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© Copyright by Edoardo Bresci 1981

Edizioni L'Età dell'Acquario


Via A. Vespuc:i 41, Torino (Italia)
A Willy Vetterli
GERARDO FRACCARI

ERACLITO
ELA CIVILTÀ
MEDITERRANEA

EDIZIONI L'ETA' DELL'ACQUARIO


DRESCI EDITORE - TORINO
PREMESSA

« È un dato di fatto che i filosofi greci e gli


antichi Saggi orientali raggiunsero un livello
spirituale superiore a quello che prevale oggi
nelle nostre scuole e Università >> (Einstein).

Vi saranno nel presente lavoro, frequenti riferimenti alla filosofia


orientale, indiana e cinese: riferimenti che potrebbero forse appa­
rire posti a caso, ma che a me sembrano del tutto pertinenti, se si
ammette la certo non infondata possibilità di una visione più or­
ganica ed universale della filosofia.
Si vuole quindi porre qui, più che altro attraverso una denuncia di
sintomi e di conseguenze un invito a scandagli, anche la pretesa di
dare inizio a un piano di lavoro che abbracci , con organica coe­
renza , quella civiltà, che, grosso modo, nelle sue varie articolazioni,
potremmo anche definire col termine di « civiltà mediterranea », in­
tesa questa anche come una sintesi euro-asiatica.
Bando perciò a certi slogans quale « la luce viene dall'Oriente » o
viceversa. Dobbiamo piuttosto supporre che tra quegli antichi po­
poli o meglio nelle élites più rappresentative, vi fosse un modo di
pensare, ma soprattutto di sentire e di vedere, che, col passar dei
tempi, per un capovolgimento di prospettive spirituali, andò, nel
complesso, indebo1endosi nella mente umana e di conseguenza nel
comune modo di vivere.
Ho preso come occasione Eraclito, per il suo suggestivo ed enig­
matico fascino, purtuttavia sempre vitalisticamente vagheggiato
nelle filosofia e cultura europea. Eraclito proprio per la sua pre­
gnante e, dirci, realistica nebulosità, quasi una atmosfera, è vera­
mente uno spirito universale. Mi sono poi dilatato oltre, mostrando
la connessione organica con gli altri Naturalisti, e, inevitabilmente,
seguendo una mia prospettiva, che certo ha una sua impostazione
logica, non potevo non ricollegarmi anche a Socrate e a Platone.
E alla fine, arrivando ai nostri tempi, non potevo neppure evitare
un capitolo su Hcgel, la cui visione trova le sue radici più pro­
fonde, nella problcmatica eraclitea. E arrivo da ultimo, per bre­
vissimi accenni, ai giorni nostri, in cui noi stiamo vivendo.
Non certo azzardate infine mi sembrano le connessioni del Natu­
ralismo greco con le filosofie orientali (ma non vi furono forse sin
ùai tempi più remoti della nostra civiltà europea, da parte di grandi

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personalità, tentativi di incontri e di fusione spirituali tra Occidente
e Oriente?) . Le vie del pensiero posseggono loro particolari dimen­
sioni temporali e spaziali, che certo non possono essere commisu­
rate dai nostri spazi e dai nostri tempi, numericamente e matema­
ticamente tracciati.
Sono persuaso infine che la mia seppure organica « dilatazione »,
che forse solo ai puri eruditi può sembrare dispersione, ha un suo
contenuto oggettivo certamente valido (compendiato naturalmente
in calce da opportuni richiami bibliografici e da citazioni di brani
chiarificatori) e che quindi presenti una sua logicità, un suo filo
conduttore che debba essere preso in considerazione da chi volesse
approfondire più accademicamente i rapporti tra Occidente e
Oriente.

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INTRODUZIONE

« Der Zusammenhang des Unendlichen


und des Endfichen ist freilich ein heiliges
Geheimnis, weil dieser Zusammenhang das
Leben selbst ist » (Hegel).
(La connessione tra Infinito e Finito è certo
un sacro mistero, giacché questa connessione
è la Vita stessa).

« L'lnfinito unendosi al Finito oltrepassa la


nostra comprensione - ecco perché l'idea di
un'incarnazione divina è cosi difficile a com­
prendersi e ad accettarsi dallo spirito uma­
no » (Ramakrishna) .

La Storia ci dice che il bacino mediterraneo, nel passato ( 1 500 anni


a. C., circa) è stato teatro dapprima di un violento scontro e di poi
di una reciproca fusione di due grandi civiltà : quella antichissima,
minoico-cretese (3000-1 500 anni a. C., circa) propriamente medi­
terranea e quella ariana, achea e dorica, proveniente dall'Asia.
Lo stesso fenomeno, attorno alla stessa epoca, avvenne in India e
precisamente nelle vallate dell'Indo, dove, dagli scavi recenti (dal
1 924 in avanti: gli scavi a Creta furono iniziati nei primi decenni
del nostro secolo) , si poté stabilire che le primitive civiltà ( « dravi­
diche » ?) di Moenjo-Daro e Harappa (risalenti a 3000 anni circa
a. C.) furono distrutte e conquistate da guerrieri ariani.
Nel Mediterraneo l'invasione ariana investì anche Creta.
Dalla mancanza di fortificazioni periferiche e di mura difensive
delle città, si credette di potere affermare che quelle prime civiltà
dell'Indo e della stessa Creta, fossero fondamentalmente patriarcali,
dedite soprattutto al commercio e che le invasioni ariane ( « dori »
soprattutto) abbiano rappresentato un fenomeno di inaudita vio­
lenza. Si potrebbe fare - ciclicità ricorrente? - un parallelo con
le « nostre invasioni barbariche » .
Dall'urto e dalla inevitabile fusione delle due civiltà, sarebbe sorta,
nel bacino mediterraneo, la civiltà greca . E come nella « nuova ))
civiltà greco-mediterranea, nei suoi aspetti soprattutto artistici e
culturali, ci è impossibile distinguere l'antico dal nuovo, - semmai
constatare una trasformazione e una evoluzione -. così sarebbe
stato per la « nuova » civiltà dell'Indo, dove, ad esempio, le anti-

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chissime divinità preariane, continuarono e continuano ancor oggi
ad essere oggetto di culto.
Impossibile, anzi assurdo, per il naturale integrarsi delle civiltà,
porre delle nette linee di demarcazione. Si sa tuttavia che il mito
dell'arianesimo è stato ridimensionato dalla scoperta della prece­
dente civiltà minoico-cretese e si riconosce che l'apporto di que­
st'ultima è stato di notevolissima portata .
Quelle due civiltà potrebbero anche essere prese a simbolo di due
diverse e complementari forme mentali umane: complementarità
che, ad esempio, i mistici tedeschi esprimerebbero col binomio
« senso e ragione ». E se noi ci atteniamo alla polemica che Eraclito
e Parmenide conducono contro la cultura della loro epoca e che
costituisce in fondo il Ieit-motiv della loro problematica, dovremmo
proprio concludere che quella complementarità era già stata spez­
zata attraverso l'almeno parziale ripudio del primo termine, ridu­
cendo così la Ragione, isolata dal suo contesto psichico-sensitivo e,
diciamolo pure, mistico, ad un'espressione mentale fine a sé stessa,
quindi monca, perché privata del nutrimento di quella fonte in
definitiva inesauribile che è la Vita ( « l'inesauribile semenzaio »,
direbbe G. Bruno) . E Pirandello, il greco redivivo : « La Vita è il
vento, la Vita è il mare, la Vita è il fuoco : non la terra che si
incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte » .
Credo opportuno definire una tale Ragione, depotenziata e isteri­
lita, fine a sé stessa, col termine di Raziocinio.
Dobbiamo ammettere ad ogni modo che la forma mentale della
prima civiltà mediterranea, non fosse raziocinante, ma prevalente­
mente sensitivo-mistica e non è fuori luogo affermare con Lao-tse
« ... se esiste una forma, esiste un nome. Gli antichi possedev�no
questa forma, questo sapere, questo nome, ma non lo mettevano in
primo piano ».
Intendiamoci bene. Una tensione infinita è in noi ( « la caccia al­
l'Essere », direbbe Platone), verso un Infinito che è fuori di noi
( « io mi sforzo di ricondurre il divino che è in me, al divino che
è fuori di me ) ) , direbbe Platino) che come tale si rifiuta di essere
esaurita entro schemi o definizioni soggettivi (Raziocinio) .
I più grandi rappresentanti di questi popoli, pur riconoscendo la
problematicità di una tale distinzione, si nutrivano soprattutto di
sensazioni (non la « sensazione ) ) empiristica) proiettati come erano
verso le luci più profonde della Natura. Nel Rig-Veda indiano si
dice a proposito dei grandi illuminati dell'antichità (i famosi
Rishis), « Indi essi videro la luce albeggiante del seme antico che
fiammeggia al di là del cielo )) (l'« armonia invisibile ) ) di Eraclito).
'
Essi quindi « videro )) e la stessa « idea >) di Platone, etimologica-

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mente, significa « visione » e non conoscenza (Raziocinio) e Buddha,
« conoscenza, ciò è remoto dal Compiuto. Visione: è questa nel
Compiuto» ed è questa un'esperienza del tutto individuale ( « vi­
sione» che è sopravvissuta, vagamente, nella nostra « intuizione ») .
La « visione» integra perciò la sensazione (empito dell'anima verso
l'Infinito e che lascia intatto l'Infinito) non rinnegandola, ma com­
pletandola e perfezionandola: essa rappresenta la perfetta sintesi
di « senso e ragione» ( « Das visionlire Gefiihl », « il sentimento
visionario», direbbe lo Jéiel).
Siamo ben lontani quindi dal misticismo quale noi siamo abituati a
considerare: un misticismo cioè intellettualistico, astratto, che avreb­
be la sua applicazione a un supposto mondo dello Spirito, distinto
dalla Materia (involuzione e degenerazione dello spirito umano,
apparse più tardi: donde tutte le elocubrazioni di carattere acca­
demico), ma si tratta in definitiva di un « indicibile» (éippT)'tOV),
cioè dell'indicibile secondo i normali schemi del Raziocinio, di par­
ticolari esperienze individuali, anche se queste possono. essere, so­
prattutto sul piano estetico, fonte di sempre rinnovellata creatività.
Il Raziocinio, accantonando la visione dell'Unità, o meglio, la vi­
sione delle luci della Natura, finisce col confinarci nel solo settore
del « dicibile», del formale : in tal modo all'Unità infinita della
Natura, sentita come forza « fisica >> (nel senso greco), senza solu­
zione di continuità (noi per ricostituire l'unità organica del Tutto,
dopo la dualistica frattura platonica, diremmo « psicofisica») , si
sostituisce la scienza del molteplice, del condensato, del discontinuo.
� certo ad ogni modo che tanto per Eraclito, quanto per Parmenide,
la « caduta» dell'uomo è dovuta alla metodica e inarrestabile af­
fermazione nella civiltà umana delle « opinioni» (o6�a) e del
« nome » (ovo(.La), cui si vorrebbe attribuire un valore essenziale­
causale. Il taoista Ciuang-tse definirebbe questo tipo di conoscenza
col termine di « mente sofisticata », in contrapposizione alla « men­
te naturale».
Possiamo dire che dal giorno del contrasto (forse da sempre?) tra
Anima-Natura (l'Infinito, soggettivamente od oggettivamente inteso)
e la molteplicità formale-fenomenica delle cose sanzionate dal Ra­
ziocinio (il Finito, nell'uno o nell'altro senso) , si impose la neces­
sità di un reciproco incontro e di una riconciliazione (reintegra­
zione della Ragione come strumentalità organica e quindi nello
stesso tempo, « rinascita » dell'uomo).
La civiltà greca, nel suo contenuto più genuino, rappresenta questo
tentativo che consiste in fondo di usare della Ragione proprio come
di uno « strumento» (Ragione « artigiana » ?) per esprimere di volta
in volta l'Infinito visto e intuito. Sorge così il concetto di armonia
greca che potrebbe essere prospettato come uno strumentalismo

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psichico-spirituale. Si potrebbe dire che si tentò il miracolo quasi
assurdo di vincere la Materia, usando della Materia, per ritrovare
quindi la vera Materia, meglio la Natura (la q>v<nç greca che ha un
significato ben diverso dal nostro). Fu questo un mirabile tentativo
che non poteva essere portato a termine, perché in definitiva as­
surdo, ma che forse non fu mai ripetuto nella storia umana, se
non, forse, nel Rinascimento italiano.
Intendiamoci: « la luce» unitaria (« fuoco» di Eraclito) non era
stata vista e vissuta in odio alle cose (equivoco del platonismo), ma
attraverso le cose stesse (ilozoismo, tutto è animato ecc. ecc.). Solo
il Raziocinio, questa attività raggrumante, priva le cose della loro
più profonda essenza, facendole solo « cose».
E così possiamo dire che la « luce» delle grandi personalità primi­
tive non si spense, ma si rivelò come il pungolo più indispensabile
per la creatività umana (eredità mediterranea ?) .
Dobbiamo allora parlare di una civiltà mediterranea in senso lato,
non circoscritta cioè a un determinato territorio e quale fu, in chiave
psicologica, il contenuto delle esperienze di coloro che soprattutto
sembrano rappresentarla?
I Sensitività dunque e visionarità (« Das visioniire Gefiihl»,
-

appunto) e doveva essere un sentire così prepotente e un vedere


cosi abbagliante da escludere immediatamente la possibilità di spie­
gazioni e riduzioni intellettualistiche (forse che il termine sanscrito
<< devas», da cui lo OEéç greco e il « deus >> latino, non significa

« splendore >> ?) Il problema del « conoscere» quindi e il tentativo


.

di determinare le « cause», dovevano avere un valore del tutto se­


condario o almeno subordinato : il vedere e il sentire prevalgono
sul « conoscere ». Possiamo a questo proposito riportare, nella sua
nostalgica paradossalità, un brano di Lao-tse :
« Il sapere degli antichi era perfetto. Dapprima essi non conos�e­
vano l'esistenza delle cose: questo è il più perfetto sapere: nulla
potrebbe essere aggiunto. Poi essi conobbero l'esistenza delle cose,
ma ancora non fecero distinzioni tra esse. Poi fecero delle distin­
zioni, ma non formarono affatto giudizi su di esse. Quindi forma­
rono giudizi e il Tao fu distrutto. Con la distruzione del Tao nac­
quero le preferenze individuali ».
La Vita vissuta nella sua più perfetta completezza non ammette an­
cora la frattura tra causa ed effetto. « Uno e Tutto » ( "Ev xcd Iléiv)
direbbe Anassagora. Tale problematicità, causa-effetto, comincerà a
sorgere il giorno in cui l'uomo crederà di potere sostituire alla espe­
rienza totalitaria della Vita, incomunicabile secondo il Raziocinio,
la staticità delle definizioni : il conoscere allora prevarrà sul sentire
e sul vedere.

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Per i Naturalisti, la Natura era fluidità inarrestabile (tale è il vero
senso della Natura greca) che non poteva essere conosciuta, pena
la sua disorganica frattura. (V. l'« Isolierung » di Hegel) . « La Na­
tura ama nascondersi )), diceva Eraclito. Possiamo dire che essi
sentivano e vivevano le cose, come forze, come energie, per cui
soggetto e oggetto erano fusi assieme, senza distinzione tra inte­
riorità ed esteriorità, in un'unica esperienza di vita. Si vuole attri­
buire la stessa sensitività sintonica al « dravidismo )) indiano. La
autonoma corporeità astratta e distinta da una supposta e autonoma
spiritualità, indicherà una nuova forma mentale che sorgerà col dua­
lismo platonico.
II Mistico, che dal greco p.vnv e dal pitagorico ÉXEP,vllioc si­
-

gnifica proprio « stare in silenzio )) e quindi l'incomunicabilità della


Verità . Ma significa anche qualcosa di più: il trasferimento cioè
della personalità umana su un piano esistenziale più alto dal quale
essa viene assorbita. Quelle grandi personalità sentivano che il fine
dell'uomo era proprio quello di portarsi sul piano della Vita, an­
nientandosi e non di escludersi affermandosi come io fenomenico.
« Si diventa Dio, non si conosce Dio )) , dirà G. Bruno riecheg­
giando inconsciamente la stessa affermazione della filosofia indiana.
Era logico - o tensione inconscia? - che esse attraverso il sen­
tire e il vedere, tendessero ad immedesimarsi - o soluzione im­
prevista? - con l'unica forza che scorre imperturbabile sotto le
realtà molteplici, le quali allora, nel loro isolamento, sarebbero ap­
parse, per contrasto, come lievi e inconsistenti « parvenze )) (la
o6�oc di Parmenide, simile al « velo di maya )), cioè « illusione ))
che è la traduzione preferibile).
III L'alone di Infinito doveva aleggiare sull'esistenza terrestre
-

di quei grandi visionari e se in definitiva incomunicabile, permeava


di sé tutte le cose circostanti (doppio processo: dalle cose all'Infi­
nito e dall'Infinito alle cose), le quali. allora, era come se venis­
sero viste in trasparenza: di qui la visione estetica della Vita, l'ar;
mania applicata dinamicamente ad ogni settore dello scibile umano.
Se noi perciò non potremo mai sapere « dove la Natura ama na­
scondersi )) , dobbiamo tuttavia riconoscerne l'inesauribile interpre­
tabilità e proprio la Ragione diventa uno strumento interpretativo
magico, fecondamente inesauribile. Finito e Infinito si incontrano
in reciproca collaborazione, in un punto unico che è la Vita (V. la
citazione di Hegel all'inizio). Ci troviamo così innanzi a una Ra­
gione magico-strumentalistico-artigiana, quale soprattutto appare in
Pitagora.
Che il platonismo (preferisco dire platonismo e non Platone, che
da Platino, ad esempio, viene visto secondo una prospettiva diversa
da quella che noi siamo soliti accettare), privando la Ragione della

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sua capacità strumentale-interpretativa-magica, abbia spezzato la
sintonia e inaridito la feconda collaborazione tra uomo e Natura,
non credo debba essere messo in dubbio.
Nel platonismo la Ragione viene a trovarsi in uno stato di isola­
mento e diventa così Raziocinio. Essa non più considerata come
mezzo, diventa fine a sé stessa: l'espressione formale-razionale, de­
caduta dalla sua funzione strumentale-artigiana, pretende assurgere
a valore essenziale capace di esprimere il « Principio >> (IÌPXTJ), il
quale invece per i Naturalisti poteva solo essere visto e interpretato.
Sorge cosi un dualismo, una scissione, una contrapposizione tra
spirito e materia (Platone è lo scopritore della Materia, appunto
perché ha scoperto lo Spirito) e la magica sintonia tra l'Infinito che
è dentro di noi e l'Infinito che è fuori di noi, è spezzata.
Diceva Eraclito che l'anima dell'uomo staccata dalla Natura è come
un pezzo di carbone spento che solo a contatto con la Natura può
accendersi. La polemica dei Naturalisti (Eraclito, Pitagora, Panne­
nide) è proprio condotta contro tale frattura, già in atto nella loro
epoca, che spezza il nesso organico (vita che si rinnovella inesau­
ribilmente), che lega l'uomo alla Natura.
I - Eraclito. Mette in guardia gli uomini (è il suo leit-motiv) dalla
« presunzione » (v�ptç) di ridurre la vita a sistema formale-razio­
nale. Tutto scorre, tutto muta ed ogni affermazione definiente, non
fa che fissare punti di vista solamente parziali, che vengono inelut­
tabilmente travolti dal divenire, la cui legge, il cui ritmo, il cui
Logos sono ben più profondi di ogni fonnalità intellettuale. Per
superare il molteplice, pur usando di esso, è necessario superare
la formalità: ecco perché in lui prevale quell'aspetto dionisiaco del­
l'anima greca che sente la divinità più come variazione, come lotta,
che come problema di coscienza (la cosiddetta vita dello Spirito! ),
dionisismo che, tuttavia, appunto perché tale, presuppone e postula
l'annonia.
II - Pitagora. I numeri, fine a sé stessi, non sono elementi es­
senziali, ma elementi determina tori degli effetti molteplici ( « il nu­
mero è le cose », egli dice), che quindi non spiegano i principii, ma
indicano o determinano solo gli effetti. Il numero perciò diventa
« causa » (oct-.ioc) degli effetti, causa che non potrà essere in Dio,

il quale essendo il Tutto, non potrà ammettere una distinzione tra


causa ed effetto. Anche in Pitagora il numero, come fine a sé stesso,
viene superato e quindi diventa mezzo (strumento) solo attraverso
l'armonia : donde il suo valore magico, la sua divinizzazione.
III - Parmenide. Forse il mistico per eccellenza. Egli non sembra
neppure tentare, pitagoricamente, la conciliazione magica (purtut­
tavia ad Elea fu il fondatore di una scuola medica). Egli sembra
guardare agli uomini con uno stacco radicale, che gli deriva dalla

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certezza assoluta dell'incomunicabilità della Verità, giacché l'uomo
sarà sempre vittima della trappola del « nome ) ) (nominalismo, frat­
tura semantica) e con Lao-tse « . . . il nome non è che l'ombra della
realtà ... le parole sono come ombre agitate dal vento ) ).
Più che negli altri Naturalisti, il mondo delle cose in Parmenide
sembra vanificarsi nell'Unità. Forse proprio per questo Platino af­
ferma che Parmenide e non Platone è il padre del dualismo e il suo
atteggiamento psicologico di abbandono del mondo, dà proprio tale
impressione dualistica : ma in verità egli abbandonava i « nomi ) ),
non il mondo . Ma se le cose per essere il Tutto e quindi veramente
sé stesse, devono dissolversi dai propri limite-nomi, come è possi­
bile esprimere tale processo, se proprio il « nome )) è causa della
molteplicità? In che cosa consisterebbe allora l'abbaglio del plato­
nismo? e oramai con questo termine intendiamo una particolare
forma mentale. Rispondiamo: nell'avere attribuito un carattere di
essenzialità a quegli elementi che in verità sono solo determinatori
della contingenza, della molteplicità. Ad esempio: la famosa frase
di Pitagora « il numero è le cose ) ) (che è la vera traduzione) , diventa
nel platonismo « il numero è l'essenza delle cose ) ) : il « nome ) ) di­
venta conoscenza vera delle cose: gli �'ltEOC xoct Epyoc (letteralmente
« parole e azioni )) . Per una più probabile interpretazione V. Nota

21 del I capitolo) di Eraclito diventano il Logos .


t<: logico che contemporaneamente alla trasposizione della nostra co­
noscenza definiente dal piano contingente al piano essenziale-anto­
logico, si instauri la distinzione tra causa ed effetto, che in Dio, nella
Fusis non esiste (V. soprattutto il sistema Samkhya indiano) e che
viene superata dalla esperienza stessa di coloro che vivono in pro­
fondità, direi, in trasparenza la vita più vera delle cose stesse. Noi
crediamo cioè col platonismo di essere in possesso o di avere la
possibilità di entrare in possesso della conoscenza delle essenze
(idee) e proprio nel momento e dal momento di questo abbaglio, si
inizia quell'antropocentrismo nella conoscenza e nel culto religioso,
contro cui i Naturalisti si scagliano perché altro non rappresentano
che una statica proiezione dei molteplici aspetti parziali e circo­
scritti, dei valori solamente umani, troppo umani.

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I Capitolo

ERACLITO E IL LOGOS

Ciò che per prima cosa ci colpisce nel pensiero di Eraclito è i]


carattere eminentemente polemico, talora duramente polemico, non
solo contro i suoi concittadini, ma anche contro le manifestazioni
filosofiche e culturali della sua epoca.
Tale caratteristica non deve tuttavia meravigliarci proprio in quel­
l'antico mondo greco, dove le grandi personalità sembrano gigan­
teggiare tutte chiuse in una loro aristocratica solitudine, gravitante
attorno a personalissime esperienze che rivestono i1 carattere della
illuminazione e della rivelazione e che di conseguenza possono finire
con l'escludere da ogni obiettiva considerazione le esperienze
altrui (1).
E se tale caratteristica è evidentissima nei Naturalisti, essa è anche
tuttavia viva nei filosofi posteriori: in Socrate, in Platone stesso e
infine in Aristotele (individualismo occidentale?). Ne consegue che
questi filosofi difficilmente possono essere per noi una fonte sicura
ed obiettiva per la conoscenza dei loro contemporanei o dei loro
immediati predecessori. Eraclito, ad esempio, che più di ogni altro
filosofo proclama orgogliosamente la genuinità e la spontaneità della
sua formazione spirituale (2), ci porrebbe certamente fuori strada
se ci attenessimo alla sua interpretazione del pensiero di Pita­
gora (3).
Dovremmo forse concludere che Eraclito deve essersi semplice­
mente limitato, tutto chino sulla sua orgogliosa intuizione a un vago
sentito dire o a informazioni deformate e arbitrariamente riportate,
oppure può essere che egli si trovasse già dinnanzi a una scuola pi­
tagorica « raziocinante » e settaria. Potremmo forse anche aggiun­
gere che il suo stesso egocentrismo spirituale tendesse soprattutto
a deformare, attraverso la parzialità della polemica, il succo essen­
ziale del pensiero altrui.
Ognuno di questi filosofi che procede sempre, dall'alto, per via in­
tuitiva e visionaria e non per vie dimostrative (4), ci dà sempre
l'impressione della certezza afferrata di getto, di una realtà piena,
perfetta nella sua totalità senza residui ( « la ben compatta sfera »,
direbbe Parmenide) e senza incrinature a cui si sente legato gelo­
samente e a cui si abbandona senza riserve e nei cui confronti ogni
altra ipotesi di qualsiasi altra origine sembra spezzarne la perfe-

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zione e la bellezza ( 5). Furono personalità grandissime che vissero
l'una accanto all'altra, estranea l'una all'altra.
Tale esclusivismo dunque troppo spesso ci mette fuori strada nella
ricerca di un'unità di pensiero nel mondo mediterraneo (6) . Gli è
che questi filosofi erano alieni da ogni processo logico-sistematico
che poteva forse sembrare loro un'attività che defraudava della sua
più profonda essenza, la realtà vera delle cose intuita attraverso
esperienze del tutto personali e incomunicabili, vissuta con diretta
spontaneità. Né dobbiamo dimenticare il senso chiuso della « polis »
ed entro la stessa « polis » quel tradizionale, pudico e aristocratico
istinto a creare confraternite a cui solo individui eletti e illuminati
potevano partecipare: ed era già questo un concedere molto all'opi­
nione pubblica, perché spesso, come nel caso di Eraclito e di Par­
menide e più tardi nello stesso ambiguo comportamento di Socrate
di fronte ai propri concittadini, si preferiva vivere nella solitudine
della propria incomunicabile esperienza (7).
La stessa ironia socratica del resto, se ben pensiamo, non era altro
che un modo di preservarsi dall'opinione pubblica . Socrate scelse
l'ironia per la stessa ragione per cui Eraclito aveva scelto la soli­
tudine e Pitagora il silenzio. Né le accuse mosse a Socrate e il suo
conseguente processo valsero a fargli svelare la sua verità, forse
perché appunto egli la sentiva incomunicabile e così attorno alla
sua personalità venne formandosi quell'atmosfera di aristocratico
pudore che tanto lo rendeva simile ai Naturalisti. Sembra alle volte
di trovarsi dinnanzi alle stesse grandi personalità, che preferivano
vivere in solitudine, delle Upanishad indiane.
Tale pudore dei propri sentimenti è forse l'eredità più spirituale di
una razza sensitivamente aristocratica che rifuggiva dalla democra­
ticità delle dimostrazioni e delle definizioni prese fine a sé stesse
(Raziocinio), perché sentite, forse, come elementi deformatori della
Verità. Perciò se quei filosofi si rivolgono con le loro parole agli
uomini, essi lo fanno non tanto per comunicare la propria verità,
quanto piuttosto perché gli uomini sembrano essersi definitivamente
messi fuori strada nel prospettare il problema del Vero. E questo è
evidente anche in Socrate. Un'eccezione forse presenta Platone, in
quanto egli (non sempre tuttavia) forse si illuse (in tal caso illu­
sione forse perdonabile) che la razionalità presa fine a sé stessa
(non magico-artigiana quindi) non fosse uno strumento di deforma­
zione, ma di comunicazione veritiera .
Eraclito dunque si presenta a noi come colui che avendo, quasi per
dono divino, ricevuto una rivelazione, in modo sinteticamente ed
enigmaticamente lapidario vuole farlo sapere agli uomini.
Ma non dice in che cosa consiste questa verità: egli vuole sempli­
cemente dire agli uomini che sino a che essi si affideranno solo alle

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« parole » in sé stesse (i « numeri » di Pitagora fine a sé stessi),
non saranno mai nella verità e non potranno mai esserlo. Cosicché
nel primo frammento, invece di spiegare che cosa sia il Logos, pre·
ferisce subito affermare che gli uomini ne saranno sempre inconsci,
anche se questo Logos hanno conosciuto, perché, possiamo aggiun­
gere noi, abituati a misurarlo con un metro inadeguato, anzi ne­
mico (Raziocinio) (8).
Quest'ultima affermazione che l'uomo cioè non riesca a pervenire
alla conoscenza del Logos sia che non l'abbia appreso, sia subito
dopo che l'abbia appreso, può apparire paradossale a noi che siamo
soliti attribuire a quei filosofi naturalisti ancora una mentalità fan­
tastica non pervenuta alla chiarezza razionale del pensiero. Indi­
vidui quindi estremamente sensitivi, ma razionalmente immaturi (9) .
E ad ogni modo certo che per essi la verità più profonda delle cose
non poteva essere raggiunta per un procedimento intellettuale-logico,
ma poteva essere vissuta e vista solo attraverso esperienze partico­
lari ed eccezionali dove si realizzava quell'indistinzione tra sog­
getto ed oggetto al quale nessun procedimento logico avrebbe po­
tuto portarci : ed era proprio in questa e attraverso questa indistin­
zione che l'uomo poteva sentirsi enormemente potenziato dalle forze
più vive che liberamente in lui affluivano ( 1 0).
Come deve essere allora inteso il termine Logos in Eraclito? Noi lo
traduciamo spesso con « Ragione ». Ma è proprio questo termine
come noi normalmente intendiamo che ci mette fuori strada. A parte
il fatto che noi non sappiamo in definitiva cosa sia questo benedetto
Logos ( 1 1 ) (visionarità?) per noi « Ragione » (non nel senso stru­
mentale-magico-artigiano che io intendo), significa sempre soggetti­
vità ed interiorità (il cosiddetto mondo dello spirito), cui si contrap­
pone un'oggettività e un'esteriorità ( 12); contrapposizione che si
risolve sempre in formulazioni statiche e dogmatiche che finiscono
coll'irrigidire la vita in vuoti schemi.
Ma in fondo tutto il complesso di forme e di leggi che per noi vor­
rebbero esprimere l'essenza prima e causale delle cose, per Eraclito,
per Parmenide in particolare, per i naturalisti in genere non si
riduce altro che a un semplice « nome » (ovo(.la. di Parmenide, cioè
« illusione »: qui ha proprio il significato della miiyii indiana) . E a
questo punto non posso non richiamare l'impressionante affinità tra
il primo frammento di Eraclito e l'inizio del Tao-te·king di Lao­
tse ( 13).
« Ragione >> è, in poche parole, la più grossa eredità !asciataci dal
platonismo. Ma Eraclito è un « fisico », non un teorico o un teo­
logo. In lui non poteva esserci neppure un abbozzo di rottura della
unità fisica della Natura che avvenne solo col platonismo e quindi
non poteva esserci una contrapposizione dualistica di spirito e ma-

19
teria, di soggetto e oggetto (14). Eraclito combatte contro ogni pos­
sibile dogmatica riduzione e quindi contro ogni possibile distinzione
che trova la sua origine, secondo lui, nella « presunzione» da cui
il trionfo dell'individualismo che è evidentemente il nemico dichia­
rato di ogni universalità.
Fu già osservato e giustamente, che tutta la filosofia e la polemica
di Eraclito non si fondano sulla contrapposizione di spirito e ma­
teria, ma piuttosto di particolare a universale ( 1 5) : cioè da una
parte una legge universale della Natura che sempre e ritmicamente
realizza i suoi piani, volenti o nolenti gli uomini ( 1 6), dall'altra le
particolari leggi umane, prodotto arbitrario e innaturale della pre­
sunzione.
In Eraclito perciò non potrà ancora apparire la condanna della Ra­
gione come noi normalmente intendiamo, perché Platone non era
ancora apparso ( 1 7 ), né quindi la razionalità aveva acquistato quel
particolare significato di essenzialità causale che le è peculiare, ma
in lui vi è piuttosto la condanna di quel particolare stato d'animo
umano (presunzione) che la legge razionale più tardi avrebbe con­
validato e ontologizzato: potremmo allora dire che la razionalità
in quanto teoria che presuma definire, non è altro che il prodotto
dell'orgoglio umano, da cui l'antropomorfismo e il dogmatismo ( 1 8) .
La presa di posizione radicalmente polemica di Eraclito contro il
trionfo dell'individualismo, ci dà la sensazione viva dell'uomo de­
solato dinnanzi a una metodica e sempre più diffusa deformazione
spirituale dell'umanità, che dal senso vivo e palpitante della Vita
andava sempre più rinchiudendosi in un egocentrismo forse già da
lungo tempo in gestazione. Nei Naturalisti in genere, in Eraclito in
particolare, c'è potenza e desiderio di Vita, non paralisi di Vita
attraverso le sistemazioni formali (« vitalismo» di Joel).
Come tradurre allora il termine Logos? Al termine « Ragione»,
sostituirei una espressione, forse più elementare, ma più concreta
ed oggettiva che pressappoco possa corrispondere a « linguaggio del­
la Natura» : senso e anima delle cose, magia delle cose e della
Parola e forse, al limite, suono particolare della Parola e della
Voce, quale dovrebbe apparire nella pronuncia del monosillabo OM
della filosofia indiana.
Ottima mi sembra l'interpretazione dello Snell « Die Sprache
Heraklits» - Hermes 1 926) a proposito del Logos: « Ed ora noi
arriviamo al tanto discusso problema dell'interpretazione eraclitea.
Come deve essere intesa la frase che sta all'inizio dell'opera di
Eraclito: questo Logos gli uomini non comprendono. La domanda
se questo Logos significhi parola o significhi legge, è naturalmente
mal posto. In verità il Logos ha un significato che nella lingua te-

20
desca non può essere certo espressa con un solo termine. Nel tra­
durre, noi dobbiamo fare una scelta tra parola e legge: malgrado
ciò sarebbe necessario chiarire il significato unitario di tale espres­
sione.
Logos è certo una parola, ma in quanto piena di senso. « Il dire »
(AÉyEw) significa : intendere qualcosa. E come in tedesco noi non
vogliamo solo dire: - io penso qualcosa, per esempio di questo
fatto o di questa cosa -, ma vogliamo anche nello stesso tempo
dire: - il fatto significa questo o quello -, così non è soltanto il
discorso dell'uomo in quanto dà un senso, ma è anche il senso che
è nella cosa, che a noi parla e per cui la cosa è piena di significato ...
si comprenderà cosi come Logos abbracci non soltanto la parola,
ma anche il senso. E questo senso diventa una cosa visibile. A6yov
�ov"t'a À.ÉyEL'V si dice tra i Greci. Esprime cioè un senso che è qui
avanti a me, che veramente esiste. Noi tradurremmo : dire qualcosa
di vero » (pag. 365). La traduzione approssimativa è « esporre la
ragione come veramente è » e, in modo più accessibile, « come
vanno veramente le cose ».
Il Logos di Eraclito è pieno di contenuto oggettivo, non è ancora
vuota formula soggettiva: non è soltanto la parola dell'uomo, ma
è soprattutto la parola della Natura: come del resto il numero pita­
gorico non è ancora formula soggettiva, ma la realtà è numero e
viceversa.
Si potrebbe esprimere la differenza che c'è tra il Logos eracliteo e
le « opinioni » individuali con la stessa differenza che c'è tra il lin­
guaggio artistico e le categorie filosofiche o le leggi scientifiche
(Schelling?). Nell'arte, nella poesia, nella lirica, non si tratta tanto
della parola dell'uomo che definisce ed esprime, quanto piuttosto
della parola della Natura che a noi parla e che a noi comunica la
sua verità. « La filosofia della Natura è qualcosa di più della descri­
zione della Natura: essa è il senso della Natura » (Snell : pag. 1 3 ,
op. cit.) . I n tal caso l'uomo quasi inconsciamente esprime la voce
della Natura : è la Natura che parla per bocca dell'uomo, come se
questi fosse solo uno strumento. Si tratta quasi di un linguaggio
medianico.
Nella produzione artistica non c'è ancora posto per il giudicare, il
riflettere: ma è un sentire, un avvertire è un essere tutti gli aspetti
più vari della Natura, che in tal modo si trasmuta in parola, in mu­
sica, in suono (appunto l'OM indiano): tanto più perfetta è l'opera
d'arte, quanto più essa è spersonalizzata, quanto più l'uomo sembra
uscire da sé stesso, per essere la Natura, per essere la vera voce
della Natura ( 1 9). In questo senso di compartecipazione con le cose,
in questa miracolosa indistinzionè di soggetto e oggetto, in questo
« donarsi ) ) non c'è ancora posto per la « presunzione » che vuole

21
definire ed è fuori dubbio che il dolore, l'ira di Eraclito sono rivolti
contro il pericolo incombente di uno scientismo umano (Raziocinio)
che avrebbe offuscato il senso lirico della Vita e della Natura (20).
Tutta la differenza tra il suo Logos e le opinioni individuali, sta
appunto nella pretesa di questi ultimi di definire la verità. Sotto
questo punto di vista Eraclito intese certo il numero pitagorico : cosi
pure devono essere intese « le parole e le azioni >> del suo primo
frammento che nettamente si contrappongono all'universalità del suo
Logos ( 2 1 ) . Infine tale significato sarà ancora più accentuato nel
« nome » di Parmenide (22). Tutte queste definizioni nell'atto in
cui si pongono, si staccano e si isolano dal Tutto sino a svuotarsi
della sostanza più vitale della Natura (23) . Paradossale poi sarebbe
parso ad Eraclito lo sviluppo più spinto della « presunzione » uma­
na, qualora essa fosse arrivata al punto di affermare che quella
astrattezza soggettivistica esprimeva la causalità determinatrice del­
le realtà naturali .
Eraclito ebbe forse solo la previsione d i una simile soluzione para­
dossale, ma non ebbe il modo di constatarla direttamente. La con­
danna che egli fa delle « opinioni » è una condanna che si limita
al campo morale.
Possiamo dire che sino a questo punto vi sia un perfetto paralle­
lismo tra la filosofia occidentale e la filosofia orientale, in quanto in
ambedue si condanna un particolare atteggiamento morale dell'indi­
viduo, da cui sarebbe sorta un'errata impostazione del problema
della conoscenza umana (che quindi per Buddha è in verità « igno­
ranza ») : atteggiamento morale che in Occidente, coll'apparire del
platonismo, sarebbe stato, a differenza della filosofia orientale, on­
tologizzato (24).
I n poche parole: il senso della definizione razionale-causale, non
può essere concepito dai filosofi naturalisti : ogni definizione rappre­
senta sempre e solo un punto di vista individuale, che, svolgendo
un'opera di riduzione antropomorfico-geocentrica, pone l'uomo fuori
dalla Natura. E forse che la polemica di Eraclito non è proprio por­
tata in ogni settore contro tutte quelle espressioni della cultura che
avevano solo un valore geocentrico, pretendendo di assurgere a va­
lore universale? E forse che allorquando Aristotele più tardi si af­
frettò, nella sua polemica contro Platone, a riportare l'idea nelle
cose in quanto espressione di molteplicità e non del « Principio » ,
non segnò un ritorno al Naturalismo? (25).
Il primo frammento di Eraclito, secondo me, va proprio inteso in
questo senso: affermazione di una Verità universale e naturale, in
nessun modo riducibile a razionalità soggettiva (idee, categorie,
leggi = Raziocinio) che presuma definire secondo verità (26), pro­
prio con quelle umane misure conoscitive che hanno solo e sempre

