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ERACLITO
ELA CIVILTÀ
MEDITERRANEA
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personalità, tentativi di incontri e di fusione spirituali tra Occidente
e Oriente?) . Le vie del pensiero posseggono loro particolari dimen
sioni temporali e spaziali, che certo non possono essere commisu
rate dai nostri spazi e dai nostri tempi, numericamente e matema
ticamente tracciati.
Sono persuaso infine che la mia seppure organica « dilatazione »,
che forse solo ai puri eruditi può sembrare dispersione, ha un suo
contenuto oggettivo certamente valido (compendiato naturalmente
in calce da opportuni richiami bibliografici e da citazioni di brani
chiarificatori) e che quindi presenti una sua logicità, un suo filo
conduttore che debba essere preso in considerazione da chi volesse
approfondire più accademicamente i rapporti tra Occidente e
Oriente.
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INTRODUZIONE
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chissime divinità preariane, continuarono e continuano ancor oggi
ad essere oggetto di culto.
Impossibile, anzi assurdo, per il naturale integrarsi delle civiltà,
porre delle nette linee di demarcazione. Si sa tuttavia che il mito
dell'arianesimo è stato ridimensionato dalla scoperta della prece
dente civiltà minoico-cretese e si riconosce che l'apporto di que
st'ultima è stato di notevolissima portata .
Quelle due civiltà potrebbero anche essere prese a simbolo di due
diverse e complementari forme mentali umane: complementarità
che, ad esempio, i mistici tedeschi esprimerebbero col binomio
« senso e ragione ». E se noi ci atteniamo alla polemica che Eraclito
e Parmenide conducono contro la cultura della loro epoca e che
costituisce in fondo il Ieit-motiv della loro problematica, dovremmo
proprio concludere che quella complementarità era già stata spez
zata attraverso l'almeno parziale ripudio del primo termine, ridu
cendo così la Ragione, isolata dal suo contesto psichico-sensitivo e,
diciamolo pure, mistico, ad un'espressione mentale fine a sé stessa,
quindi monca, perché privata del nutrimento di quella fonte in
definitiva inesauribile che è la Vita ( « l'inesauribile semenzaio »,
direbbe G. Bruno) . E Pirandello, il greco redivivo : « La Vita è il
vento, la Vita è il mare, la Vita è il fuoco : non la terra che si
incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte » .
Credo opportuno definire una tale Ragione, depotenziata e isteri
lita, fine a sé stessa, col termine di Raziocinio.
Dobbiamo ammettere ad ogni modo che la forma mentale della
prima civiltà mediterranea, non fosse raziocinante, ma prevalente
mente sensitivo-mistica e non è fuori luogo affermare con Lao-tse
« ... se esiste una forma, esiste un nome. Gli antichi possedev�no
questa forma, questo sapere, questo nome, ma non lo mettevano in
primo piano ».
Intendiamoci bene. Una tensione infinita è in noi ( « la caccia al
l'Essere », direbbe Platone), verso un Infinito che è fuori di noi
( « io mi sforzo di ricondurre il divino che è in me, al divino che
è fuori di me ) ) , direbbe Platino) che come tale si rifiuta di essere
esaurita entro schemi o definizioni soggettivi (Raziocinio) .
I più grandi rappresentanti di questi popoli, pur riconoscendo la
problematicità di una tale distinzione, si nutrivano soprattutto di
sensazioni (non la « sensazione ) ) empiristica) proiettati come erano
verso le luci più profonde della Natura. Nel Rig-Veda indiano si
dice a proposito dei grandi illuminati dell'antichità (i famosi
Rishis), « Indi essi videro la luce albeggiante del seme antico che
fiammeggia al di là del cielo )) (l'« armonia invisibile ) ) di Eraclito).
'
Essi quindi « videro )) e la stessa « idea >) di Platone, etimologica-
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mente, significa « visione » e non conoscenza (Raziocinio) e Buddha,
« conoscenza, ciò è remoto dal Compiuto. Visione: è questa nel
Compiuto» ed è questa un'esperienza del tutto individuale ( « vi
sione» che è sopravvissuta, vagamente, nella nostra « intuizione ») .
La « visione» integra perciò la sensazione (empito dell'anima verso
l'Infinito e che lascia intatto l'Infinito) non rinnegandola, ma com
pletandola e perfezionandola: essa rappresenta la perfetta sintesi
di « senso e ragione» ( « Das visionlire Gefiihl », « il sentimento
visionario», direbbe lo Jéiel).
Siamo ben lontani quindi dal misticismo quale noi siamo abituati a
considerare: un misticismo cioè intellettualistico, astratto, che avreb
be la sua applicazione a un supposto mondo dello Spirito, distinto
dalla Materia (involuzione e degenerazione dello spirito umano,
apparse più tardi: donde tutte le elocubrazioni di carattere acca
demico), ma si tratta in definitiva di un « indicibile» (éippT)'tOV),
cioè dell'indicibile secondo i normali schemi del Raziocinio, di par
ticolari esperienze individuali, anche se queste possono. essere, so
prattutto sul piano estetico, fonte di sempre rinnovellata creatività.
Il Raziocinio, accantonando la visione dell'Unità, o meglio, la vi
sione delle luci della Natura, finisce col confinarci nel solo settore
del « dicibile», del formale : in tal modo all'Unità infinita della
Natura, sentita come forza « fisica >> (nel senso greco), senza solu
zione di continuità (noi per ricostituire l'unità organica del Tutto,
dopo la dualistica frattura platonica, diremmo « psicofisica») , si
sostituisce la scienza del molteplice, del condensato, del discontinuo.
� certo ad ogni modo che tanto per Eraclito, quanto per Parmenide,
la « caduta» dell'uomo è dovuta alla metodica e inarrestabile af
fermazione nella civiltà umana delle « opinioni» (o6�a) e del
« nome » (ovo(.La), cui si vorrebbe attribuire un valore essenziale
causale. Il taoista Ciuang-tse definirebbe questo tipo di conoscenza
col termine di « mente sofisticata », in contrapposizione alla « men
te naturale».
Possiamo dire che dal giorno del contrasto (forse da sempre?) tra
Anima-Natura (l'Infinito, soggettivamente od oggettivamente inteso)
e la molteplicità formale-fenomenica delle cose sanzionate dal Ra
ziocinio (il Finito, nell'uno o nell'altro senso) , si impose la neces
sità di un reciproco incontro e di una riconciliazione (reintegra
zione della Ragione come strumentalità organica e quindi nello
stesso tempo, « rinascita » dell'uomo).
La civiltà greca, nel suo contenuto più genuino, rappresenta questo
tentativo che consiste in fondo di usare della Ragione proprio come
di uno « strumento» (Ragione « artigiana » ?) per esprimere di volta
in volta l'Infinito visto e intuito. Sorge così il concetto di armonia
greca che potrebbe essere prospettato come uno strumentalismo
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psichico-spirituale. Si potrebbe dire che si tentò il miracolo quasi
assurdo di vincere la Materia, usando della Materia, per ritrovare
quindi la vera Materia, meglio la Natura (la q>v<nç greca che ha un
significato ben diverso dal nostro). Fu questo un mirabile tentativo
che non poteva essere portato a termine, perché in definitiva as
surdo, ma che forse non fu mai ripetuto nella storia umana, se
non, forse, nel Rinascimento italiano.
Intendiamoci: « la luce» unitaria (« fuoco» di Eraclito) non era
stata vista e vissuta in odio alle cose (equivoco del platonismo), ma
attraverso le cose stesse (ilozoismo, tutto è animato ecc. ecc.). Solo
il Raziocinio, questa attività raggrumante, priva le cose della loro
più profonda essenza, facendole solo « cose».
E così possiamo dire che la « luce» delle grandi personalità primi
tive non si spense, ma si rivelò come il pungolo più indispensabile
per la creatività umana (eredità mediterranea ?) .
Dobbiamo allora parlare di una civiltà mediterranea in senso lato,
non circoscritta cioè a un determinato territorio e quale fu, in chiave
psicologica, il contenuto delle esperienze di coloro che soprattutto
sembrano rappresentarla?
I Sensitività dunque e visionarità (« Das visioniire Gefiihl»,
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Per i Naturalisti, la Natura era fluidità inarrestabile (tale è il vero
senso della Natura greca) che non poteva essere conosciuta, pena
la sua disorganica frattura. (V. l'« Isolierung » di Hegel) . « La Na
tura ama nascondersi )), diceva Eraclito. Possiamo dire che essi
sentivano e vivevano le cose, come forze, come energie, per cui
soggetto e oggetto erano fusi assieme, senza distinzione tra inte
riorità ed esteriorità, in un'unica esperienza di vita. Si vuole attri
buire la stessa sensitività sintonica al « dravidismo )) indiano. La
autonoma corporeità astratta e distinta da una supposta e autonoma
spiritualità, indicherà una nuova forma mentale che sorgerà col dua
lismo platonico.
II Mistico, che dal greco p.vnv e dal pitagorico ÉXEP,vllioc si
-
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sua capacità strumentale-interpretativa-magica, abbia spezzato la
sintonia e inaridito la feconda collaborazione tra uomo e Natura,
non credo debba essere messo in dubbio.
Nel platonismo la Ragione viene a trovarsi in uno stato di isola
mento e diventa così Raziocinio. Essa non più considerata come
mezzo, diventa fine a sé stessa: l'espressione formale-razionale, de
caduta dalla sua funzione strumentale-artigiana, pretende assurgere
a valore essenziale capace di esprimere il « Principio >> (IÌPXTJ), il
quale invece per i Naturalisti poteva solo essere visto e interpretato.
Sorge cosi un dualismo, una scissione, una contrapposizione tra
spirito e materia (Platone è lo scopritore della Materia, appunto
perché ha scoperto lo Spirito) e la magica sintonia tra l'Infinito che
è dentro di noi e l'Infinito che è fuori di noi, è spezzata.
Diceva Eraclito che l'anima dell'uomo staccata dalla Natura è come
un pezzo di carbone spento che solo a contatto con la Natura può
accendersi. La polemica dei Naturalisti (Eraclito, Pitagora, Panne
nide) è proprio condotta contro tale frattura, già in atto nella loro
epoca, che spezza il nesso organico (vita che si rinnovella inesau
ribilmente), che lega l'uomo alla Natura.
I - Eraclito. Mette in guardia gli uomini (è il suo leit-motiv) dalla
« presunzione » (v�ptç) di ridurre la vita a sistema formale-razio
nale. Tutto scorre, tutto muta ed ogni affermazione definiente, non
fa che fissare punti di vista solamente parziali, che vengono inelut
tabilmente travolti dal divenire, la cui legge, il cui ritmo, il cui
Logos sono ben più profondi di ogni fonnalità intellettuale. Per
superare il molteplice, pur usando di esso, è necessario superare
la formalità: ecco perché in lui prevale quell'aspetto dionisiaco del
l'anima greca che sente la divinità più come variazione, come lotta,
che come problema di coscienza (la cosiddetta vita dello Spirito! ),
dionisismo che, tuttavia, appunto perché tale, presuppone e postula
l'annonia.
II - Pitagora. I numeri, fine a sé stessi, non sono elementi es
senziali, ma elementi determina tori degli effetti molteplici ( « il nu
mero è le cose », egli dice), che quindi non spiegano i principii, ma
indicano o determinano solo gli effetti. Il numero perciò diventa
« causa » (oct-.ioc) degli effetti, causa che non potrà essere in Dio,
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certezza assoluta dell'incomunicabilità della Verità, giacché l'uomo
sarà sempre vittima della trappola del « nome ) ) (nominalismo, frat
tura semantica) e con Lao-tse « . . . il nome non è che l'ombra della
realtà ... le parole sono come ombre agitate dal vento ) ).
Più che negli altri Naturalisti, il mondo delle cose in Parmenide
sembra vanificarsi nell'Unità. Forse proprio per questo Platino af
ferma che Parmenide e non Platone è il padre del dualismo e il suo
atteggiamento psicologico di abbandono del mondo, dà proprio tale
impressione dualistica : ma in verità egli abbandonava i « nomi ) ),
non il mondo . Ma se le cose per essere il Tutto e quindi veramente
sé stesse, devono dissolversi dai propri limite-nomi, come è possi
bile esprimere tale processo, se proprio il « nome )) è causa della
molteplicità? In che cosa consisterebbe allora l'abbaglio del plato
nismo? e oramai con questo termine intendiamo una particolare
forma mentale. Rispondiamo: nell'avere attribuito un carattere di
essenzialità a quegli elementi che in verità sono solo determinatori
della contingenza, della molteplicità. Ad esempio: la famosa frase
di Pitagora « il numero è le cose ) ) (che è la vera traduzione) , diventa
nel platonismo « il numero è l'essenza delle cose ) ) : il « nome ) ) di
venta conoscenza vera delle cose: gli �'ltEOC xoct Epyoc (letteralmente
« parole e azioni )) . Per una più probabile interpretazione V. Nota
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I Capitolo
ERACLITO E IL LOGOS
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zione e la bellezza ( 5). Furono personalità grandissime che vissero
l'una accanto all'altra, estranea l'una all'altra.
Tale esclusivismo dunque troppo spesso ci mette fuori strada nella
ricerca di un'unità di pensiero nel mondo mediterraneo (6) . Gli è
che questi filosofi erano alieni da ogni processo logico-sistematico
che poteva forse sembrare loro un'attività che defraudava della sua
più profonda essenza, la realtà vera delle cose intuita attraverso
esperienze del tutto personali e incomunicabili, vissuta con diretta
spontaneità. Né dobbiamo dimenticare il senso chiuso della « polis »
ed entro la stessa « polis » quel tradizionale, pudico e aristocratico
istinto a creare confraternite a cui solo individui eletti e illuminati
potevano partecipare: ed era già questo un concedere molto all'opi
nione pubblica, perché spesso, come nel caso di Eraclito e di Par
menide e più tardi nello stesso ambiguo comportamento di Socrate
di fronte ai propri concittadini, si preferiva vivere nella solitudine
della propria incomunicabile esperienza (7).
La stessa ironia socratica del resto, se ben pensiamo, non era altro
che un modo di preservarsi dall'opinione pubblica . Socrate scelse
l'ironia per la stessa ragione per cui Eraclito aveva scelto la soli
tudine e Pitagora il silenzio. Né le accuse mosse a Socrate e il suo
conseguente processo valsero a fargli svelare la sua verità, forse
perché appunto egli la sentiva incomunicabile e così attorno alla
sua personalità venne formandosi quell'atmosfera di aristocratico
pudore che tanto lo rendeva simile ai Naturalisti. Sembra alle volte
di trovarsi dinnanzi alle stesse grandi personalità, che preferivano
vivere in solitudine, delle Upanishad indiane.
Tale pudore dei propri sentimenti è forse l'eredità più spirituale di
una razza sensitivamente aristocratica che rifuggiva dalla democra
ticità delle dimostrazioni e delle definizioni prese fine a sé stesse
(Raziocinio), perché sentite, forse, come elementi deformatori della
Verità. Perciò se quei filosofi si rivolgono con le loro parole agli
uomini, essi lo fanno non tanto per comunicare la propria verità,
quanto piuttosto perché gli uomini sembrano essersi definitivamente
messi fuori strada nel prospettare il problema del Vero. E questo è
evidente anche in Socrate. Un'eccezione forse presenta Platone, in
quanto egli (non sempre tuttavia) forse si illuse (in tal caso illu
sione forse perdonabile) che la razionalità presa fine a sé stessa
(non magico-artigiana quindi) non fosse uno strumento di deforma
zione, ma di comunicazione veritiera .
Eraclito dunque si presenta a noi come colui che avendo, quasi per
dono divino, ricevuto una rivelazione, in modo sinteticamente ed
enigmaticamente lapidario vuole farlo sapere agli uomini.
Ma non dice in che cosa consiste questa verità: egli vuole sempli
cemente dire agli uomini che sino a che essi si affideranno solo alle
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« parole » in sé stesse (i « numeri » di Pitagora fine a sé stessi),
non saranno mai nella verità e non potranno mai esserlo. Cosicché
nel primo frammento, invece di spiegare che cosa sia il Logos, pre·
ferisce subito affermare che gli uomini ne saranno sempre inconsci,
anche se questo Logos hanno conosciuto, perché, possiamo aggiun
gere noi, abituati a misurarlo con un metro inadeguato, anzi ne
mico (Raziocinio) (8).
Quest'ultima affermazione che l'uomo cioè non riesca a pervenire
alla conoscenza del Logos sia che non l'abbia appreso, sia subito
dopo che l'abbia appreso, può apparire paradossale a noi che siamo
soliti attribuire a quei filosofi naturalisti ancora una mentalità fan
tastica non pervenuta alla chiarezza razionale del pensiero. Indi
vidui quindi estremamente sensitivi, ma razionalmente immaturi (9) .
E ad ogni modo certo che per essi la verità più profonda delle cose
non poteva essere raggiunta per un procedimento intellettuale-logico,
ma poteva essere vissuta e vista solo attraverso esperienze partico
lari ed eccezionali dove si realizzava quell'indistinzione tra sog
getto ed oggetto al quale nessun procedimento logico avrebbe po
tuto portarci : ed era proprio in questa e attraverso questa indistin
zione che l'uomo poteva sentirsi enormemente potenziato dalle forze
più vive che liberamente in lui affluivano ( 1 0).
Come deve essere allora inteso il termine Logos in Eraclito? Noi lo
traduciamo spesso con « Ragione ». Ma è proprio questo termine
come noi normalmente intendiamo che ci mette fuori strada. A parte
il fatto che noi non sappiamo in definitiva cosa sia questo benedetto
Logos ( 1 1 ) (visionarità?) per noi « Ragione » (non nel senso stru
mentale-magico-artigiano che io intendo), significa sempre soggetti
vità ed interiorità (il cosiddetto mondo dello spirito), cui si contrap
pone un'oggettività e un'esteriorità ( 12); contrapposizione che si
risolve sempre in formulazioni statiche e dogmatiche che finiscono
coll'irrigidire la vita in vuoti schemi.
Ma in fondo tutto il complesso di forme e di leggi che per noi vor
rebbero esprimere l'essenza prima e causale delle cose, per Eraclito,
per Parmenide in particolare, per i naturalisti in genere non si
riduce altro che a un semplice « nome » (ovo(.la. di Parmenide, cioè
« illusione »: qui ha proprio il significato della miiyii indiana) . E a
questo punto non posso non richiamare l'impressionante affinità tra
il primo frammento di Eraclito e l'inizio del Tao-te·king di Lao
tse ( 13).
« Ragione >> è, in poche parole, la più grossa eredità !asciataci dal
platonismo. Ma Eraclito è un « fisico », non un teorico o un teo
logo. In lui non poteva esserci neppure un abbozzo di rottura della
unità fisica della Natura che avvenne solo col platonismo e quindi
non poteva esserci una contrapposizione dualistica di spirito e ma-
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teria, di soggetto e oggetto (14). Eraclito combatte contro ogni pos
sibile dogmatica riduzione e quindi contro ogni possibile distinzione
che trova la sua origine, secondo lui, nella « presunzione» da cui
il trionfo dell'individualismo che è evidentemente il nemico dichia
rato di ogni universalità.
Fu già osservato e giustamente, che tutta la filosofia e la polemica
di Eraclito non si fondano sulla contrapposizione di spirito e ma
teria, ma piuttosto di particolare a universale ( 1 5) : cioè da una
parte una legge universale della Natura che sempre e ritmicamente
realizza i suoi piani, volenti o nolenti gli uomini ( 1 6), dall'altra le
particolari leggi umane, prodotto arbitrario e innaturale della pre
sunzione.
In Eraclito perciò non potrà ancora apparire la condanna della Ra
gione come noi normalmente intendiamo, perché Platone non era
ancora apparso ( 1 7 ), né quindi la razionalità aveva acquistato quel
particolare significato di essenzialità causale che le è peculiare, ma
in lui vi è piuttosto la condanna di quel particolare stato d'animo
umano (presunzione) che la legge razionale più tardi avrebbe con
validato e ontologizzato: potremmo allora dire che la razionalità
in quanto teoria che presuma definire, non è altro che il prodotto
dell'orgoglio umano, da cui l'antropomorfismo e il dogmatismo ( 1 8) .
La presa di posizione radicalmente polemica di Eraclito contro il
trionfo dell'individualismo, ci dà la sensazione viva dell'uomo de
solato dinnanzi a una metodica e sempre più diffusa deformazione
spirituale dell'umanità, che dal senso vivo e palpitante della Vita
andava sempre più rinchiudendosi in un egocentrismo forse già da
lungo tempo in gestazione. Nei Naturalisti in genere, in Eraclito in
particolare, c'è potenza e desiderio di Vita, non paralisi di Vita
attraverso le sistemazioni formali (« vitalismo» di Joel).
Come tradurre allora il termine Logos? Al termine « Ragione»,
sostituirei una espressione, forse più elementare, ma più concreta
ed oggettiva che pressappoco possa corrispondere a « linguaggio del
la Natura» : senso e anima delle cose, magia delle cose e della
Parola e forse, al limite, suono particolare della Parola e della
Voce, quale dovrebbe apparire nella pronuncia del monosillabo OM
della filosofia indiana.
Ottima mi sembra l'interpretazione dello Snell « Die Sprache
Heraklits» - Hermes 1 926) a proposito del Logos: « Ed ora noi
arriviamo al tanto discusso problema dell'interpretazione eraclitea.
Come deve essere intesa la frase che sta all'inizio dell'opera di
Eraclito: questo Logos gli uomini non comprendono. La domanda
se questo Logos significhi parola o significhi legge, è naturalmente
mal posto. In verità il Logos ha un significato che nella lingua te-
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desca non può essere certo espressa con un solo termine. Nel tra
durre, noi dobbiamo fare una scelta tra parola e legge: malgrado
ciò sarebbe necessario chiarire il significato unitario di tale espres
sione.
Logos è certo una parola, ma in quanto piena di senso. « Il dire »
(AÉyEw) significa : intendere qualcosa. E come in tedesco noi non
vogliamo solo dire: - io penso qualcosa, per esempio di questo
fatto o di questa cosa -, ma vogliamo anche nello stesso tempo
dire: - il fatto significa questo o quello -, così non è soltanto il
discorso dell'uomo in quanto dà un senso, ma è anche il senso che
è nella cosa, che a noi parla e per cui la cosa è piena di significato ...
si comprenderà cosi come Logos abbracci non soltanto la parola,
ma anche il senso. E questo senso diventa una cosa visibile. A6yov
�ov"t'a À.ÉyEL'V si dice tra i Greci. Esprime cioè un senso che è qui
avanti a me, che veramente esiste. Noi tradurremmo : dire qualcosa
di vero » (pag. 365). La traduzione approssimativa è « esporre la
ragione come veramente è » e, in modo più accessibile, « come
vanno veramente le cose ».
Il Logos di Eraclito è pieno di contenuto oggettivo, non è ancora
vuota formula soggettiva: non è soltanto la parola dell'uomo, ma
è soprattutto la parola della Natura: come del resto il numero pita
gorico non è ancora formula soggettiva, ma la realtà è numero e
viceversa.
Si potrebbe esprimere la differenza che c'è tra il Logos eracliteo e
le « opinioni » individuali con la stessa differenza che c'è tra il lin
guaggio artistico e le categorie filosofiche o le leggi scientifiche
(Schelling?). Nell'arte, nella poesia, nella lirica, non si tratta tanto
della parola dell'uomo che definisce ed esprime, quanto piuttosto
della parola della Natura che a noi parla e che a noi comunica la
sua verità. « La filosofia della Natura è qualcosa di più della descri
zione della Natura: essa è il senso della Natura » (Snell : pag. 1 3 ,
op. cit.) . I n tal caso l'uomo quasi inconsciamente esprime la voce
della Natura : è la Natura che parla per bocca dell'uomo, come se
questi fosse solo uno strumento. Si tratta quasi di un linguaggio
medianico.
Nella produzione artistica non c'è ancora posto per il giudicare, il
riflettere: ma è un sentire, un avvertire è un essere tutti gli aspetti
più vari della Natura, che in tal modo si trasmuta in parola, in mu
sica, in suono (appunto l'OM indiano): tanto più perfetta è l'opera
d'arte, quanto più essa è spersonalizzata, quanto più l'uomo sembra
uscire da sé stesso, per essere la Natura, per essere la vera voce
della Natura ( 1 9). In questo senso di compartecipazione con le cose,
in questa miracolosa indistinzionè di soggetto e oggetto, in questo
« donarsi ) ) non c'è ancora posto per la « presunzione » che vuole
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definire ed è fuori dubbio che il dolore, l'ira di Eraclito sono rivolti
contro il pericolo incombente di uno scientismo umano (Raziocinio)
che avrebbe offuscato il senso lirico della Vita e della Natura (20).
