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René Girard è uno dei pensatori più influenti della cultura contempora-
nea. Professore emerito all’Università di Standford, eletto tra i 40 “immor-
tali” dell’Académie Française, tra i suoi numerosi lavori tradotti in italiano
ricordiamo: Menzogna romantica e verità romanzesca, La violenza e il sacro,
Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Il capro espiatorio, Shake-
speare. Il teatro dell’invidia, Vedo Satana cadere come la folgore, La pietra dello
scandalo, Portando Clausewitz all’estremo. Con Transeuropa ha pubblicato:
Miti d’origine, Il pensiero rivale, Edipo liberato, Verità o fede debole. Dialogo
su cristianesimo e relativismo, (con Gianni Vattimo).
Wolfgang Palaver è nato nel 1958 a Zell am Ziller (Austria). Insegna Pen-
siero sociale cattolico, cattedra dell’Institute for Systematic Theology and
the interdisciplinary research platform “World Order – Religion – Violence”
all’Università di Innsbruck (Austria). Dal 2007 è Presidente dei Cov&r,
(Colloquium on Violence and Religion). Ha scritto articoli e libri su Thomas
Hobbes, Carl Schmitt, e sulle relazioni fra religione e violenza. Le sue pubbli-
cazioni più recenti sono René Girards mimetische Theorie (20083); Passions
in Economy, Politics, and the Media (insieme a P. Steinmair-Pösel, 2005),
Aufgeklärte Apokalyptik (insieme a A. Exenberger and K. Stöckl, 2007), We-
stliche Moderne, Christentum und Islam (insieme a R. Siebenrock and D. Re-
gensburger, 2008), e Im Wettstreit um das Gute. Annäherungen an den Islam
aus der Sicht der mimetischen Theorie (insieme a W. Guggenberger, 2009).
catastrofi
generative
mito, storia, letteratura
Transeur opA
la realtà umana
ii. Robert Hamerton Kelly, Non resterà pietra su pietra. Il mito del mora-
lismo nella Bibbia e in Shakespeare 21
vii. Giuseppe Fornari, Teologie della catastrofe. La nascita del monoteismo 145
viii.
Margherita Geniale, Il “cammello di fuoco”. Ordine cosmico e rituale
apotropaico 183
1. Cfr. Carl Schmitt, Teologia politica II, Torino, Giuffrè, 1992, nota 1, p. 83.
2. Si sa che il primo ordine impartito dal governo fu allora l’evacuazione della città
in rovina e del suo bombardamento.
3. Carl Schmitt, Glossario, 16.12.47, Milano, Adelphi, 2001, p. 88; cfr anche Martin
Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976,
pp. 96-108.
xiv introduzione
4. «Benediciamo voi e la istessa città della quale noi vogliamo essere perpetua
protettrice» sono le parole conclusive contenute nella Lettera oggetto del culto
mariano che, secondo la tradizione, il 3 giugno del 42 la Madre di Gesù affida agli
ambasciatori messinesi, in segno di ringraziamento per l’omaggio e il riconoscimento
tributatole dalla città.
5. Dopo la consacrazione della città al S. Cuore di Gesù formalizzata con rogito
notarile, nell’aprile del 1934, dalle autorità civili e religiose; e dopo l’inaugurazione
della statua della Madonna della Lettera il 2 agosto dello stesso anno; il 16 settembre
1954, anniversario della battaglia di Lepanto, per gli auspici di mons. Angelo Paino,
arcivescovo di Messina, si procedette all’incoronazione della stessa statua. Cfr. Con
cuore di padre. Scritti pastorali dell’arcivescovo Angelo Paino, a cura di Letterio Gulletta,
Messina, 2007.
xvi introduzione
6. È Carl Schmitt che nel Glossario 1.9.50 cita la straordinaria frase di Nietzsche:
«con spalla possente lo spazio sta contrapposto al nulla» (cit., p. 433).
7. René Girard riconosce nel mito la narrazione di un evento di fondazione sa-
crificale, considerato salvifico per la comunità; si veda, in particolare La violenza e il
sacro, Milano, Adelphi, 1972.
CATASTROFI GENERATIVE
A René Girard
I
René Girard
mito e antimito.
il terremoto in cile di kleist1
6. Ivi, p. 145.
7. Ivi, p. 140.
CATASTROFI GENERATIVE
8. Ivi, p. 142.
9. In Le Théâtre et son double, Paris, Gallimard, 1964 (trad. it., Antonin Artaud,
Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 2000) si trova un interessante testo di Artaud
sulla peste che può essere ritenuto una descrizione archetipica di un’epidemia. Sebbene
in esso si trovano cenni sulla pestilenza di Marsiglia nel diciottesimo secolo, uno degli
ultimi grandi scoppi di questa epidemia, l’evento non è collegato ad alcuna località
certa. Il testo non può essere classificato: non è né mito, né letteratura, né teatro, bensì
una mescolanza di tutti e tre. Esso si ispira ad aspetti della mitologia che la letteratura
moderna ha dimenticato. La posizione di Kleist nella classifica letteraria – per lo meno
in considerazione di questa novella – è secondo me vicinissima a quella di Artaud.
Naturalmente Kleist è allo stesso tempo anche un autore classico, poiché i suoi testi
presentano una rigorosa struttura della trama.
mito e antimito
polarizza intorno a determinati oggetti ma, mentre la rapidità della
crisi si accresce e il contagio avanza, scompaiono dal campo visivo
gli oggetti originari della contesa e gli antagonisti si concentrano
sempre più gli uni contro gli altri. Ciò conduce al momento in cui,
d’un tratto, non si dà più alcun oggetto del contendere e l’effetto
mimetico diviene cumulativo, gravido di conseguenze conflittuali.
Ma poiché la distruzione, contrariamente all’appropriazione, può
essere condivisa, è attraverso un atto di distruzione ed espulsione
che si recupera l’unità del gruppo: un processo, questo, che com-
prende la sacralizzazione di una vittima sostanzialmente accidentale.
Per quante trasformazioni e permutazioni possa subire un mito, la
sua struttura è la seguente: crisi – sacrificio – soluzione. Questo è,
in effetti, lo schema del racconto di Kleist: il terremoto, causa di
molte vittime, conduce ad una graduale riorganizzazione mettendo
in rilievo il ruolo della famiglia come unità sociale, dello scambio
simbolico e del dono della vita (cui allude l’allattamento del nuovo
nato). La cultura rinasce in un ambiente idilliaco. Se la crisi è legata
alla disgregazione dell’ordine sociale, la sua soluzione si caratterizza
invece per la riconciliazione dei precedenti antagonismi. Una tale
soluzione è però quanto mai effimera, e il sacrificio deve essere
ripetuto quasi subito.
Osserviamo qualche dettaglio. In primo luogo la velocità con la
quale procede il racconto da un estremo all’altro. Si arriva rapida-
mente all’incontro segreto degli innamorati nel giardino del con-
vento carmelitano: «per un caso felice, Jerónimo riuscì a riannodare
laggiù il suo legame e, in una notte silenziosa, fece del giardino del
convento il teatro della sua piena felicità.»10 Questa felicità interes-
sa Kleist non per il suo valore intrinseco, ma come polarità che si
avvicenda al suo contrario, l’infelicità. Per due volte assistiamo ad
un cambiamento repentino: la prima, nel passo appena citato e la
seconda più tardi, quando passiamo ai fatti orribili che si svolgono
davanti alla chiesa. In entrambi i casi l’esperienza della felicità è una
faccenda privata e segreta, mentre la catastrofe include inevitabil-
mente l’intervento della massa. L’importanza del ruolo svolto dalla
C’è per esempio un mito Bororo, in cui il sole comanda agli abitanti
di un villaggio di attraversare un fiume con l’aiuto di una passerella.
Questa passerella crolla sotto il peso della folla. Tutti muoiono ad
eccezione di un eroe (culture hero) che, a causa delle sue gambe de-
formate, resta indietro agli altri. Quest’unico sopravvissuto comincia
a far rinascere gli annegati attraverso un sistema di selezione stret-
tamente definito. Quelli dai capelli lisci stavano distesi nella parte
in cui il fiume scorreva più lentamente. Quelli con i capelli crespi,
erano distesi in acque turbolente. In questo modo l’eroe introduce
nuovamente nella società l’ordine e le differenze che la violenza
del fiume aveva distrutte. La rappresentazione mitologica si attua
dunque mediante uno scambio simmetrico dei ruoli. In realtà, non
la sopravvivenza dell’eroe ristabilisce la calma e l’ordine, ma la sua
morte in quanto vittima della violenza collettiva. Si può dire che
singoli sopravvissuti sono sempre vittime designate arbitrariamente.
Noè, che sfugge da solo al diluvio dell’indifferenziazione, diviene
il mediatore attraverso il quale la comunità ottiene nuova vita. Il
ruolo della vittima, che muore per dare la vita, è estremamente am-
biguo e, di conseguenza, il suo significato mitologico può svolgersi
facilmente nell’uno o nell’altro senso. Anche nella storia di Kleist
quest’aspetto dell’inversione è determinante: Josephe, che in un
primo tempo è così vicina alla morte, nell’idilliaca seconda scena
diventa la personificazione della vita, solo per subire subito dopo
la morte per mano della folla.