22
un significato astratto e individualistico (origine dell'opinione e
dell'illusione).
Il primo frammento lo tradurrei così : « Di quel Logos che è reale
(e a cui io mi riferisco) gli uomini sono sempre inconsapevoli (non
possono avere conoscenza, non possono dire " Io so") sia prima di
averlo appreso (udito) e sia subito dopo averlo appreso (udito).
E per quanto ogni cosa avvenga secondo questo Logos, tuttavia
gli uomini ne sono inesperti, anche se tentano di comprenderlo pro­
prio attraverso quelle " parole e quelle azioni" con le quali io vado
esponendo e descrivendo ogni cosa secondo la (sua) reale natura
e dicendo veramente come è. Gli uomini infatti sono inconsa­
pevoli di ciò che fanno da svegli, come di ciò che hanno fatto di
notte » (27) .
� evidente anzitutto il contrasto tra Logos e « parole e azioni ». Il
Logos è la parola della Natura, piena di senso e di vita, le « parole­
azioni >> umane sono la semplice riduzione individualistica della Ve­
rità (antropomorfismo). Intendiamoci: non che « le parole e azio­
ni », non contengano in sé, quasi magicamente, il Logos, perché in
un modo o nell'altro, volenti o nolenti gli uomini, tutte le cose vi­
vono secondo questo Logos: ma attraverso le loro astrazioni indi­
vidualistiche (« opinioni » al posto di Logos) gli uomini hanno pri­
vato di ogni contenuto reale i fatti e le parole di chi comunica la
Verità (Eraclito in questo caso), proprio mediante quelle stesse pa­
role e quegli stessi fatti . Chiaro a questo proposito il framm. 1 7 :
« Non si rendono conto i più di che natura sono le cose i n cui si
imbattono, né le riconoscono quando ne hanno esperienza, ma se le
formano conformemente a sé stessi ». Questo frammento è una
perfetta chiarificazione del primo. Da un punto di vista semantico
potremmo dire che il rapporto vivo e concreto tra il « significato »
e il « significante », la parola cioè, non esiste più (28). Il passaggio
dalle « parole e azioni » al « nome » di Parmenide è oramai maturo.
Gli uomini quindi non sanno più afferrare attraverso le parole e i
fatti, la Parola stessa e la stessa vita della Natura. Perciò il Logos
può diventare « parola » e « la parola » Logos a seconda come li
si interpreta: cioè come fine a sé stessi o come mezzi per una Ve­
rità più alta.
� evidente che la conoscenza come fine a sé stessa darà luogo a
quella « erudizione » ('!toÀ.v!J.a.i}ia.) che in verità ha come presuppo­
sto la presunzione-ignoranza, che ci estrania dalla vera realtà delle
cose: come mezzo invece ci fa penetrare nel settore della magica
armonia universale, che è la sostanza prima delle cose oltre la
loro apparenza. Sotto questo punto di vista, devono essere in­
terpretate nella filosofia indiana (V. soprattutto il Bagavad-Gita)
le due differenti « maya » . Si ammette infatti accanto a una

23
« miiyii umana » che esprime la conoscenza illusiva della realtà (la
« opinione » greca) che in tal modo è vista e snaturata come attra­
verso un velo opaco, la possibilità di una « miiyii di\'ina », cioè di
sapere vedere oltre l'apparenza delle cose, in cui cade sempre la
falsa conoscenza umana, la loro vera sostanza. Potremmo noi dire:
sapere vedere le cose in trasparenza.
Ciò che è veramente più concreto e più potente in Eraclito è la in­
visibile armonia, unità nella molteplicità « fuoco eternamente vi­
vente » , sotto e attraverso tutte le cose. Altrimenti « le parole e le
azioni >> nella loro astrattezza ci porranno all'opposizione del rea­
lissimo Logos e diventeranno nomi vuoti e convenzionali, per cui
giustamente si può già parlare di un nominalismo in Eraclito (29).
Ciò che certamente doveva avere negativamente colpito Eraclito, è
quel processo del linguaggio per cui la parola da « fisica », diventa
« logica >>, perdendo così quella funzione magica di « richiamo »
(cri'j(.la) di indicazione e di comunicazione con una verità naturale
più vasta che così si isola e si raggruma in sé stessa. Eraclito ha
fatto anche della filologia semantica: il termine ��oç, ad esempio,
che noi traduciamo con « vita », originariamente, egli dice, signi­
ficava « arco », dove è espressa tutta la dinamica tensione vitale
che una traduzione convenzionale può snaturare (30), e si potrebbe
anche arrivare ad ammettere, come per l'indiano OM, che la stessa
pronuncia del termine greco �loç esprima un magico vitalismo.
La parola dovrebbe veramente trasmettere uno stato fisico, o, meglio,
psicofisico : dovrebbe essere magica: non deve definire ma « indi­
care » (CT1](..LC1tVEW). Se per esempio �i'jv, vale quanto �Ei:v (3 1), cioè
« vivere >> quanto « bruciare », allora tale termine dovrebbe, magi­
camente, captare, trasferendola in noi, la vita, proprio come ardore.
Se Dio-Zeus, originariamente significa « luce », proprio come luce
che abbaglia, noi dovremmo vederlo e viverlo (32) . La frattura se­
mantica tra significante e significato ci esclude veramente dalla vera
vita delle cose e quindi dalla vita di Dio. Giustamente dice perciò
lo Snell : « Eraclito voleva distruggere i nomi e con questo la me­
schina concezione del divino che era legata al nome . . . cosl Eraclito
cerca di superare il linguaggio come datore di nomi » (op. cit . :
pag. 368) . (Noi forse preferiremmo dire: Eraclito volle distruggere
la falsa interpretazione che gli uomini danno del nome).
La parola allora, se viene meno alla sua funzione magica, diventa
come un carcere e da crfj(..LC'l, che significa « segno », « indizio », di­
venta CTW(..Let che significa « corpo >> (interpretazione filologica di
Eraclito) (33). Essa è come se andasse metodicamente cristallizzan­
dosi e condensandosi sino a diventare materia . E allora la Vita non
fluisce più di cosa in cosa e al suo posto vanno sostituendosi, inerti

24
e isolate, le cose contro le cose. Ci si chiude al flusso della Vita e
perciò si tronca la nostra esistenza. Ci si rinnega alla possibilità di
espandersi, di diventare qualcosa d'altro, oltre la nostra stessa forma
presente; di transumanarsi, di essere forza viva, come le forze vive
della Natura.
Meravigliosa è in questi Naturalisti, greci o orientali, la capacità di
sintonizzarsi con la vita della Natura. Essi partecipavano, dilatan­
dosi alle forze più segrete delle cose. Acqua, etere, aria, fuoco: tutti
magici e dinamici strumenti di questa sintonia cosmica. Dilatazione,
espansione, mutazione, era spiritualità, perché era vita, sempre più
vita: condensazione era materia, perché negazione della Vita (sotto
questo punto di vista quanta affinità con la filosofia indiana, soprat­
tutto con lo shivaismo ! ) . Essi sentivano che nell'atto stesso in cui
si definisce, fisicamente sentivano, che l'infinito della Natura subiva
come una caduta di potenziale e la potenza incommensurabile della
« invisibile armonia » ( « L'invisibile armonia è più potente della
visibile armonia », dice Eraclito) metodicamente e quasi insensibil­
mente, si trasmutava, condensandosi, in materia. Essi possedevano
un sesto senso (Nietzsche dirà: « il mio genio sta nel mio fiuto » ) .
Ma la gran massa degli uomini aveva ormai perduto questo senso
ed Eraclito perciò dirà loro: siccome voi non comprendete più il
vero significato della Parola (34), voi non potrete più neppure
comprendere il vero senso delle mie parole. Non è che le mie pa­
role non contengano la Verità e così pure tutte le realtà naturali in
cui voi vi imbattete, ma voi, oramai, non riuscite più ad afferrare
le verità che sono contenute nelle mie parole e nelle cose, oltre la
loro parvenza esteriore.
La verità perciò passa su di voi, ne venite a contatto e perciò in un
certo senso l'apprendete, ma non lascia nessun segno in voi e per­
ciò non l'apprendete. Voi siete come in uno stato di continua cata­
lessi: dormite nel sonno e dormite nella veglia. Voi siete delle « ani­
me barbare » e nulla potrà mutare la vostra congenita barbarie.
Siamo sullo stesso piano di Matteo quando affermava « ... udirete
senza dubbio con i vostri orecchi, ma non intenderete; mirerete
certo con i vostri occhi, ma non vedrete, perché crasso è il cuore
di questo popolo . .. » ( 1 3 . 1 4-1 5).
� evidente in Eraclito una presa di posizione sdegnosamente soli­
taria. Certo esistono anche le anime « non barbare » , ma a queste
non è necessario insegnare nulla, perché innata è in loro quella
visione dell'universale, quella cpp6vr}<r�ç (« intuizione » ?) che carat­
terizza l'aristocrazia degli spiriti e che nella massa diventa to(.cx.
cpp6'll'l'}<r�ç. « conoscenza volgare » o comune, che potrebbe essere
tradotta semplicemente con Raziocinio (35), oppure anche con « opi­
nione », purché questo termine non venga accolto secondo il nor-

25
male significato che ad esso attribuiamo. Per noi infatti « opinione »
è quella forma di conoscenza che si riferisce (dopo la dualistica
frattura platonica di un mondo dello spirito contrapposto a un
mondo della materia) , al mondo esterno, al mondo della sensibilità.
Per Eraclito invece si dà origine all'opinione, quando, attraverso un
giudizio solo soggettivo, viene spezzato e dualizzato quel Tutto or­
ganico che è fusione di soggetto-oggetto, uomo-Natura, spirito-ma­
teria : ci si estranea così dal « naturalismo » la cui essenza esprime
tale organica simbiosi.
Parmenide ha lo sguardo molto più limpido e sereno di Eraclito:
dirà semplicemente che tutte le conoscenze degli uomini, i loro
« nomi » non saranno altro che « illusioni ». Certo noi commet­

tiamo un grosso errore, quando affermiamo, con una retroattiva


prospettiva platonica, che può esserci spiritualità nei Naturalisti,
solo là dove essi accennano o affermano l'esistenza di un'interiorità
contrapposta a un'esteriorità.
Eraclito (e con lui tutti i Naturalisti) non è un teorico e tanto meno
un teologo: è soprattutto un estroverso e non un introverso e per
questo egli si scaglia contro il numero pitagorico, che in un modo
o nell'altro segnò il predominio di quell'interiorità che avrebbe spez­
zato la « Natura » in due contrapposte sezioni che difficilmente
avrebbero trovato la loro sutura. Ed è proprio per questa sua ten­
sione verso l'Infinito che egli definisce l'anima come una scintilla
di luce rapita al Sole: la quale anima se non riesce ad accendersi
a contatto con la luce che è fuori di noi è proprio come un carbone
spento, cioè inconsapevole della stessa Infinità che essa porta den­
tro di sé (siamo sullo stesso piano del mito dell'auriga di Platone) .

26
Note del capitolo I

(l) V. quello che Nietzsche dice a proposito di Eraclito: «Egli è un


astro senza atmosfera. Il suo occhio acceso, fisso verso l'interno, guarda
smorto e glaciale, come solo per mostra, all'esterno. Intorno a lui, di­
rettamente contro la rocca della sua superbia, battono le onde della
pazzia e del traviamento; egli se ne volge con disgusto. Ma anche gli
uomini d'anima sensibile si scostano da una tale maschera quasi fusa
nel bronzo: l'apparizione di un tale essere è ammissibile solo in un
sacrario remoto, tra immagini di dei, sotto un'architettura fredda, quie­
tamente solenne ( «La filosofia nell'epoca tragica dei greci »: Athena,
pag. 63).

(2) V. framm . 101: tSL�TJCTiip.TJ EJ.LEWV-t6v traduco semplicemente con «io


ho imparato da me». Seguo perciò la traduzione del Weiher ( «Heraklit
und Empedokles», 1914-'15, pag. 5 dal «Supplemento Scientifico al
resoconto annuale del Ginnasio Umanistico di Kaiserelauter »).
Nello stesso senso V. anche Diogene, IX, 5 e Plutarco, adv. Col. III.
Gabriele d'Annunzio nel «Trionfo della Morte>> (pag. 952, Mondado­
ri) traduce con «l'ammaestrato da sé». A questo frammento non attri­
buisco quindi, come alcuni, il valore della scoperta di un mondo inte­
riore, spiritualmente autonomo. Anche se dovessimo tradurlo con «ri­
flessione » seguirei l'interpretazione dello Snell ( (( Die Sprache Herak­
lits », Hermes, 61, l, 1926): «... questo lo non è propriamente l'og­
getto della sua riflessione ... le esperienze di cui egli parla sono per la
sua coscienza entrate in lui dal di fuori e così per lui il pensiero sopra
gli avvenimenti è quasi assolutamente un pensare sopra il mondo ester­
no» (pag. 361).

(3) V., tra l'altro, il framm. 40: «Polimatia ("erudizione") non inse­
gna ad avere intelligenza: altrimenti l'avrebbe insegnata ad Esiodo,
Pitagora a Senofane e a Ecateo». Per quello poi che riguarda i più
supposti che reali contrasti tra i filosofi naturalisti, il Gigon O. ( «Der
Ursprung der griechischen Philosophie », Schwabe, Basel, 1945) dice:
« La sistematica platonica ha posto Eraclito contro Parmenide come

rappresentante del divenire eterno e dell'essere statico. Questa antitesi


non deve portarci a concludere che il motivo di ambedue giaccia su un
terreno completamente diverso. Parmenide perviene all'Essere perché
egli vuole descrivere l'origine del mondo nella sua completa purezza.
Eraclito ci porta sul piano del divenire da un punto di vista etico, per­
ché a lui importa il problema dell'azione e la sua verità ha la forma di
una legge» (pag. 199). Il Gigon è per l'unità del pensiero naturalistico
e Parmenide non avrebbe conosciuto l'opera di Eraclito.

(4) V. Nietzsche (op. cit.): «Eraclito ha come suo possesso regale la


suprema forza della rappresentazione intuitiva: mentre egli si mostra
freddo, insensibile, persino ostile all'altro genere di rappresentazione
che si compie in concetti e combinazioni logiche, quindi contro la ra­
gione e sembra provare piacere quando può contraddirla con una verità
ottenuta intuitivamente » (pag. 47).

27
(5) V. Bodrero ( « Attualità dei filosofi classici », a cura di Guzzo) « Ci
colpisce dunque come tutti indistintamente i fisici presocratici assumano
un tono grandioso di iniziati e un atteggiamento sprezzante verso i pro­
pri lettori )) (pag. 46).
(6) Veramente degna di nota sotto questo punto di vista l'opera già ci­
tata del Gigon per il quale non esistono nei presocratici , quelle diver­
genze che noi siamo soliti mettere in evidenza.
(7) Diogene a proposito di Eraclito ( IX, 6) dice: « Eraclito depose il
suo libro nel tempio di Artemide avendo cura di scriverlo in forma
oscura, affinché si accostassero ad esso soltanto coloro che erano in
grado di intenderlo e il libro non cadesse in disprezzo per la sua popo­
larità ». E Clemente (Strom 5, 1 91): « Ma la profondità della cono­
scenza nascondere è una savia diffidenza, poiché mediante questa dif­
fidenza si sfugge al destino di venir scoperti » . Che inoltre si avesse
timore di persecuzioni religiose è anche cosa probabile. � inutile ricor­
dare a questo proposito le vicende del pitagorismo.
(8) V. qui l'interpretazione del Gigon, per il quale è netta l'antitesi tra
quello che gli uomini conoscono (scienza dell'individuale) e l'ineffabile
pienezza divina (logos universale). « Un elemento fondamentale è il
contrasto tra la divinità e l'umano... Si tratta sempre del contrasto tra
pienezza divina e nullità umana )) (pag. 204). V. anche del resto Brecht
( « Heraklit » , Karl Winters Universitlitbuchhandlung, Heidelberg,
1936): « Ciò che Eraclito fattivamente fa, in quanto dichiara l'impos­
sibilità di Dio, è in verità pressappoco l'ammutolimento di Plotino din·
nanzi a Dio ... » (pag. 22).
(9) Propendo a seguire piuttosto la interpretazione naturalistico-mistica
dello Joel (V. in particolare: « Der Ursprung der Naturphilosophie aus
dem Geiste der Mystik » dal (( Programm zur Rektoratsfeier der Uni­
versitlit Basel », Basel). Per lo Joel il sentimento mistico (das Gefiihl)
che è caratteristico dei mistici naturalisti, precede sempre l'atto distin­
tore della ragione. « Il divino presso gli antichi naturalisti è mistero :
esso non viene raggiunto con un troppo facile atto intellettuale, ma con
un senso visibile (" das visioniire Gefiihl ") e per questo l'antico filo­
sofo era tutt'uno col poeta religioso e con l'orfico )) (pag. 88).
V. anche Macchioro ( (( Eraclito, Nuovi studi sull'Orfismo ») (( ... la co­
noscenza, secondo Eraclito, era un fatto divinatorio, cioè mistico, cioè
irrazionale che avveniva tal quale la pensavano i mistici del Rinasci­
mento » (pag. 123).
( 1 0) « Vitalismo », direbbe lo Joel. V. anche Snell (op. cit.) : « Il Logos
per Eraclito non è nulla di teoretico, bensì qualcosa di vitalmente at­
tivo )) (pag. 380). V. Macchioro ( (( Zagreus », Bari, Laterza, 1 920) :
(( In questa mentalità, la quale procedette la nostra mentalità razionale,

il contenuto della coscienza non è diviso in subbiettivo ed obiettivo:


perché ogni rappresentazione ha il carattere e il contenuto della realtà,
non essendo accompagnato da un processo della coscienza... Così si
attua tra la Natura e l'uomo una vera simbiosi. Le piante, gli animali,
gli oggetti hanno una loro propria vita alla quale l'uomo partecipa e

28
collabora per un processo continuo di spersonalizzazione che altera e
deforma le sensazioni e le percezioni al punto che il fantastico diventa
reale e il subbiettivo si identifica coll'obiettivo, l'io al non-io, il visi­
bile all'invisibile ... » (pag. 158).
( 1 1 ) Buddha: << Questo Dhamma (Logos eracliteo) che io ho pene­
trato è profondo e difficile a vedersi... pacifico, indulgente, superante
la Ragione, sottile e intelligibile solo ai Saggi » .
(12) Secondo Platino, l'esperienza del Vero è qualcosa di miracoloso la
cui origine non può essere localizzata nell'interiorità dello spirito uma­
no. Egli dice: « Lo Spirito non sa donde è apparsa la grande luce, se
dall'esterno o dall'interno: essa era interiore eppure non era interiore.
Non bisogna chiedere donde, perché qui non c'è nessuna origine : essa
non parte da un luogo per andare in un altro, ma appare ora ed ora
non appare. Perciò non bisogna perseguitarla, ma attenderla tranquilla­
mente, finché essa non appaia, come l'occhio attende lo spuntar del
Sole » (Enneadi, V, 5, 8). La visione del Tutto è indistinzione tra sog­
getto e oggetto, quindi ineffabilità. La coscienza di un'interiorità con­
trapposta a una esteriorità significa già evasione dalla Verità. Per que­
sto il Logos di Eraclito è razionalmente inaccessibile. La tensione a su­
perare questo dualismo è espressa ancora dalla frase che Platino avreb­
be pronunciato prima di morire: « Io mi sforzo di ricondurre il divino
che è in me, al divino che è fuori di me » .
( 1 3) Rimando qui alla mia memoria presentata anni or sono al Con­
gresso di Filosofia a Venezia: « Eraclito e Lao-tse » . Mi accontento di
riportare due brevi brani, il primo di Lao-tse, il secondo del taoista
Ciuang-tse. « Quando la primitiva semplicità mutò si ebbero molti
nomi. Non ve ne sono dunque abbastanza? Non è questo il momento
di fermarsi » e, bellissimo, con Ciuang-tse: « O uomini, basta con i
nomi: lasciate entrare in voi le cose senza nomi ! ».
( 14) V. Snell (op. cit.): « Che Eraclito nell'ascesa dal visibile all'Invi­
sibile abbia pensato alla contrapposizione del sensibile allo spirituale,
mi è dubbio. In Eraclito non si parla ancora di una filosofica e sistema­
tica divisione delle possibilità di conoscenza )) (op. cit., pag. 39).
( 1 5) V. Gigon (op. cit.): « Il contrasto Verità-Errore, viene determinato
come un contrasto di individuale-universale, non certo... come contra­
sto tra Ragione-Senso. Questo non si trova ancora presso Eraclito ))
(pag. 205). V. del resto anche Snell, op. cit., pag. 368.
( 1 6) V. Gigon (op. cit.): « L'uomo non può sottrarsi alla Legge, ma egli
stesso non sa quello che succede e perciò agisce come addormentato )) .

( 1 7) Che cosa intendeva Platone per « ragione », per « pensiero » ? La


nostra traduzione corrisponde veramente al significato platonico?
( 18) V. il parallelismo con l'impostazione buddistica. Per Buddha
l'ignoranza è l'inizio della caduta: ma l'ignoranza (avidia) si inizia
proprio dal momento in cui l'uomo dice: « Io so, io voglio, io desi-

29
dero » ecc. ecc., quando cioè il piccolo personale Io si sostituisce al­
l'universale impersonale Sé.
( 1 9) V. Joel in genere. La filosofia naturalistica greca, secondo lo
J6el è soprattutto lirica, dove perciò non trova ancora posto la rifles­
sione e il giudizio soggettivo: « Sino a quando l'lo vive pienamente la
Vita, esso è tutt'uno col mondo, il Gefiihl vive nella sua naturale unità,
nelle sue liriche espressioni. Il senso della dissonanza porta alla rifles­
sione. Se l'Io soffre nei riguardi del mondo, allora si pone contro il
mondo, il Gefiihl si spezza e diventa rappresentazione critica » (op.
cit., pag. 27). � certo che in Eraclito non vi è ancora il giudizio sog­
gettivo e giustamente dice lo Snell: « Il mondo come rappresentazione,
per esprimerci nel linguaggio di Schopenhauer, non interessa affatto
Eraclito » (op. cit., pag. 362).
(20) Se intendiamo per << vivere secondo natura » (naturalismo) questo
fondersi e confondersi, fuori dal nome, del soggetto con l'oggetto, in
un terzo superiore elemento anonimo (la cpucnc; greca), allora dobbiamo
riconoscere che il naturalismo più candido, più genuino e più fascinoso
nella sua spontaneità ancora bambina (non problematica) è rappresen­
tato dalla filosofia taoista cinese, di un Lao-tse o di un Ciuang-tse.
(21) V. Brecht (op. cit.). Accentua ancora di più il carattere negativo
dei termini l'ltEa. xal lpya., dandogli un valore spregiativo ( « fanfaro­
nate degli uomini » ). Potremmo noi aggiungere « il vano agitarsi degli
uomini attraverso le loro chiacchiere e il loro darsi da fare ».
(22) V. Gigon: « Il nominalismo di Parmenide è una supposizione o
una convenzione umana che non esprime la realtà. Parmenide parla in
questo senso del "nome " che gli uomini danno. Il nome aveva pure
per Eraclito una simile funzione, ma in Parmenide tale carattere è
molto più chiaro >> (op. cit., pag. 258).
(23) V. Snell: « Se noi definiamo col linguaggio una cosa, le diamo un
nome, allora noi la isoliamo nella sua individualità dalla connessione
universale ... Il nome ha fatto affiorare soltanto l'apparenza che ha di­
strutto l'essenza. E cosi Dio è così poco da definire secondo un -nome,
come il fuoco si chiama mirra o incenso » (op. cit., pag. 368).
(24) V. Gigon: « Noi dunque siamo propensi a interpretare alla fine
Eraclito come un etico... La descrizione platonica della dottrina di
Eraclito non è falsa, ma essa sposta tutti gli accenti dall'etico all'onte­
logico e pone a Eraclito un problema che non era il suo » (op. cit.,
pag. 232).
(25) A proposito dell'apxi) 01 Principio) e dello O''tOLXE�ov (l'elemento)
in Eraclito, V. Auerbach G. (« De Principio Herakliteo », Eos, Com­
mentari Societatis Philologiae Polonorum, vol. XXX I I, 1939, �agg. 301-
302). Che il « fuoco » di Eraclito sia un apxi) o uno O''tOL)(EI.OV non è
ben chiaro, secondo gli antichi commentatori (V. ad es., Simpl., Aet.,
Diog., Laert). Per quello che riguarda l'interpretazione di Aristotele
(Metaph. I, 3, pagg. 983-986), l'apxi) può essere inteso « come ciò da
cui tutte le cose hanno un inizio e nel quale tutte le cose tornano », ed

30
anche, « la realtà di cui constano tutte le cose >> : perciò l'tipx'l') è anche
CT'tOLXEi:ov. Sembra quindi che ci sia una discordanza tra il principio
come origine e il principio come constare. Per Aristotele ed altri l'tipx'l')
è attribuibile all'acqua di Talete, all'Indeterminato di Anassimandro,
alt'aria di Anassimene, al fuoco di Eraclito, agli elementi di Empedocle,
agli atomi di Democrito.
(26) V. Brecht, « ... nel superamento di ogni stabile affermazione, Era­
clito svalorizza le categorie e lascia apparire l'Unità descritta col più
alto nome, come inabbracciabile e indescrivibile >> (op. cit., pag. 23).

(27) Naturalmente per la traduzione rimando al testo greco. Numerose,


come sappiamo, sono le interpretazioni di questo importantissimo fram­
mento, per noi tanto più significativo, in quanto sappiamo da Sesto
Empirico, essere il sicuro inizio dell'opera eraclitea. Per un esame acuto
e accurato dal punto di vista filologico, vedi Gigon ( (( Untersuchungen
zu Heraklit », Dieterischer Verlag, Leipzig, 1935).
(28) A proposito di una interpretazione semantica del Logos eracliteo,
V. soprattutto Pagliara A., « Saggi di una critica semantica », D'Anna,
Messina, 1952). � certo che la semantica si rende anche qui molto op­
portuna. Ci limiteremo ad un accenno. La semantica (dal greco crii !J.!l,
segno, indizio), vuole stabilire quali sono i rapporti reali tra il « signi­
ficante >> e il « significato » . « Il significante è il complesso delle parole
che noi abbiamo udito o letto, il significato quello che noi di esse com­
prendiamo » (pag. VIII). Allorquando il nostro processo logico, attra­
verso la sua astrattività, non è più in grado di esprimerci il contenuto
reale dei fatti e delle parole, allora la semantica, attraverso il contatto
diretto e direi, sensitivo con la realtà stessa, vorrebbe ricostituire la per­
fetta sintonia tra pensiero e realtà.
Secondo il Pagliara « a partire da Eraclito fu posto in discussione, per
affermarlo e negarlo, il nesso che lega il pensiero discorsivo (logos) con
il processo reale; come naturale sviluppo di tale impostazione sorse e
fu lungamente agitato il problema della validità del singolo segno ai
fini del conoscere ». L'interpretazione che ne deriva è senza dubbio
acuta e interessante. Infatti il Pagliara nel primo frammento non am­
mette che vi sia una frattura tra « parole e azioni » degli uomini e
Logos, in quanto sarebbe preoccupazione di Eraclito il volere stabilire
il perfetto nesso tra ragione e fatti. Gli uomini certo hanno rotto que­
sto rapporto, ma ora si tratta di dare alla Ragione la sua validità con­
creta; perciò le « parole ed azioni » non hanno nulla a che fare con il
« nome » ... (( non solo le " parole e azioni ", non si contrappongono
tra loro e non si oppongono al Logos, ma sono invece i momenti costi­
tutivi di questo: i primi ne rappresentano il processo dinamico nella
sua forma verbale, i secondi ne sono l'aspetto antologico >> (op. cit. 133).
Ed ancora, « per Eraclito il reale è concepito come processo parallelo
ed analogo al processo discorsivo e le " azioni " rappresentano l'aspetto
antologico del Logos (comprensivo anche dell'agire umano), cosl come
le "parole" costituiscono l'aspetto verbale, l'espressione » (pag. 142).
Ed infatti: « Dalla lettura del testo, altro non si può desumere se non
che Eraclito intende provare che la verità non è nel " nome ", bensl nel-

31
l'azione, che è il vero dato qualificante della cosa e che il " nome " è
vero nome in quanto corrisponde all'azione >> (pag. 142). Il Pagliara
tradurrà il nucleo centrale del primo frammento cosl: « ... infatti per
quanto tutte le cose avvengano secondo questo Logos, gli uomini fanno
figura d'esserne inesperti, nell'atto stesso che fanno esperienza di parole
e di fatti, nell'ordine di quelli che io spiego, distinguendo ciascuno se­
condo la sua natura e spiegando come le cose vanno >> (pag. 1 39).
(29) A proposito del significato del Logos eracliteo dice lo Joel : « La
parola è un simbolo, un'espressione spirituale del sensibile e un'espres­
sione sensibile dello spirituale, una medietà tra l'anima e il mondo, un
suggello della propria unità )) (op. cit., pag. 55).
(30) Così lo interpreta etimologicamente il Kranz ( « Hermes », 73,
1938, 90).
(3 1 ) V. soprattutto l'analoga magicità dei termini sanscriti dei Veda
indiani, soprattutto del Rig-Veda. Era anche, come abbiamo visto, mol­
to importante il modo come si pronunciavano certe parole, il loro par­
ticolare suono. V. a questo proposito soprattutto il Mimiimsii.

(32) V. quello che dice Ugo di S. Vittore: « Ogni essere nasconde un


pensiero divino. Il mondo è un libro immenso scritto dalla mano di
Dio in cui ciascun essere è una parola piena di significato )) .

(33) A proposito del termine evangelico di Verbo nei rapporti con la


Parola eraclitea V. soprattutto Dyroff, « Zum Prolog des Johannes­
Evangelium )) (in Antike und Christentum, Kultur und Religionsges­
chichtliche Studien, Ergiinzungsband l , Pisiculì, Miinster, i.W., 1939,
pagg. 86-93). Il Dyroff mostra le notevoli affinità che vi è tra il Logos
eracliteo e il Verbo di Giovanni. Questi sarebbe certamente venuto in
contatto con il Logos di Eraclito, attraverso il Logos neoplatonico. Se­
condo Poseidonio e secondo Diogene Laerzio, il Logos eracliteo è il
(( seme », il principio generatore della realtà; non è Dio che è il puro
fuoco originario, ma è sempre, secondo Poseidonio, un corpo etereo,
principio generatore delle cose, è una specie di Demiurgo. Quindi il
dualismo eracliteo di Dio-Logos, sarebbe stato mutato in Giovanni nel
dualismo Dio-Padre, Dio-Figlio.
(34) I termini che in genere usa Eraclito per l'apprendimento mecca­
nico e individualistico (Raziocinio) sono: I,LavMvw, BoxÉw (framm. 17),
Bot;aa-I,La-ra (framm. 70), tB!.a cpp6VT)a-�c; (framm. 17). Per indicare invece
la vera comprensione delle cose: y�yvwa-xw (framm. 17), yvw[.LTJ
(framm. 78), cppovE�v (framm. 1 12 e 1 1 3). Nel framm. 2 LB!.a unito a
cpp6vTJa-�c; indicherebbe appunto la degenerazione individualistica e di
massa di una forma di conoscenza universale quale è la cpp6vT]a-�c; (in­
tuizione?).

32
I I Capitolo

ERACLITO E IL CULTO RELIGIOSO

Eraclito non poteva creare un sistema filosofico e non è neppure


necessario pensare a una successione organica dei suoi frammenti:
questi sono piuttosto stati d'animo, balenii di pensiero, parabole
che forse egli casualmente veniva esponendo.
Questi frammenti tuttavia rivelano fondamentalmente due stati
d'animo che non riescono a trovare la loro logica connessione: il
primo, lo stato d'animo di colui che ha esperimentato una sua par­
ticolare e originale verità che non può essere comunicata agli altri
mediante le normali espressioni razionali: il secondo riguarderà la
particolare presa di posizione di fronte agli uomini in mezzo a cui
viveva e nei cui confronti doveva pur esprimere il suo particolare
punto di vista. Ma il senso della incomunicabilità della propria ve­
rità presente nella sua opera, anche se non direttamente espressa,
come sarà poi in Gorgia, non permettendogli appunto un diretto
colloquio coi propri simili, farà sì che egli si limiti a rinfacciare
ad essi e talora aspramente, la loro non verità: non è così, non
è così.
Solo il concetto del divenire, di una necessaria quindi preliminare
impostazione relativistica, è l'unico spiraglio di verità che Eraclito
riesca ad aprire entro la turris eburnea della ignoranza altrui. Ma
non è certo ancora la sua verità: è piuttosto un ammonimento, un
tentativo di persuadere gli uomini e superare i loro individualis­
simi « logoi », le loro dogmatiche prese di posizione.
Dalla lettura di alcuni frammenti di Eraclito ( 1 ), noi potremmo
essere indotti a credere a una condanna di ogni forma di culto este­
riore, quasi in lui vi fosse già quella religiosità spirituale del tutto
interiore che si contrappone radicalmente ad ogni forma di reli­
giosità esteriore. Nulla di più errato : Eraclito non condanna tanto
il culto esteriore, quanto piuttosto il modo come questo culto viene
esercitato dalla grande massa degli uomini (2). L'attribuire ad Era­
clito, anche se appena abbozzata, un'interiorità nel senso platoni­
co (3), finisce coll'urtare contro troppe contraddizioni, proprio in
quel settore della divinità e dell'anima che egli sente e tenta di
trasmetterei in modo « fisico �� . « psicofisico », magico : significa la
paralisi del flusso incoercibile della Natura, da Eraclito sentita e
vissuta come (-rtvp IÌEL�W\1) « fuoco eternamente vivente » : signifi­
cherà alla fine, secondo una prospettiva cultuale, attraverso la co-

33
stituzione di una Chiesa positiva, la coazione della libertà dell'in­
dividuo (4) .
Possiamo anzi affermare che in Eraclito vi è proprio la condanna
di un'interiorità autonoma e autosufficiente, intesa come dispensa­
trice di leggi e di norme morali alla vita della Natura e alla vita
degli uomini: se vi è un'interiorità, questa è solo tale in quanto
capace di vivere e di riflettere tutta la infinita e variabile gamma
di colori della Natura, di partecipare fluidamente al flusso del fuoco,
che non può mai essere rappreso : anima piuttosto che interiorità.
Ad ogni modo, ripetiamo, non negando la validità del culto esterno,
ma negando il modo come questo viene esercitato, si possono giu­
stificare le apparenti contraddizioni di certi suoi frammenti. C'è
una forma di culto che si ferma alla superficie delle cose, alla loro
realtà solo visibile, alle cose fine a sé stesse e questo è il culto da
condannare (predominio del Raziocinio); c'è invece una forma di
culto mediante il quale si riesce a intuire e a vedere nelle e attra­
verso le cose, sintonizzandovisi, « il fuoco eternamente vivente »,
quella « armonia invisibile » che è la più vera e più potente so­
stanza delle cose stesse: il culto, in una parola, che considera le
cose, non come fine a sé stesse, ma come mezzo e questo è il vero
culto (5) . « Se non facessero a Dioniso la processione e non a lui
inneggiassero col canto fallico, sarebbe la più invereconda delle
cose. E dire che Ade è tutt'uno con quel Dioniso per il quale impaz­
ziscono e baccheggiano » (framm. 1 5) (6), egli dice. Cioè Dioniso e
la sua passione e il suo sacrificio e la sua transumanazione, ci in­
dicano come è possibile trapassare dal finito all'Infinito, dall'umano
al divino: liberare quella fiamma-anima che è nel nostro corpo e
che è divina, perché si ricongiunga con la fiamma madre. Dioniso
è perciò qualcosa di più che un semplice nome. Esso è una vasta
realtà che un nome certo non può rendere: esso è tutt'uno con
Ade. Dioniso perciò, tramite tra l'umano e il divino, non essendo
egli un semplice autosufficiente nome, deve insegnare agli uomini,
la via che li porti verso il Tutto (7). Se si toglie l'aspetto del tra­
passo, del tramite, del mezzo, allora dal senso dell'Universalità si
passa all'esaltazione dell'individuo e quindi al culto degenere e
materiale (8).
Il vero sentimento religioso quindi, che non può fare a meno del
culto, dipende più che da un'impostazione antologica (spirito da
una parte, materia dall'altra) , da una predisposizione psicologica
dell'uomo. Professeranno il vero culto, sapranno cioè vedere le
cose in profondità, oltre il « nome » stesso, solo coloro che sapranno
spogliarsi della loro presunzione-conoscenza, del proprio Io: allora
dal « nome », usato come necessario trampolino si trapassa nel­
l'Universale anonimo e con Buddha potremmo dire, « una volta

34
estirpata la rete " io sono " la rete dell'illusione crolla », oppure « co­
lui che distrugge l'" io sono ", costui conosce la beatitudine su­
prema » (9).
La differenza quindi tra i due culti, vale come per la differenza tra
i « logoi » individuali e il « Logos » universale: anche qui si tratta
non di un contrasto tra materiale e spirituale, ma tra individuale e
universale. Problema della conoscenza e problema religioso vanno
di pari passo: dalla non presunzione deriva la retta e universale
visione e quindi contemporaneamente, teurgicamente inteso, il tra­
passo da una realtà individuale a una realtà universale: dalla « pre­
sunzione », deriva l'ignoranza (supposta essenzialità del « numero »,
del « nome » fine a sé stesso) e quindi l'impossibilità di una vera
elevazione e trasfigurazione psichico-spirituale. Il « tutto scorre »
(mbrt!l pEi:) non significa in fondo altro che il tentativo, spezzando
le individualistiche dogmatiche strutture del pensiero, di fare ti­
fluire l'anima dell'uomo entro l'anima dell'Universo, in una perfetta
e compatta sintonia.
Il culto-nome quindi, necessario e inevitabile punto di partenza,
può indirizzarsi secondo due vie: « la via all'insù » e « la via al­
l'ingiù » . Il culto-nome è necessario, varierà il modo di interpretarlo,
di sentirlo, di viverlo, di vederlo: può essere indifferentemente oc­
casione di volo verso l'alto, come di crollo verso il basso. In que­
sto senso, mi pare debba essere interpretato il framm. 32:
« L'Uno, il solo che è saggio, non vuole e pur vuole essere chia­
mato Zeus » ( 1 0) . Bisogna passare attraverso il culto, il nome, le
forme, le realtà tutte, sino, direi, a renderle trasparenti, vanificarle:
sino cioè, quando il « nome » , in sé stesso, cessa di avere qualsiasi
significato.
Ma se questo trapasso non avviene, se non si realizza il rapporto
semantico tra soggetto e oggetto, allora Zeus finisce coll'essere solo
quel nome: si soggettivizza, si individualizza, si materializza. In tal
caso, dice Eraclito, si potrebbe anche adorare un muro, « ... e a
queste immagini divine poi fan preghiere così come se uno volesse
attaccare discorsi coi muri : e ciò perché non conoscono gli dei e
neppure gli eroi nella loro essenza » ( 1 1 ) . Intendiamo il muro ap­
punto come qualcosa di inanimato, di morto, attraverso il quale
non è più possibile avere la rivelazione di una vita universale. Alla
fine, privati della loro magia, non c'è più differenza tra nome e
nome e dire « muro » e dire « Giove » è la stessa cosa. Se noi
invece prendiamo il nome nel suo senso magico, allora sarà un'oc­
casione per una realtà più alta. Non una definizione quindi, ma una
muta indicazione verso l'alto: « Il Signore che sta in Delfì., non
dice, né nasconde, ma dà dei segni, degli " indizi " (<r!J.IJ.!ILVEL) »
(framm . 93) ( 12).

35
Eraclito perciò è formalista in quanto sa sentire attraverso la vita
singola delle cose molteplici, la vita universa della Natura ( 1 3); è
antiformalista, in quanto si batte contro le astrazioni formali e sog­
gettive della mente umana che spezzano e isolano le cose tutte dal
loro suhstrato organico. E qui può forse trovare posto anche il
framm. 67 : « Dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace,
sazietà e fame. Esso si muta come il fuoco mescolato coi profumi
ed è definito secondo il gusto particolare di ciascuno di essi » . �
necessario certo, per arrivare a Dio, partire sensibilmente dalle sin­
gole cose molteplici ( 1 4), ma chi si ferma solo a queste in sé stesse,
definendole, si rinnega alla luce divina.

Si può dunque dire che l'origine della caduta dell'uomo, sia loca­
lizzabile nella falsa interpretazione del culto, la quale a sua volta
trova il suo fondamento in quello che secondo Eraclito potrebbe
essere il peccato originale, cioè la presunzione di definire ( 1 5) . Av­
viene in tal caso un vero processo di condensazione. Alla Natu­
ra ( 16) intesa come una viva fluida energia incandescente, dove
Legge e Vita coincidono, andranno sostituendosi le forme solidifi­
cate, i « corporei » . Gli uomini non vivranno più allo stato di Na­
tura. Vi è un vero e proprio parallelismo tra definizione e conden­
sazione, come se, fisicamente, noi costruissimo il mondo delle cose
molteplici e fenomeniche: come se questi limiti che noi vediamo
attorno a noi e in noi, il nostro corpo, fossero tali proprio perché
contratti dalla nostra definizione.

E così quelle realtà naturali che dinnanzi agli occhi di Eraclito ap­
parivano ancora trasparenti e limpide e in cui la sua anima sponta­
neamente fluiva, si trasformeranno per gli uomini in corporeità
opache, statiche, immobili. Si tratta di una vera caduta di poten­
ziale. E come osano gli uomini, potremmo far dire ad Eraclito, in
questo passaggio dalla luce alle tenebre, parlare ancora di Dio, sug­
gellare col nome di Dio quelle loro forme che non ne sono altro
che la tragica parodia?