Tutta la differenza tra il suo Logos e le opinioni individuali, sta
appunto nella pretesa di questi ultimi di definire la verità. Sotto
questo punto di vista Eraclito intese certo il numero pitagorico : cosi
pure devono essere intese « le parole e le azioni >> del suo primo
frammento che nettamente si contrappongono all'universalità del suo
Logos ( 2 1 ) . Infine tale significato sarà ancora più accentuato nel
« nome » di Parmenide (22). Tutte queste definizioni nell'atto in
cui si pongono, si staccano e si isolano dal Tutto sino a svuotarsi
della sostanza più vitale della Natura (23) . Paradossale poi sarebbe
parso ad Eraclito lo sviluppo più spinto della « presunzione » uma
na, qualora essa fosse arrivata al punto di affermare che quella
astrattezza soggettivistica esprimeva la causalità determinatrice del
le realtà naturali .
Eraclito ebbe forse solo la previsione d i una simile soluzione para
dossale, ma non ebbe il modo di constatarla direttamente. La con
danna che egli fa delle « opinioni » è una condanna che si limita
al campo morale.
Possiamo dire che sino a questo punto vi sia un perfetto paralle
lismo tra la filosofia occidentale e la filosofia orientale, in quanto in
ambedue si condanna un particolare atteggiamento morale dell'indi
viduo, da cui sarebbe sorta un'errata impostazione del problema
della conoscenza umana (che quindi per Buddha è in verità « igno
ranza ») : atteggiamento morale che in Occidente, coll'apparire del
platonismo, sarebbe stato, a differenza della filosofia orientale, on
tologizzato (24).
I n poche parole: il senso della definizione razionale-causale, non
può essere concepito dai filosofi naturalisti : ogni definizione rappre
senta sempre e solo un punto di vista individuale, che, svolgendo
un'opera di riduzione antropomorfico-geocentrica, pone l'uomo fuori
dalla Natura. E forse che la polemica di Eraclito non è proprio por
tata in ogni settore contro tutte quelle espressioni della cultura che
avevano solo un valore geocentrico, pretendendo di assurgere a va
lore universale? E forse che allorquando Aristotele più tardi si af
frettò, nella sua polemica contro Platone, a riportare l'idea nelle
cose in quanto espressione di molteplicità e non del « Principio » ,
non segnò un ritorno al Naturalismo? (25).
Il primo frammento di Eraclito, secondo me, va proprio inteso in
questo senso: affermazione di una Verità universale e naturale, in
nessun modo riducibile a razionalità soggettiva (idee, categorie,
leggi = Raziocinio) che presuma definire secondo verità (26), pro
prio con quelle umane misure conoscitive che hanno solo e sempre
22
un significato astratto e individualistico (origine dell'opinione e
dell'illusione).
Il primo frammento lo tradurrei così : « Di quel Logos che è reale
(e a cui io mi riferisco) gli uomini sono sempre inconsapevoli (non
possono avere conoscenza, non possono dire " Io so") sia prima di
averlo appreso (udito) e sia subito dopo averlo appreso (udito).
E per quanto ogni cosa avvenga secondo questo Logos, tuttavia
gli uomini ne sono inesperti, anche se tentano di comprenderlo pro
prio attraverso quelle " parole e quelle azioni" con le quali io vado
esponendo e descrivendo ogni cosa secondo la (sua) reale natura
e dicendo veramente come è. Gli uomini infatti sono inconsa
pevoli di ciò che fanno da svegli, come di ciò che hanno fatto di
notte » (27) .
� evidente anzitutto il contrasto tra Logos e « parole e azioni ». Il
Logos è la parola della Natura, piena di senso e di vita, le « parole
azioni >> umane sono la semplice riduzione individualistica della Ve
rità (antropomorfismo). Intendiamoci: non che « le parole e azio
ni », non contengano in sé, quasi magicamente, il Logos, perché in
un modo o nell'altro, volenti o nolenti gli uomini, tutte le cose vi
vono secondo questo Logos: ma attraverso le loro astrazioni indi
vidualistiche (« opinioni » al posto di Logos) gli uomini hanno pri
vato di ogni contenuto reale i fatti e le parole di chi comunica la
Verità (Eraclito in questo caso), proprio mediante quelle stesse pa
role e quegli stessi fatti . Chiaro a questo proposito il framm. 1 7 :
« Non si rendono conto i più di che natura sono le cose i n cui si
imbattono, né le riconoscono quando ne hanno esperienza, ma se le
formano conformemente a sé stessi ». Questo frammento è una
perfetta chiarificazione del primo. Da un punto di vista semantico
potremmo dire che il rapporto vivo e concreto tra il « significato »
e il « significante », la parola cioè, non esiste più (28). Il passaggio
dalle « parole e azioni » al « nome » di Parmenide è oramai maturo.
Gli uomini quindi non sanno più afferrare attraverso le parole e i
fatti, la Parola stessa e la stessa vita della Natura. Perciò il Logos
può diventare « parola » e « la parola » Logos a seconda come li
si interpreta: cioè come fine a sé stessi o come mezzi per una Ve
rità più alta.
� evidente che la conoscenza come fine a sé stessa darà luogo a
quella « erudizione » ('!toÀ.v!J.a.i}ia.) che in verità ha come presuppo
sto la presunzione-ignoranza, che ci estrania dalla vera realtà delle
cose: come mezzo invece ci fa penetrare nel settore della magica
armonia universale, che è la sostanza prima delle cose oltre la
loro apparenza. Sotto questo punto di vista, devono essere in
terpretate nella filosofia indiana (V. soprattutto il Bagavad-Gita)
le due differenti « maya » . Si ammette infatti accanto a una
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« miiyii umana » che esprime la conoscenza illusiva della realtà (la
« opinione » greca) che in tal modo è vista e snaturata come attra
verso un velo opaco, la possibilità di una « miiyii di\'ina », cioè di
sapere vedere oltre l'apparenza delle cose, in cui cade sempre la
falsa conoscenza umana, la loro vera sostanza. Potremmo noi dire:
sapere vedere le cose in trasparenza.
Ciò che è veramente più concreto e più potente in Eraclito è la in
visibile armonia, unità nella molteplicità « fuoco eternamente vi
vente » , sotto e attraverso tutte le cose. Altrimenti « le parole e le
azioni >> nella loro astrattezza ci porranno all'opposizione del rea
lissimo Logos e diventeranno nomi vuoti e convenzionali, per cui
giustamente si può già parlare di un nominalismo in Eraclito (29).
Ciò che certamente doveva avere negativamente colpito Eraclito, è
quel processo del linguaggio per cui la parola da « fisica », diventa
« logica >>, perdendo così quella funzione magica di « richiamo »
(cri'j(.la) di indicazione e di comunicazione con una verità naturale
più vasta che così si isola e si raggruma in sé stessa. Eraclito ha
fatto anche della filologia semantica: il termine ��oç, ad esempio,
che noi traduciamo con « vita », originariamente, egli dice, signi
ficava « arco », dove è espressa tutta la dinamica tensione vitale
che una traduzione convenzionale può snaturare (30), e si potrebbe
anche arrivare ad ammettere, come per l'indiano OM, che la stessa
pronuncia del termine greco �loç esprima un magico vitalismo.
La parola dovrebbe veramente trasmettere uno stato fisico, o, meglio,
psicofisico : dovrebbe essere magica: non deve definire ma « indi
care » (CT1](..LC1tVEW). Se per esempio �i'jv, vale quanto �Ei:v (3 1), cioè
« vivere >> quanto « bruciare », allora tale termine dovrebbe, magi
camente, captare, trasferendola in noi, la vita, proprio come ardore.
Se Dio-Zeus, originariamente significa « luce », proprio come luce
che abbaglia, noi dovremmo vederlo e viverlo (32) . La frattura se
mantica tra significante e significato ci esclude veramente dalla vera
vita delle cose e quindi dalla vita di Dio. Giustamente dice perciò
lo Snell : « Eraclito voleva distruggere i nomi e con questo la me
schina concezione del divino che era legata al nome . . . cosl Eraclito
cerca di superare il linguaggio come datore di nomi » (op. cit . :
pag. 368) . (Noi forse preferiremmo dire: Eraclito volle distruggere
la falsa interpretazione che gli uomini danno del nome).
La parola allora, se viene meno alla sua funzione magica, diventa
come un carcere e da crfj(..LC'l, che significa « segno », « indizio », di
venta CTW(..Let che significa « corpo >> (interpretazione filologica di
Eraclito) (33). Essa è come se andasse metodicamente cristallizzan
dosi e condensandosi sino a diventare materia . E allora la Vita non
fluisce più di cosa in cosa e al suo posto vanno sostituendosi, inerti
24
e isolate, le cose contro le cose. Ci si chiude al flusso della Vita e
perciò si tronca la nostra esistenza. Ci si rinnega alla possibilità di
espandersi, di diventare qualcosa d'altro, oltre la nostra stessa forma
presente; di transumanarsi, di essere forza viva, come le forze vive
della Natura.
Meravigliosa è in questi Naturalisti, greci o orientali, la capacità di
sintonizzarsi con la vita della Natura. Essi partecipavano, dilatan
dosi alle forze più segrete delle cose. Acqua, etere, aria, fuoco: tutti
magici e dinamici strumenti di questa sintonia cosmica. Dilatazione,
espansione, mutazione, era spiritualità, perché era vita, sempre più
vita: condensazione era materia, perché negazione della Vita (sotto
questo punto di vista quanta affinità con la filosofia indiana, soprat
tutto con lo shivaismo ! ) . Essi sentivano che nell'atto stesso in cui
si definisce, fisicamente sentivano, che l'infinito della Natura subiva
come una caduta di potenziale e la potenza incommensurabile della
« invisibile armonia » ( « L'invisibile armonia è più potente della
visibile armonia », dice Eraclito) metodicamente e quasi insensibil
mente, si trasmutava, condensandosi, in materia. Essi possedevano
un sesto senso (Nietzsche dirà: « il mio genio sta nel mio fiuto » ) .
Ma la gran massa degli uomini aveva ormai perduto questo senso
ed Eraclito perciò dirà loro: siccome voi non comprendete più il
vero significato della Parola (34), voi non potrete più neppure
comprendere il vero senso delle mie parole. Non è che le mie pa
role non contengano la Verità e così pure tutte le realtà naturali in
cui voi vi imbattete, ma voi, oramai, non riuscite più ad afferrare
le verità che sono contenute nelle mie parole e nelle cose, oltre la
loro parvenza esteriore.
La verità perciò passa su di voi, ne venite a contatto e perciò in un
certo senso l'apprendete, ma non lascia nessun segno in voi e per
ciò non l'apprendete. Voi siete come in uno stato di continua cata
lessi: dormite nel sonno e dormite nella veglia. Voi siete delle « ani
me barbare » e nulla potrà mutare la vostra congenita barbarie.
Siamo sullo stesso piano di Matteo quando affermava « ... udirete
senza dubbio con i vostri orecchi, ma non intenderete; mirerete
certo con i vostri occhi, ma non vedrete, perché crasso è il cuore
di questo popolo . .. » ( 1 3 . 1 4-1 5).
� evidente in Eraclito una presa di posizione sdegnosamente soli
taria. Certo esistono anche le anime « non barbare » , ma a queste
non è necessario insegnare nulla, perché innata è in loro quella
visione dell'universale, quella cpp6vr}<r�ç (« intuizione » ?) che carat
terizza l'aristocrazia degli spiriti e che nella massa diventa to(.cx.
cpp6'll'l'}<r�ç. « conoscenza volgare » o comune, che potrebbe essere
tradotta semplicemente con Raziocinio (35), oppure anche con « opi
nione », purché questo termine non venga accolto secondo il nor-
25
male significato che ad esso attribuiamo. Per noi infatti « opinione »
è quella forma di conoscenza che si riferisce (dopo la dualistica
frattura platonica di un mondo dello spirito contrapposto a un
mondo della materia) , al mondo esterno, al mondo della sensibilità.
Per Eraclito invece si dà origine all'opinione, quando, attraverso un
giudizio solo soggettivo, viene spezzato e dualizzato quel Tutto or
ganico che è fusione di soggetto-oggetto, uomo-Natura, spirito-ma
teria : ci si estranea così dal « naturalismo » la cui essenza esprime
tale organica simbiosi.
Parmenide ha lo sguardo molto più limpido e sereno di Eraclito:
dirà semplicemente che tutte le conoscenze degli uomini, i loro
« nomi » non saranno altro che « illusioni ». Certo noi commet
26
Note del capitolo I
(3) V., tra l'altro, il framm. 40: «Polimatia ("erudizione") non inse
gna ad avere intelligenza: altrimenti l'avrebbe insegnata ad Esiodo,
Pitagora a Senofane e a Ecateo». Per quello poi che riguarda i più
supposti che reali contrasti tra i filosofi naturalisti, il Gigon O. ( «Der
Ursprung der griechischen Philosophie », Schwabe, Basel, 1945) dice:
« La sistematica platonica ha posto Eraclito contro Parmenide come
27
(5) V. Bodrero ( « Attualità dei filosofi classici », a cura di Guzzo) « Ci
colpisce dunque come tutti indistintamente i fisici presocratici assumano
un tono grandioso di iniziati e un atteggiamento sprezzante verso i pro
pri lettori )) (pag. 46).
(6) Veramente degna di nota sotto questo punto di vista l'opera già ci
tata del Gigon per il quale non esistono nei presocratici , quelle diver
genze che noi siamo soliti mettere in evidenza.
(7) Diogene a proposito di Eraclito ( IX, 6) dice: « Eraclito depose il
suo libro nel tempio di Artemide avendo cura di scriverlo in forma
oscura, affinché si accostassero ad esso soltanto coloro che erano in
grado di intenderlo e il libro non cadesse in disprezzo per la sua popo
larità ». E Clemente (Strom 5, 1 91): « Ma la profondità della cono
scenza nascondere è una savia diffidenza, poiché mediante questa dif
fidenza si sfugge al destino di venir scoperti » . Che inoltre si avesse
timore di persecuzioni religiose è anche cosa probabile. � inutile ricor
dare a questo proposito le vicende del pitagorismo.
(8) V. qui l'interpretazione del Gigon, per il quale è netta l'antitesi tra
quello che gli uomini conoscono (scienza dell'individuale) e l'ineffabile
pienezza divina (logos universale). « Un elemento fondamentale è il
contrasto tra la divinità e l'umano... Si tratta sempre del contrasto tra
pienezza divina e nullità umana )) (pag. 204). V. anche del resto Brecht
( « Heraklit » , Karl Winters Universitlitbuchhandlung, Heidelberg,
1936): « Ciò che Eraclito fattivamente fa, in quanto dichiara l'impos
sibilità di Dio, è in verità pressappoco l'ammutolimento di Plotino din·
nanzi a Dio ... » (pag. 22).
(9) Propendo a seguire piuttosto la interpretazione naturalistico-mistica
dello Joel (V. in particolare: « Der Ursprung der Naturphilosophie aus
dem Geiste der Mystik » dal (( Programm zur Rektoratsfeier der Uni
versitlit Basel », Basel). Per lo Joel il sentimento mistico (das Gefiihl)
che è caratteristico dei mistici naturalisti, precede sempre l'atto distin
tore della ragione. « Il divino presso gli antichi naturalisti è mistero :
esso non viene raggiunto con un troppo facile atto intellettuale, ma con
un senso visibile (" das visioniire Gefiihl ") e per questo l'antico filo
sofo era tutt'uno col poeta religioso e con l'orfico )) (pag. 88).
V. anche Macchioro ( (( Eraclito, Nuovi studi sull'Orfismo ») (( ... la co
noscenza, secondo Eraclito, era un fatto divinatorio, cioè mistico, cioè
irrazionale che avveniva tal quale la pensavano i mistici del Rinasci
mento » (pag. 123).
( 1 0) « Vitalismo », direbbe lo Joel. V. anche Snell (op. cit.) : « Il Logos
per Eraclito non è nulla di teoretico, bensì qualcosa di vitalmente at
tivo )) (pag. 380). V. Macchioro ( (( Zagreus », Bari, Laterza, 1 920) :
(( In questa mentalità, la quale procedette la nostra mentalità razionale,
28
collabora per un processo continuo di spersonalizzazione che altera e
deforma le sensazioni e le percezioni al punto che il fantastico diventa
reale e il subbiettivo si identifica coll'obiettivo, l'io al non-io, il visi
bile all'invisibile ... » (pag. 158).
( 1 1 ) Buddha: << Questo Dhamma (Logos eracliteo) che io ho pene
trato è profondo e difficile a vedersi... pacifico, indulgente, superante
la Ragione, sottile e intelligibile solo ai Saggi » .
(12) Secondo Platino, l'esperienza del Vero è qualcosa di miracoloso la
cui origine non può essere localizzata nell'interiorità dello spirito uma
no. Egli dice: « Lo Spirito non sa donde è apparsa la grande luce, se
dall'esterno o dall'interno: essa era interiore eppure non era interiore.
Non bisogna chiedere donde, perché qui non c'è nessuna origine : essa
non parte da un luogo per andare in un altro, ma appare ora ed ora
non appare. Perciò non bisogna perseguitarla, ma attenderla tranquilla
mente, finché essa non appaia, come l'occhio attende lo spuntar del
Sole » (Enneadi, V, 5, 8). La visione del Tutto è indistinzione tra sog
getto e oggetto, quindi ineffabilità. La coscienza di un'interiorità con
trapposta a una esteriorità significa già evasione dalla Verità. Per que
sto il Logos di Eraclito è razionalmente inaccessibile. La tensione a su
perare questo dualismo è espressa ancora dalla frase che Platino avreb
be pronunciato prima di morire: « Io mi sforzo di ricondurre il divino
che è in me, al divino che è fuori di me » .
( 1 3) Rimando qui alla mia memoria presentata anni or sono al Con
gresso di Filosofia a Venezia: « Eraclito e Lao-tse » . Mi accontento di
riportare due brevi brani, il primo di Lao-tse, il secondo del taoista
Ciuang-tse. « Quando la primitiva semplicità mutò si ebbero molti
nomi. Non ve ne sono dunque abbastanza? Non è questo il momento
di fermarsi » e, bellissimo, con Ciuang-tse: « O uomini, basta con i
nomi: lasciate entrare in voi le cose senza nomi ! ».
( 14) V. Snell (op. cit.): « Che Eraclito nell'ascesa dal visibile all'Invi
sibile abbia pensato alla contrapposizione del sensibile allo spirituale,
mi è dubbio. In Eraclito non si parla ancora di una filosofica e sistema
tica divisione delle possibilità di conoscenza )) (op. cit., pag. 39).
( 1 5) V. Gigon (op. cit.): « Il contrasto Verità-Errore, viene determinato
come un contrasto di individuale-universale, non certo... come contra
sto tra Ragione-Senso. Questo non si trova ancora presso Eraclito ))
(pag. 205). V. del resto anche Snell, op. cit., pag. 368.
( 1 6) V. Gigon (op. cit.): « L'uomo non può sottrarsi alla Legge, ma egli
stesso non sa quello che succede e perciò agisce come addormentato )) .
29
dero » ecc. ecc., quando cioè il piccolo personale Io si sostituisce al
l'universale impersonale Sé.
( 1 9) V. Joel in genere. La filosofia naturalistica greca, secondo lo
J6el è soprattutto lirica, dove perciò non trova ancora posto la rifles
sione e il giudizio soggettivo: « Sino a quando l'lo vive pienamente la
Vita, esso è tutt'uno col mondo, il Gefiihl vive nella sua naturale unità,
nelle sue liriche espressioni. Il senso della dissonanza porta alla rifles
sione. Se l'Io soffre nei riguardi del mondo, allora si pone contro il
mondo, il Gefiihl si spezza e diventa rappresentazione critica » (op.
cit., pag. 27). � certo che in Eraclito non vi è ancora il giudizio sog
gettivo e giustamente dice lo Snell: « Il mondo come rappresentazione,
per esprimerci nel linguaggio di Schopenhauer, non interessa affatto
Eraclito » (op. cit., pag. 362).
(20) Se intendiamo per << vivere secondo natura » (naturalismo) questo
fondersi e confondersi, fuori dal nome, del soggetto con l'oggetto, in
un terzo superiore elemento anonimo (la cpucnc; greca), allora dobbiamo
riconoscere che il naturalismo più candido, più genuino e più fascinoso
nella sua spontaneità ancora bambina (non problematica) è rappresen
tato dalla filosofia taoista cinese, di un Lao-tse o di un Ciuang-tse.
(21) V. Brecht (op. cit.). Accentua ancora di più il carattere negativo
dei termini l'ltEa. xal lpya., dandogli un valore spregiativo ( « fanfaro
nate degli uomini » ). Potremmo noi aggiungere « il vano agitarsi degli
uomini attraverso le loro chiacchiere e il loro darsi da fare ».
(22) V. Gigon: « Il nominalismo di Parmenide è una supposizione o
una convenzione umana che non esprime la realtà. Parmenide parla in
questo senso del "nome " che gli uomini danno. Il nome aveva pure
per Eraclito una simile funzione, ma in Parmenide tale carattere è
molto più chiaro >> (op. cit., pag. 258).
(23) V. Snell: « Se noi definiamo col linguaggio una cosa, le diamo un
nome, allora noi la isoliamo nella sua individualità dalla connessione
universale ... Il nome ha fatto affiorare soltanto l'apparenza che ha di
strutto l'essenza. E cosi Dio è così poco da definire secondo un -nome,
come il fuoco si chiama mirra o incenso » (op. cit., pag. 368).
(24) V. Gigon: « Noi dunque siamo propensi a interpretare alla fine
Eraclito come un etico... La descrizione platonica della dottrina di
Eraclito non è falsa, ma essa sposta tutti gli accenti dall'etico all'onte
logico e pone a Eraclito un problema che non era il suo » (op. cit.,
pag. 232).
(25) A proposito dell'apxi) 01 Principio) e dello O''tOLXE�ov (l'elemento)
in Eraclito, V. Auerbach G. (« De Principio Herakliteo », Eos, Com
mentari Societatis Philologiae Polonorum, vol. XXX I I, 1939, �agg. 301-
302). Che il « fuoco » di Eraclito sia un apxi) o uno O''tOL)(EI.OV non è
ben chiaro, secondo gli antichi commentatori (V. ad es., Simpl., Aet.,
Diog., Laert). Per quello che riguarda l'interpretazione di Aristotele
(Metaph. I, 3, pagg. 983-986), l'apxi) può essere inteso « come ciò da
cui tutte le cose hanno un inizio e nel quale tutte le cose tornano », ed
30
anche, « la realtà di cui constano tutte le cose >> : perciò l'tipx'l') è anche
CT'tOLXEi:ov. Sembra quindi che ci sia una discordanza tra il principio
come origine e il principio come constare. Per Aristotele ed altri l'tipx'l')
è attribuibile all'acqua di Talete, all'Indeterminato di Anassimandro,
alt'aria di Anassimene, al fuoco di Eraclito, agli elementi di Empedocle,
agli atomi di Democrito.
(26) V. Brecht, « ... nel superamento di ogni stabile affermazione, Era
clito svalorizza le categorie e lascia apparire l'Unità descritta col più
alto nome, come inabbracciabile e indescrivibile >> (op. cit., pag. 23).
31
l'azione, che è il vero dato qualificante della cosa e che il " nome " è
vero nome in quanto corrisponde all'azione >> (pag. 142). Il Pagliara
tradurrà il nucleo centrale del primo frammento cosl: « ... infatti per
quanto tutte le cose avvengano secondo questo Logos, gli uomini fanno
figura d'esserne inesperti, nell'atto stesso che fanno esperienza di parole
e di fatti, nell'ordine di quelli che io spiego, distinguendo ciascuno se
condo la sua natura e spiegando come le cose vanno >> (pag. 1 39).
(29) A proposito del significato del Logos eracliteo dice lo Joel : « La
parola è un simbolo, un'espressione spirituale del sensibile e un'espres
sione sensibile dello spirituale, una medietà tra l'anima e il mondo, un
suggello della propria unità )) (op. cit., pag. 55).
(30) Così lo interpreta etimologicamente il Kranz ( « Hermes », 73,
1938, 90).
(3 1 ) V. soprattutto l'analoga magicità dei termini sanscriti dei Veda
indiani, soprattutto del Rig-Veda. Era anche, come abbiamo visto, mol
to importante il modo come si pronunciavano certe parole, il loro par
ticolare suono. V. a questo proposito soprattutto il Mimiimsii.
32
I I Capitolo
33
stituzione di una Chiesa positiva, la coazione della libertà dell'in
dividuo (4) .
