza risposta, il
medioevo filosofico dura di meno, poiché possiamo considerare un autore come Tommaso d’Aquino: la sua
riflessione filosofica coinciderebbe con l’apice della riflessione filosofica medievale. Per molti anni
Tommaso è stato visto come colui che è riuscito a sintetizzare Aristotele con il Cristianesimo, rendendo la
filosofia ancella della religione. Duns Scoto e Ockham sono autori di grande spessore che si sono distanziati
da Tommaso, ma questo non ha portato ad una decadenza della riflessione medievale: apre alla filosofia
moderna nella misura in cui vengono criticate alcune prospettive del paradigma medievale.
Il problema più difficile è capire quando inizia la filosofia medievale: c’è un evento storico ben preciso che
ha una portata culturale dirompente che fa prendere una direzione della filosofia diversa: è la chiusura
della scuola di Atene nel 529 d.C. da opera di Giustiniano. Da qui inizia la filosofia medievale: Giustiniano,
imperatore cristiano, vuole chiudere il centro culturale che promuove il paganesimo. Così facendo, questo
determina la scomparsa della filosofia ma SOLO nell’Occidente latino. Gli appartenenti all’accademia non
spariscono, ma emigrano in Oriente nei paesi di lingua araba, dove, contrariamente a Giustiniano, i califfi
accolgono a braccia aperte questi intellettuali, ponendosi come veri eredi della filosofia pagana. Dobbiamo
dunque distinguere tra Oriente e Occidente: spesso si pensa che il Medioevo sia solo in Occidente latino,
ma in realtà si sviluppa anche in Oriente di lingua araba ed ebraica e forse è proprio grazie al medioevo
orientale che poi è esistito quello occidentale. Questi filosofi pagani scrivono opere di grande successo in
Oriente e si dedicano anche a commentare le opere dei filosofi pagani, anche di Aristotele: si tratta di un
genere letterario fondamentale in epoca medievale e scolastica (XIII secolo). Dunque, da un lato abbiamo
l’Occidente latino sottoposto a invasioni barbariche, in cui la filosofia non c’è più perché mancano di fatto i
testi materiali (nel 529 nasce ordine benedettino). I pensatori arabi importanti sono Averroè e Avicenna, i
quali recuperano i testi aristotelici; con la reconquista della penisola iberica ci sarà un confronto tra cultura
latina e quella araba che porterà all’acquisizione di testi aristotelici che verranno recepiti dalle università
filosofiche del XIII secolo. Senza pensatori arabi, niente pensatori occidentali. Molteplicità di lingue e i
culture, di aree geografiche che concorrono a fondare la riflessione medievale e una polifonia di lingue
(araba, latina, volgare più avanti). Medioevo non è dunque un blocco monolitico! S. Tommaso si trova a
studiare e a lavorare all’estero (Parigi), studiando un testo di un filosofo greco riportato dai filosofi arabi:
coacervo di lingue e culture che avanzano la riflessione filosofica medievale. Grande movimento di idee,
problema delle traduzioni diventa fondamentale per mantenere intatte le informazioni. Il commento dei
filosofi arabi, come Averroè che commenta il De Anima, comporta il cercare di chiarire i testi aristotelici,
che in alcuni passi sono estremamente oscuri. Il commento, negli auspici del professore parigino e del
filosofo arabo, è proprio il tentativo di sciogliere il nodo problematico presente nel testo aristotelico sul
quale si fa lezione (Tommaso fa lezione sulla Metafisica). Il XII libro della Metafisica, dove si parla del
motore immobile, avrà grandi affinità con il Medioevo (primo motore immobile etc.).
Si parla, comunque, di Alto e Basso Medioevo, distinti dall’anno 1000: dall’XI/XII secolo in poi, infatti,
cambia la cultura. Dal V all’XI secolo, dal XII al XV secolo: sono due epoche distinte da alcune caratteristiche
della cultura del periodo. Nell’Alto Medioevo troviamo la cultura monastica. I padri della chiesa (Agostino)
sono stati i primi a inglobare le conoscenze di filosofia che avevano per rendere ragionevole e chiara la
fede, dunque sono stati loro ad appropriarsi per primi della filosofia pagana per chiarire la cristiana; si tratta
di un abbraccio mortale, perché è dai padri della chiesa che la vera filosofia diventa quella dei monaci. La
cultura monastica è impermeata sulla Bibbia, che è sempre presente in tutti i secoli medievali, centralità di
quest’epoca sulla Sacra Scrittura. Lo sviluppo della filosofia ha a che fare con una stretta cerchia di persone
che si può occupare di un’attività culturale (pochi sapevano leggere e scrivere). La Bibbia diventa punto di
riferimento a partire da cui l’uomo può capire il mondo che lo circonda; è all’interno della Sacra Scrittura
che l’uomo medievale cristiano (Boezio e Bramante sono cristiani ma anche filosofi, vedremo le
conseguenze). La Bibbia viene letta con il metodo allegorico: si ritiene che il senso letterale vada
interpretato perché nasconde un significato più profondo che ha a che fare con il problema della salvezza
individuale. Il cristiano nella Bibbia capisce di avere un destino escatologico che lo riporta a congiungersi
con Dio. A quest’altezza cronologica non c’è ancora un interesse della natura in sé per sé (mondo
orizzontale dei fenomeni sensibili), perché anche la natura è vista come una teofania, una manifestazione
della potenza di Dio, Dio come causa prima che ha creato dal nulla tutto il mondo così come noi lo vediamo
con una struttura minuziosa di fenomeni collegati fra loro. La natura è manifestazione di Dio: non la si
guarda dal punto di vista scientifico, ma dopo i testi di Aristotele sì. Per ora, l’uomo che si occupa della
filosofia capisce che c’è una causa prima talmente buona che ha dato vita a questo mondo. È un modo per
conoscere Dio, la natura stessa, come causa prima onnipotente. Guardare agli effetti per parlare di Dio è un
metodo a posteriori e non a priori (questo lo capiranno successivamente i filosofi delle Università).
Contemplare la natura è un modo per entrare in contatto con Dio: la Bibbia è la parola di Dio che mira alla
salvezza e che prevede un atteggiamento di lettura passivo. La Bibbia dev’essere penetrata nei propri
misteri e accolta dentro di sé.
Il Basso medioevo inizia dal XII secolo: momento della cultura delle scuole e delle Università. Vi sono tre
istituzioni culturali diverse:
1. Monasteri in campagna (alto medioevo);
2. Scuole cattedrali, che si aprono anche all’esterno e nascono nelle città;
3. Università come corporazione di intellettuali che si riunisce, dando vita a un’istituzione che ha
regole precise.
Non vi era l’intellettuale che scriveva epistole con gli intellettuali: la filosofia qui ha luogo solo all’interno
delle istituzioni, rivolgendosi non al singolo, ma alla platea numerosa, subendo potenziali confutazioni da
quella platea, sottoponendosi continuamente al giudizio degli ascoltatori (contro dogmatismo della filosofia
medievale). Il XII secolo è il momento in cui la cultura araba e latina si incrociano, riportando testi orientali
in Occidente, come i testi aristotelici. Inizia a cambiare anche la concezione della natura: non è più una
natura quale teofania o allegoria, ma natura come oggetto specifico di riflessione per i filosofi medievali, si
vuole capire quali sono le leggi che la governano. Questo sforzo di leggere la natura dal punto di vista
razionale non è per niente scontato. Figure di spicco: Abelardo e Pietro Lombardo, autore di un manuale di
teologia che diventerà il riferimento delle tesi di laurea di tutti gli aspiranti teologi dell’Università di Parigi.
XIII secolo: secolo centrale dei grandi dibattiti filosofici che nascono proprio sulla scia dell’introduzione dei
testi aristotelici che, piano piano, ritornano disponibili. È vero che durante l’Alto medioevo si conosce una
parte della logica aristotelica, ma nel XIII secolo si completa il corpus, con la filosofia della natura, la
metafisica, la politica e l’etica. La politica è l’ultima (1264) ad arrivare in Occidente. Con traduzioni
dall’arabo, quindi non direttamente dal greco, o con incrostazioni di commenti di autori arabi (che hanno
posto una loro opinione sul testo aristotelico, rischiando di aver completamente frainteso il contenuto dei
testi – Averroè vs Tommaso), gli autori si sentono attratti da questo corpus che si occupa di tutte le cose
della natura. Quali sono i concetti fondamentali con cui la natura diventa conoscibile? L’atto e la potenza!
La filosofia medievale è intrisa di quella aristotelica. Questi due principi rendono conoscibile tutta la natura,
anche la sovranatura (Dio è atto puro), ma gli autori sono scissi poiché dall’altra parte hanno la Bibbia che
spiega tutto della natura. Nascono gli ordini mendicanti, fondati in questo periodo, che, rispetto al monaco
che sta chiuso nel monastero e che si dedica a trascrivere i codici senza farsi domande, generano frati che
dal punto di vista culturale hanno bisogno di una formazione anche filosofica più elevata, perché il loro fine
è rivolgersi alla predicazione esterna. La predicazione significa conoscere la scrittura e saper argomentare,
essere persuasivi, affrontare nelle discussioni eventuali eretici che si presentano: il frate dunque deve
anche studiare la filosofia. Qui nasce l’ambiguità del rapporto tra filosofia e teologia: da un lato (filosofia
aristotelica!) filosofia porta frizioni con il credo religioso e dall’altro se ne risente il fascino perché rende
conto di una molteplicità di aspetti. La filosofia medievale è solo filosofia aristotelica e non platonica: non lo
conoscono ancora Platone! Di Platone conoscono solo la prima parte del Timeo, dialogo cosmogonico che
gli torna utile nel XII secolo. Con il Rinascimento si punterà tutto su Platone contro Aristotele. Attraverso i
padri della chiesa si conoscono alcune citazioni di seconda mano da Agostino: sono citazioni di citazioni di
coloro che hanno veicolato qualche cosa. Cultura molto stratificata: vengono conosciute le opere della
filosofia latina che in parte veicolano punti importanti di filosofia morale (es. Seneca).
Ma allora, esiste o no la filosofia nel medioevo? Due accezioni di filosofia che hanno attraversato tutta la
storia della filosofia: da un lato è uno stile di vita, una pratica e riflessione di vita (scuole stoiche, cirenaiche
etc.) ispirata ad una visione del mondo generale (i filosofi dell’alto medioevo allora sono i monaci che
conducono la vita secondo la visione del mondo!), dall’altro filosofia come sapere dimostrativo (definizione
degli Analitici primi di Aristotele, teoria della dimostrazione e del sillogismo, strada della dimostrazione
razionale del filosofo, il sillogismo è ragionamento che parte da premesse e giunge a conclusioni,
esemplifica il fatto che se uno fa una affermazione si fonda su qualcosa di precedente nell’Alto medioevo
la filosofia in questa accezione non c’è, non ci si chiede il perché, ma come salvare l’anima, nelle Università
invece sì, perché nel Basso medioevo si rivendica autonomia della filosofia che non ha nulla a che fare con
la rivelazione, si basa sulle premesse evidenti della ragione, testi aristotelici). Rapporto tra filosofia e
teologia: è vero che la filosofia fa da ancella, ma sinceramente è un rapporto che assume facce
completamente diverse all’interno dei secoli. Rapporto che si incarna con implicazioni diverse, tema della
variazione sotto lo stimolo della presenza dei testi filosofi che abbiamo a disposizione. Voce della SEP su
Moodle, “Una ricetta per un millennio” – da leggere.
Lezione 2
Nell’Alto Medioevo la filosofia, con la chiusura della scuola di Atene, non esiste più. I paesi arabi ed ebraici
danno fondamentale supporto allo studio della filosofia medievale con il recupero della filosofia
aristotelica. Da questo punto di vista possiamo dire che nel XIII secolo la filosofia è presente. Cosa significa
fare filosofia in questo periodo? Significa fare lezioni all’Università. Non esiste l’intellettuale moderno che
presenta le sue opere in peer review. La filosofia si fa all’Università, un po’ come stiamo facendo noi. La
filosofia è materia di insegnamento, anche se l’affermazione di filosofia nei curricula universitari non è priva
di tensioni. Circolano i testi aristotelici e poche opere ristrette di Platone. L’ingresso di Aristotele fa si che
questi tesi vengano studiati a lezione. Gli studiosi fanno proprio l’habitus degli Analitici primi (sillogismo è
procedere del filosofo, in cui a partire da argomenti certi si giunge a una conclusione necessaria). Questa
dottrina della scienza viene adottata dagli autori: il filosofo è colui che non può affermare qualcosa solo per
sentire dire, ma è colui che afferma una tesi nella misura in cui la sa fondare razionalmente. Per Boezio di
Dacia e Sigieri di Brabante questa posizione della filosofia la distingue dalla teologia che non è fondata sulla
razionalità ma sulla rivelazione: la verità è direttamente infusa dall’alto e non infusa dal basso. La teologia
ha un movimento contrario rispetto alla filosofia; la loro legittimità ad affrontare certi argomenti si rifà agli
Analitici primi. Questo dà adito a specializzare la filosofia, che diventa un sapere che si costruisce su un
metodo razionale. Con il commento dei testi di Aristotele non si crea un sapere ripetitivo ma si scoprono
nuovi scorci: i testi, inseriti nel cristianesimo, producono problemi che si presentano per la prima volta,
costringendo questi autori a trovare delle soluzioni da un punto di vista razionale. Rivoluzione culturale
rispetto a cui non si possono sottrarre. I professori di filosofia sono maestri che rivendicano il fatto che il
loro mestiere è un mestiere in senso forte, ma sono anche maestri di teologia, perché spesso, per il
discorso accennato, troviamo lunghe digressioni filosofiche nelle opere di teologia: la Summa, i commenti
alle sentenze, opuscoli dedicati ad argomenti specifici. Ma perché spesso troviamo digressioni teologiche?
Spesso i filosofi hanno a che fare con il tema dell’anima in relazione a temi come la conoscenza, il corpo,
l’uomo. Ad esempio, come avviene il motore degli angeli? Enti che devono svolgere una missione rivolta
agli uomini: il loro luogo naturale è l’Empirio, ma come è che essendo immateriali possono scendere a
comunicare con gli uomini? Qui entrano in gioco le categorie aristoteliche di spazio tempo. Filosoficamente
si può spiegare il movimento. Osmosi tra sapere filosofico e sapere teologico. L’agenda tematica di questi
autori è un po’ dettata dalla cornice aristotelica: il tempo, la materia, la generazione naturale, l’origine degli
animali, le facoltà dell’anima. Da questi interrogativi si generano altri interrogativi. I testi di Sigieri e Boezio
sono due opuscoli scritti intorno al 1270, periodo in cui a Parigi si sviluppano argomentazioni aristoteliche.
Ci sono tantissime questioni sull’eternità del mondo. È un periodo di grande fermento dal punto di vista
dialettico, diversamente da quello che si crede di solito. Aristotele incarna la razionalità, cioè la filosofia per
eccellenza.
Il primo autore che incontriamo è Severino Boezio, momento di passaggio tra cultura pagana e cultura
medievale. È un intellettuale che sente la necessità di trasmettere ai posteri quanto è rimasto della cultura
pagana. Per questo concepisce un progetto culturale ambizioso di tradurre tutte le opere di Aristotele e
Platone (poi viene incarcerato). Di Boezio ci sono rimasti alcuni opuscoli; dell’Alto Medioevo ci è rimasto un
corpus logico di Boezio. Egli è anche autore della Consolazione della filosofia, opera importante portatrice
di una visione del sommo bene che consiste nella conoscenza di Dio e nella consapevolezza che il proprio
destino è inscritto in una storia universale governata da una causa prima, Dio, il quale riconduce anche i
mali individuali in un quadro di bontà e armonia assoluta. Il nostro destino, aldilà delle sensazioni
soggettive, è inscritto in un ordine generale di salvezza. Boezio è autore anche di un concetto di eternità che
troveremo utilizzato nel testo di Boezio di Dacia. Di solito quando parliamo di eternità si pensa di un tempo
infinito, ma per Boezio è attributo di Dio che fonda una differenza fondamentale rispetto alla creature:
l’eternità di Dio non è tempo, ma è essere fuori dal tempo, sopra del tempo, a-temporalità. La creatura e il
creatore sono così ontologicamente diversi che Dio è al di fuori del tempo, concepisce la sua temporalità
come un eterno presente. Dio è al di sopra del tempo e conosce tutte le cose come se fossero a lui presenti
in un unico istante: questa nozione di eternità come atemporalità tornerà in Boezio di Dacia, in cui si
discuterà se il mondo è eterno, dicendo che potremmo dire che il mondo è eterno, ma si tratterebbe di
un’eternità diversa da quella di Dio, no equiparazione creatura creatore. Dio, in quanto causa prima, atto
puro, non ha potenza, dunque non è materia; siccome Dio, in quanto causa prima, dev’essere immobile,
non deve essere sottoposto al tempo, misura del movimento. L’uomo è corpo, è incorporato, dunque è
sottoposto al mutamento, dunque al tempo. L’ontologia genera l’epistemologia, quindi siccome Dio
dev’essere diverso dagli altri, allora il loro modo di conoscere sarà anche diverso. Un’altra distinzione
importante che avrà grande fortuna in ambito medievale è la differenza tra quod est e il quo est: ciò che
una cosa è è diversa da perché una cosa è. Ogni cosa è tale, cioè un uomo per esempio, perché ha al suo
interno il quo est, la forma, l’essenza, la natura. Si usano categorie aristoteliche anche per il tema della
trinità, uno degli argomenti centrali e discutibili per ogni cristiano, anche se dal punto di vista filosofico è
problematico. La trinità sono tre persone in un’unica sostanza; padre, figlio e spirito santo sono tutti e tre
Dio allo stesso tempo, complicato filosoficamente. Per noi una sostanza ha una sola identità, non tre! Non
ha tre ragioni d’essere, tre forme diverse se siamo in un unico Dio. Tre aspetti formali diversi dello stesso
Dio che non sono accidentali rispetto alla sostanza. Questo problema viene affrontato da Boezio, ma
rimane in discussione anche nei secoli successivi (XI secolo). Scoto Eriugena e Pseudo Dionigi importanti in
questo periodo, filosofia neoplatonica che la veicolano per Tommaso e altri, tramite i testi di Dionigi e
Giovanni Scoto Eriugena, oltre che Agostino.
Problema che torna con Anselmo d’Aosta, periodo caratterizzato da dibattito tra dialettici e anti dialettici.
Siamo all’interno di un mondo monastico, lontanissimo dalle università del XIII secolo. Si entra nel
monastero non per studiare, ma perché si ha una visione del mondo particolare e si vuole uscire
dall’esterno; si abbraccia una regola ben precisa, basata sul lavoro e sulla preghiera. La dimensione religiosa
è prioritaria per un monaco, la fonte d’ispirazione principale è infatti la Sacra Scrittura, che non viene
sottoposta a un vaglio critico, ma è oggetto di una lettura attenta e rispettosa dei misteri di cui si parla nel
testo. Si è inadeguati ad affrontare tali temi, atteggiamento passivo che consente di ricevere la grazia di Dio,
cioè capacità di penetrazione del testo biblico. Il monaco è peccatore lontano da Dio che tramite la scrittura
cerca di avvicinarsi a Dio. Perfino per fare questo gesto di cogliere la mano di Dio c’è bisogno del supporto
della grazia di Dio. Il peccato lo ha talmente allontanato da Dio che nemmeno la comprensione
(contemplazione è successiva alla morte del corpo come ricompensa), la capacità di seguire dipende dalla
grazia di Dio. Rapporto tra dialettici e anti dialettici. Cos’è la dialettica a questa altezza cronologica? Qui la
dialettica è logica aristotelica. La dialettica agisce per parlare della divinità, il monaco è anti dialettico.
Perché secondo alcuni è oltraggioso parlare di Dio con le categorie logiche? Sono due cose completamente
diverse, e oltre a questo per un cristiano la filosofia vuole arrivare alla verità, ma questa è rappresentata da
cristo, verità senza ragioni a supporto, è una verità che si pone solo ad una adesione istantanea. Dio non
costringe l’uomo ad essere seguito, ma vuole essere scelto a prescindere da ragioni. La logica è
un’operazione scorretta, è come invertire l’ordine ontologico, è la creatura che giudica l’autore. Mentre ci
sono altri autori come Anselmo o Abelardo che considerano la ragione come strumenti di comprensione
divina. La fede non basta. I dialettici dicono che dobbiamo usare la ragione perché la fede e basta non porta
alla salvezza, il cristiano deve mettere in moto la propria fede attivando la razionalità nei termini in cui
questo è possibile e senza cadere nell’eresia. La presenza della filosofia ha un riflesso anche sulla
concezione della fede; sono sempre due mondi che stanno insieme e cercano di rimanere distinti con
grosse difficoltà. Questo rapporto tra dialettici e anti dialettici ha a che fare con una coppia terminologica
fondamentale: ratio/auctoritas. Il credere ha a che fare con la fides; è l’atteggiamento corrispondente alla
auctoritas, mentre la ratio è all’intelligere. Da un lato credenza pura senza razionalità, dall’altro l’intelligere,
il comprendere, il capire razionalmente. Questo lo vedremo anche nel Prologo di Boezio di Dacia. Intelligere
vuol dire comprendere: per credere devo riflettere razionalmente. La ragione può avere successo nella
misura in cui questa è illuminata dalla fede in Agostino. L’uomo è capax dei, è capace di penetrare nel
divino e per attuare questa comunione con Dio non basta solo la fede, ma ci vuole la razionalità illuminata
dalla fede. Due letture: una di Pier Damiani, monaco italiano massimo esponente degli antidialettici e
Berengario, sostenitore dei dialettici e protagonista francese del dibattito sulla transustanziazione (com’è
che pane e vino diventino carne e sangue anche se questi rimangono tali, no trasformazione, com’è
possibile che cambi la sostanza mantenendo immutati gli accidenti?). Il primo dice che i dialettici sono
eretici e tirano conclusioni che secondo loro sono necessarie (al contrario del contingente). Sillogismo ha
generato il figlio di dio e ha conosciuto un uomo: la logica umana è nulla rispetto alla logica di Dio, il quale,
con il miracolo, spazza via i sillogismi. Berengario, invece, dice che è proprio di uno spirito magnanimo il
ricorrere alla ragione, poiché la ragione è dono di Dio. Anselmo dedica due opere per l’argomento logico
dell’esistenza di Dio (Proslogion e Monologion = a posteriori). Anselmo rimane insoddisfatto dell’argomento
a posteriori, che mette in relazione il mondo delle creature a quello del creato in base alla perfezione (come
se il creatore esistesse in virtù delle creature), e cerca un argomento razionale a priori. Anselmo è un
monaco e spesso viene visto come l’illuminista ante litteram. Prologo del Proslogion di Anselmo: egli cerca
argomento a priori della razionalità della fede, si tratta di un’operazione delicata, poiché è pieno di monaci
che ritengono impossibile usare la dialettica. Monaci richiedono ad Anselmo di fornire risposta. Tema della
curiositas, della conoscenza vana, del peccato di superbia usando dialettica per rinchiudere e sottoporre
Dio alle proprie leggi. Anselmo descrive il contesto del suo argomento, non vuole essere giudice di Dio ma
vuole essere strumento di aiuto per i suoi compagni. Tutte le cose hanno bisogno di Dio per essere, cioè per
esistere, e per bene essere: non basta essere, ma bisogna bene essere, cioè realizzare l’essenza con la quale
Dio ci ha pensato e con cui egli ci ha donato l’essere. Anselmo è colui che ha fondato una nozione di verità
diversa da quella corrispondentista di Aristotele, perché si parla di una realtà ontologica: ogni realtà ha una
sua verità, cioè perfezionamento della sua natura. Verità riguarda ogni ente creato da Dio; esiste una verità
dell’uomo che consiste nel praticare la virtù e la sua natura razionale. Difficoltà di Anselmo di trovare
argomento, direzione della non presunzione e non superbia. Egli si muove secondo le regole: non vuole
occupare inutilmente la razionalità per cercare cose che lo portano lontano da Dio. Atteggiamento
epistemologico che porta alle conoscenze false se applicato alla natura: bisogna guardare alle creature per
guardare a Dio. Cerca di comprendere ciò che crede, capire in senso di avvicinamento. Umiltà
nell’anonimato. Capitolo 2: intelligenza alla fede, sembra ossimoro. Richiesta di aiuto da parte di Anselmo.
Dio è ciò di cui non si può pensare niente di maggiore. L’idea di Dio è presente anche nella mente di chi non
crede, perché non la associa all’esistenza. Quindi anche l’insipiente deve ammettere che tutto ciò che si
intende è nell’intelletto, dove si trova concetto di Dio. Ma non può essere nel solo intelletto, perché deve
esserci anche nella realtà. A partire dalla definizione di Dio come ciò di cui non si può pensare niente di
maggiore, è necessario che esista, perché se così non fosse, sarebbe possibile pensare qualcosa di maggiore
(Dio + esistenza) rispetto a ciò di cui non si può pensare niente di maggiore! Questa prova a priori viene
criticata da Tommaso e da Kant. Monaco Gaunilone, passaggio da concetto a realtà è illecito.