L’analisi fin qui svolta ci abilita a cogliere la logica del racconto,
in cui la questione della sopravvivenza di Josephe resta avvolta
nell’oscurità. Kleist non ci dice nulla sulla sua sorte, ci lascia credere
che sia morta nel terremoto per poi farla “rinascere” come perno
di una nuova armonia sociale. Proprio quest’armonia dimostra,
sebbene in modo ironico, quanto sia precario in realtà l’idillio di
un mondo pacificato. La terza parte infine ripete ritualmente l’atto
violento originario, e gli assassini, che non contraddicono il religio-
so ma appartengono anzi alla sua natura, sono i fedeli che escono
dalla «messa solenne». La folla, che sin dal principio aveva giocato
un ruolo decisivo, nella scena finale torna al centro dell’attenzione
con l’addensamento energetico, caratteristico dei processi rituali.
mito e antimito
La musica e la predica rievocano il sacro orrore che all’inizio aveva
accompagnato il terremoto. Poi una serie di accuse richiama le
rivalità mimetiche che hanno condotto alla crisi. Infine, la passione
accumulata si scatena negli assassinii che, come Kleist mostra scru-
polosamente, costituiscono una sostituzione arbitraria. La scena
finale sarebbe inspiegabile se non comprendessimo che la novella
di Kleist rappresenta i retroscena nascosti della violenza, origine di
tutti i miti e di tutti i rituali.
Certamente, sarebbe possibile analizzare nei dettagli la conclu-
sione del racconto – fra le più brutali della letteratura moderna – ma
occorre insistere sulla seconda parte in cui l’armonia naturale e so-
ciale della «Valle dell’Eden»16 risulta in contrasto con la precedente
descrizione del terrore provocato dal sisma. A questa cesura incom-
prensibile corrisponde l’esperienza dei protagonisti sottolineata dai
due segni distintivi che caratterizzano la comprensione degli eventi
da parte dei personaggi coinvolti. In primo luogo, il terremoto viene
spiegato come un evento indispensabile alla situazione di pace e di
armonia vigente. L’interpretazione retrospettiva del terremoto come
opera benefica per la comunità viene espressa attraverso concetti
religiosi e teologici. In secondo luogo, tutti i fatti precedenti vengo-
no rimossi. L’allusione alla capacità di dimenticare dei protagonisti
ricorda Shakespeare, che Kleist ha presumibilmente letto, così come
ha letto e compreso perspicacemente anche Sofocle ed Euripide.
Come in Sogno di una notte di mezz’estate,17 i personaggi di Il terre-
moto in Cile cancellano il passato, la violenza e l’odio scatenati dalla
crisi: è così che un dio malevolo si trasforma in un dio benevolo.
Questo cambiamento di prospettiva è interiorizzato nel soggetto che
ha vissuto quell’esperienza, come il caso di Jeronimo dimostra con
chiarezza. Nella novella da noi analizzata, Kleist sembra riconoscere
che l’ambivalenza appartiene all’essenza stessa di religione e mito.
16. Ivi, p. 143.
17. Shakespeare presenta sul palcoscenico, sotto forma di confusione cosmica,
una crisi d’indifferenziazione il cui gioco rabbioso abolisce alla fine tutte le differenze
fra uomini, dèi e animali. La mattina dopo, però, ai protagonisti il caos della notte
sembra già molto lontano: These things seem small and undistinguishable, /Like far-off
mountains turned into clouds. / Methinks I see these things with parted eye, / When
everything seems double (A Midsummer Night’s Dream IV, I).
CATASTROFI GENERATIVE
gio dovuto alla simpatia. Così può dirsi panico la furia popolare,
quando la rabbia delle moltitudini mette l’uomo fuori di sé, come
talora abbiamo visto accadere, soprattutto là dove ha a che fare la
religione. In tali condizioni sono contagiosi anche gli sguardi; a furia
si comunica da volto a volto; la malattia è vista e presa. Coloro che,
mantenendo la calma, hanno osservato una moltitudine dominata da
tale passione, hanno confessato di aver visto nel contegno di quegli
uomini qualcosa di ben più terribile e spaventoso di quello che in
altri momenti esplode in ciascuno anche nelle circostanze più emo-
zionanti. Tale è la forza che la socialità possiede così nelle emozioni
cattive come nelle buone; e tanto cresce l’intensità di un affetto
per essere sociale e comunicabile. Così, mio Signore, vi sono negli
uomini varie specie di panico, oltre quello dovuto soltanto a paura.
Ed anche la religione può, così, essere un panico, quando l’entusia-
smo di un qualche genere vi si mescola, come spesso accade nelle
occasioni malinconiche. Poiché i vapori naturalmente aumentano, e
specialmente nei tempi calamitosi, quando gli spiriti sono depressi,
nelle pubbliche sventure, quando il clima o il vitto non siano sani,
quando vi siano sconvolgimenti nella natura, tempeste, terremoti,
o altri spaventosi cataclismi. Allora anche il panico aumenta, e le
autorità civili devono lasciargli aperta la via.»19
Natura e mito
Bibbia e Apocalisse
4. Giovanni, 16, 11. Le citazioni sono tratte dalla Bibbia di Gerusalemme, 1971.
CATASTROFI GENERATIVE
«Ho visto anche sotto il sole che non è degli agili la corsa, né
dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la
ricchezza e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e
il caso raggiungono tutti. Infatti l’uomo non conosce nemmeno la
sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli
presi al laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si
abbatte su di lui.»12
9. Giobbe, 4, 7-9.
10. Giobbe, 42, 3-6.
11. Qoelet, 1, 1-2.
12. Qoelet, 9, 11-12.
CATASTROFI GENERATIVE
Capite certo che tratto questi argomenti come testi antichi e non
come brani di devozione ecclesiastica. Torniamo adesso al Vangelo,
che, a sua volta, è una critica alla religione ebraica e consideriamo,
quindi, il passaggio 1-5 del capitolo 13 del Vangelo di Luca:
14. Amleto, III 1, 59. Le citazioni sono tratte da: William Shakespeare, Teatro
completo, a cura di Giorgio Melchiori, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1976.
15. Re Lear, IV, I, 36-37.
16. Giovanni, 9, 1-3.
il mito del moralismo nella bibbia
Ancora una volta Gesù nega la stretta relazione tra peccato e
catastrofe. Nega un significato morale nella storia. La catastrofe
nella storia non è una manifestazione del giudizio divino. Solo alla
fine della storia, con l’apocalisse, potrà emergere qualcosa come
un significato morale dell’intera storia umana, nel Giudizio finale.
Così, possiamo ripeterlo, esiste un significato morale della storia,
ma non nella storia.
storia che mente fin oltre la storia. Mentre la catastrofe storica della
morte di Gesù, il giovane ebreo, è la faccia del Vangelo in questo
mondo, la sua Resurrezione dai morti è la faccia del Vangelo oltre
questo mondo. Se non c’è questa eccezionale forza spirituale di ret-
tifica dell’oltre, non può esistere allora nessun significato, e la vita è
davvero una storia raccontata da un idiota che non significa nulla, e,
come conferma Gloucester, «Noi siamo per gli déi come le mosche
per dei monelli: ci uccidono per divertimento.» Culturalmente, oggi
siamo perfino oltre la pazzia di Re Lear. Una volta ancora ci vengono
in mente le parole: «Nulla? Nulla può venire dal nulla.»19
Simbolo: l’oltre
1. La caduta
3. Croce e Lawrence
Sin dalle pagine memorabili, che Croce dedica a Verga nel 1903
tracciando le inaugurali sue Note sulla letteratura italiana nella se-
conda metà del secolo XIX, dopo aver passato in rassegna Carducci,
Fogazzaro e De Amicis (seguiranno al quinto e al sesto posto, la
Serao e Di Giacomo) è proprio il dialogo sul parere dell’avvocato
tra padron ’Ntoni, Maruzza e ’Ntoni che viene segnalato, inquadrato
ed ammirato come il punto di maggiore forza del capolavoro.
Gira il vento della critica letteraria. Benedetto Croce risarcisce
il romanziere catanese di tanta incomprensione e dichiarata avver-
sione, ad esempio da parte di un critico in auge come il messinese
G.A. Cesareo. Non è un risarcimento generoso, tuttavia Benedetto
Croce riporta tra virgolette le battute testuali del dialogo tra padron
’Ntoni, Maruzza e il nipote ’Ntoni, dopo aver raccomandato con
un elogio d’ufficio «la ingenua virtù di quei lavoratori e la finezza di
certi loro dolori, del tutto sentimentali» (povero Verga!)
zione: «grande libro». Sbaglia però tutto nel giudizio sulle persone
del dramma, tirando fuori l’opinione balzana che un siciliano non ha
idea della propria anima né dell’anima di un altro. Anzi che non ha
affatto anima. «Non ha nulla della nostra coscienza soggettiva, non
ha idea spirituale di se stesso». E si riferisce con nome e cognome ai
siciliani di Verga. Mastro don Gesualdo, spiega, è da cima a fondo
l’opposto di un personaggio di Dostojevskij.
«Allora padron ’Ntoni non udì più nulla, perché le orecchie gli
si misero a zufolare, e vide per la prima volta ’Ntoni, il quale s’era
alzato anche lui nella gabbia, e strappava il berretto con le mani,
facendo certi occhi da spiritato, e voleva parlare accennando col
capo di no! Di no! I vicini portarono via il vecchio, credendo che
gli fosse venuto un accidente; e i carabinieri lo coricarono giusto
nella camera dei testimoni, sul tavolaccio, e gli buttarono l’acqua
sulla faccia».
se ci fosse il morto. […] Non è nulla venne a dire don Franco [il
farmacista], gli abbiamo fatto la fasciatura; ma se non viene la feb-
bre, se ne va […]. [Padron ’Ntoni]: - non fate tante spese quando
non ci sarò più. Il Signore lo sa che non possiamo spendere, e si
contenterà del rosario che mi diranno Maruzza e la Mena […]. Se
fate dei risparmi, metteteli da parte e ricomprate la casa del nespolo
[..] perché è stata sempre dei Malavoglia, e di là sono partiti vostro
padre e la buon’anima di Luca. - Le donne credevano che il malato
avesse il delirio. – No, diceva padron ’Ntoni – sono in sensi. […]
Fra due ore sarà giorno e potrete andare a chiamare don Gianmaria
[il prete], che voglio confessarmi. – Don Ciccio [il medico] arrivò
che c’era ancora il vicario con l’olio santo. – Chi vi ha detto che c’era
bisogno del prete? […] Dobbiamo dirvelo noi altri medici quando
è l’ora. […] Ora volete saperlo? non c’è bisogno del viatico […] È
il miracolo[…] perché il Signore ci è stato troppo volte in questa
casa! Ah! Vergine benedetta! esclamava Mena con le mani giunte.