Possiamo anzi affermare che in Eraclito vi è proprio la condanna
di un'interiorità autonoma e autosufficiente, intesa come dispensa
trice di leggi e di norme morali alla vita della Natura e alla vita
degli uomini: se vi è un'interiorità, questa è solo tale in quanto
capace di vivere e di riflettere tutta la infinita e variabile gamma
di colori della Natura, di partecipare fluidamente al flusso del fuoco,
che non può mai essere rappreso : anima piuttosto che interiorità.
Ad ogni modo, ripetiamo, non negando la validità del culto esterno,
ma negando il modo come questo viene esercitato, si possono giu
stificare le apparenti contraddizioni di certi suoi frammenti. C'è
una forma di culto che si ferma alla superficie delle cose, alla loro
realtà solo visibile, alle cose fine a sé stesse e questo è il culto da
condannare (predominio del Raziocinio); c'è invece una forma di
culto mediante il quale si riesce a intuire e a vedere nelle e attra
verso le cose, sintonizzandovisi, « il fuoco eternamente vivente »,
quella « armonia invisibile » che è la più vera e più potente so
stanza delle cose stesse: il culto, in una parola, che considera le
cose, non come fine a sé stesse, ma come mezzo e questo è il vero
culto (5) . « Se non facessero a Dioniso la processione e non a lui
inneggiassero col canto fallico, sarebbe la più invereconda delle
cose. E dire che Ade è tutt'uno con quel Dioniso per il quale impaz
ziscono e baccheggiano » (framm. 1 5) (6), egli dice. Cioè Dioniso e
la sua passione e il suo sacrificio e la sua transumanazione, ci in
dicano come è possibile trapassare dal finito all'Infinito, dall'umano
al divino: liberare quella fiamma-anima che è nel nostro corpo e
che è divina, perché si ricongiunga con la fiamma madre. Dioniso
è perciò qualcosa di più che un semplice nome. Esso è una vasta
realtà che un nome certo non può rendere: esso è tutt'uno con
Ade. Dioniso perciò, tramite tra l'umano e il divino, non essendo
egli un semplice autosufficiente nome, deve insegnare agli uomini,
la via che li porti verso il Tutto (7). Se si toglie l'aspetto del tra
passo, del tramite, del mezzo, allora dal senso dell'Universalità si
passa all'esaltazione dell'individuo e quindi al culto degenere e
materiale (8).
Il vero sentimento religioso quindi, che non può fare a meno del
culto, dipende più che da un'impostazione antologica (spirito da
una parte, materia dall'altra) , da una predisposizione psicologica
dell'uomo. Professeranno il vero culto, sapranno cioè vedere le
cose in profondità, oltre il « nome » stesso, solo coloro che sapranno
spogliarsi della loro presunzione-conoscenza, del proprio Io: allora
dal « nome », usato come necessario trampolino si trapassa nel
l'Universale anonimo e con Buddha potremmo dire, « una volta
34
estirpata la rete " io sono " la rete dell'illusione crolla », oppure « co
lui che distrugge l'" io sono ", costui conosce la beatitudine su
prema » (9).
La differenza quindi tra i due culti, vale come per la differenza tra
i « logoi » individuali e il « Logos » universale: anche qui si tratta
non di un contrasto tra materiale e spirituale, ma tra individuale e
universale. Problema della conoscenza e problema religioso vanno
di pari passo: dalla non presunzione deriva la retta e universale
visione e quindi contemporaneamente, teurgicamente inteso, il tra
passo da una realtà individuale a una realtà universale: dalla « pre
sunzione », deriva l'ignoranza (supposta essenzialità del « numero »,
del « nome » fine a sé stesso) e quindi l'impossibilità di una vera
elevazione e trasfigurazione psichico-spirituale. Il « tutto scorre »
(mbrt!l pEi:) non significa in fondo altro che il tentativo, spezzando
le individualistiche dogmatiche strutture del pensiero, di fare ti
fluire l'anima dell'uomo entro l'anima dell'Universo, in una perfetta
e compatta sintonia.
Il culto-nome quindi, necessario e inevitabile punto di partenza,
può indirizzarsi secondo due vie: « la via all'insù » e « la via al
l'ingiù » . Il culto-nome è necessario, varierà il modo di interpretarlo,
di sentirlo, di viverlo, di vederlo: può essere indifferentemente oc
casione di volo verso l'alto, come di crollo verso il basso. In que
sto senso, mi pare debba essere interpretato il framm. 32:
« L'Uno, il solo che è saggio, non vuole e pur vuole essere chia
mato Zeus » ( 1 0) . Bisogna passare attraverso il culto, il nome, le
forme, le realtà tutte, sino, direi, a renderle trasparenti, vanificarle:
sino cioè, quando il « nome » , in sé stesso, cessa di avere qualsiasi
significato.
Ma se questo trapasso non avviene, se non si realizza il rapporto
semantico tra soggetto e oggetto, allora Zeus finisce coll'essere solo
quel nome: si soggettivizza, si individualizza, si materializza. In tal
caso, dice Eraclito, si potrebbe anche adorare un muro, « ... e a
queste immagini divine poi fan preghiere così come se uno volesse
attaccare discorsi coi muri : e ciò perché non conoscono gli dei e
neppure gli eroi nella loro essenza » ( 1 1 ) . Intendiamo il muro ap
punto come qualcosa di inanimato, di morto, attraverso il quale
non è più possibile avere la rivelazione di una vita universale. Alla
fine, privati della loro magia, non c'è più differenza tra nome e
nome e dire « muro » e dire « Giove » è la stessa cosa. Se noi
invece prendiamo il nome nel suo senso magico, allora sarà un'oc
casione per una realtà più alta. Non una definizione quindi, ma una
muta indicazione verso l'alto: « Il Signore che sta in Delfì., non
dice, né nasconde, ma dà dei segni, degli " indizi " (<r!J.IJ.!ILVEL) »
(framm . 93) ( 12).
35
Eraclito perciò è formalista in quanto sa sentire attraverso la vita
singola delle cose molteplici, la vita universa della Natura ( 1 3); è
antiformalista, in quanto si batte contro le astrazioni formali e sog
gettive della mente umana che spezzano e isolano le cose tutte dal
loro suhstrato organico. E qui può forse trovare posto anche il
framm. 67 : « Dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace,
sazietà e fame. Esso si muta come il fuoco mescolato coi profumi
ed è definito secondo il gusto particolare di ciascuno di essi » . �
necessario certo, per arrivare a Dio, partire sensibilmente dalle sin
gole cose molteplici ( 1 4), ma chi si ferma solo a queste in sé stesse,
definendole, si rinnega alla luce divina.
Si può dunque dire che l'origine della caduta dell'uomo, sia loca
lizzabile nella falsa interpretazione del culto, la quale a sua volta
trova il suo fondamento in quello che secondo Eraclito potrebbe
essere il peccato originale, cioè la presunzione di definire ( 1 5) . Av
viene in tal caso un vero processo di condensazione. Alla Natu
ra ( 16) intesa come una viva fluida energia incandescente, dove
Legge e Vita coincidono, andranno sostituendosi le forme solidifi
cate, i « corporei » . Gli uomini non vivranno più allo stato di Na
tura. Vi è un vero e proprio parallelismo tra definizione e conden
sazione, come se, fisicamente, noi costruissimo il mondo delle cose
molteplici e fenomeniche: come se questi limiti che noi vediamo
attorno a noi e in noi, il nostro corpo, fossero tali proprio perché
contratti dalla nostra definizione.
E così quelle realtà naturali che dinnanzi agli occhi di Eraclito ap
parivano ancora trasparenti e limpide e in cui la sua anima sponta
neamente fluiva, si trasformeranno per gli uomini in corporeità
opache, statiche, immobili. Si tratta di una vera caduta di poten
ziale. E come osano gli uomini, potremmo far dire ad Eraclito, in
questo passaggio dalla luce alle tenebre, parlare ancora di Dio, sug
gellare col nome di Dio quelle loro forme che non ne sono altro
che la tragica parodia?
36
ed antologicamente codificata, cosicché alla fine gli uomini, spesso
anche in buona fede, avrebbero scambiato il falso col vero.
Non si può non ricordare qui per la profonda analogia con la po
sizione eraclitea (polemica cioè contro la « polimatia », o falso
sapere o « erudizione » presuntuosa) la bellissima favola di Sve
takétu nel Chandogya Upanishad. Il giovane Svetakétu è tutto orgo
glioso di tutte le molteplici conoscenze che ha accumulato in lunghi
anni di studi : erudizione quindi che si limita ad un accumulo di
conoscenze molteplici, solo visibili. Il vecchio padre allora, che
sembra simboleggiare gli antichi saggi ancora in possesso dell'unica
possibile Verità, quella invisibile, riesce a dimostrare al suo, in
questo caso candido e non presuntuoso figliolo, quanto inconsistenti
e illusive siano le sue visibili realtà, anche se la vera conoscenza
dell'Invisibile, non sia in verità conoscenza, giacché questa si espri
me sempre secondo rapporti, ma una specie di visionarità sui ge
neris (V. qui il 1° frammento di Eraclito) ( 1 8) .
Certo a noi uomini moderni troppo difficile, se non impossibile (si
ammettono le eccezioni! ) , riesce il portarci sul piano psicologico di
questi Naturalisti: per essi forma e informe (Holderlin diceva:
« dare forma all'informe! » ) razionalità e sensibilità erano cosl in
37
Esiste quindi un Logos universale (linguaggio da dei) ed esistono
i logoi individuali (linguaggio da uomini) : distinzione non antolo
gica ma legata alla differente interpretazione psicologica da parte
dell'individuo dello stesso termine (potremmo parlare di una « dia
lettica psicofisica » ). � la solita ambiguità che domina tutte le cose
di questo mondo. Nella Parola in senso universale tutte le realtà
singole confluiscono e si fondono, nella stessa Parola in senso indi
vidualistico, si separano, si scompongono secondo molteplicità e se
condo rottura dell'armonia e alla fine di questa seconda involuzione
in senso individualistico (« via all'ingiù » ), quel termine, usato da
gli uomini, finirà coll'esprimere proprio l'opposto del suo originario
contenuto universale. In una parola: tutti usano della parola, ma
oramai nessuno o pochissimi, sanno che cosa significhi « Parola » .
Per Eraclito, Dio-Logos era veramente fuoco-luce e non formula
astratta e sotto questo aspetto certamente profonda è l'affinità col
l'esperienze dei mistici cristiani medievali (20). Solo forse per que
sto, egli dice, i sensi sono superiori alla conoscenza razionale. Si
tratta qui certo, più che di sensi, di sensitività: una sensitività va
sta, dai colori trasparenti e limpidissimi e portati a una rarefazione
quasi perfetta: una sensitività sempre pronta ad accogliere la Vita
come un'eterna, inesauribile rivelazione. Era per Eraclito un sen
tirsi trasformato, potenziato, transumanato proprio secondo quelle
forze che la sua anima estremamente recettiva, andava perduta
mente accogliendo.
Tutto questo logicamente doveva significare il suo Logos: dioni
sismo e visionarità, forma e magia, finito e infinito, un terzo ano
nimo elemento (forse anche un suono particolare come nella sil
laba vedica OM) che esprimeva la Vita. Ma se questo Logos è vera
mente Vita, cosa saranno allora i raggrumati « logoi » individuali?
Evidentemente, morte. E se la vera morte è proprio quella che gli
uomini si creano vivendo secondo quelle loro forme e « logoi » ,
allora l a morte comincia proprio con quella che essi chiamano vita,
cosicché la vera Vita potrebbe cominciare con quella che essi chia
mano morte (2 1 ) .
Evidenti e profonde sono le radici dell'orfismo nella visione d i Era
clito, ma dalle sue reazioni a un certo tipo di culto, dobbiamo rico
noscere che l'orfismo, già forse da lungo tempo, doveva essere de
caduto dal suo originario contenuto formale-animistico-magico a una
semplice espressione cultuale formale-meccanico-raziocinante: H
culto cioè non più come mezzo, ma come fine a sé stesso.
Ogni culto religioso all'origine è sempre magico, tale cioè che at
traverso una serie di esperienze a carattere rivelatore, può mutare
e trasmutare psichicamente e fisicamente l'iniziato. Col passare del
38
tempo poi, per un fatale processo di condensazione, perde il suo
carattere animistico e magico, per diventare formale e meccanico:
magico più che simbolico, perché il simbolo è pur sempre un'astra
zione mentale, cui è tolto il diretto carattere di esperienza sensi·
bile (22) .
In un modo o nell'altro, l'uomo la sua scelta (all'insù o all'ingiù)
la deve fare partendo sempre dalla forma. La « via all'insù » è ca
ratterizzata all'origine non certo dalla conoscenza del divino, ma
da una visione compartecipativa con Verità superiori e da una
conseguente azione. Potremmo chiamare, nel senso più lato, tale
particolare dinamica esperienza col termine di Teurgia, che com
prende quindi tutti quegli avvenimenti che rivestono il carattere
dell'eccezionalità e dell'anormalità, che hanno il potere di mutare
e di transumanare coloro che vi partecipano.
In tal senso la Teurgia non è da confondersi con la Teologia, la
quale poggia già sull'accertamento di una distinzione dualistica tra
spirito e materia, anima e corpo, e che alla fine potrà anche orga
nizzarsi in un complesso di formule astratte e coattive che nascono
proprio dall'avere voluto privare il culto del suo contenuto magico
animistico : alla fine diventerà anche sinonimo di vera condensa
zione materialistica che è proprio all'opposto della vera esperienza
religiosa (23) . Eppure, d'inciso, quasi diabolico, subdolo inganno
dei « nomi » , i termini del culto rimangono sempre i medesimi: si
può quasi inconsapevolmente scivolare nell'ateismo portandoci sulle
spalle, ben visibile, l'etichetta di Dio, come si può scivolare nella
schiavitù portandoci sulle spalle l 'etichetta della libertà.
Fatale è tale involuzione se il « nome » perde il suo significato ma
gico, attraverso cui l'individuo sente di diventare qualcç�sa di vera
mente più vasto e questo è il carattere della vera religiosità (in mo
do perfetto S. Agostino esprime questo nuovo stato con « inhorresco
et inardesco » , V. la nota 20 a pag. 43). E allora si cade dalla espe
rienza e dalla visione in Dio, alla scienza di Dio o anche Teolo
gia (24).
Le origini stesse del Cristianesimo e la presa di posizione di fronte
ai gentili e ai farisei, fu la decisa presa di posizione di chi in nome
della rivelazione, attraverso una transumanazione dell'anima e del
corpo (25), totalitaria quindi, si poneva contro l'astratta solidifica
zione teoretica dei nomi che si era venuta realizzando attraverso il
formalismo meccanico del fariseismo e del paganesimo. Tale fu del
resto anche la posizione di Eraclito, i cui frammenti sono certo
orfici nello spirito e nell'essenza e forse anche nel contenuto ma
gico della sua terminologia (26) , perché espressione di una vera
religiosità che si oppone al meccanismo del culto religioso che porta
l'uomo all'isolamento in sé stesso, avulso dalla Natura (27) . Era-
39
clito potrebbe in questo senso essere considerato il vessillifero della
vera religiosità (28).
Eraclito ad ogni modo appartiene al primo momento mistico-teur
gico, momento in cui alcuni uomini sembrano svincolarsi dal legame
delle forme a cui normalmente la maggior parte di essi è sottopo
sta (29), per librarsi in una forma di vita superiore. Questo primo
momento potrebbe essere tracciato secondo le seguenti fasi:
a) l'esperienza mistica. Come dice giustamente il Macchioro,
« l'esperienza mistica non si fonda sulla razionalità e sull'intellet
tualismo, ma esige emozioni, scosse, transumanazioni » ( « Orfismo
e Paolinismo » ). E uno stato di profonda emotività ( « inhorresco et
inardesco », ripeto con S. Agostino), che dà la netta impressione a
chi la esperimenta, che una forza che riveste i caratteri fisici della
violenza, investa e scompigli dal di fuori la struttura della nostra
personalità (V. i miti negli « Eroici Furori » di G. Bruno), in modo
da dissolverne quasi i rapporti razionali, morali, materiali che la
costituiscono. E qualcosa che afferra, risucchia, rapisce (« quid est
illud quod interlucet mihi? », dice S. Agostino) e che impone la
sua più profonda ragione d'essere alle singole umane ragioni (Lo
gas e non « logoi »).
Fuoco perciò proprio nel senso eracliteo (il « fuoco » di Pascal, il
« fuoco » di Holderlin), che è veramente l'esperienza che vive il
mistico; fuoco, che nel suo vorticoso movimento, segue una legge
umanamente inconcepibile, perché, per noi, legge significa sempre
una forma statica, soggetta di conseguenza, a quella condensazione
che è proprio all'opposto della rarefazione inconcepibile del fuoco.
L'esperienza mistica riveste un carattere di tale novità assoluta,
che non può trovare posto tra i normali piani esistenziali, che noi
forse impropriamente, diciamo di questa terra e sembra svolgersi
in altri piani esistenziali più rarefatti che noi diciamo celesti .
E cosi quando Parmenide e lo stesso Platone tentarono di espri
mere queste nuove realtà dovettero ricorrere al mito e così S. Paolo
si credette automaticamente autorizzato di parlare di l, Il, III cielo
e cosl Buddha delineò una più meticolosa e precisa gradualità esi
stenziale. Infine l'illogicità della nuovissima esperienza, introduce
il termine di rivelazione, termine che significa appunto il passag
gio, dialetticamente non realizzabile, da uno stato di cose a un
altro col quale quindi il primo non può trovare la conciliazione
logica.
In questa prima fase dell'esperienza religiosa, l'individuo ha la
sensazione di vivere una straordinaria avventura che egli si sente
spinto a raccontare agli altri (mito significa proprio racconto e rac
conto può significare Logos), ma di cui non tenta di dare neppure
40
una spiegazione. Al massimo, raccontandola agli altri, tenterà di
mettere in evidenza quali sono gli elementi, i fatti, le occasioni che
lo hanno introdotto nella nuova straordinaria atmosfera. L'uomo
illuminato, racconta e rivela, non spiega.
b) inefjabilità : l'immediata conseguenza di questo nuovo stato,
che ha sempre in sé il carattere dell'eccezionalità e del provvisorio,
è, come etimologicamente dice lo stesso termine di misticismo, l'inef
fabilità: cioè l'impossibilità di esprimere con i normali mezzi ra
zionali, ciò che eccezionalmente si è vissuto e sperimentato. � come
se la nostra razionalità potesse esprimersi secondo certe dimensioni
e non secondo altre (30). Il Logos riveste certo questo carattere di
ineffabilità, se, rifacendoci soprattutto al I frammento eracliteo,
dobbiamo interpretare alla lettera, l'impossibilità, attraverso le nor
mali espressioni umane, di trasmettere il significato del Logos stesso.
c) senso della transumanazione: ciò che dà un senso concreto
di esperienza al fenomeno mistico, è la netta coscienza del rinno
varsi della propria forma, del ricrearsi nell'anima e nel corpo a
nuova vita (3 1 ) . Secondo i Naturalisti vi è un ineliminabile paral
lelismo tra spirito e materia , parallelismo espresso dai due termini
di rarefazione e condensazione, che mira a mettere in evidenza un
avvenimento che non è né materiale, né spirituale, ma in fondo
mistico. Ora se ammettiamo che la sorgente del rinnovamento sia
fuori di noi, nel mondo della Natura, l'immediato riflesso è sog
gettivo, è entro la nostra forma e contro la nostra forma.
La nostra anima è tale da sentire e vivere tutti gli innumerevoli mu
tamenti, come uno specchio limpido e immateriale capace di riflet
tere tutte le meravigliose immagini della Natura . Per questo l'anima
è infinita, perché ha la possibilità di essere tutte le forme e mai
nessuna forma: « Cammina, cammina, i confini dell'anima tua, non
li puoi trovare, anche se percorri ogni strada: così profonda è la
sua ragione d'essere » (framm. 45). Quindi l'uomo ha in sé la
possibilità di prendere nuove forme, di trasmutarsi, di transuma
narsi (32). « Estasi » significa veramente mutare forma (33): non
è certo la nostra conoscenza normale (34) e neppure la contempla
zione, dove in un modo o nell'altro l'Io rimane sempre contrappo
sto alla Natura, al Non-Io, ma è un mutamento nella forma, nella
sostanza, nel nostro stesso corpo, una trasformazione che è anche
fisica (35).
Coloro che furono i vessilliferi delle nuove visioni della Natura,
dovevano essere circonfusi da un profondo pudore della propria
verità e soprattutto da una solitudine che automaticamente si im
poneva. I discepoli furono attratti, non tanto dalle parole, quanto
piuttosto dall'eccezionalità delle nuove esperienze di vita che chi
era stato illuminato andava realizzando con la semplicità, la spon-
41
taneità, l'ineluttabilità di un destino accettato senza discussione.
Era necessario perciò seguire l'esempio del Maestro, vivere come
egli era vissuto : nasceva così il culto delle azioni e delle gesta di
cui egli li aveva illuminati e l'automatica necessità di rivivere nel
senso più profondo le stesse esperienze, perché solo cosi essi sen
tivano di mutarsi e di rinnovarsi. E proprio quello che io chiamerei
« momento teurgico » (azione divina) e che ha come fondamento la
magia della forma. Ciò che è stato un esempio di vita fuori della
norma, può essere rivissuto solo magicamente.
Un esempio simile lo abbiamo certo nel Cristianesimo. Era neces
sario rivivere attraverso i suoi stessi atteggiamenti la passione tran
sumanante di Cristo. Le azioni, i gesti, le parole di Cristo in questo
caso diventano veramente degli « indizi », « semi », degli elementi
necessari nella loro funzione magica. La stessa cosa si potrebbe
dire dei Francescani, di S . Bonaventura soprattutto nei riguardi di
S. Francesco. Il culto perciò non era fine a sé stesso, ma mezzo,
perché potesse avere la sua azione transumanatrice : la parola era
vita ed era azione : doveva significare la trasformazione dell'uomo
proprio secondo l'avvenimento che la parola stessa indicava. Biso
gnava veramente trasformarsi secondo il Logos (36) (OM indiano,
T AO cinese, DHAMMA buddistico?).
Ma questo Logos degenerava nei « logoi » , culto fine a sé stesso,
quando perdendo il carattere magico e teurgico, diventava un'espres
sione astratta del Raziocinio, che, contrapponendosi alla Vita, ve
niva meno alla sua funzione di conciliare il mondo a sé (37). Di
qui le conseguenze di quel culto degenere dietro cui si cela sempre
la « presunzione » concretatasi dogmaticamente in espressioni mec
caniche che per il Cristianesimo soltanto la Fede avrebbe potuto e
dovuto scongiurare. E questa necessità della Fede come uno degli
elementi più validi per scongiurare la fatale condensazione di ogni
nostra attività spirituale, la sentì forse lo stesso Eraclito quando
disse: « se mai uno non speri, non troverà l'insperato, inesplora
bile essendo questo e inaccessibile » (framm. 1 8).
42
Note del capitolo II
( l ) V. i frammenti 5, 14, 15, 32, 69. Vedi inoltre molto giusta la nota
della Carlini al framm. 14: « Né bisogna dimenticare che Eraclito ha
tanto lui stesso del v.<iyoc;... Egli è un orgiastico e un dionisiaco tutto
particolare » ( « Eraclito d'Efeso », Frammenti e testimonianze, Lan
ciano).
(2) V. il framm. 69 dal quale appare che c'è modo e modo di fare i
sacrifici. Pochi sono coloro che arrivano alla purificazione attraverso
il culto. « Bisogna distinguere due specie di sacrifici, quali sl o no
hanno luogo in qualche individuo d'eccezione ... e quelli materiali ... » .
43
A proposito della « armonia invisibile » V. anche Platino dove l'ana
logia dell'armonia perfetta col fuoco è proprio di sapore eracliteo :
« Perciò fra tutti i corpi, il fuoco è bello per sé stesso e occupa tra gli
altri elementi il posto dell'idea ed è il più elevato per la sua posizione
e il più leggero di tutti i corpi perché è vicino all'incorporeo; è solo
e non accoglie in sé altri elementi mentre gli altri lo accolgono ... ciò
che non ha eguale potenza sbiadisce alla luce e non è più bello, perché
non partecipa all'idea totale del colore.
Sono le armonie impercettibili al senso quelle che fanno le armonie
sensibili e per opera di quelle l'anima può intuirne la bellezza, perché
esse rivelano l'identico nel diverso » (Enneadi, V, VI, 3). Che questo
senso dell'armonia invisibile di sapore eracliteo sia presente anche in
molti mistici cristiani è ben noto. Basta ad esempio, citare S. Paolo
« ... le invisibili perfezioni di Lui si fanno conoscere attraverso le opere
44
degli uomini è invisibile, realizzano un'esperienza transumanante che
li può avvicinare alla condizione degli angeli e unirsi intimamente con
la luce divina.