L'accusa e la rampogna di Eraclito sono soprattutto portate contro


coloro che vogliono fare coincidere la Natura con quel nome, cpn
quella definizione, con quel numero. G . Bruno direbbe: « non ratio
Naturae lex sit, sed Natura rationi ». � un'accusa, quella di Era­
clito, che si rivolge contro tutti i settori della cultura umana, là
dove la definizione pretende a dogma ( 1 7).

Certo in Eraclito una tale accusa si limita soprattutto ancora al


campo morale, cioè è una presa di posizione contro uno stato
d'animo oramai collettivo ( « presunzione ») che solo più tardi sa­
rebbe diventata una forma mentale che sarebbe stata razionalmente

36
ed antologicamente codificata, cosicché alla fine gli uomini, spesso
anche in buona fede, avrebbero scambiato il falso col vero.
Non si può non ricordare qui per la profonda analogia con la po­
sizione eraclitea (polemica cioè contro la « polimatia », o falso
sapere o « erudizione » presuntuosa) la bellissima favola di Sve­
takétu nel Chandogya Upanishad. Il giovane Svetakétu è tutto orgo­
glioso di tutte le molteplici conoscenze che ha accumulato in lunghi
anni di studi : erudizione quindi che si limita ad un accumulo di
conoscenze molteplici, solo visibili. Il vecchio padre allora, che
sembra simboleggiare gli antichi saggi ancora in possesso dell'unica
possibile Verità, quella invisibile, riesce a dimostrare al suo, in
questo caso candido e non presuntuoso figliolo, quanto inconsistenti
e illusive siano le sue visibili realtà, anche se la vera conoscenza
dell'Invisibile, non sia in verità conoscenza, giacché questa si espri­
me sempre secondo rapporti, ma una specie di visionarità sui ge­
neris (V. qui il 1° frammento di Eraclito) ( 1 8) .
Certo a noi uomini moderni troppo difficile, se non impossibile (si
ammettono le eccezioni! ) , riesce il portarci sul piano psicologico di
questi Naturalisti: per essi forma e informe (Holderlin diceva:
« dare forma all'informe! » ) razionalità e sensibilità erano cosl in­

timamente connessi sino a fondersi e a confondersi l'una nell'altra:


anzi essi dapprima sensitivamente e visionariamente avvertivano la
vita delle cose (fulmineo e forse inconscio trapasso dal visibile al­
l'invisibile), poi forse, in un secondo momento, potevano coscien­
temente e razionalmente riferirsi alle singole realtà e forse solo in
questo secondo riferimento trovava posto la filosofia che in un modo
o nell'altro necessita della trasmissione e dell'espressione : in tal
caso però, dato il prevalere nei Naturalisti dell'aspetto lirico mistico
e animistico, l'espressione non poteva non essere prospettata che
in senso magico.
Era necessario che gli uomini vivessero a contatto con la Parola
della Natura: le realtà tutte dovevano essere considerate solo come
un punto di riferimento che creasse in loro quello stato di dilata­
zione spirituale che li portasse a sentire e a vedere oltre le forme
e le cose, la forza più invisibile della Natura : forma e informe fini­
vano col confondersi in una esperienza unitaria. E allorquando la
razionalità anche se abbozzata, si soffermava nel tentativo di defi­
nire formalmente la realtà viva, che stava dinnanzi a loro, essi av­
vertivano immediatamente che la primitiva e sensibile dilatazione
di tutto il proprio essere andava condensandosi in forme statiche
ed inerti ( 1 9) : in tal caso il loro non sarebbe più stato linguaggio
da dei, ma linguaggio da uomini e il Logos diventava i logoi sin­
goli. Per questo nei Naturalisti non poteva esserci assolutamente
scissione di forma e materia ed è assolutamente assurdo volere ve­
dere in alcuni di essi l'origine di tale scissione.

37
Esiste quindi un Logos universale (linguaggio da dei) ed esistono
i logoi individuali (linguaggio da uomini) : distinzione non antolo­
gica ma legata alla differente interpretazione psicologica da parte
dell'individuo dello stesso termine (potremmo parlare di una « dia­
lettica psicofisica » ). � la solita ambiguità che domina tutte le cose
di questo mondo. Nella Parola in senso universale tutte le realtà
singole confluiscono e si fondono, nella stessa Parola in senso indi­
vidualistico, si separano, si scompongono secondo molteplicità e se­
condo rottura dell'armonia e alla fine di questa seconda involuzione
in senso individualistico (« via all'ingiù » ), quel termine, usato da­
gli uomini, finirà coll'esprimere proprio l'opposto del suo originario
contenuto universale. In una parola: tutti usano della parola, ma
oramai nessuno o pochissimi, sanno che cosa significhi « Parola » .
Per Eraclito, Dio-Logos era veramente fuoco-luce e non formula
astratta e sotto questo aspetto certamente profonda è l'affinità col­
l'esperienze dei mistici cristiani medievali (20). Solo forse per que­
sto, egli dice, i sensi sono superiori alla conoscenza razionale. Si
tratta qui certo, più che di sensi, di sensitività: una sensitività va­
sta, dai colori trasparenti e limpidissimi e portati a una rarefazione
quasi perfetta: una sensitività sempre pronta ad accogliere la Vita
come un'eterna, inesauribile rivelazione. Era per Eraclito un sen­
tirsi trasformato, potenziato, transumanato proprio secondo quelle
forze che la sua anima estremamente recettiva, andava perduta­
mente accogliendo.
Tutto questo logicamente doveva significare il suo Logos: dioni­
sismo e visionarità, forma e magia, finito e infinito, un terzo ano­
nimo elemento (forse anche un suono particolare come nella sil­
laba vedica OM) che esprimeva la Vita. Ma se questo Logos è vera­
mente Vita, cosa saranno allora i raggrumati « logoi » individuali?
Evidentemente, morte. E se la vera morte è proprio quella che gli
uomini si creano vivendo secondo quelle loro forme e « logoi » ,
allora l a morte comincia proprio con quella che essi chiamano vita,
cosicché la vera Vita potrebbe cominciare con quella che essi chia­
mano morte (2 1 ) .
Evidenti e profonde sono le radici dell'orfismo nella visione d i Era­
clito, ma dalle sue reazioni a un certo tipo di culto, dobbiamo rico­
noscere che l'orfismo, già forse da lungo tempo, doveva essere de­
caduto dal suo originario contenuto formale-animistico-magico a una
semplice espressione cultuale formale-meccanico-raziocinante: H
culto cioè non più come mezzo, ma come fine a sé stesso.
Ogni culto religioso all'origine è sempre magico, tale cioè che at­
traverso una serie di esperienze a carattere rivelatore, può mutare
e trasmutare psichicamente e fisicamente l'iniziato. Col passare del

38
tempo poi, per un fatale processo di condensazione, perde il suo
carattere animistico e magico, per diventare formale e meccanico:
magico più che simbolico, perché il simbolo è pur sempre un'astra­
zione mentale, cui è tolto il diretto carattere di esperienza sensi·
bile (22) .
In un modo o nell'altro, l'uomo la sua scelta (all'insù o all'ingiù)
la deve fare partendo sempre dalla forma. La « via all'insù » è ca­
ratterizzata all'origine non certo dalla conoscenza del divino, ma
da una visione compartecipativa con Verità superiori e da una
conseguente azione. Potremmo chiamare, nel senso più lato, tale
particolare dinamica esperienza col termine di Teurgia, che com­
prende quindi tutti quegli avvenimenti che rivestono il carattere
dell'eccezionalità e dell'anormalità, che hanno il potere di mutare
e di transumanare coloro che vi partecipano.
In tal senso la Teurgia non è da confondersi con la Teologia, la
quale poggia già sull'accertamento di una distinzione dualistica tra
spirito e materia, anima e corpo, e che alla fine potrà anche orga­
nizzarsi in un complesso di formule astratte e coattive che nascono
proprio dall'avere voluto privare il culto del suo contenuto magico­
animistico : alla fine diventerà anche sinonimo di vera condensa­
zione materialistica che è proprio all'opposto della vera esperienza
religiosa (23) . Eppure, d'inciso, quasi diabolico, subdolo inganno
dei « nomi » , i termini del culto rimangono sempre i medesimi: si
può quasi inconsapevolmente scivolare nell'ateismo portandoci sulle
spalle, ben visibile, l'etichetta di Dio, come si può scivolare nella
schiavitù portandoci sulle spalle l 'etichetta della libertà.
Fatale è tale involuzione se il « nome » perde il suo significato ma­
gico, attraverso cui l'individuo sente di diventare qualcç�sa di vera­
mente più vasto e questo è il carattere della vera religiosità (in mo­
do perfetto S. Agostino esprime questo nuovo stato con « inhorresco
et inardesco » , V. la nota 20 a pag. 43). E allora si cade dalla espe­
rienza e dalla visione in Dio, alla scienza di Dio o anche Teolo­
gia (24).
Le origini stesse del Cristianesimo e la presa di posizione di fronte
ai gentili e ai farisei, fu la decisa presa di posizione di chi in nome
della rivelazione, attraverso una transumanazione dell'anima e del
corpo (25), totalitaria quindi, si poneva contro l'astratta solidifica­
zione teoretica dei nomi che si era venuta realizzando attraverso il
formalismo meccanico del fariseismo e del paganesimo. Tale fu del
resto anche la posizione di Eraclito, i cui frammenti sono certo
orfici nello spirito e nell'essenza e forse anche nel contenuto ma­
gico della sua terminologia (26) , perché espressione di una vera
religiosità che si oppone al meccanismo del culto religioso che porta
l'uomo all'isolamento in sé stesso, avulso dalla Natura (27) . Era-

39
clito potrebbe in questo senso essere considerato il vessillifero della
vera religiosità (28).
Eraclito ad ogni modo appartiene al primo momento mistico-teur­
gico, momento in cui alcuni uomini sembrano svincolarsi dal legame
delle forme a cui normalmente la maggior parte di essi è sottopo­
sta (29), per librarsi in una forma di vita superiore. Questo primo
momento potrebbe essere tracciato secondo le seguenti fasi:
a) l'esperienza mistica. Come dice giustamente il Macchioro,
« l'esperienza mistica non si fonda sulla razionalità e sull'intellet­
tualismo, ma esige emozioni, scosse, transumanazioni » ( « Orfismo
e Paolinismo » ). E uno stato di profonda emotività ( « inhorresco et
inardesco », ripeto con S. Agostino), che dà la netta impressione a
chi la esperimenta, che una forza che riveste i caratteri fisici della
violenza, investa e scompigli dal di fuori la struttura della nostra
personalità (V. i miti negli « Eroici Furori » di G. Bruno), in modo
da dissolverne quasi i rapporti razionali, morali, materiali che la
costituiscono. E qualcosa che afferra, risucchia, rapisce (« quid est
illud quod interlucet mihi? », dice S. Agostino) e che impone la
sua più profonda ragione d'essere alle singole umane ragioni (Lo­
gas e non « logoi »).
Fuoco perciò proprio nel senso eracliteo (il « fuoco » di Pascal, il
« fuoco » di Holderlin), che è veramente l'esperienza che vive il
mistico; fuoco, che nel suo vorticoso movimento, segue una legge
umanamente inconcepibile, perché, per noi, legge significa sempre
una forma statica, soggetta di conseguenza, a quella condensazione
che è proprio all'opposto della rarefazione inconcepibile del fuoco.
L'esperienza mistica riveste un carattere di tale novità assoluta,
che non può trovare posto tra i normali piani esistenziali, che noi
forse impropriamente, diciamo di questa terra e sembra svolgersi
in altri piani esistenziali più rarefatti che noi diciamo celesti .
E cosi quando Parmenide e lo stesso Platone tentarono di espri­
mere queste nuove realtà dovettero ricorrere al mito e così S. Paolo
si credette automaticamente autorizzato di parlare di l, Il, III cielo
e cosl Buddha delineò una più meticolosa e precisa gradualità esi­
stenziale. Infine l'illogicità della nuovissima esperienza, introduce
il termine di rivelazione, termine che significa appunto il passag­
gio, dialetticamente non realizzabile, da uno stato di cose a un
altro col quale quindi il primo non può trovare la conciliazione
logica.
In questa prima fase dell'esperienza religiosa, l'individuo ha la
sensazione di vivere una straordinaria avventura che egli si sente
spinto a raccontare agli altri (mito significa proprio racconto e rac­
conto può significare Logos), ma di cui non tenta di dare neppure

40
una spiegazione. Al massimo, raccontandola agli altri, tenterà di
mettere in evidenza quali sono gli elementi, i fatti, le occasioni che
lo hanno introdotto nella nuova straordinaria atmosfera. L'uomo
illuminato, racconta e rivela, non spiega.
b) inefjabilità : l'immediata conseguenza di questo nuovo stato,
che ha sempre in sé il carattere dell'eccezionalità e del provvisorio,
è, come etimologicamente dice lo stesso termine di misticismo, l'inef­
fabilità: cioè l'impossibilità di esprimere con i normali mezzi ra­
zionali, ciò che eccezionalmente si è vissuto e sperimentato. � come
se la nostra razionalità potesse esprimersi secondo certe dimensioni
e non secondo altre (30). Il Logos riveste certo questo carattere di
ineffabilità, se, rifacendoci soprattutto al I frammento eracliteo,
dobbiamo interpretare alla lettera, l'impossibilità, attraverso le nor­
mali espressioni umane, di trasmettere il significato del Logos stesso.
c) senso della transumanazione: ciò che dà un senso concreto
di esperienza al fenomeno mistico, è la netta coscienza del rinno­
varsi della propria forma, del ricrearsi nell'anima e nel corpo a
nuova vita (3 1 ) . Secondo i Naturalisti vi è un ineliminabile paral­
lelismo tra spirito e materia , parallelismo espresso dai due termini
di rarefazione e condensazione, che mira a mettere in evidenza un
avvenimento che non è né materiale, né spirituale, ma in fondo
mistico. Ora se ammettiamo che la sorgente del rinnovamento sia
fuori di noi, nel mondo della Natura, l'immediato riflesso è sog­
gettivo, è entro la nostra forma e contro la nostra forma.
La nostra anima è tale da sentire e vivere tutti gli innumerevoli mu­
tamenti, come uno specchio limpido e immateriale capace di riflet­
tere tutte le meravigliose immagini della Natura . Per questo l'anima
è infinita, perché ha la possibilità di essere tutte le forme e mai
nessuna forma: « Cammina, cammina, i confini dell'anima tua, non
li puoi trovare, anche se percorri ogni strada: così profonda è la
sua ragione d'essere » (framm. 45). Quindi l'uomo ha in sé la
possibilità di prendere nuove forme, di trasmutarsi, di transuma­
narsi (32). « Estasi » significa veramente mutare forma (33): non
è certo la nostra conoscenza normale (34) e neppure la contempla­
zione, dove in un modo o nell'altro l'Io rimane sempre contrappo­
sto alla Natura, al Non-Io, ma è un mutamento nella forma, nella
sostanza, nel nostro stesso corpo, una trasformazione che è anche
fisica (35).
Coloro che furono i vessilliferi delle nuove visioni della Natura,
dovevano essere circonfusi da un profondo pudore della propria
verità e soprattutto da una solitudine che automaticamente si im­
poneva. I discepoli furono attratti, non tanto dalle parole, quanto
piuttosto dall'eccezionalità delle nuove esperienze di vita che chi
era stato illuminato andava realizzando con la semplicità, la spon-

41
taneità, l'ineluttabilità di un destino accettato senza discussione.
Era necessario perciò seguire l'esempio del Maestro, vivere come
egli era vissuto : nasceva così il culto delle azioni e delle gesta di
cui egli li aveva illuminati e l'automatica necessità di rivivere nel
senso più profondo le stesse esperienze, perché solo cosi essi sen­
tivano di mutarsi e di rinnovarsi. E proprio quello che io chiamerei
« momento teurgico » (azione divina) e che ha come fondamento la
magia della forma. Ciò che è stato un esempio di vita fuori della
norma, può essere rivissuto solo magicamente.
Un esempio simile lo abbiamo certo nel Cristianesimo. Era neces­
sario rivivere attraverso i suoi stessi atteggiamenti la passione tran­
sumanante di Cristo. Le azioni, i gesti, le parole di Cristo in questo
caso diventano veramente degli « indizi », « semi », degli elementi
necessari nella loro funzione magica. La stessa cosa si potrebbe
dire dei Francescani, di S . Bonaventura soprattutto nei riguardi di
S. Francesco. Il culto perciò non era fine a sé stesso, ma mezzo,
perché potesse avere la sua azione transumanatrice : la parola era
vita ed era azione : doveva significare la trasformazione dell'uomo
proprio secondo l'avvenimento che la parola stessa indicava. Biso­
gnava veramente trasformarsi secondo il Logos (36) (OM indiano,
T AO cinese, DHAMMA buddistico?).
Ma questo Logos degenerava nei « logoi » , culto fine a sé stesso,
quando perdendo il carattere magico e teurgico, diventava un'espres­
sione astratta del Raziocinio, che, contrapponendosi alla Vita, ve­
niva meno alla sua funzione di conciliare il mondo a sé (37). Di
qui le conseguenze di quel culto degenere dietro cui si cela sempre
la « presunzione » concretatasi dogmaticamente in espressioni mec­
caniche che per il Cristianesimo soltanto la Fede avrebbe potuto e
dovuto scongiurare. E questa necessità della Fede come uno degli
elementi più validi per scongiurare la fatale condensazione di ogni
nostra attività spirituale, la sentì forse lo stesso Eraclito quando
disse: « se mai uno non speri, non troverà l'insperato, inesplora­
bile essendo questo e inaccessibile » (framm. 1 8).

42
Note del capitolo II

( l ) V. i frammenti 5, 14, 15, 32, 69. Vedi inoltre molto giusta la nota
della Carlini al framm. 14: « Né bisogna dimenticare che Eraclito ha
tanto lui stesso del v.<iyoc;... Egli è un orgiastico e un dionisiaco tutto
particolare » ( « Eraclito d'Efeso », Frammenti e testimonianze, Lan­
ciano).
(2) V. il framm. 69 dal quale appare che c'è modo e modo di fare i
sacrifici. Pochi sono coloro che arrivano alla purificazione attraverso
il culto. « Bisogna distinguere due specie di sacrifici, quali sl o no
hanno luogo in qualche individuo d'eccezione ... e quelli materiali ... » .

(3) Intendo naturalmente il platonismo tradizionale, quale noi siamo


venuti elaborando, perché, dice giustamente il Macchioro: « Per Pla­
tone idee nel senso nostro non esistono: ci sono solo oggetti... >> « ... in
cui insomma la rappresentazione subbiettiva si identifica con l'obiet­
tiva, dando alla seconda il valore della prima >> ( « Paolismo e Orfismo »,
pag. 1 6 1 ).
(4) Pagine felici in senso nietzschiano, per quello che riguarda il vita­
lismo del popolo greco, ha il Colli: « Questo miracoloso complesso di
doti filosofiche ad esso era dato dalla Natura, non conquistato. Ad
esso si aggiunga la mancanza di una religione oppressiva, di una tra­
scendenza astratta, di una casta sacerdotale che le facesse sentire il
peso, in altre parole, di ogni dogmatica. Tutto ciò si rivela d'un tratto,
nel VI secolo. II segreto del passaggio sta nell'avvertimento dell'interio­
rità come tale . » ( « La Natura ama nascondersi >> ).
..

Richiamo il lettore alle bellissime pagine che D'Annunzio scrisse nel


« Trionfo della Morte >> (Mondadori, Prose e Romanzi, 1). A proposito
di Eraclito dice: « L'ammaestrato da sé, considerando l'Universo, Io
conobbe nell'aspetto non di un'entità stabile, ma di un continuo pro­
cesso di formazione e di trasformazione; nel quale nulla era durevole
fuor che l'ignea energia operante secondo un ordine razionale per un
eterno succedersi di cicli. Egli conobbe che in ogni attimo Io stato del­
l'Universo non era se non l'espressione di un accordo transitorio delle
forze pugnaci e che l'apparenza del riposo e della morte non era se
non un'attività impercettibile per i sensi degli uomini. Tutte le cose
davanti agli occhi del suo intelletto, passavano dalla nascita all'essere
visibile e quindi al non essere, per innumerevoli varietà di vita, con
un flusso ora tardo, ora veloce in cui egli non discerneva principio,
non iscopriva fine. L'Elleno dunque per la sua veemente volontà di
vivere esercitata con la maggior possibile abbondanza di manifesta­
zioni, non faceva se non immedesimarsi nella natura delle cose »
(pag. 952).
(5) La stessa osservazione fa appunto il Macchioro nel suo « Eraclito »
(« Nuovi Studi sull'Orfismo », 1 922, pag. 1 12), ma è solo un vago ac­
cenno. Per mio conto invece il problema morale e religioso si impernia
su tale distinzione.

43
A proposito della « armonia invisibile » V. anche Platino dove l'ana­
logia dell'armonia perfetta col fuoco è proprio di sapore eracliteo :
« Perciò fra tutti i corpi, il fuoco è bello per sé stesso e occupa tra gli
altri elementi il posto dell'idea ed è il più elevato per la sua posizione
e il più leggero di tutti i corpi perché è vicino all'incorporeo; è solo
e non accoglie in sé altri elementi mentre gli altri lo accolgono ... ciò
che non ha eguale potenza sbiadisce alla luce e non è più bello, perché
non partecipa all'idea totale del colore.
Sono le armonie impercettibili al senso quelle che fanno le armonie
sensibili e per opera di quelle l'anima può intuirne la bellezza, perché
esse rivelano l'identico nel diverso » (Enneadi, V, VI, 3). Che questo
senso dell'armonia invisibile di sapore eracliteo sia presente anche in
molti mistici cristiani è ben noto. Basta ad esempio, citare S. Paolo
« ... le invisibili perfezioni di Lui si fanno conoscere attraverso le opere

sue » (Rom., I, 20). S. Agostino: « Se le cose sensibili non avessero


una loro anima non le ameremmo tanto » . V. anche Ugo di S. Vittore.
(6) Schmitt ( (( Geist und Seele », Studien Ober Logos, Nous, Psyche
bei Heraklit und Platon ecc. ecc., Eranos, Jahrbuch 1 945, XIII): (( E
se Eraclito in tono di biasimo dice che Dioniso è Ade, senz'altro bi­
sogna vedervi un'identificazione. Ricordiamoci del resto che anche Giu­
liano l'Apostata nella sua teologia di Elios-Serapis dice: sotto Ade noi
dobbiamo vedere Serapis, il dio invisibile. Attraverso la maschera
illusiva delle rappresentazioni di Dio, attraverso le nomenclature, gli
antichi sapevano trovare la loro realtà, il loro completamento » (p. 148).
(7) Per i rapporti tra il concetto di transumanazione nel naturalismo
greco e nel cristianesimo e quindi tra Orfismo e Paolinismo, V. in ge­
nere il Macchioro nelle opere già citate o che saranno citate.
(8) Non rappresenta forse anche S. Paolo la reazione violenta contro
tutto il meccanicismo della sua epoca?
(9) Impostazione analoga a quella di molta filosofia indiana. Per Bud­
dha, ad esempio, desiderio e conoscenza sono strettamente legati e
interdipendenti. Per il sistema Samkhya e per il sistema Yoga il prin­
cipio della individualizzazione e quindi della caduta è Aha mkiira o
(( principio dell'attaccamento » che fa decadere appunto l'uomo dal
mondo sattvico (azzurro) della divinità al mondo tamasico (grigio)
della materia.
( 1 0) V. a questo proposito Dionigi l'Areopagita « Dei nomi e delle
cose », che è tutta una sistematica sul modo di definire Dio, la quale
certo ha le sue prime origini nelle affermazioni eraclitee. Secondo Dio­
nigi, tutte le definizioni che noi diamo di Dio, non sono altro che nomi
adatti alla nostra limitatezza: tuttavia essi nascondono sotto la loro
fenomenicità, l'intelligibile. Dio in sé e per sé è indefinibile. Ora però
la gran massa dei fedeli accetta nomi di cui usa la Scrittura senza tro­
varvi alcuna difficoltà. Coloro però che sono guidati da una più pro­
fonda sensibilità ((< animi non barbari », direbbe Eraclito), sanno an­
dare oltre la lettera e attraverso il contatto con ciò che alla gran parte

44
degli uomini è invisibile, realizzano un'esperienza transumanante che
li può avvicinare alla condizione degli angeli e unirsi intimamente con
la luce divina.
� logico perciò che costoro, se vorranno definire Dio, lo definiranno
sempre negativamente (non avranno cioè la presunzione ... ). � evidente
in Dionigi la funzione magica dei « nomi », come mezzi di esperienza,
non come fattori di conoscenza. E appunto perché magici, è necessario
applicare a Dio tutti i nomi che la Scrittura attribuisce (teologia affer­
mativa), poi negarli tutti (teologia negativa).
Queste due attitudini possono d'altra parte riconciliarsi in una terza
che consiste nel dire che Dio merita tutti quei nomi, ma in un senso
inconcepibile alla ragione umana perché egli è tutto ciò che non è
quelle definizioni (teologia superlativa). Dionigi, attraverso la dialet­
tica dei nomi (negativo-positivo), ha voluto in un certo senso rivelare
la magia dei « nomi )) : cioè trasformare ciò che è semplice conoscenza
in esperienza diretta del divino.
( 1 1 ) V. S. Paolo: « I Gentili hanno mutato la gloria del dio incorrut­
tibile in simulacri dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di
rettili )) (Rom. I, 2).

( 12) Lo Snell a proposito molto giustamente dice: « O'T)tJ.octvEw è il ter­


mine che propriamente significa: dare dei segni, dare degli indizi. Si
veda qui la connessione con il Logos di Eraclito. Anche il Logos, il
Senso O'T)tJ.octvEL, non parla cioè in modo univoco come lo può fare il
" nome ", ma anche neppure nasconde, ma è come un aii tJ.oc e dà indizii.
Questo Logos è veramente un simbolo per l'Universo giacché esso è
semplice e indifferente e unitario )) (pag. 372).

( 13) V. questo bellissimo squarcio del Cusano: « A quelli che dotti


della dotta ignoranza, alle cose domandano che cosa esse siano e in
che modo e per quale scopo, esse rispondono: da noi siamo nulla e
da noi a te che ci chiedi, non possiamo rispondere che nulla, dato che
noi stessi non abbiamo conoscenza di noi, perché solo Colui che ci ha
fatto, per il cui pensiero noi siamo in noi quello che egli vuole, ci co·
manda e ci conosce. Noi tutte siamo unite; in noi parla Colui che ci
ha fatto, che solo sa cosa noi siamo, in che modo c perché. Se vuoi
sapere alcunché di noi, quale sia cioè in noi la ragione e le cause, non
cercarla in noi : troverai tutte le cose in Dio, perché tu ne cerchi una
sola; ed anche tu non potrai trovare te stesso che in Lui » (« Della
Dotta Ignoranza )), Il, 1 8 1 , trad. Rota).

( 14) Che la sensibilità sia la via più adatta per la Verità, lo afferma
spesso Eraclito. V. il framm. 53 : « Quanto si apprende con la vista e
l'udito questo io preferisco )) , Nello stesso senso potrebbe essere inter­
pretato il framm. 7 : « Se tutte le cose divenissero fumo solo il naso le
potrebbe distinguere ». Cito ancora lo Snell : << Cosl pure egli non si
pone contro il mondo esteriore, anche quando dice che le invisibili ar­
monie valgono di più delle visibili armonie. Egli dice apertamente: ciò
che si può vedere, ascoltare e sentire, ciò vale di più per me: chiara­
mente più di qualsiasi speculazione » .

45
( 1 5) Si dice che la scissione iraniano-indiana, entro il nucleo principale
dei popoli indiani, sia proprio dovuta ad una diversa interpretazione
del culto!
( 1 6) Da cpvEw, generare, creare. Quindi non si intendono gli effetti visi­
bili, ma il centro dinamico generatore. G. Bruno direbbe << l'inesauribile
semenzaio » .
( 1 7) Del resto è l a stessa concezione di Bergson : specializzazione con­
trapposta a qualità, a élan vita! : religione dinamica contrapposta a re­
ligione statica.
( 1 8) Questa del vecchio saggio padre è una presa di posizione che ri­
corda quella analoga di Socrate di fronte ad Eutifrone, quando Socrate
con la sua finissima ironia, rimprovera la dogmatica posizione di Euti­
frone di fronte al giusto, alla verità. Anche il discorso del vecchio pa­
dre è soffuso di un'ironia, naturalmente più bonaria ed affettuosa per­
ché ha di fronte a sé il proprio figlio, tra l'altro candido e credulone.

( 19) Dice giustamente lo Joel a proposito dell'antropomorfismo contro


cui combatteva Senofane : « Si comprende male Senofane, se nella sua
protesta contro la plastica umanizzazione di Dio si vuole vedere solo
una protesta contro l'antropomorfismo, oppure una pura spiritualizza­
zione di Dio... Non il corporeo e non l'umano si oppone a Dio, ma la
limitazione entro una forma mortale è contro la natura dell'Assoluto.
Il Mista, pieno di Dio, può fare a pezzi Dio in ogni immagine, poiché
a lui non basta. Ogni immagine per lui è morta rispetto a Dio, che egli
sente traboccante, vivente nell'anima e nel Tutto » (op. cit., pag. 82).

(20) Anche presso i primi mistici cristiani non si tratta di teologia, ma


di un'esperienza luce-fuoco e anche suono. Cito a questo proposito un
magnifico e sintomatico frammento di S. Agostino: << Quid est illud
quod interlucet mihi et percutit cor meum sine lesione? Et inhorresco
et inardesco. Inhorresco in quantum dissimilis ei sum, inardesco in
quantum similis ei sum )) ( « A. Augustini Liber XIII, l , Xl, cap. IX,
pag. 444 » S.E.I.).
(21) Qui si potrebbe inserire il tanto discusso frammento 29 al quale
si lega anche il 2 1 . La traduzione del Diels è la seguente: « L'uomo
nella notte s'accende una luce, quando egli è morto. Nella vita dor­
mendo quando ha chiusi gli occhi, è simile a un morto; nella veglia è
simile a un dormente )) . Pressappoco la Carlini. Molto chiarificatrice la
sua nota a pag. 99 (op. cit.). � certo che in questi frammenti ha la sua
grande importanza il linguaggio dei Misteri. La Carlini spiega cosl:
« Qui appare chiara la triplice gradazione, vita-sonno-morte che è nella
psicologia quello che è nella fisica la gradazione fuoco-acqua-terra. Chi
è sveglio par che dorma, chi dorme par un morto; il morto poi lui solo
è vivo e nella notte dei sensi accende a sé stesso la fiaccola della vita.
Qui meravigliosamente il rituale dei Misteri si presta a rivestire di una
forma immaginosa la teoria del Logos. Il frammento è analogo, ma non
identico al 2 1 . Ll si ha un capovolgimento assoluto di valori... Il son­
no poi è pura incoscienza fuori di ogni valutazione )) , V. l'analogia con

46
S. Paolo: << Adunque per mezzo del battesimo siamo sepolti con lui,
morendo, affinché come Cristo fu risuscitato di tra i morti mediante
la gloriosa Potenza del Padre, cosi anche noi cominciamo a vivere una
nuova vita » (Rom. V, 1-28). E S. Agostino: « Colui che è la vita è
sceso su questa terra. Egli ha patito la nostra morte e l'ha fatta morire
con l'abbondanza della Vita ... La Vita è discesa verso di noi e voi non
vorreste salire verso lui e vivere? >> .
(22) V. la differenza tra il concetto di transustanziazione (cattolicesimo)
e consustanziazione (protestantesimo).
(23) Il fenomeno religioso, sotto i due aspetti, mistico e concettuale, è
molto ben tratteggiato dal Kerenyi ( « Miti e Misteri », Einaudi, 1950).
Egli dice: « L'indicibilità dei Misteri naturali - per esempio gli an­
tichi Misteri delle origini della Vita - ci sarà forse comprensibile se
noi la consideriamo in due piani distinti: quello esistenziale e quello
puramente concettuale. Sul piano esistenziale noi agiamo e subiamo e
il nostro agire e subire toccano noi stessi in un punto così profondo in
cui c'è solo un accadere, ma nessuna parola adeguata per esprimerlo.
Sul piano puramente concettuale, quell'accadere si fa descrivere facil­
mente nella terminologia chiara, univoca priva di emotività della bio­
logia. t però esso ancora lo stesso accadere, quello che riguarda me,
un fatto mio?
La descrizione puramente concettuale coglie solo il generico staccato
dal caso individuale, esso parla del mio fatto - quasi a proposito del
mio fatto - ma non Io pronuncia: esso è indicibile. Solo la rappre­
sentazione cultuale può elevare il mio accadere su un piano di univer­
salità in un modo che esso rimanga tuttavia qualcosa di mio proprio :
il mio mistero indicibile comune con quello degli uomini. Questo pa­
radosso dei culti segreti pubblici era inerente anche ai Mysteria attici.
Questi infatti, nella religione, non erano che un caso specifico dell'in­
dicibile, cosl si dovrebbe dire in luogo di mistico, termine improprio
e logorato dall'uso.
Una volta pronunciato, il lor0 mistero poteva diventare una banalità,
perché coll'essere pronunciato esso cessava di esistere, non era più
quell'indicibile che nella sua indicibilità creava attorno a sé una
particolare visibilità, udibilità e quasi un corpo atmosferico fatto di
azioni e di gesti, di oscurità, di luci, di silenzio e di voci >> (pagg. 145-
146).
(24) V. a questo proposito quello che dice, giustissimo, il Macchioro
in « Orfismo e Paolinismo » ( 1 922), dove appunto appare che l'espe­
rienza religiosa di S. Paolo non deve essere intesa come un'esperienza
teoretica concettuale, ma essenzialmente magica: « Generalmente si ha
della coscienza di Paolo una rappresentazione concettualistica, che non
si accorda con il temperamento mistico e lirico dell'apostolo. Ci si im­
magina che il suo pensiero si determinasse mediante un processo lo­
gico e razionale più che attraverso una potente esperienza: si ammette
che nell'intimo della sua anima egli riflettesse più che agisse » (pag. 19).
E ancora : « ... ma la verità è che per ora noi non siamo penetrati an­
cora a fondo, che non conosciamo ancora l'origine di quel processo

47
che è il cardine della mistica paolina e in generale cristiana, per cui il
fatto esterno della resurrezione di Cristo, divenne fatto interno del cre­
dente, per cui in altri termini ... potesse diventare un avvenimento spi­
rituale e subbiettivo che si ripete nelle coscienze cristiane. Il processo
per cui insomma la conoscenza diventa esperienza ».
Ed infine: « La grande novità di Paolo sta solo e proprio in questa
esperienza nuova per la quale Gesù storico diventò il Cristo mistico, il
fatto storico della resurrezione di lui diventò il fatto mistico della rina­
scita dello spirito, l'obiettivo subbiettivo, il passato presente » (pag. 63).

(25) S. Paolo dice di sé stesso: « Io so di un uomo in Cristo che or


sono 14 anni (fosse nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa
Dio), fu rapito sino al I I I cielo. E so di un tal uomo (nel corpo o fuori
del corpo, io non lo so, lo sa Dio), che fu rapito in Paradiso e intese
parole ineffabili che non è lecito ad uomo pronunciarle » .

(26) E non possono avere forse un contenuto magico, u n richiamo e


una indicazione magici anche altri termini, come, in Pitagora, per in­
dicare l'anima, « polvere di stelle », in Eraclito il termine civa8u�-ttacnç
(anima-respirazione) e nella filosofia indiana il termine cosl spesso usato
di « finezza » per indicare la vita spirituale, oppure lo stesso atman
buddistico?
(27) Il che impedisce quella « comunione )) dell'uomo con Dio che il
Macchioro dimostra essere già stata viva nell'Orfismo e che mancava
nel Giudaismo (pag. 87).
(28) In questo senso intende il Brecht ( « Heraklit », 1936). Eraclito sa­
rebbe un vessillifero della trascendenza (è proprio il caso tuttavia di
parlare di trascendenza?) che il culto meccanico della massa aveva ro­
vinato: « Eraclito di fronte alla fede appagata del suo tempo si avvi­
cina in modo del tutto originale al mistero della trascendenza » . Ed
ancora: « Testimonianze della lotta di Eraclito contro una partecipa­
zione religiosa della massa, oramai senza fondamento, ce ne sono »
(pag. 60).
(29) t evidente in Eraclito che la maggior parte degli uomini che pensa
ed agisce secondo criteri personali, non si sottrae alle leggi universali
della Natura, anzi ne diventa vittima inconscia, perché non ha la pos­
sibilità di contemplare e di aderire consciamente a ciò �he è infinita­
mente più potente dell'uomo.
(30) Nietzsche dice di Eraclito: « La terza possibilità che sola rimane
per Eraclito, nessuno con sagacia dialettica e per via di calcolo potrà
indovinarla, perché ciò che egli trovò è una novità anche nel campo
dell'incredibile mistico e delle metafore cosmiche inaspettate » (op. cit.,
pag. 53). S. Agostino a proposito delle estasi sperimentate assieme alla
madre: « Ora mentre parlavamo, agognando come affamati a quella
regione divina, la toccammo in un istante per un supremo impeto del
cuore; poi sospirammo lasciando prigioniere lassù le primizie del no­
stro spirito e ridiscendemmo a questo rumore di voci, alla parola mor­
tale, che ha un principio e una fine » .

48
( 3 1 ) In tutti i mistici è sempre viva questa evidenza indubitabile di una
nuova vita unita al concetto di una potenza maggiore. Soprattutto nei
mistici cristiani,
(32) V. Joel (op. cit., pag. 9 1 ) : « In verità per gli antichi filosofi della
Natura non vi era alcuna morte, ma solo mutazione. La morte di una
forma è solo rivivere di un'altra forma » .
(33) « Estasi >> (!x-ta.�) etimologicamente significa « mutamento di
stato ». V. Macchioro ( « Eraclito ») con la testimonianza di Plutarco
e Suida. Ed ancora Macchioro ( « Zagreus » ) : << .. l'estasi era concepita
.

come un mutamento di stato reale, non come uno stato subbiettivo e


transitorio, per l'appunto come presso i popoli primitivi, per i quali la
visione estatica è uno stato diverso dal consueto, ma reale » (pag. 1 65).
(34) V. Macchioro (« Eraclito », pag. 133): « La conoscenza secondo
Eraclito, era un fatto divinatorio, cioè mistico; cioè irrazionale che av­
veniva tal quale pensavano i mistici del Rinascimento » (pag. 133).
V. del resto anche Joel.
(35) I l Macchioro ha appunto convenientemente illustrato, attraverso
l'esame delle rappresentazioni orfico-mistiche nella Casa dei Misteri di
Pompei, il culto orfico, per cui attraverso determinate funzioni cultuali,
sarebbe possibile realizzare tale trasformazione, sino a indiarsi, attra­
verso gli atti e i gesti del Dio, con la divinità stessa. Donde il concetto
di « comunione » che sembra già esistesse nell'orfismo. La stessa espe­
rienza religiosa, il Macchioro la vede appunto nel Cristianesimo: « Ap­
pare nelle parole di Paolo un riflesso del realismo greco il quale con­
cepisce la liberazione dell'anima dal corpo come un processo fisico
onde la concezione della morte come unica vera conoscenza » ( « Or­
fismo e Paolinismo », pag. 78).
Anche lo Joel del resto dice sempre a proposito del misticismo greco :
« Erwihn Rohde ha ragione : la prassi dei misteri eleusini era sentita
dai credenti non come una prassi simbolica, ma come un atto sacro che
portava a completarsi con la divinità, e quindi non riguardava solo la
divinità, ma portava le anime a partecipare ai Misteri, ad avere espe­
rienza, a vivere assieme coi Misteri, promettendo infine la loro unione
con la sorte di Persefone un dono immortale dopo la morte » (op. cit.,
pag. 90).
(36) V. Brecht (op. cit., pag. 44): « Per quello che riguarda il Logos
non si tratta di una teoria della conoscenza, o di una cosmologia: si
tratta del Logos come della possibilità dell'uomo di diventare lo stesso
Logos » .
(37) S. Paolo: « Voglio dire che era Dio i l quale i n Cristo riconciliava
il mondo a sé stesso e che pose la parola di noi nella riconciliazione ».