Ah! Vergine santa, che ci avete fatta la grazia! E tutti piangevano
dalla consolazione, come se l’infermo fosse già stato in grado di
tornare a imbarcarsi sulla Provvidenza».
Tre vite umane, tre Malavoglia già provati dalla congiura delle
avversità, cercano aiuto nell’estremo pericolo e lo trovano. La cata-
strofe non si ripete. Anche nelle fitte trame del «disastro aggravato
e continuato», il “destino” si blocca ora sul nero e ora sul rosso,
come la pallina della roulette. I sopravvissuti gridano al miracolo
con sentimento sincero, e con proprietà di linguaggio. Sanno pure,
per fede, chi ha fatto il miracolo. È stato san Francesco di Paola a
stendere il mantello sotto la barca. L’“oggettività’ merita rispetto.
I miracolati sono “oggettività’. Se essi dicono: “miracolo”, tanto
peggio per il medico, tanto peggio per il farmacista, tanto peggio per
tutti gli spiriti forti, incluso il narratore: ma nel romanzo è miracolo,
e si sa chi l’ha fatto: San Francesco.
Padron ’Ntoni, per lunghi giorni tra la vita e la morte, detta con
un filo di voce le sue disposizioni di ultima volontà e chiede il viatico.
Vuole morire com’è vissuto, in grazia di Dio. In punto di morte più
che dire i proverbi popolari consueti, più che fare d’ogni proverbio
volontà e destino
un’eco della sapienza dei padri, diventa egli stesso, in carne e ossa,
un’espressione materiale di quella sapienza.
Questo trizzoto di ferro nella notte dei tempi si è battuto anche
contro i ciclopi: ed ora che sta morendo, dopo essere stato sempre,
per tutta la vita, per tutti i millenni della sua vita, dalla parte giusta,
si fa ancora avanti, e con la fede smuove le montagne, fede in che
cosa? Nel miracolo del «ritorno a casa». Ognuno dei tre miracolati,
dopo che la barca non si sfracella, torna a casa. Il vecchio per morire,
ma dopo aver fatto tante cose palesi e nascoste. Mai un Malavoglia
è stato più grande di lui. Muore da gigante, dopo aver insegnato a
vivere e dimostrato concretamente ai piccoli come vivere da gigante,
con in mano il ramoscello d’ulivo (e non già la clava) del «giusto
per natura».
«In Verga la tragedia rimane tragedia fino alla fine e senza con-
solazione alcuna; e in questo egli è per eccellenza uno scrittore an-
ticattolico, che non indulge a nessuna forma di edonismo mondano
e sopramondano. È, semmai, un cristiano fuori d’ogni chiesa, il cui
Cristo, anonimo, ha qualcosa di desolato e di deluso, come consape-
vole della vanità del suo sacrificio sulla croce. L’unica consolazione
è ancora la casa, che bisogna sempre ricostruire, quando le raffiche
l’hanno abbattuta, una specie di calvario a cui ci si aggrappa e ci
si affeziona per le stesse pene che ci costa. […] In Sicilia c’è una
profonda religiosità, ma una religiosità che non ha niente di sereno
e di consolato. A monaci e parrini, sièntici la missa e stòccaci li rini.
[…] Una religione dunque che si celebra più nella casa, che nella
chiesa, […] una religione che nel siciliano si mescola al suo tradi-
zionale fatalismo orientale; e tutto è stato assorbito ingenuamente
e dominato liricamente dal nostro scrittore».6
5. Il “Dio di dentro”
ciare con lo stesso accento con cui Arthur Rimbaud esclama: “Quoi?
L’eternitè!”. E che cosa si costruisce in quel borgo di pescatori con
la verità al naturale? Si costruisce una baracca, che è però la casa
di Dio. Dove passa, dove agisce, dove regna la verità, quello è il
regno del “Dio di dentro”, che lascia anche per le strade il segno
incancellabile del suo passaggio: il quale non è adorato in nessuna
delle tante religioni, fabbricate su misura, tutte nobili e tutte fatue,
allineate in un catalogo come religione della famiglia o della libertà,
religione della casa o della nazione. Vogliamo chiedere, in conclu-
sione, a padron ’Ntoni e ai suoi familiari qual è la loro religione?
Senza neppure aspettare che ci rispondano, diremo noi per loro che
è quella delle loro opere, visibili e riconoscibili da tutte le parti come
bandiere al vento. E con le loro opere che quei poveri pescatori, ad
imitazione del loro Dio, hanno vinto il mondo.
che assicurino «in queste plaghe desolate dalle forze cieche della
natura la vita della nuova città».12
Questo annuncio, che soltanto un allarme contro le paventate
follie del generale Mazza suscita un’enorme impressione in Verga,
che conosce bene da quali ambienti si sparge sulle rovine il veleno;
veleno che paralizza ogni energia vitale, facendo leva sulla condanna
unanime alla desertificazione di un territorio e di una cinta urbana,
come se fossero rei di tutti i mali. Verga non solo non partecipa
a quest’orgia di negativismo, ma allunga lo sguardo a ciò che c’è
dietro l’ordine del giorno Fulci - De Felice – De Micheli, perché le
cronache ne hanno già parlato. Pur di non farle bombardare, i più
generosi dei superstiti (in genere i senza tetto, non tutti di estrazione
plebea) si sdraiano tra le rovine. Ed ecco l’apologo che lo scrittore
dei «Malavoglia» ne cava.
Parla dei poveri, Verga, per parlare con i poveri, facendosi rac-
contare tutte le loro ragioni, tutte le loro disgrazioni, che capisce
senza aggiungerci del suo nulla, tranne che la scrittura quasi da
(raffinatissimo) amanuense. Sopravvive alla disgrazia, alla pena, allo
squallore, chi non conosce altro che baracca: ai quali resta come il
tugurio, la tana, li è nato. «Nasce per la schiavitù – insegna Rousseau
con uno dei suoi più rivoluzionari aforismi - chi nasce nella schia-
vitù, se non c’è disgrazia più grande». A Messina però non ci sono
iloti, la cittadinanza comincia veramente dai bassifondi, il mare, il
porto, le arti, i mestieri, la Palazzata vedranno la qualità della vita
è quella di un popolo libero, a partire (come a Napoli) dal contado
e dalle schiere di uomini di mare, reclutate tra le file del contado.
Che cosa toglie il terremoto a quegli strati della popolazione che
ha soltanto le mani per lavorare? L’ottimismo dei poveri si spande
nell’aria dal comignolo del focolare, perché ci sia da accendere il
fuoco. La massima: «dove è il pane, lì è la patria» si legge anche
all’incontrario: perché il pane si guadagna e il posto di lavoro non
è sempre nel tuo paese.
Il realismo di Verga è così sapiente, da fargli evitare la predica,
ma non il soggetto, che funziona assai meglio della predica stessa;
perché l’ethos è nello spessore del racconto. Sapientemente, infatti,
se ne fa carico il coro; cioè «gli altri», figure e voci del coro: «Qui
siamo nati [qui riposano i nostri morti, anche se degli ultimi non
sappiamo dove]; qui sono le pietre delle nostre case; a queste pietre
siamo attaccati come alle anime dei nostri morti; e di qui noi non ci
muoveremo, qui per noi c’è tutto».
Non la pensa così, senza sapere di Verga, (persino ovvio che non
la pensi così), Luigi Pirandello, filosofo dell’«io diviso». È tutto un
altro realismo, il suo, tutto un altro sistema, tutto un altro linguaggio
illustrati con un felicissimo esempio: quello dell’asino in lotta con
la mosca cavallina (in questo caso asinina). La mosca punge insi-
stente su un tratto di cute, non raggiungibile dalla coda. Come se
ne libera l’animale? Scuotendo ripetutamente quel tratto di cute, e
costringendo la mosca a volarsene via, sia pure per poco. Nessuno
direbbe che da un cerchietto di pelle, che faccia le grinze a comando,
come il muscolo dell’animale, possa partire una manovra espulsiva
così efficace, per quanto poco risolutiva, finché alla fine la mosca
abbandona solo per sazietà, dopo aver fatto all’animale tutto il male
possibile. Al sito di terraferma, basterebbe provarci una sola volta,
per disfarsi di tutte le escrescenze fastidiose incluse le costruzioni
in cemento armato (fastidiose, poi perché?).
2. L’espressione heideggeriana «lo spazio è evento e solo gli eventi creano spazio»
è ripresa da Carl Schmitt nel Glossario e in altri scritti. Da Heidegger a Schmitt l’acce-
zione estatica ed estetica dell’espressione “evento” si trasforma però in quella politica
e giuridica di una presa di possesso legittimata ritualmente. In quest’ultima accezione
riconosco il significato dinamico dell’evento creatore di spazio. Cfr. Carl Schmitt,
Glossario, 16.12.47, Milano, Giuffré, 2001, p. 88; Martin Heidegger, Costruire, abitare,
pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 96-108.