� logico perciò che costoro, se vorranno definire Dio, lo definiranno
sempre negativamente (non avranno cioè la presunzione ... ). � evidente
in Dionigi la funzione magica dei « nomi », come mezzi di esperienza,
non come fattori di conoscenza. E appunto perché magici, è necessario
applicare a Dio tutti i nomi che la Scrittura attribuisce (teologia affer
mativa), poi negarli tutti (teologia negativa).
Queste due attitudini possono d'altra parte riconciliarsi in una terza
che consiste nel dire che Dio merita tutti quei nomi, ma in un senso
inconcepibile alla ragione umana perché egli è tutto ciò che non è
quelle definizioni (teologia superlativa). Dionigi, attraverso la dialet
tica dei nomi (negativo-positivo), ha voluto in un certo senso rivelare
la magia dei « nomi )) : cioè trasformare ciò che è semplice conoscenza
in esperienza diretta del divino.
( 1 1 ) V. S. Paolo: « I Gentili hanno mutato la gloria del dio incorrut
tibile in simulacri dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di
rettili )) (Rom. I, 2).
( 14) Che la sensibilità sia la via più adatta per la Verità, lo afferma
spesso Eraclito. V. il framm. 53 : « Quanto si apprende con la vista e
l'udito questo io preferisco )) , Nello stesso senso potrebbe essere inter
pretato il framm. 7 : « Se tutte le cose divenissero fumo solo il naso le
potrebbe distinguere ». Cito ancora lo Snell : << Cosl pure egli non si
pone contro il mondo esteriore, anche quando dice che le invisibili ar
monie valgono di più delle visibili armonie. Egli dice apertamente: ciò
che si può vedere, ascoltare e sentire, ciò vale di più per me: chiara
mente più di qualsiasi speculazione » .
45
( 1 5) Si dice che la scissione iraniano-indiana, entro il nucleo principale
dei popoli indiani, sia proprio dovuta ad una diversa interpretazione
del culto!
( 1 6) Da cpvEw, generare, creare. Quindi non si intendono gli effetti visi
bili, ma il centro dinamico generatore. G. Bruno direbbe << l'inesauribile
semenzaio » .
( 1 7) Del resto è l a stessa concezione di Bergson : specializzazione con
trapposta a qualità, a élan vita! : religione dinamica contrapposta a re
ligione statica.
( 1 8) Questa del vecchio saggio padre è una presa di posizione che ri
corda quella analoga di Socrate di fronte ad Eutifrone, quando Socrate
con la sua finissima ironia, rimprovera la dogmatica posizione di Euti
frone di fronte al giusto, alla verità. Anche il discorso del vecchio pa
dre è soffuso di un'ironia, naturalmente più bonaria ed affettuosa per
ché ha di fronte a sé il proprio figlio, tra l'altro candido e credulone.
46
S. Paolo: << Adunque per mezzo del battesimo siamo sepolti con lui,
morendo, affinché come Cristo fu risuscitato di tra i morti mediante
la gloriosa Potenza del Padre, cosi anche noi cominciamo a vivere una
nuova vita » (Rom. V, 1-28). E S. Agostino: « Colui che è la vita è
sceso su questa terra. Egli ha patito la nostra morte e l'ha fatta morire
con l'abbondanza della Vita ... La Vita è discesa verso di noi e voi non
vorreste salire verso lui e vivere? >> .
(22) V. la differenza tra il concetto di transustanziazione (cattolicesimo)
e consustanziazione (protestantesimo).
(23) Il fenomeno religioso, sotto i due aspetti, mistico e concettuale, è
molto ben tratteggiato dal Kerenyi ( « Miti e Misteri », Einaudi, 1950).
Egli dice: « L'indicibilità dei Misteri naturali - per esempio gli an
tichi Misteri delle origini della Vita - ci sarà forse comprensibile se
noi la consideriamo in due piani distinti: quello esistenziale e quello
puramente concettuale. Sul piano esistenziale noi agiamo e subiamo e
il nostro agire e subire toccano noi stessi in un punto così profondo in
cui c'è solo un accadere, ma nessuna parola adeguata per esprimerlo.
Sul piano puramente concettuale, quell'accadere si fa descrivere facil
mente nella terminologia chiara, univoca priva di emotività della bio
logia. t però esso ancora lo stesso accadere, quello che riguarda me,
un fatto mio?
La descrizione puramente concettuale coglie solo il generico staccato
dal caso individuale, esso parla del mio fatto - quasi a proposito del
mio fatto - ma non Io pronuncia: esso è indicibile. Solo la rappre
sentazione cultuale può elevare il mio accadere su un piano di univer
salità in un modo che esso rimanga tuttavia qualcosa di mio proprio :
il mio mistero indicibile comune con quello degli uomini. Questo pa
radosso dei culti segreti pubblici era inerente anche ai Mysteria attici.
Questi infatti, nella religione, non erano che un caso specifico dell'in
dicibile, cosl si dovrebbe dire in luogo di mistico, termine improprio
e logorato dall'uso.
Una volta pronunciato, il lor0 mistero poteva diventare una banalità,
perché coll'essere pronunciato esso cessava di esistere, non era più
quell'indicibile che nella sua indicibilità creava attorno a sé una
particolare visibilità, udibilità e quasi un corpo atmosferico fatto di
azioni e di gesti, di oscurità, di luci, di silenzio e di voci >> (pagg. 145-
146).
(24) V. a questo proposito quello che dice, giustissimo, il Macchioro
in « Orfismo e Paolinismo » ( 1 922), dove appunto appare che l'espe
rienza religiosa di S. Paolo non deve essere intesa come un'esperienza
teoretica concettuale, ma essenzialmente magica: « Generalmente si ha
della coscienza di Paolo una rappresentazione concettualistica, che non
si accorda con il temperamento mistico e lirico dell'apostolo. Ci si im
magina che il suo pensiero si determinasse mediante un processo lo
gico e razionale più che attraverso una potente esperienza: si ammette
che nell'intimo della sua anima egli riflettesse più che agisse » (pag. 19).
E ancora : « ... ma la verità è che per ora noi non siamo penetrati an
cora a fondo, che non conosciamo ancora l'origine di quel processo
47
che è il cardine della mistica paolina e in generale cristiana, per cui il
fatto esterno della resurrezione di Cristo, divenne fatto interno del cre
dente, per cui in altri termini ... potesse diventare un avvenimento spi
rituale e subbiettivo che si ripete nelle coscienze cristiane. Il processo
per cui insomma la conoscenza diventa esperienza ».
Ed infine: « La grande novità di Paolo sta solo e proprio in questa
esperienza nuova per la quale Gesù storico diventò il Cristo mistico, il
fatto storico della resurrezione di lui diventò il fatto mistico della rina
scita dello spirito, l'obiettivo subbiettivo, il passato presente » (pag. 63).
48
( 3 1 ) In tutti i mistici è sempre viva questa evidenza indubitabile di una
nuova vita unita al concetto di una potenza maggiore. Soprattutto nei
mistici cristiani,
(32) V. Joel (op. cit., pag. 9 1 ) : « In verità per gli antichi filosofi della
Natura non vi era alcuna morte, ma solo mutazione. La morte di una
forma è solo rivivere di un'altra forma » .
(33) « Estasi >> (!x-ta.�) etimologicamente significa « mutamento di
stato ». V. Macchioro ( « Eraclito ») con la testimonianza di Plutarco
e Suida. Ed ancora Macchioro ( « Zagreus » ) : << .. l'estasi era concepita
.
49
III Capitolo
51
solo conoscenza delle cose singole e molteplici: poi che la Verità
è una sola (non << polimatia ») , unità nella molteplicità, presente in
tutte le cose, malgrado le loro apparenti contraddizioni: infine la
condanna della presunzione.
Se Pitagora era veramente della opinione che il numero e la suc
cessione numerica definisse l'essenza delle cose, egli estraniandosi
dalla Unità, che non è neppure numero (ma lo dice anche Pita
gora ! ) , avrebbe finito coll'esaltare solo la molteplicità e a tale esal
tazione sarebbe stato proprio mosso dalla « presunzione » a defi
nire. Pur non accettando noi questa interpretazione del numero pi
tagorico, dobbiamo riconoscere che per Eraclito esso esprimeva
semplicemente la quantificazione meccanica (quantità contro qua
lità, magia contro raziocinio analitico) delle conoscenze e non an
cora una teoria universale (2). Quali siano stati i motivi di tale
interpretazione del numero pitagorico, non possiamo certo dirlo.
Sappiamo che la teoria dei numeri quali noi oggi conosciamo è
sorta solo verso la metà del V secolo a. C. e possiamo anche (3)
pensare che già Eraclito assistesse ai primissimi inizi di quello che
potrebbe essere considerato una deformazione in senso astratto
soggettivo del primitivo pitagorismo. A quale poi dei pitagorici o a
quale forma di pitagorismo, Eraclito si riferisca nella sua polemica,
altrettanto è difficile a dire (4). Nel tempo egli è in fondo quasi
contemporaneo di Pitagora (per quanto le date dell'uno e dell'altro
siano incerte, possiamo porre Pitagora tra il 580 e il 500, Eraclito
tra il 540 e il 480), per cui, secondo testimonianze, dovremmo af
fermare che egli abbia veramente conosciuto Pitagora (5).
Ad ogni modo, mezzo secolo tra l'uno e l'altro è già sufficiente per
ché si possa pensare che Eraclito si trovasse di fronte a un'even
tuale deformazione del pitagorismo originario. Comunque sia, non
possiamo certo pensare a Pitagora quale Eraclito veniva presentando
inaridito e immiserito (6). Pitagora non era solo matematico, ma
era nello stesso tempo, mago, sacerdote, individuo che compiva dei
miracoli : la sua teoria del numero tende a confondersi col culto
orfico. Né certo si possono ammettere in contrasto due aspetti della
sua personalità e del suo pensiero : il numero per lui ha certo un
altro senso e un altro significato di quello che Eraclito gli attri
buisce.
Ad ogni modo quello che a noi importa mettere in evidenza, è che
Eraclito vede in Pitagora colui che ha esaltato la pluralità delle co
noscenze, senza riuscire a trovarne il nesso sostanziale (l'« armo
nia invisibile » , che è la realtà prima di tutte le cose) anche se esse
sono necessarie nella loro pluralità e contraddittorietà. � certo che
il « numero » esaltato fine a sé stesso, oggettivamente denuncia o
52
soggettivamente pone la molteplice contraddittorietà delle realtà.
E di conseguenza Eraclito si immagina la figura di Pitagora come
quella del dotto presuntuoso (Eraclito lo considera anche come un
plagiario del sapere altrui), che ha la pretesa di definire proprio
attraverso il numero : perciò non può essere altro che un erudito
che si limita a fare sfoggio del suo eccezionale cumulo di cognizioni,
quasi per incantare il popolo.
Pur riconoscendo la parzialità di giudizio di Eraclito nei riguardi
di Pitagora, dobbiamo tuttavia ammettere che egli abbia presentito
che il pitagorismo (il numero fine a sé stesso), avrebbe segnato at
traverso l'esaltazione del numero, la stessa esaltazione della perso
nalità, della falsa interiorità soggettiva che avrebbe potuto porre
fine alla Vita liricamente e mis ticamente intesa (Ciuang-tse: « O
uomini, lasciate entrare in voi le cose, senza il nome » ! ) .
� strano ad ogni modo che Eraclito non abbia tenuto conto dei
caratteri vivi ed originari di altri pitagorici, certamente più fedeli
alla dottrina originaria del Maestro. Basta ricordare Alcmeone di
Crotone, il quale, come sappiamo visse nello scorcio tra il VI e il
V secolo. Di Alcmeone abbiamo per esempio il frammento che di
ce: « Dell'Invisibile solo gli dei hanno contezza: noi, in quanto
uomini possiamo solo argomentare per indizi. . . » (7) : « argomen
tare per indizi » che è proprio il O'TJ!-LClL'JEW eracliteo. Si potrebbe
ricordare anche Filolao, anche se questi appartiene al V secolo ed
è quindi collocato tra i « moderni pitagorici » (8) .
Quale specie di pitagorici o meglio con quale specie di pitagorismo
avrebbe mai avuto a che fare Eraclito? O forse il dissidio che di
vide Eraclito da Pitagora ha la sua origine in due diverse prospet
tive psicologiche? Eraclito non volle essere e non fu « mago » e
maestro, Pitagora volle essere e fu « mago » e maestro (9). In Era
clito non esiste cioè una metodologia magico-pedagogica, attraverso
la quale invece Pitagora, mediante la magia dei numeri e delle for
me, potesse educare gli uomini trasmettendo metodicamente le pro
prie verità.
Eraclito invece è l'estremista e, nella vita e nel pensiero, il solitario
per eccellenza, il polemico radicale contro ogni tentativo di inizia
zione. Eppure, egli dice, la verità ci sta attorno, ci imbattiamo in
essa, attraverso le cose, quotidianamente: ma oramai l'uomo è un
« barbaro >> e i suoi occhi sembrano avere perduto ogni possibilità
di vedere in profondità; come se, biologicamente, potremmo noi
aggiungere, nel cervello dell'uomo si fosse atrofizzato un particolare
organo visionario (il « terzo occhio >> ) .
Possiamo forse dire che invece Pitagora fu più ottimista nei rapporti
con l'umanità. In lui vi sono ambedue gli aspetti: in-azionale e ra·
53
zionale. Egli certo fu un illuminato, ma egli si servì del numero e
della forma, ripeto, magicamente intesi, per creare delle metodologie
accessibili ai discepoli e attraverso le quali essi forse inconscia
mente si sarebbero almeno avvicinati alle illuminazioni del Maestro.
Metodologie che certo presentano una certa analogia con le meto
dologie (non sistemi filosofici) buddistiche e in genere dello Yoga.
Possiamo invece affermare che Eraclito si sia fermato al primo
stadio, quello della illuminazione, come se egli prevedesse che in
quel tentato patto di amicizia tra intuizione-visione e ragione, tra
individuo e massa, i colori del cielo alla fine avrebbero perduto il
loro splendore e lo sguardo limpido dell'individuo eletto si sarebbe
alla fine offuscato.
Tralasciamo ad ogni modo ora l'interpretazione di Eraclito e più da
vicino cerchiamo di vedere che cosa veramente significhi il « nume
ro » pitagorico. Ripetiamo e rispondiamo subito: esso riveste sen
z'altro un carattere magico-animistico. Cioè il « numero » è un ele
mento, è uno strumento necessario (e come uno strumento ha natu
ralmente una sua forma e una sua razionalità) mediante il quale
può vivere ed agire l'anima delle persone e delle cose. Siamo sullo
stesso piano dell'emanazionismo magico di Plotino. Il « numero »
quindi è magico. Il che significa che il numero non è un elemento
fine a sé stesso, non deve essere considerato un'astrazione matema
tica, ma un mezzo capace di interpretare mediante la mutevolezza
e la variabilità delle sue stesse forme, la vita infinita della Natura.
In poche parole è uno strumento interpretativo (numero artigiano! ) ,
strumento però necessario e non evitabile dall 'uomQ i n quanto pen
sa, in quanto sente, agisce, vive, in quanto è un'entità animata. Ed
ha perciò un carattere teurgico, cioè dinamicamente inteso, tale da
suscitare negli adepti, mediante una diretta e potente suggestione
(trasmissione dell'anima delle cose) , azioni, atti di vita, una certa
determinata morale attraverso cui il Maestro vuole iniziarli a una
certa determinata verità ( 1 0). � evidente qui l'analogia con le pra
tiche orfiche.
Non vi è quindi in Pitagorra il « numero >> come possiamo inten
derlo noi, platonicamente o, meglio, cartesianamente: se cosl fosse,
Pitagora non sarebbe stato mago. Anche per lui in fondo vale l'af
fermazione di Eraclito, « La Natura ama nascondersi ». Le discus
sioni quindi se il « numero » abbia un valore oggettivo, se cioè de
nunci nella sua reale essenza il mondo esteriore come veramente
è (origine dell'empirismo) o un valore soggettivo che impone le leggi
della nostra coscienza alle realtà esteriori (origini dell'idealismo), è
un problema che per i pitagorici non poteva sussistere. lnterpre
tarlo in tal modo significherebbe falsare completamente il pensiero
di Pitagora.
54
E una distinzione che si inizierà solo con Platone, il filosofo che
scoprì la materia, proprio in quanto credette di scoprire lo spi
rito ( 1 1). Nei pitagorici non vi è ancora la rottura tra la concretezza
viva del mondo fisico e la matematicità astratta del mondo intellet
tuale, non si può ancora pensare a una vita del pensiero autonoma
rispetto alla vita delle cose e viceversa, giacché il pensiero, in quanto
tale, è già materia (potremmo meglio dire, già una forma di corpo
reità, per quanto sottile), è già « fisicità » ( 1 2). Non tanto dobbiamo
dunque dire che il « numero » è l'essenza delle cose, quanto piut
tosto che il « numero » è le cose e le cose sono « numero ». « I nu
meri sono causa delle cose in quanto essi sono " limiti " e " termini "
( élpoL) » ( 1 3).
Ma questi numeri-limiti-causa sono proprio gli elementi necessari
che danno espressione di vita alla Realtà Infinita, all'inconcepibile
e neppure vivente Vuoto Informe, il quale si porta sul piano del
l'esistenza appunto in seguito alla loro facoltà contrattrice. Perciò
gli unici elementi attraverso i quali l'uomo può avvicinarsi, o, me
glio, interpretare l'infinito, sono proprio gli elementi finiti, formali.
Non si dimentichi mai il carattere animistico e sensitivo di tutti i
Naturalisti, pitagorici compresi.
Non poteva non dare Pitagora un'importanza decisiva alla « for
ma » , perché egli doveva per forza rendersi conto che la forma era
il necessario punto di partenza per le più alte divine esperienze (14):
perciò la forma presenta questo doppio aspetto, che pur essendo da
una parte chiusa in sé stessa (aspetto razionale-fenomenico), è dal
l'altra proiettata sull'Infinito, si radica nel magico-irrazionale. In
poche parole, ogni realtà è finita e infinita, o, come direbbe Filolao,
limitata e illimitata. Donde l'importanza magica ed educativa del
« numero » ( 1 5). Il « numero » perciò è generatore delle cose, causa
delle cose molteplici, ma è nello stesso tempo le cose stesse: gene
ratore che si confonde col generato, forma che è materia, forma in
quanto materia.
Potremmo anche dire in termini più elementari, che i numeri sono
elementi che polarizzano attorno a sé l'Infinito, che captano l'Infi
nito rendendolo visibile. L'esperienza pitagorica fu senz'altro una
esperienza a sfondo sensitivo, visionario, a carattere essenzialmente
monistico. Pitagora, partito dalla diretta esperienza delle cose e
delle forme, solo attraverso queste sentì e visse la forza universa
le ( 1 6) che compenetra tutte le cose. Non poteva perciò astrarre
nella sua dottrina e nel suo insegnamento da quella che è la vita
delle forme, perché solo attraverso queste, attraverso cioè il finito,
gli uomini possono sentire l'Infinito.
Che poi l'essenza prima e originaria della Natura, sia numerica
mente e formalmente inaccessibile, o, da un punto di vista sogget-
55
tivo, l'intuizione del Vero non sia riducibile a definizione, l'aveva
già detto Alcmeone e possiamo aggiungere l'affermazione di Filolao:
« Intorno alla Natura e all'armonia, questa è la verità: l'essenza
delle cose che è eterna e la Natura stessa esigono un'intelligenza
divina e non umana e naturalmente nulla delle cose reali potrebbe
venire conosciuta, se la realtà delle cose, da cui sorse quest'ordine
del mondo, non avesse come base sia il limitato che l'illimitato » .
Per cui « non si potrebbe dare alcun oggetto delle conoscenze se
tutto fosse illimitato >> (Diels, framm. 6, pag. 24 1 ) .
Ne deriva quindi che soltanto i l 4< numero >> i n quanto rapporto e
limite ci porta nell'unico settore di conoscenza dell'uomo. « E di
fatti tutto ciò che si può conoscere ha un " numero" . Giacché senza
di esso nulla si fa comprendere e conoscere >> (Diels, 1° framm.,
pag. 240) . Perciò questo « numero >> causa delle cose molteplici e
che finisce col coincidere col concetto di elemento, non significa
mai essenza ultima delle cose, non esprime mai il « Principio », che
in quanto essenza ultima delle cose, è tale appunto perché non è
soggetto ai numeri e ai rapporti, pur essendo esso numero-limite, ne
cessario per afferrare o vedere l'illimitato che non è certamente
numero.
Nei Naturalisti in genere, da un punto di vista gnoseologico, non è
possibile stabilire un rapporto tra « Principio >> , inteso come essenza
prima ed (( elementi » : il (( Principio >> appare sempre come l'inef
fabile, gli elementi rappresentano l'espressione esteriore concreta e
fenomenica del Principio supremo, razionalmente non determinabi
le, appunto perché l'attività razionale si esplica secondo rapporti,
quindi secondo limiti che sono sempre contraddittori. Gli stessi
quattro principi di Empedocle, non vogliono tantb rappresentare
i principi essenziali ed originari, quanto piuttosto il limite estremo
a cui può arrivare l'analisi umana, meglio, vogliono esprimere che
l'analisi umana nella sua ricerca è cos tretta ad arrivare a un limite
(come per gli atomisti e del resto per qualsiasi altra concezione
scientifica: lo insegna la Scienza dei nostri giorni).
Ammesso poi che vi siano degli (< illuminati >> che sappiano vedere
e vivere le cose in profondità, allora per costoro la molteplicità si
ridurrà a sola apparenza ( « velo di miiya >>) e l'Unità alla fine si con
fonderà con la molteplicità e in tal caso scomparirà la distinzione
tra « Principio >> ed « elementi », tra « causa >> ed « effetto >>; ma
chi si pone esclusivamente da un punto di vista razionale, meglio
da un punto di vista raziocinante (V. la distinzione che io ho fatto
tra Ragione e Raziocinio), quindi si applica solo alla molteplicità,
caratterizzata dall'isolamento irriducibile dei suoi elementi, dovrà
per forza distinguere il (< Principio » dagli elementi, la causa dagli
effetti.
56
Prospettata in tal modo la nostra conoscenza, evidentemente non
ci si potrà avviare al superamento sino alla eventuale dissoluzione
della distinzione stessa. Il « numero » quindi non ci dà mai l'essen
za, ma nel migliore dei casi (V. sopra l'affermazione di Filolao, « la
realtà delle cose ... ha come base sia il limitato come l'illimitato ») ,
esso sarà uno strumento interpretativo della essenza stessa (possia
mo definire un tale contenuto del « numero » col termine di Ragio
ne?). Il pitagorismo scopre appunto questa funzione interpretativa
del << numero » e tale scoperta deve per forza conferire all'uomo nel
settore di tutte le possibili interpretazioni del divino, un'enorme po
tenza : noi finiamo coll'essere in possesso di strumenti tali con cui
possiamo interpretare, sfruttare l'energia prima, in sé e per sé inde
terminabile, che sta a base di tutte le cose.
Strumentalismo magico, si potrebbe definire la· teoria dei numeri
di Pitagora. In fondo potremmo prestare questo ragionamento ai
Pitagorici: se le realtà considerate fuori di noi sono forme e se
queste forme sono manifestazioni attraverso le quali traspare la
unica e vera forza divina, non siamo noi allora in grado anche sog
gettivamente di creare forme tali attraverso cui si rivela la vita della
Natura? Basta che in uno spazio indeterminato si ponga un punto
perché questo si esprima secondo particolari aspetti e susciti sen
sazioni vitali che non possono non colpire e non influire sulle per
sone circostanti .
« Numero » quindi che è realtà, ma che è soprattutto anima. Da un
punto di vista pedagogico si trattava in fondo attraverso i rapporti,
i « numeri » e le disposizioni dei « numeri », di esprimere, incar
nandolo, un proprio stato d'animo, il quale automaticamente veniva
cosl riproiettato su coloro che dovevano essere educati. Nel « nu
mero » pitagorico a un certo momento tutti i problemi trovano il
loro punto d'incontro : scienza, filosofia, religione, arte ( Leonardo
da Vinci fu il nostro più grande inconscio pitagorico). Strumenta
lismo magico non disgiunto quindi da un dinamismo suggestivo.