49
III Capitolo

ERACLITO E IL NUMERO PITAGORICO

Abbiamo visto: gli strali di Eraclito si scagliano contro tutti coloro


che in ogni settore della cultura umana (morale, religioso, filosofico)
presumono di ridurre a definizione soggettiva, l'essenza ultima della
Natura, perdendo cosi di vista la verità più concreta e più potente
delle cose, l'« invisibile armonia » . E secondo tale prospettiva egli
crede di interpretare la filosofia di Pitagora : esaltazione del numero
fine a sé stesso, del numero non più nel senso magico-qualitativo,
ma solo nei suoi limiti analitico-quantificatori : « quantificazione »
pitagorica che forse inconsciamente Eraclito presentì come il germe
oramai insradicabile di quella umana mentalità categoriale, che col
passare del tempo avremmo potuto chiamare « spirito », che, ad
ogni modo, è tutto all'opposto del suo « fuoco eternamente vi­
vente >> ( 1) .
Di Pitagora dice nel frammento 40: « " Polimatia " (" erudizione ")
non insegna avere intelligenza : altrimenti l'avrebbero insegnata ad
Esiodo, Pitagora e tanto più a Senofane e a Ecateo » e nel fram­
mento 29 : « Pitagora, figlio di Menesarco, si è dedicato alle ricer­
che e alle " indagini " (ta-'t'opta) più assiduamente di qualsiasi altro
uomo e dopo essersi prescelto dei libri si creò la sua scienza: poli­
matia e cavilli » . In poche parole, Pitagora, per Eraclito non era
altro che un freddo uomo di studio, diremmo quasi un topo di bi­
blioteca che si accontentava di accumulare un certo « numero » di
cognizioni ( « quantificazione ») e al quale faceva radicale difetto
qualsiasi sensibilità e capacità visionaria della verità più profonda
delle cose reali.
B evidente quindi nei due frammenti la contrapposizione di una
Scienza del contingente e del molteplice, che sarebbe quella pita­
gorica, a una Scienza dell'Universale che sarebbe quella di Eraclito.
Diogene che nel suo brano (IX, 1 -7, Diels l, pag. 54) riporta il fram­
mento 54, subito dopo aggiunge: « Eraclito infatti diceva "essere
una cosa sola la saggezza " : il sapere che c'è una mente capace di
governare " il tutto attraverso il singolo " » (riportato nel frammento
4 1 ) . E sempre nello stesso brano aggiunge: « La " presunzione " bi­
sogna spegnerla più che un incendio » (riportato nel frammento 43).
Qui abbiamo fondamentalmente tre concetti che si possono colle­
gare l'un l'altro e che possono essere riferiti a Pitagora o forse me­
glio al pitagorismo: anzitutto che Pitagora è un erudito che ebbe

51
solo conoscenza delle cose singole e molteplici: poi che la Verità
è una sola (non << polimatia ») , unità nella molteplicità, presente in
tutte le cose, malgrado le loro apparenti contraddizioni: infine la
condanna della presunzione.
Se Pitagora era veramente della opinione che il numero e la suc­
cessione numerica definisse l'essenza delle cose, egli estraniandosi
dalla Unità, che non è neppure numero (ma lo dice anche Pita­
gora ! ) , avrebbe finito coll'esaltare solo la molteplicità e a tale esal­
tazione sarebbe stato proprio mosso dalla « presunzione » a defi­
nire. Pur non accettando noi questa interpretazione del numero pi­
tagorico, dobbiamo riconoscere che per Eraclito esso esprimeva
semplicemente la quantificazione meccanica (quantità contro qua­
lità, magia contro raziocinio analitico) delle conoscenze e non an­
cora una teoria universale (2). Quali siano stati i motivi di tale
interpretazione del numero pitagorico, non possiamo certo dirlo.
Sappiamo che la teoria dei numeri quali noi oggi conosciamo è
sorta solo verso la metà del V secolo a. C. e possiamo anche (3)
pensare che già Eraclito assistesse ai primissimi inizi di quello che
potrebbe essere considerato una deformazione in senso astratto­
soggettivo del primitivo pitagorismo. A quale poi dei pitagorici o a
quale forma di pitagorismo, Eraclito si riferisca nella sua polemica,
altrettanto è difficile a dire (4). Nel tempo egli è in fondo quasi
contemporaneo di Pitagora (per quanto le date dell'uno e dell'altro
siano incerte, possiamo porre Pitagora tra il 580 e il 500, Eraclito
tra il 540 e il 480), per cui, secondo testimonianze, dovremmo af­
fermare che egli abbia veramente conosciuto Pitagora (5).
Ad ogni modo, mezzo secolo tra l'uno e l'altro è già sufficiente per­
ché si possa pensare che Eraclito si trovasse di fronte a un'even­
tuale deformazione del pitagorismo originario. Comunque sia, non
possiamo certo pensare a Pitagora quale Eraclito veniva presentando
inaridito e immiserito (6). Pitagora non era solo matematico, ma
era nello stesso tempo, mago, sacerdote, individuo che compiva dei
miracoli : la sua teoria del numero tende a confondersi col culto
orfico. Né certo si possono ammettere in contrasto due aspetti della
sua personalità e del suo pensiero : il numero per lui ha certo un
altro senso e un altro significato di quello che Eraclito gli attri­
buisce.
Ad ogni modo quello che a noi importa mettere in evidenza, è che
Eraclito vede in Pitagora colui che ha esaltato la pluralità delle co­
noscenze, senza riuscire a trovarne il nesso sostanziale (l'« armo­
nia invisibile » , che è la realtà prima di tutte le cose) anche se esse
sono necessarie nella loro pluralità e contraddittorietà. � certo che
il « numero » esaltato fine a sé stesso, oggettivamente denuncia o

52
soggettivamente pone la molteplice contraddittorietà delle realtà.
E di conseguenza Eraclito si immagina la figura di Pitagora come
quella del dotto presuntuoso (Eraclito lo considera anche come un
plagiario del sapere altrui), che ha la pretesa di definire proprio
attraverso il numero : perciò non può essere altro che un erudito
che si limita a fare sfoggio del suo eccezionale cumulo di cognizioni,
quasi per incantare il popolo.
Pur riconoscendo la parzialità di giudizio di Eraclito nei riguardi
di Pitagora, dobbiamo tuttavia ammettere che egli abbia presentito
che il pitagorismo (il numero fine a sé stesso), avrebbe segnato at­
traverso l'esaltazione del numero, la stessa esaltazione della perso­
nalità, della falsa interiorità soggettiva che avrebbe potuto porre
fine alla Vita liricamente e mis ticamente intesa (Ciuang-tse: « O
uomini, lasciate entrare in voi le cose, senza il nome » ! ) .
� strano ad ogni modo che Eraclito non abbia tenuto conto dei
caratteri vivi ed originari di altri pitagorici, certamente più fedeli
alla dottrina originaria del Maestro. Basta ricordare Alcmeone di
Crotone, il quale, come sappiamo visse nello scorcio tra il VI e il
V secolo. Di Alcmeone abbiamo per esempio il frammento che di­
ce: « Dell'Invisibile solo gli dei hanno contezza: noi, in quanto
uomini possiamo solo argomentare per indizi. . . » (7) : « argomen­
tare per indizi » che è proprio il O'TJ!-LClL'JEW eracliteo. Si potrebbe
ricordare anche Filolao, anche se questi appartiene al V secolo ed
è quindi collocato tra i « moderni pitagorici » (8) .
Quale specie di pitagorici o meglio con quale specie di pitagorismo
avrebbe mai avuto a che fare Eraclito? O forse il dissidio che di­
vide Eraclito da Pitagora ha la sua origine in due diverse prospet­
tive psicologiche? Eraclito non volle essere e non fu « mago » e
maestro, Pitagora volle essere e fu « mago » e maestro (9). In Era­
clito non esiste cioè una metodologia magico-pedagogica, attraverso
la quale invece Pitagora, mediante la magia dei numeri e delle for­
me, potesse educare gli uomini trasmettendo metodicamente le pro­
prie verità.
Eraclito invece è l'estremista e, nella vita e nel pensiero, il solitario
per eccellenza, il polemico radicale contro ogni tentativo di inizia­
zione. Eppure, egli dice, la verità ci sta attorno, ci imbattiamo in
essa, attraverso le cose, quotidianamente: ma oramai l'uomo è un
« barbaro >> e i suoi occhi sembrano avere perduto ogni possibilità
di vedere in profondità; come se, biologicamente, potremmo noi
aggiungere, nel cervello dell'uomo si fosse atrofizzato un particolare
organo visionario (il « terzo occhio >> ) .
Possiamo forse dire che invece Pitagora fu più ottimista nei rapporti
con l'umanità. In lui vi sono ambedue gli aspetti: in-azionale e ra·

53
zionale. Egli certo fu un illuminato, ma egli si servì del numero e
della forma, ripeto, magicamente intesi, per creare delle metodologie
accessibili ai discepoli e attraverso le quali essi forse inconscia­
mente si sarebbero almeno avvicinati alle illuminazioni del Maestro.
Metodologie che certo presentano una certa analogia con le meto­
dologie (non sistemi filosofici) buddistiche e in genere dello Yoga.
Possiamo invece affermare che Eraclito si sia fermato al primo
stadio, quello della illuminazione, come se egli prevedesse che in
quel tentato patto di amicizia tra intuizione-visione e ragione, tra
individuo e massa, i colori del cielo alla fine avrebbero perduto il
loro splendore e lo sguardo limpido dell'individuo eletto si sarebbe
alla fine offuscato.
Tralasciamo ad ogni modo ora l'interpretazione di Eraclito e più da
vicino cerchiamo di vedere che cosa veramente significhi il « nume­
ro » pitagorico. Ripetiamo e rispondiamo subito: esso riveste sen­
z'altro un carattere magico-animistico. Cioè il « numero » è un ele­
mento, è uno strumento necessario (e come uno strumento ha natu­
ralmente una sua forma e una sua razionalità) mediante il quale
può vivere ed agire l'anima delle persone e delle cose. Siamo sullo
stesso piano dell'emanazionismo magico di Plotino. Il « numero »
quindi è magico. Il che significa che il numero non è un elemento
fine a sé stesso, non deve essere considerato un'astrazione matema­
tica, ma un mezzo capace di interpretare mediante la mutevolezza
e la variabilità delle sue stesse forme, la vita infinita della Natura.
In poche parole è uno strumento interpretativo (numero artigiano! ) ,
strumento però necessario e non evitabile dall 'uomQ i n quanto pen­
sa, in quanto sente, agisce, vive, in quanto è un'entità animata. Ed
ha perciò un carattere teurgico, cioè dinamicamente inteso, tale da
suscitare negli adepti, mediante una diretta e potente suggestione
(trasmissione dell'anima delle cose) , azioni, atti di vita, una certa
determinata morale attraverso cui il Maestro vuole iniziarli a una
certa determinata verità ( 1 0). � evidente qui l'analogia con le pra­
tiche orfiche.
Non vi è quindi in Pitagorra il « numero >> come possiamo inten­
derlo noi, platonicamente o, meglio, cartesianamente: se cosl fosse,
Pitagora non sarebbe stato mago. Anche per lui in fondo vale l'af­
fermazione di Eraclito, « La Natura ama nascondersi ». Le discus­
sioni quindi se il « numero » abbia un valore oggettivo, se cioè de­
nunci nella sua reale essenza il mondo esteriore come veramente
è (origine dell'empirismo) o un valore soggettivo che impone le leggi
della nostra coscienza alle realtà esteriori (origini dell'idealismo), è
un problema che per i pitagorici non poteva sussistere. lnterpre­
tarlo in tal modo significherebbe falsare completamente il pensiero
di Pitagora.

54
E una distinzione che si inizierà solo con Platone, il filosofo che
scoprì la materia, proprio in quanto credette di scoprire lo spi­
rito ( 1 1). Nei pitagorici non vi è ancora la rottura tra la concretezza
viva del mondo fisico e la matematicità astratta del mondo intellet­
tuale, non si può ancora pensare a una vita del pensiero autonoma
rispetto alla vita delle cose e viceversa, giacché il pensiero, in quanto
tale, è già materia (potremmo meglio dire, già una forma di corpo­
reità, per quanto sottile), è già « fisicità » ( 1 2). Non tanto dobbiamo
dunque dire che il « numero » è l'essenza delle cose, quanto piut­
tosto che il « numero » è le cose e le cose sono « numero ». « I nu­
meri sono causa delle cose in quanto essi sono " limiti " e " termini "
( élpoL) » ( 1 3).
Ma questi numeri-limiti-causa sono proprio gli elementi necessari
che danno espressione di vita alla Realtà Infinita, all'inconcepibile
e neppure vivente Vuoto Informe, il quale si porta sul piano del­
l'esistenza appunto in seguito alla loro facoltà contrattrice. Perciò
gli unici elementi attraverso i quali l'uomo può avvicinarsi, o, me­
glio, interpretare l'infinito, sono proprio gli elementi finiti, formali.
Non si dimentichi mai il carattere animistico e sensitivo di tutti i
Naturalisti, pitagorici compresi.
Non poteva non dare Pitagora un'importanza decisiva alla « for­
ma » , perché egli doveva per forza rendersi conto che la forma era
il necessario punto di partenza per le più alte divine esperienze (14):
perciò la forma presenta questo doppio aspetto, che pur essendo da
una parte chiusa in sé stessa (aspetto razionale-fenomenico), è dal­
l'altra proiettata sull'Infinito, si radica nel magico-irrazionale. In
poche parole, ogni realtà è finita e infinita, o, come direbbe Filolao,
limitata e illimitata. Donde l'importanza magica ed educativa del
« numero » ( 1 5). Il « numero » perciò è generatore delle cose, causa
delle cose molteplici, ma è nello stesso tempo le cose stesse: gene­
ratore che si confonde col generato, forma che è materia, forma in
quanto materia.
Potremmo anche dire in termini più elementari, che i numeri sono
elementi che polarizzano attorno a sé l'Infinito, che captano l'Infi­
nito rendendolo visibile. L'esperienza pitagorica fu senz'altro una
esperienza a sfondo sensitivo, visionario, a carattere essenzialmente
monistico. Pitagora, partito dalla diretta esperienza delle cose e
delle forme, solo attraverso queste sentì e visse la forza universa­
le ( 1 6) che compenetra tutte le cose. Non poteva perciò astrarre
nella sua dottrina e nel suo insegnamento da quella che è la vita
delle forme, perché solo attraverso queste, attraverso cioè il finito,
gli uomini possono sentire l'Infinito.
Che poi l'essenza prima e originaria della Natura, sia numerica­
mente e formalmente inaccessibile, o, da un punto di vista sogget-

55
tivo, l'intuizione del Vero non sia riducibile a definizione, l'aveva
già detto Alcmeone e possiamo aggiungere l'affermazione di Filolao:
« Intorno alla Natura e all'armonia, questa è la verità: l'essenza
delle cose che è eterna e la Natura stessa esigono un'intelligenza
divina e non umana e naturalmente nulla delle cose reali potrebbe
venire conosciuta, se la realtà delle cose, da cui sorse quest'ordine
del mondo, non avesse come base sia il limitato che l'illimitato » .
Per cui « non si potrebbe dare alcun oggetto delle conoscenze se
tutto fosse illimitato >> (Diels, framm. 6, pag. 24 1 ) .
Ne deriva quindi che soltanto i l 4< numero >> i n quanto rapporto e
limite ci porta nell'unico settore di conoscenza dell'uomo. « E di­
fatti tutto ciò che si può conoscere ha un " numero" . Giacché senza
di esso nulla si fa comprendere e conoscere >> (Diels, 1° framm.,
pag. 240) . Perciò questo « numero >> causa delle cose molteplici e
che finisce col coincidere col concetto di elemento, non significa
mai essenza ultima delle cose, non esprime mai il « Principio », che
in quanto essenza ultima delle cose, è tale appunto perché non è
soggetto ai numeri e ai rapporti, pur essendo esso numero-limite, ne­
cessario per afferrare o vedere l'illimitato che non è certamente
numero.
Nei Naturalisti in genere, da un punto di vista gnoseologico, non è
possibile stabilire un rapporto tra « Principio >> , inteso come essenza
prima ed (( elementi » : il (( Principio >> appare sempre come l'inef­
fabile, gli elementi rappresentano l'espressione esteriore concreta e
fenomenica del Principio supremo, razionalmente non determinabi­
le, appunto perché l'attività razionale si esplica secondo rapporti,
quindi secondo limiti che sono sempre contraddittori. Gli stessi
quattro principi di Empedocle, non vogliono tantb rappresentare
i principi essenziali ed originari, quanto piuttosto il limite estremo
a cui può arrivare l'analisi umana, meglio, vogliono esprimere che
l'analisi umana nella sua ricerca è cos tretta ad arrivare a un limite
(come per gli atomisti e del resto per qualsiasi altra concezione
scientifica: lo insegna la Scienza dei nostri giorni).
Ammesso poi che vi siano degli (< illuminati >> che sappiano vedere
e vivere le cose in profondità, allora per costoro la molteplicità si
ridurrà a sola apparenza ( « velo di miiya >>) e l'Unità alla fine si con­
fonderà con la molteplicità e in tal caso scomparirà la distinzione
tra « Principio >> ed « elementi », tra « causa >> ed « effetto >>; ma
chi si pone esclusivamente da un punto di vista razionale, meglio
da un punto di vista raziocinante (V. la distinzione che io ho fatto
tra Ragione e Raziocinio), quindi si applica solo alla molteplicità,
caratterizzata dall'isolamento irriducibile dei suoi elementi, dovrà
per forza distinguere il (< Principio » dagli elementi, la causa dagli
effetti.

56
Prospettata in tal modo la nostra conoscenza, evidentemente non
ci si potrà avviare al superamento sino alla eventuale dissoluzione
della distinzione stessa. Il « numero » quindi non ci dà mai l'essen­
za, ma nel migliore dei casi (V. sopra l'affermazione di Filolao, « la
realtà delle cose ... ha come base sia il limitato come l'illimitato ») ,
esso sarà uno strumento interpretativo della essenza stessa (possia­
mo definire un tale contenuto del « numero » col termine di Ragio­
ne?). Il pitagorismo scopre appunto questa funzione interpretativa
del << numero » e tale scoperta deve per forza conferire all'uomo nel
settore di tutte le possibili interpretazioni del divino, un'enorme po­
tenza : noi finiamo coll'essere in possesso di strumenti tali con cui
possiamo interpretare, sfruttare l'energia prima, in sé e per sé inde­
terminabile, che sta a base di tutte le cose.
Strumentalismo magico, si potrebbe definire la· teoria dei numeri
di Pitagora. In fondo potremmo prestare questo ragionamento ai
Pitagorici: se le realtà considerate fuori di noi sono forme e se
queste forme sono manifestazioni attraverso le quali traspare la
unica e vera forza divina, non siamo noi allora in grado anche sog­
gettivamente di creare forme tali attraverso cui si rivela la vita della
Natura? Basta che in uno spazio indeterminato si ponga un punto
perché questo si esprima secondo particolari aspetti e susciti sen­
sazioni vitali che non possono non colpire e non influire sulle per­
sone circostanti .
« Numero » quindi che è realtà, ma che è soprattutto anima. Da un
punto di vista pedagogico si trattava in fondo attraverso i rapporti,
i « numeri » e le disposizioni dei « numeri », di esprimere, incar­
nandolo, un proprio stato d'animo, il quale automaticamente veniva
cosl riproiettato su coloro che dovevano essere educati. Nel « nu­
mero » pitagorico a un certo momento tutti i problemi trovano il
loro punto d'incontro : scienza, filosofia, religione, arte ( Leonardo
da Vinci fu il nostro più grande inconscio pitagorico). Strumenta­
lismo magico non disgiunto quindi da un dinamismo suggestivo.
E così i numeri, la forma, i rapporti finirono coll'essere per i pita­
gorici gli unici elementi per partecipare e far partecipare gli uomini
ai palpiti della Natura. La Natura in sé e per sé inaccessibile, si
adatta tuttavia, si plasma, si dona di volta in volta a seconda dei
nostri strumenti formali. Da questa scoperta quindi nacque il me­
todo magico-educativo dei pitagorici, per iniziare i discepoli a quelle
Verità che Eraclito per principio sembra abbia pensato incomuni­
cabili. Ed è perciò logico, che, ripeto, Filolao consideri il « nume­
ro )) come una realtà che sta tra il limitato e l'illimitato ( 1 7) : non è
limitato perché non è formula chiusa in sé stessa: non è neppure
illimitato perché i rapporti, numerici e formali come abbiamo visto,
non si applicano a ciò che non ha limiti.

57
Il « numero » deve essere considerato il punto di incontro, quasi
secondo un processo di osmosi ed endosmosi, del Finito coll'Infinito.
Esso è perciò veramente magico : cioè forma-forza che vive nell'In­
finito e dell'Infinito, forma che può portare a esperienze oltre la
stessa forma : è magico in quanto è capace di interpretare attraverso
la propria finitezza, l'Infinito.
A fondamento di ogni nostra realtà visibile sta sempre ad ogni modo
la Natura che in definitiva ha lo stesso significato del Vuoto pita­
gorico o dell'Indeterminato di Anassimandro: Vuoto o Indetermi­
nato che sostiene, che nutre, rinnova, ricrea le realtà finite e mol­
teplici attraverso le nostre interpretazioni strumentali (numero, for­
ma, la nostra stessa legge) : potremmo anzi dire in un certo senso
che per scoprire un nuovo fenomeno è anzitutto necessario la sco­
perta di un nuovo strumento, di una nuova forma per cui si po­
trebbe concludere che è il nuovo strumento che crea il nuovo fe­
nomeno.
Si tratta quindi proprio di uno strumentalismo magico in quanto
noi dal Tutto-Nulla (Vuoto) , riusciamo a ricavare qualcosa e con­
temporaneamente il Tutto-Nulla riesce a trasfmmarsi in Vita. Finito
e Infinito sono perciò inseparabili ( 1 8). Se da un punto di vista
puramente concettuale si potrebbe dire che tale intima collabora­
zione tra Finito e Infinito si manifesta nel fatto che ogni forma
piena è tale soltanto in quanto i suoi limiti sono tracciati dal Vuoto
che la circonda (concetto insufficiente in verità per indicare l'in­
tima palpitante collaborazione del Finito coll'Infinito) da un punto
di vista magico-naturale si dovrebbe dire, secondo l'espressione pi­
tagorica, che ogni realtà è dotata di un « respiro », attraverso cui il
divino penetra in noi ( 1 9 ).
Solo se inteso come strumento magico, il « numero >>, che preso
fine a sé stesso corre sempre il rischio di agganciarsi dogmatica­
mente a una sola forma e a una sola formula, diventa proprio l'ele­
mento più adatto per farci uscire dalla nostra forma, per trasfe­
rirei e farci entrare, rinnovandoci e ricreandoci, in altre forme e in
altre vite. Non ci si deve quindi rinchiudere in una propria e auto­
sufficiente interiorità, ma, perché si possa veramente vivere, è ne­
cessario dilatarsi fuori di sé stessi, nutrirsi di infinito, è necessario
veramente « respirare » (analogia con la respirazione yoga?). E così
l'anima che è fatta della sostanza stellare, si nutre di luce stel­
lare (20) . Il concetto dell'« anima-respiro » (àvoci}v(..Lioccnç) è anche
di Eraclito.
Il numero pitagorico, se così prospettato, in fondo non è certo lon·
tana dal concetto del divenire eracliteo. Il divenire eracliteo infatti
non vuole essere altro che una posizione radicale contro ogni pos­
sibile assoluto razionale, quale potrebbe essere un'espressione ma-

58
tematica fine a sé stessa: solo il divenire ci impedisce di cristalliz­
zarci in una formula chiusa che solo astrattamente potremmo chia­
mare Assoluto.
Quindi in Eraclito, almeno come necessario punto di partenza, la
necessità di partire dalle forme (numero�limite), altrimenti non si
potrebbe neppure ammettere quel concetto del divenire attraverso
cui si rivela sensibilmente l'Essere. Solo un errore di valutazione ha
portato Eraclito a interpretare il « numero » pitagorico come una
forma chiusa e statica, fine a sé stessa, e non secondo una prospet·
tiva che io non posso che definire magica, che pur riconoscendo la
necessità formale-razionale delle realtà, trova in esse quel dinami­
smo che le fa trapassare oltre la propria forma (2 1 ).
Misticamente vissuta o razionalmente espressa, la vita per i pita
gorici è pur sempre un palpito di vita infinita entro le realtà finite.
donde il dinamismo pitagorico. Anima che è corpo, corpo che è
anima. Il punto magico della Verità è là dove il finito si incontra
e si fonde con l'Infinito (in una forma informe ! ), o, più semplice­
mente, il reale con l'ideale; dove cessa ogni sorta di dualismo che
altro non è che un'astratta presa di posizione della mente umana,
che in tal modo non riuscirà più a « respirare » e quindi si negherà
ad ogni possibilità di « rinascite » .
Le espressioni d i Filolao, ad esempio, ci portano veramente verso
questo senso concreto della vita, in lotta contro ogni pericolo dua­
listico: la stessa cosa dicasi del « divenire » eracliteo, che si pone
appunto come compito il tenere lontano l'uomo da ogni astrazione
mentale. Impostazione ad ogni modo, per gli uni o per gli altri, mo­
nistica che vuole portarci alla primitiva ed essenziale esperienza di
questi Naturalisti i quali seppero sentire e vedere l 'Infinito attra­
verso il Finito. Per questo il « numero » pitagorico, non deve certo
essere preso nel senso « ideale » platonico (22), cioè di essenza di­
stinta dall'esistenza, ma proprio in modo specifico, nel suo senso
esclusivamente monistico, cioè come vivente entità reale e naturale
che se vista in un senso può essere interpretata come limitata (aspet­
to razionale-fenomenico), ma in un altro senso, quello più vero, si
rivela infinita (animismo magico) .
Ma la supposta « quantificazione » pitagorica del « numero » è su­
perata dal concetto di « armonia », comune sia a Pitagora che a
Eraclito e del resto a tutti i Naturalisti greci, chè l 'armonia è il più
greco dei concetti.
Dice Pitagora: << tutto l'universo è numero ed armonia » (23) . Se,
come dice Eraclito, Pitagora fosse stato il creatore del << numero »
certo in lui non avrebbe fatto capolino il secondo termine << armo­
nia ». E il pitagorico Filolao, nel frammento 6 già citato, dopo aver

59
detto che l'essenza ultima delle cose esige una conoscenza divina
e che la nostra realtà è soltanto quella formata di Determinato e
Indeterminato, continua: « e poiché questi due princìpi non sono
né simili, né affini, non sarebbe loro possibile ordinarsi nel cosmo
se non fosse sopraggiunta l'armonia in qualunque modo essa abbia
avuto origine.
Ed invero le cose simili ed affini non hanno bisogno di armonia, in­
vece le cose dissimili e non affini che devono formare questo mondo
hanno bisogno di armonia » . L'armonia quindi è quel quid mediante
il quale noi riusciamo a trovare a sentire o a imporre la concor­
danza dove c'è la discordanza. L'espressione stessa, « l'armonia in
qualunque modo essa abbia avuto origine », sembra esprimere l'ir­
razional ità di un avvenimento o di un intervento spiritualissimo
(quasi una rivelazione) nella vita delle cose umane e naturali, che
in sé e per sé sono fatte di rapporti e di contraddizioni.
Ma questa armonia è pure inerente al numero e alle cose e se le
cose in sé e per sé sono rapporti e contraddizioni, l'armonia che
vive nelle cose, malgrado le cose, ma mediante le cose è il supera­
mento delle stesse contraddizioni nell'Unità. I Pitagorici, come del
resto gli antichi greci, pur vivendo intensamente le cose reali entro
i loro limiti formale-fenomenici (numero) furono certamente più
sensibili all'armonia, per cui finivano col considerare le prime come
entità subordinate. Dice giustamente lo Joel: « I Pitagorici non
amano l'ordine morale e l'armonia musicale perché amino il nu­
mero, bensi essi amano il numero per il sentimento dell'ordine e
dell'armonia.
Il valore numerico deve anzitutto essere vissuto e seQ.tito per qual­
cosa d'altro, prima che esso possa venire astrattamente risolto » (24 ),
pur, aggiungerei io, non perdendo mai di vista la pregnante realtà
concreta formale, che è pur sempre il punto di partenza per « la
via all'in su >> . Da un punto di vista di valutazione soggettiva, l'ar­
monia certo non deve essere considerata come un apprendimento
intellettuale-razionale, ma come una particolare forma di sensibilità
e di visionarità (idea platonica?) che riflette la vera e alla fin
fine non contraddittoria sostanza ( « armonia invisibile » ?) della
Natura.
Estremamente difficile, anzi credo impossibile definire cosa sia l'ar­
monia. Cito la definizione di Eraclito, forse la più nota : « Ciò che
in sé cozza, s'accorda e dai differenti toni nasce la più bella armonia
e tutte le cose nascono in seguito ad armonia » (framrn. 8). Ripe­
tuto nel framrn. 10, dove l'opera dell'artista che accorda in sé i
differenti colori, imita l'opera della Natura, la cui perfetta armonia
non è che armonia dei contrarii. « L'armonia è discordia concorde ».
Lo stesso pressappoco Filolao: « L'armonia è la unificazione di cose

60
mescolate assieme e consonanza di diverse combinazioni » (25). Su
per giù tutte le definizioni tendono a questa affermazione: armonia
è concordanza dei contrari.
Ripeto: il problema è concettualmente insolubile, perché numerica­
mente commisurata, una forma esclude sempre l'altra e ci muo­
viamo sempre in un campo di reciproca esclusione, pur ricono­
scendo che l'armonia non è possibile se non si prende in conside­
razione questa reciproca e contraddittoria esclusione delle forme e
del « numero » . Si dovrà allora solo parlare nei confronti dell'ar­
monia, di « sensazione », di « visione », mai di conoscenza. Si
potrebbe parlare anche di istinto spiritualissimo, illogico, che riesce
ad arrivare là dove la nostra conoscenza non potrà mai arrivare.
Si tratta quasi di un terzo elemento, di un'emanazione impercet­
tibile che la Natura e le cose emettono dal proprio grembo, affinché,
insinuandosi tra cose e cose, ne componga i dissidi. � una forza
viva - « la più potente delle forze », come dice Eraclito - con­
creta, aderente al corpo stesso della materia e generatrice di quella
materia. Essa armonia non deve essere intesa come qualcosa di
astratto, trascendente l'Universo stesso, perché finirebbe coll'espri­
mere una semplice astrazione matematica e formale, uno dei tanti
rapporti contraddittori.
� l'errore in cui cadono spesso gli idealisti e i metafisici, i quali si
illudono di potere separare i due termini, e di potere cosi definire
l'essenza prima dell'armonia in sé e per sé: ma il risultato di una
tale scissione è la creazione di vuoti nomi (nominalismo) , che può
degenerare da un punto di vista formale, in formulazioni dogmati­
che, negatrici di ogni libero dinamismo umano. Non impostazione
dualistica perciò, ma monistica (l'armonia dà proprio il senso della
viva feconda incarnazione dello spirito nella materia) : vedere e sen­
tire, non definire; essere, sperimentare la vita senza distinzioni (26).
Concludendo per quello che riguarda i rapporti Eraclito-Pitagora.
Dobbiamo dire che Eraclito non volle comprendere il pitagorismo
(a meno che egli si trovasse già di fronte a un pitagorismo degenere),
solo perché egli prese in considerazione il numero pitagorico, fine
a sé stesso, scisso dall'armonia. In tal caso era logico che ne deri­
vasse una « polumatia », cioè un'enumerazione meccanica di no­
zioni. Eppure se pensiamo bene, il divenire eracliteo è solo possi­
bile se si parte dalle forme: realtà cioè limitate secondo limiti e
rapporti (quindi in un certo senso è necessaria anche la « poluma­
tia ») . Necessità quindi di quella razionalità che constata o pone la
molteplicità per potere sentire, vivere e vedere l'Unità.
Ciò era la base da cui partiva appunto Pitagora nel denunciare la
necessaria manifestazione fenomenica della Natura e inoltre anche

61
nel salvaguardare la fondamentale esperienza monistica di questi
Naturalisti contro ogni possibile frattura tra Spirito e Materia, che
in fondo non sono che espressioni nominalistiche, che avrebbero
avuto il loro ufficiale riconoscimento antologico col platonismo.
E in fondo il concetto del divenire eracliteo parte dalla stessa fon­
damentale esperienza: salvare la Natura e il divino che è Natura
e impedire che l'astrattezza delle formule umane (presa di posizione
esclusivamente individualistica), isolasse l'uomo nel suo peccato di
« presunzione » che è poi peccato di ignoranza. Ad ogni modo, né

possiamo spiegarci proprio il perché, Pitagora appare agli occhi di


Eraclito proprio come colui che esaltando il numero fine a sé stesso,
privò il numero stesso dell'armonia, iniziando così già quella che
per Eraclito rappresentava una decadenza e un'involuzione dello
spirito umano.

62
Note del capitolo III

( 1) Eraclito sembra aver terrore della quiete che avrebbe stroncato ogni
possibilità dell'uomo di vivere in intimo contatto con le energie della
Natura. V. Aet., l, 23, 7 << Eraclito tolse la quiete e la stasi dall'Uni­
verso che è proprio questo dei cadaveri... )).

(2) Ma ha perfettamente ragione il Rostagni ( « Il Verbo di Pitagora )),


Bocca 1924) nel mettere in evidenza che la Monade pitagorica, Unità
Suprema, è qualcosa che non è ancora numero, anche se origine di tutte
le varie specie di numeri: concetto ripreso dai Neoplatonici (V. l'Uno
di Plotino): « Dunque oltre al numero pari e al numero dispari, che
sono il numero nel senso proprio della parola, i Pitagorici, secondo
Aristotele, conoscono un'altra entità, alla quale essi non osano dare il
nome di lipL81J.6.; (numero) che è la fonte e la causa prima di entrambi
quelli, chiamata parimpari o Unità ... che si chiama anche Monade e
non va confuso con l'« uno )) della serie aritmetica. Essa comprende in
sé, indistinti, congiunti, per una specie di sintesi a priori, tanto il pari,
quanto l'impari : dà origine ai numeri della serie pari o della serie
dispari, appunto perché in sé li contiene tutti complessivamente, come
dà origine alle altre cose, perché le altre cose sono pure costruite al
modo dei numeri secondo la legge dei contrarii )) (pagg. 41-42).

(3) Gigon (op. cit., pag. 289): « Il sistema della dottrina dei numeri
non appartiene all'antico pitagorismo. Sino alla metà del V secolo, noi
non abbiamo sicure testimonianze. In Empedocle noi abbiamo soltanto
un luogo isolato, dove appare che la trasposizione delle cose nel nu­
mero non è seguita con metodo, bensì avviene solo arbitrariamente. Em­
pedocle ha per primo stabilito il numero delle origini delle cose col
numero 4. Alcune testimonianze invero ne indicano la presenza già in
Senofane, sotto altra forma in Eraclito, due filosofi cioè che secondo
testimonianze hanno conosciuto Pitagora )) .