Lezione 3
Secolo in cui c’è un passaggio dal testimone al mondo arabo a quello latino (XII-XIII secolo, penisola iberica).
Anselmo inserisce l’argomento dell’esistenza di Dio basato non su richiami autoritativi (non richiama una
sentenza di un padre della Chiesa né si rifà a un verso biblico), si tratta di un argomento razionale in senso
stretto. Non avremo moto di vederlo nel dettaglio, ma di norma le argomentazioni sull’esistenza divina si
rifanno spesso a richiami autoritativi, se non si trattano di argomentazioni prettamente razionali (es.
Tommaso nel XIII secolo, immortalità dell’anima). All’interno dei testi medievali, soprattutto quelli della
scolastica, troviamo questa doppia linea argomentativa, significativa perché rivelatrice della mentalità del
filosofo medievale, che tiene un piede nella tradizione ma che cerca di superarla con ragionamenti. Coppia
ratio/auctoritas. Anselmo fa a meno di rimani autoritativi e formula un argomento unicamente nella sua
testa (anche se secondo alcuni la definizione che lui dà di Dio si può ritrovare nei pagani, come Cicerone e
Seneca). Anselmo inserisce tale definizione in un contesto di preghiera per ricevere la grazia da Dio per
iniziare e continuare questa impresa, cominciata dall’esortazioni dei compagni. Se è vero che Dio è ciò di cui
non si può pensare niente di maggiore, allora non è possibile pensarlo senza esistenza, cioè perfezione
dell’essere. Altrimenti ci sarebbe una contraddizione! Il concetto di Dio come non esistente è inconsistente
dal punto di vista logico, perché a partire da quella definizione bisogna derivare necessariamente
l’esistenza di Dio.
Capitolo 2 Proslogion:
1) Insipiente afferma che Dio non esiste;
2) Ma Dio è ciò di cui non si può pensare niente di maggiore;
3) Se Dio è tale, allora esiste, infatti se per assurdo affermiamo che non esiste ne segue che ciò di cui
non si può pensare niente di maggiore non è ciò di cui non si può pensare niente di maggiore;
4) Possiamo infatti pensare Dio con esistenza e cioè ciò di cui non si può pensare niente di maggiore,
che è maggiore del semplice concetto di Dio, cioè ciò di cui non si può pensare niente di maggiore.
Dunque ciò di cui non si può pensare niente di maggiore non è tale, dunque esiste
necessariamente. (Tesi 1)
Capitolo 3 Proslogion:
1) Ciò che non possiamo pensare non esistente è maggiore di ciò che possiamo pensare non esistente,
A è maggiore di B;
2) Se per definizione Dio è ciò di cui non si può pensare niente di maggiore allora Dio = A, dunque non
si può pensarlo non esistente. La non esistenza di Dio è impensabile! (Tesi 2)
XIII/XIV testo di Anselmo, in cui deduce attributi di Dio. Anselmo è insoddisfatto. Dio è dovunque e sempre,
al contrario delle sue creature; questi attributi non sono casuali, poiché vi sono versetti della Bibbia che
affermano questo. Nel XIII secolo, una volta che gli autori medievali si saranno impadroniti delle categorie
filosofico naturali di Aristotele, proveranno a giustificare il perché Dio è in ogni luogo; anche perché se ci
proviamo a pensare, come fa qualcosa di immateriale ad essere sottoposto a luogo e tempo? Questi sono i
terreni teologici dove si mettono alla prova le categorie aristoteliche, terreno non previsto da Aristotele,
categorie che secondo i medievali sono utili per comprendere meglio la Bibbia. Spesso nelle opere
teologiche troviamo digressioni filosofiche molto interessanti, come accennato alla lezione precedente, che
portano a cambiamenti concettuali che vengono riadattati per la soluzione di problemi nuovi. Verso il ‘300
si ha una rottura delle categorie aristoteliche, poiché entrano in crisi rendendo poco già nel tardo
Medioevo.
Continua nel testo il dissidio interiore di Anselmo, che cerca Dio ma sa di non potercela fare: perché la mia
anima non ti sente se ti ha trovato Signore? Questo argomento che ha funzionato dal punto di vista
argomentativo per provare l’esistenza di Dio, lascia fuori una parte della soddisfazione di Anselmo, il quale
è come se dicesse che questa prova dovrebbe avvicinare Dio all’uomo, quando in realtà è un mero
ragionamento, un esercizio intellettuale che l’uomo pensa sia un’unione con Dio, la quale unione in realtà
va aldilà dell’intelletto e che muove l’affectus, l’amore, che trascendente l’intelletto, perché è solo con
l’amore di Dio che l’uomo deve entrare in contatto. L’argomentazione, dunque, non ha fatto scattare
l’unione con Dio (diversamente dalla visione di Dio, premio che ogni cristiano riceverà nell’aldilà, mentre
unione è anche nello stato mistico in vita). Il beato, colui che ha meritato il premio nell’aldilà, come vede
Dio? L’epistemologia medievale si sviluppa in un ventaglio innumerevole di stati mentali, perché deve
rimanere presente la caratteristica della creaturalità. Dio, in quanto tale, ha capacità incommensurabile.
Questo argomento, dunque, è inscritto in un contesto di natura monastica, poiché Anselmo resta
esponente di tale tradizione che valorizza l’affectus, l’interiorità, la ricerca di Dio attraverso l’amore,
piuttosto che con l’intelletto. Drammi individuali, Anselmo si rivolge in prima persona: queste
caratteristiche svaniranno nel XIII secolo, poiché si ha la pretesa di razionalizzare un ragionamento valido
per tutti. Fra alto e basso Medioevo muta l’atteggiamento, poiché successivamente ci si interrogherà in
terza persona, non ci saranno solo drammi personali, ma saranno richiamati argomenti oggettivi e razionali
su Dio come oggetto d’indagine. Per certi aspetti si accostano agli scienziati per l’atteggiamento distaccato e
preciso.
XII secolo, secolo di rinascita e mutamenti filosofici. Questo secolo è una sorta di cerniera tra il mondo dei
monasteri e il mondo delle scuole cattedrali, tra alto e basso Medioevo. Le scuole cattedrali si
trasformeranno in Università, come Notre Dame a Parigi, scenario in cui avverranno le dispute più
importanti dal punto di vista filosofico e teologico. Se è vero che Parigi rappresenta il centro più importante
per la teologia, ve ne solo altri come Oxford e Colonia. Il XII secolo è erede della cultura precedente,
soprattutto di quella pagana antica che torna ad essere letta; per altri aspetti invece è prodromo,
introduzione a quanto accadrà nel XIII secolo con la scolastica, soprattutto dal punto di vista del metodo
argomentativo, che, come abbiamo inteso, costituisce una caratteristica della filosofia medievale. Questi
autori non sono affatto degli sprovveduti, ma sanno che per arrivare alla verità è necessario seguire un
metodo preciso e che seguire un metodo significa fare filosofia e seguirne un altro significa indagare un
altro scorcio di sapere. Gli autori latini, dalla cultura araba, non recuperano solo Aristotele, ma tanti testi
scientifici che gli arabi avevano elaborato a parte aldilà dei commenti aristotelici: maggiore interesse per
l’indagine sulla natura in quanto tale. Fino a quel momento la natura è solo manifestazione della potenza di
Dio, canale che ci fa capire in maniera enigmatica qualcosa della causa prima di Dio, qualcosa dei suoi
attributi, quali onnipotenza, razionalità (ordine cosmico). Agli uomini dell’alto Medioevo non interessa la
natura in questo senso, che considera la natura nei suoi aspetti macroscopici per rivelare la potenza di Dio
tramite fenomeni naturali, spesso interpretati come miracoli.
Agli uomini del XII secolo che si raccolgono intorno alla scuola di Chartres interessa lo sviluppo specifico
della natura per indagare il perché dei fenomeni e lo studio delle cause seconde. La realtà è strutturata da
“leggi”, meccanismi che possono essere proficuamente studiati dall’uomo e individuati dall’uomo, perché
l’uomo è fatto della stessa pasta della natura (rapporto microcosmo-macrocosmo). Uomo fa parte della
natura e le sue strutture conoscitive rendono possibile l’individuazione dei singoli fenomeni:
desacralizzazione della natura, ha autonomia in sé, studiata in quanto tale a prescindere dall’avvicinamento
da Dio. Pietro Abelardo è autore per eccellenza in questo periodo, sia in ambito morale (etica) che in
ambito logico (termini universali di genere e specie). Rottura con il mondo precedente, nuova mentalità che
sta emergendo. Si ha una dislocazione spaziale, poiché il monastero è isolato dal resto del mondo, in
campagna, mentre le scuole cattedrali sono nel mezzo della città. Cambia anche la finalità
dell’insegnamento; mentre nel monastero si insegna a leggere e a scrivere (perché il monaco ha esigenza di
pregare il più possibile con la Bibbia e copiare codici se bravo) e basta, perché sotto c’è il presupposto che
la Bibbia rivela tutto ciò che c’è da sapere, centralità attorno alla Sacra Scrittura, mentre alle cattedrali
insegnano trivio e quadrivio, cioè le arti liberali (anche perché uomini erano destinati a carriere come
notai). Si entra a scuola per imparare davvero dei contenuti per uscire e trattare con ambienti non
esclusivamente religiosi.
Abelardo fin da giovane sviluppa interesse particolare per il sapere (la dialettica) e non per la carriera
militare a cui era destinato. Egli a Parigi riesce ad aprire una scuola, attirando le invidie dei suoi colleghi (tra
cui Guglielmo, suo maestro). La disputa è modo di fare lezione nel XIII secolo (debates di oggi, verità esce
dallo scontro di opinioni). Carteggio Abelardo. Parigi del periodo in cui dispute avvenivano all’aperto nel
quartiere della Sorbona, sulle rive della Senna, rue maitre Albert, luogo dove Abelardo faceva lezione.
Linguaggio guerresco di Abelardo. Cambia il mondo, ora è una competizione continua in cui tutti cercano di
dimostrare la propria intelligenza: la dialettica è scienza umana maneggiabile dagli uomini, che
argomentano liberamente senza teoricamente tener conto dei confini oltre cui andare. Proprio di questo
amore per la dialettica di Abelardo, si legge che la dialettica è un sapere di per sé utile. Si supera l’idea che
la ragione è illuminata dalla fede, direzionata correttamente dalla fede, ispirata dalla fede come se da sola
non potesse intraprendere un percorso; a partire da Abelardo c’è la rivendicazione della ragione umana che
può conoscere oggetti specifici che non sono la causa prima ed è in grado di farlo senza sentirsi
delegittimata dal sapere religioso. Nessuno mette in discussione i grandi temi religiosi, ma rivendica la
possibilità dell’uomo di rivendicare un sapere in sé (Proemio di Boezio di Dacia, filo rosso che arriva dal XII
al XIII secolo, uso della dialettica di Anselmo fino a Boezio). La nostra vita terrena è un pellegrinaggio per il
cristiano, stiamo scontando una pensa sulla Terra e questo implica che in teoria ci si deve muovere in
questa direzione e basta; per Abelardo non è così. È bene sapere anche il peccato per stargli lontano! Prima
di Abelardo era pericoloso conoscere certe cose perché ci possono risucchiare lontano da Dio, ma qui
vediamo che è importante conoscere cosa è male per non farlo. Il quid est, che per Aristotele è
fondamentale negli Analitici, è il cosa è: che cosa è, è una domanda filosofica, si va alla ricerca della
definizione e dell’essenza. Senza conoscere il peccato non è possibile evitarlo: l’azione morale non
prescinde dalla conoscenza. La conoscenza non è peccato, il quale consiste nell’azione e nell’agire con
intenzione malvagia, la conoscenza di per sé non comporta ipso facto il peccato. Perché l’astrologia è
conoscenza pericolosa per i medievali? Con essa noi possiamo prevedere il futuro, ci affidiamo alle stelle e
si toglie a Dio la capacità di previsione. L’astrologia è una scienza vana perché non produce una conoscenza
effettiva ed è come dire che gli astri sono cause seconde che contribuiscono in maniera massiccia alla
nostra volontà individuale. Abelardo è astuto, perché ritorce l’obiezione fatta a sé contro Dio: egli è
onnisciente per definizione, dunque conosce anche il male e se conoscere il peccato significa peccare, allora
Dio è peccatore. Reductio ad absurdum! Abelardo ribadisce ciò che ha detto Berengario, cioè l’intelletto è
dono divino, deriva dal dono della razionalità e non è fonte di peccato ma dono. Andando avanti (pag.2), la
dialettica è importante in quanto arte tecnica dell’argomentazione, utile al cristiano in ambito apologetico,
per prevenire e controbattere le eresie (scismatici). La dialettica è sapere importante a cui ci si deve
dedicare con grande fatica. Coloro che vogliono male alla dialettica in realtà non ci capiscono nulla; si
nascondono dietro all’accusa di vanità per nascondere l’inadeguatezza rispetto a questo studio, cioè alla
filosofia. La scienza assume per questo una connotazione negativa e il dolore diventa invidia. Bisogna
essere intelligenti per fare filosofia. Questo porterà a uno scontro tra facoltà: tra i maestri di filosofia e
quelli di teologia (Tommaso, Alberto Magno etc.). Chi ha il potere del sapere? Esiste una scienza
subordinata a un sapere più alto della teologia?
Lezione 5
Il XII secolo è un secolo di rinascita culturale e in cui si assiste ad un ampliamento notevole della biblioteca
filosofica e scientifica grazie alla reconquista della penisola iberica. I latini entrano in contatto con testi
arabi. Alto medioevo in cui in Occidente mancano testi filosofici e scientific e un Oriente arabo che assiste a
un ampliamento geografico notevolissimo. Gli intellettuali arabi sono i detentori della cultura nell’alto
medioevo; e quando le due culture si incontrano abbiamo il secondo passaggio di testimone (il primo con la
chiusura della scuola di Atene). Processo razionale accompagnato dall’autorità, particolare ammirazione
per i testi recuperati (Ovidio, Seneca – stoico, tratta del sommo bene) che possono insegnare qualcosa ai
medievali. Giovanni di Salisbury, il quale, parlando della filosofia di Abelardo di Chartres, richiama il famoso
detto dei nani sulle spalle dei giganti, adagio che non è moderno ma della filosofia medievale. Rapporto dei
medievali con autori della tradizione, la quale è molto importante ma non è come andare con il freno a
mano. “Ricordo che Abelardo disse che sarebbe stato facile comporre un libro della dialettica che non
sarebbe stato inferiore agli antichi, ma che ci sarebbe stata grande difficoltà nel diventare un’autorità.
Questo prestigio doveva rimanere agli antichi, i quali furono i primi a sviluppare questi argomenti. Oggi i
loro sforzi sono contenuti nelle enciclopedie e la nostra generazione gode di quella precedente,
sostenendosi grazie alle forze di altri, debito fondamentale dei contemporanei nei confronti dell’antichità,
poiché gli antichi sono i primi che hanno posto queste questioni per primi e non si può prescindere da
questo sforzo. Come dice Bernardo di Chartres, noi siamo come nani sulle spalle dei giganti che ci
permettono di vedere più avanti, non per la potenza della vista o perché siamo superiori, ma perché siamo
elevati più in alto dalla loro gigantesca statura”.
Nuovo interesse per la natura che viene indagata non per un interesse specifico nei confronti dei singoli
fenomeni naturali, ma nella misura in cui la natura è specchio di Dio, in quanto nella Bibbia si legge che Dio
creò in principio cielo e Terra (versetto Genesi, 1:1). Mondo è opera di Dio ed è dunque manifestazione
della sua potenza. Importante l’aspetto materiale della cultura filosofica, la presenza dei testi o meno ha
influenza decisiva sulla filosofia. Crescita dell’erba non è miracolo di Dio ma gioco tra elementi che
entrando in connessione fra loro rendono giustificazione di questo. Approccio razionale della scuola di
Chartres. Canone ermeneutico è il Timeo di Platone, la prima parte cosmogonica che diventa canone
ermeneutico preciso per commentare l’opera dei sei giorni della creazione. Pratica di esegesi che rivela i
misteri di Dio parallelamente alla filosofia araba. I monaci dell’Alto Medioevo infatti commentavano la
Bibbia e il libro della Genesi (racconto esamenorale). Nel Basso Medioevo lo fanno ma avvalendosi del
Timeo, commentato da Calcidio. Demiurgo trasferisce sulle forme un proprio progetto intellettuale, dando
vita alla natura così come noi lo conosciamo. Il Demiurgo è il primo candidato per incarnare Dio stesso; si
parla di una materia plasmata in cui il Demiurgo pone l’anima del mondo (Spirito Santo). In questo dialogo
si trova una dottrina di quattro elementi che i medievali riutilizzeranno. Il Demiurgo ha nella sua mente
come un artigiano un progetto ideale che trasferisce sulla materia, ma mentre il Demiurgo si trova a
disposizione una materia caotica (Demiurgo non è unico principio eterno, ma insieme alla materia), nel caso
del Dio cristiano la materia non preesiste affatto, egli crea la materia dal nulla. Per questo l’idea di
creazione è un concetto inammissibile per la filosofia, perché quando si parla di “venire all’essere” si
riferisce sempre a qualcosa che precede. Da Parmenide in poi infatti si pensa che dal nulla non può venire
altro che nulla. Il creare è passaggio dal non essere all’essere, totale differenza fra il racconto del Timeo
come produzione del mondo, e creazione di Dio ex nihilo. Adelardo di Bath, autore inglese che nelle sue
questioni naturali inscena un dialogo con un interlocutore con cui si confronta sul problema di mantenere
la tradizione o accettare le spinte che vengono dalla circolazione di nuovi testi per spiegare fenomeni
naturali. Si parla della crescita dell’erba; approvazione o meno di un atteggiamento metodologico nuovo.
Trattazione di argomenti specifici spesso incardinata su aspetto metodologico, profilo rilevante per i
medievali perché mette in gioco il sapere sacro e filosofico. È sempre un braccio di ferro fra due posizioni.
Adelardo di Bath dice che lui ha trattato i testi scientifici arabi. Il nipote dice che è la volontà di Dio ad aver
creato il mondo, mentre Adelardo rivendica un nuovo atteggiamento ma senza togliere nulla a Dio; è ovvio
che l’erba cresce grazie all’opera onnipotente di Dio, ma ciò non avviene senza una ratio, una ragione
comprensibile. L’erba non solo nasce dalla terra, ma da un composto (quattro elementi). I quattro elementi
sono nell’intero corpo del mondo e non appaiono nella semplicità dei nostri sensi. Platone e Aristotele si
fanno sentire molto, scarto tra conoscenza intellettuale e sensibile secondo Aristotele; i quattro elementi
hanno caratteristiche che rendono conto dei fenomeni della natura. Termine “causa”, quasi un ecosistema!
Torna il dovere dell’indagine razionale (Berengario) che è anche presente in Boezio di Dacia, dove
l’intellettuale è tenuto a indagare razionalmente, viene rigirato il punto di vista. Si deve ricorrere a Dio solo
quando il nostro ragionamento non è in grado di spiegare. Egli dice a suo nipote che i loro metodi e le loro
strade sono diversi; Adelardo ha imparato dai maestri arabi, mentre il nipote è soggiogato dall’autorità. La
razionalità è distribuita a tutti gli uomini! Le autorità sono diventate tali perché uomini si sono mossi in un
nuovo solco di razionalità e oggi rischia di rendere miope chi la segue. In che senso l’autorità si deve
sottomettere al ragionamento? Autorità non delle scritture ma degli autori. Autorità è rappresentata da
una frase presa da vari testi, ma è una scelta che fa colui che ragiona e che scrive un testo. Principio di
autorità è un rimando, qui, a onestà intellettuale, perché anche l’uso di una sentenza di un padre della
chiesa o di un filosofo arabo devono essere usate tenendo conto del contesto argomentativo nel quale
queste si trovano. Secondo alcuni autori Aristotele ha trattato dell’eternità del mondo, secondo altri no:
bisogna sempre tener conto della volontà autentica dell’autore.
In questo periodo si sassiste a un cambiamento frutto del suo tempo, cioè spinta verso la razionalità,
strumento che Dio ha dato all’uomo e che questo usa nel rispetto di Dio. Qui troviamo la riflessione di
Pietro Lombardo, autore del XII secolo che per primo dà forma al sapere teologico. Grande opera in quattro
libri in cui si trovano temi importanti: 1 libro tratta della divinità, 2 libro sulla creazione, 3 redenzione e 4 i
sacramenti. Si sente la necessità di staccarsi dall’esegesi biblica e si vuole produrre un’opera nuova utile per
capire cosa si deve professare. Opera molto importante che nella facoltà di teologia diventa passaggio
obbligato per tutti coloro che vogliono diventare professore di teologia. Come tesi si aveva i commenti
dell’opera di Pietro Lombardo. Se io voglio sapere per esempio cosa dice Bonaventura di Bagnoregio della
materia primordiale, prendo il secondo libro di Pietro Lombardo per farmi un’idea di come questo concetto
viene trattato, quali sono le differenze e i punti di contatto. Il sapere teologico è sistematico così come
quasi quello filosofico di Aristotele. XII è secolo di introduzione alla scolastica, con arrivo di Aristotele è
grande autorità di fronte a cui bisogna dare ascolto. Ma sarà utile avere le sentenze di Pietro Lombardo per
mostrare che il sapere della sacra scrittura non è lasciata a interpretazione soggettiva, metodo scientifico
per parlare di aspetti religiosi.
Il mondo delle università medievali è il contesto in cui operano i nostri due filosofi. Esse nascono come
corporazioni intellettuali e si fondano su un regolamento interno specifico e regolamentazione del
curriculum e piano di studi per diventare maestri o comunque per uscire con un diploma di laurea valido
universalmente e internazionalmente. All’università (cattedrale) entrano a far parte coloro che hanno
eccelso agli studi. Esperienza all’estero, una sorta di Erasmus; Tommaso d’Aquino, per esempio, è alunno di
Alberto Magno a Parigi e quando quest’ultimo va a Colonia egli si porta dietro Tommaso d’Aquino.
L’università rilascia un titolo spendibile a tutti gli effetti all’estero, che riguarda l’attività di studenti e
docenti, che devono seguire nel loro insegnamento un programma specifico, parte di cui è la spiegazione
dei testi aristotelici. Aristotele, che creerà vari problemi successivamente, diventa materia obbligatoria
all’università di Parigi, nella facoltà di arti che poi è seguita da facoltà superiori.
Testo su Moodle: fatica di prendere appunti al tempo, gli appunti dei colleghi sono stati inutili, i suoi invece
sono stati ottimi, servizio ai colleghi e al professore. Addirittura ha corretto anche il maestro, studente
colto. Ha scritto su tavolette di cera ma poi si sono cancellati.
Nel XII secolo la filosofia torna a parlare latino. Certe opere vengono tradotte ed è come se ci fosse un
nuovo inizio, una nuova vita per queste opere.