3. Com’è noto, nel Convivio e nell’Epistola a Can Grande della Scala, Dante illu-
stra le quattro dimensioni semantiche della Commedia: letterale, allegorica, morale e
anagogica. Applicate alla topografia fisica e religiosa del canto XII dell’Inferno, esse
danno luogo a quattro possibili piani interpretativi: 1) il piano letterale delle figure
mitologiche (il Minotauro di Creta e i Centauri della Tessaglia); 2) il piano allegorico
della frana di un ordine antico; 3) il piano morale della furia e dell’impotenza delle
passioni; 4) il piano anagogico dell’approdo a un nuovo ordine spirituale.
4. Per una lettura più completa delle “figure” del XII canto rinvio a Maria Stella
Barberi, Minotauri e Centauri. La crisi della ritualità arcaica nel XII dell’Inferno, «Nuova
corrente», 53, 2006, n. 138, pp. 167-186; Idem, Topografia del sacrificio nell’Inferno
dantesco, in Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, a cura di
Pierpaolo Antonello e Giuseppe Fornari, Massa-Ancona, Transeuropa, 2009, pp.
65-82.
CATASTROFI GENERATIVE
«E quando vide noi, se stesso morse, / sì come quei cui l’ira dentro
fiacca»
7. Sull’uso dell’ironia nella poetica dantesca, cfr. John Freccero, Dante. La poetica
della conversione, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 154 e sgg.
CATASTROFI GENERATIVE
13. Si tratta del fr. 6 e 9 che riporto nella traduzione di Gallavotti: «Ma ora debbo
giungere, riprendendo il cammino, a quel varco degli inni / che indicai come primo
nella trama, e di là questa trama / deduco, quando l’astio è pervenuto fino all’ultimo
abisso / del vortice, e allora venga concordia nel mezzo del turbine a collocarsi. / Lì
tutti si affollano questi elementi, per formare una sola unità, / e non all’improvviso,
ma volentieri accorrendo da ogni parte, per stringersi insieme»; «E come in una notte
burrascosa, prevedendo il cammino, / qualcuno si arma di lume, per ogni sorta di
venti aggiustando / la face di ardente fuoco dentro le tele del fanale; / queste scartano
il soffio dei venti impetuosi, / e la luce filtrando fuori, quanto più larga è l’apertura, /
attraverso questa rifulge con raggi tenaci; / così allora era stata serrata nelle membrane
la primordiale fiamma,/ e con morbidi lini Afrodite avviluppò / la rotonda pupilla,
fissandoli con amorose borchie; / quelli scartavano via la massa dei circolanti umori, /
ed il fuoco sortiva da varco, quanto più era largo, / dove erano forati gli occhi da parte
a parte con prodigiosi anfratti.» (Poema fisico, frammenti 6 e 9, in Empedocle, Poema
fisico e lustrale, cit., p. 22- 23 e 26-27). Vedi anche Commento, Ivi, pp. 195-200 e pp.
202-205; e Jean Bollack, Empédocle, I, cit., pp. 229 sgg.
la catastrofe cristocentrica
il cammino dell’esule «affidato all’astio furibondo», per giungere
infine «a quel varco degli inni», «primo nella trama» dove lo at-
tendeva la santa protettrice della fiamma divina, Afrodite la previ-
dente custode della “pupilla”: «e come in una notte burrascosa» il
viandante, «aggiustando la face di ardente fuoco dentro le tele del
fanale», va incontro a venti impetuosi e a furiose bufere (ma anche
a agguati improvvisi), così ella «avviluppò la rotonda pupilla [...]
con morbidi lini», «e quelli scartavano via la massa dei circolanti
umori.» Il filosofo sciamano trovò allora la giusta metafora che lo
stabiliva sovrano sulle cicliche, oscillanti vicende dell’odio attrattivo
e della volenterosa concordia. È possibile che in questa metafora
poetico-naturale alberghi soltanto il principio della visione affidato
alla risoluzione visiva della “pupilla”: sia essa l’umido repositorio e la
soglia dell’occhio, oppure indichi il riposo di una “fanciulla” avvolta
nei drappi del letto,14 accertabile con lo sguardo della mente che
riflette su un mondo di differenze vivibili e equilibrate proporzioni.15
Ma nella “pupilla” come alveo della vita – sia la vita di Empedocle,
o di chi per lui – è ravvisabile anche l’assai più inquietante “varco”
della fiamma che, nei divini sacrifici, fremendo, si sottrae alla vista
dei concordi, per dare l’abbrivio a nuove armoniche combinazioni
di membra mortali e rischiarare di un nuovo giorno i disfacimenti
e le rinascite che abbracciano il creato; in quel momento dal più
buio dell’astio sorgono espiazioni e differenze, ma invisibile ai più,
la “pupilla”, loro luogo d’origine, resta nascosta.16
L’interpretazione mimetico-sacrificale dei frammenti 6 e 9 del
Poema fisico qui azzardata non manca di riscontri nell’ambito del
pensiero presocratico, assai attento ai fenomeni della violenza, dei
14. Il doppio significato del greco kore come occhio o fanciulla è supportato dai
commenti citati alla nota precedente. L’immagine della pupilla come specchio della
mimesis si trova anche in Platone, Alcibiade, 133 a; Timeo, 46 ac, Sofista, 2, 39 d; Re-
pubblica, 3, 395 e-396 b. Per il passaggio sulla pupilla in Alcibiade si veda Maria Stella
Barberi, Mysterium e ministerium, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 249-250.
15. Differenza come differenza, Differenz als Differenz la chiama Girard sulla
scorta di Heidegger, si veda René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano,
Adelphi, 1998, p. 263.
16. Un occultamento più radicale, in chiave morale e soggettiva, delle espiazioni dell’agri-
gentino Empedocle è proposto nel poema omonimo di Hölderlin, come espiazione ciclica-
mente imposta dalla Natura al mondo (anche a quello politico della città di Agrigento).
CATASTROFI GENERATIVE
26. Empedocle, fr. 23.5 e fr. 23.9. Cfr, Stephen Halliwell, L’estetica della mimesis.
Testi antichi e problemi moderni, a cura di Giovanni Lombardo, Palermo, Aesthetica,
2009, pp. 388-389.
27. Di catastrofe riparatrice parla Luigi Pietrobono, Il poema sacro. Saggio sulla
Commedia. Inferno I, Bologna, Zanichelli, 1915, p. 17.
la catastrofe cristocentrica
di Bartolomeo.28 Dante lo aveva evocato ai versi 52-63 del IV canto
dell’Inferno, dove Cristo liberò dal Limbo i “capostipiti” dell’Antico
Testamento, e in altri riferimenti sparsi nella Commedia ne ha enfa-
tizzato l’attacco imprevisto, rapido e di sorpresa, contro il nemico
infernale. Ma è nel XII canto che la discesa di Cristo agli inferi è più
chiaramente collegata al suo potere di “aprire uno spazio”.
Tre significati dell’espressione “aprire uno spazio” devono essere
enucleati nel nostro contesto: quello giuridico e politico che in una
accezione dinamica è evento creatore di spazio;29 quello di apertura
di un combattimento – nel diritto medievale l’inizio del duello era
annunciato dall’apertura delle porte del luogo deputato alla prova
giudiziaria; quello infine rintracciabile nell’etimo greco di “caos”:
abisso che si apre per inghiottire, ingurgitare, divorare, distruggere e
fare a pezzi (ma anche restare a bocca aperta in segno di insensatezza,
vanità, stupidità e noia).30 Sono questi i significati che segnalano ai
versi 34-45 la sottrazione a Dite dell’illecita preda, il tremore dell’
«alta valle feda» prima di quella sottrazione, il «più volte il mondo
in caos converso» della teologia antica.31 In questi versi quindi il
terremoto già descritto all’inizio del canto in analogia con altri eventi
naturali come accesso imprevisto ad una regione inferiore, è ora più
esattamente situato nel tempo storico – «in quel punto» tra «l’altra
fïata» che Virgilio era disceso laggiù, e il «poco pria» della discesa di
28. Cfr. I Vangeli Apocrifi, Bologna, Il Mulino, 2009. Come articolo di fede, la
discesa agli inferi era già contenuta nel credo di Nicea e sarà proclamata dogma nel
1215 e nel 1274. Cfr. Eileen Gardner, Visions of Heaven and Hell before Dante, New
York, Ithalica, 1989.
29. «Lo spazio è evento, e solo gli eventi creano spazio», riporta nel suo Glossario
Carl Schmitt. Da Heidegger a Schmitt l’accezione estatica ed estetica dell’espressione
“evento” si trasforma però in quella politica e giuridica. In quest’ultima accezione
riconosco il significato dinamico dell’evento che crea spazio.
30. Vedi alle voci “chascō” e “chainō”, Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique
de la langue grecque. Histoire des mots, Paris, Klincksieck, 1999.
31. Riporto per comodità di lettura i versi 34-35: Or vo’ che sappi che l’altra fïata
/ ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, / questa roccia non era ancor cascata. / Ma
certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda / levò a Dite del
cerchio superno, / da tutte parti l’alta valle feda / tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
/ sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso; / e in
quel punto questa vecchia roccia, /qui e altrove, tal fece riverso.