E così i numeri, la forma, i rapporti finirono coll'essere per i pita
gorici gli unici elementi per partecipare e far partecipare gli uomini
ai palpiti della Natura. La Natura in sé e per sé inaccessibile, si
adatta tuttavia, si plasma, si dona di volta in volta a seconda dei
nostri strumenti formali. Da questa scoperta quindi nacque il me
todo magico-educativo dei pitagorici, per iniziare i discepoli a quelle
Verità che Eraclito per principio sembra abbia pensato incomuni
cabili. Ed è perciò logico, che, ripeto, Filolao consideri il « nume
ro )) come una realtà che sta tra il limitato e l'illimitato ( 1 7) : non è
limitato perché non è formula chiusa in sé stessa: non è neppure
illimitato perché i rapporti, numerici e formali come abbiamo visto,
non si applicano a ciò che non ha limiti.
57
Il « numero » deve essere considerato il punto di incontro, quasi
secondo un processo di osmosi ed endosmosi, del Finito coll'Infinito.
Esso è perciò veramente magico : cioè forma-forza che vive nell'In
finito e dell'Infinito, forma che può portare a esperienze oltre la
stessa forma : è magico in quanto è capace di interpretare attraverso
la propria finitezza, l'Infinito.
A fondamento di ogni nostra realtà visibile sta sempre ad ogni modo
la Natura che in definitiva ha lo stesso significato del Vuoto pita
gorico o dell'Indeterminato di Anassimandro: Vuoto o Indetermi
nato che sostiene, che nutre, rinnova, ricrea le realtà finite e mol
teplici attraverso le nostre interpretazioni strumentali (numero, for
ma, la nostra stessa legge) : potremmo anzi dire in un certo senso
che per scoprire un nuovo fenomeno è anzitutto necessario la sco
perta di un nuovo strumento, di una nuova forma per cui si po
trebbe concludere che è il nuovo strumento che crea il nuovo fe
nomeno.
Si tratta quindi proprio di uno strumentalismo magico in quanto
noi dal Tutto-Nulla (Vuoto) , riusciamo a ricavare qualcosa e con
temporaneamente il Tutto-Nulla riesce a trasfmmarsi in Vita. Finito
e Infinito sono perciò inseparabili ( 1 8). Se da un punto di vista
puramente concettuale si potrebbe dire che tale intima collabora
zione tra Finito e Infinito si manifesta nel fatto che ogni forma
piena è tale soltanto in quanto i suoi limiti sono tracciati dal Vuoto
che la circonda (concetto insufficiente in verità per indicare l'in
tima palpitante collaborazione del Finito coll'Infinito) da un punto
di vista magico-naturale si dovrebbe dire, secondo l'espressione pi
tagorica, che ogni realtà è dotata di un « respiro », attraverso cui il
divino penetra in noi ( 1 9 ).
Solo se inteso come strumento magico, il « numero >>, che preso
fine a sé stesso corre sempre il rischio di agganciarsi dogmatica
mente a una sola forma e a una sola formula, diventa proprio l'ele
mento più adatto per farci uscire dalla nostra forma, per trasfe
rirei e farci entrare, rinnovandoci e ricreandoci, in altre forme e in
altre vite. Non ci si deve quindi rinchiudere in una propria e auto
sufficiente interiorità, ma, perché si possa veramente vivere, è ne
cessario dilatarsi fuori di sé stessi, nutrirsi di infinito, è necessario
veramente « respirare » (analogia con la respirazione yoga?). E così
l'anima che è fatta della sostanza stellare, si nutre di luce stel
lare (20) . Il concetto dell'« anima-respiro » (àvoci}v(..Lioccnç) è anche
di Eraclito.
Il numero pitagorico, se così prospettato, in fondo non è certo lon·
tana dal concetto del divenire eracliteo. Il divenire eracliteo infatti
non vuole essere altro che una posizione radicale contro ogni pos
sibile assoluto razionale, quale potrebbe essere un'espressione ma-
58
tematica fine a sé stessa: solo il divenire ci impedisce di cristalliz
zarci in una formula chiusa che solo astrattamente potremmo chia
mare Assoluto.
Quindi in Eraclito, almeno come necessario punto di partenza, la
necessità di partire dalle forme (numero�limite), altrimenti non si
potrebbe neppure ammettere quel concetto del divenire attraverso
cui si rivela sensibilmente l'Essere. Solo un errore di valutazione ha
portato Eraclito a interpretare il « numero » pitagorico come una
forma chiusa e statica, fine a sé stessa, e non secondo una prospet·
tiva che io non posso che definire magica, che pur riconoscendo la
necessità formale-razionale delle realtà, trova in esse quel dinami
smo che le fa trapassare oltre la propria forma (2 1 ).
Misticamente vissuta o razionalmente espressa, la vita per i pita
gorici è pur sempre un palpito di vita infinita entro le realtà finite.
donde il dinamismo pitagorico. Anima che è corpo, corpo che è
anima. Il punto magico della Verità è là dove il finito si incontra
e si fonde con l'Infinito (in una forma informe ! ), o, più semplice
mente, il reale con l'ideale; dove cessa ogni sorta di dualismo che
altro non è che un'astratta presa di posizione della mente umana,
che in tal modo non riuscirà più a « respirare » e quindi si negherà
ad ogni possibilità di « rinascite » .
Le espressioni d i Filolao, ad esempio, ci portano veramente verso
questo senso concreto della vita, in lotta contro ogni pericolo dua
listico: la stessa cosa dicasi del « divenire » eracliteo, che si pone
appunto come compito il tenere lontano l'uomo da ogni astrazione
mentale. Impostazione ad ogni modo, per gli uni o per gli altri, mo
nistica che vuole portarci alla primitiva ed essenziale esperienza di
questi Naturalisti i quali seppero sentire e vedere l 'Infinito attra
verso il Finito. Per questo il « numero » pitagorico, non deve certo
essere preso nel senso « ideale » platonico (22), cioè di essenza di
stinta dall'esistenza, ma proprio in modo specifico, nel suo senso
esclusivamente monistico, cioè come vivente entità reale e naturale
che se vista in un senso può essere interpretata come limitata (aspet
to razionale-fenomenico), ma in un altro senso, quello più vero, si
rivela infinita (animismo magico) .
Ma la supposta « quantificazione » pitagorica del « numero » è su
perata dal concetto di « armonia », comune sia a Pitagora che a
Eraclito e del resto a tutti i Naturalisti greci, chè l 'armonia è il più
greco dei concetti.
Dice Pitagora: << tutto l'universo è numero ed armonia » (23) . Se,
come dice Eraclito, Pitagora fosse stato il creatore del << numero »
certo in lui non avrebbe fatto capolino il secondo termine << armo
nia ». E il pitagorico Filolao, nel frammento 6 già citato, dopo aver
59
detto che l'essenza ultima delle cose esige una conoscenza divina
e che la nostra realtà è soltanto quella formata di Determinato e
Indeterminato, continua: « e poiché questi due princìpi non sono
né simili, né affini, non sarebbe loro possibile ordinarsi nel cosmo
se non fosse sopraggiunta l'armonia in qualunque modo essa abbia
avuto origine.
Ed invero le cose simili ed affini non hanno bisogno di armonia, in
vece le cose dissimili e non affini che devono formare questo mondo
hanno bisogno di armonia » . L'armonia quindi è quel quid mediante
il quale noi riusciamo a trovare a sentire o a imporre la concor
danza dove c'è la discordanza. L'espressione stessa, « l'armonia in
qualunque modo essa abbia avuto origine », sembra esprimere l'ir
razional ità di un avvenimento o di un intervento spiritualissimo
(quasi una rivelazione) nella vita delle cose umane e naturali, che
in sé e per sé sono fatte di rapporti e di contraddizioni.
Ma questa armonia è pure inerente al numero e alle cose e se le
cose in sé e per sé sono rapporti e contraddizioni, l'armonia che
vive nelle cose, malgrado le cose, ma mediante le cose è il supera
mento delle stesse contraddizioni nell'Unità. I Pitagorici, come del
resto gli antichi greci, pur vivendo intensamente le cose reali entro
i loro limiti formale-fenomenici (numero) furono certamente più
sensibili all'armonia, per cui finivano col considerare le prime come
entità subordinate. Dice giustamente lo Joel: « I Pitagorici non
amano l'ordine morale e l'armonia musicale perché amino il nu
mero, bensi essi amano il numero per il sentimento dell'ordine e
dell'armonia.
Il valore numerico deve anzitutto essere vissuto e seQ.tito per qual
cosa d'altro, prima che esso possa venire astrattamente risolto » (24 ),
pur, aggiungerei io, non perdendo mai di vista la pregnante realtà
concreta formale, che è pur sempre il punto di partenza per « la
via all'in su >> . Da un punto di vista di valutazione soggettiva, l'ar
monia certo non deve essere considerata come un apprendimento
intellettuale-razionale, ma come una particolare forma di sensibilità
e di visionarità (idea platonica?) che riflette la vera e alla fin
fine non contraddittoria sostanza ( « armonia invisibile » ?) della
Natura.
Estremamente difficile, anzi credo impossibile definire cosa sia l'ar
monia. Cito la definizione di Eraclito, forse la più nota : « Ciò che
in sé cozza, s'accorda e dai differenti toni nasce la più bella armonia
e tutte le cose nascono in seguito ad armonia » (framrn. 8). Ripe
tuto nel framrn. 10, dove l'opera dell'artista che accorda in sé i
differenti colori, imita l'opera della Natura, la cui perfetta armonia
non è che armonia dei contrarii. « L'armonia è discordia concorde ».
Lo stesso pressappoco Filolao: « L'armonia è la unificazione di cose
60
mescolate assieme e consonanza di diverse combinazioni » (25). Su
per giù tutte le definizioni tendono a questa affermazione: armonia
è concordanza dei contrari.
Ripeto: il problema è concettualmente insolubile, perché numerica
mente commisurata, una forma esclude sempre l'altra e ci muo
viamo sempre in un campo di reciproca esclusione, pur ricono
scendo che l'armonia non è possibile se non si prende in conside
razione questa reciproca e contraddittoria esclusione delle forme e
del « numero » . Si dovrà allora solo parlare nei confronti dell'ar
monia, di « sensazione », di « visione », mai di conoscenza. Si
potrebbe parlare anche di istinto spiritualissimo, illogico, che riesce
ad arrivare là dove la nostra conoscenza non potrà mai arrivare.
Si tratta quasi di un terzo elemento, di un'emanazione impercet
tibile che la Natura e le cose emettono dal proprio grembo, affinché,
insinuandosi tra cose e cose, ne componga i dissidi. � una forza
viva - « la più potente delle forze », come dice Eraclito - con
creta, aderente al corpo stesso della materia e generatrice di quella
materia. Essa armonia non deve essere intesa come qualcosa di
astratto, trascendente l'Universo stesso, perché finirebbe coll'espri
mere una semplice astrazione matematica e formale, uno dei tanti
rapporti contraddittori.
� l'errore in cui cadono spesso gli idealisti e i metafisici, i quali si
illudono di potere separare i due termini, e di potere cosi definire
l'essenza prima dell'armonia in sé e per sé: ma il risultato di una
tale scissione è la creazione di vuoti nomi (nominalismo) , che può
degenerare da un punto di vista formale, in formulazioni dogmati
che, negatrici di ogni libero dinamismo umano. Non impostazione
dualistica perciò, ma monistica (l'armonia dà proprio il senso della
viva feconda incarnazione dello spirito nella materia) : vedere e sen
tire, non definire; essere, sperimentare la vita senza distinzioni (26).
Concludendo per quello che riguarda i rapporti Eraclito-Pitagora.
Dobbiamo dire che Eraclito non volle comprendere il pitagorismo
(a meno che egli si trovasse già di fronte a un pitagorismo degenere),
solo perché egli prese in considerazione il numero pitagorico, fine
a sé stesso, scisso dall'armonia. In tal caso era logico che ne deri
vasse una « polumatia », cioè un'enumerazione meccanica di no
zioni. Eppure se pensiamo bene, il divenire eracliteo è solo possi
bile se si parte dalle forme: realtà cioè limitate secondo limiti e
rapporti (quindi in un certo senso è necessaria anche la « poluma
tia ») . Necessità quindi di quella razionalità che constata o pone la
molteplicità per potere sentire, vivere e vedere l'Unità.
Ciò era la base da cui partiva appunto Pitagora nel denunciare la
necessaria manifestazione fenomenica della Natura e inoltre anche
61
nel salvaguardare la fondamentale esperienza monistica di questi
Naturalisti contro ogni possibile frattura tra Spirito e Materia, che
in fondo non sono che espressioni nominalistiche, che avrebbero
avuto il loro ufficiale riconoscimento antologico col platonismo.
E in fondo il concetto del divenire eracliteo parte dalla stessa fon
damentale esperienza: salvare la Natura e il divino che è Natura
e impedire che l'astrattezza delle formule umane (presa di posizione
esclusivamente individualistica), isolasse l'uomo nel suo peccato di
« presunzione » che è poi peccato di ignoranza. Ad ogni modo, né
62
Note del capitolo III
( 1) Eraclito sembra aver terrore della quiete che avrebbe stroncato ogni
possibilità dell'uomo di vivere in intimo contatto con le energie della
Natura. V. Aet., l, 23, 7 << Eraclito tolse la quiete e la stasi dall'Uni
verso che è proprio questo dei cadaveri... )).
(3) Gigon (op. cit., pag. 289): « Il sistema della dottrina dei numeri
non appartiene all'antico pitagorismo. Sino alla metà del V secolo, noi
non abbiamo sicure testimonianze. In Empedocle noi abbiamo soltanto
un luogo isolato, dove appare che la trasposizione delle cose nel nu
mero non è seguita con metodo, bensì avviene solo arbitrariamente. Em
pedocle ha per primo stabilito il numero delle origini delle cose col
numero 4. Alcune testimonianze invero ne indicano la presenza già in
Senofane, sotto altra forma in Eraclito, due filosofi cioè che secondo
testimonianze hanno conosciuto Pitagora )) .
(4) Per le origini del Pitagorismo e per la sua ulteriore scissione, V. an
cora Gigon (op. cit., pagg. 120 e segg.). « La originaria formazione del
Pitagorismo appartiene al VI secolo. Nella metà del V secolo cominciò
la scissione. Le democrazia abbatté il regime aristocratico cui apparte
neva il pitagorismo che era riuscito a fondare una vera confederazione
politica nell'Italia meridionale. A questo punto quindi era necessario
o continuare la vecchia tradizione o trasformarsi o modernizzarsi.
Alla fine del V secolo si hanno ad ogni modo vari gruppi di pitagorici.
Vi sono i « moderni pitagorici )), tra cui, per esempio, Archita e Ari
stosseno. A questi si contrappongono quelli che potremmo chiamare << i
vecchi credenti )) , i quali, a differenza dei primi che si distinguevano
per la speculazione filosofica e illuministica, preferiscono seguire una
certa determinata morale religiosa. Ad ogni modo, nessuna di queste
due tendenze sembra rappresentare con fedeltà l'autentico pitagorismo.
Per quello poi che riguarda la tradizione culturale, possiamo dire che
tutta la letteratura sopra Pitagora sorta dopo il V secolo, sia una me-
63
scolanza di elementi eterogenei dove è difficile dire quello che vi era
di originariamente pitagorico. Antico e nuovo si mescolano ibridamente.
Per quello che riguarda le opere di Pitagora, secondo i « pitagorici
moderni », Pitagora non avrebbe lasciato nulla di scritto: dovevano
esistere solo opere che contenevano gli insegnamenti. Eraclito cono
sceva probabilmente solo queste » .
(5) Oltre a testimonianze dirette di Eraclito bisogna ricordare quella di
Ione da Chio e di Erodoto.
(6) Tempie Beli (« La magia dei numeri », pag. 88): « Ecco che cosa
dice Eraclito probabilmente affetto da una forma di gelosia professio
nale, del suo più fortunato avversario nella corsa all'immortalità ... » .
(7) Noi sappiamo da Aristotele che Alcmeone era giovane quando Pi
tagora era vecchio : possiamo quindi considerarlo come direttamente
ispirato da Pitagora. Ad ogni modo, a parte il fatto che Alcmeone fosse
di Crotone e quindi si movesse entro l'ambito pitagorico, nel complesso
si presenta spesso di difficile soluzione la precisa appartenenza dei vari
filosofi naturalisti a una scuola ben circoscritta. Parmenide e Zenone,
vennero talvolta considerati come « pitagorici » .
(8) I n Filolao per quanto considerato un « modernista » e « illumini
sta », sono tuttavia evidenti i caratteri mitici del primitivo pitagorismo.
Mentre cioè sembra talora esaltare l'anima come entità eterna, auto
noma rispetto alle vicende della vita, tal'altra sembra invece conside
rare l'anima come immanente nella materia, come semplice armonia dei
contrarii (V. la tesi di Simmia nel Fedone di Platone) : avrebbe Filolao
sotto questo punto di vista subito l'influsso del moderno pitagorismo
scientifico.
Ammesso che le cose stiano cosl, ammesso cioè nel pensiero di Filolao
un contrasto di due posizioni (della qual cosa io dubi\o e penso che
tutto il problema debba essere impostato in modo differente), è chiaro
ad ogni modo che in Filolao, che è della seconda metà del V secolo,
sono ancora vivi quegli elementi pitagorici di cui Eraclito avrebbe do
vuto tenere conto. Per la supposta doppia posizione di Filolao, V. so
prattutto Rostagni (op. cit., pagg. 47-59, 126-130, 145-146).
(9) In sé e per sé la figura storica di Pitagora è difficilmente determi
nabile. « La sua figura storica è quasi del tutto affidata alla leggenda »
(Gigon, op. cit., pag. 122). Ed ancora : (( La presentazione di Pitagora
deve essere per forza un'ipotesi... » (pag. 247) « Egli è soprattutto noto
come creatore di uno stile di vita » (pag. 128).
(l O) V. le pagine molto acute di Zafiropulos ( « L'école éleate » , « Les
Belles Lettres » , Paris, 1950). « Questo potere accordato al pensiero
conferiva ai suoi simboli e parole questa singolare potenza che essi con
servavano sempre agli occhi dei greci. L'anima umana agiva attraverso
di essi. Essi esercitavano un'azione diretta sulle cose: la parola iscri
veva difatti il pensiero su questo piano spirituale, dove, entrando in
contatto con le altre anime, essa diventava capace di influenzarle »
(pag. 32). Ed ancora: « L'identificazione del pensiero e dell'anima urna-
64
ni, cosi come la potenza particolare attribuita alla parola, in quanto
simboli di questo pensiero, facevano del nome di una persona il sim
bolo vivente indicato della sua anima.
Pronunciando questo nome si utilizzava dunque più o meno comple
tamente la traccia spirituale della persona, grazie all'inevitabile pro
cesso... Quando �i trattava di soggetti eccezionali, le forze cosi messe
in azione potevano rivelarsi formidabili e pericolose. Perciò era proi
bito pronunciare il nome di Pitagora » (pag. 35). E ancora e soprat
tutto: � Pitagora pose senza dubbio le basi della nostra Scienza instau
rando il simbolismo delle cose, ma questa monumentale innovazione
aveva ai suoi occhi uno scopo molto differente da quello al quale noi
l'abbiamo condotto.
Pitagora non cercava nei numeri che una forma comoda e universale di
rappresentazione per le anime delle cose al fine di poterle più facil
mente influenzare col suo pensiero. Donde lo sviluppo della numerolo
gia in tutta questa scuola e la singolare insistenza con la quale i sapienti
più autentici dell'epoca tornano sulle " virtù" dei numeri. La possibilità
di interventi spirituali che davano queste virtù, aumentavano immen
samente la forza di colui che era stato ammesso nel tempio del sapere:
ecco la ragione che fece decretare a questi animisti che la Scienza con
feriva automaticamente la potenza » (pag. 38).
( 1 1 ) V. Kucharsky ( « �tude sur la doctrine pithagoricienne », � Les
Belles Lettres », Paris, 1952). « Bisognò in effetti che il pensiero pren
desse coscienza di sé stesso, nella speculazione di Socrate e Platone,
perché questa separazione divenisse possibile. Allora grazie a questa
"filosofia dello spirito ", i numeri e le figure acquistarono il vero carat
tere di " idealità", cioè li considereranno oramai come provenienti dallo
stesso piano antologico delle " idee" » (pag. 63).
( 12) V. Kucharski (op. cit.). Il numero avrebbe proprio un valore (( ge
netico » . � Per gli antichi pitagorici, i numeri e le figure sono delle
realtà quasi animate, degli esseri sui generis ... i più semplici dando la
nascita a quelli che hanno una struttura più complessa. E perciò l'es
sere vivente sarebbe un prodotto indiretto dei numeri » (pag. 52).
( 13) V. Robin (« La pensée grecque et l'origine de l'esprit scientifique »)
(pag. 71).
( 14) V. Rostagni (op. cit.): « I Pitagorici sono assai legati agli studi
sperimentali; tengono l'occhio fisso nelle cose per misurarle e compu
tarle; ma le cose seguendo la logica dei numeri, si connettono le une
con le altre; si introducono nell'orchestra generale dell'Universo. Ecco
la potenza magica dei numeri, regolatori ed arbitri del tempo e dello
spazio. Essi in cui lo spirito pratico ha ravvisato un mezzo per tenere
conto esatto della realtà e contemporaneamente lo spirito mistico ha
sentito risonare l'armonia musicale del mondo e della vita: danno ala
a questi filosofi onde sollevarsi dalla sfera dell'individuo e penetrare
nel Tutto ... » (pag. 70).
( 1 5) V. Filolao (framm. 1 1 , Diels, I, pag. 243). « Il dinamismo del nu
mero tu puoi constatarlo non solo nelle cose demoniche e divine, ma
65
in genere in tutte le azioni e parole umane, come in tutte le funzioni
tecniche e nella musica ».
( 1 6) Nel pitagorismo non si può certo parlare di uno spirito distinto da
una materia. Il 1tEplixov, o etere purissimo, regge e compenetra tutte le
cose, si confonde con esse. « Avviene di pensare Iddio, nella sua tota
lità come esistente fuori del cosmo. Ma oramai la sua segregazione è
più apparente che reale, perché egli non troneggia più come figura sta
tica, bensl opera come energia, come etere mobilissimo, capace di eser
citare le sue vibrazioni nel complesso dell'Universo ; quello è il grande
serbatoio della vita e della morte; il ricettacolo da cui discendono le
anime e a cui risalgono senza mai perdere una stilla di sé stesse, per
correndo e ripercorrendo infinite volte la scala che va dalla Unità alla
Molteplicità e dalla Molteplicità ritorna all'Unità )) (Rostagni, op. cit.,
pag. 148).
( 1 7) V. Kucharsky (op. cit., pag. 29): « ... senza dubbio non si potrebbe
contestare che certi numeri e gli elementi geometrici corrispondenti sia
no per i pitagorici i principi generatori di tutte le cose nello stesso mo
do che lo sono per i fisiologici presocratici gli " elementi " d'ordine sen
sibile ».
( 18) V. Kucharsky (op. cit., pag. 63): « I numeri concepiti in questa
maniera sono veramente una realtà sui generis che si pone in qualche
modo tra l'ordine intelligibile e gli oggetti di ordine sensibile. I Pitago
rici li considerano al di fuori di questa distinzione fondamentale ed è
ciò che intende Aristotele quando sottolinea nella Metafisica che per
essi le cose sono dei numeri, ma che questi numeri non sono pertanto
separati, le cose essendo fatte di numeri ».
( 19) Rostagni (op. cit., pag. 182): « Perché secondo i Pitagorici il mon
do è dotato di respiro al pari dell'uomo; assorbe dall'aria lo spirito in
finito che gli sta attorno e che essi identificano col Vuoto, la vita na
turale, i principi dell'individuazione che sono poi il tempo e lo spazio.
Difatti l'aria o il Vuoto è l'elemento determinatore, che traccia i con
fini, le superfici, le misure dei corpi. Inspirando il Vuoto, si inspira
quel quid che rende possibile la molteplicità delle cose, si acquistano
lo spazio e il tempo che è come dire i numeri... sostanza e simbolo della
Natura. Tolti i numeri, tolto il tempo e lo spazio, si torna all'Assoluto
dell'Anima pura, che è sempre pari a sé stessa » .
(20) Secondo l a concezione pitagorica le anime sono polvere di stelle
(V. Aristotele, « De Anima » 404 a 1 6 ff). Anche Eraclito definiva l'ani
ma come una scintilla di luce rapita al sole.
(21) L'affinità di Pitagora ed Eraclito si rivela soprattutto là dove si
tende a definire il concetto di anima (V. in genere Gigon).