Lezione 5
La filosofia continua a sopravvivere in Oriente. Nel XII secolo i latini entrano in contatto con la cultura araba
che ha un grande peso per la ricezione della filosofia aristotelica. Alcuni di loro commentano i testi
aristotelici e le opere di Aristotele vengono recepite proprio attraverso questi commenti di autori arabi. La
Metafisica di Aristotele, per esempio, testo fondativo della filosofia occidentale, giunge ai latini prima che
direttamente con una traduzione araba, con il commento di Avicenna, filosofo arabo, medico e intellettuale
a tutto tondo, che, commentando la Metafisica, quasi la riscrive in una cornice teorica di sapore
neoplatonico. Si recepiscono dottrine che, dunque, non sono direttamente aristoteliche e vi è il problema
filologico di capire il vero pensiero aristotelico. Il commento non è una riscrittura, ma in teoria una
spiegazione: Avicenna alla fine l’ha inglobato in un’opera tutta sua. Tema della stratificazione della cultura
medievale (greco-arabo-latino). Un altro autore importante è Averroè, che vive nella penisola iberica
(Avicenna in Persia) ed è il commentatore per eccellenza di Aristotele, il “Commentator”. I testi medievali
non citano mai per nome i filosofi (dopo con le scuole sì): nel XII secolo per esempio Boezio si riferisce a
qualche teologo ma non sappiamo a chi si riferisce. Il “Philosophus” è dunque Aristotele. La riflessione
filosofica araba consiste nel recuperare l’atteggiamento dei neoplatonici, di contaminare la filosofia
aristotelica con il platonismo, recupero delle tematiche aristoteliche con il neoplatonismo, operazione
filosofica molto complessa. Questi autori sono uomini di fede, hanno problema religioso, sono monoteisti, e
trovano nella filosofia platonica la possibilità di inglobare un discorso vagamente religioso nella filosofia. Il
contatto aristotelismo e platonismo si può vedere nel fatto che questa causa prima è indicibile,
trascendente, ineffabile, tutte le caratteristiche che Plotino attribuiva all’uno, mentre Aristotele non si cura
di dire che il principio sia conoscibile. Caratteristiche di alterità assoluta. In Avicenna vi è la dottrina
dell’emanazionismo, cioè l’idea che la realtà derivi per necessità dalla emanazione di una causa unica, che
per sovrabbondanza d’essere produce tutta la realtà sottostante. Questa dottrina dell’emanazionismo piace
poco ai cristiani, i quali credono nella creazione ex nihilo a partire da un ente volontario e buono. Se è vero
che dobbiamo pensare a Dio come una causa prima che per sovrabbondanza d’essere fa derivare tutta la
realtà allora siamo in una realtà necessitata e questo la rende determinata in maniera inequivocabile,
sparisce il tema della contingenza, che invece è caro ai cristiani, perché tengono al libero arbitrio, alla
contingenza della libertà che porta a premi o pene (visione escatologica, Paradiso e Inferno). Se Avicenna
invece pone tutto nella necessità, egli rende la realtà determinata assolutamente, uomo compreso. È
pensabile per il cristiano che l’uomo non sia necessitato ad agire bene, poiché egli deve scegliere
liberamente il bene per ottenere il premio a seconda del merito. La razionalità non si può applicare a fondo
nella conoscenza di Dio, perché se fossimo necessitati a credere in Dio con la razionalità finiremmo per
essere necessitati a crederci, facendo svanire la fede e il credo. La nostra fede non avrebbe alcun merito di
fronte a Dio, senza meriti né pene, cosa invece di cui ci parla la Bibbia. Questo sistema di Avicenna
contrasta questo credo fondativo cristiano. Un altro tema in Avicenna è la concezione dell’anima come
sostanza. Come definisce Aristotele l’anima? L’anima è principio della vita, principio che coglie tutto l’uomo.
Aristotele definisce nel De Anima l’anima come forma sostanziale del corpo che ha la vita in potenza.
L’anima è forma del corpo, lo determina e lo fa essere quello che è. Aristotele nel De Anima dice che
l’anima è la forma che unendosi al corpo, che è materia, lo fa essere vivente, capace di sentire e di
conoscere. Ci sono delle operazioni che costituiscono per Aristotele il denominatore comune di tutti gli
esseri viventi: egli a posteriori definisce l’anima come principio unico valido per tutti gli esseri viventi che
rende conto di tutte le loro operazioni (l’uomo condivide con la pianta il principio minimo del vivere e con
gli animali altre operazioni). Questa è una novità! L’operazione propria dell’uomo è il pensiero, l’intelligere.
Le sostanze sono sinolo di materia e forma, ma non in modo statico ma in maniera dinamica: i viventi fanno
un sacco di cose e questo dipende dal fatto che la loro forma glielo consente perché strutturata attraverso
tre facoltà fondamentali, che sono vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’anima è sostanza, e questa è una
cosa nuova, perché sostanza è qualcosa di più pesante (dottrina gradita ai francescani) perché la sostanza è
quel qualcosa che è in grado di sussistere di per sé, è unione di forma e materia, mentre la forma noi non la
incontriamo nella realtà. Quando Avicenna dice che l’anima è sostanza, egli salvaguarda l’immortalità
dell’anima. Tutta l’epistemologia medievale si basa sull’anima come strumento gnoseologico. Un altro tema
a cui questi autori sono interessati è quello dell’intelletto: esso è una facoltà specifica, un po’ sui generis
all’interno dell’anima perché è “facoltà immateriale che trascende il corpo organico” (Aristotele). Questo
mondo basato sull’emanazionismo si mostra governato da gerarchia di intelligenze che dalla prima causa
giungono fino all’intelletto umano, che si inserisce in una scala gerarchica e che sia in contatto non diretto
ma mediato con l’intelligenza di Dio. Rapporto di scalarità e possibilità di risalire le intelligenze, arrivando al
livello divino. Questa è la situazione tipica del profeta, colui che può anche conoscere il futuro e compiere i
miracoli (impensabile per cristiani del XIII secolo, perché fra Dio e creatura, anche se a sua immagine e
somiglianza, non si può ambire al livello di Dio, resta sempre una differenza sostanziale). Con autori come
Alberto Magno vedremo la dottrina della felicità che ingloba questa dottrina araba.
XIII secolo della scolastica, detto così perché è il secolo delle scuole: c’erano anche prima, ma ora c’è
proprio una pratica universitaria e scolastica e gli autori sono strettamente attaccati alle loro istituzioni.
Università rilascia un titolo che può essere speso all’interno della cristianità: licenzia ubique docendi. La
facoltà delle arti, cioè la facoltà propedeutica, è la prima e riguarda le scienze del trivio e del quadrivio, in
cui vi sono scienze che appartengono in questa partizione tardoantica, e i testi aristotelici, dal 1255,
diventano parte del curriculum degli studenti e dei professori all’interno di scadenze specifiche. A questa
prima formazione, poi vi sono facoltà di diritto e poi facoltà di medicina. C’è un rapporto ambiguo con
Aristotele, perché da un lato se ne riconosce il peso fondamentale nella cultura che vuole spiegare la natura
e insegnare le virtù morali (importanti per un cristiano) e dare regole di politica, e se la filosofia è arrivata a
noi è perché è stato un insegnamento codificato in queste istituzioni (mentre nel mondo arabo era ristretto
a una cerchia specifica). Tratto specifico della cultura universitaria, che è la quaestio medievale e che si
riallaccia alla pratica d’insegnamento. Il modo di fare lezione può essere duplice:
- Lectio = lezione, analisi approfondita della lettura di un testo aristotelico, lettura interpretata
letteralmente e spiegata;
- Disputatio = disputa, lezione che prevede intervento attivo di alcuni studenti: l’opponens e il
respondens, cioè colui che risponde all’interrogativo e colui che si oppone. Oltre al loro intervento
vi è un momento centrale, che è la soluzione del problema, la determinatio o solutio del maestro
che sta facendo lezione.
A partire da queste due forme di pratica universitaria nascono due distinti generi letterari della filosofia:
- Commento alle opere maggiori;
- Quaestio, idea che si fronteggino due partiti, è il modo migliore per arrivare alla verità secondo
alcuni (in Tommaso vi sono le Quaestiones). Modo per riprendere Aristotele in modo indiretto,
poiché lui pone l’anima in un modo che supera le obiezioni possibili già previste. La questio inscena
un dibattito: interrogativo posto in forma disgiuntiva (es: l’anima è forma del corpo o no?), poi una
serie di argomenti contrari alla posizione del maestro, poi seguono argomenti a favore, poi si cerca
di non lasciare niente di intentato rispetto alla verità.
Testo su Moodle di Boezio di Dacia: fino a che punto l’opponens deve contrastare il respondens? Se essi
disputano mirando alla conoscenza della verità, l’opponens deve tentare di correggere comunque il
respondens, ma non deve farlo per vincerlo, come i sofisti, bensì perché entrambi progrediscano nella
ricerca della verità. Se il respondens dice il falso, l’opponens deve correggerlo così che egli l’abbandoni per
raggiungere la verità. Se il respondens sostiene la verità, l’opponens deve correggerlo, se capace (aspetto
individuale), affinché egli, vedendo la debolezza e la facilità delle posizioni dell’opponens, riceva conferma
delle sue opinioni vere e possa giustificarle ancora di più. Secondo Aristotele si è confermati in due modi
infatti: o per le ragioni che si sostengono, o per la facilità delle posizioni opposte. Assunto generale delle
questioni opposte. Boezio mira molto all’aspetto della deontologia professionale del filosofo, sulla serietà di
fare questo mestiere. Molti dicevano che non bisognava invecchiare a fare l’università della facoltà delle
arti perché vi è un sapere maggiore, Boezio cerca di ribaltare la cosa e dimostrare che in realtà la filosofia è
degna di essere studiata tutta una vita.
Quattro eventi fondamentali di questo secolo:
- Scuole di traduzioni
- Fondazione di università
- Fondazione di ordini mendicanti (francescani e domenicani)
- Arrivo di Aristotele
Bonaventura di Bagnoregio ci parla della ricezione dei testi aristotelici. Rispetto all’ingresso di Aristotele e
la sua riscoperta, ci sono tre cose da tenere presenti:
1) Con Aristotele arriva una nuova immagine precisa della filosofia, intesa come sapere apodittico e
dimostrativo, un sapere specifico e fondato su tecnica argomentativa che la distingue dalle altre;
2) Reazioni che questo suscita all’interno degli autori della latinità medievale;
3) Dibattiti specifici che nascono nel XIII secolo attorno alcune dottrine aristoteliche (es. eternità del
mondo).
Bonaventura aveva tenuto una conferenza all’Università di Parigi, dopo il 1270, in cui egli dice che la
filosofia di Aristotele è foriera di alcune dottrine pericolose per la fede. Egli è un autore francescano,
contemporaneo a Tommaso, e nonostante il fatto che da giovane abbia ammirato Aristotele, a metà anni
’70 egli usa un tono particolarmente duro, perché il contesto culturale intorno a lui è cambiato e vi sono
dibattiti decisivi in cui lui entra a gamba tesa. L’occasione pubblica è utile per Bonaventura. Nella
conferenza si tratta della Genesi. Genesi 1:4, luce/tenebre è rapporto inteso tra verità e errore. L’occasione
del commento del versetto della Bibbia da un parere sulla filosofia aristotelica, poiché Aristotele è visto
come tenebre. In questo testo egli parla anche della visione umana. La luce si irradia come verità in raggi.
Dottrina dell’illuminazione intellettuale. Bonaventura dice che alcuni dei filosofi antichi hanno visto
qualcosa della verità, perché sono arrivati a comprendere la esistenza di una causa prima (hanno visto la
luce). Dio divise luce e tenebre e alcuni filosofi, come angeli, hanno seguito luce e altri tenebre, deviando.
Sebbene tutti posero la causa come principio, assunsero un atteggiamento diverso in che modo la causa
prima il medio, la modalità si rapporta al creato. Infatti, alcuni negarono che in essa, cioè nella causa prima,
vi fossero gli esemplari di tutte le cose, ovvero le idee. Agostino cristianizza il mondo delle idee di Platone,
trasferendolo nel mondo di Dio. La colpa è stata negare l’esemplarismo e la provvidenza di Dio. Aristotele
rigetta le idee di Platone e afferma che Dio conosce solo se stesso (pensiero di pensiero). Se la causa prima
dev’essere tale è necessario per Aristotele che questa sia immateriale, altrimenti avrebbe una potenza, che
avrebbe bisogno di un atto che la precede. Dio è atto puro, muove rimanendo immobile con le sfere.
Aristotele nega le idee sia nella Metafisica sia nell’Etica Nicomachea e Bonaventura lo sa. Dall’esemplarismo
a cascata scendono implicazioni negative per la fede: che Dio non abbia prescienza né provvidenza, perché
in sé non ha concetti seguendo Aristotele. Emanazionismo introduce necessità. Aristotele ha sbagliato a
non accennare mai al divino né al demonio secondo Bonaventura. Triplice errore di Aristotele:
oscuramento del mondo delle idee, della provvidenza divina e della disposizione del mondo.
Lezione 6
L’Università medievale è frequentata anche da non religiosi, come mercanti, e poi francescani e
domenicani. Processo lungo dell’introduzione delle opere di Aristotele, a partire dalla Politica. Non c’è
critica alla filosofia in quanto tale, ma il dito viene puntato contro Aristotele, il quale è colpevole di un
peccato originario, cioè quello di aver negato il mondo delle idee di Platone. Da questa critica, in ambito
cristiano, si è prodotta una possibilità di errore ed eresia rispetto ad alcune dottrine centrali del credo
cristiano. Il mondo delle idee è stato accolto dallo steso Agostino a favore di una teoria gnoseologica di Dio.
Negare l’esemplarismo e il mondo delle idee significa negare la provvidenza e la prescienza di Dio, cioè che
lui conosce tutto del presente e cura, ama e guida le creature che ha creato. A partire da questo nucleo
centrale della critica del mondo delle Idee, secondo Bonaventura si creano problemi anche riguardo
all’eternità del mondo. Triplice cecità della negazione dell’esemplarismo, di cui uno è l’eternità del mondo.
Critica che Aristotele nel De Cielo fa a Platone: egli ritiene che il concetto di generazione e corruzione siano
strettamente correlati, dunque il mondo non è eterno, ma dovrà subite una corruzione. Aristotele ha
professato l’eternità del mondo, concetto che ripugna rispetto alla verità. Se si pone un mondo eterno,
necessariamente segue che o le anime sono infinite, poiché immortali, o passano da corpo a corpo. Sono
tesi non giustificabili dal punto di vista filosofico. Da questi due errori deriva che non vi è un fine
escatologico individuale. Aristotele ha contribuito a una serie di errori. Qui Bonaventura sposta la polemica
verso i suoi contemporanei, che danno troppa attenzione a Aristotele: sono i suoi colleghi della facoltà di
teologia (es. Tommaso). Ci sono autori che siccome dicono che Aristotele ha fatto bene e ha detto cose
estremamente valide, sono alla ricerca di aspetti filologici che possano riabilitare la filosofia aristotelica, che
è uno dei fini rispetto cui Tommaso scriverà De Unitate Intellectus: dottrina di un unico intelletto non è di
Aristotele, ma di Averroè – cerca di difendere Aristotele. La luce eterna è l’esemplare di tutte le cose per
Bonaventura, e una mente elevata gli sfugge: Aristotele non ce l’ha fatta a raggiungerla. Come dice Plotino,
è assurdo che in Dio vi siano gli esemplari di tutte le cose e non delle virtù! Nella mente di Dio sono presenti
gli insegnamenti morali e gli archetipi delle virtù. Intervento pesante nei confronti di Aristotele.
Pietro Giovanni Olivi – come bisogna leggere i filosofi: espressione dei teologi philosophantes, sono i
teologi che usano troppo la filosofia anche in maniera indebita, espressione un po’ sprezzante. Anche qui,
come in Bonaventura, si parte da un versetto biblico: prima lettera ai Corinzi, “Dio ha reso stolta la sapienza
di questo mondo”. Richiamo alla stoltezza della sapienza mondana (Pier Damiani e polemica alla dialettica).
Paolo ci insegna ad essere attenti a quattro elementi della filosofia mondana:
1) Falsità dell’errore
2) Verità della ragione
3) Vanità della tradizione
4) Falsità o pochezza della speculazione
La filosofia dunque presenta queste quattro caratteristiche. Per il primo può essere detta stolta; per il
secondo possiamo definirla sapienza per il fatto che vi sia qualche verità. Per il terzo, diventa sapienza del
mondo. Vanità della tradizione rimanda all’auctoritas, punto d’appoggio autorevole su cui sviluppare un
proprio ragionamento; perché la filosofia risulta vana da un punto di vista della tradizione? L’autorità è
rappresentata da uomini e altri filosofi, che quindi hanno un limite rispetto alla verità, quindi è una sapienza
che non attinge alla metafisica. Lui si riferisce ai teologi, che non sono filosofi, ma che usano troppo la
filosofia in ambiti che non ne hanno bisogno. Per la parzialità della speculazione la filosofia ha a che fare
con il sensibile e basta, non con la dimensione divina, quindi emerge come un sapere che attinge alla verità
ma in maniera parziale e che è appiattita su una dimensione orizzontale che non arriva al divino. La filosofia
è così perché così furono i suoi autori: per essere peccatori sono limitati e non hanno beneficiato della
rivelazione. Piccole quantità del lume naturale e molta materialità: non si sono potuti sollevare in alto
perché accecati dal mondo sensibile. Servirono la vanità; curiositas, i filosofi pagani hanno dato vita a una
conoscenza umana che non era diretta verso il fine corretto che è la conoscenza di Dio e appiattirono la loro
analisi sul mondo sensibile, per cui ebbero conoscenza limitata e vana, furono i servi della vanità, perché
non colsero il fine escatologico dell’uomo. Occhio della civetta di Aristotele, i filosofi hanno occhio della
civetta che di fronte al Sole si chiude, così che i principi della realtà trascendevano la comprensione di
questi filosofi catalizzati solo nella spiegazione del mondo naturale. Olivi mette Aristotele contro se stesso,
conosce i suoi scritti. Poiché questa filosofia è stolta, dobbiamo leggerla con cautela; per il secondo punto
bisogna leggerla con discrezione (bisogna selezionare e saper scegliere, bisogna leggere in maniera critica e
accorta per capire dove sta l’errore e dove sta la verità, scremare), poiché è vana bisogna leggerla di
passaggio e di corsa usandola come via (filosofia è strumento per un sapere superiore, non è occupazione
stabile) e per l’ultimo punto bisogna leggerla come padrone e non come servo (non bisogna essere asserviti
alla filosofia, ma bisogna essere padroni per capire la verità distinta dagli errori). Immagine servo/padrone
torna nel medioevo. Bisogna essere giudici piuttosto che seguaci, atteggiamento attivo e critico verso
questo sapere parziale e ancillare.
Alberto Magno, domenicano che fin da subito ha approccio diverso dai francescani ed è uno dei maggiori
commentatori di Aristotele da quando si trasferisce a Colonia. Come prima cosa per fondare l’Università,
egli commenta le opere di Aristotele, dopo aver commentato le opere dello Pseudo Dionigi l’Areopagita
(neoplatonico). Si dà per scontato che Aristotele sia un’autorità per il sapere umano. Nel momento in cui
Alberto sta intraprendendo un’opera di filosofia, dice che c’è bisogno dell’aiuto di Dio per indagare
razionalmente il suo mondo. Poi Alberto spiega come procederà nell’ordine espositivo delle dottrine di
Aristotele; egli assume l’atteggiamento tipico di Avicenna, cioè inglobando il testo di Aristotele
direttamente nel suo: non cita il libro di Aristotele, ma dà per scontato il libro, mentre Tommaso commenta
il testo di Aristotele riportandolo in parti. Non menziona testi, fa digressioni su alcuni argomenti perché
complessi concettualmente. È come se Alberto si sostituisse ad Aristotele, fa il massimo sforzo per renderlo
intellegibile ai lettore. Dove c’è il titolo lui fa digressioni. Secondo lui ci sono libri che Aristotele non ha
scritto e che lui vuole scrivere per rendere chiara l’opera di Aristotele. Sono testi che secondo lui non ci
sono arrivati e che quindi bisogna dare mostra anche di questi. Questo è il prologo alla Fisica di Alberto che
ci mette in una prospettiva diversa da Bonaventura e Olivi, che dicevano che la filosofia doveva stare al suo
posto. Rivendicazione di una deontologia professionale; Alberto, commento alla Politica in cui attacca i suoi
contemporanei. Discorso che Adelardo faceva sui dialettici simile ad Alberto, autore che rivendica una
differenza di metodo. In filosofia naturale non siamo tenuti a indagare con miracoli. Filosofia è sapere di
tipo dimostrativo e apodittico e il ragionamento filosofico non ci dimostra creazione o resurrezione, perché
le categorie della filosofia ci dicono che sono cose non possibili e ci sono autori come Bonaventura che
cercano di far questo. 1210, testi aristotelici vengono banditi dalla lettura.
Tre dibattiti centrali di questo secolo:
1) Eternità del mondo – contrasto tra dogma della creazione e una serie di dottrine che si leggono nei
testi aristotelici, conflitto tra la Fisica e la creazione;
2) Sfera etica – tema della felicità, nei testi di Aristotele noi leggiamo che la felicità per l’uomo
consiste nell’attività intellettuale, cioè filosofia. Il modello dell’uomo felice per eccellenza diventa il
filosofo e per un cristiano questa non è una dottrina facile (santi in Paradiso, esempi di virtù biblici),
esempi di virtù e felicità sono ben altri, il premio sta nella visione diretta dell’essenza di Dio,
contemplazione in senso pieno, visione diretta dell’essenza di Dio. Dio non appartiene alla natura e
bisogna morire per riscuotere il premio della nostra vita virtuosa;
3) Unicità dell’intelletto – dibattito che ha a che fare con la psicologia aristotelica, che fa sempre parte
della filosofia della natura nella misura in cui anima è principio della vita. L’anima senza il corpo
perisce, perché non ha una ragion d’essere. Problema dell’immortalità dell’anima. Statuto
ontologico dell’intelletto, idea che sia vero come tutti noi crediamo che ognuno di noi possiede un
intelletto individuale oppure che esista un unico intelletto per tutta la specie umana, come
sostenevano i commentatori arabi. La mediazione araba è decisiva negativamente per Aristotele,
perché sembra gettare una luce sull’intelletto che Aristotele non desiderava (commento di Averroè
è principale fonte di questo dibattito). Anima di Aristotele vive secondo tre facoltà, vegetativa,
intellettiva e sensitiva. Il compito di conoscere l’universale trascende la materia organica:
l’intelletto è immateriale. Aristotele distingue intelletto attivo e quello passivo: ma perché? La
conoscenza non è reminiscenza ma è acquisizione, passaggio dalla potenza all’atto, potenza in cui
non conosciamo una cosa e poi la conosciamo. Aristotele dice che l’uomo è capace di conoscere
tutta la realtà e le sue species. Ci dev’essere qualcosa che attiva questa potenza, poiché questa da
sola non può passare all’atto. È necessario un atto che precede, un atto puro che non è potenza, da
qui l’intelletto agente. Aristotele postula intelletto nel gioco tra intelletto agente, che agisce e
basta, che attiva quello conoscente astraendo gli intelligibili che sono presenti in potenza nella
realtà sensibile. L’intelletto, dopo la conoscenza sensibile, riesce a portare a luce la specie sensibile
e universale e a darla nell’intelletto possibile, che conosce l’oggetto in atto nel suo universale.
Possibilità radicale di Averroè: se è vero che l’intelletto conosce l’universale misto alla materia,
allora l’intelletto non fa parte del corpo perché immateriale e quindi deve esistere come sostanza
unica per tutta la specie umana che occasionalmente si unisce all’intelletto agente quando conosce.
Dottrina pericolosa sotto due aspetti: non solo perché non rende conto di come l’uomo conosce
individualmente, ma poi perché abbassa l’uomo all’animale, poiché l’omo non è più animale
razionale aristotelico. Tommaso dice a Sigieri di incappare in questi errori che non lo rendono più
aristotelico. Leva anche principio della responsabilità morale. Aspetto escatologico è cornice di
fondo.
Lezione 7
Implicazione tema unicità dell’intelletto ed eternità del mondo in Sigieri. Contesto storico e teorico in cui
prende vita il testo di Boezio di Dacia, De aeternitate mundi; duplice funzione:
1) Intervento diretto a livello contenutistico sul dibattito dell’eternità del mondo;
2) Riflessione sui rapporti tra filosofia e teologia.