CATASTROFI GENERATIVE
Cristo nel Limbo. Difficile dire se Dante aderisca alla tradizione che
collega la discesa di Cristo agli inferi al momento della resurrezione
(tradizione presente soprattutto nella chiesa d’oriente) o se invece
la consideri come facente parte ancora del mistero della morte del
Figlio di Dio (secondo la tradizione più diffusa nel medioevo e nella
mistica occidentale). Quel che è certo è che «qua giù nel basso in-
ferno» si gioca e si decide una partita decisiva con l’avversario degli
uomini. Questo lascia chiaramente intendere il richiamo al crollo
di una roccia nelle profondità degli abissi tra l’altra fiata del verso
34 – passaggio dal tempo antico al tempo cristiano come stravol-
gimento provocato in terra e in inferno da un terremoto – e il poco
pria del verso 37 – che anticipa l’azione di «colui che la gran preda
levò a Dite.» Una scansione a più livelli del tempo storico è quindi
implicata nella morte e nella discesa agli inferi di Gesù Cristo. Molti
episodi della Commedia prolungano in direzione apocalittica fino alla
fine dei tempi questo procedere catastrofico della presa di possesso
redentiva dell’umanità qui compresa come terremoto che ha aperto
uno spazio all’azione di «colui che la gran preda levò a Dite dal
cerchio superno.» Riferita alla storia cristiana, la presa di possesso
è l’argomento ampiamente discusso, assai noto ed eloquente, della
visione del Paradiso Terrestre dove la crisi della Chiesa di Roma e
le speranze di un suo riscatto sono dette riprendendo alla lettera e
in nuove figure l’Apocalisse di Giovanni.32
32. Purgatorio, XXXII, 143-161. Sull’immagine della Chiesa come puttana sciolta
elevata su un carro e guardata da un gigante che la percuote e sospinge, si veda Chiara
Sbordoni, L’Apocalisse nella Commedia di Dante, in Apocalissi e letteratura, a cura di
Ida De Michelis, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 31-54; Lino Pertile, La puttana e il gigante.
Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna, Longo, 1998. Sul
tema apocalittico in Dante, Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi,
Bari, Laterza, 1942, p. 333 e sgg.; Richard Kenneth Emmerson, Antichrist in the Middle
Ages. A study of Medieval Apocalypticism, Art, and Litterature, Seattle, University of
Washington Press, 1981; Aldo Vallone, La Divina Commedia e L’Apocalisse, «Deutsches
Dante Jahrbuch», 65, 1990, pp. 107-145; Idem, Percorsi danteschi, Firenze, Le Lettere,
1991, pp. 22-41; Ronald B. Herzman, Dante and the Apocalypse, in Richard Kenneth
Emmerson, Bernard Mc Ginn, The Apocalypse in the Middle Ages, Ithaca-London,
Cornell University Press, 1992; Richard Kenneth Emmerson, Ronald B. Herzman,
Apocaliptic imagination in Medieval Literature, Philadelphia, University of Pennysilvania
Press, 1992, in particolare cap. IV.
la catastrofe cristocentrica
Su questa presa di possesso ci soffermeremo tra poco. Ma
consideriamo innanzitutto come Dante stabilisce una successione
ininterrotta tra il sacrificio di Cristo ed i riti sacrificali di altre tra-
dizioni, prima fra tutte quella ebraica. È nella Monarchia II, VII, 5
che, dopo avere citato il Levitico, XVII, 3-4, e la Lettera agli Ebrei,
XI, 6, Dante aggiunge: «la porta del tabernacolo “figura” Cristo [...]
come [...] l’uccisione degli animali le operazioni umane (Hostium
tabernaculi Cristum figurat [...] ut [...] occisio animalium operationes
humanas).» L’allegoria cristiana, da San Paolo ai Padri della Chiesa
all’esegesi medievale, vede nell’Antico Testamento la “figura” del
Nuovo. Seguendone l’indicazione, Erich Auerbach chiamò senso
figurale il corso apparentemente lineare dell’evoluzione spirituale
e la “forza di irradiazione” dell’accadere storico, così delineando
uno specifico metodo d’interpretazione e di esegesi realista. 33
Un’analoga linearità nella comprensione del rito potrebbe suggerire
l’analogia proportionalis appena citata. Ma Dante non si limitò ad
addizionare metonimici slittamenti di significato: Cristo non sta al
posto della porta del tabernacolo, né le operazioni umane stanno al
posto dell’uccisione degli animali. Entrambi gli elementi – la figura
e il figurato, la porta del tabernacolo e il Cristo – indicati nei primi
termini dell’analogia esprimono un contenuto di realtà storica, così
come, passando da un ordine all’altro della comparazione, i corri-
spettivi secondi termini – l’uccisione degli animali e le operazioni
umane – ne descrivono il fondamentale carattere rituale. Natural-
mente è il principio di fede che attiva il dispositivo rituale del culto
ebraico del capro espiatorio poi universalizzato nel multiforme
agire umano. Il Poeta ha probabilmente colto meglio d’ogni altro
che una volta spezzata l’unità di forma rituale e contenuto religioso
il procedimento allegorico perde il suo carattere storico-figurale
33. «L’interpretazione figurale – scrive Auerbach – stabilisce tra due fatti o persone
un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro,
mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel
tempo, ma si trovano entrambi nel tempo come fatti o figure reali» (Erich Auerbach,
Studi su Dante (1929), Milano, Feltrinelli, 1963, p. 209); Cfr. anche Idem, Mimesis. Il
realismo nella letteratura occidentale (1956), Torino, Einaudi, 2000, 2 voll.; Idem, San
Francesco Dante Vico e altri saggi di filologia romanza, Roma, Editori Riuniti, 1987.
Vedi anche John Freccero, Dante. La poetica della conversione, cit.
CATASTROFI GENERATIVE
36. Lutero, Sermone di Torgau (1533) e Solida declaratio della Formula di Concordia,
Art. IX. L’espiazione sostitutiva è un principio fondamentale della soteriologia luterana.
37. Calvini Institutio, IV, 18, 2, CR, Opere, II, col. 1052.
38. Cfr. la nota integrativa al canto in Dante Alighieri, Commedia, con il commento
di Anna Maria Chiavacci Leopardi, Milano, Mondadori, 1991, I, p. 131.
CATASTROFI GENERATIVE
deviato e per così dire distolto dalla sua tendenza per dare inizio ad
un movimento opposto. Possiamo ricorrere alle figure geometriche
della spirale per disegnare l’opposto movimento del converso (spirale
discendente) e del riverso (spirale ascendente), che comprende natu-
ralmente anche la struttura e il progetto unitario della Commedia.56
Qui interessa soprattutto il capovolgimento della spirale che nel
XII canto è ancora nascosto dentro il percorso a spirale discendente
che condusse Dante e Virgilio in fondo all’inferno e semplicemente
suggerito dall’evocazione di «colui che la gran preda levò a Dite.»
Ma la potenza della rima ha già tracciato sul diagramma spazio-
temporale del luogo infernale l’inizio del movimento retrogrado
che il XXXVI dell’Inferno restituirà in figura intera attraverso la
straordinaria risalita del pellegrino e della sua guida lungo il corpo
di Lucifero.
56. Sul tema si veda la mia Introduzione a La spirale mimetica, a cura di Maria Stella
Barberi, Ancona-Massa, Transeuropa, 2006, pp. XIII-XXI; Idem, Il centro segreto di
una scala a chiocciola, in Il messaggio dell’Imperatore, a cura di Maria Felicia Schepis,
Torino, Giappichelli, 2006, pp. 296-297.
57. Nel terzo canto, alle porte dell’Inferno, Dante chiede a Virgilio « qual costume»
fa sì che le anime lì convenute siano così pronte e ben disposte a traversare l’Acheronte,
«la triste ripa» (Inferno, III, 69-78). Ecco la risposta che riceve: «quelli che muoion
ne l’ira di Dio / tutti convengon qui d’ogne paese; / e pronti sono a trapassar lo rio,
/ ché la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volge in disio» (III, 122-126). Il
«malo fiume» riappare in Purgatorio, I, 88, dove è detto che i sentimenti che possono
«muover» quelli che non sono usciti dall’Acheronte, non hanno più il potere di com-
muovere Catone, neanche sua moglie Marcia.
la catastrofe cristocentrica
vanti al collettore del sangue dal quale emergono a stento i tiranni
e i predoni quasi ridotti a un inane brandello, il Poeta invoca: «Oh
cieca cupidigia e ira folle, / che sì ci sproni ne la vita corta, / e ne
l’etterna poi sì mal c’immolle!»58
In questa antica e moderna verità antropologica della violenza
starebbe allora la vera portata catastrofica del XII canto. Una verità
che Virgilio nell’Eneide pronuncia con una formula spaventosa «se
non potrò piegare gli dèi moverò l’Acheronte.»59 Chi cerca di piegare
i propri dèi sprofonda sempre più in Acheronte: ai cinici o disperati
manipolatori di forze scatenate e sciolte, a chi cerca di neutralizzare
o di piegare ai propri fini i poteri infernali, non è concesso muovere
Acheronte.60 Dal punto di vista drammatico il potere di Acheronte
è il contrappasso infernale dei violenti: cancellazione di tutte le dif-
ferenze sull’insieme dei rapporti umani. Ma il suo potere non oltre-
passa l’eternità infernale. Per Dante d’altronde c’è sempre un luogo
in cui «si ricoglie / qual verso Acheronte non si cala»: in Inferno,
XIV, 116, è Roma verso cui guarda il veglio di Creta, e in Purgatorio,
II, 104-105, è il Tevere, porto di Roma e sede della Chiesa, alla cui
foce si raccolgono quelli che hanno per meta la salvezza.