(4) Per le origini del Pitagorismo e per la sua ulteriore scissione, V. an­
cora Gigon (op. cit., pagg. 120 e segg.). « La originaria formazione del
Pitagorismo appartiene al VI secolo. Nella metà del V secolo cominciò
la scissione. Le democrazia abbatté il regime aristocratico cui apparte­
neva il pitagorismo che era riuscito a fondare una vera confederazione
politica nell'Italia meridionale. A questo punto quindi era necessario
o continuare la vecchia tradizione o trasformarsi o modernizzarsi.
Alla fine del V secolo si hanno ad ogni modo vari gruppi di pitagorici.
Vi sono i « moderni pitagorici )), tra cui, per esempio, Archita e Ari­
stosseno. A questi si contrappongono quelli che potremmo chiamare << i
vecchi credenti )) , i quali, a differenza dei primi che si distinguevano
per la speculazione filosofica e illuministica, preferiscono seguire una
certa determinata morale religiosa. Ad ogni modo, nessuna di queste
due tendenze sembra rappresentare con fedeltà l'autentico pitagorismo.
Per quello poi che riguarda la tradizione culturale, possiamo dire che
tutta la letteratura sopra Pitagora sorta dopo il V secolo, sia una me-

63
scolanza di elementi eterogenei dove è difficile dire quello che vi era
di originariamente pitagorico. Antico e nuovo si mescolano ibridamente.
Per quello che riguarda le opere di Pitagora, secondo i « pitagorici
moderni », Pitagora non avrebbe lasciato nulla di scritto: dovevano
esistere solo opere che contenevano gli insegnamenti. Eraclito cono­
sceva probabilmente solo queste » .
(5) Oltre a testimonianze dirette di Eraclito bisogna ricordare quella di
Ione da Chio e di Erodoto.
(6) Tempie Beli (« La magia dei numeri », pag. 88): « Ecco che cosa
dice Eraclito probabilmente affetto da una forma di gelosia professio­
nale, del suo più fortunato avversario nella corsa all'immortalità ... » .
(7) Noi sappiamo da Aristotele che Alcmeone era giovane quando Pi­
tagora era vecchio : possiamo quindi considerarlo come direttamente
ispirato da Pitagora. Ad ogni modo, a parte il fatto che Alcmeone fosse
di Crotone e quindi si movesse entro l'ambito pitagorico, nel complesso
si presenta spesso di difficile soluzione la precisa appartenenza dei vari
filosofi naturalisti a una scuola ben circoscritta. Parmenide e Zenone,
vennero talvolta considerati come « pitagorici » .
(8) I n Filolao per quanto considerato un « modernista » e « illumini­
sta », sono tuttavia evidenti i caratteri mitici del primitivo pitagorismo.
Mentre cioè sembra talora esaltare l'anima come entità eterna, auto­
noma rispetto alle vicende della vita, tal'altra sembra invece conside­
rare l'anima come immanente nella materia, come semplice armonia dei
contrarii (V. la tesi di Simmia nel Fedone di Platone) : avrebbe Filolao
sotto questo punto di vista subito l'influsso del moderno pitagorismo
scientifico.
Ammesso che le cose stiano cosl, ammesso cioè nel pensiero di Filolao
un contrasto di due posizioni (della qual cosa io dubi\o e penso che
tutto il problema debba essere impostato in modo differente), è chiaro
ad ogni modo che in Filolao, che è della seconda metà del V secolo,
sono ancora vivi quegli elementi pitagorici di cui Eraclito avrebbe do­
vuto tenere conto. Per la supposta doppia posizione di Filolao, V. so­
prattutto Rostagni (op. cit., pagg. 47-59, 126-130, 145-146).
(9) In sé e per sé la figura storica di Pitagora è difficilmente determi­
nabile. « La sua figura storica è quasi del tutto affidata alla leggenda »
(Gigon, op. cit., pag. 122). Ed ancora : (( La presentazione di Pitagora
deve essere per forza un'ipotesi... » (pag. 247) « Egli è soprattutto noto
come creatore di uno stile di vita » (pag. 128).
(l O) V. le pagine molto acute di Zafiropulos ( « L'école éleate » , « Les
Belles Lettres » , Paris, 1950). « Questo potere accordato al pensiero
conferiva ai suoi simboli e parole questa singolare potenza che essi con­
servavano sempre agli occhi dei greci. L'anima umana agiva attraverso
di essi. Essi esercitavano un'azione diretta sulle cose: la parola iscri­
veva difatti il pensiero su questo piano spirituale, dove, entrando in
contatto con le altre anime, essa diventava capace di influenzarle »
(pag. 32). Ed ancora: « L'identificazione del pensiero e dell'anima urna-

64
ni, cosi come la potenza particolare attribuita alla parola, in quanto
simboli di questo pensiero, facevano del nome di una persona il sim­
bolo vivente indicato della sua anima.
Pronunciando questo nome si utilizzava dunque più o meno comple­
tamente la traccia spirituale della persona, grazie all'inevitabile pro­
cesso... Quando �i trattava di soggetti eccezionali, le forze cosi messe
in azione potevano rivelarsi formidabili e pericolose. Perciò era proi­
bito pronunciare il nome di Pitagora » (pag. 35). E ancora e soprat­
tutto: � Pitagora pose senza dubbio le basi della nostra Scienza instau­
rando il simbolismo delle cose, ma questa monumentale innovazione
aveva ai suoi occhi uno scopo molto differente da quello al quale noi
l'abbiamo condotto.
Pitagora non cercava nei numeri che una forma comoda e universale di
rappresentazione per le anime delle cose al fine di poterle più facil­
mente influenzare col suo pensiero. Donde lo sviluppo della numerolo­
gia in tutta questa scuola e la singolare insistenza con la quale i sapienti
più autentici dell'epoca tornano sulle " virtù" dei numeri. La possibilità
di interventi spirituali che davano queste virtù, aumentavano immen­
samente la forza di colui che era stato ammesso nel tempio del sapere:
ecco la ragione che fece decretare a questi animisti che la Scienza con­
feriva automaticamente la potenza » (pag. 38).
( 1 1 ) V. Kucharsky ( « �tude sur la doctrine pithagoricienne », � Les
Belles Lettres », Paris, 1952). « Bisognò in effetti che il pensiero pren­
desse coscienza di sé stesso, nella speculazione di Socrate e Platone,
perché questa separazione divenisse possibile. Allora grazie a questa
"filosofia dello spirito ", i numeri e le figure acquistarono il vero carat­
tere di " idealità", cioè li considereranno oramai come provenienti dallo
stesso piano antologico delle " idee" » (pag. 63).
( 12) V. Kucharski (op. cit.). Il numero avrebbe proprio un valore (( ge­
netico » . � Per gli antichi pitagorici, i numeri e le figure sono delle
realtà quasi animate, degli esseri sui generis ... i più semplici dando la
nascita a quelli che hanno una struttura più complessa. E perciò l'es­
sere vivente sarebbe un prodotto indiretto dei numeri » (pag. 52).
( 13) V. Robin (« La pensée grecque et l'origine de l'esprit scientifique »)
(pag. 71).
( 14) V. Rostagni (op. cit.): « I Pitagorici sono assai legati agli studi
sperimentali; tengono l'occhio fisso nelle cose per misurarle e compu­
tarle; ma le cose seguendo la logica dei numeri, si connettono le une
con le altre; si introducono nell'orchestra generale dell'Universo. Ecco
la potenza magica dei numeri, regolatori ed arbitri del tempo e dello
spazio. Essi in cui lo spirito pratico ha ravvisato un mezzo per tenere
conto esatto della realtà e contemporaneamente lo spirito mistico ha
sentito risonare l'armonia musicale del mondo e della vita: danno ala
a questi filosofi onde sollevarsi dalla sfera dell'individuo e penetrare
nel Tutto ... » (pag. 70).
( 1 5) V. Filolao (framm. 1 1 , Diels, I, pag. 243). « Il dinamismo del nu­
mero tu puoi constatarlo non solo nelle cose demoniche e divine, ma

65
in genere in tutte le azioni e parole umane, come in tutte le funzioni
tecniche e nella musica ».
( 1 6) Nel pitagorismo non si può certo parlare di uno spirito distinto da
una materia. Il 1tEplixov, o etere purissimo, regge e compenetra tutte le
cose, si confonde con esse. « Avviene di pensare Iddio, nella sua tota­
lità come esistente fuori del cosmo. Ma oramai la sua segregazione è
più apparente che reale, perché egli non troneggia più come figura sta­
tica, bensl opera come energia, come etere mobilissimo, capace di eser­
citare le sue vibrazioni nel complesso dell'Universo ; quello è il grande
serbatoio della vita e della morte; il ricettacolo da cui discendono le
anime e a cui risalgono senza mai perdere una stilla di sé stesse, per­
correndo e ripercorrendo infinite volte la scala che va dalla Unità alla
Molteplicità e dalla Molteplicità ritorna all'Unità )) (Rostagni, op. cit.,
pag. 148).
( 1 7) V. Kucharsky (op. cit., pag. 29): « ... senza dubbio non si potrebbe
contestare che certi numeri e gli elementi geometrici corrispondenti sia­
no per i pitagorici i principi generatori di tutte le cose nello stesso mo­
do che lo sono per i fisiologici presocratici gli " elementi " d'ordine sen­
sibile ».
( 18) V. Kucharsky (op. cit., pag. 63): « I numeri concepiti in questa
maniera sono veramente una realtà sui generis che si pone in qualche
modo tra l'ordine intelligibile e gli oggetti di ordine sensibile. I Pitago­
rici li considerano al di fuori di questa distinzione fondamentale ed è
ciò che intende Aristotele quando sottolinea nella Metafisica che per
essi le cose sono dei numeri, ma che questi numeri non sono pertanto
separati, le cose essendo fatte di numeri ».
( 19) Rostagni (op. cit., pag. 182): « Perché secondo i Pitagorici il mon­
do è dotato di respiro al pari dell'uomo; assorbe dall'aria lo spirito in­
finito che gli sta attorno e che essi identificano col Vuoto, la vita na­
turale, i principi dell'individuazione che sono poi il tempo e lo spazio.
Difatti l'aria o il Vuoto è l'elemento determinatore, che traccia i con­
fini, le superfici, le misure dei corpi. Inspirando il Vuoto, si inspira
quel quid che rende possibile la molteplicità delle cose, si acquistano
lo spazio e il tempo che è come dire i numeri... sostanza e simbolo della
Natura. Tolti i numeri, tolto il tempo e lo spazio, si torna all'Assoluto
dell'Anima pura, che è sempre pari a sé stessa » .
(20) Secondo l a concezione pitagorica le anime sono polvere di stelle
(V. Aristotele, « De Anima » 404 a 1 6 ff). Anche Eraclito definiva l'ani­
ma come una scintilla di luce rapita al sole.
(21) L'affinità di Pitagora ed Eraclito si rivela soprattutto là dove si
tende a definire il concetto di anima (V. in genere Gigon).
(22) V. Kucharsky (op. cit., pagg. 66-67): « D'altra parte risulterebbe ...
che non è nella speculazione dei pitagorici sul numero che i termini
ElSoc;, tSÉa., hanno acquistato un senso ontologico. Difatti il termine
ElSoc; sembra avere presso di essi, un doppio senso: quello di " forma "
o struttura - che sembra avere un senso tecnico - e quello più ri-

66
stretto di " principio". Ora è poco probabile che il secondo derivi diret­
tamente dal primo. Di conseguenza non è là che si troverebbe soprat­
tutto l'origine del significato che i termini El8oç, tBÉa. denotano nei Dia­
loghi di Platone, giacché essi non potrebbero spiegarsi con la sola
nozione di struttura intima delle cose ».
(23) Dalla Metafisica di Aristotele (V. tutto il brano di Diels, I, pag. 270,
39).
(24) Jéiel (op. cit., pag. 59). Ed ancora « I Pitagorici non dicono sol­
tanto: tutto è numero, essi dicono sin dal principio, tutto è armonia e
cosl essi intendono tutto musicalmente. I Pitagorici definivano la filo­
sofia Musica, spiegavano tutto il cielo, tutto l'universo come armonia
e mediante l'armonia » (pag. 57). Ed infine: « Il Pitagorismo non co­
mincia con la Matematica; giacché la Musica contiene certo la Mate­
matica, ma non la Matematica la Musica e con la semplice Matematica
nessuno può cominciare ... » (pag. 58). :t proprio questo profondo senso
dell'armonia che rende tanto affini Grecia e Rinascimento. « Nel Rina­
scimento la colorita molteplicità del mondo irradia dall'Unità e perciò
il mondo è inteso come Unità nella molteplicità, come armonia. Per
quanto possano essere differenti le teorie di Bruno, Keplero e di Bohme,
essi si accordano nel concetto del mondo come armonia » (pag. 1 2).
(25) V. framm. 10 (Diels, l, pag. 242).

67
IV Capitolo

DIVENIRE DI ERACLITO
ED ESSERE DI PARMENIDE

Che Parrnenide come filosofo dell'Essere, sia agli antipodi di Era­


clito, filosofo del divenire, è oramai un luogo comune molto discu­
tibile ( 1 ) .
I o credo che molto spesso nell'interpretazione delle dottrine filoso­
fiche, in questo caso di Parmenide ed Eraclito, noi ci lasciamo
fuorviare dalle particolari situazioni (ambientali, culturali, storiche,
psicologiche), attraverso cui un filosofo trova la sua occasione per
esporre il suo pensiero. Un'intuizione può essere veramente fuori
del tempo sino a rivestire il carattere dell'Assoluto, ma l'esposizione
di tale intuizione è sempre « storica )), condizionata dalla partico­
lare atmosfera ambientale in cui vive il filosofo. E si aggiunga
inoltre che in alcuni filosofi vi può essere l'intento pedagogico ed
anche questo influisce sul particolare modo di esposizione e l'in­
tento pedagogico diretto e volontario è evidente nel pitagorismo,
indiretto e quasi involontario in Eraclito e forse anche in Parrnenide.
Per cui insomma, considerare così in blocco Parrnenide ed Eraclito
come rappresentanti di due dottrine antitetiche è certamente errato.
Il « divenire )) di Eraclito, ad esempio, non è fine a sé stesso, perché
Eraclito stesso mira all'Essere, anche se come visione e sensibilità,
quindi a una meta che è oltre le capacità dell'intelletto umano.
Sarebbe necessario studiare prima i moventi psicologici che pre­
cedono la formulazione dei singoli sistemi filosofici.
Prendiamo ora in considerazione l'inizio del poema di Parmenide:
tale inizio, come sappiamo è il mito (tanto simile al mito dell'auriga
di Platone), il quale certo ha una grandissima importanza come
elemento psicologico di ispirazione, che darà un suo particolare
tono a tutta l'esposizione poetica e filosofica che seguirà. Il mito
ci dice che l'animo di Parrnenide è tutto compenetrato e permeato
da una particolare esperienza lirica e sensitiva nello stesso tempo,
che si farà sentire nella sua illogicità, anche là dove Parmenide
cerca di essere logico. Esso ci mette dinnanzi al senso della rivela­
zione e dell'ineffabilità del Vero, cosa che infatti egli tenterà di
spiegare nel prosieguo del poemetto.
Non esatta mi sembra perciò l'osservazione del Bumett il quale
afferma che l'essersi Parmenide espresso in forma poetica fu un'idea

69
infelice : « Fu un'idea infelice, perché gli elementi che egli tratta
non si prestano facilmente a questo modo di espressione » . Non è
esatto, perché soltanto attraverso le rappresentazioni che non pote­
vano essere espresse se non mediante il mito, Parmenide può, meglio
che in qualsiasi altro modo, tentare di fare vedere tutto quel mondo
di sensazioni che egli ebbe l'avventura di vivere e vedere.
Parmenide è istintivamente e spontaneamente portato a raccontare
sotto forma poetica e mitica quello che vide e sentì, quello che a
un certo momento tutti i suoi sensi afferrarono: egli non poteva
fare perciò che raccontare e la poesia dà proprio la sensazione del
racconto anche là dove Parmenide fa della filosofia. La sua espe­
rienza straordinaria appartiene a quella che in un capitolo prece­
dente ho appunto definita mistica, dove l'uomo cioè racconta e
rivela, non spiega. Se c'è un abbozzo di spiegazioni in Parmenide,
questo consiste soltanto nel dimostrare che della Verità non si può
dare spiegazione.

Assurdo pensare che Parmenide avrebbe potuto iniziare filosofica­


mente il suo poemetto e impostarlo logicamente. Il suo fu vera­
mente, come direbbe Joel, un « visioniire Gefiihl » ( « sentimento
visionario •• ) , dove la logica che si esprime per distinzioni, non
avrebbe potuto trovare posto. Molto più esattamente si esprime
Sesto Empirico, il quale, a proposito del primo frammento, dice:
« Afferma poi (Parmenide) che quali vergini lo conducono le sue
sensazioni, delle quali alcune per vie illusive chiama facoltà audi­
tive, quando dice " due rapidi cerchi volavano ", cioè gli orecchi per
cui il mezzo percepisce il suono; le facoltà visive, le chiamò " figlie
del Sole • , che abbandonano nella " Notte la Casa " , " spingendosi
verso la luce " per il fatto che non senza luce ha luogo il loro uso »
(Dal « Parmenide •• di Untersteiner, Bocca, pag. 236) .

Psicologicamente, possiamo dire che lo stato d'animo di Parmenide


è lo stato d'animo di colui che in tutta purezza, in un particolare e
illuminato momento della sua esistenza, sta vivendo una espe­
rienza particolare e del tutto anormale, proprio in quanto gli è
avvenuto di estraniarsi da tutti i rapporti raziocinanti che lo lega­
vano agli uomini, per uno slancio dal di dentro e per un'illumi­
nazione dal di fuori e dalle vette raggiunte guarda all'umanità,
oramai lontana, ravvolta nella nebulosità indeterminata e vaga della
irrealtà e della illusione : donde quel suo camminare quasi a passo
di danza, quella lievità di tocco, proprio quando, dopo il mito,
viene a parlare delle cose umane.
L'ineffabilità dimostrativa del Vero, forse solo sensitivamente e
visionariamente captabile, è a fondamento quindi della visione filo­
sofica di Parmenide, di Eraclito e dello stesso Pitagora. Per Era-

7 ·1
clito basti pensare al primo frammento e ad altri. Per Parmenide
l'inizio e la fine del suo poemetto (2). Inizio : la luce che appare a
Parmenide uscito fuori dalle tenebre della notte ha tutti i caratteri
della rivelazione improvvisa ed imprevista a cui le sole sue forze
non avrebbero potuto condurlo.

Conclusione: dopo che egli ha detto agli uomini quale sia il loro
congenito errore, esprime tutto il suo scetticismo sulla scienza umana
che in verità per Parmenide si riduce a un puro e vuoto nomina­
lismo: « Così per un'illusione nacquero queste cose e in seguito
terminato il loro ciclo periranno; ad ognuna di esse gli uomini
diedero un nome che la indicasse » (framm. 9) (3). E ad ogni
modo evidente l'analogia tra il primo frammento di Eraclito, vo­
lutamente, e, direi, gelosamente enigmatico e il contenuto del poe­
metto di Parmenide, tutto avvolto in un velo di pudore che non
permette allo sguardo umano di penetrarvi.

Ma da un punto di vista psicologico i frammenti di Eraclito, rive­


lano uno stato d'animo molto differente da quello di Parmenide.
Eraclito si muove proprio nell'ambiente sociale degli uomini, dà
l'impressione di parlare direttamente a interlocutori che gli stanno
di fronte e al cui paradossale punto di vista, per quello che ri­
guarda il Logos, egli si oppone polemicamente, duramente, quasi
rabbiosamente. Egli è uomo, prima che si ritirasse nella solitudine,
che si muove nella storia e nella società e questa società com­
batte (4).
Mentre in Parmenide quindi il problema della intuizione e della
visione sensibile viene liberamente e spontaneamente esposto come
racconto non condizionato da particolari situazioni controprodu­
centi, in Eraclito invece esso è condizionato, nella sua stessa strut­
tura discorsiva, dai rapporti diretti con la società in cui egli viveva:
dall'egoismo, dall'orgoglio, dalla « presunzione » degli uomini che
gli stavano accanto. E al loro falso conoscere di concepire l'Unità
(intellettualismo-raziocinio), avrebbe forse voluto sostituire la vera
Unità della visione umana e questo, pensava forse egli, sarebbe
stato possibile solo attraverso il concetto del divenire, certo di non
difficile constatazione da parte di tutti gli uomini.

In poche parole la visione della vera Unità sarebbe forse stata


possibile solo attraverso lo spiraglio del divenire. Ma, sembra avere
concluso Eraclito, gli uomini sono veramente dei « barbari » irridu­
cibili . Dice giustamente il Reinhardt: « Il problema è il seguente :
dovevano i contrarii essere scoperti come contrarii, sentiti e appresi
come qualcosa di sensibile in contraddizione con sé stessi, prima
che la scoperta della loro unità non potesse valere come una nuova
rivelazione? . . . La filosofia di Eraclito gira attorno all'affermazione

71
che un divenire sia realmente possibile, anzi che l'essere è solo pos­
sibile attraverso il divenire » ( « Parmenides », 1 9 1 6, pag. 220).
La Vita perciò non può mai essere portata sul piano dell'Intelletto
che analizza, fraziona e fissa, ma sul piano dell'intuizione sensibile,
dell'esperienza vissuta che si sottrae ad ogni forma di spazializza­
zione e temporalizzazione e che quindi non potrà mai avere il suo
corrispettivo nel frazionamento dei « 16goi » individuali (5). Piran­
dello direbbe: « La Vita può essere solo vissuta, mai rappresentata » .
I paradossi di Zenone non sono affatto paradossi, se portati proprio
sul piano della vita vissuta, sul piano degli istintivi rapporti sinto­
nici che si stabiliscono quotidianamente tra gli uomini e le cose.
Sono gli atti vitali che prende in considerazione Zenone e non
certo i cosiddetti problemi metafisici. I Naturalisti si muovono sul
piano della semplicità concreta e reale e non mirano certo, come
noi potremmo supporre, al problema metafisica fuori e al di sopra
della Vita. E Zenone vuole semplicemente dire che ogni atto vitale
può essere soltanto vissuto, visto, sentito: mai analizzato. Il mo­
vimento della freccia cessa di essere tale se viene analizzato attra­
verso momenti astratti e statici (evidenti sono i rapporti con l'élan
vital di Bergson) .
A proposito dei paradossi di Zenone Zafiropulos dice: « Di questi
argomenti Zenone dimostra che il linguaggio discontinuo dei Pita­
gorici, non saprebbe descrivere il movimento in alcuno dei quattro
casi che questo linguaggio permette di immaginare ... la conclusione
di questi quattro argomenti si impone: il linguaggio discontinuo
che ammette delle unità di grandezze finite e infinite, appare come
la combinazione di questi due generi d'unità, non può mai espri­
mere il movimento e deve dunque essere rigettato come mezzo di
espressione della nostra esperienza » (6).
I n un certo senso quindi Zenone, discepolo di Parmenide, può
essere anche considerato discepolo di Eraclito, perché figlio an­
ch'esso di una forma mentale comune a tutti i Na turalisti greci.
I paradossi di Zenone possono anche essere applicati al « dive­
nire » di Eraclito, « divenire » che ci porta verso il vero Essere,
chè altrimenti se noi applicassimo l'essere alle cose, cioè il nostro
essere secondo i nostri « 16goi », quindi attraverso il frazionamento
analitico, non avremmo più il « divenire » , quindi non più il vero
Essere, la Vita, in una parola.

Eraclito, ripeto, dà l'impressione della frattura che egli già sente


realizzarsi nella sua epoca tra due modi di interpretare la Natura:
il modo sensitivo, lirico, concreto della Vita e il modo analitico,
razionale, astratto. E lo sente quasi come un distacco irrimediabile
(cosl pure Parmenide) . Il suo « divenire » è una reazione polemica

72
che in un secondo momento diventa monito, avvertimento che può
essere valido in tutte le epoche in cui il raziocinio umano, presu­
merebbe nella dogmatica presunzione della propria legge e della
propria morale di ridurre la Natura a leggi individuali.

Forse solo Hegel, con la stessa intensità, rivisse la stessa situazione


storica e culturale. Proprio per questo suo compito, « Eraclito non
potrà mai invecchiare » (7). Attraverso il concetto del « divenire »
sembra quasi che Eraclito voglia persuadere gli uomini a ritornare
sulla via maestra della Natura che essi hanno abbandonato per an­
corarsi alla staticità delle forme che « presumono » appunto di rap­
presentare l'Assoluto e che invece non sono altro che un'apparenza
che viene travolta e annientata nella mutazione inarrestabile della
Vita che è Legge. E come il Fuoco che è Legge, travolge, rinno­
vandole, tutte le forme esteriori che esso di volta in volta va pren­
dendo, così la Legge che è Fuoco, travolge, rinnovandole, tutte le
astratte affermazioni umane che mirano a sanzionare l'Assoluto (8).

Il Logos quindi è la vera realtà, il Logos potremmo tradurlo con


« ritmo vitale », nella quale approssimativa espressione, si salva la
Legge e si salva la Vita, anche se esso è in contraddizione con le
leggi individuali che si fissano a determinati aspetti della Natura,
fine a sé stessi, che, cosi isolati, vengono ineluttabilmente travolti.
� come se gli uomini con le loro legge particolari volessero fare
una resistenza assurda a ciò che è fatale (9), da cui inoltre deriva
un metodico depotenziamento vitale, che è contemporaneamente
volontaria privazione di verità ( 1 0) .

Vita e Logos sono assolutamente inseparabili. Perciò il Fuoco è


veramente Logos e il Logos, Fuoco. In questo senso il Logos era­
cliteo dovrebbe ricostituire l'unità, la sintonia perfetta tra soggetto
e oggetto, conoscenza ed esperienza, significante e significato, pen­
siero e vita. Scindere il Fuoco dal Logos significa isolarsi in un'astra­
zione mentale che è come una sospensione inerte e vuota al di
sopra e al di fuori dell'infocata sostanza originaria. Quale monito
dunque più valido ed efficace, se non il « tutto scorre », per ridare
al pensiero un contenuto vivo e per riportare gli uomini nuova­
mente alla visione e al gusto della Vita, nella sua essenza più viva ,
più vera, più « fisica »?

Dovremmo ammettere che il « divenire » eracliteo e l'« Essere »


parmenideo sono due aspetti dello stesso fondamentale problema,
che è il problema dell'Unità (credo che il termine greco più con­
cretamente esatto per rendere il senso dell'Unità sia !;uv6v, che dà
il senso della compattezza « fisica », usato da Eraclito e da Parme­
nide. Hegel direbbe: Gedigenheit). Questo senso dell'Unità è af­
ferrato e intuito fuori dalle categorie intellettuali. Sarebbe quindi

73
necessario trovare il modo di spezzare la staticità e l'astrattezza di
tali categorie, per riportare l'uomo al centro della Vita.

Per Eraclito dunque questo metodo è il « divenire », per Parmenide


consiste semplicemente nell'avvertire gli uomini che tutte le defini­
zioni sono « nomi » , « illusioni » . Solo forse Pitagora con la sua
concezione numero-forma-magica è riuscito a trovare il metodo mi­
gliore per conciliare in modo « compatto >> l'Essere con il Non­
Essere.
Gli �1tECX. xa.t �pya. di Eraclito che potremmo anche tradurre « tutte
le chiacchiere e i comportamenti umani », e « il nome » di Par­
menide, sono singolarmente affini nella condanna della definizione
distintrice. Mentre gli �1tECX. xa.t �pya. hanno un contenuto ancora
eminentemente morale, il « nome » ( 1 1 ) ha già acquistato invece
un contenuto gnoseologico, quasi antologico: cioè d'ora innanzi si
potrà sostenere che una cosa è la realtà, un'altra cosa è il « nome »
(numeri, categorie, leggi, ecc. ecc.) : che tra nome e realtà ci potrà
essere anche opposizione (Platino considera Parmenide il vero crea­
tore del dualismo e non Platone! ) : che gli uomini potranno inde­
finitamente definire, ma quanto più definiranno, tanto più si allon­
taneranno dalla realtà .
Un tale stacco dalla Natura mediante il « nome » ci precluderà
quindi ogni possibile sintonia con essa attraverso le vie della co­
noscenza : gli uomini rimarranno degli isolati, non potranno più
realizzare quella sintonia magica con la Natura, che soltanto la
visione può permettere. Astraendo quindi da una maggiore chia­
rezza scientica e da una più precisa denuncia dell'errore umano da
parte di Parmenide e poi di Zenone, dobbiamo dire che gli �1tECX.
xa.t itpya. e l'ovo(J.a. fondamentalmente muovono dagli stessi presup­
posti e parimenti condannano la nuova situazione spirituale che
andava formandosi.

Secondo lo Zafiropulos la grandezza di Parmenide consiste proprio


nel fatto che « egli scoperse che l'osservatore è estraneo a ciò che
egli osserva e che il sistema che egli sovrappone alla realtà per
studiarla, appartiene a lui e non a ciò che egli osserva. Parmenide
credeva la realtà incommensurabile col pensiero umano, egli cre­
deva alla realtà continua . . . » (op. cit. pag. 83). E ancora : « la mi­
sura appartiene a chi misura, non all'oggetto misurato, escludendo
così subito la misura astratta. Quando si pensa alle difficoltà in­
contrate per l'adozione di questo principio nella Fisica del se­
colo XX, non si può che rendere omaggio alla meravigliosa visione
del nostro antico pensatore » (pag. 1 1 2) ( 1 2).

Gli E1tEa. xa.t �pya. e perciò, l'ovo(J.a. secondo Eraclito e Parmenide


saranno tali da rendere irreale-illusorio ciò che è reale. E allora

7t!-
Parmenide dirà: « Perciò non sarà altro che un (vuoto) nome quello
che i mortali hanno stabilito nel loro linguaggio, persuasi che sia
la verità: il nascere, il morire, l'essere, il non-essere, il mutare di
luogo e gli splendidi colori » ( franun . 8, 38-4 1 ) . E di rimando
Eraclito, nel framm. 57: « Maestro dei più è Esiodo : sono per­
suasi che lui sappia tutto, egli che pur non sapeva cosa siano
giorno e notte: infatti sono la stessa cosa » .

Potremmo quindi dire che il « nome » è le cose, nello stesso modo


per cui Pitagora aveva detto che il « numero » è le cose. Natural­
mente « nome » e « numero », non in quanto « indizii >> , in quanto
cioè magici, ma proprio in quanto finiscono col creare una frattura
tra pensiero e realtà. Giustamente dice il Gigon : « L'opinione in
Parmenide sorge se invece dell'Unità si prende come punto di par­
tenza la dualità dell'Essere e del Non-Essere. Qui abbiamo un sin­
golare riscontro in Eraclito. Per costui la Verità si oppone all'er­
rore, come l'Universale al Particolare. Parmenide descrive la Ve­
rità come Unità, la apparenza come dualità . . . così verità ed er­
rore sono da una parte in radicale antagonismo, dall'altra un
principio originario che può portare all'opinione » (op. cit. pag.
249). « Particolarismo >> in Eraclito, « dualismo >> in Parmenide
che si riferiscono allo stesso vizio d'origine: « il dare un nome » .
S i esprime i n fondo la stessa cosa quando si dice che l'errore e
la verità consistono semplicemente nel considerare le cose come
fine a sé stesse (errore) o come mezzo (verità) o intellettualistica­
mente o magicamente (ancora Pitagora?) .

Tale distinzione, fine e mezzo, in fondo è solo teoretica: essa si


impone appunto soltanto nel campo della teoria, di quella razio­
nalità e formalità alla quale noi siamo per forza ancorati e che
deve per forza esplicarsi in termini dualistici, ma praticamente,
cioè come viva esperienza, non ha ragione di essere, perché in tal
caso il mezzo si confonde col fine, come il molteplice si confonde
con il Tutto. Essa ad ogni modo ci impedisce di cadere in un radi­
cale dualismo di sostanze (che hanno appunto solo un valore teo­
retico), quale l'Essere e Non-Essere, che sono veramente vuoti nomi,
come dice Parmenide.
Coloro che dicono « solo l'Essere è >> e « il Non-Essere non è », in
quanto pongono delle distinzioni tali che negano a priori la possi­
bilità di un naturale e facile trapasso dalle apparenze (mondo del
molteplice) alla Sostanza (mondo dell'Unità), si pongono automa­
ticamente fuori dall'Unità. Essere e Non-Essere, in sé, sono sem­
plicemente due categorie logiche, tutte e due con valore negativo
se prese fine a sé stesse: la Verità dovrebbe essere nel punto di
mezzo, nel punto di sutura, nel centro: la Verità non è l'Essere,
ma non è neppure il Non-Essere ( 1 3) .

73
Purtroppo queste categorie logiche a un certo momento acquiste­
ranno una tale autonomia da essere reputate essenziali e quindi di
conseguenza non fu alla fine difficile antologizzarle. Questo è il vero
errore dell'umanità, questa è la caduta. Dice Parmenide: « Gli
uomini hanno pensato bene di dare un nome a due forme, di queste
la prima non era necessaria definire e qui gli uomini appunto errano.
Essi divisero la " Realtà " (oÉIJ.aç) in modo contraddittorio, distin­
sero le une dalle altre caratteristiche. Da una parte l'etereo fuoco
fiammeggiante sempre eguale a sé stesso, dall'altra ciò che non è
mai identico » (framm. 8). Contro ogni dualismo quindi, per un'in­
tuizione totalitaria che nega il dualismo.
E quando Parmenide dice che l'Essere e il Pensiero sono la stessa
cosa, fa un'affermazione attraverso la quale il pensiero non è con­
siderato come un complesso di categorie logiche, astrattive quindi;
è un'affermazione che non può presentare una soluzione razionale
perché con essa Parmenide vuole proprio superare quel dualismo
tra Essere e Pensiero originato dalla mente umana che vuole de­
finire, quindi staccare il Pensiero stesso dall'Essere, ma l'intelletto
per sua natura è costretto a dire: l'Essere è, il Non-Essere non è.
Il senso poi di quella affermazione è ancor più rafforzato dall 'altro
frammento « il pensare e ciò per cui è il pensiero, è la stessa cosa » .
Naturalmente altro è il dire che l'essere è il pensiero o che il pen­
siero è l'essere, altro è il dire che il pensiero e l'essere sono la
stessa cosa: nel primo caso vi è subordinazione dell'un termine
all'altro (tesi idealistica o tesi empiristica) : nel secondo caso vi è
unità perfetta di nome e di nominato ( 14). La prima soluzione non
poteva esserci per i Naturalisti in genere, perché per essi non vi
era ancora, ontologicamente, una distinzione di spirito e materia,
di soggetto e oggetto. Si tratta proprio di un Essere in quanto non
è il nostro Essere e il nostro Pensare.
Cosa è questo Essere allora? Esso deve avere un senso terribil­
mente concreto, in quanto non portato sul piano dell'astrazione
delle categorie logiche: per Eraclito non può essere veramente che
« fuoco eternamente vivente » : né in nessun altro modo avrebbe
potuto definirlo, perché ogni eventuale trasposizione o traduzione
logica, avrebbe ucciso il senso più vero dell'esperienza vissuta. Per
la stessa ragione Parmenide ci rappresenta Dio proprio come « si·
mile alla massa di una ben compatta sfera » . Questo è l'Essere che
è Vita, nel senso « fisico » della parola e non certo in un senso
astratto e teologico. Era perciò assolutamente necessario, né vi po­
teva essere altra via, che Parmenide all'inizio del suo poemetto
dovesse descrivere l'apparire dalla sua Verità sotto forma sensitiva.
Una stessa visione, in fondo, guida il pensiero di Pitagora, di Era­
clito e di Parmenide: la visione dell'Unità intesa proprio in senso

76
perfettamente monistico, « compatto », « rotondo », eretta forse ad
estrema difesa contro un'umana invadente mentalità raziocinante.
« Uno e Tutto » questa, in fondo, era la loro vera formula, che poi
fu anche quella preferita dai giovani Holderlin, Hegel, Schelling,
formula che si articola nelle seguenti espressioni : a) tutte le cose
nel Tutto, b) Tutto in tutte le cose, per cui infine c) ogni cosa in
ogni cosa.
Tuttavia malgrado questo che possiamo considerare l'indirizzo co­
mune, sappiamo che essi, almeno senz'altro Eraclito e Pitagora,
polemizzarono tra loro ( 1 5). Da un punto di vista eracliteo infatti
Pitagora come colui che avrebbe esaltato la molteplicità attraverso
il numero, avrebbe di conseguenza rotto il binomio : « tutte le cose
sono nel Tutto » (ma Eraclito ha male interpretato Pitagora e in­
fatti, come abbiamo visto, il concetto di armonia pitagorica im­
plica per forza la viva presenza del Tutto nelle cose, perciò dob­
biamo concludere che invece notevole è l'affinità Eraclito-Pitagora) .

Possiamo dire che Pitagora, almeno per quello che noi conosciamo
di lui e appunto perché nell'interpretarlo noi partiamo sempre dalla
sua nota affermazione, « il numero è le cose » , abbia preso come
punto di partenza della sua dimostrazione la prima formuletta, « le
cose nel Tutto ». Egli parte quindi dalle forme della realtà, da ciò
che determina veramente la concretezza delle cose e quindi me­
diante l'armonia trapassa nel tutto. Ma forse che anche il « dive­
nire » di Eraclito non suppone la stessa premessa realistica e lo
stesso trapasso?
Possiamo invece dire che Parmenide parta dalla formula : « tutto è
in tutte le cose ». La sua è la soluzione dello slancio mistico, sen­
sitivo e visionario, è quasi un fulmineo trapasso attraverso le cose
nel Tutto. Egli deve quindi tentare di descrivere poeticamente
questa meta raggiunta in un modo così bruciante . E la sua descri­
zione è tutta sensitiva : egli cioè, in un certo senso, almeno entro
l'ambito di esperienza personale che rimarrà sempre personale giac­
ché coloro che in seguito lo studieranno vorranno quasi sempre ve­
dervi un dualismo (platonismo e non Platone), non fa fatica ad
evitare ogni dualismo tra Tutto e cose; perché totalmente compe­
netrato di quella sensitività e visionarità che gli derivano dall'avere
vissuto le singole realtà o anche una sola realtà sino in fondo in
quell'abisso della cosa dove essa si offre alla propria dissoluzione.
Tanto è vero che egli non fa mai della Teologia, non parla mai
di Dio, nel senso nostro e quando nel framm . 8 (55-58) egli con­
danna gli uomini, li condanna semplicemente perché divisero in
due parti la « Realtà » : con questo termine possiamo intendere
ogni realtà che ha un determinato aspetto fisico e concreto (tedesco,
Gestalt). II Tutto è ovunque, in ogni singola parte: il non saperlo

77
più trovare dipende dalla tendenza oramai innata negli uomini di
portare la scissione (Hegel direbbe Trennung) entro il grembo delle
vive realtà naturali.
Ma Parmenide è un lirico: egli, di fronte agli uomini, non prende
la posizione del pedagogo (Pitagora) o dell'esortatore (Eraclito).
Egli sembra beato della sua visione, vuole mantenere integra per
sempre questa sua conquista e si accontenta di guardare giù verso
gli uomini con occhio staccato e lontano, a quegli uomini oramai
abbarbicati alle proprie illusioni. A questo punto forse sarebbe in­
tervenuto Eraclito a esortare i suoi concittadini a uscire dalla sta­
ticità delle loro formule attraverso il « divenire » . Per Parmenide,
quello laggiù è solo il regno del « nome », il regno dello spazio e
del tempo. « Così per una illusione nacquero queste cose e in se­
guito terminato il loro ciclo periranno : ad ognuna di esse gli uomini
diedero un " nome " che la indicasse » (framm. 19).

A me sembra che nel poemetto di Parmenide, più che la condanna


del « divenire », vi sia la condanna di ogni dualità: là dove gli
uomini scindono in due parti la « Realtà » ivi è l 'errore: anche il
« divenire » di Eraclito è la condanna di ogni dualismo. E certo

che il « divenire » di Eraclito non è ancora la verità della Natura,


ma la via che può portare a questa verità.

Che se poi al « divenire » contrapponiamo il suo antagonista, cioè


l'Essere di Parmenide, anche questo alla fine si riduce a « nome »,
cui necessariamente e automaticamente si contrappone un altro
« nome », cioè il Non-Essere e questo lo aveva riconosciuto lo stesso

Parmenide: e allora si ricostituisce ancora un movimento, un di­


venire tra Essere e Non-Essere, al fine di rivivere l'Unità: ma questa
Unità non può mai essere un « nome », al massimo un'esperienza
di vita, un'intuizione, una visione.
Siamo perfettamente d'accordo che l'Essere di Parmenide non può
essere l'Essere che noi fenomenicamente, cioè attraverso le nostre
categorie, ci rappresentiamo, ma è un Essere tale che comprende in
sé immediatamente anche il Non-Essere, quindi, intellettualmente;
un Essere che non è Essere (inconciliabilità, potremmo dire tra
mondo fenomenico e mondo noumenico), tuttavia era fatale che
l'Essere di Parmenide, per il semplice fatto che un « nome )) biso­
gnava darglielo, venisse interpretato come un Essere trascendente,
cui si contrapponeva il Non-Essere, cioè quello che gli uomini a
un certo momento hanno definito il mondo della materia.
In tal modo si dava origine a quel dualismo o dualità che Parme­
nide condannava. E come se l'Universo, il Tutto, che è perfetta­
mente « rotondo e compatto » , venisse nuovamente scisso in con­
traddizioni insensibili a qualsiasi sutura. Ed allora si comprende

78
la necessità per mettersi in guardia contro il pericolo di tali con­
trapposizioni (che in fondo hanno solo un significato astratto ! ) della
legge compartecipativa del « divenire )) , attraverso la quale inoltre
esce salva quella capacità di sensitività e di visionarità che ci mette
di volta in volta in sintonia con l'Uno. E necessario, direbbe Ra­
makrishna, di volta in volta « tuffarsi )) in una nuova realtà, per
liberarci delle scorie oramai incrostate sul nostro corpo.
Si tratta proprio di indicare il metodo più adatto per evitare al­
l'uomo il pericolo della « scissione )) e - perché no? - della in­
crostazione e nello stesso tempo !asciargli la via aperta per la « ccr
munione )) con la Natura. Che Parmenide non sia stato inteso o
forse meglio, che egli non si sia preoccupato di determinare un
metodo che ci preservasse dal pericolo della « scissione )), lo di­
mostra in genere l'interpretazione che spesso la nostra filosofia dà
del suo pensiero : il « nome )) ha finito col diventare l'essenza delle
cose (<< idealismo )) platonico) . Solo il concetto del « divenire )) può
scongiurare tale pericolo.
Si può inoltre aggiungere contro il pericolo dell'impostazione par­
menidea quest'altra osservazione che mette in chiaro quella che
è forse la più profonda sensibilità di Eraclito: ogni verità raggiunta,
per quanto vasta, per quanto profonda, per quanto eccezionale nella
sua folgorazione magica, finisce sempre, fatalmente, col decadere ,
coll'umanizzarsi: anche il pensiero è vittima del processo di con­
densazione e troppo spesso esso diventa la nostra più pericolosa
prigione. Avviene un vero e proprio processo di condensazione, per
cui la verità lentamente, quasi inavvertitamente, ci avvolge di un
velo sempre più opaco e denso : condensazione e rarefazione, legge
che sfugge ad ogni nostro controllo razionale e che regge in modo
ferreo la vita delle cose naturali e degli stessi pensieri umani.
Così la Verità diventa formula, qualcosa di statico e di fisso, a cui
l'anima quasi con terrore, sente di venire sacrificata. Ma - ecco
l'avvertimento eracliteo - di fronte a questa Verità che cessa d'es­
sere tale, sta la Natura, col mutarsi, col suo divenire, col suo im­
previsto « inesauribile semenzaio )) (Giordano Bruno) di sempre
nuovi germi di vita. Per salvare quindi la nostra esistenza e la
nostra anima, che stavano proprio per perdersi nell'atto in cui rag­
giungevano la Verità, è necessario perderle nel fluire incandescente
delle cose.
Vi è quindi forse in Eraclito una maggior sensibilità, un aspetto
dionisiaco più vibratile e anche nello stesso tempo più armonico,
nel volersi accordare, come avesse mille anime, alla vita della Na­
tura : vi è forse un maggior intuito psicologico nel sentire e nel­
l'avvertire in profondità, avvenimenti e cose nel loro significato più
recondito, ma più reale. Vi è in lui, per usare un'espressione di

79
Nietzsche, quel « fiuto �� particolare che infallibilmente l'avverte
quando le cose sono vive e quando invece comi nciano a morire.

Forse, tra i filosofi moderni, chi più di tutti, fu e si sentì vicino ai


Naturalisti in genere e a Eraclito in particolare, per questo « sensi­
tivismo » fu proprio F. Nietzsche del quale non mi sembra fuori
luogo riportare un brano che psicologicamente mi sembra cosi
vicino al modo di sentire di Eraclito:
« Ahimé! che è accaduto mai di voi, o miei pensieri scritti e multi­

formi? Eppure non molto tempo è trascorso che voi eravate così
variopinti, così giovani e così maliziosi, irti di spine e saturi di
droghe misteriose, tanto da farmi starnutire e ridere. Ed ora? Ora
vi siete spogliati della vostra novità e temo che alcuni di voi siano
già maturi per diventare verità : tanto avete oramai preso l'appa­
renza della immortalità e tanto siete noiosi.
« Ma forse che la cosa non andò sempre così? Che cosa mai noi

scriviamo o dipingiamo, noi, mandarini del pennello cinese, noi


che eterniamo solo cose che si lasciano scrivere, che cosa noi siamo
in grado di dipingere da soli? Ahimé ! solamente ciò che può av­
vizzire, soltanto ciò che perde la sua fragranza. Ahimé! solo e sem­
pre uragani che vanno esaurendosi e sentimenti tardi e ingialliti .
Sempre e solo uccelli stanchi di avere volato e che si lasciano
prendere dalle mani, dalle nostre mani ! Noi eterniamo ciò che non
può più vivere e volare a lungo, solo le cose stanche e fracide.
Ed ora eccovi al vostro meriggio, o miei pensieri scritti e vario­
pinti, ai quali io seppi dare colori, forse molti colori, molti delicati
e innumerevoli colori, giallo, bruno, verde, rosso: ma nessuno seppe
mai come voi mi appariste nel vostro primo mattino, voi, scintille
improvvise, miracoli della mia solitudine, voi, miei vecchi, amati,
cattivi pensieri » (F. Nietzsche, « Jenseits von Gut und Bi:ise »,
Kri:iner Verlag, pagg. 232-234).