Boezio prende spunto da questo dibattito specifico sulla durata del mondo per intervenire su una questione
importante per lui dato che è professore di filosofia, maestro d’arte. Eternità del mondo è tema
caratteristico della scolastica del XIII secolo insieme a quello della felicità mentale, beautitudine come
pratica filosofica, insieme a unità dell’intelletto. Tema che si sviluppa dalle opere di Aristotele e avrà un
lungo corso; autori comi Bruno, Hobbes; Kant interverranno su questo argomento, Kant ne parla nelle
antinomie della ragion pura. Questo tema, insieme a quelli accennati in precedenza, rappresenta uno dei
temi caratteristici che vengono attribuiti al gruppo degli averroisti latini o aristotelici radicali. La storiografia
è l’insieme degli studi moderni attuali sulla filosofia, studi scientifici attorno a un autore particolare. La
storiografia intorno a Boezio ha individuato in questi temi gli argomenti caratteristici di questo gruppo di
pensatori che nell’interpretare Aristotele si sarebbero appoggiati all’esegesi di Averroè (unico intelletto,
tesi provocatoria filosoficamente e teologicamente). Non si tratta però di un tema nuovo o tipicamente
medievale, né un tema solo latino; esiste infatti una preistoria di questo tema rispetto al dibattito
medievale. Possiamo individuare una prima fase che risale al VI secolo, in particolare alla riflessione di due
filosofi cristiani neoplatonici, Giovanni Filogono e Simplicio. Successivamente vi è una fase araba, che si
sdoppia: prima fase del IX secolo d.C., con Avicenna e Algazali, e nel XII secolo troviamo Averroè che
sviluppa un rapporto critico nei confronti dell’esegesi di Algazali. Dopo queste due fasi, giunge la fase latina
del dibattito, XIII secolo: proprio per il fatto che la filosofia scolastica si nutre del rapporto con la tradizione
teologico filosofica precedente, è possibile immaginare che gli interventi dei vecchi filosofi si possono
ritrovare nel dibattito scolastico. Le moltissime quaestiones sull’eternità del mondo, già formulate in
precedenza, tornano come retroterra argomentativo di coloro che a questa altezza cronologica prendono
parola sul tema, proprio perché si sono istruiti sui loro testi. Il tema diventa centrale in una polemica aspra
del XIII secolo (1215), poiché questa idea dell’inizio temporale del mondo diventa qualcosa di più, diventa
un dogma della fede: fin dai primi secoli dopo Cristo e prima del XIII, era condivisa la credenza dell’inizio
temporale del mondo, ma adesso accade qualcosa di più, perché questa semplice credenza (distinzione tra
credere e intelligere) diventa un dogma della fede nel 1215 durante il Concilio vaticano IV, in cui si stabilisce
che l’inizio temporale del mondo dev’essere un credo di tutti i fedeli che deve rimanere nell’ortodossia e
chi non è d’accordo è eretico. Prima però, nel 1210, il clima è già acceso: sono stati individuati pericoli su
questo argomento in Aristotele e in questa data viene vietata la lettura di questi temi aristotelici dal
vescovo, rettore dell’Università di Parigi (pena la scomunica). Davide di Dinant è maestro, considerato
eretico per implicazioni panteiste e vietato nella lettura. A Oxford questo è attenuato, giunge dopo. Al
Concilio si dice esplicitamente che il mondo ha avuto un inizio temporale, non è sempre esistito ma ha
iniziato a esistere all’inizio del tempo; per Aristotele, invece, il mondo è sempre esistito. Questa tesi di
Aristotele è vietata a più riprese, come nelle condanne che si seguono fino al 1277, condanna più
importante, in cui il vescovo condannerà 219 tesi che vengono insegnate a Parigi alla facoltà delle arti che
vengono sentite pericolose per la fede. Questo dibattito vede tanti protagonisti che esprimono punti di
vista diversi, per niente uniformi: non è che se la Chiesa dice che non dobbiamo leggere i libri naturali di
Aristotele, allora tutto sono d’accordo. Ci sono molti artisti e teologi che cercano di approfondire tale
argomento e vedere se davvero Aristotele ha sostenuto l’eternità del mondo. Quali sono gli argomenti per
sostenere che Aristotele ritiene il mondo sempre esistito a parte ante e parte post? Il centro fondamentale
a partire da cui ritroviamo tale tesi è nel libro VIII della Fisica, in cui si sostiene l’eternità del movimento. È
necessario pensare che tutto ciò che si muove è mosso da altro e così all’infinito (non consideriamo ora il
XII, in cui il primo motore muove senza muoversi). Il tempo è definito come la misura del movimento; se
poniamo l’eternità del movimento e del tempo, è implicata anche l’eternità della materia, che allora è
ingenerabile e incorruttibile per Aristotele. È sempre esistita e non vi è un momento in cui è venuta ad
essere. Così si implica l’eternità della generazione naturale, cioè il fatto che tutto ciò che esiste è generato
da qualcosa che lo precede e così via, in modo tale che non vi sia un momento assoluto a partire da cui
qualcosa è venuto all’essere. Stando alla sua filosofia, è impossibile individuare un primum a partire da cui il
mondo è venuto all’essere col tempo; non è possibile, stando ad Aristotele, che il mondo ha un inizio
temporale. È un tema che ad Aristotele non interessava minimamente, perché egli, pragmaticamente, vede
la realtà caratterizzata dal mutamento come legge universale, ma diversamente da Platone, che dice che il
mutamento mette in crisi le idee universali, egli ritiene legge reale tale mutamento, che va spiegato. Egli
riesce a trovare categorie per rendere conto di questo fenomeno centrale; quello che lui vede nella realtà,
lui intende spiegare. Nella realtà non c’è orizzonte escatologico che lo porta a spiegare la generazione;
dunque non si rivolge contro l’inizio temporale o contro il cristianesimo, non voleva smontare alcuna tesi.
La generazione naturale precede che quello che viene ad essere è causato da un sostrato materiale. Altro
argomento a favore dell’eternità del mondo per i medievali era l’introduzione dell’etere, quinto elemento
che sfugge alla conoscenza. Concetto della volontà imperscrutabile di Dio, concetto che avrà degli effetti, in
particolare con Tommaso che, intervenendo in questo dibattito, interpella tale argomento per dire che in
questo dibattito non si può assumere una posizione certa, poiché da un punto di vista filosofico non è
possibile stabilire con certezza se il mondo che non è eterno avrebbe potuto essere eterno; la volontà di
Dio è imperscrutabile e questo lo ritroveremo anche in Boezio. Si punterà poi alla distinzione tra
generazione naturale e creazione, chiave di volta dell’argomentazione.
Boezio si inserisce in una fase matura del dibattito dell’eternità del mondo, poiché anche nella fase
scolastica vi sono fasi diverse:
1) 1240 circa, fase filologica del dibattito = autori come Filippo il Cancelliere, Alessandro di Hales e
Roberto Grossatesta (autore di un trattato sulla luce) intervengono su un aspetto del dibattito, cioè
nello stabilire se Aristotele è veramente il padre della dottrina dell’eternità del mondo. C’è
un’attenzione alla littera di Aristotele e alla sua intentio. Filippo e Alessandro sono due autori che
iniziano già ad evidenziare lo scarto tra generazione naturale e creazione, dicendo che quando
Aristotele parla dell’eternità del movimento non sta dicendo niente di grave, perché sta parlando
come filosofo. Loro, quali credenti, credono nella creazione temporale; Grossatesta invece
interviene contro, dicendo che questo andazzo di cristianizzare Aristotele è grave e scorretto. Filone
di maestri vanno tenuti d’occhio perché rischiano di sancire la verità di un insegnamento errato di
Aristotele. Quindi anche coloro che si impegnano a difendere Aristotele rischia di diventare eretico;
2) Fase interna alla teologia (come la prima), teologica in senso proprio stavolta, che si sviluppa tra
Bonaventura e Tommaso; ma mentre nella prima fase gli autori si affannano a prestare attenzione
alla vera posta in gioco aristotelica, qui si prova a dimostrare la creazione dal nulla. Per
Bonaventura è possibile trovare argomenti razionali e filosofici per confutare eternità del mondo e
dimostrare positivamente creazione dal nulla; è un tema che è appannaggio della filosofia perché la
tesi della creazione è così evidente che lo è anche per la ragione. Bonaventura si servirà del
concetto di infinito. Avvalendosi del concetto di infinito, la generazione naturale crea paradossi
dell’infinito. Tommaso invece crea dottrina agnostica dell’argomento, ritenendo che il concetto
dell’eternità del mondo non è un concetto contraddittorio (al contrario di Bonaventura). Per
Tommaso dimensione temporale e dimensione ontologica non si implicano a vicenda; in quella
ontologica si gioca il rapporto uomo Dio, perché tutto ciò che esiste dipende ontologicamente da
Dio ed è questa la cosa centrale per Tommaso. Per Tommaso ci può essere un mondo creato ed
eterno che non penalizza la dimensione ontologica. Il mondo è venuto all’essere all’inizio del
tempo, dipende da Dio per Bonaventura, mentre per Tommaso non è così. Ex nihilo, Dio è quel
particolare artigiano che crea tutto per Bonaventura;
3) Fase in cui si fronteggiano i teologi conservatori e i maestri delle arti come Boezio di Dacia e Sigieri
di Brabante. Boezio interviene in un clima acceso, esasperato dall’evento storico particolare degli
statuti del 1272 del vescovo che limitano la libertà dell’insegnamento dei filosofi.
Decreto che in qualche modo giustifica la presa d’intervento di Boezio, che non si limita a dire come stanno
le cose, ma coglie l’occasione per intervenire contro questi statuti del 1272. I teologi temevano e dunque
preventivamente mettevano le mani avanti; ma mentre si condanna una presa di posizione contro gli artisti,
ci si richiama a un principio aristotelico, il fatto che non è conveniente a chi non è un geometra di disputare
con un ottico. Questo significa che solo gli esperti devono intervenire nei dibattiti, le affermazioni tra due
uomini di scienze diverse non possono dar luogo a una discussione scientifica per eccellenza, devono avere
punti in comune iniziali. I filosofi non devono trattare con i teologi, ma gli statuti che limitano questo
sfruttano di nuovo Aristotele, mettendo gli artisti contro se stessi. Questo decreto viene emanato non solo
contro gli artisti ma anche contro l’intervento di Tommaso, perché lui non si è dato troppo da fare per
confutare la dottrina dell’eternità del mondo. Questa posizione agnostica è sospetta, pare dagli studi fati
che nelle dottrine sia implicato indirettamente Tomaso, il quale non è modello medievale, ma filosofo e
teologo molto accorto che su alcune posizioni non ha preteso di trascendere limiti ontologici. Anche su
questa tesi di Tommaso gli statuti mirano ad attaccare, clima di sospetto attorno a Tommaso. In un testo
che rende conto di questo, Giovanni Peckham si chiede se sarebbe stato possibile creare il mondo
dall’eternità: si parla della possibilità che il mondo abbia potuto essere eterno; interrogarsi sulla possibilità
significa interrogarsi sull’onnipotenza di Dio. Dio avrebbe potuto creare un mondo eterno? È difficile dire no
senza limitare l’onnipotenza. Rimando all’eternità intensiva ed estensiva (anche in Boezio di Dacia),
Peckham dice che il rischio di chi lascia la porta aperta all’eternità del mondo dicono che il mondo è eterno
come Dio e che quindi l’eternità non è appannaggio esclusivo di Dio, ma è qualcosa che rende il mondo
divinizzato, rendendo mondo identico a Dio. Per questo un teologo che non difende la creazione tale
posizione è una cosa sbagliata, altrimenti giustifica il mondo divino. In questo dibattito non intervenire
contro significa che il mondo è pari a Dio! Implicazione teologica che non può essere chiaramente
accettata. Dopo questo quadro complicato, iniziamo a leggere l’opera. C’è una letteratura sterminata
sull’eternità del mondo.
Prologo
Boezio prende parola dopo gli statuti del 1272 e scopre le carte dicendo che il suo intervento non va contro
la dottrina della creazione, e che quello che lui starà per dire lo dirà da filosofo. Per questo si dà la pena di
circoscrivere gli ambiti del sapere. Ci sono tre errori da evitare:
1) Cercare ragione di quel che si deve credere in nome della religione = non si può ricercare argomenti
razionali rispetto ad argomenti di fede, perché la fede è priva di argomenti razionali per definizione.
È stolto chi fa questo perché cerca qualcosa che non esiste;
2) Non voler credere in assenza di argomenti razionali alla fede, negare la fede perché non ho
argomenti a sostegno, è eretico;
3) Non è filosofico voler credere quello che di per sé è evidente solo in assenza di argomenti razionali,
credere a verità filosofica che poggia su argomenti razionali; il filosofo che accetta la creazione ma
non la dimostra non fa il filosofo, non è filosofico. Il filosofo deve affermare solo verità che
possiedono argomenti razionali e laddove gli argomenti razionali esistono, lui li deve cercare,
perché come tale egli deve affermare cose sulla base di argomenti razionali, altrimenti diventa
teologo e fedele e non filosofo. Boezio parla del dover essere del filosofo.
Volendo ricondurre a concordia la posizione della fede cristiana sull’eternità del mondo, indaghiamo
razionalmente questo problema. Boezio mette in evidenza il suo intento, cioè di ricondurre la fede con
l’eternità del mondo ad una concordia, discutendo con razionalità che il mondo è eterno. La concordia non
significa far fare questo matrimonio a tutti i costi, ma farlo con alcune premesse specifiche. Indaghiamo
razionalmente, da filosofi, con argomenti razionali, la questione se il mondo è eterno o no. Il teologo non
può affrontare questa argomentazione razionalmente, può solo accettarla con fede. Boezio è uno dei primi
che problematizza questo aspetto del metodo (da Anselmo in poi); è stato poi accusato di essere
controcorrente, ma cerca di pararsi le spalle con argomentazione metodologica. Il suo intento è quello di
mantenere la fede anche se non può essere dimostrata; fa un servizio anche ai teologi, per fargli vedere che
loro, se cercano di dimostrare inizio temporale del mondo, fanno operazione scorretta (argomentazione
antipatica ai teologi). Boezio vuol mettere d’accordo fede e ragione. La religione non ha il sostegno della
dimostrazione, al contrario della filosofia, che poggia solo su questo. Boezio parla di un codice deontologico
anche del filosofo, che organizza il proprio viaggio da solo e non segue un percorso già battuto. È
interessante perché Boezio sta dando superficialità ai teologi perché non usano intelletto. Ciò che si
conclude con argomenti razionali non è fede ma scienza: la fede sta da un a parte, mentre scienza dall’altro,
e non si può far diventare fede la filosofia e viceversa. Tommaso la pensa così, mentre i teologi conservatori
pretenderebbero di argomentare razionalmente su miracoli.
Lezione 8
Nel 1215 l’inizio temporale del mondo, che è in qualche modo una credenza implicita a partire dal primo
versetto della Genesi, diviene un vero e proprio dogma della fede che non si può non sostenere (altrimenti
eretici). Nel 1272 Boezio scrive questo testo in un momento di grande restrizione alle facoltà delle arti con
gli statuti sulla libertà di parola dei maestri delle arti, che non si devono occupare di temi che riguardano la
fede. Questa presa di posizione del vescovo di Parigi è dovuta a una paura delle possibili implicazioni
dell’insegnamento e d’altra parte i maestri delle arti rivendicano il fatto che la filosofia debba stare aliena
rispetto a discussioni di ambito che esula l’argomentazione razionale. È il prologo di questo testo che rende
conto in modo programmatico quello che vuol essere l’intervento di Boezio: come filosofo si occupa della
tesi dell’eternità del mondo, come credente non vuole metterla in discussione. A partire da alcune tesi della
filosofia aristotelica, come la teoria dell’eternità del movimento (VIII libro Fisica), comporta l’eternità del
tempo, della generazione naturale e della materia. Aristotele ha sostenuto l’eternità del mondo secondo
alcuni. Ci sono però anche altri argomenti implicati nella discussione che hanno a che fare con la causa
prima: essendo questa atto puro e immobile, com’è possibile pensare che a un certo punto Dio abbia
creato il mondo? Questo in qualche modo contraddice lo statuto di atto puro e immobilità della causa
prima. Il mondo prima non esisteva e poi è esistito: questo implica un mutamento della causa prima, che si
dedica a un’attività nuova, cioè la creazione. Impossibile pensare che la causa prima abbia creato il mondo.
Per alcuni è ridicolo perché Dio è avulso dal tempo, per altri usano questo per argomentare che la filosofia
è costretta ad affermare l’eternità del mondo. Boezio ci avverte di tre errori da evitare in una qualsiasi
discussione; questo intervento di Boezio sull’argomento diventa una sorta di manifesto dei filosofi della
facoltà delle arti. Punto polemico nei confronti dei teologi e colleghi all’università di Parigi, errori:
1) Cercare argomenti razionali dove non si possono trovare;
2) Rifiutarsi di credere nella misura in cui non esistono tali argomenti per crederci (per i fedeli);
3) Credere qualcosa solo perché vogliamo e senza argomenti razionali a sostegno (per i filosofi);
Nella seconda parte del Prologo Boezio dice quali sono le finalità del testo. Differenza tra filosofia e fede
viene giustificata alla luce di questi elementi:
Boezio afferma di
voler perseguire
tre finalità:
1)
Salvaguardare la verità della fede;
2) Preservare il valore di scienza della filosofia;
3) Mostrare che tra fede e filosofia non può darsi contraddizione.
Si tratta di un progetto piuttosto ambizioso. Questa scansione di finalità non è stata immediatamente capita
dalla comunità dei teologi, tanto è che il testo di Boezio fu colpito dalla condanna del 1277 proprio
relativamente al gruppo di tesi che hanno a che fare con l’eternità del mondo. In queste 219 testi, il
vescovo di Parigi prevedere vari argomenti. Riprendiamo la lettura dell’ultimo punto del Prologo. Boezio
non solo sta dicendo alla comunità scientifica di Parigi che non intende andare contro la fede, ma
addirittura dice che lui sta facendo un servizio alla fede perché vuole smascherare gli argomenti con cui gli
eretici negano valore veritativo alla tesi della creazione, sostenendo che il mondo è eterno di fatto.
“Sembra di no”, formula usuale per introdurre una quaestio; ecco una serie di argomenti che negano
l’eternità del mondo in maniera un po’ asettica, no tono ancorato come Anselmo, si procede in maniera
chirurgica e scientifica (forma del sillogismo). Sembra che il mondo non sia eterno.
Argomento 1:
1) Primo principio fa dipendere l’esistenza di tutto il mondo, altrimenti ci sarebbe una molteplicità di
principi senza un’unica causa, regresso infinito. Dunque, esiste una causa prima;
2) Tutto ciò che segue la causa è effetto successivo, quindi il mondo è successivo nel principio della
durata;
3) L’ente eterno, cioè la causa prima, non è successivo a nulla nella durata (altrimenti regresso
infinito);
4) Segue che il mondo non è eterno.
Qui siamo ex parte dei (dopo ci sarà ex parte mundi). Qui c’è un mettere insieme la dimensione ontologica
con quella temporale.
Argomento 2 (apparentemente dogmatico):
1) Nulla può eguagliare Dio, perché esiste un unico principio primo, che è lui;
2) Se però il mondo fosse eterno eguaglierebbe Dio nella durata, ma ciò è impossibile (Peckham).
Argomento 3:
1) Una potenza infinita non può produrre una durata infinita, perché la durata non supera la potenza
che la produce;
2) Una sostanza finita avrà potenza finita e anche la sua durata sarà finita e viceversa;
3) Ma potenza del cosmo è finita, come la potenza di qualsiasi corpo finito (mondo finito in Grecia era
meglio dell’infinito);
4) Il mondo è un esempio in grande di tuti i corpi che lo compongono, dunque le sue potenzialità sono
finite. Al cosmo non corrisponde una durata eterna perché eterno significa temporalmente infinito
in questo caso, e il mondo non precede il cielo, perché il cielo è parte del mondo.
Argomento 4:
1) In che senso Dio precede il mondo in quanto seconda natura? Dio come causa prima è condizione
logica dell’esistenza di tutto il resto, quindi per natura e dignità, Dio è causa prima da cui tutto
dipende;
2) In Dio durata e natura coincidono, perché per essere atto puro la causa prima non può avere degli
accidenti, per cui la causa prima è semplicità pura (altrimenti ci dovrebbe essere ulteriore causa),
identità fra essenza e durata;
3) Il mondo è successivo all’azione di Dio che la crea e il suo venire ad essere accade in un istante
temporale.
Argomento 5 (importante!):
1) Ogni realtà creata è fatta dal nulla – entra in gioco la clausola creatio ex nihilo. In principio Dio creò
tutta la materia;
2) Ogni generazione naturale procede da un sostrato di materia, al contrario della creazione dal nulla;
3) Colui che genera non è potente su tutto ciò che genera;
4) Colui che crea ha potenza su tutta la sostanza creata;
5) Il mondo venne all’essere dopo il non essere, implicazione dimensione ontologica e dimensione
temporale, iniziare ad esistere significa sottoporsi al tempo e non avere una durata eterna (non è
detto che questa inferenza sia corretta), equazione tra ex nihilum e post nihilum che a Boezio non
piace. Siccome non si può essere e non essere allo stesso momento, possiamo individuare una
scansione temporale;
6) Il mondo è nuovo, dunque non ha una durata temporale infinita all’inizio e alla fine, a parte ante e
parte post. L’essere eterno e l’essere creato (nuovo) sono concetti incompatibili e dire che il mondo
è eterno significa negare la creazione (per Boezio non è così).
Argomento 6 (da qui fino a 10 argomenti sull’infinito, ispirati agli argomenti che Bonaventura porta per
provare l’incongruenza logica dell’eternità del mondo, attualizzazione delle fonti):
1) Ciò a cui si può aggiungere qualcosa può essere aumentato (assunto che ora viene applicato);
2) Il tempo passato è un tempo infinito nell’ottica dell’eternità del mondo. Se vi aggiungiamo del
tempo contravveniamo ad un postulato di Aristotele, per cui non si può aggiungere nulla all’infinito,
contraddizione dei filosofi contro se stessi.
Boezio riporta argomenti che circolavano in quel periodo.
Argomento 7:
1) Se il mondo fosse eterno sarebbe eterna la generazione degli animali e gli altri processi naturali;
2) Il singolo individuo risulterebbe da infinite cause generanti, perché se la generazione fosse eterna
allora vi sarebbe un regresso infinito;
3) Un effetto non può derivare da infinite cause agenti per la filosofia aristotelica, ma da una causa;
4) Per Aristotele c’è bisogno di porre una causa prima da cui poi ha origine tutto;
5) Tra infiniti agenti non vi può essere un primo, dunque la generazione non è eterna, e nemmeno il
mondo lo è.
Argomento 8:
1) Nel VI libro della Fisica Aristotele dice che la grandezza, il moto e il tempo sono correlati agli enti in
questione (se questi sono finiti o infiniti);
2) Poiché una grandezza non può dirsi infinita, non è infinito nemmeno il moto e il tempo, quindi
nemmeno il mondo, dal momento che questo non esiste senza quelli.
Argomento 9:
1) Se il mondo fosse eterno sarebbero nati e morti infiniti uomini;
2) Ma dopo la morte di un uomo l’anima razionale sopravvive a tale morte, dal momento che essa è
ingenerabile e incorruttibile;
3) Ma allora esisterebbe infinite sostanze in atto, paradosso dell’infinito perché l’infinito in atto non si
dà per Aristotele;
Argomento 10:
1) Prima di arrivare ad oggi, se il mondo è eterno, sarebbe passato un tempo infinito;
2) È impossibile per Aristotele che l’infinito venga percorso e completato;
3) Tesi dell’eternità del mondo è contraddittoria.
Argomento 11:
1) Ciò che è causato da altro ha un inizio;
2) Il mondo è causato da altro (Genesi), perciò ha un inizio.
Inciso sulle Meteore: il mare è stato fatto poiché il mondo è stato fatto. Questa è una citazione rilevante,
sembra pezza d’appoggio per coloro che difendono Aristotele. Egli non ha negato la creazione, ma si trova
affermazione e inciso rilevante che ci fa pensare che Aristotele abbia toccato ed evocato il tema della
creazione del mondo. Auctoritas aristotelica. Implicazione tra l’essere fatto e non essere eterno.
Lezione 9
Il sistema aristotelico non dev’essere pensato come un blocco coerente al 100%: egli ha pensato a una serie
di dottrine che però sono giunte tradotte in arabo e modificate. Non è facile capire se Aristotele davvero
ritenga l’eternità del mondo. Nel corpus troviamo affermazioni di varia natura, come nel caso delle
Meteore in cui si afferma che il mondo è stato fatto (creazione). Ma Aristotele non scrive una cosmogonia e
il suo obiettivo è quello di descrivere il movimento e il mutamento in tutte le sue forme. Gli autori
medievali recepiscono questa filosofia in maniera variegata: ci sono i francescani che ritengono la filosofia
come l’acqua che diluisce il vino, mentre altri si sentono attratti da questo sapere che permette di spiegare
tanti fenomeni umani. Aristotele non ha apertamente sostenuto l’eternità del mondo, ma ha sicuramente
parlato dell’eternità del movimento da cui scaturisce l’eternità della generazione naturale. Più che altro lui
ha sempre sostenuto l’eternità del movimento e non del mondo.
Per Boezio questo dibattito è la riprova per dimostrare l’autonomia della filosofia. Gli statuti del 1272
imputano ai maestri delle arti di occuparsi di questioni di cui non dovrebbero occuparsi: Boezio ribalta la
situazione e con questo testo dimostra la coerenza della filosofia nel sostenere i propri argomenti,
compresa l’eternità del mondo. L’errore metodologico non è da imputare ai filosofi ma ai teologi che
richiamano all’ordine i maestri anche quando essi traggono delle conclusioni coerenti in ambito filosofico.
Egli denuncia un atteggiamento metodologicamente scorretto da parte dei censori; per questo abbiamo
letto il prologo strettamente metodologico. Il testo di Boezio viene visto come tesi della doppia verità anche
se questa per Boezio non si dà in realtà. Egli aspira ad un’affermazione di un pluralismo epistemologico in
cui ogni disciplina è in grado di dedurre verità in proprio ambito senza che una disciplina intervenga.
Bonaventura che cerca argomento per mostrare la creazione e l’incoerenza dell’eternità del mondo per
Boezio è uno stolto perché lui è teologo e deve insegnare le Sacre Scritture e basta.