(22) V. Kucharsky (op. cit., pagg. 66-67): « D'altra parte risulterebbe ...
che non è nella speculazione dei pitagorici sul numero che i termini
ElSoc;, tSÉa., hanno acquistato un senso ontologico. Difatti il termine
ElSoc; sembra avere presso di essi, un doppio senso: quello di " forma "
o struttura - che sembra avere un senso tecnico - e quello più ri-
66
stretto di " principio". Ora è poco probabile che il secondo derivi diret
tamente dal primo. Di conseguenza non è là che si troverebbe soprat
tutto l'origine del significato che i termini El8oç, tBÉa. denotano nei Dia
loghi di Platone, giacché essi non potrebbero spiegarsi con la sola
nozione di struttura intima delle cose ».
(23) Dalla Metafisica di Aristotele (V. tutto il brano di Diels, I, pag. 270,
39).
(24) Jéiel (op. cit., pag. 59). Ed ancora « I Pitagorici non dicono sol
tanto: tutto è numero, essi dicono sin dal principio, tutto è armonia e
cosl essi intendono tutto musicalmente. I Pitagorici definivano la filo
sofia Musica, spiegavano tutto il cielo, tutto l'universo come armonia
e mediante l'armonia » (pag. 57). Ed infine: « Il Pitagorismo non co
mincia con la Matematica; giacché la Musica contiene certo la Mate
matica, ma non la Matematica la Musica e con la semplice Matematica
nessuno può cominciare ... » (pag. 58). :t proprio questo profondo senso
dell'armonia che rende tanto affini Grecia e Rinascimento. « Nel Rina
scimento la colorita molteplicità del mondo irradia dall'Unità e perciò
il mondo è inteso come Unità nella molteplicità, come armonia. Per
quanto possano essere differenti le teorie di Bruno, Keplero e di Bohme,
essi si accordano nel concetto del mondo come armonia » (pag. 1 2).
(25) V. framm. 10 (Diels, l, pag. 242).
67
IV Capitolo
DIVENIRE DI ERACLITO
ED ESSERE DI PARMENIDE
69
infelice : « Fu un'idea infelice, perché gli elementi che egli tratta
non si prestano facilmente a questo modo di espressione » . Non è
esatto, perché soltanto attraverso le rappresentazioni che non pote
vano essere espresse se non mediante il mito, Parmenide può, meglio
che in qualsiasi altro modo, tentare di fare vedere tutto quel mondo
di sensazioni che egli ebbe l'avventura di vivere e vedere.
Parmenide è istintivamente e spontaneamente portato a raccontare
sotto forma poetica e mitica quello che vide e sentì, quello che a
un certo momento tutti i suoi sensi afferrarono: egli non poteva
fare perciò che raccontare e la poesia dà proprio la sensazione del
racconto anche là dove Parmenide fa della filosofia. La sua espe
rienza straordinaria appartiene a quella che in un capitolo prece
dente ho appunto definita mistica, dove l'uomo cioè racconta e
rivela, non spiega. Se c'è un abbozzo di spiegazioni in Parmenide,
questo consiste soltanto nel dimostrare che della Verità non si può
dare spiegazione.
7 ·1
clito basti pensare al primo frammento e ad altri. Per Parmenide
l'inizio e la fine del suo poemetto (2). Inizio : la luce che appare a
Parmenide uscito fuori dalle tenebre della notte ha tutti i caratteri
della rivelazione improvvisa ed imprevista a cui le sole sue forze
non avrebbero potuto condurlo.
Conclusione: dopo che egli ha detto agli uomini quale sia il loro
congenito errore, esprime tutto il suo scetticismo sulla scienza umana
che in verità per Parmenide si riduce a un puro e vuoto nomina
lismo: « Così per un'illusione nacquero queste cose e in seguito
terminato il loro ciclo periranno; ad ognuna di esse gli uomini
diedero un nome che la indicasse » (framm. 9) (3). E ad ogni
modo evidente l'analogia tra il primo frammento di Eraclito, vo
lutamente, e, direi, gelosamente enigmatico e il contenuto del poe
metto di Parmenide, tutto avvolto in un velo di pudore che non
permette allo sguardo umano di penetrarvi.
71
che un divenire sia realmente possibile, anzi che l'essere è solo pos
sibile attraverso il divenire » ( « Parmenides », 1 9 1 6, pag. 220).
La Vita perciò non può mai essere portata sul piano dell'Intelletto
che analizza, fraziona e fissa, ma sul piano dell'intuizione sensibile,
dell'esperienza vissuta che si sottrae ad ogni forma di spazializza
zione e temporalizzazione e che quindi non potrà mai avere il suo
corrispettivo nel frazionamento dei « 16goi » individuali (5). Piran
dello direbbe: « La Vita può essere solo vissuta, mai rappresentata » .
I paradossi di Zenone non sono affatto paradossi, se portati proprio
sul piano della vita vissuta, sul piano degli istintivi rapporti sinto
nici che si stabiliscono quotidianamente tra gli uomini e le cose.
Sono gli atti vitali che prende in considerazione Zenone e non
certo i cosiddetti problemi metafisici. I Naturalisti si muovono sul
piano della semplicità concreta e reale e non mirano certo, come
noi potremmo supporre, al problema metafisica fuori e al di sopra
della Vita. E Zenone vuole semplicemente dire che ogni atto vitale
può essere soltanto vissuto, visto, sentito: mai analizzato. Il mo
vimento della freccia cessa di essere tale se viene analizzato attra
verso momenti astratti e statici (evidenti sono i rapporti con l'élan
vital di Bergson) .
A proposito dei paradossi di Zenone Zafiropulos dice: « Di questi
argomenti Zenone dimostra che il linguaggio discontinuo dei Pita
gorici, non saprebbe descrivere il movimento in alcuno dei quattro
casi che questo linguaggio permette di immaginare ... la conclusione
di questi quattro argomenti si impone: il linguaggio discontinuo
che ammette delle unità di grandezze finite e infinite, appare come
la combinazione di questi due generi d'unità, non può mai espri
mere il movimento e deve dunque essere rigettato come mezzo di
espressione della nostra esperienza » (6).
I n un certo senso quindi Zenone, discepolo di Parmenide, può
essere anche considerato discepolo di Eraclito, perché figlio an
ch'esso di una forma mentale comune a tutti i Na turalisti greci.
I paradossi di Zenone possono anche essere applicati al « dive
nire » di Eraclito, « divenire » che ci porta verso il vero Essere,
chè altrimenti se noi applicassimo l'essere alle cose, cioè il nostro
essere secondo i nostri « 16goi », quindi attraverso il frazionamento
analitico, non avremmo più il « divenire » , quindi non più il vero
Essere, la Vita, in una parola.
72
che in un secondo momento diventa monito, avvertimento che può
essere valido in tutte le epoche in cui il raziocinio umano, presu
merebbe nella dogmatica presunzione della propria legge e della
propria morale di ridurre la Natura a leggi individuali.
73
necessario trovare il modo di spezzare la staticità e l'astrattezza di
tali categorie, per riportare l'uomo al centro della Vita.
7t!-
Parmenide dirà: « Perciò non sarà altro che un (vuoto) nome quello
che i mortali hanno stabilito nel loro linguaggio, persuasi che sia
la verità: il nascere, il morire, l'essere, il non-essere, il mutare di
luogo e gli splendidi colori » ( franun . 8, 38-4 1 ) . E di rimando
Eraclito, nel framm. 57: « Maestro dei più è Esiodo : sono per
suasi che lui sappia tutto, egli che pur non sapeva cosa siano
giorno e notte: infatti sono la stessa cosa » .
73
Purtroppo queste categorie logiche a un certo momento acquiste
ranno una tale autonomia da essere reputate essenziali e quindi di
conseguenza non fu alla fine difficile antologizzarle. Questo è il vero
errore dell'umanità, questa è la caduta. Dice Parmenide: « Gli
uomini hanno pensato bene di dare un nome a due forme, di queste
la prima non era necessaria definire e qui gli uomini appunto errano.
Essi divisero la " Realtà " (oÉIJ.aç) in modo contraddittorio, distin
sero le une dalle altre caratteristiche. Da una parte l'etereo fuoco
fiammeggiante sempre eguale a sé stesso, dall'altra ciò che non è
mai identico » (framm. 8). Contro ogni dualismo quindi, per un'in
tuizione totalitaria che nega il dualismo.
E quando Parmenide dice che l'Essere e il Pensiero sono la stessa
cosa, fa un'affermazione attraverso la quale il pensiero non è con
siderato come un complesso di categorie logiche, astrattive quindi;
è un'affermazione che non può presentare una soluzione razionale
perché con essa Parmenide vuole proprio superare quel dualismo
tra Essere e Pensiero originato dalla mente umana che vuole de
finire, quindi staccare il Pensiero stesso dall'Essere, ma l'intelletto
per sua natura è costretto a dire: l'Essere è, il Non-Essere non è.
Il senso poi di quella affermazione è ancor più rafforzato dall 'altro
frammento « il pensare e ciò per cui è il pensiero, è la stessa cosa » .
Naturalmente altro è il dire che l'essere è il pensiero o che il pen
siero è l'essere, altro è il dire che il pensiero e l'essere sono la
stessa cosa: nel primo caso vi è subordinazione dell'un termine
all'altro (tesi idealistica o tesi empiristica) : nel secondo caso vi è
unità perfetta di nome e di nominato ( 14). La prima soluzione non
poteva esserci per i Naturalisti in genere, perché per essi non vi
era ancora, ontologicamente, una distinzione di spirito e materia,
di soggetto e oggetto. Si tratta proprio di un Essere in quanto non
è il nostro Essere e il nostro Pensare.
Cosa è questo Essere allora? Esso deve avere un senso terribil
mente concreto, in quanto non portato sul piano dell'astrazione
delle categorie logiche: per Eraclito non può essere veramente che
« fuoco eternamente vivente » : né in nessun altro modo avrebbe
potuto definirlo, perché ogni eventuale trasposizione o traduzione
logica, avrebbe ucciso il senso più vero dell'esperienza vissuta. Per
la stessa ragione Parmenide ci rappresenta Dio proprio come « si·
mile alla massa di una ben compatta sfera » . Questo è l'Essere che
è Vita, nel senso « fisico » della parola e non certo in un senso
astratto e teologico. Era perciò assolutamente necessario, né vi po
teva essere altra via, che Parmenide all'inizio del suo poemetto
dovesse descrivere l'apparire dalla sua Verità sotto forma sensitiva.
Una stessa visione, in fondo, guida il pensiero di Pitagora, di Era
clito e di Parmenide: la visione dell'Unità intesa proprio in senso
76
perfettamente monistico, « compatto », « rotondo », eretta forse ad
estrema difesa contro un'umana invadente mentalità raziocinante.
« Uno e Tutto » questa, in fondo, era la loro vera formula, che poi
fu anche quella preferita dai giovani Holderlin, Hegel, Schelling,
formula che si articola nelle seguenti espressioni : a) tutte le cose
nel Tutto, b) Tutto in tutte le cose, per cui infine c) ogni cosa in
ogni cosa.
Tuttavia malgrado questo che possiamo considerare l'indirizzo co
mune, sappiamo che essi, almeno senz'altro Eraclito e Pitagora,
polemizzarono tra loro ( 1 5). Da un punto di vista eracliteo infatti
Pitagora come colui che avrebbe esaltato la molteplicità attraverso
il numero, avrebbe di conseguenza rotto il binomio : « tutte le cose
sono nel Tutto » (ma Eraclito ha male interpretato Pitagora e in
fatti, come abbiamo visto, il concetto di armonia pitagorica im
plica per forza la viva presenza del Tutto nelle cose, perciò dob
biamo concludere che invece notevole è l'affinità Eraclito-Pitagora) .
Possiamo dire che Pitagora, almeno per quello che noi conosciamo
di lui e appunto perché nell'interpretarlo noi partiamo sempre dalla
sua nota affermazione, « il numero è le cose » , abbia preso come
punto di partenza della sua dimostrazione la prima formuletta, « le
cose nel Tutto ». Egli parte quindi dalle forme della realtà, da ciò
che determina veramente la concretezza delle cose e quindi me
diante l'armonia trapassa nel tutto. Ma forse che anche il « dive
nire » di Eraclito non suppone la stessa premessa realistica e lo
stesso trapasso?
Possiamo invece dire che Parmenide parta dalla formula : « tutto è
in tutte le cose ». La sua è la soluzione dello slancio mistico, sen
sitivo e visionario, è quasi un fulmineo trapasso attraverso le cose
nel Tutto. Egli deve quindi tentare di descrivere poeticamente
questa meta raggiunta in un modo così bruciante . E la sua descri
zione è tutta sensitiva : egli cioè, in un certo senso, almeno entro
l'ambito di esperienza personale che rimarrà sempre personale giac
ché coloro che in seguito lo studieranno vorranno quasi sempre ve
dervi un dualismo (platonismo e non Platone), non fa fatica ad
evitare ogni dualismo tra Tutto e cose; perché totalmente compe
netrato di quella sensitività e visionarità che gli derivano dall'avere
vissuto le singole realtà o anche una sola realtà sino in fondo in
quell'abisso della cosa dove essa si offre alla propria dissoluzione.
Tanto è vero che egli non fa mai della Teologia, non parla mai
di Dio, nel senso nostro e quando nel framm . 8 (55-58) egli con
danna gli uomini, li condanna semplicemente perché divisero in
due parti la « Realtà » : con questo termine possiamo intendere
ogni realtà che ha un determinato aspetto fisico e concreto (tedesco,
Gestalt). II Tutto è ovunque, in ogni singola parte: il non saperlo
77
più trovare dipende dalla tendenza oramai innata negli uomini di
portare la scissione (Hegel direbbe Trennung) entro il grembo delle
vive realtà naturali.
Ma Parmenide è un lirico: egli, di fronte agli uomini, non prende
la posizione del pedagogo (Pitagora) o dell'esortatore (Eraclito).
Egli sembra beato della sua visione, vuole mantenere integra per
sempre questa sua conquista e si accontenta di guardare giù verso
gli uomini con occhio staccato e lontano, a quegli uomini oramai
abbarbicati alle proprie illusioni. A questo punto forse sarebbe in
tervenuto Eraclito a esortare i suoi concittadini a uscire dalla sta
ticità delle loro formule attraverso il « divenire » . Per Parmenide,
quello laggiù è solo il regno del « nome », il regno dello spazio e
del tempo. « Così per una illusione nacquero queste cose e in se
guito terminato il loro ciclo periranno : ad ognuna di esse gli uomini
diedero un " nome " che la indicasse » (framm. 19).
78
la necessità per mettersi in guardia contro il pericolo di tali con
trapposizioni (che in fondo hanno solo un significato astratto ! ) della
legge compartecipativa del « divenire )) , attraverso la quale inoltre
esce salva quella capacità di sensitività e di visionarità che ci mette
di volta in volta in sintonia con l'Uno. E necessario, direbbe Ra
makrishna, di volta in volta « tuffarsi )) in una nuova realtà, per
liberarci delle scorie oramai incrostate sul nostro corpo.
Si tratta proprio di indicare il metodo più adatto per evitare al
l'uomo il pericolo della « scissione )) e - perché no? - della in
crostazione e nello stesso tempo !asciargli la via aperta per la « ccr
munione )) con la Natura. Che Parmenide non sia stato inteso o
forse meglio, che egli non si sia preoccupato di determinare un
metodo che ci preservasse dal pericolo della « scissione )), lo di
mostra in genere l'interpretazione che spesso la nostra filosofia dà
del suo pensiero : il « nome )) ha finito col diventare l'essenza delle
cose (<< idealismo )) platonico) . Solo il concetto del « divenire )) può
scongiurare tale pericolo.
Si può inoltre aggiungere contro il pericolo dell'impostazione par
menidea quest'altra osservazione che mette in chiaro quella che
è forse la più profonda sensibilità di Eraclito: ogni verità raggiunta,
per quanto vasta, per quanto profonda, per quanto eccezionale nella
sua folgorazione magica, finisce sempre, fatalmente, col decadere ,
coll'umanizzarsi: anche il pensiero è vittima del processo di con
densazione e troppo spesso esso diventa la nostra più pericolosa
prigione. Avviene un vero e proprio processo di condensazione, per
cui la verità lentamente, quasi inavvertitamente, ci avvolge di un
velo sempre più opaco e denso : condensazione e rarefazione, legge
che sfugge ad ogni nostro controllo razionale e che regge in modo
ferreo la vita delle cose naturali e degli stessi pensieri umani.
Così la Verità diventa formula, qualcosa di statico e di fisso, a cui
l'anima quasi con terrore, sente di venire sacrificata. Ma - ecco
l'avvertimento eracliteo - di fronte a questa Verità che cessa d'es
sere tale, sta la Natura, col mutarsi, col suo divenire, col suo im
previsto « inesauribile semenzaio )) (Giordano Bruno) di sempre
nuovi germi di vita. Per salvare quindi la nostra esistenza e la
nostra anima, che stavano proprio per perdersi nell'atto in cui rag
giungevano la Verità, è necessario perderle nel fluire incandescente
delle cose.
Vi è quindi forse in Eraclito una maggior sensibilità, un aspetto
dionisiaco più vibratile e anche nello stesso tempo più armonico,
nel volersi accordare, come avesse mille anime, alla vita della Na
tura : vi è forse un maggior intuito psicologico nel sentire e nel
l'avvertire in profondità, avvenimenti e cose nel loro significato più
recondito, ma più reale. Vi è in lui, per usare un'espressione di
79
Nietzsche, quel « fiuto �� particolare che infallibilmente l'avverte
quando le cose sono vive e quando invece comi nciano a morire.
formi? Eppure non molto tempo è trascorso che voi eravate così
variopinti, così giovani e così maliziosi, irti di spine e saturi di
droghe misteriose, tanto da farmi starnutire e ridere. Ed ora? Ora
vi siete spogliati della vostra novità e temo che alcuni di voi siano
già maturi per diventare verità : tanto avete oramai preso l'appa
renza della immortalità e tanto siete noiosi.
« Ma forse che la cosa non andò sempre così? Che cosa mai noi
80
Note del capitolo IV
egli pone il fuoco invisibile e stabilisce l'eterna unità del Cosmo e del
Fuoco. Per Eraclito il visibile è un gradino per l'invisibile >> .
(2) V. Gigon (op. cit.): « L'ultima frase ritorna al principio. Tutto que
sto mondo non è Verità, quella Verità che abita presso la Dea, ma
nome stabilito dagli uomini... Parmenide non ha tralasciato alla fine di
accentuare ancora una volta che non bisogna dimenticare al disopra
del cosmo, l'Essere, il quale è solo Verità e immutabile >>. V. del resto
anche il framm. 5 che io traduco: « Un tutto compatto (l;vv6v) io ho
sottomano (J..Lo( ta't'w) da cui io ho preso l'avvio; ad esso io ritornerò ».
(5) Viene alle volte fatto di pensare che il pudore della propria espe
rienza e il terrore della definizione caratterizzino veramente i Natura
listi greci. Ciò che in essi vi è di dimostrativo e di « logico » rappre
senta quasi un elemento involontario cui essi sono costretti a ricorrere
quasi per un istinto di difesa nei riguardi di quella « massa >> scientista
che sta per prendere il sopravvento. I l senso di distacco dalla realtà
delle cose naturali a causa della parola e della logica è messa in chiaro
dallo Reinhardt nell'opera citata. Secondo lo Reinhardt, l'attività astrat
tiva dell'intelletto arriva sino al punto di « rendersi indipendente e ap
parire in contraddizione con le sue esperienze ».
Linguaggio e pensiero vanno cosl condensandosi sino a dimenticare le
« qualità » e « gli stati delle cose » . Avviene un vero « indurimento »
della realtà in simboli spirituali e allora si parlerà di soggetti, di po
tenze, di cause ecc. ecc. Quanto più si va verso l'astrazione, tanto più
si arriva al punto di rottura con l'esperienza sensibile: « cosl sorge la
Dialettica che è sempre nemica dell'esperienza e del Senso e va raffor
zandosi solo attraverso la rivalità » (V. soprattutto pagg. 250-253).
Reinhardt, questo stacco della « logica >> dalla realtà lo vede già nel
l'« Indeterminato » di Anassimandro e per quanto esso abbia ancora
81
un vivo contenuto sensibile, tuttavia segna già il primo inizio del pre
dominio della parola.
(6) Zafiropulos. (« L'école éleate », (( Les Belles Lettres », Paris, 1950,
pag. 303).
(7) Brecht, op. cit., pag. 34.
(8) V. Soulier (op. cit., pag. 63). In modo molto esatto dice del Logos:
(( Non si tratta dunque della Ragione umana, ma dell'ordine universale
predicato invano dalla natura fenomenale » .
(9) Weiher (op. cit.): « L'EL(.Lap!J.É'IIT) (la sorte? il destino?) è il Fuoco
stesso ... la storia del mondo è così combinata che non potrebbe essere
differente da quella che è » .
( 10) V. Bapp (« Aus Goethe griechischer Gedankenwelt », Dieterische
Verlagsbuchhandlung, Leipzig, 192 1 ) : (( Nulla esiste al di fuori del
Fuoco, così la Ragione del mondo non esiste distinta da questo, bensl
Ragione e Fuoco sono due attributi della medesima sostanza » (pag. 8).
( 1 1 ) Il (( nome » e il (( dare un nome )) sono usati anche da Eraclito.
V. framm. 67 dove appare che il (( nome )) non può essere riferito al
l'essenza divina, ma alle sue esteriori forme mutevoli. Cosi pure il
framm. 32: (( L'uomo... non vuole e pur vuole essere chiamato col
nome di Zeus » .
( 12) Ancora lo Zafiropulos: (( Giacché gli antichi avevano posto un
altro Universo accanto al nostro, essi lo iscrivevano su un piano spiri
tuale che noi abbiamo in genere abolito, donde lo sforzo considerevole
che bisogna fare oggi per rimetterei al punto di vista antico ... Bisognerà
dunque avere costantemente dinnanzi allo spirito il fatto che per quei
primi costruttori di sistemi, tra cui gli Eleati dovevano essere enume
rati, un Essere risultava dall'unione di un'anima con un corpo e risul
tava esclusivamente da tale unione. In altri termini, il mondo sensibile
preso in sé stesso, senza tenere conto della sua anima, non costituiva
che l'errore dell'uomo comune, che è l'opinione del non iniziato, di
colui che ignora la filosofia ».
( 13) Non si può non mostrare l'affinità dei problemi dibattuti da Par
menide (Essere e Non-Essere) cogli stessi problemi della filosofia in
diana : il Buddismo ad esempio. Anche qui e molto più che presso la
filosofia occidentale, le lunghe discussioni sui rapporti tra Essere e
Non-Essere, da parte di quei teorici sistematici che Buddha in verità
non poteva sopportare. Anche per Buddha la verità è la via mediana
(né Essere, né Non-Essere) ed egli rimaneva sempre muto dinnanzi alle
inopportune insistenze dei filosofi teorici, che volevano sapere a tutti
i costi che cosa fosse l'Essere e il Non-Essere. � proprio la posizione di
Parmenide. V. inoltre e soprattutto la scuola indiana Advaita (non
duale di Shiinkiira).
Non è neppure esatto parlare di Monismo in questi filosofi : se infatti
dico Monismo devo pensare per forza a un'Unità contrapposta alla mol
teplicità: Essere contrapposto a Non-Essere ed allora non avrò la Ve-
82
rità. Se dico dualismo è la stessa cosa: spirito e materia e dovrò fare
la scelta tra l'uno o l'altro. La cosa migliore è che io dica non-dualità:
perché è necessario che io parta ogni volta dalla dualità per poi negarla.
Devo partire dalla dualità di Essere e Non-Essere per trovare il terzo
elemento che non è l'uno né l'altro, pur essendo l'uno e l'altro contem
poraneamente. Solo la non-dualità potrà farmi vedere il nesso organico
tra il Tutto e le parti. � proprio questa la posizione di Shiinkarii.
( 14) V. Joel (op. cit.): « Ogni conoscenza poggia su di una certa sim
bolica, in quanto essa pretende una certa corrispondenza tra soggetto
e oggetto. Ogni conoscenza deriva dalla più profonda origine della Mi
stica. Ma l'unità mistica di soggetto e oggetto che è data immediata
mente dal suo sentimento, è ancora e soprattutto abbracciata da Par
menide in quanto egli proclama l'unità di pensiero ed essere » .
( 1 5) Che Parmenide abbia direttamente di mira Eraclito è molto dub
bio. Per tale tesi lo è per es. il Calogero; non lo è il Reinhardt, il Wil
lamovitz, il Gigon.