Escluso quindi che le forze propriamente infernali del caos muo-
vano e siano mosse da chi, appropriandosi del loro principio, vuole
convertirle ai propri fini, dobbiamo ora chiederci se nuovi decreti
possano essere stabiliti nel luogo che esse occupano, determinando
un cambio di direzione nel movimento a spirale di cui si diceva. Esat-
tamente a questa domanda, a mio avviso, rispose Pietro Crisologo
nel Sermo 74 sulla resurrezione di Cristo: movetur caos annuncia il
grande terremoto che ha scosso e sconquassato, profanato e resi
infermi gli abissi della terra.
58. Dopo la ruina del Minotauro, il paesaggio del girone ci mostra i Centauri «[...]
sovr’una gente che ’nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse» (vv. 116-17).
Per la legge del contrappasso, coloro «che dier nel sangue e ne l’aver di piglio» (v. 105)
sono immersi nella riviera di sangue.
59. Flectere si nequeo superos, Acheronta movevo, Eneide,VII, 312.
60. Smentendo ogni idealismo, Carl Schmitt conferma: «L’Acheronte non si lascia
ingannare, e non asseconda ogni invocazione, per quanto sagace sia l’uomo che la pro-
nuncia, e per quanto disperata possa essere la situazione in cui egli si trova» (La teoria
del partigiano, Milano, Adelphi, 2005, p. 115, vedi anche p. 145, nota 29).
CATASTROFI GENERATIVE
62. Val la pena di ricordare che nella tradizione orientale mentre Gesù muore
sulla croce è Satana ad essere inchiodato sulla stessa. Val la pena di ricordare che nel
tesoro del Duomo di Messina è conservato un crocifisso del XV secolo sul quale è
inchiodato l’albero della vita: in un’edicola posta accanto a questo crocefisso si legge:
«chi dall’albero traeva vittoria, dall’albero viene sconfitto.» Anche John Freccero vede
Lucifero nel XXIV canto, nel più profondo dell’Inferno, come una figura inchiodata
alla croce, Idem, op. cit., p. 243 e sgg. Cfr. anche René Girard, Vedo Satana cadere come
una folgore, Milano, Adelphi, 2001, cap. XI, pp. 180-199.
63. Monarchia, II, XI 5.
CATASTROFI GENERATIVE
In conclusione
il ciclico ritorno al caos e la presa di possesso di cui fu protagonista «colui che la gran
preda levò a Dite del cerchio superno.»
75. Monarchia, II, XI, 1-8; III, XVI, 1-4.
76. In Monarchia, II, XI, 2, Dante afferma: «Se la morte di Cristo non avesse dato
soddisfazione del peccato di Adamo, saremmo ancora i figli dell’ira.»
la catastrofe cristocentrica
dandone anzi l’andamento, possiamo infine comprendere il senso
77
77. Per la critica dantesca il Minotauro posto a guardia della ruina, il terremoto dei
versi 34-45 e la discesa di Dante e Virgilio nel bulicame di sangue guardato dai Centauri
sono episodi giustapposti e senza evidente rapporto l’uno con l’altro.
V
Riccardo Di Giuseppe
la catastrofe di nietzsche
Esodo 15, 26
«In quell’epoca egli riempì anche alcuni fogli con fantasie sin-
golari, nelle quali la saga di Dioniso-Zagreus si mischiava alla Pas-
sione dei Vangeli e ai personaggi contemporanei a lui più vicini. Il
dio fatto a pezzi dai suoi nemici vaga, risorto, lungo le rive del Po
e vede, oramai, tutto ciò che un tempo ha amato – i suoi ideali, gli
ideali del presente in generale – ben lontano al di sotto di sé. I suoi
amici e prossimi gli si sono trasformati in nemici che lo hanno fatto
a pezzi. Questi fogli si rivolgono contro Richard Wagner, Scho-
penhauer, Bismarck, i suoi amici più intimi: il professor Overbeck,
Peter Gast, la signora Cosima, mio marito, mia madre e me. Durante
quest’epoca egli firmava tutte le sue lettere come “Dioniso” o “Il
Crocifisso”. Anche in queste note si trovano ancora passi di bellezza
vertiginosa, ma nel complesso essi si caratterizzano come morboso
vaneggiamento febbrile.»1
del tipo “Io sono Dio”, “Io sono tutti personaggi della storia” e
la spiegazione della follia di Nietzsche che Nietzsche stesso, qui, ci
dichiara. Qui Nietzsche non fa il pazzo, ma interpreta la sua pazzia :
la prova testuale è nell’espressione neu erstanden, «risuscitato»,
«un’altra-volta-in-piedi», che pone una distanza tra quello che è
avvenuto e un altro punto di vista, quello del frammento, che si
colloca – «risuscitato» – al di là di ciò che è accaduto.
A differenza delle lettere, che parlano un linguaggio-oggetto – il
linguaggio di primo grado della follia – il testo che stiamo studiando
introduce un metalinguaggio, giacché Nietzsche spiega che cosa è
successo a Dioniso perché possa trovarsi, risorto, a passeggiare sul
Po. Nietzsche si gira indietro e interpreta la sua follia: è questo il
valore di questo testo straordinario che spiega, come vedremo, il
senso profondo dei biglietti della follia. Esso è un’autotestimonianza
della coscienza di Nietzsche sulla follia che si è abbattuta su Niet-
zsche. Per non so quale giravolta suprema di questa disgraziata e
tormentata coscienza, Nietzsche, così, deve essere dichiarato il primo
interprete della follia di Nietzsche, cioè delle lettere, che restano su
un altro piano.
Un’altra maniera di dire la medesima cosa – ma più pregnante,
mi sembra – è la seguente: mentre Nietzsche, nelle lettere, fa il pazzo
perché adopera il pronome «io»: parla, dunque, alla prima perso-
na identificandosi con il discorso folle, questa volta si distacca da
questa follia e crea un secondo grado – l’autocoscienza della follia
di Nietzsche – perché parla, alla terza persona, di Dioniso Zagreus,
visto con distacco a partire da una rinascita. Dall’identificazione
dionisiaca allo sdoppiamento apollineo, dalla prima persona alla
terza, o “non-persona”:4 chi parla prende le distanze da ciò di cui
parla, come il narratore di un romanzo storico. O in un mito.
Dopo l’indifferenziazione dionisiaca – «passione» – e come ogni
pazzo che si rispetti, Nietzsche si sdoppia e si osserva come Dioniso.
Sembra una buona sintesi de La nascita della tragedia: Nietzsche si
è trasformato nella sua filosofia.
14. Lat. mānes è arcaismo per boni: i morti sono – per antonomasia – i buoni. Cfr.
Alfred Ernout-Antoine Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Histoire
des mots, 4e éd. augm., Paris, 1985 (1932), s.v. mānis.
15. Come i gefirismi dei Misteri di Eleusi.
CATASTROFI GENERATIVE
Nella Nascita della tragedia – per dirlo in una sola parola – Dioniso
è la cifra di un’esperienza diretta. Sotto la rubrica astratta dell’agget-
16. Giordano Bruno, De gli eroici furori, Dialogo quarto, incipit (Aquilecchia).
CATASTROFI GENERATIVE
*
CATASTROFI GENERATIVE
19. Friedrich Nietzsche, fr. post. 25 [6], dicembre 1888-gennaio 1889 (Sämtliche
Werke 13, 639 = ofn VIII 3, 409). Trad. it. di S. Giametta lievemente modificata. Il
passo è utilizzato in Ecce homo, «Perché io sono un destino», incipit (Sämtliche Werke
6, 365 = ofn VI 3, 375), ove segue immediatamente : «Io sono dinamite».
la catastrofe di nietzsche
Mercadante in una relazione che ha concluso l’essenziale di questo
nostro incontro nell’atto stesso di inaugurarlo. È il popolo di Messina
che chiamiamo, qui, a deporre quale parte civile nella catastrofe di
Nietzsche: quel popolo minuto che salvò le proprie rovine facendo
loro scudo con i propri corpi stesi di fronte alle bocche dei canno-
ni di un generale che, vistasi affidata la responsabilità di uno stato
d’assedio, pensò bene di dover procedere col bombardamento di
quelle rovine, onde far tabula rasa, dopo della città, anche della
memoria dei suoi cittadini. Di quel popolo che – come ci ha istruito
la lezione di Mercadante – a noi epigoni nietzscheani insegna, si
direbbe, una volta per tutte non come nelle catastrofi dionisiache si
entra, ma come se ne esce, con esempio memorabile. Un popolino
che, nelle quarantotto ore susseguenti un terremoto – con coda di
tre maremoti – dell’undicesimo grado della scala Mercalli, in cui
restarono uccise sessantamila persone, fu sorpreso dal fotografo di
un periodico dell’epoca in atto di dissotterrare un Crocifisso tra le
macerie per improvvisare una processione, come ha detto Merca-
dante, non si sa dove, una teoria verso il nulla. Di certo, quella parte
civile poteva andare verso il nulla perché aveva trovato, nell’esempio
del Cristo, la forza di dire – come ci ha insegnato Mercadante – che
non era successo nulla. Parole che al filologo, o al lettore di Nietzsche,
fanno venire in mente gli Spartiati alle Termopili. Questo sia dunque
l’omaggio, cento anni dopo Nietzsche, che portiamo al centenario
del terremoto di Messina: omaggio a una gens cristiana che, nel
dissotterrare quel legno, ripeteva il gesto stesso della Resurrezione;
e – per umile che era – ritrovava un’oltracotanza stavolta veramente
degna di Eschilo e dei maratonomachi. Che ne è, dunque, di Nietzsche
profeta di catastrofi quando, dalle catastrofi, si vuole riuscire? Che
senso può mai avere la sua via verso il nulla – come recita il titolo
di un libro a lui dedicato – di fronte a un Crocifisso in processione
verso il nulla, e al genio di una gente dietro a questo Crocifisso? Il
confronto è troppo impari, Nietzsche stesso se ne è accorto; e le
coincidenze della storia del suo testo vogliono che – anche stavolta
– ne risultiamo informati.