Argomenti a favore dell’eternità del mondo ruotano attorno alla nozione di infinito e all’equazione ex
nihilum = post nihilum, cioè dimensione ontologica e dimensione temporale del mondo creato. Il blocco
degli argomenti sono riconducibili a questo due punti fondamentali e sono argomenti prodotti anche da un
francescano come Bonaventura. La tesi dell’eternità del mondo era considerata contraddittoria nel punto
di vista logico ma Boezio ribalta la cosa. Se il mondo è creato ha allora un inizio nel tempo, altrimenti si
nega tutto questo, ma per Tommaso e Boezio non è così! Questo connubio tra dimensione ontologica e
temporale è proprio la falla argomentativa su cui si impuntano questi due, e che genera la posizione
agnostica in Tommaso.
In contrario, riprendendo il libro, si mette in evidenza che questa tesi è ingiustificata da un punto di vista
filosofico e per questo un maestro dlele arti prende la parola perché è lui l’addetto a indagare la coerenza
di una tesi. Si mostra, qui, che il mondo è di fatto eterno. Argomenti ruotano intorno a un diverso modello
di causalità, cioè di causalità simultanea. L’eternità del mondo è una tesi coerente ed è possibile e fondata:
questo si vuole dimostrare.
Tesi 1
1) Effetto di solito segue causa ma può anche essere che l’effetto è simultaneo alla causa;
2) Il mondo è effetto del primo ente;
3) Il primo ente è eterno e il mondo dunque può essergli coeterno;
4) Scardinata equazione ex nihilum = post nihilum;
5) Causalità e simultaneità temporale, cioè durata, sono compatibili.
Tesi 2 (?)
1) In ogni genere esiste un primum, criterio ordinatore di tutto ciò che segue e dunque deve esistere
una prima causa di tutto il mondo, che è il primo ente per il genere dell’essere;
2) Il primo ente è eterno e incausato ed è la causa senza cui l’essere non si dà;
3) Nessuna realtà causata è la causa sufficiente di alcuno dei suoi effetti, c’è un primo ente;
4) Pur se una realtà è eterna, questa può non essere un principio – Peckham, rischio della
divinizzazione del mondo. Se il mondo è principio allora si può dire che Dio e mondo sono uguali,
ma in realtà parlare di simultaneità non rende legittimo parlare dell’effetto come causa.
L’eguaglianza in durata non attenta all’eguaglianza ontologica, che è uno dei pericoli insiti
nell’eternità del mondo. Questi argomenti provano che è possibile simultaneità e Dio come causa
incausata, è un modo per salvaguardare la differenza ontologica tra mondo e Dio aldilà la
simultaneità di durata;
5) Esistono realtà eterne che per questo motivo non devono essere considerate principi. La varietà
della verità dipende dal principio, che è Dio stesso;
6) Ciò che è eterno può avere una causa: il mondo è effetto del primo ente, dunque può essere
coeterno al primo ente. L’eternità del mondo è una tesi possibile perché non contraddittoria e
quindi coerente.
Tesi 3
1) La luce per essere visibile ha bisogno dell’aria;
2) Luce sarebbe coeterna all’effetto, cioè il Sole, esempio tratto dall’esperienza.
Tesi 4
1) Piede che calpesta la polvere, l’impronta sarebbe coeterna.
Tesi 5
1) Nulla è eterno nel futuro senza esserlo anche nel passato, rimando alla correlazione tra
ingenerabile e incorruttibile;
2) La potenza che può rendere eterna la durata di qualcosa in futuro è l’onnipotenza, la capacità
causativa del primo motore, Dio;
3) Potenza è immutabile e sempre uguale a sé, ha agito sempre allo stesso modo e non ha fatto
iniziare il mondo e poi lo lascia durare all’eternità, ma essendo immobile ha dato vita a un effetto
che è necessariamente eterno a parte ante e a parte post;
4) Perché coeternità tra effetto e causa? Perché la causa prima è immutabile per Aristotele e non può
aver creato un evento nuovo.
Pensare il mondo come eterno è una dottrina logicamente valida e fondata, non è una dottrina
contraddittoria. Quelli che si servono del paradosso dell’infinito e della equazione ex nihilum post nihilum
per dimostrare che l’eternità del mondo è una tesi incoerente, vengono ribaltati da Boezio che identifica la
razionalità come posta in gioco. Tesi che ha diritto di cittadinanza piena nella filosofia. Argomenti a favore
dell’eternità del mondo:
Argomento 1
1) Ciò che è incorruttibile è eterno e dura sempre;
2) Il mondo è incorruttibile perché ogni realtà è ingenerata e incorruttibile, dunque il mondo ha la
potenza di essere sempre (non che non è creato ma che non ha inizio).
Argomento 2
1) È eterno ciò che non è preceduto da nessuna durata, tutto ciò che è nuovo è preceduto da durata;
2) Il mondo non è preceduto dal tempo perché il tempo come misura del movimento esiste solo nel
momento in cui esiste il mondo, non esisteva il tempo prima del mondo;
3) Il tempo consegue dal primo mobile, è un effetto del primo ente, che non è causa prima ma sfera
più alta che rappresenta il contenitore universale del mondo celeste e mondo terrestre;
4) Eternità non finisce mai.
Argomento 3
1) Ciò che parte da un istante di tempo può essere fatto perché altrimenti sarebbe fatto ciò che è
impossibile a farsi, è impossibile ciò che non può essere mai fatto;
2) È una realtà quella che è fatta di materia, ma prima della produzione del mondo non vi era materia
per produrlo;
3) Mondo non è stato fatto de novo e quindi è eterno, perché tra ciò che è nuovo e ciò che è eterno
non vi è un intermezzo.
Argomento 4
1) Tutto ciò che è nuovo è dato da un mutamento della realtà, ci dev’essere un mutamento perché ci
sia una novitas;
2) Ogni mutamento presuppone un sostrato e una materia, perché mutamento è ente in potenza;
3) Mutamento è eterno e dunque non si può parlare di novità, venire all’essere non solo di un ente
ma anche della materia, Dio crea il mondo sia dal punto di vista materiale che formale e se la
materia è sempre esistita non si può parlare di creazione;
4) Prima del mondo non vi era materia, né il sostrato del mutamento, il mondo non è un prodotto
nuovo ma eterno.
Argomenti preimpostati contro la novitas del mondo, vedremo che poi invece la soluzione di Boezio non
tratterà tanto della nozione di creazione ma saremo interni alla filosofia. Sono argomenti che potrebbero
appartenere agli eretici che trovano argomenti razionali per svuotare di senso una dottrina che non ha
validità filosofica ma di semplice credenza.
Lezione 10
Siamo entrati nel secondo blocco argomentativo del testo. La posta in gioco non è solo questa relativa alla
soluzione di un problema interno, perché di fatto siamo in presenza di autori che, anche se sono maestri
delle arti e quindi tenuti ad attenersi alla ragione, siamo comunque in presenza di credenti; non viene mai
messa in discussione la creazione del mondo. Boezio in questo testo mette in scena tutte le parti che
possono intervenire all’interno di questo dibattito. Abbiamo, quindi, all’inizio del Prologo, i teologi
conservatori, gli eretici, i filosofi di professione. Rispetto a questo argomento ognuno di questi artefici, cioè
specialisti nella loro disciplina, ha da dire la sua sull’argomento; quello che Boezio considera della
discussione non ha a che fare con la base di esso, cioè l’eternità o meno del mondo, ma ha una connessione
dal punto di vista metateorico rispetto a posizioni e metodi usati da altri. Dopo il Prologo vi sono una prima
serie di argomenti contrari alla tesi dell’eternità del mondo, argomenti incentrati sul rapporto tra ex-
nihilum e post-nihilum e i paradossi dell’infinito. Chi sono quelli che sostengono che il mondo non è eterno?
I teologi conservatori, che vogliono ottenere due risultati: il mondo non è eterno e incoerenza
metodologico razionale della posizione filosofica. Si ottengono due risultati distinti su due livelli diversi: la
questione dell’eternità del mondo o meno e dall’altro la posizione filosofica incoerente. A favore
dell’eternità del mondo, nel secondo blocco, si biforca: da un lato ci si chiede se è possibile che il mondo sia
eterno, dall’altro se di fatto il mondo è eterno. Rispetto al primo interrogativo abbiamo visto che quel
piccolo gruppo di argomenti ruotava intorno a questa nuova nozione di causalità simultanea, una sorta di
chiave di volta per argomentare il fatto che sia possibile che il mondo sia eterno. Il secondo risultato, però,
è assai più importante per Boezio, perché dimostra che il concetto di una creatura eterna è consistente dal
punto di vista logico. La posizione dei filosofi allora è consequenziale, razionale e coerente: risposta ai
teologi conservatori che hanno preteso di dimostrare l’inizio temporale del mondo e incoerenza da parte
dei filosofi. C’è sempre, dunque, una duplice argomentazione: tesi e metodologia. Qui c’è una risposta tra
specialisti di discipline; i filosofi vengono accusati di incoerenza ma ecco che essi controbattono
dimostrando la possibilità logica non contraddittoria. Questo è il primo corno dell’alternativa. Abbiamo
trattato poi gli argomenti che di fatto il mondo è eterno. Gli eretici negano un dogma della fede; mentre il
filosofo non lo nega, egli dice che non è contraddittorio. Non nega la creazione ma divide la dimensione
ontologica da quella temporale. Altro punto di vista è quello di Boezio, che sarà spiegato all’interno della
soluzione (determinatio, momento centrale della quaestio medievale). Questo testo quindi ha due piani:
l’eternità del mondo e prospettiva metodologica fra professionisti. Perché c’è questa forte attenzione?
1272, professionisti erano intervenuti con gli statuti per dire cosa dovevano fare i filosofi dal punto di vista
metodologico.
Schema prof, secondo blocco, mondo di fatto eterno giunge a due risultati: mondo è eterno e è falsa la tesi
di un mondo ab initio temporis. Dimostrazione che il mondo di fatto non è eterno e si falsifica il dogma
biblico. Modo in cui un eretico può attaccare questo dogma, ma tra eretico e filosofo c’è differenza che il
vescovo di Parigi non ha visto (sillabo di 219 tesi, tra cui Boezio). Il filosofo non ha interesse a falsificare la
creazione, perché egli vuole ricercare solo gli argomenti razionali e discutere su quelli. Il filosofo che vuole
falsificare la creazione fa qualcosa che non è pertinente all’ambito, perché un dogma è credenza e quindi
non vi è razionalità. Nel Prologo è Boezio che parla. Nel primo blocco abbiamo i teologi conservatori a
parlare (tesi dell’eternità è contraddittoria, dunque falsa, dunque dimostrano la creazione – stolti per
Boezio). Nel secondo blocco parlano i filosofi perché dicono che è possibile l’eternità del mondo. Gli eretici,
nella parte finale, parlano dimostrando contro la fede l’eternità di fatto del mondo.
Soluzione di Boezio raggiunge due conclusioni: non è dimostrabile la non eternità del mondo, diversamente
dai teologi, e per la filosofia è piuttosto dimostrabile l’eternità di fatto del mondo. Non è come gli eretici,
che sono meno arguti e si pongono sullo stesso livello della fede per andargli contro, il filosofo invece è
uomo accorto che sa che la fede parte dalla rivelazione e quindi non si può usare la ragione, mentre Boezio
come filosofo parte da principi con razionalità per giungere a risultati che non vogliono entrare in contrasto
con la fede. La teoria della scienza aristotelica ha reso possibile questo. Boezio fa tutte queste distinzioni
perché si è letto gli Analitici e il filosofo ha un mestiere specifico fra le mani.
Argomento 9, pagina 95, secondo blocco
1) Ogni effetto nuovo richiede una novità dei suoi principi (effetto nuovo, novitas ha a che fare con
inizio temporale del mondo, che prima non c’è e poi viene ad essere);
2) Un qualche agente può essere causa di un effetto nuovo;
3) Ma se noi poniamo a novità del mondo dobbiamo porre un mutamento anche nella causa che l’ha
generato, ma siccome il primo ente è per definizione immutabile in quanto causa prima, allora il
mondo non può essere stato creato. Porre la novità del mondo significa intaccare l’immagine di Dio
che ci sta alle spalle come causa prima immutabile.
Argomento 11
1) La volontà che differisce l’oggetto del suo volere attende qualcosa in futuro: quella volontà che
rimanda la realizzazione del proprio desiderio dopo un po’ di tempo, attende qualcosa in futuro;
2) Volontà è tratto tipico del Dio cristiano;
3) Se io voglio andarmi a comprare un anello ma decido di farlo tra tre giorni c’è un aspettare, una
durata tra decisione e realizzazione (assunto da cui si parte);
4) Prima del mondo non vi è attesa perché prima del mondo non vi è tempo e l’attesa non avviene che
nel tempo;
5) Il mondo dunque non è differita alla volontà divina e il mondo è coeterno alla volontà di Dio. Quello
che vale per noi nel mondo naturale non può valere per Dio e per la generazione assoluta: la
generazione in filosofia prevede sempre qualcosa di precedente, quindi non si può dire che c’è
stata una creazione a partire dal niente filosoficamente. Questo esempio è tratto dalla volontà
umana e trasferito a quella di Dio, ma è un esempio che non è calzante, perché questo differire non
si dà.
Argomento 13
1) Ogni effetto nuovo richiede in precedenza un qualche mutamento nel suo agente (torna di nuovo
questo tema);
2) L’agente rimane immutabile perché ancora non agisce di fatto, ma cambia solo la sua volontà;
3) Ma prima del mondo non vi può essere alcun mutamento (sottinteso della filosofia aristotelica,
mutamento è dell’ente materiale, quindi se non c’è mondo non c’è mutamento);
4) Qualcuno risponderà che ciò nonostante il mondo è stato fatto nuovo, poiché dall’eternità fu
disposizione della volontà divina di produrre il mondo nel momento in cui è stato prodotto. Non c’è
mutamento della volontà di Dio perché Dio ha sempre voluto fare il mondo;
5) Se qualcuno ha volontà ora di fare una cosa tra tre giorni (argomento di Bonaventura), quando
sopraggiunge il terzo giorno egli farà quello che ha voluto da lungo tempo, senza che vi sia un
mutamento della volontà;
6) In modo analogo il mondo può essere nuovo e questo non cambia la volontà divina perché l’ha
sempre deciso;
7) Si può dire però che questo esempio è inconsistente: chi si immagina l’antecedente ma si immagina
anche il conseguente senza provarlo, l’immaginazione contro la dimostrazione, dimensione
metodologica;
8) Ci immaginiamo che Dio l’abbia sempre voluto, ma non lo si può dimostrare perché la volontà di
Dio è insondabile: se presupponi, in filosofia, immagini, perché si va avanti a forza di dimostrazioni;
9) Di fronte a questo modo di ragionare si può dire che ciò che è voluto procede secondo una
determinazione e decisione della volontà;
10) Ma Dio è agente di volontà libera e non pre determinata: ragionando come l’obiettore, si riduce la
potenza e la possibilità di Dio. Argomento malcostruito perché fondato su immaginazione e su
limitazione della potenza divina, riduzione all’assurdo;
11) Salvare l’onnipotenza però implica un mutamento in Dio, che è immutabile;
12) Se dico che il mondo non è coeterno a Dio, come posso stabilire che il mondo è diverso dal punto di
vista della durata? Se non c’è un mutamento che mi segnala l’inizio, io non lo percepisco questo
scarto;
13) Mutamento c’è quando c’è la materia, ma allora Dio ha creato la materia nel mondo perché la sua
onnipotenza è questa;
14) Tra Dio e mondo non c’è materia, dunque non c’è mutamento!
15) Mondo è coeterno alla volontà divina;
16) L’esempio non è adeguato al caso, perché se non avviene mutamento nella volontà avviene quel
mutamento che è il sopraggiungere del movimento, perché ora noi siamo nel mondo!
17) Quand’è che da una volontà procede un effetto nuovo? Quando vi è un mutamento che segnala
questa novità e rompe la continuità;
18) Dato che la materia non precede il mondo e non è avvenuto tale mutamento, sembra che da una
volontà eterna non possa essere prodotto un nuovo mondo e perciò il mondo è eterno e non ha
durata finita a parte ante.
Sono una serie di argomenti complicati che fanno appello alla categoria filosofica del mutamento naturale e
saremo propensi a fare tutt’uno tra questi argomenti e quelli che dimostrano la possibilità logica, ma qui è
un’atra via, perché si dice che il mono è eterno per una serie di motivi. Se è possibile non è di fatto eterno,
ma è possibile per la filosofia; eretici dicono che è eterno di fatto, teologi ci dicono che è impossibile.
Boezio chiude questa parte argomentativa dicendo ce siamo davanti a eretici che non vanno confusi con i
filosofi. È utile che il cristiano sappia maneggiare questi argomenti per contrastare qualche eretico. Una
serie di concetti filosofici rendono possibile l’eternità del mondo.
Lezione 11
Boezio riesce a dar voce a più specialisti riguardo all’argomento (schema della prof). Per lui il mondo è sia
creato che eterno (esempio di causalità simultanea dell’orma). Oggi si entra nel vivo dell’opinione di Boezio,
cioè la solutio dell’argomento: egli metterà a fuoco degli aspetti della questione che contribuiranno a farci
capire la differenza fra lui e gli eretici (che argomentano filosoficamente). I suoi argomenti sono validi
all’interno di un certo ambito e non hanno pretesa di verità assoluta. Pagina 105: con diligenza, espressione
che mette in evidenza la fatica di portare avanti l’argomentazione (non intelligentes) e rimprovera ai
conservatori di non essere diligenti, che non approfondiscono il ragionamento ma rimangono superficiali
con i loro preconcetti, giudizio negativo della filosofia alle spalle che li acceca quando si trovano a giudicare
sull’effettiva portata argomentativa di alcuni passi. Soluzione: Boezio ritorna su alcuni aspetti metodologici
che sottolineano l’appropriatezza del metodo filosofico. Pagina 107: prologo all’opinione di Boezio. Nuovo
rimando all’attenzione e precisione. Abbiamo messo a fuoco un primo aspetto che riguarda il mestiere di
filosofo: egli è chiamato a prendere la parola e occuparsi di tutto ciò che è argomentabile da un punto di
vista razionale. Il filosofo si deve occupare di tutte le questioni argomentabili da un punto di vista razionale.
Rimando alla finzione della mente, preoccupazione che torna di nuovo; la finzione fa da pendant alla
questione dell’immaginare l’antecedente da cui segue il conseguente. L’immaginazione non ha luogo nella
filosofia ed è un modo di procedere scorretto, dunque l’argomentazione razionale deve riguardare la natura
delle cose, il mondo sensibile, perché la ragione è in grado di conoscere l’essenza delle cose materiali e può
argomentare sopra. Immaginazione pura è sapere apodittico, non dimostrativo. La filosofia è un sapere di
natura totalizzante perché è un mestiere che si occupa di tutta la realtà secondo Boezio; filosofia
presentata secondo alcune branche, metafisica e matematica. La filosofia è anche filosofia della natura.
Perciò spetta al filosofo determinare ogni questione che possa essere discussa razionalmente. Infatti ogni
questione razionale riguarda qualche parte dell’essere e il filosofo riflette sulla totalità dell’essere, naturale,
matematico e metafisico (divino). Di nuovo c’è una critica a coloro che rimproverano ai filosofi di occuparsi
di questioni che non sono perfettamente appannaggio, e di occuparsi di questioni di altri specialisti (statuti
1272 impedivano al filosofo di occuparsi di questioni di fede). Il filosofo si occupa di tutto ciò che è
argomentabile razionalmente, sia a livello naturale matematico che metafisico. Anche lui si può occupare
della causa prima da cui dipende la realtà sensibile ordinata. La causa prima è indagata dal filosofo che
cerca di concettualizzarla; ma lui in quel momento non fa teologia, ma filosofia. Egli ha un dovere di
discutere tutto ciò che è argomentabile. Dunque il primo punto del prologo è il dovere del filosofo.
Secondo punto, rapporto tra filosofo e tesi dell’eternità del mondo; nessuno dei tre specialisti, in
particolare il filosofo della natura, il matematico e il metafisico si possono occupare a dimostrare la
creazione. Il filosofo non è in grado di dimostrarla. Se nel primo punto Boezio ha descritto positivamente i
contorni del lavoro filosofico, egli ora sta ponendo un limite alla capacità dimostrativa del filosofo, che per
lui non è affatto un problema, perché questo limite è utile per descrivere ciò che il filosofo deve fare, non è
che un altro modo per evidenziare in cosa consista esattamente il lavoro del filosofo. Nessuno dei tre
specialisti possono dimostrare razionalmente che il primo moto sia nuovo. Carattere sovrannaturale,
dogma che il filosofo non può né dimostrare né argomentare contrariamente, perché è qualcosa che va
oltre la razionalità senza presentarsi come limite negativo ma positivo. Prospettiva metateorica e
metodologica nel rapporto fede e filosofia nell’intreccio colo tema dell’eternità del mondo.
Dopo questi due assunti Boezio si occupa di giustificare il secondo punto. Boezio riprende la razionalità
degli Analitici primi; l’ottica dimostra alcune verità che dimostrano verità che riguardano la luce etc. siamo
di fronte all’idea di un sapere di natura enciclopedica dove ci sono una pluralità di discipline ognuna
fondata da principi specifici da cui si possono derivare verità. Aristotele mette poi in gerarchie queste
discipline. Tema della dimostrazione e della pluralità del sapere, rapporto tra specialisti di tali discipline e
filosofi è fondato sulla conoscenza degli analitici di Aristotele. Autore che ha assimilato la dottrina della
scienza di Aristotele. Rapporto tra filosofo e altri specialisti come i teologi che si occupano di un’altra
disciplina. Il filosofo potrà affermare qualcosa solo a partire dai principi che fondano la sua disciplina. Uno
dei principi fondamentali che fondano la sua disciplina è la razionalità insieme alla natura. Tutto ciò che il
filosofo dice deriva da questi due soli principi, ed è valido in tal contesto e basta, non in altre scienze. E
sebbene la natura non sia il primo principio in assoluto, è tuttavia il principio primo nella realtà naturale ed
è il primo principio che il filosofo può prendere in considerazione. C’è un primo principio per il filosofo che è
la natura, perché il filosofo si occupa di tutto ciò che è argomentabile razionalmente. Il filosofo può
conoscere l’essenza della natura, conoscenza attraverso le cause e l’essenza della causa. Io posso dire di
avere conoscenza in senso proprio laddove conosco l’essenza di una causa. La natura allora funge da
principio primo della filosofia, perché il filosofo può comprendere l’essenza della natura. Ma esiste un
principio primo in assoluto, che supera i principi primi di tutte le scienze: è Dio. Questo principio primo
assoluto non è appannaggio della razionalità e non è un principio che il filosofo può prendere in
considerazione razionalmente nella sua disciplina rispetto al mondo materiale. Dio infatti è trascendente e
inconoscibile per chiunque, anche per il filosofo, che non può catturare la sua essenza per utilizzarla in
un’argomentazione. Il filosofo crede in quel principio, che però resta lassù. Quando lui fa il suo mestiere di
argomentazione e dimostrazione razionale della natura, quel principio rimane avulso, perché se lo
richiamasse peccherebbe di immaginazione e fantasia e immagina verità che è tenuto a dimostrare
razionalmente. In assoluto è indicato dall’avverbio “simpliciter” nel Medioevo. Il primo principio inteso per
il filosofo è la natura secundum quid, cioè sotto un certo aspetto. Si intreccia da un lato la teoria della
scienza degli analitici e dall’altro la teoria della conoscenza aristotelica, come paradigma. Per Aristotele la
conoscenza avviene attraverso il processo di astrazione: a partire dai sensi si ottengono aspetti universali
delle realtà sensibili. Per conoscere in senso filosofico l’intelletto deve aver fatto esperienza di un ente. Ma
siccome Dio è l’ente trascendente per eccellenza, come causa prima cioè atto puro, allora non è esperibile
dall’uomo nell’ottica aristotelica, che privilegia la via sensibile per la conoscenza universale. Distinzione tra
principio primo in assoluto e principio primo per la filosofia rimanda all’atteggiamento di Aristotele il quale,
nella Fisica, ha assunto come principio guida la materia e la natura: dallo stesso Aristotele Boezio riprende il
comportamento. Materia prima come sostrato del mutamento. Sappiamo che poi ha “sviluppato” una
visione della causa prima nella Metafisica, ma non nella Fisica! Boezio vuole sancire il suo metodo sotto
auctoritas filosofica per eccellenza cioè Aristotele. Da un lato abbiamo visto in azione la teoria della scienza
aristotelica, la gnoseologia e un comportamento ripreso dalla Fisica, operazione culturale che Aristotele
compie all’interno della Fisica, diversa da quella nella Metafisica o nel De Anima.