83
V Capitolo
84
nostra errata interpretazione, segna veramente l'inizio di una nuova
valutazione della Naturo��
85
L'ironia segna sempre, entro un determinato schema logico del
discorso, proprio una rottura di logicità, per cui l'interlocutore
perviene proprio a conclusioni che sono all'opposto della tesi con
tenuta nella premessa e che egli dall'alto della sua prosopopea cre
deva con estrema e logica facilità di portare a termine. (V. « Il Pro
tagora » di Platone) . � una specie di sgambetto, l'ironia socratica,
ed è un antischematismo radicale che mira proprio alla metodica
esclusione della Verità dal nostro schema. Sotto questo punto di
vista l'ironia socratica sta sullo stesso piano dell'ira eraclitea e,
potremmo aggiungere, della noncuranza parmenidea. Mutano solo
gli atteggiamenti, ma la sostanza è la medesima: condanna di co
loro che presumono di definire la Verità. Si tratta proprio di colpire
a fondo la presunzione dei falsi sapienti.
86
strumenti razionali ( 1 1 ). E un istinto, una tendenza misteriosa che
non ha ad ogni modo nulla a che fare con le esigenze morali e
normatrici della coscienza e dell'intelletto.
87
riguardante la « incomunicabilità » o la « comunicabilità » o almeno
le vie che possono portare alla « comunicabilità », della vera fi
losofia.
Perciò invece di parlare di Platone è sempre meglio parlare di
« platonismo » (proprio quello che abbiamo ereditato noi), col
quale termine noi intendiamo dire che forse per la prima volta
nella storia del pensiero occidentale si ha il tentativo sistematico
o almeno si crede di intravvederne la possibilità, di trasferire il
sentire e il vedere sul piano del conoscere : di considerare la spie
gazione razionale come un elemento che miri ad esaurire in sé,
nelle proprie strutture, sino in fondo, l 'essenza della realtà. Si
vuole cioè mediante i ragionamenti comunicare e trasmettere agli
altri quelle verità che in fin dei conti presso i Naturalisti, presso
lo stesso Socrate (ed anche - perché no? - in Platone) erano
gelosamente custodite come incomunicabili esperienze personali.
88
sofare che investirà profondamente alle radici tutta la mentalità
europea, dando origine a quel dualismo tra « nome » (spirituali
smo?) e « realtà » (materialismo? ) in cui gli uomini sembrano ora
mai patologicamente immersi. Eppure « idea », etimologicamente,
significa « visione ». Ed allora? Altro è veramente il platonismo,
altro Platone? E aveva ragione allora nel nostro Rinascimento Mar
silio Ficino nel sostenere che Platone era stato male interpretato e
mal tradotto e che la giusta interpretazione era quella neoplatonico
emanazionistica? E forse che lo stesso Platino del resto fa colpe
vole del dualismo non Platone ma Parmenide, sostenendo anzi che
proprio Platone aveva cercato di superare (nel dialogo « Il Par
menide »), attraverso un graduale processo ascensivo, la frattura
dualistica di Parmenide? Tuttavia, egli aggiunge, anche in Platone
si deve riconoscere l'esistenza di contraddizioni difficilmente spie
gabili.
Ad ogni modo, Platone o platonismo, l'uno o l'altro segna proprio
quel momento che ho affacciato nell'Introduzione : la Ragione fine
a sé stessa (Raziocinio) . Non si arriva, come abbiamo visto, con
Platone ancora alla eliminazione del momento visionario e sensi
tivo, anzi ne è la premessa, ma in un certo senso egli ha la fiducia
che attraverso il ragionamento sia possibile portare alla visione,
anche coloro che non hanno avuto la fortuna della visione stessa1
anche gli « animi barbari » , come direbbe Eraclito. Tale fu in
Platone la gioia della scoperta nell'uomo di una « particella di
vina » (iM<X J.lOLP<X), scoperta che anche logicamente e dimostrati
vamente poteva essere accettata dalla mente di tutti gli uomini,
per cui era possibile che alla fine anche essi potessero vederla.
89
potremmo dire, di una pedagogia a sfondo magico-ambientale. Sic
come l 'anima attraverso una sua particolare armonia (disposizione
apparentemente anche meccanica delle cose), riesce a vivere e a
far vivere le cose, queste ritrasmettono ai presenti, quella vita,
quell'anima che in esse si era incarnata.
90
vi sarà sempre un salto qualitativo che non potrà mai essere col
mato dalla nostra razionalità, ma forse solo attenuato, sino a creare
un'unità organica, dal « numero » magico ( « scienza magica ») . Il
contrasto fondamentale del resto tra il vecchio Parmenide (nel dia
logo omonimo di Platone) e il giovane Socrate, verte proprio da
una parte sul carattere volutamente rinunciatario di Parmenide a
volere spiegare i rapporti tra le cose e il Tutto, dall'altra invece sulla
bellicosità razionale del giovane Socrate.
91
stessa : magica, se presa come mezzo. Strumentalismo in quest'ul
timo caso oltre il quale la conoscenza umana non può mai andare.
Solo quindi la soluzione pitagorica, appunto in quanto considera
la ragione come strumento interpretativo e variabile di una So
stanza che non è mai definibile, può veramente rappresentare la
soluzione più felice: è logico però che sotto questo punto di vista
la Ragione non è mai « Principio >>. Con Platone invece si finisce
col confondere lo strumento con la verità che mira ad esprimere
l'essenza ultima e definitiva delle cose e ciò che era solo un mezzo
diventa un fine. E possiamo forse localizzare proprio in questa tra
sformazione del valore, della funzione e dei limiti della ragione, tutto
l'errore e l'equivoco che, in gran parte, in ogni campo, dominano
ancora ai giorni nostri.
-- )o-
92
Natura (Fusis) - Fuoco - Logos - Unità
t t t
attraverso mediante la attraverso il
il divenire visione diretta numero magico
ERACLITO PARMENIDE PITAGORA
J,
« via all'ingiù » (xa:ta 686c;): esperienza fine a sé stessa come afferma
zione dell'Io fenomenico. La Ragione diventa allora
Raziocinio
stacco dell'lo fenomenico dalla « compattezza della Natura ». Gnoseo
logicamente dualismo accademico di spirito-materia
Nota bene. Distinguo la Ragione dal Raziocinio, perché mentre col primo termine
-
intendo l'integrarsi del finito nell'Infinito (e quindi può avere anche un aspetto
magico), col secondo intendo invece l'isolamento (l'« Isolierung » di Hegel) dell'lo
in sé stesso dando luogo alla disorganicità fenomenica.
D'inciso: è la stessa differenza che nella filosofia indiana vi è tra « maya divina »
e « maya umana "· (V. soprattutto il Bhagavad-Gita) .
93
Note del capitolo V
94
svincolarsi per questo dagli istinti? Bisogna riconoscere i loro diritti,
cosl pure quelli della ragione: bisogna seguire gli istinti e persuadere
la ragione ad appoggiarli con buoni argomenti. In ciò consisteva la
doppiezza di quel grande ironico misterioso. Egli porta la coscienza a
sentirsi soddisfatta di una specie di inganno di sé stessa: in fondo egli
aveva intravisto l'Irrazionale nei giudizi morali » .
(6) Dice il Taylor a proposito della interpretazione aristotelica di So
crate: « ... Aristotele evidentemente più che darci una caratterizzazione
completa di Socrate, intende mettere in rilievo la derivazione socratica
di alcuni elementi della propria filosofia e sembra basare il proprio giu
dizio semplicemente sulla sua interpretazione dei Dialoghi di Platone,
che illustrano abbondantemente tale aspetto » ( « Socrate », « La Nuova
Italia », pag. 1 1 5). Come sappiamo, Aristotele afferma che due sono le
novità del pensiero socratico: le indagini induttive e la definizione uni
versale e con questo avrebbe dato impulso alle dottrine delle idee; però,
aggiunge, a differenza di Platone, Socrate non separò i concetti dal par
ticolare e « in questo fece bene », egli completa.
95
bile la tesi del suo maestro, ma soprattutto per interpretare sé stesso...
Sia detto per ischerzo e parafrasando Omero : che cosa è il Socrate di
Platone se non anzitutto Platone, poi ancora Platone e in mezzo una
chimera? » (op. cit., pag. 100).
( 12) Platone - Lettera VII ( « Boringhieri »: soprattutto pagg. 76-82).
A proposito dell'incomunicabilità dice: « .. questa disciplina non è as
.
96
VI Capitolo
97
Anche Hegel stesso mette a base dell'« Isolamento » , la « Hass »
e la « Neid » (odio e invidia). Se poi volessimo dare uno sguardo
a certe filosofie orientali avremo con Buddha : « l'ignoranza », che
secondo lui nasce proprio dal momento in cui l'uomo dice « Io
so », « Io voglio », « lo desidero » o nel sistema Samkhya « il prin-
cipio dell'attaccamento >> ( « Ahiimkiira ») ecc. ecc.
Si correrebbe forse il rischio a questo punto di scivolare in una pro
spettiva trascendente-spiritualistica, ma l'errore non sta nelle cose
(la cosiddetta « materia »), ma nel modo come noi interpretiamo le
cose: dall'isolamento dell'Io deriva lo stesso isolamento delle cose.
Si tratta proprio di superare l'isolamento e non certo di impostare
il problema secondo una irriducibile distinzione di materia da spi
rito. Non dimentichiamo mai ad ogni modo che sia per i Natura
listi come per Hegel a fondamento di ogni veritiera ricerca c'è
sempre la necessità di passare attraverso le cose per arrivare oltre
le cose e ritrovare quindi veramente le cose. Né certo vi si è sot
tratto lo stesso Parmenide che più di ogni altro mistico naturalista,
forse ha dato l'impressione di spiccare un volo tale da dare l'im
pressione di un atteggiamento ostile e nemico del mondo. Ma Par
menide in verità non accusava le « cose », ma i « nomi » degli
uomini, deturpatori delle « cose » , della realtà .
Ora i l superamento d i ogni dualismo, o meglio, d i ogni frattura
tra Io e Non-Io in modo da colmarne il vuoto onde ricostituire
organicamente la Natura, può essere tentato in due modi:
a) istintivamente, liricamente, intuitivamente col rifiuto di ogni
tentativo razionale-dimostrativo, perché la dimostrazione, qualun
que essa sia è sempre un « nome » con le sue inevitabili conseguenze
deturpatrici della Natura (Parmenide).
b) dimostrativamente, come sembra nel complesso abbia fatto
Platone. Ora c'è da chiedersi se l'una o l'altra soluzione sia in grado
di risolvere il problema, se cioè ci permetta di entrare veramente
nel cuore della Natura, sintonizzarsi con essa, annullandovisi per
potenziarsi. La soluzione lirica di Parmenide poteva certo prestare
il fianco ad essere interpretata in modo opposto a quello che egli
si proponeva, cioè dare origine al dualismo di spirito e materia e
così infatti lo interpreta lo stesso Platino, ma, chiediamoci, forse
che per determinare il contenuto di Dio-Natura, Parmenide non usa
quell'espressione di « ben compatta sfera », che in fondo ai cosid
detti spiritualisti, non va tanto a genio, a meno che non la si con
sideri psicofisicamente?
D 'altra parte la soluzione razionale non è neppure essa in grado di
superare la congenita fenomenica condizionante formalità del « no
me » . E questo possiamo considerare il fallimento del platonismo,
anche se Platone si proponeva ben altre mete.
98
Una situazione analoga si prospetta nell'SOO tedesco (ma da quan
do uomo è uomo, nella ricerca della verità, si è sempre prospettata
e sempre si prospetterà). Due infatti sono le impostazioni filosofi
che tedesche di questa epoca : il lirismo - romantico di Schelling
e la dialettica razionale di Hegel. E precisamente: Schelling si fer
ma e non si muove dalla impostazione lirico-magica del Romanti
cismo e guarda con scetticismo alla nuova « dialettica » di Hegel;
perché anch'essa, secondo lui, incapace di scongiurare il trucco
del « nome » .
Hegel, consciamente rendendosi conto del fallimento della razio
nalità platonica, crede di potere introdurre un nuovo tipo di razio
nalità, la sua « dialettica » appunto (tanto simile come imposta
zione, ma su un piano razionale, all'armonia dei contrari di Era
clito) che metodicamente e armonicamente (il suo processo tria
dico) possa riempire il famigerato vuoto, mettendosi contempora
neamente in condizione di offrire agli uomini, non una sola rina
scita (ogni sintesi dovrebbe sempre essere una nuova rinascita!), ma
ogni possibile rinascita futura.
Riuscì egli nel suo intento? Fu egli veramente un eracliteo che per
fezionò e completò Eraclito? Seguiamo un po' da vicino, anche
brevemente, la genesi del suo pensiero.
Sappiamo tutti che esiste un Hegel giovane, l'Hegel cosiddetto ro
mantico (V. i « Theologische Jugendschriften >>) ( l ) e l'Hegel siste
matico (dalla « Fenomenologia » in poi) : ciò che importa sarà il
mostrare, appunto per mettere in chiaro la nuova soluzione uma
nistica hegeliana, come avviene la sutura tra il primo e il secondo
momento (2). Due sono i terreni sui quali si forma la personalità
del giovane Hegel, due le fonti di ispirazione iniziali: la Rivolu
zione Francese e il mondo greco riscoperto e rivissuto in modo del
tutto originale (soprattutto sotto l'influsso di Holderlin) .
La Rivoluzione Francese ha rappresentato per Hegel quel movi
mento politico che frantumando la rigidità delle categorie sociali
che sembravano stabilite per l'eterno e che contrapponevano in
modo irriducibilmente dualistico, quindi antiumanistico classe a
classe, popolo a popolo (primo esempio di una « Trennung » o scis
sione hegeliana senza soluzione) , riportò << il fluire della Natura »
( « die fliessende Natur ») entro le irrigidite strutture morali e so
ciali dei popoli e mise in movimento la storia di tutte le Nazioni
lanciate verso la propria conquista umana. La scoperta della Vita,
della propria Vita, è la scoperta del divino : nello Hegel giovane,
Vita è sinonimo di Dio e questa è una caratteristica che lo rende
tanto affine al vitalismo naturalistico eracliteo.
E proprio a questo proposito egli per istinto, per preparazione cultu
rale e probabilmente per la potente suggestione di Holderlin, scopre
99
il mondo greco, che da lui è sentito come il mondo delle libere
conquiste individuali, delle libere costituzioni politiche, degli eroi
divini che sanno lottare contro il destino, assorbendolo e ricrean
dolo in sé, in plastiche espressioni di sempre nuovi « oggetti » che
esprimono poi le nuove rinascite ( « In der Anschauung der Liebe
und im Genuss der Schonheit » : influenza schellinghiana) (3). Il
popolo greco per i primo ebbe il senso della vera eticità, che egli
definisce come « Aufhebung einer Trennung im Leben » (4).
Il popolo greco seppe divinamente vivere perché nei suoi atteggia
menti, nelle sue azioni, nelle sue creazioni, sapeva di volta in volta,
nella visibile e concreta armonia delle cose, fare balenare quell'in
visibile armonia (« dass das Gottliche erscheine, muss der unsicht
bare Geist mi t Sichtbarem vereinigt sein ») (5), che si realizza solo
nel superamento dei contrasti, che se « isolati », nella loro partico
lare « scissione » ( « Trennung » senza soluzione), non avrebbero
permesso all'uomo di partecipare all'« Essere Vivente » (« Das
lebendige Sein »), a quel « fuoco eternamente vivente )) quindi di
Eraclito, che anche in Hegel è sinonimo di Divinità ; è qui evidente
l'affinità di Hegel con Eraclito, il suo « Lebendiges Sein )) è pro
prio il « fuoco eternamente vivente )) di Eraclito, l'etere di HOlderlin.
Ciò che soprattutto ci interessa è il fatto che già in Eraclito esista
una polemica contro coloro che in nome di personalissimi « logoi ))
si sono staccati dalla Natura e tutta la polemica di Hegel è proprio
condotta contro questa « scissione )), anche, s'intende, come in Era
clito, nel campo sociale ( « Trennung )) , che fatalmep.te porta alla
« Isolierung )) ), già denunciata da Eraclito stesso c che andò sem
pre più affermandosi attraverso i secoli.
Dobbiamo quindi dire che il veleno della scissione, già penetrato
tra gli uomini sin da parecchi secoli prima di Cristo (gli �-rr;Ea xaì.
�pya di Eraclito non sono altro che il « Verstand )) Intelletto di
Hegel e così pure dicasi del « nome )) di Parmenide). Ma ciò che
interessa soprattutto è il fatto che proprio come Eraclito, Hegel ri
conosce la necessità di elementi contrastanti ( « discordia concors )) )
quali mediatori per la invisibile armonia e li condanna se isolati
dal Tutto, alla cui organica costituzione è necessario concorrano
(quindi non come fine a sé stessi, ma come mezzi) , sostenendo cosi
la necessità del « Verstand )) (Intelletto) per pervenire alla « Vern
unft )) (Ragione-Logos). « ... und durch den Verstand zum ver
niinftigen Wissen zu gelangen ist die gerechte Forderung des
Bewusstseins )) (6).
Ma mentre Eraclito non si preoccupa di determinare il come e il
quando ebbe origine nell'umanità tale scissione, Hegel localizza
storicamente il primo insorgere della « Trennung )), nella vita di
Abramo (dobbiamo riconoscere che Hegel era veramente troppo
1 00
ottimista nel giudicare come un modello insuperabile il modo di
vivere dell'antico popolo greco. Come giustifica allora l'ira di Era
clito verso i suoi concittadini, l'indifferenza di Parmenide, l'ironia
di Socrate, ecc. ecc.? � sempre e solo questione di percentuale) .
101
che alla coscienza oppressa e infelice, si sostituisce la coscienza
sentimentale.
Vi è infine il terzo Cristianesimo, quello di Hegel, il Cristianesimo
che attenderebbe ancora di essere realizzato. Il Cristianesimo uma
nistico cioè, della sintesi degli opposti, della scoperta del divino
nella Vita, della realizzazione del divino solo attraverso la Vita.
In senso perfettamente eracliteo un cristianesimo naturalistico (ma
se ne parla anche nel nostro Rinascimento !), potremmo dire, restau
ratore e continuatore di un'antichissima tradizione che Abramo
avrebbe spezzato. Ma, come sappiamo, secondo Hegel il tentativo
di Cristo falli, perché il mondo degli uomini gli si pose di fronte
in modo decisamente ostile e irriducibile e Cristo rifiutato dagli
uomini cercò la salvezza in una vita incompiuta ( . . . die Schiksallo
sigkeit durch die Flucht in unerfiiltes Leben » ) (7).
102
mento di sc1ss1one, vuole proprio usare dell'Intelletto per vincere
l'Intelletto stesso, non malgrado quindi l'Intelletto, ma mediante
l'Intelletto.
Ora secondo lo Hegel, la soluzione intuitiva, portando fatalmente
a un dualismo, ricade in un intellettualismo, giacché dualismo e
intellettualismo sono sinonimi. In un certo senso Hegel non ha
torto, perché anche ammesso che l'intuizione possa esprimere vera
mente un'esperienza totalitaria, perfetta nella sua indistinzione di
materia e spirito, direi, un'esperienza psicofisica, tale esperienza,
teoricamente e praticamente, finirebbe sempre coll'esprimersi duali
sticamente: teoricamente perché in un'eventuale formulazione siste
matico-filosofica, essa dovrebbe sempre contrapporre due realtà di
stinte: praticamente, perché essa imporrebbe per forza atteggia
menti e azioni all'individuo in opposizione alla vita concreta, og
gettiva che scorre dinnanzi a lui.
E questo fu forse il caso di Parmenide, il quale, filosofo monista
per eccellenza, venne invece considerato come il padre del dualismo.
Potremmo forse, con Hegel, pensare che i greci non ebbero (o forse
la ebbero troppo ?) coscienza di questo pericolo (si dovrebbe però
fare eccezione per Eraclito) e cosi le loro rinascite, furono rinascite
isolate, spezzettate, in quanto in un'impostazione lirico-intuitiva, il
dualismo, il vizio di Abramo, può facilmente insinuarsi e svolgere
il suo gioco distruttivo .
Per scongiurare il dualismo quindi non rimaneva che una sola via,
quella a cui ho accennato prima : usare dell'Intelletto per vincere
l'Intelletto e questa era la nuova dialettica e la nuova Scienza di
Hegel, l'unica possibile che potesse indirizzare l'uomo, di volta in
volta, nel centro della Vita, impedendogli ogni evasione da essa.
La formula famosa « Uno e Tutto » che a Tubinga aveva guidato
gli entusiasmi e ispirato le intuizioni dei tre giovani amici, doveva
essere salvata a tutti i costi e sembra che Hegel voglia mantenersi
fedele ad essa sino in fondo.
Bisognava creare una Nuova Scienza ( « Neue Wissenschaft » ) che
nel suo gioco alterno di spirito e materia, di sintesi metodiche, ci
tenesse sempre a contatto con quella « Vernunft » (Logos), con quel
ritmo vitale della Natura che era come la melodia fondamentale
dell'Universo che accentra in sé e regge tutti i complessi e svariati
strumenti dell'orchestrazione. In modo mirabile aveva espresso que
sto concetto HOlderlin.
Da un punto di vista storico e culturale era necessario scoprire un
metodo che assicurasse all'uomo ogni possibilità di rinascita, che lo
portasse metodicamente a contatto con quel « fuoco eternamente vi
vente » di Eraclito che è poi la « lebendiges Leben » ( « La vita Vi
vente ») di Hegel, è l'etere di Holderlin: era quindi necessario im-
103
pedire che l'uomo dopo le sue rinascite parziali, ricadesse nuova
mente nella morte del dualismo, come sino allora era avvenuto: era
necessario inoltre salvare tutte le rinascite del passato, condannate
altrimenti ad andare disperse, salvare il passato e assicurare l'avve
nire: era necessario salvare il dolore e la fatica degli uomini. Le
sintesi vitali avrebbero proprio dovuto ogni volta rappresentare la
rinascita, sintesi vitali in cui l'invisibile armonia si fa ogni volta
visibile armonia, in cui ogni volta l'uomo sembra entrare quasi
magicamente in contatto col Dio vivente.
Certo è molto dubbio che questo tentativo gli sia riuscito. Egli cer
tamente va ammirato per il mirabile tentativo, attraverso una nuova
Logica, una nuova Dialettica, di dare forma all'Informe, ma met
tiamo pure in dubbio che il troppo sensitivo Holderlin avrebbe ac
colto la soluzione hegeliana. Affascinante la nuova impostazione di
Hegel e mirabile il suo sforzo, tanto affascinante che gli riuscì im
possibile sottrarvisi: egli si illuse di avere sventato una volta per
sempre il vizio d'origine del « nome », il trucco inevitabile dell'In
telletto umano.
In verità l'affermazione di Eraclito : non ci si potrà mai bagnare
due volte nella stessa acqua, rimane sempre valida e con Pirandello,
« la Vita può essere solo vissuta, mai rappresentata » . Il primo ten
tativo di una tale soluzione, cioè quella di portare sul piano del
conoscere, il mondo del sentire, del vedere, del vivere, fu certo
quello di Platone. In un certo senso Platone sta ai lirici greci, come
Hegel al romantico Schelling, ma il suo tentativo fallì e, volente o
nolente, il suo dualismo passò attraverso i secoli senza che mai ve
nisse risolto sul piano della razionalità: quello di Hegel fu il se
condo tentativo e poteva sembrare che avesse in sé tutte le possi
bilità per raggiungere lo scopo.
104
che il significante ancora una volta ruppe i suoi rapporti vitali col
significato.
Forse che allora la rampogna del primo frammento di Eraclito e il
rimprovero dell'opinione-illusione di Parmenide non potrebbero es
sere diretti anche contro Hegel? Tra il periodo giovanile di Hegel
e il periodo della sistematicità vi è una sutura solamente logica, non
umana e tutta la pienezza stupenda della sua gioventù, tutta la ric
chezza inesauribile dei suoi stati d'animo, tutta quella sua partico
lare sensitività, vennero sempre più svuotandosi di ogni contenuto
e il « nome >> ancora una volta alitò vuoto al disopra della pienezza
della Vita, al servizio magari di quegli assolutismi politici che il
giovane Hegel aveva proprio combattuto. Tanto è vero che per tro
vare un senso nei termini filosofici dello Hegel sistematico, è neces
sario risolverli ancora nelle sue òrigini sensitive e umane della gio
ventù da cui essi sono scaturiti, ma allora rompiamo lo schema, ri
torniamo al mondo predialettico, in quel mondo cioè lirico-magico
in cui Schelling volle perseverare (sarebbe inoltre necessario chie
derci se, fin dove e fino a quando, HOlderlin influì su Hegel). A
meno di dare un significato magico alla sua terminologia.