*
CATASTROFI GENERATIVE
20. Neues aus Nietzsches Jugend. Unbekannte Verse und Entwürfe Friedrich Niet-
zsches, eing. v. F. Dernburg, «Der Zeitgeist», Beiblatt zur Berliner Tageblatt vom 24.
November 1902, Nr. 47. Prima ed. crit. in BAB (Historisch-kritische Ausgabe Mette)
1, 1938, n. 197, pp. 192-195. Cfr. ora Friedrich Nietzsche, Briefwechsel, Kritische Ge-
samtausgabe, hg. v. Giorgio Colli u. Mazzino Montinari, Berlin-New York, de Gruyter,
1975, I 1, n. 324, pp. 217 sgg; commento in Nietzsche, KGB I 4, 201 sgg.
la catastrofe di nietzsche
commoventemente
il tuo sguardo così spesso mi ha colpito:
con gioia ora io vengo. »21
Bibliografia
una teoria e ciò che gli Stati qualche volta mettono in atto; si tratta
tutt’al più di una tensione o di un paradosso nel senso originario
del termine.3 La funzione protettrice dello Stato moderno tuttavia
non è semplicemente teorica. Interdicendo la vendetta privata e
riservandosi il diritto di ricorrere all’ostilità per risolvere i conflitti,
lo Stato assume il ruolo di difendere i propri cittadini, ed ha delle
buone ragioni per pensare che tale ruolo è costitutivo dello Stato
detentore del monopolio della violenza legittima. Essere il detentore
del monopolio della violenza legittima, in effetti, significa non solo
essere l’arbitro supremo di tutti i conflitti, ma anche togliere agli
individui il diritto di difendersi e dunque assumere il dovere di farlo
al posto loro.4 Le violenze di massa che gli Stati han commesso contro
i loro stessi cittadini costituiscono di conseguenza una singolare per-
versione dell’ordine politico come il mondo moderno lo comprende
e lo ha istituzionalizzato. Concepito e istituito per mantenere la pace
all’interno e assicurare la difesa contro i nemici esterni, ecco che lo
Stato si volge contro coloro che dovrebbe difendere e fa della loro
distruzione il proprio obbiettivo. Queste violenze statali pongono
un problema politico radicale. Esse rimettono in causa l’istituzione
politica stessa poiché negano la sua funzione fondamentale e ci in-
vitano a riesaminare le nostre teorie politiche. Se è vero che proprio
per ottenere protezione diamo il nostro consenso al potere cui siamo
sottomessi, le violenze degli Stati contro i loro cittadini testimoniano
di una vera catastrofe della Ragione e interrogano anche la nostra
concezione della razionalità. Perché se sono frequenti le violenze
degli Stati contro i loro cittadini, altrettanto frequente è il sostegno
che sempre ed ovunque la stragrande maggioranza reca al potere
che infierisce contro alcuni.
Se la funzione primaria dello Stato è di proteggerci dalla nostra
stessa violenza, come può adempiere a questa sua funzione? Secondo
Hobbes, è attraverso la violenza che lo Stato ci protegge contro la
nostra violenza, e questa violenza dello Stato è la forza coercitiva
5. René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi,
1983, pp. 71-79.
6. La teoria dello Stato moderno non rivela che in modo imperfetto il trasferimento
della violenza. Essa presenta lo spostamento della violenza come la rinuncia di ciascuno
alla sua propria violenza (al suo diritto di difendersi da sé), piuttosto che come il consenso
di tutti alla violenza sovrana. Essa dona, attraverso l’abbandono della violenza, ciò che è
in realtà (e necessariamente secondo la teoria) l’accordo dato all’esercizio della violenza
da parte del sovrano. Il fatto che l’operazione consiste nello sviare la violenza degli uni
e degli altri verso vittime terze è ancor meno visibile. Tuttavia, poiché si tratta di un
CATASTROFI GENERATIVE
trasferimento della violenza, piuttosto che del suo abbandono, l’operazione implica
forzatamente che la violenza si esercita effettivamente contro qualcuno.
la violenza, catastrofe della ragione
Ragione e il monopolio della violenza legittima come un rapporto
in cui la Ragione, l’accordo razionale dei soci, fonda lo Stato. Il
contratto sociale razionale dà vita allo Stato e conferisce al sovrano
il monopolio della violenza legittima, che gli permette di difendere
i cittadini. La lettura girardiana invita a rovesciare questo rapporto
di fondazione. Essa suggerisce che il monopolio della violenza le-
gittima è ciò che fonda la ragione nella sua pretesa ad essere l’altro
della violenza. La differenza tra la Ragione e la violenza da cui si
vorrebbe far sorgere l’accordo unanime dei soci non precede il gesto
fondatore dell’ordine politico, ma da esso scaturisce.
Per questo, quando il monopolio della violenza legittima è con-
testato dalla violenza politica, non è solo la divisione tra buona e
cattiva violenza ad essere minacciata, ma è la distinzione tra violenza
e ragione che presto svanisce. Il ricorso alla violenza si presenta allora
agli individui, non soltanto come un’opzione razionale, ma anche,
assai spesso, ragionevole.
7. Alexander Laban Hinton, Why did they kill? Cambodia in the shadow of genocide,
Berkeley, University of California Press, 2005, pp. 96-125.
la violenza, catastrofe della ragione
abitati faceva parte di questo programma. Essi dovevano diventare
dei contadini e col loro lavoro aumentare la produzione di riso e
assicurare così l’autonomia alimentare del paese.
A dispetto della loro ideologia e dell’uguaglianza che intende-
vano stabilire, i Khmer rossi hanno messo a punto nuove forme
di divisione sociale e ricreato una società gerarchizzata. Il potere
distingueva, in effetti, tra i membri del popolo nuovo, gli antichi
residenti evacuati dalle città che adesso abitavano in campagna, e
i membri del popolo antico, da sempre contadini, considerati più
favorevoli al nuovo regime. In numerosi casi, tuttavia, nient’altro
distingueva i membri del nuovo o dell’antico popolo, che il luogo in
cui abitavano al momento della presa del potere da parte dei Khmer
rossi. Al di sopra di questi due “popoli” ordinari, c’era il partito che
formava un’unica organizzazione con l’esercito. La parte più bassa
della gerarchia era costituita dai cambogiani d’origine vietnamita e
dai membri della minoranza Cham.
Era facile per i Khmer rossi pensare che questo ordinamento
gerarchico costituiva di fatto una società compiutamente egalitaria.
La distinzione tra il partito e il popolo corrispondeva alla divisione
tra lo Stato e i cittadini, dal momento che ogni membro del partito
è anche cittadino ordinario sotto un altro rapporto (come dimo-
strano benissimo le purghe successive del partito). La distinzione
tra il nuovo e l’antico popolo è politica e amministrativa. Essa punta
a realizzare l’uguaglianza permettendo l’assimilazione dei cittadini
nelle comunità contadine.
Infine i Cambogiani vietnamiti e i Cham sono come degli estranei.
Essi non sono Khmer. In breve, tutti i cittadini, tutti i Khmer, sono
uguali e se non lo sono, presto lo diventeranno.
A dispetto di tutti gli sforzi dei Khmer rossi per ridurre l’impor-
tanza sociale della famiglia e delle relazioni di clientela, nello stesso
partito, quando un individuo diventava capo del villaggio, del di-
stretto o comandante della regione, uomo o donna che fosse affidava
tutti gli incarichi importanti posti sotto la propria giurisdizione a
parenti o amici. Mentre a livello nazionale e sociale il partito esaltava
(predicava promuoveva) l’uguaglianza, era esso stesso organizzato in
combriccole e clan, e ogni regione tendeva a trasformarsi in feudo
CATASTROFI GENERATIVE
8. Per una esposizione incisiva di questa differenza tra l’abolizione dei legami fami-
liari perseguita come politica ufficiale del rapporto fra le persone e la realtà del potere si
legga Ben Kiernan, The Pol Pot Regime, Race, Power and Genocide in Cambodia under
the Khmer Rouges, 1975-79, New Haven, Yale University Press, 1996, pp. 169-170.
la violenza, catastrofe della ragione
interrogatori ci si abbandonava ad atti di tortura e atrocità contro vit-
time senza difesa che avrebbero potuto essere uccise in un modo per
così dire rapido e pulito: chi entrava a Tuol Sleng era già condannato
e se prima di giustiziare questi traditori bisognava “incoraggiarli”
un po’ a redigere confessioni-denuncia contro i loro accoliti, non
era necessario torturarli per settimane o mesi, farli morire in atroci
sofferenze, violentarne le donne o ucciderne i figli davanti ai loro
stessi occhi. Perché tutte queste violenze barbare e inutili?
Secondo Hinton, le condizioni di vita degli aguzzini dell’S-21
riproduceva in forma particolarmente intensa certe caratteristiche
tipiche della Kampuchea Democratica. La prima di queste caratte-
ristiche è l’incertezza. Nessuno può sapere se all’improvviso diverrà
sospetto e quindi colpevole – perché Angan non sbaglia mai – di
crimini di cui non si sa nulla ma che bisognerà nondimeno confessare
prima dell’esecuzione. Perché a divenire dei sospettati basta che il
vostro nome compaia nella confessione di qualcuno o se ne faccia
menzione durante un interrogatorio, o che si sia legati in un modo
o nell’altro, a un responsabile locale arrestato. La violenza eccessiva
degli aguzzini, secondo Hinton, era solo un modo di sfogare contro
vittime innocenti, le frustrazioni, le paure, gli odi ch’essi non pote-
vano esercitare contro chi li minacciava veramente.