Dopo tutta questa precisazione di natura metodologica di ciò che il filosofo può e non può fare, ora
scendiamo più direttamente sul terreno specifico del nostro argomento, cioè l’eternità del mondo. Cosa
può derivare il filosofo intorno a questo tema? Argomenti che dimostreranno perché il filosofo non può
dimostrare la novità del mondo. Il filosofo non è che non vuole, ma davvero non può giungere alla
dimostrazione della creazione. In natura viene ad essere qualcosa che è preceduto dall’essere di
qualcos’altro, non vi è generazione dal nulla in natura. Non è possibile che esista un uomo che non è stato
generato materialmente per la filosofia. La natura non può causare un moto se un altro moto causale lo
precede. Ma nessun altro moto non può precedere quello perché altrimenti non sarebbe primo moto
(creazione), perché infatti non sarebbe più primo. Il filosofo naturale, il cui primo principio è la natura, non
può affermare sulla base dei suoi poveri principi (no immaginazione) che il primo moto sia nuovo, perché la
generazione nella natura è sempre preceduta da qualcos’altro. La natura materiale non produce nulla de
novo. La novità del mondo non prevede niente di materiale che lo precede nella Bibbia. Generazione
eterna. Boezio ha nell’orecchio l’obiezione di qualcuno che dice che i corpi celesti sono materialmente
diversi della natura, ma Boezio dice che si tratta comunque di natura e in quanto tale non è un’obiezione
pertinente. Tutto ciò che accade nella realtà naturale presuppone un movimento precedente nella natura. Il
moto primo che è la creazione per il filosofo non prevede un mutamento precedente e quindi per lui è
inattingibile, non lo vede nemmeno né lo può comprendere. C’è uno sviluppo argomentativo e poi ritorna
sulla posizione; non può perché il filosofo fa esperienza della generazione naturale. Se io penso che viene
all’essere un uomo senza che nulla muti intorno a lui non si capisce come l’effetto non sia venuto fuori
prima. Qual è l’elemento che giustifica il venire ad essere di qualcosa senza che le cause mutino? Il miracolo
divino è così, ma non è ambito del filosofo, perché Dio è inconoscibile al filosofo e la natura non fa miracoli,
non crea dal nulla. Il non potere non significa che il filosofo è incapace, ma circoscrive il perimetro in cui il
filosofo può stare da solo in quanto specialista della natura. Contribuisce a rendere chiaro il suo mestiere,
filosofi accusati di non far bene il proprio mestiere dagli statuti del ’72. Il problema è sempre giustificare
tutto ciò che si afferma, attraverso razionalmente, altrimenti si fanno considerazioni che non sono
argomenti filosofici. Spaccato in cui Boezio sta dicendo che rispetto a un ente esistono due categorie di
cause: quelle prossime, vicine all’effetto, inscritte in un ordine di cause remote (es. moto delle sfere). Porre
significa dimostrare, perché tutto ciò che il filosofo afferma lo fa sulla base dimostrativa (Alberto Magno,
filosofo è chiamato sempre a dimostrare). La creazione è quel dogma, quella verità che va contro
frontalmente al divieto filosofico in assoluto del passaggio dal non essere all’essere. Si crede al primo moto
e alla creazione, ma da filosofo posso solo dire che il mutamento è eterno. Non è che prima c’è stato il
primo mobile, il primo mobile sta nel mondo stesso. La produzione a partire da sostrato e materia è tipica
della natura ma non è generazione quanto creazione; Dio ha creato tutto in un unico atto creativo della sua
onnipotenza e volontà. Non vi è materia che lui ha elaborato, e questo è il mistero della creazione: come ha
fatto Dio a creare tutta la materia? Il filosofo naturale non può considerare razionalmente la creazione
come tema di cui si deve occupare. Il filosofo è una declinazione della teoria della scienza aristotelica, è uno
specialista, un artifex e lui deve tener fede ai principi da cui parte. Stolta operazione di Bonaventura da
Bagnoregio. Boezio enuncia questo non potere del filosofo all’inizio della soluzione, perché la creazione non
è una posizione a cui si può accedere con i principi del filosofo ma al di fuori di essi. In nessuna branca della
scienza naturale si tratta della produzione del mondo, perché è sovrannaturale: Boezio sta salvaguardando
il dogma della fede, poiché creazione è azione sovrannaturale e divina. Inoltre, se il filosofo non sa
dimostrare che è esistita la creazione allora non sa dimostrare che è esistito il primo uomo. Si nega
l’esistenza di Adamo e se io procedo in maniera coerente tiro già una serie di conseguenze che il filosofo è
autorizzato a fare perché si muove nel suo ambito di razionalità naturale. Verità secondo un quid, relative
all’ambito di cui ci si sta occupando. Il primo uomo è stato creato, mentre ogni altro uomo è stato generato
da uomo e sole, poiché alla generazione naturale contribuiscono anche gli astri. Non deve quindi apparire
sorprendente l’atteggiamento del filosofo che non può considerare ciò cui non si estendono i principi della
sua scienza.
Lezione 12
Nella solutio, Boezio chiarisce il ruolo del filosofo, che è tenuto ad occuparsi di tutti quegli argomenti che
possono essere dimostrati razionalmente. La totalità delle cose che è suscettibile di argomentazione
razionale è oggetto della filosofia. Il grimaldello del filosofo è la razionalità. In secondo luogo il filosofo è
colui che assume come principio primo la natura: egli segue la bandiera della natura, mentre il teologo
un’altra. Il filosofo non può dimostrare il primo moto e la creazione del mondo in modo razionale; questa
incapacità non è negativa, ma neutra e legata al modo di fare scienza da parte del filosofo. Due assunti
fondamentali: divisione del sapere (principio preso dagli Analitici), in cui ogni branca è svolta da un artifex,
uno specialista, usando principi primi da cui si deducono delle verità, e il fatto che la filosofia come principio
primo possiede la natura. Qui Boezio ha fatto una precisazione importante, distinguendo un primo principio
per la filosofia e un primo principio in assoluto: quello simpliciter, cioè l’assoluto, non è natura (in quanto
secondaria) ma Dio, mentre il principio primo per il filosofo è la natura. Al di sopra di Dio non vi sono altri
principi, è il principio primo in senso stretto.
Il filosofo (fisico, matematico o metafisico) non può dimostrare la novitas della creazione e del primo moto:
infatti il suo primo principio è la natura in cui non vi è creazione ma solo generazione naturale, per cui ogni
novitas è preceduta da qualcos’altro. Il filosofo della natura non può affermare il primo moto in assoluto,
cioè la creazione, che non è un mutamento in senso aristotelico perché non è preceduto da materia, ma dal
nulla. Il filosofo non può nemmeno prendere in considerazione la creazione: occuparsi del primo moto da
filosofo sarebbe un’indagine vana, poiché la creazione per definizione esula dal perimetro d’azione del
filosofo. La creazione avviene sopra la natura, perché rappresenta un tipo di mutamento mai esperibile e
precede la natura stessa, la quale riceve l’essere in virtù di questo.
Scarto tra filosofo ed eretico: entrambi si appellano ad argomentazioni che partono dalla natura:
razionalmente gli eretici argomentano contro questo dogma della fede, dicendo che il mondo è eterno.
Punto di vista assoluto e punto di vista relativo, simpliciter secondo un quid sarà la chiave di volta per
Boezio, che non contraddice la verità della fede.
Pagina 117: non c’è ordine casuale tra oggetto e conclusioni interne ad una scienza, c’è un ordine, no
“qualsivoglia”. Boezio poi ci presenta un’obiezione possibile: ci ha detto cosa deve fare il filosofo e che il
tema della creazione non è di competenza del filosofo. Si potrebbe obiettare che in fondo la creazione e il
primo uomo sono verità scritte nella Bibbia e il filosofo non le deve negare. Boezio ora ci dirà cosa deve
negare il filosofo e cosa non deve negare. Perché ci parla della negazione? Egli ha questa parte avversa che
rimprovera ai filosofi di negare la creazione solo perché dimostrano l’eternità del mondo, ma invece non è
così scontata l’implicazione, perché l’affermazione dell’eternità del mondo è fatta all’interno dell’ambito
filosofico e il filosofo non si occupa di negare la creazione. Sono gli eretici che negano, poiché
epistemologicamente sono meno accorti. Questa obiezione possibile viene inserita nel sistema aristotelico.
Rapporto verità e discipline: l’una pone verità secondo ragione (filosofia della natura), l’altra pone verità
come rivelazioni di cause superiori (teologia). Ripresa primo paragrafo del proemio. Rivelazione significa
che qualcuno ci mostra verità di un’affermazione, il famoso viaggio organizzato di quando si parlava di
Anselmo. Il filosofo non deve negare quelle verità che per quanto siano aliene a lui non intaccano e non
contraddicono i principi che fondano la sua scienza, ma resta neutro di fronte a quelle verità perché non
riguardano il suo campo d’indagine, in quanto partono da principi diversi. Boezio concede qualcosa
all’avversario. Il filosofo non deve negare quando quello affermato non è contrario ai principi da cui parte.
Ma la creazione non è contraria alla generazione? Sì, ma si parte da principi diversi: la rivelazione da una
parte e la ragione dall’altra. Laddove in una scienza viene affermata una verità che il filosofo non può
dimostrare ma che nega una parte della filosofia, allora il filosofo deve negare. Affermare in senso pieno
significa dimostrare nella propria scienza ed eventualmente negare quelle verità che negano le nostre
conclusioni a partire dagli stessi principi. Per esempio il geometra non può parlare con chi non è geometra.
Si può dire che una teologia è scienza? Se per scienza si intende quello che Aristotele ci dice negli Analitici
secondi? Tommaso proverà a rispondere di sì, ma filosofi successivi diranno che la teologia ha valore
morale e soteriologico, ma non è una scienza, perché non ci dice nulla sul mondo. Il filosofo deve negare la
resurrezione dei corpi, un altro dogma, come afferma il cristiano (principio dell’individuazione fu tema
discusso). Il filosofo non lo nega in maniera aprioristica, ma per il fatto che il filosofo deve negare tutto ciò
che non può razionalmente dimostrare. No contraddizione tra filosofo naturale e cristiano, e si giunge alla
concordia (uno degli scopi del testo). Concordia raggiunta da Boezio non sottoponendo la filosofia alla
teologia, ma sulla base di una rivendicazione della filosofia come sapere autonomo sciolto da influsso extra-
naturale, caratteristica saliente del sapere teologico che si basa sulla rivelazione. È una concordia trovata
attraverso la divisione del sapere, che porta a un senso di contraddizione. Boezio sottolinea la diversa
origine su cui i due saperi si fondano e questo mostra che non c’è una reale contraddizione, perché la verità
della fede si pone su un piano assoluto della verità assoluta, mentre la filosofia è solo un sapere umano, che
si occupa di una parte della realtà, cioè dell’essere. Concordia raggiunta con differenza di metodi e
affermazioni. Dopo una sorta di professione di fede di Boezio, altra obiezione possibile. Il filosofo nega la
resurrezione, che è un miracolo; ma il filosofo che nega ciò, non dice forse il falso? È falso se lo dice in
maniera assoluta, mentre è vero se lo dice relativamente al suo piano della verità.
Lezione 13
Dev’essere negato, dal filosofo, l’indimostrabile e ciò che contraddice i principi portanti della filosofia. Il
filosofo in quanto tale deve negare l’annullamento della generazione naturale, ma da credente può
sostenere e affermare la verità della creazione. Pagina 119-123: Boezio sostiene che in quest’ottica vi sia
una concordanza tra filosofia e verità di fede, nella misura in cui il filosofo in quanto cristiano crede alla
verità della creazione mentre filosoficamente afferma in quanto dimostra la tesi dell’eternità del mondo.
Nel testo latino abbiamo la verità simpliciter, cioè assoluta, e verità secundum quid, cioè rispetto a dei
principi. Paradossalmente il mondo è eterno e non eterno ma non vi è contraddizione perché le due verità
si pongono su piani diversi, nel piano della credenza e piano della verità ottenuta da principi. Boezio ha
cercato di disseminare il testo di queste precisazioni. La verità del filosofo non ambisce ad essere assoluta,
perché il filosofo sa di muoversi in un sapere strutturato in una molteplicità di discipline con proprie verità:
il filosofo non può ragionare sulla geometria e negarne verità perché lui si rifà a diversi principi, cioè natura
ed enti materiali, diversamente dal geometra che parte da figure geometriche non materiali. Ma allora
esiste una doppia verità? In realtà ne abbiamo uno di tipo assoluto.
Questa battaglia per l’autonomia della filosofia non esclude la teologia, ma tira su le barriere rispetto alle
invasioni esterne: la filosofia non può affermare tutte le verità, perché ci sono oggetti che non le
competono. Ma il filosofo non ha la pretesa di dire tutto su tutto, perché lui ha una fetta di oggetti precisa
su cui può dire tutto ciò che vuole e che su cui un teologo non può intervenire, per esempio. Tommaso
parla di un concordismo tra filosofia e teologia. I francescani avevano scritto i correctoria cioè testi che
dovevano essere letti accanto al testi di Tommaso per correggere cose che egli aveva detto. La vulgata su
Tommaso è molto relativa e distante dalla realtà; ma ci sono più vie al concordismo tra ragione e fede.
Quella che mette in atto Boezio non è affatto scontato. Io posso dire che Socrate è bianco, ma è vero anche
che non è bianco, perché queste due verità appartengono a due punti di vista diversi: è bianco rispetto ai
capelli ma non per il resto. Dal punto di vista assoluto non è bianco ma secondo un quid lo è. Il livello
dell’assoluto è sovrannaturale e non si può dimostrare con argomenti naturali che il mondo sia stato creato
(polemica a Bonaventura).
Commento che Tommaso ha scritto intorno agli anni ’50 intorno ad un opuscolo teologico di Severino
Boezio sull’eternità del mondo, aprendo l’argomentazione sulla Trinità. Questione numero 2, articolo 3: se
sia lecito di servirsi di argomenti filosofici nella scienza della fede. Testo di natura metateorica; invece che
solutio abbiamo respontio, voce del maestro. “Si deve dire che i doni della grazia si aggiungono alla natura
non da sopprimerla ma da perfezionarla” (due temi centrali, natura e grazia). I doni della grazia si
aggiungono a quelli della natura non da sopprimerla, dunque c’è un rapporto fra qualcosa di imperfetto
rispetto a qualcosa di perfetto, la grazia interviene a perfezionare la natura. “Anche il lume della fede infuso
a noi per grazia non distrugge il lume della ragione naturale posto in noi da Dio”: la fede è quello stato
mentale, quella luce che riceviamo anche grazie all’intervento di Dio. Il lume naturale della ragione non è
distrutto o sostituito perché è comunque posto in noi da Dio: si parla comunque di lume, luce è ciò che
illumina e rende possibile la visione e la conoscenza in entrambi i casi. “Quantunque il lume della ragione
non possa dimostrare ciò che dice il lume della fede, è tuttavia impossibile che ciò che ci è affidato da Dio
per fede risulti contrario a ciò che è posto in noi per natura”: non c’è contrasto effettivo tra fede e ragione,
perché entrambe hanno origine divina e siccome è un Dio buono e non ingannatore, egli ci ha permesso di
essere in una posizione di conoscenza sia di lui che della realtà in quanto creazione divina, dunque specchio
su cui si riflettono le sue tracce che ci portano a lui. “Piuttosto, poiché in ciò che è imperfetto si trova
qualche imitazione di ciò che è perfetto, in ciò che viene conosciuto per ragione naturale deve trovarsi
qualcosa per similitudine di ciò che è trovato nella fede”: che differenza c’è tra il perfetto e l’imperfetto? Vi
è omogeneità di fondo, perché l’imperfetto non è qualcosa di completamente altro rispetto al perfetto.
Significa che per Tommaso l’uso della ragione è qualcosa di imperfetto rispetto alla conoscenza perfetta
della fede, perché ha detto che in ciò che è imperfetto ha traccia del perfetto. La ragione può contribuire
nelle verità di fede, rapporto forte determinato dal fatto che sia fede che ragione provengono da un Dio
non ingannatore e che ci ha creato con natura e con lume della fede. La felicità va ricercata nella natura,
proprio come Aristotele dice nell’Etica Nicomachea: la ragione ci dice che la felicità terrena consiste nella
pratica della razionalità, raggiungendo perfezionamento della natura umana. Ma come agisce la
razionalità? Essa va alla ricerca delle cause ma soprattutto dell’essenza delle cause. Ma la filosofia che
postula l’esistenza della causa prima, per Tommaso, in questa vita non può conoscere l’essenza di questa
causa prima. Il fatto che la filosofia riesca ad arrivare ad affermare l’esistenza della causa prima è un
preludere della fede. La beatitudine è quella condizione creaturale che consente all’uomo di conoscere
l’essenza della causa prima che non conosceva sulla Terra. Necessità di passare all’ambito soprannaturale
per soddisfare sete dell’intelletto e conoscere essenza della causa prima. C’è un rapporto di continuità tra
fede e ragione. Tommaso si pone dal punto di vista di un teologo, linguaggio diverso da Boezio. In che senso
la natura funge da preambolo alla grazia? La natura è termine di azione della grazia e se non ci fosse la
natura questa non avrebbe qualcosa su cui appoggiarsi. La grazia di Dio è rivolta alla natura umana in
quanto tale. C’è un rapporto stretto di correlazione fra natura e grazia e fra filosofia e sacra dottrina.
Questo perché la filosofia può porre alcune verità che fungono da preamboli per la fede, tra cui l’esistenza
di una causa prima, primo fondamento per la fede stessa e che la rende ragionevole. Se c’è un errore in
ambito filosofico non dipende dal fatto che la disciplina è negativa ma dipende dal cattivo uso che se ne fa e
non è colpa della ragione perché essa è strumento valido dato da Dio per conoscere le sue tracce (su
questo Boezio è d’accordo). È il filosofo che deve correggere gli errori di ragionamento e l’unico in grado di
riformulare il ragionamento corretto è lui stesso, con un punto di vista interno, anche se come vediamo
questo rapporto di concordanza fra filosofia e teologia è raggiunto da Tommaso mettendo in evidenza la
radice comune di questi due atteggiamenti, cioè la radice divina.
Da 123-127 Boezio si occupa di un altro filosofo specifico, che è il matematico, ovvero l’astronomo. In
particolare mette in evidenza la perfetta neutralità e indifferenza rispetto ai principi dell’astronomia, che
non vengono messi in discussione dalla questione sull’eternità del mondo. Il matematico non ha né da
negare né affermare nulla.
Il punto di vista del metafisico è introdotto a pagina 127. Il filosofo naturale e il matematico e il metafisico
non possono dimostrare la creazione del mondo. Il mondo è venuto all’essere per la bontà di Dio e volontà
di Dio è causa onnipotente che ha sorretto la creazione di tutto questo mondo (causa sufficiente). La creatio
ex nihilo comporta il fatto che il mondo non sia infinito ma che abbia avuto un inizio; il fatto di avere avuto
un inizio comporta l’idea che il mondo sia successivo in durata alla causa prima o che Dio abbia deciso che
(esempio degli eretici) un giorno che un altro avrebbe creato il mondo, inizio temporale del mondo differito
dal momento di decisione. Il concetto di creatura eterna non è contraddittorio per i filosofi. Siccome però il
metafisico non può dimostrare nemmeno la successione, non può neanche dimostrare la causalità
simultanea. Scarto tra volontà intesa come causa e natura intesa come causa. Mentre la natura con una
certa causa pone sempre un certo effetto, la volontà è quella scatola nera che può muoversi in mille
direzioni. Mentre la natura ha una causalità univoca, la volontà è qualcosa di più profondo che esula dal
rapporto di causalità diretta. Dio però non è così volubile come noi; e se non possiamo conoscere la volontà
di un altro uomo, di sicuro non possiamo conoscere la volontà divina. Questa è una nozione che non è
richiamata in maniera pregiudiziale: si parla di un mondo che ha una causa prima dunque è naturale
richiamarsi alla volontà di questa causa, perché la creazione stessa è frutto di volontà e non emanazione
come con gli arabi. La causa dipende dalla volontà, diversamente dal piano della natura. La volontà non
decide a caso ma attraverso un piano. Il metafisico non può dimostrare che questa fu la disposizione della
volontà divina. Il metafisico si occupa della causa prima e per questo viene fuori il concetto della volontà.
Dire che il metafisico possa dimostrarlo non è solo una finzione, ma follia. L’immaginazione libera, la fictio è
la scorciatoia della ragione e il filosofo non può proseguire per quella strada. L’immaginazione produce una
finzione; con quali ragioni il filosofo può compiere una perfetta e corretta indagine della volontà divina?
Il filosofo deve indagare a tappeto tutto ciò che può essere indagabile con la ragione, il suo lavoro non è per
niente scontato. Il filosofo si deve occupare dello scibile indagabile con la razionalità; ma nessun filosofo
(dei tre) può razionalmente dimostrare che il primo moto e il mondo siano nuovi in assoluto, perché per la
filosofia tutto ciò che viene all’essere è preceduto da qualcos’altro che lo causa. Conclusione: con nessuna
argomentazione umana, cioè della filosofia, è possibile dimostrare che il primo moto e il mondo siano
nuovi. La ragione non li può dimostrare. Ma non si può nemmeno dimostrare che siano eterni, perché se lo
si dimostrasse dovremmo saper dimostrare la disposizione della volontà divina: ma nessun uomo può far
questo. Qui Boezio smarca Aristotele dall’accusa dell’eternità del mondo, perché lui ha detto che è
un’antinomia, pe cui non si può dimostrare né in un verso né in un altro. Brano delle Meteore poteva
essere una di quelle citazioni utili a un teologo che voleva dare lettura favorevole ad Aristotele. Nei testi di
Aristotele ci sono citazioni che confermano che la sua volontà non fosse quella di affermare l’eternità del
mondo e la segnala come un esempio di aporia! Boezio mostra grandissima cultura del corpus aristotelico.
La resurrezione è una di quelle verità di fede che la filosofia non può dimostrare. Chi non crede a queste
verità è eretico, chi pensa di dimostrarle razionalmente è sciocco – condensato inizio del Prologo.
Lezione 14
Indagando l’essenza di una causa naturale è possibile rendere intellegibile la sua modalità di azione perché
è stato prodotto un certo effetto: ma la volontà è libera e può muoversi in una molteplicità di direzioni,
messo in evidenza dal metafisico. La volontà di Dio resta insondabile e inconoscibile. Pagina 129, Boezio dà
di nuovo un giudizio generale su quello che il filosofo può dire riguardo la creazione e lo fa con un
ragionamento a forma di sillogismo. Ora che ha dimostrato che nessun filosofo può dimostrare la volontà di
Dio, può ritornare sul ragionamento che aveva già iniziato a fare. Polemica contro alcuni teologi
conservatori che pensano di poter argomentare razionalmente la novità del mondo (paradossi dell’infinito
di Bonaventura). Nessuno può attingere all’essenza di Dio, cioè la sua volontà, e il filosofo, che contiene in
sé il filosofo della natura il matematico e il metafisico, non può dimostrare né la novità né l’eternità del
mondo, perché comunque dovrebbe sondare la volontà. Boezio è filosofo in senso pieno: in quanto solo
filosofo della natura egli può dimostrare l’eternità del mondo. Ma in quanto filosofo in senso pieno, egli è
anche metafisico, e dunque non può dimostrare che il primo moto e il mondo siano nuovi o eterni. La non
possibilità di dimostrare l’eternità che comunque abbiamo visto che il filosofo della natura dimostra e la
filosofia nel suo complesso non può, rende insolvibile il problema. La creazione viene inserita in un gruppo
di verità che sono altrettanto indimostrabili: non c’è relativizzazione della creazione ma è una delle verità di
fede che la filosofia non può dimostrare (come la resurrezione). La volontà di Dio è rilevante per la
questione della creazione: da pagina 131 lo capiamo bene. La volontà divina (cioè la sostanza divina) è
fondamentale rispetto all’effetto perché c’è un rapporto stretto fra effetto che si produce, tra facoltà che
produce tale effetto e la sostanza che possiede tale facoltà o potenza. In poche parole, Boezio dice fra le
righe che c’è un rapporto intrinseco molto stretto fra l’effetto della causa, che dipende da una capacità che
l’ha prodotto che dipende e appartiene a sua volta ad una sostanza. Siccome per i medievali c’è stretto
rapporto tra ciò che una sostanza è e la capacità che essa ha. Stabilire la volontà significa stabilire l’essenza
della sostanza che ha prodotto il mondo è c’è relazione stessa tra sostanza causa e sostanza effetto e per
questa unione intima è fondamentale conoscere l’essenza della causa, cioè la volontà, che però rimane
insondabile. Impossibilità di conoscere la sostanza di Dio; in un certo senso Boezio è disposto in questo caso
a professare la verità della creazione (l’ha appena fatto poco sopra) ed è giusto che dove la ragione non
riesce a dimostrare deve supplire la fede. La creazione è una verità creduta solo per fede. Boezio dopo aver
enumerato i punti di vista dei filosofi specialisti e traendo le conclusioni con il sillogismo di prima, ora egli
dimostra dei corollari tra filosofia e teologia a livello generale. Non si deve pretendere che le verità di fede
possano essere dimostrate razionalmente. Boezio non vuole dire che la ragione è quella chiave che apre
tutte le porte al sapere, ma esistono verità che sfuggono alla filosofia, perché la filosofia ha un approccio di
natura razionale e il suo oggetto è la natura; ciò che fa parte della sovrannaturalità non rientra nel campo
d’indagine possibile della filosofia. Boezio reagisce al monito del 1272, perché i filosofi vogliono solo
mantenersi nei confini della propria scienza in maniera seria e non vogliono essere snaturati e costretti a
dimostrare una verità che non possono dimostrare. La fede è rappresentata dai teologi, che devono
ammettere che c’è qualcosa che sfugge alla ragione. Primo corollario: dover rinunciare a dimostrare.