80
Note del capitolo IV

(1) V. Gigon cosa dice a pag. 54 del suo « Untersuchungen zu Hera­


klit » : « Come è possibile da parte di Parmenide un simile totale rifiuto
della realtà sensibile, come egli contrappone al cosmo naturale di Era­
clito il suo Essere-Uno-Eterno . ? Dobbiamo ricordarci di Eraclito dove
..

egli pone il fuoco invisibile e stabilisce l'eterna unità del Cosmo e del
Fuoco. Per Eraclito il visibile è un gradino per l'invisibile >> .

(2) V. Gigon (op. cit.): « L'ultima frase ritorna al principio. Tutto que­
sto mondo non è Verità, quella Verità che abita presso la Dea, ma
nome stabilito dagli uomini... Parmenide non ha tralasciato alla fine di
accentuare ancora una volta che non bisogna dimenticare al disopra
del cosmo, l'Essere, il quale è solo Verità e immutabile >>. V. del resto
anche il framm. 5 che io traduco: « Un tutto compatto (l;vv6v) io ho
sottomano (J..Lo( ta't'w) da cui io ho preso l'avvio; ad esso io ritornerò ».

(3) Come sappiamo questo frammento è piuttosto oscuro, soprattutto


nella parte media: chiara come interpretazione la I e I I riga. Per l'in­
terpretazione della riga di mezzo V. ad es. : Untersteiner (« Parmeni­
de », pag. 251). t!: evidente ad ogni modo la coincidenza di nome-forma­
illusione. Ricorda l'espressione di Buddha << niima-riipa » (nome-forma,
da cui deriva il velo di miiyii-illusione), che indica proprio l'estraniarsi
dell'uomo dalla Verità, prendendo per vero ciò che in verità è fasullo.
Ripeto ad ogni modo ancora la frase di Ciuang-tse: << O uomini, la­
sciate entrare in voi le cose senza il nome » .

(4) Per il problema politico e sociale in Eraclito V. Bise: « La politique


d'Heraclit » (Paris, Alcan, 1 925, pag. 281).

(5) Viene alle volte fatto di pensare che il pudore della propria espe­
rienza e il terrore della definizione caratterizzino veramente i Natura­
listi greci. Ciò che in essi vi è di dimostrativo e di « logico » rappre­
senta quasi un elemento involontario cui essi sono costretti a ricorrere
quasi per un istinto di difesa nei riguardi di quella « massa >> scientista
che sta per prendere il sopravvento. I l senso di distacco dalla realtà
delle cose naturali a causa della parola e della logica è messa in chiaro
dallo Reinhardt nell'opera citata. Secondo lo Reinhardt, l'attività astrat­
tiva dell'intelletto arriva sino al punto di « rendersi indipendente e ap­
parire in contraddizione con le sue esperienze ».
Linguaggio e pensiero vanno cosl condensandosi sino a dimenticare le
« qualità » e « gli stati delle cose » . Avviene un vero « indurimento »
della realtà in simboli spirituali e allora si parlerà di soggetti, di po­
tenze, di cause ecc. ecc. Quanto più si va verso l'astrazione, tanto più
si arriva al punto di rottura con l'esperienza sensibile: « cosl sorge la
Dialettica che è sempre nemica dell'esperienza e del Senso e va raffor­
zandosi solo attraverso la rivalità » (V. soprattutto pagg. 250-253).
Reinhardt, questo stacco della « logica >> dalla realtà lo vede già nel­
l'« Indeterminato » di Anassimandro e per quanto esso abbia ancora

81
un vivo contenuto sensibile, tuttavia segna già il primo inizio del pre­
dominio della parola.
(6) Zafiropulos. (« L'école éleate », (( Les Belles Lettres », Paris, 1950,
pag. 303).
(7) Brecht, op. cit., pag. 34.
(8) V. Soulier (op. cit., pag. 63). In modo molto esatto dice del Logos:
(( Non si tratta dunque della Ragione umana, ma dell'ordine universale
predicato invano dalla natura fenomenale » .
(9) Weiher (op. cit.): « L'EL(.Lap!J.É'IIT) (la sorte? il destino?) è il Fuoco
stesso ... la storia del mondo è così combinata che non potrebbe essere
differente da quella che è » .
( 10) V. Bapp (« Aus Goethe griechischer Gedankenwelt », Dieterische
Verlagsbuchhandlung, Leipzig, 192 1 ) : (( Nulla esiste al di fuori del
Fuoco, così la Ragione del mondo non esiste distinta da questo, bensl
Ragione e Fuoco sono due attributi della medesima sostanza » (pag. 8).
( 1 1 ) Il (( nome » e il (( dare un nome )) sono usati anche da Eraclito.
V. framm. 67 dove appare che il (( nome )) non può essere riferito al­
l'essenza divina, ma alle sue esteriori forme mutevoli. Cosi pure il
framm. 32: (( L'uomo... non vuole e pur vuole essere chiamato col
nome di Zeus » .
( 12) Ancora lo Zafiropulos: (( Giacché gli antichi avevano posto un
altro Universo accanto al nostro, essi lo iscrivevano su un piano spiri­
tuale che noi abbiamo in genere abolito, donde lo sforzo considerevole
che bisogna fare oggi per rimetterei al punto di vista antico ... Bisognerà
dunque avere costantemente dinnanzi allo spirito il fatto che per quei
primi costruttori di sistemi, tra cui gli Eleati dovevano essere enume­
rati, un Essere risultava dall'unione di un'anima con un corpo e risul­
tava esclusivamente da tale unione. In altri termini, il mondo sensibile
preso in sé stesso, senza tenere conto della sua anima, non costituiva
che l'errore dell'uomo comune, che è l'opinione del non iniziato, di
colui che ignora la filosofia ».
( 13) Non si può non mostrare l'affinità dei problemi dibattuti da Par­
menide (Essere e Non-Essere) cogli stessi problemi della filosofia in­
diana : il Buddismo ad esempio. Anche qui e molto più che presso la
filosofia occidentale, le lunghe discussioni sui rapporti tra Essere e
Non-Essere, da parte di quei teorici sistematici che Buddha in verità
non poteva sopportare. Anche per Buddha la verità è la via mediana
(né Essere, né Non-Essere) ed egli rimaneva sempre muto dinnanzi alle
inopportune insistenze dei filosofi teorici, che volevano sapere a tutti
i costi che cosa fosse l'Essere e il Non-Essere. � proprio la posizione di
Parmenide. V. inoltre e soprattutto la scuola indiana Advaita (non­
duale di Shiinkiira).
Non è neppure esatto parlare di Monismo in questi filosofi : se infatti
dico Monismo devo pensare per forza a un'Unità contrapposta alla mol­
teplicità: Essere contrapposto a Non-Essere ed allora non avrò la Ve-

82
rità. Se dico dualismo è la stessa cosa: spirito e materia e dovrò fare
la scelta tra l'uno o l'altro. La cosa migliore è che io dica non-dualità:
perché è necessario che io parta ogni volta dalla dualità per poi negarla.
Devo partire dalla dualità di Essere e Non-Essere per trovare il terzo
elemento che non è l'uno né l'altro, pur essendo l'uno e l'altro contem­
poraneamente. Solo la non-dualità potrà farmi vedere il nesso organico
tra il Tutto e le parti. � proprio questa la posizione di Shiinkarii.
( 14) V. Joel (op. cit.): « Ogni conoscenza poggia su di una certa sim­
bolica, in quanto essa pretende una certa corrispondenza tra soggetto
e oggetto. Ogni conoscenza deriva dalla più profonda origine della Mi­
stica. Ma l'unità mistica di soggetto e oggetto che è data immediata­
mente dal suo sentimento, è ancora e soprattutto abbracciata da Par­
menide in quanto egli proclama l'unità di pensiero ed essere » .
( 1 5) Che Parmenide abbia direttamente di mira Eraclito è molto dub­
bio. Per tale tesi lo è per es. il Calogero; non lo è il Reinhardt, il Wil­
lamovitz, il Gigon.

83
V Capitolo

ERACLITO E IL NATURALISMO DI FRONTE


AL BINOMIO SOCRATE-PLATONE

Riprendendo la tesi di Nietzsche, possiamo noi veramente affer­


mare che il binomio Socrate-Platone, nel suo intellettualismo, rap­
presenti, entro la meravigliosa fioritura dello spirito greco, il primo
germe di una malattia che col passar del tempo sarebbe diventata
cronica? E che quindi la cultura europea da quel giorno ne avrebbe
subìto l'influsso nefasto? ( 1 ) .

Certo è che se, nel tentativo d i darne un 'approssimativa defini­


zione, dobbiamo intendere per « Natura » la perfetta sintonia tra
soggetto e oggetto sino al superamento dei due termini stessi in un
terzo elemento, cui da parte dell'uomo non può che corrispondere
(quasi psicofisicamente esprimendoci) la visione-sensazione, do­
vremmo allora concludere che da quel binomio avrebbe avuto
proprio origine quel dualismo tra spirito e materia che portò alla
frattura di due modi di interpretare la Vita e la Natura (2).

Tale frattura evidentemente non avviene di colpo e la polemica


eraclitea lo dimostra, ma bisogna riconoscere che da questo mo­
mento la bilancia tende verso la certezza di potere « definire » l 'es­
senza concreta e universale delle cose. Il « nome » non è più par­
venza-illusione, ma diventerà sempre più sostanza (3). Da questo
momento si avrà, con Nietzsche, un'inversione di valori ( « Umwer­
tung der Werten ») e il concetto di universalità muterà radical­
mente.
Attraverso infatti la certezza platonica della definibilità o almeno
della possibilità di definire il vero e il reale, ciò che prima era
veramente reale, concreto e potente, l'« invisibile armonia » cioè,
diventerà sempre più irrealtà e fantasia senza contenuto oggettivo,
e ciò che prima era invece sogno, ombra, morte, diventerà, attra­
verso la nostra definizione, unica e indubitabile realtà: la Ragione
cioè finirà col perdere la sua strumentalità magica per diventare
Raziocinio (4).
Una cosa è ad ogni modo certa, anche se il giudizio di Nietzsche
non può forse essere considerato del tutto obiettivo, giudizio che
del resto si rifà ad una delle più classiche definizioni del plato­
nismo, ed è che il binomio Socrate-Platone, forse solo per una

84
nostra errata interpretazione, segna veramente l'inizio di una nuova
valutazione della Naturo��

A mio avviso quel « binomio » non regge ed è necessario perciò,


anche brevemente, prendere in esame dapprima Socrate e poi Pla­
tone e vedremo se e di che cosa Socrate e Platone si siano resi
veramente colpevoli, almeno secondo il criterio sopra considerato.
E chiediamoci anzitutto: fu veramente Socrate quell'intellettualista
che noi siamo abituati a considerare e che Nietzsche accusa? (5).
Tale interpretazione che è diventata classica, su per giù, come sap­
piamo, ci sarebbe stata suggerita dall'interpretazione aristotelica di
Socrate (6).
Ma se per « intellettualismo » intendiamo, grosso modo, la possi­
bilità di definire soggettivamente secondo la loro essenza (7), la
realtà delle cose (quindi frattura sintonica), che pretenda esaurire,
strada facendo, ogni problematicità, sarebbe allora assolutamente
fuori luogo considerare Socrate, nei suoi atteggiamenti, come il
prototipo dall'intellettualista-moralista-formalista (8). Se vi fu un
pensatore che non volle mai definire e che non si lasciò mai definire
e racchiudere in uno schema, fu proprio Socrate. Egli sembra con­
tinuamente sfuggire a sé stesso ( pudore dei propri sentimenti) e
sfuggire agli altri tanto da dare l'impressione di farsene beffa. Era
quel non lasciarsi imprigionare e catalogare secondo schemi fissi,
morali e intellettuali che gli uomini e la società esigono dai citta­
dini, che finiva proprio coll'irritare chi della forma fa la ragione
prima della propria esistenza.

Ai pochi dotati di spirito di finezza, il suo strano inclassificabile


comportamento suscitava ammirazione e rispetto, ai molti invece
dotati solo di uno spirito di geometria, non poteva non destare
invidia, rancore, risentimento e, in tal caso, il passaggio all'accusa
di immoralità e di ateismo è un passo breve. In questo senso l' Apo­
logia è perfetta nel suo significato universale e umano, di un fatale
contrasto tra la personalità d'eccezione che è costretta a seguire un
istinto illogico e la collettività che è vittima incosciente di schemi
abitudinari, di « 16goi » individualissimi.

In questo suo atteggiamento lieve e profondo della vita, era logico


che egli si opponesse alla pretesa definibilità del vero e del giusto
da parte di coloro che miravano a fare coincidere il Vero con la
« formula », gravida sempre di tanti riduttori egoistici personalismi.
E da questo contrasto tra Verità inclassificabile e formula che
vuole classificare, scaturisce spontaneamente e logicamente l'« iro­
nia socratica » , espressione antiintellettualistica per eccellenza (non
fu forse Socrate il primo « ironico �� ?).

85
L'ironia segna sempre, entro un determinato schema logico del
discorso, proprio una rottura di logicità, per cui l'interlocutore
perviene proprio a conclusioni che sono all'opposto della tesi con­
tenuta nella premessa e che egli dall'alto della sua prosopopea cre­
deva con estrema e logica facilità di portare a termine. (V. « Il Pro­
tagora » di Platone) . � una specie di sgambetto, l'ironia socratica,
ed è un antischematismo radicale che mira proprio alla metodica
esclusione della Verità dal nostro schema. Sotto questo punto di
vista l'ironia socratica sta sullo stesso piano dell'ira eraclitea e,
potremmo aggiungere, della noncuranza parmenidea. Mutano solo
gli atteggiamenti, ma la sostanza è la medesima: condanna di co­
loro che presumono di definire la Verità. Si tratta proprio di colpire
a fondo la presunzione dei falsi sapienti.

Fu incompleto Socrate, perché non volle o, come forse erronea­


mente si dice, non seppe, non arrivò a fare vedere quelle Verità
che poi il suo discepolo Platone avrebbe portato sulla scena del
mondo? E se non volle, forse che il suo rifiuto non sorse in lui
dal riconoscimento istintivo e rispettoso di quel Vero che sempre
sarà ineffabile e quindi intrasmissibile? Né dobbiamo dimenticare,
qualunque sia il peso che vogliono darvi gli studiosi, il fatto rive­
lazione in Socrate (9), l'« indicibile » cioè. Né ci tragga in inganno,
quale prova della scoperta di una originale interiorità, la formuletta
socratica, « conosci te stesso », giacché essa ha in fondo un signi­
ficato solo morale e pratico ( 1 0) .

In verità Socrate rap�resenta la reazione della Vita, piena e tota­


litaria, come forza demonica, quindi in sé illogica, agli schema­
tismi individualistici di una Sofistica oramai svuotata di ogni con­
tenuto vitale, per cui la Ragione non era più al servizio della sen­
sibilità proprio nel senso eracliteo ed era perciò diventata fine a
sé stessa, cioè Raziocinio. Ogni atteggiamento di Socrate invece era
sempre una nuova rivelazione vitale. Socrate era terribilmente vivo
in tutto ciò che faceva ed era proprio questa sua vitalità che for­
mava la meraviglia dei suoi discepoli, di lui molto più giovani,
presso i quali tuttavia la tipica figura del filosofo sembrava già
essersi intellettualizzata in uno schema rigido.

Socrate rappresenta perciò la reazione a quella mentalità umana che


già allora andava svuotandosi di ogni contenuto dando luogo a
quel dualismo tra Vita e Pensiero che già Eraclito e Parmenide
condannavano. In Socrate la Ragione riacquista il suo vero signi­
ficato strumentale-artigiano, in funzione della Vita, in funzione del
suo (< demone >> che non deve essere certo inteso come la normale
svirilizzata <( voce della coscienza » , ma come una vera e propria
forza viva e illogica che costituiva la sua vera ragione d'essere e
che non poteva essere comunicata agli altri mediante i normali

86
strumenti razionali ( 1 1 ). E un istinto, una tendenza misteriosa che
non ha ad ogni modo nulla a che fare con le esigenze morali e
normatrici della coscienza e dell'intelletto.

Anche Eraclito in questo senso diceva: il carattere dell'uomo è


il suo demone. Non è certo qui il caso di farsi delle soverchie elo­
cubrazioni in merito: è il sentirsi posseduti da una sovrabbondanza
di vita e di potenza che ha il proprio fondamento solo in sé stessa.
E Socrate è terribilmente serio quando parla nell'Apologia del suo
« demone » . E forse uno dei rari momenti in cui egli non faccia
dell'ironia, in cui smetta di burlarsi degli uomini: ma il suo pudore
e la sua dignità sono egualmente salvi di fronte alla impotente
curiosità maligna e invidiosa dei suoi accusatori, chè il suo demone
è una verità solo personalmente sperimentabile.

Posta dinnanzi con la sovrabbondanza della sua vitalità che cer­


cava tutte le occasioni per rivelarsi a una società che andava sem­
pre più inaridendosi, la viva presenza di Socrate significava il ten­
tativo di ridare potenza all'uomo. E la Natura che ritorna, la cpvcnc;
come energia vitale che nella sua più profonda essenza « ama na­
scondersi » . Quale fu dunque la verità di Socrate? Lo ignoriamo e
quale fu la verità di Eraclito?
Certamente ciò che spinse a considerare Socrate intellettualista,
oltre alle fonti aristoteliche, fu quella certezza che egli non sia riu­
scito ad arrivare al fondo di quel problema a cui solo il suo di­
scepolo Platone sarebbe pervenuto. E siccome Platone a noi appare
come colui che razionalmente riuscì a mettere in chiaro le caratte­
ristiche dei principi primi, ne deriva di conseguenza che Socrate,
retrospettivamente considerato, debba essere posto sullo stesso piano
dell'intellettualismo platonico. Ma in Socrate, se ben badiamo, si
tratta soprattutto di un « dover essere » e non di un « essere �� e
il « dover essere » non significa affatto che debba a tutti i costi ri­
solversi nell'« essere » : anzi ciò potrebbe significare evidentemente
un'inconciliabilità logica tra finito e Infinito. E ad ogni modo certo
che mai in Socrate esiste il tentativo di definire l'Universale, come
tenterà invece poi Platone.

Avrebbe allora veramente Platone, come dice Nietzsche, reso un


cattivo servigio al suo maestro Socrate?

Il passaggio da Socrate a Platone o meglio al platonismo, come


sappiamo, è ancor oggi non molto chiaro. Una cosa sola possiamo
dire di Platone: il carattere « demonico », quindi il lato più mi­
sterioso di Socrate, viene alquanto attenuato, giacché egli vorrebbe
o almeno tenterebbe di trasferirlo sul piano della spiegazione ra­
zionale. Quel documento importantissimo che è la Lettera VII di
Platone, chiarisce perfettamente questa sua ambigua posizione (12)

87
riguardante la « incomunicabilità » o la « comunicabilità » o almeno
le vie che possono portare alla « comunicabilità », della vera fi­
losofia.
Perciò invece di parlare di Platone è sempre meglio parlare di
« platonismo » (proprio quello che abbiamo ereditato noi), col
quale termine noi intendiamo dire che forse per la prima volta
nella storia del pensiero occidentale si ha il tentativo sistematico
o almeno si crede di intravvederne la possibilità, di trasferire il
sentire e il vedere sul piano del conoscere : di considerare la spie­
gazione razionale come un elemento che miri ad esaurire in sé,
nelle proprie strutture, sino in fondo, l 'essenza della realtà. Si
vuole cioè mediante i ragionamenti comunicare e trasmettere agli
altri quelle verità che in fin dei conti presso i Naturalisti, presso
lo stesso Socrate (ed anche - perché no? - in Platone) erano
gelosamente custodite come incomunicabili esperienze personali.

La formulazione di Gorgia sulla incomunicabilità dell'Essere, viene


da questo momento, metodicamente scalzata. Sarebbe stata questa
allora la grande fiducia di Platone - certo del platonismo - nella
Ragione fine a sé stessa, che in tal modo fini col ridursi a Razio­
cinio? e che diventò poi una delle principali caratteristiche di tutta
la nostra cultura occidentale?

Intendiamoci : in Platone (e possiamo rifarci ancora alla Lettera VII


oltre ai miti platonici, là dove egli non riesce a dare una spiega­
zione razionale) il fatto dell'esperienza personale, il fatto della
intuizione, della visione (idea), sentita e vissuta con animo « non
barbaro », l'elemento quindi rivelatore, è pur sempre alla base di
ogni suo filosofare (si confronti per esempio il mito dell'auriga del
Pedone con l'inizio del poema di Parmenide), ma ciò che attraverso
di lui, appare di veramente nuovo è il tentativo di tradurre il vedere
in conoscere: cioè si tende a superare la funzione semplicemente
convenzionalistica, nominalistica o anche magica del « nome » per
attribuire ad esso un contenuto reale e universale.

� possibile cioè che i « 16goi » individuali che Eraclito condannava


perché mai e poi mai avrebbero potuto esprimere il Logos univer­
sale e che per Parmenide erano delle semplici illusioni, potessero
spogliarsi della loro limitatezza individuale e diventare un Logos
universale? Potremmo allora dire, in tal caso, che se la « magia »
molto più modestamente vuole essere considerata solo un tramite
per il Logos, il « Raziocinio » platonico, il suo Logos, molto meno
modestamente, vuole eliminare il tramite per entrare anche se me­
todicamente, nel cuore della Verità?

Ad ogni modo, a parte tale considerazione, il capovolgimento del­


l'interpretazione del Logos, segnerà l'inizio di tutto un nuovo filo-

88
sofare che investirà profondamente alle radici tutta la mentalità
europea, dando origine a quel dualismo tra « nome » (spirituali­
smo?) e « realtà » (materialismo? ) in cui gli uomini sembrano ora­
mai patologicamente immersi. Eppure « idea », etimologicamente,
significa « visione ». Ed allora? Altro è veramente il platonismo,
altro Platone? E aveva ragione allora nel nostro Rinascimento Mar­
silio Ficino nel sostenere che Platone era stato male interpretato e
mal tradotto e che la giusta interpretazione era quella neoplatonico­
emanazionistica? E forse che lo stesso Platino del resto fa colpe­
vole del dualismo non Platone ma Parmenide, sostenendo anzi che
proprio Platone aveva cercato di superare (nel dialogo « Il Par­
menide »), attraverso un graduale processo ascensivo, la frattura
dualistica di Parmenide? Tuttavia, egli aggiunge, anche in Platone
si deve riconoscere l'esistenza di contraddizioni difficilmente spie­
gabili.
Ad ogni modo, Platone o platonismo, l'uno o l'altro segna proprio
quel momento che ho affacciato nell'Introduzione : la Ragione fine
a sé stessa (Raziocinio) . Non si arriva, come abbiamo visto, con
Platone ancora alla eliminazione del momento visionario e sensi­
tivo, anzi ne è la premessa, ma in un certo senso egli ha la fiducia
che attraverso il ragionamento sia possibile portare alla visione,
anche coloro che non hanno avuto la fortuna della visione stessa1
anche gli « animi barbari » , come direbbe Eraclito. Tale fu in
Platone la gioia della scoperta nell'uomo di una « particella di­
vina » (iM<X J.lOLP<X), scoperta che anche logicamente e dimostrati­
vamente poteva essere accettata dalla mente di tutti gli uomini,
per cui era possibile che alla fine anche essi potessero vederla.

Col platonismo l'aristocratico, diventa democratico; il mito intui­


zione soltanto individuale, potrebbe diventare Logos collettivo. Quin­
di potremmo ammettere un metodo pedagogico in Platone che si
articolerebbe attraverso le seguenti due fasi: a) tradurre il vedere
e il sentire, che è un'espressione del tutto personale e sommamente
aristocratica, in razionalità, che è il momento democratico-collet­
tivo, b) data la possibilità di una tale traduzione, tentare di portare
gli uomini a un'apertura mentale oltre la quale sta la visione delle
verità eterne.
Se, a proposito di metodo pedagogico, volessimo raffrontare quello
platonico con quello pitagorico, notevole è la differenza ( 1 3 ). In
Pitagora il numero era magico, non era cioè fine a sé stesso, ma
mezzo, era un elemento animato (quindi qualcosa di più della
semplice razionalità), attraverso il quale si tentava di risvegliare
nei presenti quelle sensazioni e quello stato d'animo che erano le
stesse sensazioni e lo stesso stato d'animo del Maestro e che si erano
incarnati nelle cose, mediante l'armonia dei rapporti : si trattava,

89
potremmo dire, di una pedagogia a sfondo magico-ambientale. Sic­
come l 'anima attraverso una sua particolare armonia (disposizione
apparentemente anche meccanica delle cose), riesce a vivere e a
far vivere le cose, queste ritrasmettono ai presenti, quella vita,
quell'anima che in esse si era incarnata.

Nel platonismo invece il « numero » (leggi, categorie, idee) deve


essere preso alla lettera, in sé e per sé, attraverso la sua sola di­
mostrabilità interiore (precartesianesimo) . Ripeto: il « nome » di­
venta sostanza e al posto di una pedagogia magica va sostituendosi
una pedagogia « scolastica », proprio nel senso come le intendiamo
noi ancor oggi, di scuola dove si insegnano « tante cose >> ( « poli­
matia >> eraclitea). Se così è, la razionalità-numero non sarà più come
per i pitagorici, semplicemente un mezzo attraverso cui si possa
esprimere qualcosa che non appartiene più alla razionalità stessa,
quindi una realtà fenomenica entro le sue inevitabili delimitazioni
spaziali e temporali, cioè semplicemente un molteplice complesso
di « effetti >> del Principio supremo che non potrà mai essere feno­
menicamente razionalizzabile, ma la razionalità stessa presumerà
veramente di definire, avrà la pretesa di coincidere col « Principio >>
stesso.
Allorquando Platone nel Fedone muove la critica al Naturalismo
accusandolo in fondo di materialismo, perché esso non era riuscito
ad elevarsi alle cause prime ideali, da quel momento egli cominciò
a ficcare nella mente degli uomini la certezza che essi potessero
razionalmente entrare in possesso di quelle Verità che i Naturalisti
(ingenui ! ) avevano proprio escluso come problema di conoscenza .
Con il platonismo scompare la distinzione tra Principio e causa :
la causa diventa principio accessibile agli uomini e quindi determi­
nabile. Ha così origine la cosiddetta « interiorità spirituale >> .

Il platoni smo suppone di potere investigare razionalmente entro il


« Principio >> e quindi introduce quella forma mentale umana che
presume di potere metodicamente penetrare nelle essenze delle cose.

Per cui, se nei Naturalisti il Principio deve essere considerato quel


Tutto (l'« lndeterminato » ) che come tale non si distingue ancora
dagli effetti (giacché tutte le cose sono nel Tutto e il Tutto è in
tutte le cose) e quindi razionalmente indeterminabile e inafferrabile,
la « causa >> allora che scinde il Tutto dagli effetti, deve essere
considerata come qualcosa di estraneo al Tutto stesso (quindi non
è il caso di parlare di creazionismo divino) .
Ne deriva che il razionalismo platonico, in quanto attività distin­
trice e definitrice, si applicherà sempre e solo agli effetti e il Tutto
(indistinzione tra causa ed effetto) sarà sempre ineffabile. Tra ogni
nostra definizione, per quanto capillare e progressiva e il Tutto,

90
vi sarà sempre un salto qualitativo che non potrà mai essere col­
mato dalla nostra razionalità, ma forse solo attenuato, sino a creare
un'unità organica, dal « numero » magico ( « scienza magica ») . Il
contrasto fondamentale del resto tra il vecchio Parmenide (nel dia­
logo omonimo di Platone) e il giovane Socrate, verte proprio da
una parte sul carattere volutamente rinunciatario di Parmenide a
volere spiegare i rapporti tra le cose e il Tutto, dall'altra invece sulla
bellicosità razionale del giovane Socrate.

L'interiorizzazione del platonismo, il fatto cioè che l'Io, dimentico


in verità di un Principio dove la distinzione tra causa ed effetto
non ha luogo, può spiegare le cause, porta di conseguenza per la
prima volta nel pensiero occidentale alla determinazione di uno
spirito (l'Io che spiega) che si contrappone a una materia (che deve
essere spiegata) . Ma in verità nel Principio-Tutto, non c'è nulla
da spiegare, al massimo di sentire, di vedere e di essere. Platone
scoprì la (( materia », proprio perché volle scoprire lo (( spirito » .

E d è proprio a questo punto, come conseguenza della impostazione


platonica, che qualcosa di estraneo, potremmo dire, entrò nel mondo
greco, qualcosa che ne paralizzò la sensibilità e che tese a soffo­
care il senso magico della Vita ( 1 4). All'animismo universale, alla
magia della forma e del numero di Pitagora che mirava ad estro­
vertirci verso la Natura, verrà metodicamente sostituendosi il for­
malismo, il meccanicismo ed alla fine (perché no?) la mentalità
burocratica. � forse un paradosso affermare che Platone o il pla­
tonismo fu il creatore della burocrazia?

Dinnanzi a questa nuova impostazione del problema della Natura,


vien fatto di chiederci: quali furono i motivi che allontanarono
Platone da quel senso lirico ed entusiastico che ebbero i Naturalisti
greci (pur essendo egli stesso un lirico ed un entusiasta) e da cui
derivò (senza che forse lo volesse) , quel dualismo di spirito e di
materia come entità autonome e originarie, che certo non deve es­
sere inteso come un'espressione originale dell'anima greca? Fu
forse Platone innocente vittima di quella retorica e di quel razio­
cinio dei Sofisti che egli intendeva combattere con le loro stesse
armi e a cui forse solo in minima parte soggiacque il suo maestro
Socrate (ma Socrate sapeva scherzarvi)?

Voglio dire: la razionalità e il (( nome » in sé e per sé, per prin­


cipio e per natura hanno in sé le condizioni determinatrici e !imi­
tatrici che è impossibile pensare che si possano superare? E non
era forse questo l'insegnamento degli �TCEa xat �pya di Eraclito e
del (( nome » di Parmenide? In altre parole: il sentire, il vedere,
il vivere non sono mai traducibili in conoscere, in sapere. La ragione
non può avere che due funzioni: nominalistica, se presa fine a sé

91
stessa : magica, se presa come mezzo. Strumentalismo in quest'ul­
timo caso oltre il quale la conoscenza umana non può mai andare.
Solo quindi la soluzione pitagorica, appunto in quanto considera
la ragione come strumento interpretativo e variabile di una So­
stanza che non è mai definibile, può veramente rappresentare la
soluzione più felice: è logico però che sotto questo punto di vista
la Ragione non è mai « Principio >>. Con Platone invece si finisce
col confondere lo strumento con la verità che mira ad esprimere
l'essenza ultima e definitiva delle cose e ciò che era solo un mezzo
diventa un fine. E possiamo forse localizzare proprio in questa tra­
sformazione del valore, della funzione e dei limiti della ragione, tutto
l'errore e l'equivoco che, in gran parte, in ogni campo, dominano
ancora ai giorni nostri.

Mi si permetta ora di chiudere il presente capitoletto con uno


schema :

-- )o-

92
Natura (Fusis) - Fuoco - Logos - Unità

t t t
attraverso mediante la attraverso il
il divenire visione diretta numero magico
ERACLITO PARMENIDE PITAGORA

« via all'insù » (ava 686c;) : l'esperienza non fine a sé stessa, ma come


mezzo, come trampolino per la « visione » suprema nella « armonia
invisibile » : come annullamento (o potenziamento?) dell'lo fenomenico
nel Tutto;
t
RAGIONE
Ha sempre come punto di partenza la « forma », il « numero », le
« cose », in una parola la diretta esperienza umana. Tuttavia questa
può essere interpretata in modo bifronte e precisamente come:

J,
« via all'ingiù » (xa:ta 686c;): esperienza fine a sé stessa come afferma­
zione dell'Io fenomenico. La Ragione diventa allora
Raziocinio
stacco dell'lo fenomenico dalla « compattezza della Natura ». Gnoseo­
logicamente dualismo accademico di spirito-materia

ERACLITO PARMENIDE PITAGORA


numero fine a
presunzione nome - illusione sé stesso, non
più magico
J, J, J,
Mondo del molteplice

Nota bene. Distinguo la Ragione dal Raziocinio, perché mentre col primo termine
-

intendo l'integrarsi del finito nell'Infinito (e quindi può avere anche un aspetto
magico), col secondo intendo invece l'isolamento (l'« Isolierung » di Hegel) dell'lo
in sé stesso dando luogo alla disorganicità fenomenica.

L'esperienza umana è sempre la medesima: il contrasto scaturisce dal diverso modo


di interpretarla, o, secondo Ragione o secondo Raziocinio.

D'inciso: è la stessa differenza che nella filosofia indiana vi è tra « maya divina »
e « maya umana "· (V. soprattutto il Bhagavad-Gita) .

93
Note del capitolo V

( l ) V. Nietzsche ad esempio, nel « Jenseits von Gut und Bose » (Kroner­


Taschenausgaben, Band 76, pag. 4) : « Parlare di spirito e di materia
come ha fatto Platone era proprio porre la verità a gambe all'aria ...
rinnegare le fondamenta di ogni vita. Si potrebbe anzi come medico do­
mandare: da dove è venuta in Platone una simile malattia, sorta nella
piena fioritura dell'antichità? L'avrebbe dunque corrotto quel malato
di Socrate? Sarebbe allora veramente Socrate un corruttore della gio­
ventù e si sarebbe meritata la cicuta » ?
(2) Ricollegandomi alle citazioni d i Hegel e d i Ramakrishna riportate
nella Premessa, aggiungo qui anche la seguente di HO!derlin: « Santa
Natura, tu sei la medesima in noi e fuori di noi. Non deve essere tanto
difficile unire ciò che è fuori di noi con quel che è divino in noi >>
(analoga alla espressione di Platino).
(3) La condanna della presunta essenzialità del « nome » , condanna
dura, polemica, talora rabbiosa, caratterizza dalla metà del VI secolo
in avanti, anche tutta la filosofia orientale, da Buddha a Lao-tse, a
Ciuang-tse. Secondo Ciuang-tse si realizzerà, col predominio del « no­
me » purtroppo, il trapasso dalla « mente naturale » alla « mente sofi­
sticata » . Le affinità certo tra Naturalisti greci e filosofi orientali con­
temporanei sono numerose e soprattutto radicali. Notiamo tra l'altro
che Plotino e il Neoplatonismo rappresentano senz'altro un meravi­
glioso ritorno di fiamma del Naturalismo greco e anch'essi hanno tanti
punti di contatto con la filosofia orientale. Collegamento per collega­
mento, non si dimentichi l'importanza enorme che l'emanazionismo
plotiniano ha avuto sulle prime correnti cristiane e su tutto il Rinasci­
mento italiano.
(4) Ecco cosa diceva Buddha a proposito della situazione paradossale
che domina il mondo degli uomini : << Quello che dal mondo viene rite­
nuto come reale, come irreale invece giustamente viene visto e speri­
mentato dagli Ariya... quello che dal mondo viene ritenuto irreale,
come reale invece viene giustamente visto e sperimentato dagli Ariya ».
(5) Ma Nietzsche sa dare di Socrate dei giudizi ben più acuti di quello
sopraccennato e che è diventato il modo ufficiale della interpretazione
nietzschiana. Nell'opera sopracitata a pag. 100 dice, per esempio, a
proposito del problema dell'istinto e della ragione : « Socrate stesso con
quel particolare gusto del suo talento - che era quello di un dialettico
superiore - si era subito schierato dalla parte della Ragione: e in
verità che cosa egli ha fatto in tutta la sua vita se non deridere la goffa
incapacità dei suoi nobili Ateniesi, i quali erano uomini istintivi, come
del resto lo sono tutti gli individui aristocratici che non erano mai in
grado di dare una giustificazione del loro agire?
Ma alla fine, nel proprio intimo e nel proprio silenzio, egli rise anche
di sé stesso: egli trova in sé, di fronte alla sua più fine coscienza 'le
stesse incapacità e le stesse difficoltà. Perché, egli diceva, a sé stesso,

94
svincolarsi per questo dagli istinti? Bisogna riconoscere i loro diritti,
cosl pure quelli della ragione: bisogna seguire gli istinti e persuadere
la ragione ad appoggiarli con buoni argomenti. In ciò consisteva la
doppiezza di quel grande ironico misterioso. Egli porta la coscienza a
sentirsi soddisfatta di una specie di inganno di sé stessa: in fondo egli
aveva intravisto l'Irrazionale nei giudizi morali » .
(6) Dice il Taylor a proposito della interpretazione aristotelica di So­
crate: « ... Aristotele evidentemente più che darci una caratterizzazione
completa di Socrate, intende mettere in rilievo la derivazione socratica
di alcuni elementi della propria filosofia e sembra basare il proprio giu­
dizio semplicemente sulla sua interpretazione dei Dialoghi di Platone,
che illustrano abbondantemente tale aspetto » ( « Socrate », « La Nuova
Italia », pag. 1 1 5). Come sappiamo, Aristotele afferma che due sono le
novità del pensiero socratico: le indagini induttive e la definizione uni­
versale e con questo avrebbe dato impulso alle dottrine delle idee; però,
aggiunge, a differenza di Platone, Socrate non separò i concetti dal par­
ticolare e « in questo fece bene », egli completa.

(7) La esatta traduzione della famosa frase di Pitagora quale è?: (( il


numero è l'essenza delle cose »? oppure (( il numero è le cose >> ? Sem­
bra più fedele la seconda. Ma noi abbiamo universalmente accettata
la prima. Si noti allora la deformazione del concetto di (( numero » pi­
tagorico. Altro è certo dire essenza, altro è dire è. Sarebbe ad ogni
modo questo un esempio di deformazione in senso intellettualistico, gra­
vido di incalcolabili conseguenze nella cultura umana.

(8) Il Maier, come sappiamo, vede nel concettualismo socratico, sol­


tanto « un mezzo per dominare tecnicamente la varietà delle cose » . Il
passaggio da Socrate a Platone è un passaggio da praticità a teoreticità
e perciò (( il concetto generale, diventa un oggetto di sapere oggettiva­
mente valido >> ((( Socrate », (( La Nuova Italia », 2 voli., 1943).
(9) Socrate, come sappiamo, sarebbe stato soggetto a (( rapimenti » .
Uno di questi è descritto da Alcibiade nel Simposio: Socrate, a Potidea,
quando era militare, avrebbe avuto un'estasi che durò un giorno e una
notte. V. Taylor (op. cit.): (( Quello che più interessa è che Socrate
possedeva veramente il temperamento del visionario, sebbene, diversa­
mente dalla maggior parte dei veggenti, egli tenesse quel lato della sua
Natura ben a freno come faceva S. Paolo nel suo "dono" delle lingue »
(pag. 29-30).
( 10) Kerenyi (op. cit., pag. 492): (( Il " conosci te stesso � non esorta a
preoccuparsi dell'io e tantomeno degli ultimi problemi connessi ad es­
so: esso è un documento dell'arcaica saggezza gnomica dei "cari savi ",
come Goethe chiama i pensatori pratici prefilosofici della Grecia. La
forma del motto, col suo oracolare carattere polisenso, permette anche
un'interpretazione che lo riferisca alla necessità di un'autocoscienza, nel
senso della conoscenza del proprio carattere ».

( 1 1 ) Ecco cosa dice Nietzsche di Platone nei confronti di Socrate:


(( ... Platone ha fatto di tutto per interpretare in modo delicato e no-

95
bile la tesi del suo maestro, ma soprattutto per interpretare sé stesso...
Sia detto per ischerzo e parafrasando Omero : che cosa è il Socrate di
Platone se non anzitutto Platone, poi ancora Platone e in mezzo una
chimera? » (op. cit., pag. 100).
( 12) Platone - Lettera VII ( « Boringhieri »: soprattutto pagg. 76-82).
A proposito dell'incomunicabilità dice: « .. questa disciplina non è as­
.

solutamente, come le altre, comunicabile, ma dopo molte discussioni


su questi problemi e dopo una lunga convivenza, improvvisamente, co­
me luce che si accende da una scintilla, essa nasce nell'anima e nutre
oramai sé stessa... )) e continua, quasi con linguaggio eracliteo, che
le sue parole potrebbero illuminare soltanto gli animi « non barbari » .
Tuttavia più innanzi affaccia l a possibilità di esporre elementi fonda­
mentali accessibili a tutti per la loro evidenza irrefutabile che possono
portare alla intuizione della verità al disopra degli elementi molteplici
che sono serviti da trampolino. « ... Quarto elemento è la conoscenza,
l'intuizione e l'opinione vera intorno a queste cose; esse vanno consi­
derate tutte come un'unica categoria, perché hanno sede non in suoni,
né in figure corporee, ma nelle anime: è perciò chiaro che la cono­
scenza è altro dalla natura del circolo e dai tre elementi di cui si è
prima detto. Di queste tre categorie, la più vicina per affinità e somi­
glianza al quinto elemento è l'intuizione; le altre invece ne sono più
distanti » .
Mi sembra alla fin fine, che questa settima lettera e i l brano ora ripor­
tato ci ponga dinnanzi a un Platone ben differente del platonismo tra­
dizionale. Si parte dalla premessa dell'incomunicabilità, della intuizio­
ne, diciamo pure della visione e la dimostrazione, nel miglior dei casi,
è al servizio della incomunicabile Verità. In tal caso anche in Platone
si tratta di una Ragione strumentale, quale io intendo e non più di un
Raziocinio.
( 1 3) Per i rapporti pedagogici tra Pitagora e Platone V. Bumet.
( 1 4) V. Schmitt (op. cit., pag. 172): « (con Platone) la Religione
..•

diventa filosofia, cioè essa viene trattata concettualmente. Platone di­


ventò il Maestro della trattazione concettuale di temi religiosi, il padre
dell'alessandrinismo giudaico posteriore, della teologia alessandrina cri­
stiana. " L'al di qua" di un Eraclito in una certa parte delle opere di
Platone cedette il posto a una mistica dei pensieri ».