105
suto, è, a mio avviso certamente più vicino ai Naturalisti greci di
quello che lo sia Hegel (ma Schelling era anche stato influenzato
dal Rinascimento naturalistico italiano ! ) : tuttavia ciò che importa
mettere in evidenza è che dopo secoli e secoli di tentativi (dei quali
forse quello di Hegel è il più mirabile) , la sistematicità razionale
degli uomini non è riuscita a dare una risposta a quel punto interro
gativo che era una delle fondamentali premesse dello Hegel giovane,
lirico e mistico, ma che mantiene intatta tutta la sua validità anche
per lo Hegel maturo, dialettico e sistematico: « I l rapporto che uni
sce l' Infinito al Finito è certamen te un grande mistero, giacché que
sto rapporto è la Vita stessa » .
Rimarrebbe quindi a questo punto solo l a soluzione estetica, della
Ragione magico-artigiana-interpretativa. Intelletto o dialettica hege
liana non possono mai « dare forma all'Informe ». La verità ultima
giace nel grembo della Natura ( « la Natura ama nascondersi » diceva
appunto Eraclito) o nello sguardo penetrante del visionario (Bud
dha, « occhio dell'Universo ») : a noi la capacità di viverne e di in
terpretarne i colori o, come diceva Ramakrishna, la capacità e la
possibilità di « tuffarsi » ogni volta nelle diverse e variopinte realtà,
per uscirne ogni volta, depositate le vecchie scorie, irrugiadati di
sempre nuova vita.
106
Note del capitolo VI
107
VII Capitolo
Nel presente lavoro non trova evidentemente posto una ricerca sto
rica sui rapporti tra Occidente ed Oriente, che pur sarebbe così
necessaria a testimoniare gli stessi ininterrotti rapporti spirituali e
culturali. Tuttavia ognuno di noi sa che nell'antichità, da Pitagora
sino a Plotino, che volle seguire in Asia l'imperatore Gordiano per
studiare la religione persiana, questa aspirazione a diretti concreti
incontri, al fine di conoscersi, non venne mai meno.
E allora perché non supporre una linea ideale che unisca taoismo
naturalismo greco, Laotse-Eraclito o viceversa? (le vie del pensiero
sono veramente misteriose) (« idee nell'aria », direbbe G. B. Vico) .
Ad ogni modo e più esattamente, perché non riconoscere un comune
modo di sentire, se, soprattutto s i pensa che una Lao-tse, un Bud-
109
dha, un Eraclito vissero, pressappoco nello stesso periodo di tempo?
(VI sec. a. C.): un antico comune modo di sentire che sempre più
veniva espulso sino ad essere sradicato dalla mente degli uomini da
un nuovo modo di sentire, che è poi un vivere contro Natura, « quan
do » - dice Lao-tse - « gli uomini antichi calmi venivano, calmi
partivano, dolcemente, come planando » ?
L a presa d i posizione quindi d i tutti questi grandi personaggi, sarà
una presa di posizione nettamente polemica contro il nuovo, aber
rante, modo di sentire, unita, soprattutto nei filosofi orientali, a un
profondo senso di nostalgia per una civiltà forse definitivamente
scomparsa.
Ma se dovessimo chiederci quale è il vizio d'origine di una tale
aberrazione, se dovessimo trovare un denominatore comune che ne
sta alla base, dovremmo con Ciuang-tse, genericamente rispondere
che tale comune denominatore è segnato, dal passaggio, nell'uma
nità, dalla « mente naturale » alla « mente sofisticata », il che si
gnifica, con una più aderente ed accettabile espressione, dal pas
saggio dalla antica civiltà del senza nome ( « originaria semplicità
senza nome » , dice Lao-tse) alla nuova civiltà dei nomi e sempre
con Lao-tse: « Quando la Primitiva Semplicità mutò, si ebbero molti
nomi. Non ve ne sono dunque abbastanza? Non è questo il momento
di fermarsi? » e nostalgicamente con Ciuang-tse, « Possano entrare
dal di fuori, nel campo del cuore, gli esseri che non hanno più
nome ». E qui credo opportuno riferirmi ancora (già citato nella
prefazione) al brano paradossale del visionario Lao-tse che sembra
quasi volerei riportare ad un Paradiso irrimediabilmente Perduto,
tanto enigmatiche ci possono apparire le sue parole :
1 10
due termini stessi in un terzo elemento, cui gnoseologicamente non
può corrispondere da parte dell'uomo un giudizio de{iniente (V. il
brano di Lao-tse sopra riportato) , ma può corrispondervi solo
(quasi psicofìsicamente parlando) la visione-sensazione, che sola
può porci a contatto e farci coincidere con quel terzo elemento che
non è né soggetto né oggetto e quindi non accessibile alla nostra
conoscenza distintrice.
La visione ci fa entrare nella cosa, ci fa essere la cosa, trapassare
la cosa stessa e fluidificare sempre, altrove, attraverso l'Universo e
gli spazi infiniti e allora, proprio secondo natura, vivevano quegli
antichi esseri « angelici » , che, come dice Lao-tse « . . erano in com
.
I l « nome » , nel Tao-te-king (che pur essendo forse stato nel suo
complesso composto parecchi secoli dopo Lao-tse, gli è innegabile
l'eredità spirituale), è sullo stesso piano degli �'ltEOC xoct �pyoc che let
teralmente si dovrebbero tradurre « parole e azioni » , ma che qui,
nel caso di Eraclito, ha un carattere piuttosto spregiativo (ricorda
un poco le « parole, parole, parole, » shakespeariane) .
111
scenza scientifica che si presenta sotto un aspetto relativistico e
inoltre affermando che la Monade è un numero parimpari, si rife
risce ad uno strano « numero » che non è rappresentabile e quindi
non è « numero » .
Colla « civiltà del nome » entriamo in quella che possiamo dire sia
la storia visibile dell'uomo, con tutte le relative complicanze di
problemi politici, sociali, economici (l'altra, la « angelica », era
evidentemente invisibile). Tuttavia in questa civiltà visibile del
« nome », sempre dall'alto verso il basso, possiamo distinguere due
periodi. Il primo, quello a cui si riferiva Lao-tse, in cui cioè gli
uomini, non disprezzavano del tutto il « nome », ma lo ponevano
in secondo piano. Il « nome » cioè (la Ragione reintegrata nella
sua funzione artigiana-magico-strumentale) è perfettamente legit
timo quando si inserisce in un piano universale che, potrei dire, lo
nutre, rinnovandolo.
Ci muoviamo quindi in un campo, che, a volere essere ottimisti, po
trebbe essere accettabile dall'umanità o dovrebbe essere la meta
delle sue aspirazioni naturali e spirituali. Col secondo periodo siamo
alla fine della scala discensiva : il « nome » definitivamente fine a
sé stesso, l'azione definitivamente fine a sé stessa: le « parole » al
servizio solo delle proprie azioni-interessi. � quello che Hegel chia
merebbe il predominio della « Einzelnheit » (Individualità) e che
porterebbe alla « Isolierung » ( « Isolamento ») e che per Lao-tse
segnerebbe la definitiva affermazione delle « preferenze individua-
1 12
li ». � il distacco definitivo dalla Natura, è la « Trennung » hege
liana.
Ma qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi : ma da che cosa
deriva questo predominio del « nome » fine a sé stesso, il quale
certo non può essere considerato come un'entità astratta vagolante
nel vuoto, ma che ha una sua inevitabile dinamica nella storia de
gli uomini, anche se porta in sé il veleno della scissione, della lotta,
dei contrasti insolubili ? : a quello cioè che noi siamo soliti defi
nire la Storia e quindi la Scienza storica? Ci deve pur essere dietro
qualcosa di concreto. Rispondiamo, facendo eco a quello che è il
punto di vista comune dei Naturalisti : il vizio primordiale sta nel
l'insorgere, nell'affermarsi sempre più, dell'individuo, fuori dall'ar
monia universale, dell'lo di tutti gli Io, che vogliono singolarmente
imporsi, come prepotenti valori universali.
Infatti l'Io è sempre e inevitabilmente legato alle espressioni: « Io
so », « Io voglio », « Io desidero », << Io miro a ... » (finalismo), tut
te espressioni della civiltà dei « nomi », delle « false virtù », di
rebbe Lao-tse: grumi di materia non più fluidificantisi. Di fronte a
questo capovolgimento di valori morali che porta l'uomo allo stacco
dalla Natura, l'lo è l'imputato numero uno di tutti i filosofi Natu
ralisti che ho, quasi simbolicamente, presi in considerazione. Di
fatti :
Eraclito: è la tracotanza e la presunzione dell'uomo che lo ha
portato fuori strada per cui non vede più le cose come veramente
sono. Parmenide : più bonario. � l'illusione che ha portato l'uomo
a vedere lucciole per lanterne. Pitagora (che non scrisse nulla) . Dob
biamo supporre che abbia voluto superare la limitatezza del numero
fine a sé stesso, attraverso un'interpretazione magico-emanazionisti
ca. Difatti non si può fare a meno del « nome », perché « nome »
vuole dire « cose » e delle « cose » non si può fare a meno.
Lao-tse: l'apparire della coscienza ( « Io so ») è il vizio d'origine:
« Quando la coscienza apparve, il grande artificio cominciò, perciò
è detto che l'uomo perfetto non ha io . . . il vero saggio non ha no
me ». Ciuang-tse, come Lao-tse, contro la coscienza, contro il desi
derio ( « Io voglio, Io desidero » ) « il peggiore delle maledizioni
umane » . Buddha : l'ignoranza (avidia). Se l'« Io so » , l'« Io vo
glio », « lo desidero » il cosiddetto sapere umano segnano proprio
quegli atteggiamenti che ci sprofondano sempre più nell'errore (nel
caso di Buddha, dolore, afflizione, morte), questo allora significa che
il sapere dell'uomo è vera ignoranza, che si manifesta subito nel
condensarsi in quel nama-rupa (nome-forma) che segna il concreto
distacco dalla Natura. � necessario per Buddha trovare il modo di
distruggere l'Io per salvarsi . « Colui che distrugge l'Io sono, costui
conosce la beatitudine suprema » egli dice.
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L'isolamento dell'Io, cui automaticamente e parallel amente corri
sponde un'isolamento delle cose fuori di noi, rompe la sintonia na
turale e viene meno a quello che Ciuang-tse, con magnifica espres
sione, chiama « l'appello che risponde all'appello » . Tutta la filo
sofia che abbiamo visto potrebbe essere definita con « monismo na
turalistico » (forse il termine non è del tutto esatto) ed è ad ogni
modo contro ogni forma di dualismo. Il dualismo sorge proprio
dall'affermarsi dell'Io raggrumato in sé stesso, che non ha più la
capacità di penetrare, di essere, di fluire sinton icamente nelle cose.
Veramente : « l'appello », non risponde più « all'appello » . Lao-tse
affermò che la caduta dell'uomo ebbe inizio dal giorno che si di
stinse il Bene dal Male e Buddha, « dal dualismo sorgono ira, men
zogna, odio, dubbio e altre cose » .
Se comune fu, in Oriente e in Occidente i l modo d i sentire e di
vedere degli antichi naturalisti ( « civiltà mediterranea » ?) differente
fu tuttavia il modo come dal monismo naturalistico, si passò al
dualismo. Non credo che nell'Oriente esista un dualismo antolo
gico, quale quello europeo, d'origine platonica (non lo è neppure
il sistema Samkya che gode la fama d'essere l 'unico sistema dua
listico indiano) : dualismo antologico e logico che nel Cristianesimo
sarà talmente radicalizzato, da introdurre il concetto di un peccato
originale irrimediabile da parte dell'uomo, che può essere salvato
solo dall'alto per un gratuito intervento divino.
Se tuttavia dobbiamo ammettere la mancanza nella filosofia orien
tale di un dualismo antologico-logico-dimostrativo, dobbiamo tutta
via riconoscervi l'esistenza di un dualismo che potremmo definire
morale-psicologico che nasce dall'affermazione dell 'Io e precisamen
te, « Io sono nel vero » , « Tu non sei nel vero » : onde la prolife
razione d'innumeri ordini religiosi, l'un contro l'altro armato, che
Buddha aveva appunto combattuto a spada tratta perché alla vi
sione dell'Universale Verità, era andato sostituendosi la conoscenza
presuntuosa del proprio meschino lo: donde la frattura sintonica
con la Natura con relativo dualismo.
Ci spostiamo quindi da un dualismo antologico (ocddentale) a un
dualismo psicologico-morale, ambedue tuttavia, se ben si pensa, ri
conducibili al denominatore comune del piccolo « Io >> (presunzio
ni, desideri, coscienza condizionante, scambio dell'ignoranza con il
vero sapere) per cui si finirà col mettere nel pugno di questo pic
colo « Io >> un'arma di offesa ad oltranza e attorno ad esso una co
razza di difesa impenetrabile.
Il dualismo in Occidente mi sembra molto più corazzato e quindi
più difficilmente scongiurabile, proprio per la sua impostazione lo
gica e antologica che viene elevata a criterio di una Verità che non
deve essere messa in dubbio. A esprimerci in parole semplici , anche
1 14
se forse a qualcuno potranno apparire irrispettose: in Occidente ci
si è forse organizzati meglio e il millenario centripetismo di Roma
ha dato forse luogo a una burocrazia (Platone?) più solida e capil
lare e più articolata della burocrazia orientale. Certo il vivere se
condo Natura, la cui crisi era già stata denunciata da quegli antichi
personaggi del VI sec. a. C . , è andata oggi definitivamente a farsi
friggere.
La « civiltà dei nomi » , soprattutto dopo l'ultima grande guerra,
sembra avere raggiunto le sue manifestazioni più parossistiche. « La
originaria semplicità senza nome » , come dice Lao-tse, sembra inar
restabile, precipitare lungo una china rovinosa e il mirabile appello
di Ciuang-tse « possano entrare dal di fuori, nel campo del cuore
gli esseri che non hanno più nome », non sembra trovare più nes
suna eco. La « polumatia » di Eraclito sembra avere raggiunto il
fondo. E proprio oggi ci appaiono di grande attualità le prese di
posizione, talora irose (Eraclito), talora più staccate dalle cose mon
dane (Parmenide), talora polemiche (Buddha-Lao-tse) ed anche iro
niche (Socrate) contro l'insorgere della « civiltà dei nomi )), forse
allora solo in gestazione.
E sembra anche, coinvolti in una routine mostruosa, che noi si
vada sempre più cancellando dai nostri cuori e dalle nostre intel
ligenze, quelli che furono, nella nostra civiltà occidentale i grandi
fari della umana spiritualità: Rinascimento (arte), Illuminismo (in
telligenza), Romanticismo (sentimento visionario). E in questa rou
tine del « nome )), con inconscia tenacia, come se avessimo tutti
perduto la testa, si continua a perseverare nella puerile illusione di
trovare proprio attraverso il « nome )), la soluzione di tutti i nostri
problemi.
E proprio a questo punto insorge la drammatica situazione della
nostra gioventù che si vede metodicamente tradita da coloro che
ne dovrebbero interpretare le spontanee, genuine, non condizionate
aspirazioni. Oggi predomina dall'alto la malefica tirannica sugge
stione dei « nomi )) (fasulla democrazia ! ) : dalle idee politiche che
si devono seguire, al modo di vestire, allo stesso modo di fare
l'amore! Ogni spontaneità, sin dagli inizi della vita , è soffocata,
ogni slancio stroncato. Quale meraviglia allora se oggi i nostri gio
vani, queste nuove vite quasi per miracolo sempre nuove, non si
sentano disperse, talora istericamente e caoticamente esagitate: ne
gata ad essi, attraverso sé stessi, ogni meta da raggiungere in cui
possano veramente realizzarsi come uomini, nessuna meraviglia che
al limite, purtroppo, si sfoghino in azioni delinquenziali e nella dro
ga. Non è tutto questo forse se non il logico risultato della « civiltà
dei nomi ))?
E. necessario irrugiadarsi d'Infinito, non certo di un Infinito che è
astrattamente fuori e lontano da noi, di un Infinito cioè coattivo e
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dogmatico, ma di un Infinito che sta dentro di noi e che sta di
fronte a noi stessi: nell'umanità degli uomini, nella Natura, nelle
cose : penetrarvi, attingervi, captare e carpire i tesori nascosti.
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VIII Capitolo
BIBLIOGRAFIA
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che contrastavano fondamentalmente con lo spirito di Kant e di Scho
penhauer, così come col loro gusto ... )) . « Ma c'è qualcosa di molto peg
gio in questo libro che io ora deploro ancor più che non l'aver oscurato
e guastato con formule schopenaueriane dei presentimenti dionisiaci:
ed è che io mi guastai con la mescolanza di cose moderne il grandioso
problema greco in genere, quale mi si era presentato! Che attaccai delle
speranze là dove non c'è nulla da sperare, dove tutto accennava troppo
chiaramente a un fine! )) (pagg. 60-61 ).
li: più che noto del resto in Nietzsche il suo rancore contro tutte le co
siddette « idee moderne )) . Ed ancora : « Avrebbe dovuto cantare questa
anima nuova e non parlare. Che peccato che io non abbia osato dire
come poeta quello che allora avevo da dire: forse avrei potuto ))
(pag. 56).
Possiamo dire che Nietzsche è lontano dai suoi contemporanei soprat
tutto sul piano psicologico. Egli « sente )) in modo differente e questo
suo sentire non può essere tradotto nelle usuali formule filosofiche. Egli
« sente )) forse come quei primi Naturalisti che dovevano per forza
esprimersi liricamente. Egli dice ed è forse l'espressione sua più tiP..ica
a cui egli più di una volta ricorre, nell'Ecce Homo : « Io solo ho sco
perto la verità perché sono stato il primo a sentire - a fiutare la men
zogna, come menzogna. Il mio genio è nelle mie narici )) (pag. 126).
Certo Nietzsche sente profondamente l'impossibilità di tradurre il sen
tire in conoscere. Penso veramente che il pensiero di Nietzsche sia in
gran parte esauribile attraverso l'accostamento ai Naturalisti greci. E
viceversa: Io studiare Nietzsche ci avvicina a molti aspetti ancora
oscuri di quei filosofi.
della Sera, 1948. I I Colli si muove sulla falsa riga nietzschiana. Anche
qui è messo in particolare evidenza il mondo presocratico come potenza
ed esuberanza vitale, non paralizzato da schemi o predetenninazioni
moralistiche. Tendenza questa che viene interrotta con Socrate e con
il platonismo e che ritorna nuovamente solo con Platino. Interessanti
le ultime pagine su Platone: « Dopo la pubblicazione del Simposio, il
destino della filosofia è suggellato. Platone cessa di lottare su un piano
presocratico, si rassegna all'educazione e alla politica e, quel che è peg
gio, si serve del razionalismo dell'epoca illuministica come di un
mezzo costruttivo )).
Ed ancora: (( La razionalità distruttiva appartiene al giovane entusia
sta che non vuole abbandonare nulla della verità trascendente e spera
sempre d'imporla così come è )) . E ancora : (( qualcosa di rigido, di
duramente astratto, fa parte della natura di Platone, un tratto apol
lineo, come moralismo sociale e svalutazione dell'uomo di fronte alla
divinità che trova piena rispondenza nello spirito pitagorico. Di fronte
all'aspetto dilettantesco e geniale della cultura attica, che ha sempre
indispettito Platone, il pitagorismo si presenta come salda costruzione
dogmatica e specializzata indagine scientifica. Su questa base Platone
crea per primo la cultura ufficiale e scolastica, che offre alla posterità.
La scienza come sapere staccato dalla vita nasce ora: la conoscenza è
1 18
fine a sé stessa subordinata solo a un'unità costruttiva » (Come si vede,
il Colli interpreta il pitagorismo proprio nel senso eracliteo : polimatia).
« I filosofi antichi avrebbero trovato incredibilmente estesa e anche in
parte oziosa l'opera di Platone » (pagg. 221-242).
1 19
Secondo il Macchioro la terminologia eraclitea adombra il culto orfico :
non si può comprendere Eraclito, se non lo si porta sul piano dell'Or
fismo. Fondamentalmente Eraclito si muove ancora quindi su un ter
reno essenzialmente « prelogico ». Il suo misticismo è « ... un misticismo
che rifugge da ogni elemento razionale, si da ridursi a pura esperienza;
ciò che è proprio dei misteri dei popoli primitivi : misteri che sono fon
damentali per la conoscenza del mito greco » (« Eraclito », pag. 120).
Anzi tutto il popolo greco in genere non avrebbe mai superato i confini
della mentalità razionale vera e propria.
Anche per il Macchioro, nei Naturalisti non vi è ancora la suddivisione
in soggettivo e obiettivo, quindi non esiste ancora un processo della
conoscenza. « ... le piante, gli animali, gli oggetti, la terra hanno una
loro vita propria alla quale l'uomo partecipa e collabora per un pro
cesso continuo di spersonalizzazione che altera e deforma le sensazioni
e le percezioni al punto che il fantastico diventa reale, il subbiettivo si
identifica con l'obiettivo, l'Io al Non-Io, il visibile all'Invisibile, il pre
sente al passato » . (Zagreus, pag. 1 58).
� interessante inoltre nel Macchioro e certo molto degno di considera
zione il tentativo di mostrare la continuità tra Naturalismo greco e il
Cristianesimo nel suo aspetto mistico e culturale, quindi l'avvicinamen
to di Dioniso a Cristo. Elementi comuni, la comunione e la resurrezione
che è trasfigurazione (V. per quello che riguarda l'Orfismo, la sua in
terpretazione della Casa dei Misteri di Pompei).
E come nei culti orfici si vuole rivivere la passione di Dioniso per il
raggiungimento della vera trasfigurazione, cosi « la grande novità di
Paolo sta proprio e solo in questa nuova esperienza, per la quale il
Gesù storico diventò il fatto mistico della rinascita dello spirito, l'obiet
tivo subbiettivo, il passato presente ». E ancora: « Appare nelle parole
di Paolo un riflesso del realismo greco il quale concepisce la libera
zione dell'anima dal corpo, come un processo fisico, onde la concezione
della morte come unica vera liberazione e cioè come unica vera cono
scenza » ( « Orfismo e Paolinismo », pagg. 1 7 e 63).
1 20
tuale », perché sincera è la posizione di Eraclito che afferma l'anima
essere una sostanza solare. Ne deriva che la vita dell'anima si svolge
veramente su un piano naturale, nei rapporti che essa può stabilire con
quelle sostanze naturali che le sono affini e da cui essa è stata originata.
8) Soulier - ( << Eraclito Efesio », Roma 1 882). t!: pur sempre un buon
libro, esauriente in molti problemi e nelle analisi di frammenti vari.
Non si può parlare di una tendenza particolare nel Soulier, tanto egli
mira a tenersi obiettivamente sereno. Tende però a un'interpretazione
fisica di Eraclito e antihegeliana. Giustamente dice: « Aristotele stesso,
i suoi commentatori Hegel e Lassale hanno avuto il torto di dedurre
conseguenze logiche da un sistema fisico e di fondarsi sopra espres-
121
sioni incerte per introdurre nel campo della filosofia eraclitea una teo
ria che non si manifestò prima di Platone e di Aristotele » (pag. 172).
E a proposito dell'anima: « L'uomo dice il vero quando fonda le sue
parole sull'elemento comune a tutto, sulla ragione esterna quale ele
mento materiale. Si stenta a pronunciare quell'aggettivo, ma non lo si
può evitare. Se le anime diventano « noerai >> e « logikai >> per « aspira
zione >> e sensazione, questa loro essere intelligenti e ragionevoli è una
qualità della sostanza che aspirano e sentono, cioè una proprietà ma
teriale >> (pag. 207).
1 22
soluzione. La sola prova che noi sappiamo dare dell'esistenza dell'og
getto è una ragione che lo respinge ipso facto a1 di fuori del quadro
delle operazioni esatte dello spirito : l'incommensurabilità radicale dei
due ordini, oggettivo e soggettivo, separa definitivamente i loro domini,
ma nello stesso tempo proibisce la speranza di potere giammai tradurre
l'uno esattamente nei termini dell'altro » (pag. 148-149).
1 23
INDICE
Premessa . pag. 7
Introduzione pag. 9
125
V Capitolo - Eraclito e il Naturalismo di fronte al binomio
Socrate-Platone . pag. 84
L'ironia e l'antiintellettualismo di Socrate lo pone più
vicino ai Naturalisti che al « platonismo »? - « Capo-
volgimento dei valori » col « platonismo >> : il « co-
noscere e il sapere » al posto del « vedere e del sen-
tire ». - Il numero « dimostrativo » al posto del nu-
mero « magico » di Pitagora.
126