Secondo corollario rivolto agli eretici, che non devono smettere di credere solo perché è indimostrabile
razionalmente. Torna quello che è stato detto a pagina 123, cioè che non si dà contraddizione tra filosofo
della natura e fede. Dal punto di vista della filosofia generale non c’è contraddizione tra fede cristiana ed
essa a proposito dell’eternità del mondo. Conclusione che si pone a livello generale del rapporto tra
filosofia e teologia: non solo c’è una contraddizione riguardo la creazione tra filosofia e teologia ma rispetto
a tutte quelle verità che la filosofia non può argomentare razionalmente. Ma non si dà alcuna
contraddizione, perché se la filosofia non riesce a dimostrare, può solo affidarsi alla parola di Dio. Alterità
assoluta tra filosofia e teologia. Fede si pone da un punto di vista assoluto, cioè sciolto dall’umano che
prescinde dalla natura e dalla razionalità umana e che dipende da Dio, che trascende la natura. Non si dà
mai una contraddizione tra filosofia e fede, ma Boezio mette in evidenza l’alterità fra le due discipline
mentre Tommaso le poneva di seguito. Boezio ha detto che si può essere al contempo cristiani e filosofi. A
un certo punto Boezio sembra rimangiarsi tutto; ma sono gli eretici che dimostrano che il mondo è eterno e
negano la creazione. Boezio dice che il mondo è creato de novo, sebbene non lo possiamo dimostrare
razionalmente, come accade per altre verità che appartengono alla fede. Il punto di vista filosofico che
Boezio riportava prima degli eretici era il punto di vista che mostrava la possibilità logica dell’eternità del
mondo, mentre l’eretico dimostrava la questione di fatto. Boezio rifinisce ancora di più questo discorso
attorno alla compatibilità e differenza tra scienza e fede (proemio): scienza si fonda su conoscenza di cause,
la fede crede all’esistenza di una causa che non può conoscere. Se potessimo dimostrare la causa sarebbe
scienza e non più fede. La verità della creazione è questione di fede e non di scienza: non c’è
comunicazione tra filosofia della natura e fede, perché si occupano di oggetti diversi rifacendosi a principi
diversi. Non è concessa l’invasione di campo: si può fare ma inquinando la fede come scienza e facendo
diventare la scienza una mera favola. Argomenti sofistici (teologi conservatori) e dialettici (che producono
solo opinioni, a cavallo fra fede e scienza). Non si dubita mai della fede, mentre dell’opinione sì: quelli che si
affannano a trovare argomenti devono stare attenti perché non sono i filosofi e i maestri dell’arte a mettere
in crisi la fede ma sono i teologi conservatori che creano confusione rispetto ai fedeli che devono avere
convinzione salda rispetto a verità in cui credono. Questi argomenti sono errati filosoficamente e
controproducenti dal punto di vista della fede, che non ha bisogno di argomenti. Boezio ribalta il punto di
vista e il monito imposto dagli statuti del 1272. Abbiamo quindi fede, opinione e scienza. Differenza tra
argomenti dialettici rispetto a quelli dimostrativi, sottopongono alla fede verità contrastanti. Verità di fede
valgono in assoluto mentre gli argomenti dimostrativi solo nella disciplina. Qui Boezio tira le somme della
propria soluzione e non solo fa sintesi del punto di vista filosofico ma trae conclusioni sul rapporto tra
filosofia e fede.
La solutio prevede un momento in cui il maestro confuta gli argomenti errati che contrastano la sua
opinione. La prima serie di argomenti di cui Boezio si occupa sono quelli degli eretici, che dimostravano
l’eternità di fatto del mondo; la verità della creazione si pone a livello assoluto inattingibile al filosofo e
l’affermazione dell’eternità del mondo non rende falsa la creazione dal punto di vista filosofico, cosa che
invece credono i teologi. Questa operazione non la fanno i filosofi ma lo fanno gli eretici! E siccome questa
operazione è scorretta perché pone su stesso livello filosofia e fede, Boezio ora intende smascherare questa
operazione sbagliata compiuta dagli eretici. Per Boezio la verità assoluta è quella della fede.
Argomento 3 (durata inizia quando il mondo viene all’essere, generazione sempre preceduta da qualcosa di
preesistente che si corrompe e genera di fatto qualcos’altro). Non si può usare la generazione per
argomentare intorno alla creazione. È vero che la generazione ha due cause, una efficiente e una materiale
ma con questo non si può dire che il mondo è eterno, perché siamo di fronte a un caso che prescinde dalla
causa materiale, perché Dio ha creato il mondo nella sua onnipotenza. Richiamarsi a una nozione valida in
ambito filosofico che è intellegibile a partire dal rimando è secondo Boezio inappropriato, perché si applica
questa nozione alla produzione eccezionale della creazione, che è presentata dalla Bibbia come in principio
Dio creò tutta la materia. Esegesi particolare dell’espressione “essere fatto”, cioè non generato per natura
ma creato dal nulla: se non ci fosse altro modo che la generazione naturale, assolutamente nulla sarebbe
stato fatto. Se qualcosa viene all’essere grazie alla materia, se la materia non c’è allora niente viene
generato. Se noi applichiamo la nozione di generazione rischiamo di affermare che nulla è stato fatto in
quanto in assenza di materia; ma siccome tutti i giorni constatiamo l’esistenza del mondo, dobbiamo
concludere che qualcosa che non doveva essere fatto è stato fatto. Ma non era impossibile, ma solo
possibile che il mondo potesse essere creato. Osservazione empirica dell’esistenza del mondo; possiamo
dire che la creazione è impossibile, ma questo implicherebbe che quello che noi vediamo sia qualcosa di
impossibile. Ma noi ne vediamo la possibilità tutto i giorni. Applicazione della categoria di generazione
naturale produce effetti assurdi. Ragionamento filosofico è su altro livello rispetto alla verità assoluta della
creazione.
Lezione 15
Gli argomenti formulati dagli eretici che ruotano intorno ad alcune nozioni centrali della filosofia della
natura sono argomenti non tanto sbagliati in se stessi quanto sono applicati ad un livello e riguardo una
questione che esula dalla filosofia. Gli eretici allora rendono assoluti degli argomenti che in realtà sono
validi unicamente in un orizzonte tematico che è quello della filosofia della natura. Differenza del punto di
vista di Boezio di Dacia, maestro delle facoltà delle arti che rivendica autonomia della filosofia con regole
deontologiche che caratterizzano la professione del filosofo, con quello del gruppo di eretici che si servono
di argomenti filosofici in maniera scorretta dal punto di vista di Boezio. Schema della solutio fatto dalla prof
su Moodle. Boezio poi formula un sillogismo che riguarda la filosofia nel suo complesso. Da tutte queste
argomentazioni interne alla filosofia derivano dei corollari generali sul rapporto metateorico fra fede e
ragione:
1) La fede deve rinunciare a dimostrare la creazione tramite razionalità (contro teologi)
2) Bisogna continuare a credere anche se non è razionale (contro eretici);
3) Non vi è contraddizione fra fede e filosofia.
Per fede in assoluto si deve credere che il mondo non è eterno ma non lo si può dimostrare. La fede
dev’essere un habitus certo aldilà della razionalità. Boezio poi suggerisce che quanto ha osservato finora
riguardo all’eternità del mondo, cioè che è una verità indimostrabile, è un ragionamento che si può
applicare a tutte le verità della fede che rimangono inattingibili razionalmente. L’eternità del mondo allora
è esempio di un gruppo di verità. Boezio parla anche della resurrezione del corpo, dell’identità numerica del
corpo risorto e dell’esistenza del primo uomo. La resurrezione del corpo non può essere dimostrata
razionalmente perché presuppone l’esistenza di un ente a partire dal quale viene generato un nuovo ente.
Queste verità sono vere in assoluto. A verità della fede si pone su un livello assoluto e attinge all’assoluto,
mentre la filosofia come ogni altra disciplina racconta un punto specifico sulla realtà e trae conclusioni
nell’ambito che essa è in grado di indagare. Per Boezio è possibile essere filosofi e cristiani allo stesso
tempo. In chiusura Boezio confuta gli argomenti degli eretici per cui il mondo è eterno; la strategia è quella
di dimostrare che le categorie filosofiche applicate sono non pertinenti al caso specifico di “essere fatto”,
cioè la creazione, che trascende, come mostra la Bibbia, le argomentazioni che rendono conto solo della
generazione naturale. Tre accezioni possibili di “essere fatto”:
1) Essere fatto come sinonimo di essere generato per la filosofia della natura;
2) Essere fatto come sinonimo di essere creato per filosofi intelligentes che credono;
3) Essere fatto come sinonimo di essere non eterno o essere finito temporalmente per teologi
conservatori (dimensione ontologica implica quella temporale).
Boezio si limita a dichiarare poi che gli argomenti dei teologi hanno una natura sofistica. Mentre si adopera
a criticare ed esaminare gli argomenti degli eretici, quando arriva a confutare quelli dei teologi (come i
paradossi dell’infinito ed equivalenza fra ex nihilum = post nihilum) si limita a dire che sono sofistici. Non è
un tentativo apologetico verso la fede, ma non è così, perché la sua operazione non colpisce le menti dei
teologi ma vengono snobbati gli argomenti a favore della creazione proposti dalla scuola francescana.
Questo viene sentito nuovamente come arrogante, mentre c’è un’altra possibilità di lettura. Boezio dunque
si scaglia contro i suoi critici per poi ribadire il pluralismo epistemologico: ogni scienza è limitata al proprio
quadro di riferimento, ma all’interno di quei limiti essa è autonoma. La ragione è autonoma nella ricerca
della verità, mentre la fede è eteronoma. Infine, Boezio afferma che i filosofi sono i sapienti di questo
mondo.
Argomento 9, pagina 149. L’effetto può essere dilazionato, che non comporta mutamento nella volontà. Si
diceva nell’argomento 9 che nel momento in cui Dio ha deciso di creare il mondo in una certa data, questo
avrebbe comportato un mutamento nella volontà perché Dio avrebbe stabilito una decisione a un certo
punto – è perché non prima? Boezio dice che questo dilazionare e il venire all’essere dell’effetto non
comporta un mutamento della volontà, perché azioni nuove possono essere prodotte senza che si dia un
mutamento nella volontà. Boezio cerca quale potrebbe essere la sede del mutamento riguardo altri
elementi che entrano in gioco. La sua volontà è eterna e non muta, perché la decisione è stata presa
dall’eternità. Di fatto però è vero che la volontà non muta, ma comunque può mutare la sostanza, perché
pur avendolo deciso dall’eternità si agisce nel momento x e l’azione dovrebbe mutare: è vero che in Dio
sostanza azione e volontà sono tutt’uno, ma a maggior ragione l’osservazione di Boezio non sembra
convincente al 100%.
Argomento 11: il ragionamento degli eretici è corretto ma non vale per Dio, che sta al di sopra del tempo. È
giusto dire che c’è durata tra soggetto che aspetta e realizzazione dell’evento, ma questo vale in una
dimensione temporale e materiale. Nella dimensione di Dio che vive in eternità, questo ragionamento non
vale. Di per sé il ragionamento è corretto ma è inappropriato in quanto applicato alla dimensione non
propria.
Argomento 13: era un argomento lungo degli eretici, per cui si può immaginare il conseguente e
l’antecedente, poiché se mi immagino il secondo mi posso immaginare anche il primo, ma siccome la
volontà è imperscrutabile io non posso pretendere altro che immaginare e non sapere. Fantasia è orrore
del filosofo. Boezio dice che non tutto quello che non si può dimostrare è una finzione. Questa è una difesa
per la fede. C’è qualcosa che è degno di essere creduto e che non è finzione: sta difendendo la fede e dice
qualcosa anche a livello opportunistico, per dire che ciò che ha detto prima non vuol dire che la fede è
immaginazione, rafforzamento della filosofia e distaccamento della veste servile della filosofia rispetto a
sapere superiore. Compatibilità tra volontà ed effetto voluto. La volontà divina è appannaggio di un ente
che sta al di sopra del tempo e l’osservazione per cui tra generante e generato ci debba essere un
mutamento è un’osservazione nuovamente corretta ma sbagliata per il caso divino.
Giudizio di Boezio sugli argomenti dei teologi è molto grossolano e frettoloso: in un certo senso possiamo
accogliere tali argomenti perché hanno una logica, ma sono sofistici, e non arrivano laddove pretendono.
Lezione 16
Nella conclusione, Boezio dice che i colleghi devono astenersi in qualsiasi modo di affermare qualcosa senza
compiere una vera dimostrazione razionale. Si può affermare solo ciò che è dimostrativo (può averlo letto
in Alberto Magno, diversità di metodi filosofia teologia). Boezio riconosce verità al di fuori dell’ambito
razionale, ma queste non possono essere affermate ma solo credute in base all’auctoritas, alla Sacra
scrittura. Esempio della risurrezione dei corpi e identità numerica; Aristotele dice che una realtà corrotta
può tornare ad essere la stessa secondo la specie ma non secondo il numero. Sarebbe possibile trovare in
Aristotele un passo che sembra contraddire la resurrezione, sembra negarla, ma in realtà il valore di questo
non va inteso come attacco a insegnamento della fede, ma solo come un’affermazione fatta nella filosofia
della natura: l’intenzione di Aristotele non è di negare la resurrezione (in maniera anacronistica), non può
ammettere una verità nell’ambito della filosofia della natura. Boezio fa un piccolo approfondimento
riguardo un’altra verità della fede, che è quella della resurrezione, dicendo che Aristotele non contraddice
la fede ma dice qualcosa di valido nella filosofia della natura. La fede si basa sul rimando a Dio che,
filosoficamente, è una causa superiore alla natura, extra ordinaria. C’è una differenza fondamentale, una
causa sovrannaturale non è omogenea alla natura, quindi Boezio dice che un principio fuori dalla natura
non può essere richiamato come principio dei fenomeni della natura. Non vi è contraddizione tra fede e
filosofo: stessa conclusione con osservazioni leggermente diverse. Boezio si rivolge a un ipotetico obiettore
che rappresenta coloro che nella facoltà di Parigi parlano male dei filosofi, affermando che essi sono in
sostanza degli eretici e autori di un insegnamento maligno. Ma l’insegnamento che l’obiettore conduce è su
un piano totalmente diverso dalla filosofia. Rimando alla filosofia come forma di vita connessa ad un lavoro
specifico, la filosofia come professione, stile di vita diverso dal teologo, colui che è sapiente superiore.
Critica dell’atteggiamento superficiale dei teologi senza soppesare argomenti fondamentali del filosofo. Il
teologo non capisce in cosa consiste la professione del filosofo, che furono i sapienti del mondo.
Affermazione abbastanza pesante per i teologi, perché si afferma che i sapienti del mondo sono appunto i
filosofi, mentre i sapienti volevano essere i teologi, detentori di un sapere regina che sovrasta tutte le altre
discipline. Boezio si mette in contatto con i filosofi pagani dicendo che sono ancora i sapienti del mondo.
Comprendere = intelligere profondo. Essere i sapienti del mondo non significa che i filosofi siano gli unici
sapienti del mondo, ma che sono i sapienti di questo mondo e non in assoluto, simpliciter: i sapienti
simpliciter sono i teologi perché si occupano della dimensione assoluta, ma i filosofi si può dire che sono i
sapienti del mondo naturale. In queste parole i teologi hanno visto un atteggiamento arrogante. È
impossibile che la filosofia contraddica la fede? Perché partono da principi diversi e sono su piani diversi! I
lettori frettolosi dicono che il cristiano non può essere anche filosofo, quando invece Boezio lo ha spiegato
nelle pagine precedenti; secondo i teologi conservatori si dà un aut aut, mentre è falso. Boezio sembra
stimare un cristiano più di un teologo, perché dice che egli comprende che le verità del filosofo non sono
assolute e può continuare a credere nelle verità di fede. La natura è il principio saldo di tutti i filosofi,
mentre la causa superiore è causa della natura stessa nel suo complesso, mentre il filosofo non si occupa
delle origini della natura ma studia il funzionamento dei principi stessi tramite astrazione. Il motore
immobile per Aristotele è la possibilità di spiegare com’è possibile che si dia il mutamento del mondo nel
suo complesso, quindi viene postulata l’esistenza del motore immobile. È Platone casomai che si pone il
problema dell’origine della natura (Timeo, materia caotica con principio intellettuale dell’ordine). Per
Aristotele la natura, cioè il sinolo di materia e forma, è causata da un ente incausato. Motore immobile non
è causa di esistenza ma di mutamento. Il cristiano supera il teologo perché sa usare sottilmente il proprio
intelletto e non è costretto a distruggere e negare i principi della filosofia. Viene ricondotta allora in una
situazione di compatibilità la fede e la ragione (scopo di Boezio nel Prologo), si mantengono
contemporaneamente fede e filosofia senza recare danno all’una né all’altra, cioè riconoscendone il valore
di verità a entrambe. Boezio poi sembra rivolgersi di fatto a qualcuno che addirittura ha una carica (come il
vescovo di Parigi), dicendo “difficili” ironicamente: si limiti allora a credere davvero e obbedire, massima
passività assoluta. Il filosofo è attivo e compie ragionamenti coerenti, consapevole di una dimensione
sovrannaturale che non può indagare, ma questo non svaluta il suo ragionamento, è consapevole della
limitatezza della portata delle sue conclusioni. Anche il cristiano è capace di distinguere queste due cause:
la causa naturale porta a conclusioni filosofiche vere nella natura, mentre la causa superiore non può
essere indagabile. Chi non si sforza di capire questo, può solo obbedire alla religione (vs rimando al
comprendere e intelligere). Boezio si rivolge contro i teologi conservatori che hanno cercato di trovare
argomenti a favore della creazione, ma sono così sofistici che rischiano di dimostrare la verità opposta: chi è
passivo non deve credere in quegli argomenti, ma solo nella fede. Boezio alla fine dice che la definizione di
un argomento dimostrativo e dice che è pericoloso pe dimostrare qualcosa che va oltre la filosofia (fede
non è scienza). Chiusura con Amen rimanda alla dimensione del fedele in Boezio, che ha già fatto
professione di fede nel testo e che ribadisce l’autonomia della filosofia e la sua legittimità di trarre
conclusioni senza essere censurata da un sapere che con presunzione su essa vede contraddizione con gli
insegnamenti della fede, che deriva da altri principi. Cristo è maestro di fede, ma esiste tra le righe un altro
maestro, che è Aristotele, in filosofia. La coppia di maestri non va giù ai teologi. La natura infatti per loro è
manifestazione della potenza di Dio e una dimensione mondana della natura è priva di significato per gli
autori dell’Alto Medioevo: ora invece nel Basso Medioevo vediamo che con i testi aristotelici si è messo in
evidenza una filosofia della natura estremamente ricca e variegata, che riesce a precisare le nozioni centrali
a cui la natura si rifà e che produce un ampiamento del sapere in base a dimostrazioni che studiano la
natura in quanto tale, mantenendo sullo sfondo la dimensione divina che è del tutto eterogenea e quindi
non può essere richiamata. Anche riguardo alla dimensione temporale del mondo, la filosofia esprime
coordinate dell’ambito che la fonda, cioè la natura. Il filosofo si occupa della generazione naturale,
spiegabile con il fatto che tutto ciò che si genera lo fa in funzione di qualcosa di precedente che lo ha
generato. La verità della creazione da filosofo non si può affermare, ma da fedele e cristiano sì. Un conto è
affermare, un conto è credere.
Boezio si rifiuta di ammettere che la ragione è rischiarata dalla fede, differentemente da Tommaso
(rapporto perfetto imperfetto), perché la ragione e la grazia sono due cose diverse. La ragione non è elevata
dalla fede. Pagina 157, rimando che fa Boezio al rapporto tra fede e filosofo, dove lo scontro non è più tra
due discipline, tra fede e filosofia, ma fra specialisti e maestri dell’università: diventa uno scontro sociale.
Questo rimando alla filosofia con riferimento all’uomo filosofo è interessante perché Boezio mette in scena
l’eventuale conflitto tra filosofia e teologia ma dal punto di vista degli attori. Il filosofo che resta fede ai suoi
principi (cioè natura e ragione) evita l’eresia, perché non nega la creazione ma la riconosce vera simpliciter
e la può negare solo secundum quid. Altro obiettivo il filosofo sfugge alla stoltezza perché non pretende di
dimostrare la creazione: il progetto del prologo è soddisfatto. Quanto alla verità delle tesi in gioco,
possiamo dire che la tesi filosofica che il mondo è eterno è vera secondo un quid ma è falsa simpliciter. La
tesi che il mondo ha avuto un inizio temporale è vera simpliciter e falsa secondo un quid. Così, distinguendo
i punti di vista, si conclude il terzo obiettivo di portare concordia tra fede e filosofia distinguendo i metodi
(diversamente da Tommaso). Per quanto riguarda l’artifex che lo pronuncia, si può dire che dice il vero il
cristiano che ammette e professa la non eternità del mondo; dice il vero anche il filosofo che afferma ut
naturalis e secundum quid l’eternità del mondo. Dice il falso invece l’eretico che nega simpliciter la non
eternità del mondo, che si scontra con la creazione producendo argomenti che si basano su nozioni di
carattere filosofico. Boezio ha fatto vedere nella serie di risposte che è questo l’errore fondamentale degli
eretici, cioè di aver prodotto argomenti filosofici per rifiutare cose di fede. Fino a che punto queste
distinzioni sono state effettivamente capite dai teologi? Per niente, infatti questo testo è alla base della
condanna dottrinale del 1277 voluta dal vescovo di Parigi, il quale si avvale di una commissione di teologi, i
quali esprimono anche un po’ di imbarazzo per questo compito. Il destino di Boezio è quello di rimanere in
prima battuta inascoltato. Lettera su Moodle (Bonaventura??) attesta questo: si condannano e si
scomunicano coloro che affermano le 219 tesi, condanna severa. Tra queste ce n’è una che recita: Solo i
filosofi sono i sapienti del mondo. Esattamente la frase nel testo di Boezio, paura che egli possa aver
assolutizzato la figura del sapiente rendendola sovrapposta al filosofo. Boezio in realtà si professa credente,
parla della “nostra fede” e si riferisce al sapiente filosofo solo in riferimento al mondo naturale. Boezio
sostiene le sue tesi anche nell’opera che si occupa della felicità, intesa non come beatitudine eterna ma
felicità nei termini aristotelici di una vita dedicata alla razionalità, testo che ha complicato la posizione di
Boezio nei confronti del rapporto filosofia teologia.
Lezione 17
Se Boezio fino alla fine ha mantenuto un tono asettico, nelle ultime pagine egli si rivolge contro i
mormorantes, cioè i maligni che nella facoltà spargono veleno intorno alle dottrine dei maestri delle arti
bollandole come eretiche. È un’accusa precisa quella rivolta ai mormorantes, cioè di non comprendere
(Berengario di Tour contro gli anti-dialettici, incapacità di comprendere). Bonaventura ha parlato della
deduzione degli errori dalla filosofia aristotelica prima della lettura del testo di Boezio: uno degli errori
deducibili dall’esemplarismo era l’eternità del mondo. Egidio Romano è un domenicano che enuclea una
serie di errori attribuibili ad Aristotele ed autori arabi. Siamo in un clima molto acceso, anni ’70 del ‘200 a
Parigi sono anni decisivi per lo scontro filosofia-teologia che ruota intorno a temi specifici, posta in gioco di
tipo metateorico che riguarda quali sono i limiti con cui si può praticare la filosofia senza essere censurati
dalla teologia. A questo proposito Boezio sottolinea l’autonomia della filosofia, di contro alla eteronomia
della fede e della teologia. In che senso la filosofia è scienza autonoma? Lo è perché è una scienza tutta
umana che nasce dalla razionalità e apprendendo i principi primi della ragione è in grado di ampliare il
sapere. La teologia non ha questa caratteristica, poiché la fede è un sapere eteronomo che non si basa sulla
natura umana ma sulla rivelazione. La fede inevitabilmente interseca l’ambito del sovrannaturale, va al di là
del naturale. Bonaventura tenta di usare la razionalità per dimostrare un dogma della fede.