96
VI Capitolo

E' FORSE POSSIBILE DIMENTICARE HEGEL?

E. forse possibile, quando si parla della grecità in genere, ma di


Eraclito in particolare, dimenticare Hegel? Non diceva forse lo
stesso Hegel che non c'è elemento del pensiero di Eraclito che non
riviva nella sua filosofia? Certo è che la dialettica triadica di Hegel
è molto vicina all'armonia dei contrari di Eraclito, anche se esse
possono essere prospettate secondo due prospettive diverse: lirica
o razionale. Tuttavia esse sono mosse da una esigenza comune: rea­
lizzare l'Unità attraverso il divenire, un'Unità che si articola media­
mente di volta in volta. Nell'uno e nell'altro caso, liricità che non
dovrebbe escludere la razionalità e viceversa: si potrebbe forse
parlare di ritmo vitale.
Tale ritmo vitale, in un modo o nell'altro vuole portarci nel cuore
delle cose, fuori da noi stessi, dal nostro « isolamento » « per per­
derei onde salvarci », come direbbe Hegel ; sintonizzarci con la
realtà che sta fuori di noi per sempre più elevarci, per, soprattutto,
sempre più umanizzarci, che significa ogni volta, rinascere.
Sia per Eraclito come per Hegel, nemico di ogni umanesimo-rina­
scita, è il dualismo, cioè la frattura con la Natura per cui l'uomo
in essa non « fluisce >> più, svilendosi e depotenziandosi: l'uomo
cioè si isola nel proprio Io, non fluisce più nella Natura e questa
al massimo viene considerata come un'entità, atta solo a subire,
nel limite del possibile naturalmente, le norme e le leggi che l'uomo
le impone (mentre, ripeto, con G . Bruno, « non ratio Naturae, sed
Natura rationi lex sit »). Tale contrapposizione, tale dualismo è
estensibile naturalmente ad ogni settore del vivere umano : gno­
seologico, sociale, morale, religioso.
Ma se ci domandiamo: quali sono state le cause di simile frattura,
per cui a un certo momento sembrò che l'uomo si allontanasse
quasi definitivamente, se non per brevi ritorni di fiamma, dal vi­
vere secondo Natura? Rispondiamo : sono precisamente quelle
cause che hanno portato l'uomo all'isolamento ( « Isolierung >> he­
geliana).
Eraclito risponderà: la << presunzione umana ». Parmenide: « l'il­
lusione >> per cui l'uomo scambia l'illusione per realtà, cioè vuole
a tutti i costi rendere reale ciò che è reale solo per il suo Io feno­
menico. Pitagora: l'eliminazione di quell'emanazionismo magico,
che isola l'individuo in sé stesso.

97
Anche Hegel stesso mette a base dell'« Isolamento » , la « Hass »
e la « Neid » (odio e invidia). Se poi volessimo dare uno sguardo
a certe filosofie orientali avremo con Buddha : « l'ignoranza », che
secondo lui nasce proprio dal momento in cui l'uomo dice « Io
so », « Io voglio », « lo desidero » o nel sistema Samkhya « il prin-
cipio dell'attaccamento >> ( « Ahiimkiira ») ecc. ecc.
Si correrebbe forse il rischio a questo punto di scivolare in una pro­
spettiva trascendente-spiritualistica, ma l'errore non sta nelle cose
(la cosiddetta « materia »), ma nel modo come noi interpretiamo le
cose: dall'isolamento dell'Io deriva lo stesso isolamento delle cose.
Si tratta proprio di superare l'isolamento e non certo di impostare
il problema secondo una irriducibile distinzione di materia da spi­
rito. Non dimentichiamo mai ad ogni modo che sia per i Natura­
listi come per Hegel a fondamento di ogni veritiera ricerca c'è
sempre la necessità di passare attraverso le cose per arrivare oltre
le cose e ritrovare quindi veramente le cose. Né certo vi si è sot­
tratto lo stesso Parmenide che più di ogni altro mistico naturalista,
forse ha dato l'impressione di spiccare un volo tale da dare l'im­
pressione di un atteggiamento ostile e nemico del mondo. Ma Par­
menide in verità non accusava le « cose », ma i « nomi » degli
uomini, deturpatori delle « cose » , della realtà .
Ora i l superamento d i ogni dualismo, o meglio, d i ogni frattura
tra Io e Non-Io in modo da colmarne il vuoto onde ricostituire
organicamente la Natura, può essere tentato in due modi:
a) istintivamente, liricamente, intuitivamente col rifiuto di ogni
tentativo razionale-dimostrativo, perché la dimostrazione, qualun­
que essa sia è sempre un « nome » con le sue inevitabili conseguenze
deturpatrici della Natura (Parmenide).
b) dimostrativamente, come sembra nel complesso abbia fatto
Platone. Ora c'è da chiedersi se l'una o l'altra soluzione sia in grado
di risolvere il problema, se cioè ci permetta di entrare veramente
nel cuore della Natura, sintonizzarsi con essa, annullandovisi per
potenziarsi. La soluzione lirica di Parmenide poteva certo prestare
il fianco ad essere interpretata in modo opposto a quello che egli
si proponeva, cioè dare origine al dualismo di spirito e materia e
così infatti lo interpreta lo stesso Platino, ma, chiediamoci, forse
che per determinare il contenuto di Dio-Natura, Parmenide non usa
quell'espressione di « ben compatta sfera », che in fondo ai cosid­
detti spiritualisti, non va tanto a genio, a meno che non la si con­
sideri psicofisicamente?
D 'altra parte la soluzione razionale non è neppure essa in grado di
superare la congenita fenomenica condizionante formalità del « no­
me » . E questo possiamo considerare il fallimento del platonismo,
anche se Platone si proponeva ben altre mete.

98
Una situazione analoga si prospetta nell'SOO tedesco (ma da quan­
do uomo è uomo, nella ricerca della verità, si è sempre prospettata
e sempre si prospetterà). Due infatti sono le impostazioni filosofi­
che tedesche di questa epoca : il lirismo - romantico di Schelling
e la dialettica razionale di Hegel. E precisamente: Schelling si fer­
ma e non si muove dalla impostazione lirico-magica del Romanti­
cismo e guarda con scetticismo alla nuova « dialettica » di Hegel;
perché anch'essa, secondo lui, incapace di scongiurare il trucco
del « nome » .
Hegel, consciamente rendendosi conto del fallimento della razio­
nalità platonica, crede di potere introdurre un nuovo tipo di razio­
nalità, la sua « dialettica » appunto (tanto simile come imposta­
zione, ma su un piano razionale, all'armonia dei contrari di Era­
clito) che metodicamente e armonicamente (il suo processo tria­
dico) possa riempire il famigerato vuoto, mettendosi contempora­
neamente in condizione di offrire agli uomini, non una sola rina­
scita (ogni sintesi dovrebbe sempre essere una nuova rinascita!), ma
ogni possibile rinascita futura.
Riuscì egli nel suo intento? Fu egli veramente un eracliteo che per­
fezionò e completò Eraclito? Seguiamo un po' da vicino, anche
brevemente, la genesi del suo pensiero.
Sappiamo tutti che esiste un Hegel giovane, l'Hegel cosiddetto ro­
mantico (V. i « Theologische Jugendschriften >>) ( l ) e l'Hegel siste­
matico (dalla « Fenomenologia » in poi) : ciò che importa sarà il
mostrare, appunto per mettere in chiaro la nuova soluzione uma­
nistica hegeliana, come avviene la sutura tra il primo e il secondo
momento (2). Due sono i terreni sui quali si forma la personalità
del giovane Hegel, due le fonti di ispirazione iniziali: la Rivolu­
zione Francese e il mondo greco riscoperto e rivissuto in modo del
tutto originale (soprattutto sotto l'influsso di Holderlin) .
La Rivoluzione Francese ha rappresentato per Hegel quel movi­
mento politico che frantumando la rigidità delle categorie sociali
che sembravano stabilite per l'eterno e che contrapponevano in
modo irriducibilmente dualistico, quindi antiumanistico classe a
classe, popolo a popolo (primo esempio di una « Trennung » o scis­
sione hegeliana senza soluzione) , riportò << il fluire della Natura »
( « die fliessende Natur ») entro le irrigidite strutture morali e so­
ciali dei popoli e mise in movimento la storia di tutte le Nazioni
lanciate verso la propria conquista umana. La scoperta della Vita,
della propria Vita, è la scoperta del divino : nello Hegel giovane,
Vita è sinonimo di Dio e questa è una caratteristica che lo rende
tanto affine al vitalismo naturalistico eracliteo.
E proprio a questo proposito egli per istinto, per preparazione cultu­
rale e probabilmente per la potente suggestione di Holderlin, scopre

99
il mondo greco, che da lui è sentito come il mondo delle libere
conquiste individuali, delle libere costituzioni politiche, degli eroi
divini che sanno lottare contro il destino, assorbendolo e ricrean­
dolo in sé, in plastiche espressioni di sempre nuovi « oggetti » che
esprimono poi le nuove rinascite ( « In der Anschauung der Liebe
und im Genuss der Schonheit » : influenza schellinghiana) (3). Il
popolo greco per i primo ebbe il senso della vera eticità, che egli
definisce come « Aufhebung einer Trennung im Leben » (4).
Il popolo greco seppe divinamente vivere perché nei suoi atteggia­
menti, nelle sue azioni, nelle sue creazioni, sapeva di volta in volta,
nella visibile e concreta armonia delle cose, fare balenare quell'in­
visibile armonia (« dass das Gottliche erscheine, muss der unsicht­
bare Geist mi t Sichtbarem vereinigt sein ») (5), che si realizza solo
nel superamento dei contrasti, che se « isolati », nella loro partico­
lare « scissione » ( « Trennung » senza soluzione), non avrebbero
permesso all'uomo di partecipare all'« Essere Vivente » (« Das
lebendige Sein »), a quel « fuoco eternamente vivente )) quindi di
Eraclito, che anche in Hegel è sinonimo di Divinità ; è qui evidente
l'affinità di Hegel con Eraclito, il suo « Lebendiges Sein )) è pro­
prio il « fuoco eternamente vivente )) di Eraclito, l'etere di HOlderlin.
Ciò che soprattutto ci interessa è il fatto che già in Eraclito esista
una polemica contro coloro che in nome di personalissimi « logoi ))
si sono staccati dalla Natura e tutta la polemica di Hegel è proprio
condotta contro questa « scissione )), anche, s'intende, come in Era­
clito, nel campo sociale ( « Trennung )) , che fatalmep.te porta alla
« Isolierung )) ), già denunciata da Eraclito stesso c che andò sem­
pre più affermandosi attraverso i secoli.
Dobbiamo quindi dire che il veleno della scissione, già penetrato
tra gli uomini sin da parecchi secoli prima di Cristo (gli �-rr;Ea xaì.
�pya di Eraclito non sono altro che il « Verstand )) Intelletto di
Hegel e così pure dicasi del « nome )) di Parmenide). Ma ciò che
interessa soprattutto è il fatto che proprio come Eraclito, Hegel ri­
conosce la necessità di elementi contrastanti ( « discordia concors )) )
quali mediatori per la invisibile armonia e li condanna se isolati
dal Tutto, alla cui organica costituzione è necessario concorrano
(quindi non come fine a sé stessi, ma come mezzi) , sostenendo cosi
la necessità del « Verstand )) (Intelletto) per pervenire alla « Vern­
unft )) (Ragione-Logos). « ... und durch den Verstand zum ver­
niinftigen Wissen zu gelangen ist die gerechte Forderung des
Bewusstseins )) (6).
Ma mentre Eraclito non si preoccupa di determinare il come e il
quando ebbe origine nell'umanità tale scissione, Hegel localizza
storicamente il primo insorgere della « Trennung )), nella vita di
Abramo (dobbiamo riconoscere che Hegel era veramente troppo

1 00
ottimista nel giudicare come un modello insuperabile il modo di
vivere dell'antico popolo greco. Come giustifica allora l'ira di Era­
clito verso i suoi concittadini, l'indifferenza di Parmenide, l'ironia
di Socrate, ecc. ecc.? � sempre e solo questione di percentuale) .

Abramo, dunque, per il primo avrebbe ipostatizzato la Natura in


un « oggetto irriducibile » e ne sarebbe così derivata la « perdita
dello stato di Natura » ( « Verlust der Naturzustand ») e perciò
questo « oggetto >> statico, ipostatizzato avrebbe incominciato a pa­
ralizzare sino a soffocarla, la Vita, come movimento, come divenire
e tutte le necessarie mediazioni sarebbero state abbandonate. Con
l'avvento di Abramo, secondo Hegel l'uomo cominciò a isolarsi in
sé stesso e sorse cosi il problema metafisica che altro non rappre­
senta se non un semplice « rispecchiamento » ( « Spiegelung ») del­
l'Io stesso.
Quindi se si può parlare di « caduta » dell'uomo e di peccato ori­
ginale in Hegel, questo lo dobbiamo trovare nel processo di scissio­
ne, nel dualismo (anche Lao-tse diceva pressappoco la stessa cosa),
che venne poi legiferato e perpetuato attraverso giustificazioni me­
tafisiche o comunque intellettuali e categoriali, che diedero origine
a quella « Isolierung » ( « Isolamento ») che crea « la coscienza in­
felice » . Insomma: con Abramo, il mondo greco, il mondo di « co­
loro che si sottraevano al destino » andò perduto.
La impostazione eraclitea ( « discordia concors ») che può essere
considerata senz'altro come il fondamento che precorre la dialet­
tica triadica hegeliana, può essere considerata anche come l'occa­
sione per cui Hegel prospettò lo svolgimento della cultura umana.
Dopo Abramo, infatti, secondo Hegel, con Cristo si tenta di ritor­
nare triadicamente alla conciliazione degli opposti, che è poi « co­
munione » con le cose. La soluzione cristiana è vista da Hegel pro­
prio in senso umanistico, cioè come sintesi degli opposti: l'amore
cristiano avrebbe dovuto soprattutto rappresentare tale sintesi.

� interessante vedere a questo proposito le varie interpretazioni del


Cristianesimo da parte di Hegel. Vi è anzitutto un Cristianesimo
positivo, cioè quello della Chiesa positiva, dell'autorità che trae
origine evidentemente dall'accettazione indiscussa di una « Tren­
nung » , « scissione », legiferata e codificata. Vi è poi un Cristia­
nesimo, che potremmo definire moralistico, tipo kantiano, che rap­
presenta certo una liberazione, in nome della libera coscienza, dalle
forme e dalle formule della religione positiva, ma è un Cristiane­
simo ancora a sfondo soggettivo che sembra dilatarsi con la sua
interiorità sentimentale verso l'oggetto (la « Gesinnung » ), ma che
non ha né la capacità, né il coraggio di « perdersi » (« sich verlie­
ren ») nell 'oggetto e oscilla così senza soluzione: potremmo dire

101
che alla coscienza oppressa e infelice, si sostituisce la coscienza
sentimentale.
Vi è infine il terzo Cristianesimo, quello di Hegel, il Cristianesimo
che attenderebbe ancora di essere realizzato. Il Cristianesimo uma­
nistico cioè, della sintesi degli opposti, della scoperta del divino
nella Vita, della realizzazione del divino solo attraverso la Vita.
In senso perfettamente eracliteo un cristianesimo naturalistico (ma
se ne parla anche nel nostro Rinascimento !), potremmo dire, restau­
ratore e continuatore di un'antichissima tradizione che Abramo
avrebbe spezzato. Ma, come sappiamo, secondo Hegel il tentativo
di Cristo falli, perché il mondo degli uomini gli si pose di fronte
in modo decisamente ostile e irriducibile e Cristo rifiutato dagli
uomini cercò la salvezza in una vita incompiuta ( . . . die Schiksallo­
sigkeit durch die Flucht in unerfiiltes Leben » ) (7).

E cosl la « Trennung » , oramai codificata, passò attraverso i secoli


e naturalmente impedì all'umanità le varie « rinascite » stabili e du­
rature. E quindi si comprende la opposizione di Hegel ad ogni
dualismo della sua stessa epoca, sia al dualismo che mette in dis­
sidio insolubile l 'un termine all'altro, a meno di una forzatura e
di una coazione da parte di uno dei due termini (fenomeno e nou­
meno kantiano), sia all'impostazione dualistica di Fichte che parte
dalla necessaria premessa di scegliere e quindi di eliminare uno dei
due termini. Anche in questi due filosofi (Kant e Fichte), potremmo
allora dire che il vizio di Abramo, per vie traverse, fa ancora ca­
polino. Quindi se in Kant predomina quella moralità che finisce
sempre col « sottomettere >> (Unterjochung) l'individuo all'univer­
sale, col pericolo quindi di dare origine, presto o tardi a una nuova
religione positiva, in Fichte prevale quella individualità ( « Ein­
zelnheit >> ) che si sottrae alla mediazione con la Natura.
Ma Hegel, lo Hegel sistematico è nemico anche di ogni soluzione
lirico-sensitiva, donde il suo disaccordo con l'amico Schelling. Quali
i motivi di tale ostilità? Ogni soluzione lirico-sensitiva, non è mai,
secondo Hegel, una soluzione, perché essa, presto o tardi è desti­
nata a ricadere in un dualismo che contrappone l'intuito alle espres­
sioni naturali e vitali, per cui si verrebbe meno evidentemente a
quei presupposti a sfondo mistico, « Uno e Tutto », sui quali i tre
amici (Hegel, Schelling, Holderlin) erano perfettamente d'accordo.

Perché il problema in fondo sotto questo punto di vista era il se­


guente: mantenere integra l'unità e la « compattezza >> ( « Gedi­
genheit >> di Hegel, �u'V<lv di Eraclito) dell'Essere e della Natura.
Per Schelling solo una soluzione lirica e animistica poteva piena­
mente soddisfare a tale esigenza, che l'Intelletto sempre e ovunque
porta la scissione; lo Hegel invece, pur riconoscendo naturalmente
che l'Intelletto nasconde in sé questo vizio di origine, questo ele-

102
mento di sc1ss1one, vuole proprio usare dell'Intelletto per vincere
l'Intelletto stesso, non malgrado quindi l'Intelletto, ma mediante
l'Intelletto.
Ora secondo lo Hegel, la soluzione intuitiva, portando fatalmente
a un dualismo, ricade in un intellettualismo, giacché dualismo e
intellettualismo sono sinonimi. In un certo senso Hegel non ha
torto, perché anche ammesso che l'intuizione possa esprimere vera­
mente un'esperienza totalitaria, perfetta nella sua indistinzione di
materia e spirito, direi, un'esperienza psicofisica, tale esperienza,
teoricamente e praticamente, finirebbe sempre coll'esprimersi duali­
sticamente: teoricamente perché in un'eventuale formulazione siste­
matico-filosofica, essa dovrebbe sempre contrapporre due realtà di­
stinte: praticamente, perché essa imporrebbe per forza atteggia­
menti e azioni all'individuo in opposizione alla vita concreta, og­
gettiva che scorre dinnanzi a lui.
E questo fu forse il caso di Parmenide, il quale, filosofo monista
per eccellenza, venne invece considerato come il padre del dualismo.
Potremmo forse, con Hegel, pensare che i greci non ebbero (o forse
la ebbero troppo ?) coscienza di questo pericolo (si dovrebbe però
fare eccezione per Eraclito) e cosi le loro rinascite, furono rinascite
isolate, spezzettate, in quanto in un'impostazione lirico-intuitiva, il
dualismo, il vizio di Abramo, può facilmente insinuarsi e svolgere
il suo gioco distruttivo .
Per scongiurare il dualismo quindi non rimaneva che una sola via,
quella a cui ho accennato prima : usare dell'Intelletto per vincere
l'Intelletto e questa era la nuova dialettica e la nuova Scienza di
Hegel, l'unica possibile che potesse indirizzare l'uomo, di volta in
volta, nel centro della Vita, impedendogli ogni evasione da essa.
La formula famosa « Uno e Tutto » che a Tubinga aveva guidato
gli entusiasmi e ispirato le intuizioni dei tre giovani amici, doveva
essere salvata a tutti i costi e sembra che Hegel voglia mantenersi
fedele ad essa sino in fondo.
Bisognava creare una Nuova Scienza ( « Neue Wissenschaft » ) che
nel suo gioco alterno di spirito e materia, di sintesi metodiche, ci
tenesse sempre a contatto con quella « Vernunft » (Logos), con quel
ritmo vitale della Natura che era come la melodia fondamentale
dell'Universo che accentra in sé e regge tutti i complessi e svariati
strumenti dell'orchestrazione. In modo mirabile aveva espresso que­
sto concetto HOlderlin.
Da un punto di vista storico e culturale era necessario scoprire un
metodo che assicurasse all'uomo ogni possibilità di rinascita, che lo
portasse metodicamente a contatto con quel « fuoco eternamente vi­
vente » di Eraclito che è poi la « lebendiges Leben » ( « La vita Vi­
vente ») di Hegel, è l'etere di Holderlin: era quindi necessario im-

103
pedire che l'uomo dopo le sue rinascite parziali, ricadesse nuova­
mente nella morte del dualismo, come sino allora era avvenuto: era
necessario inoltre salvare tutte le rinascite del passato, condannate
altrimenti ad andare disperse, salvare il passato e assicurare l'avve­
nire: era necessario salvare il dolore e la fatica degli uomini. Le
sintesi vitali avrebbero proprio dovuto ogni volta rappresentare la
rinascita, sintesi vitali in cui l'invisibile armonia si fa ogni volta
visibile armonia, in cui ogni volta l'uomo sembra entrare quasi
magicamente in contatto col Dio vivente.

Questo il senso della « rinascita » hegeliana, che non è certo la rina­


scita dell'amico Schelling, il quale solo nelle espressioni artistiche
vedeva la sintesi tra Infinito e Finito, tra forma e sensibilità.
A questo punto nasce un dubbio e ci chiediamo: è riuscito Hegel
a raggiungere il suo scopo (salvare la Vita e salvare la Ragione?)
e a realizzare quindi l'esortazione di Holderlin, « non rinneghiamo
la nobiltà che è in noi, di dare forma a ciò che è informe! ». � riu­
scito quindi Hegel a superare lo scoglio del « nome » ?

Certo è molto dubbio che questo tentativo gli sia riuscito. Egli cer­
tamente va ammirato per il mirabile tentativo, attraverso una nuova
Logica, una nuova Dialettica, di dare forma all'Informe, ma met­
tiamo pure in dubbio che il troppo sensitivo Holderlin avrebbe ac­
colto la soluzione hegeliana. Affascinante la nuova impostazione di
Hegel e mirabile il suo sforzo, tanto affascinante che gli riuscì im­
possibile sottrarvisi: egli si illuse di avere sventato una volta per
sempre il vizio d'origine del « nome », il trucco inevitabile dell'In­
telletto umano.
In verità l'affermazione di Eraclito : non ci si potrà mai bagnare
due volte nella stessa acqua, rimane sempre valida e con Pirandello,
« la Vita può essere solo vissuta, mai rappresentata » . Il primo ten­
tativo di una tale soluzione, cioè quella di portare sul piano del
conoscere, il mondo del sentire, del vedere, del vivere, fu certo
quello di Platone. In un certo senso Platone sta ai lirici greci, come
Hegel al romantico Schelling, ma il suo tentativo fallì e, volente o
nolente, il suo dualismo passò attraverso i secoli senza che mai ve­
nisse risolto sul piano della razionalità: quello di Hegel fu il se­
condo tentativo e poteva sembrare che avesse in sé tutte le possi­
bilità per raggiungere lo scopo.

Ma quasi subito in modo quasi subdolo prese ancora una volta il


sopravvento il « nome »; quindi andò sempre più realizzandosi uno
stacco tra il « nome » stesso e la Vita: la dialettica dei « nomi »
hegeliana, divenne uno schema astratto e solamente funzionale, il
quale finì col vedere lontano da sé, staccato da sé, scorrere il flusso
della vita concreta. Da un punto di vista semantico potremmo dire

104
che il significante ancora una volta ruppe i suoi rapporti vitali col
significato.
Forse che allora la rampogna del primo frammento di Eraclito e il
rimprovero dell'opinione-illusione di Parmenide non potrebbero es­
sere diretti anche contro Hegel? Tra il periodo giovanile di Hegel
e il periodo della sistematicità vi è una sutura solamente logica, non
umana e tutta la pienezza stupenda della sua gioventù, tutta la ric­
chezza inesauribile dei suoi stati d'animo, tutta quella sua partico­
lare sensitività, vennero sempre più svuotandosi di ogni contenuto
e il « nome >> ancora una volta alitò vuoto al disopra della pienezza
della Vita, al servizio magari di quegli assolutismi politici che il
giovane Hegel aveva proprio combattuto. Tanto è vero che per tro­
vare un senso nei termini filosofici dello Hegel sistematico, è neces­
sario risolverli ancora nelle sue òrigini sensitive e umane della gio­
ventù da cui essi sono scaturiti, ma allora rompiamo lo schema, ri­
torniamo al mondo predialettico, in quel mondo cioè lirico-magico
in cui Schelling volle perseverare (sarebbe inoltre necessario chie­
derci se, fin dove e fino a quando, HOlderlin influì su Hegel). A
meno di dare un significato magico alla sua terminologia.

Allora in definitiva avrebbe ragione l'amico Schelling per il quale


il « nome », qualunque esso sia, e quindi la nostra stessa Scienza
non ci dà mai la vita concreta e l'anima delle cose non riesce mai
a depositarsi sui reticoli degli schemi razionali? Diceva Schelling
in una lezione monachese : « Il fatto di una battaglia per esempio,
non consiste nei singoli assalti, nei colpi di cannone o in tutto ciò
che della cosa si può percepire in modo puramente esteriore. Il
fatto vero e proprio è soltanto nello spirito del generale. Il fatto
bruto, il fatto puramente esteriore di un libro è che in esso, lettere
e parole stanno le une accanto alle altre e dopo le altre; ma di ciò
che in tale libro è il fatto vero, lo sa soltanto colui che intende il
libro. Considerato da un punto di vista puramente esterno, un'opera
ingegnosa e profondamente pensata, non si distingue da un'opera
superficiale o del tutto sciocca e priva di pensiero; chi dunque si
tiene soltanto all'esterno, non sa assolutamente niente di ciò che in
un libro è il fatto vero » .
Schelling non poteva dare che una soluzione magico-lirica, perché
solo nella creazione dell'arte vedeva l'unica possibile rivelazione
concreta di quell'anima delle cose che lo schema dell'I ntelletto ri­
caccia sempre nel profondo della propria origine e del proprio mi­
stero e presso di lui il « nome » conserva ancora il senso che aveva
in Eraclito e in Parmenide: opinione, illusione, rinnegamento della
Vita, della Natura.

Schelling nella soluzione di quel problema che anche Hegel nella


sua originaria impostazione aveva chiarissimamente sentito e vis-

105
suto, è, a mio avviso certamente più vicino ai Naturalisti greci di
quello che lo sia Hegel (ma Schelling era anche stato influenzato
dal Rinascimento naturalistico italiano ! ) : tuttavia ciò che importa
mettere in evidenza è che dopo secoli e secoli di tentativi (dei quali
forse quello di Hegel è il più mirabile) , la sistematicità razionale
degli uomini non è riuscita a dare una risposta a quel punto interro­
gativo che era una delle fondamentali premesse dello Hegel giovane,
lirico e mistico, ma che mantiene intatta tutta la sua validità anche
per lo Hegel maturo, dialettico e sistematico: « I l rapporto che uni­
sce l' Infinito al Finito è certamen te un grande mistero, giacché que­
sto rapporto è la Vita stessa » .
Rimarrebbe quindi a questo punto solo l a soluzione estetica, della
Ragione magico-artigiana-interpretativa. Intelletto o dialettica hege­
liana non possono mai « dare forma all'Informe ». La verità ultima
giace nel grembo della Natura ( « la Natura ama nascondersi » diceva
appunto Eraclito) o nello sguardo penetrante del visionario (Bud­
dha, « occhio dell'Universo ») : a noi la capacità di viverne e di in­
terpretarne i colori o, come diceva Ramakrishna, la capacità e la
possibilità di « tuffarsi » ogni volta nelle diverse e variopinte realtà,
per uscirne ogni volta, depositate le vecchie scorie, irrugiadati di
sempre nuova vita.

106
Note del capitolo VI

( 1 ) Tradotto: « Gli scritti teologici giovanili » (Tubinga, Ed. Mohr,


1907). Nel testo quasi sempre riporto le citazioni tedesche: in calce le
traduzioni, che spesso saranno tradotte piuttosto liberamente e perché
il lettore che sa il tedesco, si renda più direttamente conto di una certa
terminologia particolare che spesso non può trovare l'esatto corrispon­
dente in italiano.
(2) A proposito della sutura Finito-Infinito, Senso-Ragione, Intelletto­
Vita, non posso non accennare, anche se si tratta di uno scrittore (e
grande), più che di un filosofo, a Hermann Hesse. Come filosofo in nuce
puoi vedere la sua concezione iniziale umanistico-hegeliana. Senonché
Hesse, in una visione di amplissimo respiro, dilata la sua concezione e
la sua ricerca di una « sutura », a tutto il mondo buddistico e infine
taoistico cinese (sintesi Occidente-Oriente). V. soprattutto a questo pro­
posito i suoi romanzi « Narciso e Boccadoro >> e soprattutto, da un pun­
to di vista filosofico, « Il gioco delle perle di vetro » .
(3) « Nella visione dell'Amore e nel godimento della Bellezza » .
(4) « Superamento nella, Vita di una scissione » .
(5) « Perché il divino possa apparire, lo spirito invisibile deve essere
connesso con il visibile » .
(6) « ... l a più pertinente esigenza della coscienza è proprio quella di
pervenire al sapere razionale attraverso l'Intelletto » (Attenti alla ter­
minologia hegeliana).
(7) « ... sottrarsi al destino fuggendo verso una vita incompiuta, non
realizzata ». Da questa « fuga » dal mondo, notiamo d'inciso, per Hegel,
nasce il senso della trascendenza. Il mondo ha tradito Cristo, la sintesi­
comunione, Cristo non ha potuto realizzarla su questa terra: Cristo in­
somma ha fallito e ha preferito andarsene; da qui il famigerato duali­
smo. Un nuovo Cristianesimo dovrebbe essere tale da realizzare la sin­
tesi-comunione su questa terra : allora l'avvento di Cristo potrebbe ave­
re ancora un significato. Almeno il « religioso » Hegel cosl la pensa.

107
VII Capitolo

APPUNTI, IPOTESI, SUGGERIMENTI,


SUI RAPPORTI TRA FILOSOFIA NATURALISTICA
OCCIDENTALE ED ORIENTALE

Nel presente lavoro non trova evidentemente posto una ricerca sto­
rica sui rapporti tra Occidente ed Oriente, che pur sarebbe così
necessaria a testimoniare gli stessi ininterrotti rapporti spirituali e
culturali. Tuttavia ognuno di noi sa che nell'antichità, da Pitagora
sino a Plotino, che volle seguire in Asia l'imperatore Gordiano per
studiare la religione persiana, questa aspirazione a diretti concreti
incontri, al fine di conoscersi, non venne mai meno.

Anche con Roma si tentarono approcci culturali e anche nel nostro


stesso Rinascimento, grandi pensatori come Cusano, Marsilio Ficino,
Campanella, aspiravano a una universalità religiosa tra Occidente
ed Oriente, dimostrando quanto profonda fosse sentita, quasi con
nostalgica angoscia, l'affinità elettiva spirituale di popoli tanto di­
versi (che dire poi di G. Bruno che inconsciamente sembra rivivere
tanti aspetti della filosofia orientale?) . Una comune, atavica, quasi
del tutto dimenticata, ma sempre ricercata civiltà doveva quindi
essere alla base delle singole civiltà. Ai tempi nostri poi, con
un'espressione letterariamente piuttosto convenzionale si è abituati
a dire « la luce viene dall'Oriente » .

S i trattava certo nel passato d i u n Oriente che nel complesso esclu­


deva la civiltà cinese; tuttavia non dobbiamo dimenticare che tra
India e Cina frequentissimi erano gli incontri culturali e instanca­
bili studiosi cinesi (anche per le lunghe marce che dovevano soste­
nere), si mettevano in cammino verso l'India per studiarne le reli­
gioni: tanto è vero che una leggenda dice che Buddha sia stato
l'incarnazione di Lao-tse. Ad ogni modo, non leggenda, ma avveni­
mento storicamente e culturalmente tangibile, esiste un buddismo
cinese, un buddismo cioè che dapprima importato dagli studiosi-mar­
ciatori cinesi in Cina, fece poi ritorno in India e vi prese piede sin­
cretisticamente reinterpretato.

E allora perché non supporre una linea ideale che unisca taoismo­
naturalismo greco, Laotse-Eraclito o viceversa? (le vie del pensiero
sono veramente misteriose) (« idee nell'aria », direbbe G. B. Vico) .
Ad ogni modo e più esattamente, perché non riconoscere un comune
modo di sentire, se, soprattutto s i pensa che una Lao-tse, un Bud-

109
dha, un Eraclito vissero, pressappoco nello stesso periodo di tempo?
(VI sec. a. C.): un antico comune modo di sentire che sempre più
veniva espulso sino ad essere sradicato dalla mente degli uomini da
un nuovo modo di sentire, che è poi un vivere contro Natura, « quan­
do » - dice Lao-tse - « gli uomini antichi calmi venivano, calmi
partivano, dolcemente, come planando » ?
L a presa d i posizione quindi d i tutti questi grandi personaggi, sarà
una presa di posizione nettamente polemica contro il nuovo, aber­
rante, modo di sentire, unita, soprattutto nei filosofi orientali, a un
profondo senso di nostalgia per una civiltà forse definitivamente
scomparsa.
Ma se dovessimo chiederci quale è il vizio d'origine di una tale
aberrazione, se dovessimo trovare un denominatore comune che ne
sta alla base, dovremmo con Ciuang-tse, genericamente rispondere
che tale comune denominatore è segnato, dal passaggio, nell'uma­
nità, dalla « mente naturale » alla « mente sofisticata », il che si­
gnifica, con una più aderente ed accettabile espressione, dal pas­
saggio dalla antica civiltà del senza nome ( « originaria semplicità
senza nome » , dice Lao-tse) alla nuova civiltà dei nomi e sempre
con Lao-tse: « Quando la Primitiva Semplicità mutò, si ebbero molti
nomi. Non ve ne sono dunque abbastanza? Non è questo il momento
di fermarsi? » e nostalgicamente con Ciuang-tse, « Possano entrare
dal di fuori, nel campo del cuore, gli esseri che non hanno più
nome ». E qui credo opportuno riferirmi ancora (già citato nella
prefazione) al brano paradossale del visionario Lao-tse che sembra
quasi volerei riportare ad un Paradiso irrimediabilmente Perduto,
tanto enigmatiche ci possono apparire le sue parole :

« Il sapere degli antichi era perfetto. Dapprima essi non conosce­


vano l'esistenza delle cose . . . essi erano in compagnia del Creatore
ed erravano nell'unico soffio del cielo e della terra . . . questo è il più
perfetto sapere : nulla potrebbe essere aggiunto. Poi essi conobbero
l'esistenza delle cose, ma ancora non fecero distinzione tra esse.
Poi fecero delle distinzioni, ma non formarono affatto giudizi su
di esse. Quindi formarono giudizi e il Tao fu distrutto. Con la
distruzione del Tao nacquero le preferenze individuali )),
La civiltà dei nomi quindi segnò la frattura della civiltà del senza
nome, segnò quella che Hegel definisce la « Verlust der Naturzu­
stand )) (« perdita dello stato di Natura » : il concetto di Natura­
lismo non può essere estensibile anche alla visione hegeliana?).

Dobbiamo a questo punto chiarire, anche ripetendolo, che cosa dob­


biamo intendere per Natura, nell'accezione di quei grandi natura­
listi. Per Natura o per vivere secondo natura dobbiamo intendere
la perfetta sintonia tra soggetto e oggetto sino al superamento dei

1 10
due termini stessi in un terzo elemento, cui gnoseologicamente non
può corrispondere da parte dell'uomo un giudizio de{iniente (V. il
brano di Lao-tse sopra riportato) , ma può corrispondervi solo
(quasi psicofìsicamente parlando) la visione-sensazione, che sola
può porci a contatto e farci coincidere con quel terzo elemento che
non è né soggetto né oggetto e quindi non accessibile alla nostra
conoscenza distintrice.
La visione ci fa entrare nella cosa, ci fa essere la cosa, trapassare
la cosa stessa e fluidificare sempre, altrove, attraverso l'Universo e
gli spazi infiniti e allora, proprio secondo natura, vivevano quegli
antichi esseri « angelici » , che, come dice Lao-tse « . . erano in com­
.

pagnia del Creatore ed erravano nell'unico soffio del cielo e della


terra » .
L'inizio della caduta dell'uomo, sarebbe stata quindi l'apparire della
civiltà dei nomi e se si volesse prendere uno spunto nello studio dei
legami che uniscono i diversi Naturalismi greci o orientali io par­
tirei dal raffronto del primo frammento di Eraclito (già analizzato
in precedenza) col primo frammento del Tao-te-king di Lao-tse:
troppo evidente è la loro affinità. Non è qui il caso di fare un'ana­
lisi particolareggiata dei due frammenti, ma riporto qui, anche se
può apparire alquanto enigmatico, il frammento di Lao-tse: al let­
tore il raffronto : « Il Tao di cui si può parlare non è l'eterno Tao
(Logos) - Il nome che può essere nominato non è l'eterno nome ­
il senza nome è l'inizio del cielo e della terra - il nominato è la
madre di tutte le cose. - Essere sempre nello stato di non-essere
è vedere le cose. - Essere sempre nello stato di essere è vedere le
tendenze » (C'è qualcosa di più in Lao-tse che in Eraclito).
Ad ogni modo, come si vede, il « nome », la definizione, il numero,
per cui gli uomini (lo si dice anche nel brano sopracitato del Tao­
te-king) finiscono collo scambiare l'Essere con il Non-Essere e il
Non-Essere coll'Essere, saltano sempre fuori, come causa di aber­
razione dalla Verità-Natura-Logos .

I l « nome » , nel Tao-te-king (che pur essendo forse stato nel suo
complesso composto parecchi secoli dopo Lao-tse, gli è innegabile
l'eredità spirituale), è sullo stesso piano degli �'ltEOC xoct �pyoc che let­
teralmente si dovrebbero tradurre « parole e azioni » , ma che qui,
nel caso di Eraclito, ha un carattere piuttosto spregiativo (ricorda
un poco le « parole, parole, parole, » shakespeariane) .

E sullo stesso piano del « nome » di Parmenide: punto di vista in­


dividuale isolato dall'Universale, quindi illusione : (velo di miiya).
Può essere considerato sullo stesso piano del « numero >> di Pita­
gora, perché Pitagora affermando che il « numero è le cose >> (e non,
si badi bene, è « l'essenza delle cose >> ), lega l'uomo a una cono-

111
scenza scientifica che si presenta sotto un aspetto relativistico e
inoltre affermando che la Monade è un numero parimpari, si rife­
risce ad uno strano « numero » che non è rappresentabile e quindi
non è « numero » .

L'unico possibile tramite tra il nostro « numero » e il Non-Numero,


l'unica possibile pacificazione tra finito e Infinito, tra terra e cielo
potrà allora essere dato dal « numero magico », dalla scienza magi­
ca (la scienza magica che in tal senso ha tanta importanza anche
nelle filosofie orientali) . E non si muove infine sullo stesso piano
lo stesso Socrate nella sua presa di posizione contro il gioco di pa­
role dei Sofisti, preso fine a sé stesso?