All’interno del prologo della condanna del ’77 vi è una tesi importante formulata dagli studiosi attorno al
testo di Boezio di Dacia: questo è stato interpretato dai primi medievisti come il manifesto dell’averroismo
e della doppia verità. Questa dottrina storiografica l’abbiamo interrogata varie volte, ed è stata costruita
non solo dal prologo della condanna ma anche da un’osservazione compiuta da Tommaso d’Aquino
nell’opuscolo Sull’unità dell’intelletto. Nelle 219 tesi condannate, gli errori vengono rubricati sotto
argomenti specifici, ma vediamo se ci sono effettivamente nel testo di Boezio. Guarda file su Moodle!
Articoli riguardanti la natura della filosofia: numero 2, “Solo i filosofi sono i sapienti del mondo”. Questa tesi
era presente nelle ultime battute di Boezio che elogiava la filosofia e ora è finita direttamente nella
condanna, perché non è stato colto l’aspetto relativo e non assoluto. I filosofi sono i sapienti del mondo
secondo un quid. L’articolo numero 4 recita: “Non dobbiamo credere in niente che non sia di per sé noto o
in base a dei principi” affermazione che sicuramente Boezio non ha fatto poiché lui mantiene la distinzione
credere e intelligere. Numero 5: “L’uomo non deve accontentarsi della sola autorità per acquisire la
certezza su qualsivoglia questione”. Negazione del principio di autorità; Boezio non ha fatto
un’affermazione del genere, perché il ricordo all’autorità è valido in un altro ambito, che è quello della fede
e non della filosofia. L’autorità consiste nella Bibbia e nelle riflessioni dei padri della chiesa. Il filosofo al
contrario per sostenere una tesi deve dimostrarla in maniera autonoma, per cui l’autorità vale solo
nell’ambito della fede. Gli errori che riguardano l’eternità del mondo invece dicono (n. 83): “Il mondo per
quanto sia stato creato dal nulla tuttavia non è stato creato ex novo e il non essere non ha preceduto
l’essere per durata ma solo per natura”. Questa affermazione è presente in Boezio, ma è una posizione qui
presentata come assoluto mentre sappiamo che la prospettiva di Boezio era interna alla filosofia della
natura. Il mondo non è venuto all’essere assolutamente ex novo, e non è possibile inferire la limitatezza
temporale del mondo (argomenti della causalità simultanea). N. 84: se esiste una causa per cui il mondo
continui all’infinito a parte post, questa stessa causa è così onnipotente da poter far sì che il mondo sia
infinito a parte ante e sia sempre esistito. Se noi poniamo il mondo ex novo, questo ha un’implicazione
negativa sulla causa del mondo che per definizione è atto puro. Queste formulazioni vengono estrapolate
dal testo di Boezio e messe in modo infelice in assoluto.
Per Boezio la verità è unica ed è quella della fede, ma anche la filosofia può affermare una verità relativa ai
suoi principi: non è proprio l’esistenza di una doppia verità. Nel prologo c’è l’accenno alla doppia verità:
“Essi dicono infatti che queste cose sono vere per quanto riguarda l’ambito filosofico ma non per quanto
attiene la fede cattolica come se vi fossero due verità contrarie e come potesse esservi una verità
contrapposta alla sacra scrittura”, ma non è esattamente così! Non è che Boezio diceva che le verità della
filosofia non erano ere nell’ambito della fede, non si danno due verità contrarie. La presenza di questa
affermazione ha guidato gli studiosi che hanno studiato il testo di Boezio, scoperto quando già si
conoscevano le accuse e i testi di Tommaso. Gli studiosi conoscevano già questa dottrina della doppia verità
ed erano alla ricerca di qualcuno che avesse sostenuto tale dottrina. Quando il testo di Boezio è stato
ritrovato, uno studioso ungherese ha fatto un’edizione critica e ha detto che questo testo inverava la
profezia della doppia verità, perfetta incarnazione della teoria. Poi vi sono altri studiosi che invece
restituiscono il vero significato della portata delle affermazioni di Boezio.
Leggiamo ora qualche paragrafo dell’opuscolo di San Tommaso riguardo alle affermazioni sulla doppia
verità. Testo che Tommaso dedica alla confutazione dell’unicità dell’intelletto umano, Averroè sosteneva
che ogni uomo è portatore di un intelletto comune a tutta l’umanità in quanto specie. Affermare l’esistenza
di un unico intelletto secondo Tommaso è errato dal punto di vista filosofico (poiché non si rende conto del
processo individuale della conoscenza e contrasta la definizione di uomo come animale razionale) ma anche
teologico (poiché cancella la responsabilità morale e mette in crisi il cammino escatologico che ogni uomo è
chiamato a fare). Si tratta di un dibattito molto rilevante; Boezio non è intervenuto su questo mentre
Tommaso sì. Paragrafi conclusivi: Tommaso ha fatto una critica interna alla filosofia fino ad ora, evitando
esplicitamente implicazioni teologiche per non essere accusato, a questo punto invece intreccia le due
dimensioni e si vede il Tommaso teologo. L’interpretazione che lui offre dice probabilmente non andrà
bene a un cristiano, la cui religione non gliela consente: ma Tommaso dice che Sigieri ha liquidato i teologi
come superficiali e ignoranti. Sigieri mostra un tono irriverente, la sua tesi è sbagliata e si scaglia contro la
fede. Peccato di superbia e presunzione, arroganza dai tempi di Abelardo, filosofia si accompagna alla
presunzione. §119, richiamo alla dottrina della doppia verità: la fede sembra riguardare il falso, cosa che
nemmeno Dio può fare. Tommaso sente come nel prologo della condanna la tesi di Sigieri in aperto
contrasto con la fede. Nel testo di Sigieri, egli parla dell’intelletto a tutto tondo e si occupa di un tema
rilevante, cioè il destino dell’anima nell’aldilà, cioè se l’intelletto possa davvero patire le pene dell’inferno e
in che senso. Tommaso sta solo riprendendo quanto era stato detto dagli statuti e rimprovera a Sigieri di
essersi occupato di una dottrina della fede. Tommaso non è maestro delle arti ma rimane teologo senza
atteggiamento conservatore.
Facciamo un salto indietro rimanendo nell’opera di Boezio: prima fase del dibattito sul de aeternitate è di
natura filologica. Non si stabilisce la questione di fatto, ma cosa Aristotele ha voluto dire nei suoi testi e se è
vero che Aristotele lo ha asserito. Dibattito interessante perché riguarda maestri di teologia. Leggiamo un
testo di Alessandro di Hales e un intervento di Grossatesta, che mette in evidenza l’eternità e come questo
concetto è suscettibile di due accezioni diverse, mentre fino ad ora l’eternità è temporalità infinita.
Alessandro dice: se la frase il mondo è da sempre vuol dire che il mondo non ha mai avuto inizio, questa
frase non è vera. Se invece significa che è esistito sempre nel senso che è coestensivo alla totalità del
tempo, questa è una frase vera ed è questo il senso che Aristotele ha voluto dare alla frase. Di norma
l’eternità del mondo viene visto come negazione della creazione, ma Alessandro dice che questo è relativo
alla dimensione temporale del mondo e non vuol dire che questo non è stato causato. Chi ha voluto
dimostrare l’eternità del mondo lo ha fatto solo con i principi filosofici e siccome non si occupano della
creazione ma della mutazione naturale, hanno affermato che il mondo fosse eterno rispetto alla filosofia e
non in assoluto. Posizione lucida di Alessandro, che precorre quella di Boezio di Dacia. Grossatesta è stato
traduttore del De Cielo di Aristotele, botta e risposta alla lontana tra posizioni che circolano. Roberto dice
che “in principio” della Genesi decreta la novitas e finitezza del mondo, che non va indietro all’infinito.
L’espressione della genesi elimina l’errore dei filosofi. Nell’ottavo libro della fisica sono presenti argomenti
che possono indurre a credere Aristotele come sostenitore dell’eternità del mondo e anche Platone è
associato al gruppo dei filosofi che hanno sostenuto l’eternità del mondo. È una tesi di sicuro aristotelica,
ma ci sono dei moderni che fanno filosofia in modo incoerente rispetto ad Aristotele o Platone, perché in
realtà Aristotele era d’accordo con la religione cattolica. Questi moderni sono colpevoli di fare
un’affermazione scorretta, sono incompetenti e fanno affermazioni che contrastano opera di Aristotele,
mentre lui, sapiente di greco e latino, legge originale di Aristotele e critica capacità ermeneutiche. Tema
delle lingue non è un tema neutro e molti problemi che provengono dalla filosofia aristotelica provengono
dalle traduzioni e dai commentatori. I moderni sono dei superficiali e non conoscono bene il complesso
delle opere di Aristotele, che ha parlato dell’eternità del primo mobile e questa è prova del fatto che egli ha
sostenuto l’eternità del mondo. Tutti i commentatori di Aristotele l’hanno messo in luce e lui si rifà ad una
tradizione autorevole; anche Severino Boezio nella consolazione della filosofia riteneva che il mondo fosse
privo di inizio. Grossatesta è sicuro che il mondo è stato creato e Aristotele sostiene l’eternità del mondo.
Dopo aver definito l’eternità come possesso simultaneo e perfetto di una vita senza limiti, Grossatesta
riporta una citazione esplicita del quinto libro della consolazione della filosofia, dove Boezio dice che
Aristotele ha affermato l’eternità del mondo ma mette in evidenza due accezioni di eternità, la prima come
quella sopra, la seconda è quella che compete a Dio, cioè l’atemporalità, qualcosa al di fuori del tempo;
anche se Dio in linea di massima può essere eterno in senso diverso rispetto all’eternità del mondo, Boezio
ha affermato che anche a suo avviso l’eternità del mondo è una tesi affermata esplicitamente da Averroè
ed Aristotele. Boezio dice che commettono un errore coloro che dicono che questo mondo non ha avuto un
inizio temporale. Egli parla di due accezioni di eternità che a Grossatesta non interessano tanto, perché
servono per dimostrare che il mondo è comunque diverso da Dio. Grossatesta si sofferma sul fatto che
secondo Boezio sia Aristotele che Platone hanno affermato l’eternità del mondo. Agostino nell’undicesimo
libro della città di Dio afferma che secondo alcuni filosofi il mondo è eterno senza alcun inizio e quindi non è
fatto da Dio; Grossatesta non solo riporta l’auctoritas latina di Severino Boezio, ma porta sul piatto
addirittura Agostino, che esplicitamente afferma che i filosofi hanno negato la creazione a favore
dell’eternità del mondo. Grossatesta si rivolge a coloro che si ostinano a difendere Aristotele, poiché le
autorità di riferimento hanno concordato sul fatto che Aristotele abbia sostenuto l’eternità del mondo.
Autorità teologiche che tutti erano tenuti a conoscere che non si possono non conoscere. Grossatesta
mette in luce una leggera differenza tra l’insegnamento dei platonici e quello di Aristotele: i primi hanno
messo in evidenza il fatto che l’eternità del mondo non implica la negazione dell’essere causato con
l’esempio dell’orma nel testo di Boezio di Dacia. È evidente che con Aristotele si è negato l’inizio temporale.
Grossatesta imputa ai moderni di trasformare da eretico a cattolico Aristotele: mentre per Alessandro
Aristotele ha parlato in quanto filosofo della natura, per Grossatesta è eretico. Questi non vanno contro la
tradizione ma si basano su una traduzione latina confusa, mentre per capire bene bisogna conoscere la
lingua originale. Egli fa una sorta di fenomenologia dell’errore: i moderni sono incorsi nell’errore.
Grossatesta è un esegeta e un teologo e adotta un approccio autoritativo, costruendo il suo ragionamento
attorno alla frase della Genesi sfruttando autorità e commentatori di cui si è occupato. La filosofia allora ha
il parere univoco dell’eternità.
Lezione 18
La lettura dei teologi del testo di Boezio è stata frettolosa, da cui sono state prese qua e là delle
affermazioni che minacciavano la dottrina attribuendole direttamente a Boezio quando invece erano voci
eretiche nel testo. Con Grossatesta abbiamo visto la prima fase filologica nel dibattito sulla tesi dell’eternità
del mondo. È la fase che risponde alla domanda: Aristotele ha veramente sostenuto l’eternità del mondo?
Questa fase testimonia un atteggiamento importante, cioè il fatto che la ricezione di Aristotele non è stata
passiva, ma la lettura che i maestri delle arti hanno riservato al pensiero aristotelico non è stato un cogliere
passivo quanto una ricezione attiva in un contesto teorico predominante della religione cristiana. Anche per
Boezio, strettamente professore di filosofia, ha consentito di puntualizzare alcune questioni riguardanti le
categorie filosofiche. È una fase importante per la modalità di ricezione del pensiero aristotelico in maniera
critica. L’eternità del mondo sembra contrastare la dottrina della creazione divina e vengono messi in gioco
concetti strettamente filosofici. Distinzione ontologica fra creatore e creatura, concetti di materia e tempo
in un contesto ontologico non aristotelico e vengono messi alla prova da questo nuovo contesto. I
francescani parlano di una nuova materia spirituale, che per San Tommaso è inammissibile. Ricezione
critica del pensiero di Aristotele sia in maniera eclatante con i dogmi della fede, sia in contesti dove il
contrasto non si dà in prima battuta, cioè ambito religioso che pone questioni nuove (es. angeli): sfida di
mantenere un orizzonte escatologico di natura cristiana e nello stesso tempo servirsi dell’insegnamento
aristotelico per comprenderlo meglio e renderlo più ragionevole. Ci sono vari gradi di intersezione tra il
quadro medievale religioso e quello aristotelico. Non è che ogni tema di filosofia medievale ha a che fare
con un dogma di fede: ci sono situazioni in cui si parla di questioni prettamente naturali o logiche.
Grossatesta critica i moderni, tra cui Hales, che danno una lettura favorevole di Aristotele per quanto
riguarda l’eternità del mondo. I moderni sono colpevoli di una lettura che renderebbe Aristotele cattolico e
che rischia di mettere loro stessi in luce eretica. Una lettura che secondo Grossatesta è del tutto infondata e
contraddice buona parte degli insegnamenti che Aristotele illustra nelle sue opere. Questa lettura dei
moderni di Aristotele contrasta secondo Grossatesta con una serie di auctoritates (non solo commentatori
orientali) anche latine (come padri della chiesa quali Severino Boezio e Agostino), dimostrando l’ignoranza
dei moderni riguardo le questioni e opinioni dei padri della chiesa. A partire da una citazione di Severino
Boezio (La consolazione di filosofia) vi sono due accezioni di eternità:
- Possesso simultaneo (= atemporalità) e perfetto di una vita senza fine (accezione intensiva);
- Accezione estensiva, infinità temporale a parte ante e a parte post.
Questa distinzione noi non l’abbiamo vista in azione nel testo di Boezio di Dacia, e di fatto lo stesso
Grossatesta non si impegna più di tano a raccogliere i suggerimenti che questa duplice accezione poteva
dare. Questa distinzione viene molto trascurata dagli autori con una quaestio. I protagonisti di questo
dibattito sono tantissimi e questa distinzione avrebbe risolto tanti problemi, poiché l’eternità del mondo,
come diceva Peckham, non avrebbe implicato l’identità tra mondo e Dio, perché i due godono di due
eternità diverse. 1271, De aeternitate mundi, opuscolo che precede Boezio di Dacia scritto da Tommaso
(che agli occhi dei francescani non si è impegnato a confutare la tesi dell’eternità del mondo).
Paradossi dell’infinito di Bonaventura (schema su Moodle). Commento alle sentenze, opera giovanile di
Bonaventura, opera che di solito facevano coloro che erano nel periodo di formazione della loro carriera,
prima di diventare maestri d’arte.
- Primo argomento: è impossibile aggiungere qualcosa all’infinito, perché tutto ciò che riceve
un’aggiunta diventa più grande, ma non c’è niente di più grande dell’infinito (come ritiene
Aristotele). Ma d’altro canto il trascorrere di ogni giorno e ogni rivoluzione del Sole fa sì che ogni
rivoluzione del giorno si aggiunga all’infinito. Quindi o è vera l’eternità del mondo oppure
dobbiamo negarla (si mette Aristotele contro Aristotele, reductio ad absurdum);
- Secondo argomento: il Sole compie un’infinità di rivoluzioni, ma la Luna ne compie un’infinità
maggiore (12 a volta). Quindi avremmo una infinità maggiore di un’altra;
- Altro argomento: non si dà un infinito in atto. È impossibile per un principio contenuto nella Fisica
che l’infinito si dia in atto. Ma se poniamo il mondo come eterno, dal momento che questo non può
esistere senza uomo, essere finito, allora dovrà essere esistita un’infinità di uomini, ma per quanti
sono stati gli uomini altrettante sono state le anime razionali, dunque è esistita un’infinità di anime
razionali. Sono forme incorruttibili e immortali e dunque esistono oggi un’infinità di anime razionali;
- Altro argomento: o esiste un’anima per tutti oppure la trasmigrazione delle anime. Il primo è un
errore filosofico, perché l’anima è la perfezione di uno e non di un altro, nemmeno secondo
Aristotele, e il secondo è ancora più grave (monopsichismo confligge con idea della responsabilità
individuale). Ogni corpo ha la sua perfezione di sinolo, forma e materia.
Noi abbiamo conosciuto Bonaventura nella deduzione degli errori Aristotelici (era già più maturo). Ma
Bonaventura non è sempre stato così accanito contro Aristotele e la filosofia in generale. Mentre
l’intervento giovanile è intorno agli anni ’50, ora guardiamo a due opere degli anni ’70. Lui ha cambiato
atteggiamento nei venti anni in cui è esploso il dibattito sull’unità dell’intelletto e sull’eternità del mondo. Ci
sono professori di filosofia che sono Aristotele redivivo, intrisi di filosofia e spudorati nell’affermare tesi
aristoteliche. “Epistola ad un maestro innominato”, lettera del 1253 in cui Bonaventura parla della filosofia
e si rivolge ad un interlocutore ipotetico; la curiositas, cioè la conoscenza vana non piace a nessuno, poiché
porta l’uomo alla ricerca di una verità che non troverà mai in quanto la traiettoria è sbagliata. Coloro che
rischiano di borbottare questioni puerili sono i filosofi dialettici, che disputano per il gioco stesso della
dialettica, parlano per giocare con le parole senza ricercare la verità al contrario di questo momento storico
in cui si cerca il vero sapere. Critica tipica fatta ai dialettici, che costruiscono ragionamenti sterili di verità
(Alberto Magno nella risposta al suo discepolo se l’era presa con i filosofi di Parigi per questo). Non bisogna
seguire né i discorsi puerili né la curiositas: ma bisogna stare attenti perché quello che inizialmente può
sembrare una curiositas in realtà si può rivelare come un qualcosa che porta alla verità. Come è impossibile
raccogliere i chicchi senza la buccia che li protegge, così non è possibile arrivare alla parola di Dio senza
quelle umane, altrimenti rimane solo il miracolo senza comprensione. La filosofia in quanto linguaggio
umano può aiutare la fede in questo caso: e la verità è unita alla pula, cioè la buccia del chicco. Rimando
alla cautela. Se uno vuole studiare gli eretici per contraddirne le tesi, è un modo indiretto per raggiungere la
verità ed è da buon cristiano. Molte questioni di fede non si possono risolvere senza filosofia! È lecito
studiarla perché alcuni filosofi hanno aiutato a chiarire le verità di fede. Funzione ancillare della filosofia
rispetto alla fede. In questo senso non è un sapere vano né curioso: rischieremmo di bollare come curiosi
anche i padri della Chiesa se manteniamo un atteggiamento troppo rigido. Gli ebrei che portano via i vasi
agli egizi sono come i teologi che fanno propri i concetti filosofici per farli propri in ambito religioso.
Atteggiamento molto aperto da parte di Bonaventura che mette in guardia rispetto a un atteggiamento
troppo rigido: se buttiamo via la filosofia buttiamo via tutti coloro che hanno consentito il rafforzamento
della comprensione della fede. Negli anni ’70 il tono di Bonaventura cambia completamente. Conferenza
del 1272 riguardo ai doni dello Spirito Santo, atteggiamento diverso di Bonaventura nei confronti della
filosofia (nel frattempo è scoppiata la discussione tra fede e filosofia). Gran cosa è la prima luce cioè la
filosofia agli occhi dei mondani, ma si oscura se l’uomo pecca. Stoltezza che ritroviamo anche in Boezio di
Dacia: teologi erano stolti se volevano dimostrare razionalmente argomenti della fede. Geremia, stolto è
divenuto l’uomo nella sua scienza. Pagina di Pietro de Giovanni Olivi, rapporto francescani e sapere: scienza
dell’uomo nei confronti del sapere di Dio è stoltezza, e Dio ha reso possibile qualcosa che per la scienza
umana è impossibile (Pier Damiani, rapporto dialettici e anti dialettici). Filosofia è sapere pericoloso che
porta alla presunzione: è stolto chi va con la candela per illuminare il cielo e il Sole. Incommensurabilità tra
uomo e Dio, che illumina intelletto umano. La filosofia da sola non può raggiungere certe verità. Intervento
di Dio è sempre necessario.
Lettura antologica dal De aeternitate mundi di Tommaso: riguardo alla distinzione ontologica e temporale
del mondo, questo è un tema recuperato anche da san Tommaso. In sostanza questa lettura esemplifica
quello che abbiamo detto, cioè che il concetto di creatura eterna non è contraddittorio per Tommaso. È un
testo in cui egli diventa particolarmente critico nei confronti dei teologi conservatori francescani che lui
chiama i mormorantes, cioè quei maligni che spargono veleno negli angoli dell’Università di Parigi e che
non hanno studiato a fondo la filosofia. Bonaventura se la prende con Tommaso, Tommaso con i
conservatori, il vescovo con i filosofi come Boezio di Dacia, Grossatesta contro i moderni. Tutto questo in
una comunità di studiosi in fermento che aggiornano continuamente il metodo confutatorio. Tutto si gioca,
per Tommaso, nel concetto di una creatura eterna: se essere creato da Dio ontologicamente e non avere al
tempo stesso un principio di durata siano una contraddizione insieme o meno. Che non si contraddicano si
dimostra così: ci può essere contraddizione solo per uno di questi due motivi, ovvero per tutti e due
insieme; o perché è necessario che l’agente preceda l’effetto, oppure perché occorre che il non essere
preceda l’essere nel tempo. Non è necessario che Dio abbia preceduto il tempo ed è lo stesso discorso che
fa Boezio. Nessuna causa che produce immediatamente il proprio effetto, deve necessariamente precedere
nel tempo il proprio effetto (concetto di causalità simultanea). Il calore è tutt’uno con il fuoco dal punto di
vista della durata: rimanda a considerazioni già viste in Boezio. Tommaso e Boezio però sono diversi nel
rapporto tra filosofia e teologia. Dio è una causa che produce immediatamente il suo effetto: ma perché?
Perché Dio possiede una volontà che trascende quel tipo di ragionamento che ci porta in maniera discorsiva
a fare considerazioni e passaggi logici che impiegano del tempo. Noi abbiamo una volontà che si pone una
serie di questioni. Dio è semplice in assoluto, atto puro. Non è contrario alla ragione porre una causa che
produce immediatamente un suo effetto nel tempo. Probabilmente Boezio quando formulava i suoi
argomenti aveva in mente le argomentazioni di Tommaso; non a caso non fanno parte della solutio ma
degli argomenti a favore dell’eternità. Il concetto di creatura eterna per Tommaso è possibile, quindi non è
contraddittorio. I teologi philosophantes sono quelli che non prendono seriamente la filosofia, e poi ci sono
i mormorantes. Esistono autori e filosofi che anche se professano l’eternità del mondo filosoficamente,
riconoscono che il mondo è stato creato da Dio. Tommaso rimprovera ai francescani di essere stolti dal
punto di vista del ragionamento perché non hanno inquadrato bene il concetto di natura eterna e di essere
superficiali nei giudizi ai propri contemporanei. È vero che ci sono filosofi che riconoscono l’eternità del
mondo, ma sono gli stessi che professano per fede la verità della creazione e i teologi non si applicano a
sufficienza questo atteggiamento di chi gli sta di fronte. Quelli che tanto sottilmente la percepiscono
(ironicamente) sono uomini in senso pieno perché usano la ragione e con loro soltanto nasce la sapienza.
Nelle ultime pagine dell’opera di Boezio si dice che i filosofi sono i sapienti del mondo, frase condannata nel
sillabo. Tommaso dice che gli unici sapienti del mondo sono coloro che dicono che la filosofia sbaglia.
Boezio scrive un opuscolo del tutto originale e non scimmiotta Tommaso: non si limita a recuperare il testo
di Tommaso, ma è originale per le osservazioni che lui fa riguardo al rapporto tra verità di fede e verità
filosofica per giustificare un doppio metodo per approcciarsi alla verità. Leggere testo su Moodle!