Riassumendo: l'allontanamento dal vivere secondo Natura degli


uomini, potrebbe essere trattato secondo un processo discensivo
per gradi . Dapprima, si potrebbe dire, piuttosto genericamente, qua­
si fosse un sentore piuttosto che dati di fatto ben individuabili, dal
passaggio della « mente naturale » (troverebbero qui posto i pri­
mordiali spiri ti, diciamo « angelici », di Lao-tse? Si tratterebbe ad
ogni modo di uno strano modo « paradisiaco » di vivere, che non
può avere nessuna analogia col nostro) alla « mente sofisticata ».
Di poi in un secondo momento, con dati di fatto ben individualiz­
zabili, la causa di tale passaggio viene localizzata nell'affermarsi e
nel predominare del « nome » e si realizza cosl il passaggio dalla
« civiltà del senza nome », alla « civiltà del nome ».

Colla « civiltà del nome » entriamo in quella che possiamo dire sia
la storia visibile dell'uomo, con tutte le relative complicanze di
problemi politici, sociali, economici (l'altra, la « angelica », era
evidentemente invisibile). Tuttavia in questa civiltà visibile del
« nome », sempre dall'alto verso il basso, possiamo distinguere due
periodi. Il primo, quello a cui si riferiva Lao-tse, in cui cioè gli
uomini, non disprezzavano del tutto il « nome », ma lo ponevano
in secondo piano. Il « nome » cioè (la Ragione reintegrata nella
sua funzione artigiana-magico-strumentale) è perfettamente legit­
timo quando si inserisce in un piano universale che, potrei dire, lo
nutre, rinnovandolo.
Ci muoviamo quindi in un campo, che, a volere essere ottimisti, po­
trebbe essere accettabile dall'umanità o dovrebbe essere la meta
delle sue aspirazioni naturali e spirituali. Col secondo periodo siamo
alla fine della scala discensiva : il « nome » definitivamente fine a
sé stesso, l'azione definitivamente fine a sé stessa: le « parole » al
servizio solo delle proprie azioni-interessi. � quello che Hegel chia­
merebbe il predominio della « Einzelnheit » (Individualità) e che
porterebbe alla « Isolierung » ( « Isolamento ») e che per Lao-tse
segnerebbe la definitiva affermazione delle « preferenze individua-

1 12
li ». � il distacco definitivo dalla Natura, è la « Trennung » hege­
liana.
Ma qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi : ma da che cosa
deriva questo predominio del « nome » fine a sé stesso, il quale
certo non può essere considerato come un'entità astratta vagolante
nel vuoto, ma che ha una sua inevitabile dinamica nella storia de­
gli uomini, anche se porta in sé il veleno della scissione, della lotta,
dei contrasti insolubili ? : a quello cioè che noi siamo soliti defi­
nire la Storia e quindi la Scienza storica? Ci deve pur essere dietro
qualcosa di concreto. Rispondiamo, facendo eco a quello che è il
punto di vista comune dei Naturalisti : il vizio primordiale sta nel­
l'insorgere, nell'affermarsi sempre più, dell'individuo, fuori dall'ar­
monia universale, dell'lo di tutti gli Io, che vogliono singolarmente
imporsi, come prepotenti valori universali.
Infatti l'Io è sempre e inevitabilmente legato alle espressioni: « Io
so », « Io voglio », « Io desidero », << Io miro a ... » (finalismo), tut­
te espressioni della civiltà dei « nomi », delle « false virtù », di­
rebbe Lao-tse: grumi di materia non più fluidificantisi. Di fronte a
questo capovolgimento di valori morali che porta l'uomo allo stacco
dalla Natura, l'lo è l'imputato numero uno di tutti i filosofi Natu­
ralisti che ho, quasi simbolicamente, presi in considerazione. Di­
fatti :
Eraclito: è la tracotanza e la presunzione dell'uomo che lo ha
portato fuori strada per cui non vede più le cose come veramente
sono. Parmenide : più bonario. � l'illusione che ha portato l'uomo
a vedere lucciole per lanterne. Pitagora (che non scrisse nulla) . Dob­
biamo supporre che abbia voluto superare la limitatezza del numero
fine a sé stesso, attraverso un'interpretazione magico-emanazionisti­
ca. Difatti non si può fare a meno del « nome », perché « nome »
vuole dire « cose » e delle « cose » non si può fare a meno.
Lao-tse: l'apparire della coscienza ( « Io so ») è il vizio d'origine:
« Quando la coscienza apparve, il grande artificio cominciò, perciò
è detto che l'uomo perfetto non ha io . . . il vero saggio non ha no­
me ». Ciuang-tse, come Lao-tse, contro la coscienza, contro il desi­
derio ( « Io voglio, Io desidero » ) « il peggiore delle maledizioni
umane » . Buddha : l'ignoranza (avidia). Se l'« Io so » , l'« Io vo­
glio », « lo desidero » il cosiddetto sapere umano segnano proprio
quegli atteggiamenti che ci sprofondano sempre più nell'errore (nel
caso di Buddha, dolore, afflizione, morte), questo allora significa che
il sapere dell'uomo è vera ignoranza, che si manifesta subito nel
condensarsi in quel nama-rupa (nome-forma) che segna il concreto
distacco dalla Natura. � necessario per Buddha trovare il modo di
distruggere l'Io per salvarsi . « Colui che distrugge l'Io sono, costui
conosce la beatitudine suprema » egli dice.

1 13
L'isolamento dell'Io, cui automaticamente e parallel amente corri­
sponde un'isolamento delle cose fuori di noi, rompe la sintonia na­
turale e viene meno a quello che Ciuang-tse, con magnifica espres­
sione, chiama « l'appello che risponde all'appello » . Tutta la filo­
sofia che abbiamo visto potrebbe essere definita con « monismo na­
turalistico » (forse il termine non è del tutto esatto) ed è ad ogni
modo contro ogni forma di dualismo. Il dualismo sorge proprio
dall'affermarsi dell'Io raggrumato in sé stesso, che non ha più la
capacità di penetrare, di essere, di fluire sinton icamente nelle cose.
Veramente : « l'appello », non risponde più « all'appello » . Lao-tse
affermò che la caduta dell'uomo ebbe inizio dal giorno che si di­
stinse il Bene dal Male e Buddha, « dal dualismo sorgono ira, men­
zogna, odio, dubbio e altre cose » .
Se comune fu, in Oriente e in Occidente i l modo d i sentire e di
vedere degli antichi naturalisti ( « civiltà mediterranea » ?) differente
fu tuttavia il modo come dal monismo naturalistico, si passò al
dualismo. Non credo che nell'Oriente esista un dualismo antolo­
gico, quale quello europeo, d'origine platonica (non lo è neppure
il sistema Samkya che gode la fama d'essere l 'unico sistema dua­
listico indiano) : dualismo antologico e logico che nel Cristianesimo
sarà talmente radicalizzato, da introdurre il concetto di un peccato
originale irrimediabile da parte dell'uomo, che può essere salvato
solo dall'alto per un gratuito intervento divino.
Se tuttavia dobbiamo ammettere la mancanza nella filosofia orien­
tale di un dualismo antologico-logico-dimostrativo, dobbiamo tutta­
via riconoscervi l'esistenza di un dualismo che potremmo definire
morale-psicologico che nasce dall'affermazione dell 'Io e precisamen­
te, « Io sono nel vero » , « Tu non sei nel vero » : onde la prolife­
razione d'innumeri ordini religiosi, l'un contro l'altro armato, che
Buddha aveva appunto combattuto a spada tratta perché alla vi­
sione dell'Universale Verità, era andato sostituendosi la conoscenza
presuntuosa del proprio meschino lo: donde la frattura sintonica
con la Natura con relativo dualismo.
Ci spostiamo quindi da un dualismo antologico (ocddentale) a un
dualismo psicologico-morale, ambedue tuttavia, se ben si pensa, ri­
conducibili al denominatore comune del piccolo « Io >> (presunzio­
ni, desideri, coscienza condizionante, scambio dell'ignoranza con il
vero sapere) per cui si finirà col mettere nel pugno di questo pic­
colo « Io >> un'arma di offesa ad oltranza e attorno ad esso una co­
razza di difesa impenetrabile.
Il dualismo in Occidente mi sembra molto più corazzato e quindi
più difficilmente scongiurabile, proprio per la sua impostazione lo­
gica e antologica che viene elevata a criterio di una Verità che non
deve essere messa in dubbio. A esprimerci in parole semplici , anche

1 14
se forse a qualcuno potranno apparire irrispettose: in Occidente ci
si è forse organizzati meglio e il millenario centripetismo di Roma
ha dato forse luogo a una burocrazia (Platone?) più solida e capil­
lare e più articolata della burocrazia orientale. Certo il vivere se­
condo Natura, la cui crisi era già stata denunciata da quegli antichi
personaggi del VI sec. a. C . , è andata oggi definitivamente a farsi
friggere.
La « civiltà dei nomi » , soprattutto dopo l'ultima grande guerra,
sembra avere raggiunto le sue manifestazioni più parossistiche. « La
originaria semplicità senza nome » , come dice Lao-tse, sembra inar­
restabile, precipitare lungo una china rovinosa e il mirabile appello
di Ciuang-tse « possano entrare dal di fuori, nel campo del cuore
gli esseri che non hanno più nome », non sembra trovare più nes­
suna eco. La « polumatia » di Eraclito sembra avere raggiunto il
fondo. E proprio oggi ci appaiono di grande attualità le prese di
posizione, talora irose (Eraclito), talora più staccate dalle cose mon­
dane (Parmenide), talora polemiche (Buddha-Lao-tse) ed anche iro­
niche (Socrate) contro l'insorgere della « civiltà dei nomi )), forse
allora solo in gestazione.
E sembra anche, coinvolti in una routine mostruosa, che noi si
vada sempre più cancellando dai nostri cuori e dalle nostre intel­
ligenze, quelli che furono, nella nostra civiltà occidentale i grandi
fari della umana spiritualità: Rinascimento (arte), Illuminismo (in­
telligenza), Romanticismo (sentimento visionario). E in questa rou­
tine del « nome )), con inconscia tenacia, come se avessimo tutti
perduto la testa, si continua a perseverare nella puerile illusione di
trovare proprio attraverso il « nome )), la soluzione di tutti i nostri
problemi.
E proprio a questo punto insorge la drammatica situazione della
nostra gioventù che si vede metodicamente tradita da coloro che
ne dovrebbero interpretare le spontanee, genuine, non condizionate
aspirazioni. Oggi predomina dall'alto la malefica tirannica sugge­
stione dei « nomi )) (fasulla democrazia ! ) : dalle idee politiche che
si devono seguire, al modo di vestire, allo stesso modo di fare
l'amore! Ogni spontaneità, sin dagli inizi della vita , è soffocata,
ogni slancio stroncato. Quale meraviglia allora se oggi i nostri gio­
vani, queste nuove vite quasi per miracolo sempre nuove, non si
sentano disperse, talora istericamente e caoticamente esagitate: ne­
gata ad essi, attraverso sé stessi, ogni meta da raggiungere in cui
possano veramente realizzarsi come uomini, nessuna meraviglia che
al limite, purtroppo, si sfoghino in azioni delinquenziali e nella dro­
ga. Non è tutto questo forse se non il logico risultato della « civiltà
dei nomi ))?
E. necessario irrugiadarsi d'Infinito, non certo di un Infinito che è
astrattamente fuori e lontano da noi, di un Infinito cioè coattivo e

1 15
dogmatico, ma di un Infinito che sta dentro di noi e che sta di
fronte a noi stessi: nell'umanità degli uomini, nella Natura, nelle
cose : penetrarvi, attingervi, captare e carpire i tesori nascosti.

Che cosa sarebbe questo nostro piccolo globo terrestre se non si


nutrisse dell'Infinito incommensurabile che lo abbraccia? (V. il « re­
spiro » di Pitagora) . Che cosa sarebbero le svariate infinite manife­
stazioni della Natura, anche le più microscopiche, se non riceves­
sero il loro nutrimento dai cieli infiniti che le sovrastano? Ma a che
cosa si riduce oggi l'umanità, motorizzata, robottizzata, testizzata,
sloganizzata, incatenata a una diabolica meccanicità che la stritola?
Le prospettive certo di questa nostra umanità del dopo guerra non
sono rosee e soprattutto oggi è sempre di grande attualità il monito
di Lao-tse: « Quali sono le rovine dell'umana natura? Sono le teo­
rie artificiali che hanno turbato i cuori e falsata la Natura. Ecco
i nemici della natura umana. . . le regole artificiali soffocano, im­
prigionano, come potrebbero gli uomini essere felici? . . . l'ideale
della felicità sarebbe forse lo stato del colombo selvatico chiuso in
una gabbia? Povera gente ! Le loro teorie sono un fuoco che tor­
menta il loro interiore e i loro riti sono un corsetto che rinserra il
loro corpo. Cosi torturati e saldamente legati a chi potrei parago­
narli? A dei criminali tormentati? a delle belve messe in gabbia?
E questa la felicità »?

Una speranza? I velocissimi e frequentissimi mezzi di comunica­


zione (e in tal caso benedetta sia la stessa macchina che diventa
uno strumento necessario) portano ininterrottamente gente di tutte
le razze e dalle più lontane terre a umanamente conoscersi e so­
prattutto i giovani nei loro incontri spontanei e non condizionati,
andranno inconsciamente forse riscoprendo i valori spirituali che
accomunano i popoli.

Un pericolo? il « nome », la macchina forse finirà col ricoprire di


una pesante e impenetrabile coltre l'umanità di questi nostri con­
tinenti . Questa ultima ipotesi, sembra, oggi putroppo, logicamente,
ma solo logicamente, la più probabile. Ma la Speranza rimane: la
Storia, la vera Storia (non la piccola storia fatta a tavolino dagli
eruditi sistematici, attraverso fasulle elocubrazioni dialettiche), for­
tunatamente, segue molto spesso le vie illogiche, che, nel nostro
caso, siano le benvenute.

1 16
VIII Capitolo

BIBLIOGRAFIA

Mi limito naturalmente alla bibliografia che più mi ha interessato nel


presente lavoro.

l ) Nietzsche Qui sarebbe necessario rifarsi a quasi tutte le opere


-

di Nietzsche. Che i legami che uniscono Nietzsche ai Naturalisti, siano


profondi è più che evidente ( « Voglio anche l'ascesi nuovamente natu­
rale » , egli dice). Egli stesso a proposito di Eraclito nell'Ecce Homo
(Bocca, 1 922): (( Prima di me questo passaggio dall'emozione dioni­
siaca in un'emozione filosofica non c'è: manca la sapienza tragica: ne
ho cercato invano le tracce anche tra i grandi filosofi greci, quelli di
due secoli avanti Socrate. Un dubbio mi restava a proposito di Eraclito,
in vicinanza del quale mi sento più caldo, più a mio agio che in qua­
lunque altro luogo. L'affermazione dell'annientamento e della distru­
zione - ciò che più importa in una filosofia dionisiaca - l'accetta­
zione dell'opposizione e della guerra, il divenire con radicale denega­
zione perfino del concetto dell'Essere, in ciò devo riconoscere, in ogni
caso, quello che fu pensato finora più vicino alle mie idee.
Potrebbe darsi che la dottrina dell'eterno ritorno, cioè del fatale, infi­
nito ripetersi di tutte le cose, - questa dottrina di Zaratustra - in fin
dei conti sia già stata insegnata >> (pag. 71). Potremmo dire che Nietz­
sche abbia rivissuto di quella filosofia, il più profondo senso di una
potenza vitale veramente dionisiaca non soggetta ad alcun finalismo, il
quale riveste sempre un carattere solamente teorico e astratto. Tale
senso vitale è proprio quello che gli fa sentire la tragedia sotto il suo
aspetto ottimistico, cioè la tragedia come potenziamento di vita, come
« più vita >> . E questo stesso senso lo pone in contrasto con ogni forma
di platonismo, di dualismo di bene e di male che presume avere un
carattere di eternità, quindi contro la morale.
La profonda coscienza della sua solitudine gli deriva, da un punto di
vista storico, potremmo dire, dalla difficoltà enorme, per non dire im­
possibile, di sbarazzare la strada da tutto quel platonismo o socratismo
(sul significato però della vera essenza del pensiero platonico e socra­
tico, qua e là nelle sue opere egli affaccia dei dubbi. Platone per lui è
sempre un enigma e Socrate è soprattutto apprezzato e sentito come
ironista) di cui tutta l'umanità sembra radicalmente imbevuta. Il suo
stesso linguaggio, il suo esprimersi filosoficamente che almeno in parte
deve correre lungo la falsa riga del linguaggio filosofico contemporaneo,
gli sembra anacronistico.
Egli dice ( (( La Nascita della Tragedia », Monanni, 1927, pag. 444) :
« Come deploro di non aver avuto allora il coraggio (o la sfrontatezza)
di permettermi in ogni riguardo per visioni e ardimenti cosi personali
anche un linguaggio proprio, di aver cercato faticosamente d'esprimere
con formule schopenhaueriane e kantiane, strane e nuove valutazioni

1 17
che contrastavano fondamentalmente con lo spirito di Kant e di Scho­
penhauer, così come col loro gusto ... )) . « Ma c'è qualcosa di molto peg­
gio in questo libro che io ora deploro ancor più che non l'aver oscurato
e guastato con formule schopenaueriane dei presentimenti dionisiaci:
ed è che io mi guastai con la mescolanza di cose moderne il grandioso
problema greco in genere, quale mi si era presentato! Che attaccai delle
speranze là dove non c'è nulla da sperare, dove tutto accennava troppo
chiaramente a un fine! )) (pagg. 60-61 ).
li: più che noto del resto in Nietzsche il suo rancore contro tutte le co­
siddette « idee moderne )) . Ed ancora : « Avrebbe dovuto cantare questa
anima nuova e non parlare. Che peccato che io non abbia osato dire
come poeta quello che allora avevo da dire: forse avrei potuto ))
(pag. 56).
Possiamo dire che Nietzsche è lontano dai suoi contemporanei soprat­
tutto sul piano psicologico. Egli « sente )) in modo differente e questo
suo sentire non può essere tradotto nelle usuali formule filosofiche. Egli
« sente )) forse come quei primi Naturalisti che dovevano per forza
esprimersi liricamente. Egli dice ed è forse l'espressione sua più tiP..ica
a cui egli più di una volta ricorre, nell'Ecce Homo : « Io solo ho sco­
perto la verità perché sono stato il primo a sentire - a fiutare la men­
zogna, come menzogna. Il mio genio è nelle mie narici )) (pag. 126).
Certo Nietzsche sente profondamente l'impossibilità di tradurre il sen­
tire in conoscere. Penso veramente che il pensiero di Nietzsche sia in
gran parte esauribile attraverso l'accostamento ai Naturalisti greci. E
viceversa: Io studiare Nietzsche ci avvicina a molti aspetti ancora
oscuri di quei filosofi.

2) Colli ( « la Natura ama nascondersi )) ). Tipografia del Corriere


-

della Sera, 1948. I I Colli si muove sulla falsa riga nietzschiana. Anche
qui è messo in particolare evidenza il mondo presocratico come potenza
ed esuberanza vitale, non paralizzato da schemi o predetenninazioni
moralistiche. Tendenza questa che viene interrotta con Socrate e con
il platonismo e che ritorna nuovamente solo con Platino. Interessanti
le ultime pagine su Platone: « Dopo la pubblicazione del Simposio, il
destino della filosofia è suggellato. Platone cessa di lottare su un piano
presocratico, si rassegna all'educazione e alla politica e, quel che è peg­
gio, si serve del razionalismo dell'epoca illuministica come di un
mezzo costruttivo )).
Ed ancora: (( La razionalità distruttiva appartiene al giovane entusia­
sta che non vuole abbandonare nulla della verità trascendente e spera
sempre d'imporla così come è )) . E ancora : (( qualcosa di rigido, di
duramente astratto, fa parte della natura di Platone, un tratto apol­
lineo, come moralismo sociale e svalutazione dell'uomo di fronte alla
divinità che trova piena rispondenza nello spirito pitagorico. Di fronte
all'aspetto dilettantesco e geniale della cultura attica, che ha sempre
indispettito Platone, il pitagorismo si presenta come salda costruzione
dogmatica e specializzata indagine scientifica. Su questa base Platone
crea per primo la cultura ufficiale e scolastica, che offre alla posterità.
La scienza come sapere staccato dalla vita nasce ora: la conoscenza è

1 18
fine a sé stessa subordinata solo a un'unità costruttiva » (Come si vede,
il Colli interpreta il pitagorismo proprio nel senso eracliteo : polimatia).
« I filosofi antichi avrebbero trovato incredibilmente estesa e anche in
parte oziosa l'opera di Platone » (pagg. 221-242).

3) foel K. - L'opera che soprattutto ho avuto presente è « Der Urs­


prung der Naturphilosophie aus dem Geiste der Mystik >> (Dal « Pro­
gramm zur Rektoratsfeier » della Università di Basilea, 1903), che mi
sembra più delle altre riassumere il pensiero dello Jéiel. Altre opere
che credo opportuno qui citare sono : « Der freie Wille >> ( 1 908), « Seele
und Welt >> ( 19 12), « Geschichte der antiken Philosophen )) ( 1 92 1 ), « Die
philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellung >> ( 192 1). Non mi risulta
che alcuna opera dello Jéiel sia stata tradotta in italiano. Ne varrebbe
certo la pena, perché lo Jéiel è di grande interesse.
Lo Jéiel tratta di una « filosofia della Natura », sotto l'aspetto mistico:
intendiamo per mistico quel particolare « Visioniire Gefiihl », quel
« sentire visionario )> nella cui indiflerenziata unità, Dio-Anima-Natura,
sono tutt'uno. Tale unità del « sentire visionario » , dove non è ancora
data la distinzione tra « spirituale » e « fisico », porta colui che ne
partecipa su di un piano gnoseologicamente difficile da comprendere.
Però questo « sentire visionario » non è in contrasto con la conoscenza,
anzi ne è la condizione prima. Il « sentire visionario >> è quindi mistico,
perché abbraccia un'unità indiflerenziata, non ancora espressa, ma di
volta in volta esprimibile. L'impostazione filosofica quindi dello Jéiel è
fondamentalmente antidualistica e antiplatonica.
Secondo lo Jéiel tre furono le grandi epoche in cui soprattutto si sentl
e si visse misticamente e naturalisticamente: il periodo presocratico, il
Rinascimento (in cui si vuole sentire e interpretare lo stesso Platone
naturalisticamente) e i primi decenni del secolo XIX con lo Schelling.
In particolare la filosofia presocratica può essere definita come « vita­
listica », dove non esiste finalismo, dove non esiste distinzione tra na­
scita e morte, dove non domina ancora quello schematico razionalismo
della nostra epoca moderna.
Gli stessi termini che usano i naturalisti, quali, acqua, fuoco, vento,
non indicano veramente lo stato materialistico, la causa materiale, ma
cercano piuttosto di dare l'immagine corrispondente della visione del
mondo, per cui essi sono fatti : tendono a rendere il vitalismo che do­
mina ogni realtà: qualcosa che dia una « risonanza universale della
Natura » . Essi sentivano e vedevano soprattutto la Natura come muta­
mento. Di Eraclito dice: « Eraclito si porta verso la Natura non come
verso un semplice oggetto di considerazione, bensì come verso un'Idea­
le etico-spirituale, come un'espressione di dilatazione universale del­
l'uomo e perciò un mezzo attraverso cui venga illuminato e purificato )>
(pag. 53).

4) Macchioro - Opere principali: << Zagreus » ( 1 920), « Eraclito »


« Nuovi studi sull'Orfìsmo » ( 1922), « Orfismo e Paolinismo » ( 1 922).
A queste tre opere mi riallaccio nel presente lavoro.

1 19
Secondo il Macchioro la terminologia eraclitea adombra il culto orfico :
non si può comprendere Eraclito, se non lo si porta sul piano dell'Or­
fismo. Fondamentalmente Eraclito si muove ancora quindi su un ter­
reno essenzialmente « prelogico ». Il suo misticismo è « ... un misticismo
che rifugge da ogni elemento razionale, si da ridursi a pura esperienza;
ciò che è proprio dei misteri dei popoli primitivi : misteri che sono fon­
damentali per la conoscenza del mito greco » (« Eraclito », pag. 120).
Anzi tutto il popolo greco in genere non avrebbe mai superato i confini
della mentalità razionale vera e propria.
Anche per il Macchioro, nei Naturalisti non vi è ancora la suddivisione
in soggettivo e obiettivo, quindi non esiste ancora un processo della
conoscenza. « ... le piante, gli animali, gli oggetti, la terra hanno una
loro vita propria alla quale l'uomo partecipa e collabora per un pro­
cesso continuo di spersonalizzazione che altera e deforma le sensazioni
e le percezioni al punto che il fantastico diventa reale, il subbiettivo si
identifica con l'obiettivo, l'Io al Non-Io, il visibile all'Invisibile, il pre­
sente al passato » . (Zagreus, pag. 1 58).
� interessante inoltre nel Macchioro e certo molto degno di considera­
zione il tentativo di mostrare la continuità tra Naturalismo greco e il
Cristianesimo nel suo aspetto mistico e culturale, quindi l'avvicinamen­
to di Dioniso a Cristo. Elementi comuni, la comunione e la resurrezione
che è trasfigurazione (V. per quello che riguarda l'Orfismo, la sua in­
terpretazione della Casa dei Misteri di Pompei).
E come nei culti orfici si vuole rivivere la passione di Dioniso per il
raggiungimento della vera trasfigurazione, cosi « la grande novità di
Paolo sta proprio e solo in questa nuova esperienza, per la quale il
Gesù storico diventò il fatto mistico della rinascita dello spirito, l'obiet­
tivo subbiettivo, il passato presente ». E ancora: « Appare nelle parole
di Paolo un riflesso del realismo greco il quale concepisce la libera­
zione dell'anima dal corpo, come un processo fisico, onde la concezione
della morte come unica vera liberazione e cioè come unica vera cono­
scenza » ( « Orfismo e Paolinismo », pagg. 1 7 e 63).

5) Gigon O. Le due opere del Gigon che ho preso in considera­


-

zione sono: « Untersuchungen zu Heraklit >> (Dieterischer Verlag, Leip­


zig, 1935) e « Der Ursprung der griechischen Philosophie » (Benna
Schwabe, Basel, 194 1 ). Delle due più notevole la seconda: la prima è
un accuratissimo studio filologico. Fondamentalmente il lavoro si im­
posta sulla continuità e organicità di tutta la filosofia presocratica e
sull'assurdità di comportamenti stagni. � un'opera molto utile come
orientamento generale di molti problemi della filosofia presocratica.
Per quello che riguarda Eraclito anche il Gigon si pone contro la pos­
sibilità di una distinzione tra spirito e materia. L'errore nasce soltanto
dal prevalere dell'Individuale sull'Universale. « � chiaro che ogni pen­
siero qui è ben lontano da una fondamentale differenza tra spirito e
sensi. Il taglio si compie completamente in tutt'altro luogo: dove vi è
la contrapposizione dell'Universale al particolare » (pag. 234). Anche
il concetto di anima non deve essere inteso come qualcosa di « spiri-

1 20
tuale », perché sincera è la posizione di Eraclito che afferma l'anima
essere una sostanza solare. Ne deriva che la vita dell'anima si svolge
veramente su un piano naturale, nei rapporti che essa può stabilire con
quelle sostanze naturali che le sono affini e da cui essa è stata originata.

6) Snell - « Die Sprache Heraklits )) (« Hermes )) 1926). L'esperien­


za di Eraclito è soprattutto una profonda esperienza del mondo este­
riore, non di interiorità contrapposta all'esteriorità. Tutte le sue antitesi
non mirano certo alla formulazione di un astratto sistema razionale o
alla denuncia di un possibile processo dialettico che si esaurisca in sé
stesso. Egli vive soprattutto del di fuori, le sue esperienze vengono so­
prattutto dal di fuori : le sue antitesi mirano semplicemente al tentativo
di chiarire attraverso di esse il suo particolare modo di sentire, altri­
menti inesprimibile.
E anche quando parla di « armonia invisibile )), egli non si pone con­
tro il mondo esteriore. Il linguaggio ha una funzione negativa in quanto
esso isola nelle sue particolari individualità tutto l'assieme, l'Universa­
lità; ci dà perciò l'apparenza distruggendo l'Universalità stessa. E spes­
so esso finisce col dirci proprio l'opposto dell'essenza delle cose. Sa­
rebbe stata una delle intenzioni di Eraclito, quella di superare il ristretto
e falso significato che certi termini avrebbero finito con l'acquistare.

7) Brecht - « Heraklyt )) (Karl Winters Universitii.tsbuchhandlung,


Heidelberg, 1936). Il Brecht, dopo avere mostrato l'analogia tra « il di­
venire )) di Eraclito e il caratteristico « divenire )) della mentalità te­
desca, vuole mostrare come sia necessario partire appunto dal « dive­
nire )) per potere arrivare a qualcosa di spiritualmente fisso e stabile.
Eraclito è sentito come l'individuo pervaso dalla visione divina che
riesce a vedere e a vivere il senso del trascendente oltre le opinioni
false degli uomini, donde quel senso di solitudine che lo pone contro
gli uomini stessi.
Tuttavia « ribolle in lui una profonda volontà di superare questa so­
litudine, perché gli uomini prigionieri del loro modo di agire inconsa­
pevole, debbano essere richiamati al risveglio )) (pag. 43). Quella di
Eraclito è una reazione alla fede appagata del popolo: la sua esperienza
del trascendente è del tutto nuova e originale e urta contro la fede for­
male, rigida e vuota della massa. Donde il suo compito e la sua fun­
zione di risvegliare gli addormentati, questi uomini che non vivono an­
che quando vivono, che si muovono quotidianamente in mezzo alle cose
divine, ma non vedono e non s'accorgono di nulla. Donde la reazione
di Eraclito a certi aspetti del culto riconosciuto.

8) Soulier - ( << Eraclito Efesio », Roma 1 882). t!: pur sempre un buon
libro, esauriente in molti problemi e nelle analisi di frammenti vari.
Non si può parlare di una tendenza particolare nel Soulier, tanto egli
mira a tenersi obiettivamente sereno. Tende però a un'interpretazione
fisica di Eraclito e antihegeliana. Giustamente dice: « Aristotele stesso,
i suoi commentatori Hegel e Lassale hanno avuto il torto di dedurre
conseguenze logiche da un sistema fisico e di fondarsi sopra espres-

121
sioni incerte per introdurre nel campo della filosofia eraclitea una teo­
ria che non si manifestò prima di Platone e di Aristotele » (pag. 172).
E a proposito dell'anima: « L'uomo dice il vero quando fonda le sue
parole sull'elemento comune a tutto, sulla ragione esterna quale ele­
mento materiale. Si stenta a pronunciare quell'aggettivo, ma non lo si
può evitare. Se le anime diventano « noerai >> e « logikai >> per « aspira­
zione >> e sensazione, questa loro essere intelligenti e ragionevoli è una
qualità della sostanza che aspirano e sentono, cioè una proprietà ma­
teriale >> (pag. 207).

9) Zafiropulos - (« L'école éleate », Les Belles Lettres, Paris, 1950).


Libro molto interessante e intelligente. Soprattutto sotto questi tre
aspetti: a) per l'interpretazione magico animistica del « numero >> pita­
gorico; b) per l'affermazione che presso i greci coesistevano in ogni realtà
due mondi inscindibili, quello corporeo e quello dell'anima. La razio­
nalità moderna in genere si preoccupa soltanto del primo, lasciando
completamente da parte il secondo come se non esistesse. Una tale ne­
gligenza ci impedisce di potere comprendere il mondo greco. Noi ci
limitiamo perciò all'aspetto superficiale delle cose, a quella che Par­
menide intendeva per « parvenza >> ; c) l'uomo non può mai determi­
nare la realtà oggettivamente intesa, perché la sua conoscenza è sempre
discontinua. « Poiché la discontinuità resta dunque essenziale nella no­
stra possibilità di misura, dunque di conoscenza e di rappresentazione,
bisogna rassegnarci a conservarla » (pag. 63).
L'Essere parmenideo sarebbe quel continuo che la nostra razionalità non
può che rendere per propria natura discontinuo e che dà come risultato
quindi, la parvenza. Egli dice: << Il primo problema che ci si pone è di
sapere se esiste un problema della conoscenza degno di questo nome o se
tutte le nostre ricerche non concluderanno che farci girare a vuoto. In
altre parole: esiste un'oggettività distinta dal soggetto conoscente, ogget­
tività che giustifichi il nostro desiderio di conoscerla, oppure la nostra
fantasia non crea essa semplicemente delle immagini che noi ci sforzia­
mo anche in seguito di analizzare, prendendo il nostro stesso segno per
una realtà esteriore? Platone poneva già questo problema nel suo Cratilo,
quando si domandava se le cose erano identiche ai loro nomi o se
esse erano differenti. Se difatti il mondo esteriore non è che un riflesso
della nostra immaginazione, dato che siamo noi che creiamo tanto l'og­
getto che il suo nome, noi dovremmo poterli creare identici, cioè com­
prendere tutta la realtà nella sua definizione. Se invece, noi non fac­
ciamo che utilizzare certi mezzi mnemotecnici, che possono essere si­
stemati in linguaggio, per riconoscerei nella infinita complessità di im­
pressioni che producono su di noi i fenomeni, allora è evidente che gli
oggetti seranno differenti dai loro nomi e che ogni definizione non sarà
che approssimativa » (pag. 146-147). Ed ancora: « Ma il cielo non
appartiene che agli dei, come dice Pindaro, e Parmenide ha certo ra­
gione di proclamare che in ogni uomo solo la sostanza dei suoi organi
può pensare. Questa sostanza crea le leggi umane, ma che importa
ciò agli dei che regnano sull'obiettività dei cieli? In questo divorzio
salta fuori tutta l'ironia del nostro destino: la legitti.mazione stessa del
problema della conoscenza ci garantisce pure l'impossibilità della sua

1 22
soluzione. La sola prova che noi sappiamo dare dell'esistenza dell'og­
getto è una ragione che lo respinge ipso facto a1 di fuori del quadro
delle operazioni esatte dello spirito : l'incommensurabilità radicale dei
due ordini, oggettivo e soggettivo, separa definitivamente i loro domini,
ma nello stesso tempo proibisce la speranza di potere giammai tradurre
l'uno esattamente nei termini dell'altro » (pag. 148-149).

10) Pagliara A. - « Saggi di Critica Semantica )) (D'Anna, Messina).


:t un'opera interessante. Si tratterebbe di stabilire « semanticamente ))
il vero e reale rapporto che intercorre, nel caso di Eraclito, tra gli
f-Itta. e gli fpya.. L'origine della semantica si potrebbe trovare in Eraclito.
« A partire da Eraclito fu posta in discussione, per affermarlo o per
negarlo, il nesso che lega il pensiero discorsivo (logos) con il processo
del reale: come naturale sviluppo di tale impostazione sorse e fu lunga­
mente agitato il problema della validità del singolo segno ai fini del
conoscere » (pag. X).
Eraclito si preoccuperebbe appunto di ristabilire (V. l'interpretazione
del primo frammento) questo perfetto parallelismo tra « realtà >) e « ra­
gione >) . Per conto mio l'importanza della semantica, sta soprattutto nel
fatto che essa può aiutarci a comprendere un aspetto fondamentale del
mondo antico e dei Naturalisti in particolare: l'aspetto magico (magia
delle parole, magia delle cose, magia dei numeri). Certo la difficoltà sta
nel fondare la semantica come Scienza.

1 1 ) Calogero G. - Mi riferisco qui esclusivamente al Saggio a carat­


tere semantico, (( Parmenide e la genesi della Logica Classica )) . ( « An­
nali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa », Serie I l , vol. V, 1936).
Saggio interessantissimo e molto acuto, dove appunto, semanticamente,
Parmenide rappresenterebbe colui che tenta di ricostituire sotto l'unica
categoria dell'Essere la molteplice realtà naturale che erg stata catego­
rizzata sotto categorie che contrapponevano le realtà stesse tra loro
(Essere - Non Essere): distinzioni che avvengono appunto per il di­
stacco del linguaggio dalle cose. Si vorrebbe con questo in fondo ritor­
nare a una età greca arcaica, dove Essere, Ente, Entità, significano
semplicemente « aspetti determinati dell'esperienza )) e non si pensa
« che quegli stessi termini siano carichi di un significato autonomo, tra­
scendente le singole cose designabili e valevoli per sé » . « Quei termini
non trapassano " da significati in significati " e quindi non ha alcun senso
domandare quel che sia in assoluto o in universale l'Essere, l'Ente o
l'Entità )) , Il Calogero è per una diretta polemica di Parmenide contro
Eraclito perché in fondo il « divenire )) spezza il senso dell'Essere e
introdurrebbe delle contrapposizioni di termini che nascono appunto
dalla prospettiva di una contrapposizione di Essere e Non essere.

12) Mazzantini C. - « Eraclito » (Chiantore, 1 945) . Eraclito è visto


come uno dei principali rappresentanti della tradizione ellenistica e cri­
stiana e il suo Logos precorre già il Mototre Immobile di Aristotele e
S. Tommaso. Vede quindi già in Eraclito un filosofo della trascendenza.
Libro senz'altro interessante a cui io però non ho trovato modo di
rifarmi perché la mia prospettiva si muove in altro senso.

1 23
INDICE

Premessa . pag. 7

Introduzione pag. 9

Capitolo - Eraclito e il Logos pag. 17


Il carattere eminentemente polemico dei Naturalisti
nasce dalla certezza di avere vissuto esperienze del
tutto personali e fuori dalla norma. - Il Logos ricevuto
come rivelazione o penetrato con sguardo acuto at­
traverso le cose, pone Eraclito in contrasto con coloro
che credono di potere spiegare su un piano logico il
suo vero contenuto. - Significato di Logos : non Ra­
gione, ma in verità Raziocinio, prodotto dalla « pre­
sunzione »; piuttosto « linguaggio della Natura », ed
anche « voce », « suono >> della Natura: l'OM india­
no. - Duplice interpretazione degli f1tEa xaL fpya (pa­
role e azioni): l'aspetto semantico-filologico in Era­
clito : riferimento alla (( mayii umana » e alla (( miiyii
divina >> del Bhagavad Gita indiano.

II Capitolo - Eraclito e il Culto religioso . pag. 33


Equivocità del culto: culto aberrante (fine a sé stesso)
e culto catartico (come mezzo): impostazione psicolo-
gica non ontologica. - Psicofisicità dell'esperienza del
divino. - Eraclito e l'Orfismo: sentire-vedere-vivere
e non sapere-conoscere (Teologia). - L'esperienza
mistica.

II I Capitolo - Eraclito e il numero pitagorico . pag. 51


Che significato ha? - Pitagora (( mago » e pedagogo. -
Il numero è « magico >> : il numero come ponte tra il
« limitato >> e l'« Illimitato » : (( strumentalismo ma-

gico » . Il mondo (( respira » . - Tra il (( divenire » di


Eraclito e il (( numero >> pitagorico non vi è contra-
sto. - Concetto di Armonia.

IV Capitolo - Divenire di Eraclito ed Essere di Parmenide pag. 69


Contro il luogo comune che Eraclito è il filosofo del
divenire e Parmenide il filosofo dell'Essere: diversità
d'ambiente. - Divenire eracliteo ed Essere di Parme-
nide sono due aspetti dello stesso problema : differente
l'impostazione psicologica dei due filosofi. - Rapporti
tra Eraclito, Pitagora, Parmenide.

125
V Capitolo - Eraclito e il Naturalismo di fronte al binomio
Socrate-Platone . pag. 84
L'ironia e l'antiintellettualismo di Socrate lo pone più
vicino ai Naturalisti che al « platonismo »? - « Capo-
volgimento dei valori » col « platonismo >> : il « co-
noscere e il sapere » al posto del « vedere e del sen-
tire ». - Il numero « dimostrativo » al posto del nu-
mero « magico » di Pitagora.

VI Capitolo - È forse possibile dimenticare Hegel ? pag. 97


Troppo noti ed evidenti i rapporti tra Eraclito ed
Hegel: lo stesso filone spirituale e lo stesso tentativo
di « soluzione » li unisce. - Contro il dualismo e con-
tro l'« Isolamento » dell'individuo dalla Natura. - Due
tentativi di soluzione per reintegrarsi nella Natura :
quello mistico-lirico-romantico nell'antichità con i Na-
turalisti in genere e nel nostro '800 con Schelling:
quello razionale nell'antichità con il « platonismo »,
nel nostro '800 con la « dialettica » hegeliana. - Se
possiamo dire che il « platonismo » è fallito nelle sue
mete ultime, non possiamo forse dire la stessa cosa
per la « triadicità » hegeliana? anche se quest'ultima
più promettente e più suggestiva della prima?

VII Capitolo Appunti, ipotesi, suggerimenti, sui rapporti


-

tra filosofia naturalistica occidentale e orientale pag. 109

VI I I Capitolo - Bibliografia pag. 1 1 7

N.B. - Per i frammenti ho attinto al classico: Diels Her­


mann: « Die Fragmente der Vorsokratiker » ( 1 922).

126

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