È importante sottolineare che la violenza dei torturatori di Tuol
Sleng era eccessiva in relazione ad un livello di violenza già estrema-
mente elevata, perché questo eccesso si manifesta attraverso torture,
atrocità, supplizi orrendi, quando ci si sarebbe potuti limitare a pic-
chiare i prigionieri prima di giustiziarli. La questione non sta tanto
nel sapere il perché i carcerieri dell’S-21 torturano senza ragione
apparente i loro prigionieri, quanto di sapere perché essi sono più
violenti della media. Perché la loro violenza superava di tanto ciò
che in seno alla Kampuchea Democratica era divenuto normale,
sopprimere senza esitazione i nemici politici interni?
La spiegazione proposta da Hinton è quella di un “meccanismo
psicologico” non troppo diverso da quello dell’uomo che dà un
calcio alla macchina o batte la moglie e i figli perché non può darle
direttamente al proprio capo. Hinton postula che la causa della
violenza eccessiva degli aguzzini di Tuol Sleng era uno spostamento
CATASTROFI GENERATIVE
11. Robert Gellately, Backing Hitler Consent and Coercion in Nazi Germany, Ox-
ford University Press, 2001; Accusatory Practices Denunciation in Modern European
History, 1789-1989, a cura di Sheila Fitzpatrick, Robert Gellately, Chicago University
Press, 2001.
CATASTROFI GENERATIVE
12. Di fatto si sa che senza l’aiuto dei delatori la Gestapo aveva pochissimi agenti
per controllare efficacemente il territorio tedesco, cfr. Robert Gellately, Denunciations
in Twentieth-Century Germany, in Accusatory Practices, cit., p. 187.
la violenza, catastrofe della ragione
che non si sarebbe arretrato di fronte a niente. Non che tutte le
violenze commesse in Cambogia fossero razionali, ma le prescrizioni
della ragione in quelle circostanze non si allontanavano troppo dalle
raccomandazioni della violenza.
Questa situazione testimonia del fallimento del transfert della vio-
lenza e della sua trasformazione in una violenza legittima, esercitata
da un centro unico. Invece di servirsi di uno sfogo che deviasse la
violenza reciproca dei cittadini, la violenza politica era sfruttata dai
singoli a profitto dei loro odi e dei loro conflitti privati.
I Khmer rossi non sono mai arrivati ad impossessarsi del mono-
polio della violenza e a costituirsi come un potere nella cui violenza
ciascuno potesse identificarsi. Le ragioni di questo fallimento sono
complesse e molteplici, fra le altre la dismissione della moneta da
parte di Pol Pot che, poco dopo l’assunzione del potere, ha dichia-
rato «d’ora in poi la moneta non ha più alcun valore», ha giocato
un ruolo importante.13 Svuotando le città anche i Khmer rossi han-
no rinunciato a tutti i monumenti che rendono visibile il potere,
volendo così indicare che esso esiste indipendentemente da quelli
che lo esercitano.
Allo stesso modo, essi hanno rigettato il potere giudiziario, l’esi-
stenza di un diritto distinto dalle specifiche decisioni di coloro che
esercitano la forza. In breve, i Khmer rossi hanno rifiutato tutte le
forme di trascendenza del potere.14
L’esempio della Cambogia testimonia che la ragione, concepita
come l’altro della violenza, dipenda dall’esistenza di un monopolio
della violenza che sia grado di pacificare un dominio in cui le prescri-
zioni del razionale e del ragionevole possono convergere. Testimonia
anche l’importanza dei conflitti e delle rivalità interpersonali in ciò
che si presenta come violenza politica e suggerisce da ciò stesso che
un ordine politico può “attecchire” se si fonda sullo spostamento
di questa violenza verso degli “altri”, preferibilmente esterni e
stranieri, all’oppressione o allo sterminio dei quali, tutti i membri
13. Sull’importanza della moneta e sul suo ruolo in relazione alla violenza si veda
Michel Aglietta, André Orléan La Violence de la monnaie, Parigi, PUF, 1982; e La Mon-
naie souveraine, a cura di Michel Aglietta, André Orléan, Parigi, Odile Jacob, 1998.
14. Devo questa precisazione a Daniel Bougnoux.
CATASTROFI GENERATIVE
*
teologie della catastrofe
Dopo aver cercato di definire storicamente il fenomeno, abbiamo
ora il compito di avvicinare quella che può essere stata l’origine
del monoteismo ebraico. Il mio presupposto di fondo è che le idee
religiose in genere siano state elaborate nel corso della storia non in
base a credenze di tipo razionalistico o naturalistico, come amano
immaginare cliché ancora duri a morire, né in base alle esperienze
genericamente mistiche o numinose a cui si richiama Mircea Eliade,
bensì a partire da esperienze traumatiche, e quindi da catastrofi, che
hanno coinvolto intere collettività, determinando nuove soglie di
significato nei casi in cui tali collettività le superavano e rielaborava-
no. Le catastrofi sono essenziali alla nascita del religioso, come sono
state essenziali anche alla nascita del monoteismo. Il monoteismo
contiene una risposta più avanzata agli stessi problemi che avevano
dovuto affrontare le religioni precedenti, certo in uno spirito di
contrapposizione fortissima che era indispensabile al suo formarsi e
stabilirsi, uno spirito che sarebbe però un errore assolutizzare come
carattere inevitabile dell’elaborazione monistica del teismo.
L’argomentazione che intendo sostenere si ispira alla linea di
ricerca rappresentata da Nietzsche, Durkheim, Freud, Bataille e
Girard. In tutti questi pensatori emerge con prepotenza il nesso
indissolubile tra religioni e catastrofi, anche se le loro accentuazio-
ni e articolazioni teoriche sono molto diverse: a parte Nietzsche,
che in questa successione svolge il ruolo provocatorio e sovente
contraddittorio dell’iniziatore, si può aggiungere che in Freud e
Girard manca un riconoscimento adeguato del ruolo creativo delle
catastrofi, che invece è splendidamente sviluppato in Bataille a
discapito dell’organicità esplicativa, mentre Durkheim si limita a
una disamina della società come totalità che tralascia il momento
genetico. A questi fondamentali contributi teorici io cerco di ap-
portare critiche e integrazioni che ritengo introducano a una teoria
aggiornata del religioso e della cultura.4
La mia analisi dell’insorgere del monoteismo ebraico è però in
debito con una monografia che Mario Liverani ha dedicato alla
4. Mi permetto di rimandare ai miei testi Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio
nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Genova-Milano, Marietti, 2006 e Filosofia
di passione. Vittima e storicità radicale, Ancona-Massa, Transeuropa, 2006.
CATASTROFI GENERATIVE
Fase pre-esilica
L’esilio babilonese
19. Max Weber, Sociologia delle religioni, a cura di Chiara Sebastiani, II, Torino,
Utet, 2008, p. 799.
CATASTROFI GENERATIVE
20. Guida di lettura dell’Antico Testamento, a cura di Thomas Römer, Jean Daniel
Macchi, Christophe Nihan, tr. it. di Roberto Fabbri e Rita Pusceddu, Bologna, Deho-
niane, 2007, pp. 308-309 e 312-313.
21. Cfr. Mircea Eliade, Storia delle credenze, cit., p. 382.
22. Cfr. Giuseppe Fornari, L’albero della colpa e della salvezza. La rivelazione
teologie della catastrofe
storie del diluvio e della torre di Babele; la vicenda di Mosè riprende
motivi mitici e simbolici della regalità assira e babilonese;23 l’anda-
mento storico e narrativo del Pentateuco, come dei libri dei Re e
delle Cronache, è debitore degli annali assiro-babilonesi e della loro
successione ordinata di personaggi regali e di eventi a loro connessi.
Altri libri biblici recano l’impronta dei generi letterari mesopotamici
da cui sono stati sviluppati:24 i Salmi derivano dai componimenti
penitenziali, di origine sumera, in cui il fedele si rivolgeva contrito
alle divinità per ottenerne l’aiuto; il Libro di Giobbe è la ripresa
di un poemetto, diffuso sia in Assiria che a Babilonia, dedicato al
“giusto che soffre”; a queste tipologie letterarie vanno aggiunte le
lamentazioni ricorrenti nei testi profetici, e il cui modello sono le
lamentazioni di ascendenza sumera sulla distruzione delle città nelle
varie calamità politiche che da sempre hanno funestato la regione.
L’elenco potrebbe essere più dettagliato, ma resta eloquente anche
in termini così succinti.
La visione teologica e storica della Bibbia assume un’organicità
e un’originalità che, negli esiti conclusivi, vanno ben oltre il tenore
dei testi mesopotamici e vicino-orientali, ma ciò è stato possibile
appunto per un’opera di utilizzo e reinterpretazione che ha conferito
al patrimonio culturale di questo piccolo popolo una profondità
che mai avrebbe raggiunto senza il “trauma nel trauma” della de-
portazione. A sua volta, tutto ciò non avrebbe trovato espressione,
non sarebbe riuscito a imboccare una strada così potentemente
costruttiva senza la terza fase del ritorno dall’esilio, di cui adesso ci
dobbiamo occupare.
La ricostruzione politico-religiosa
«La muta di caccia muove con ogni mezzo contro qualcosa di vivo
27. Luigi Alfieri, Il fuoco e la bestia. Commento filosofico politico al Signore delle
Mosche di Golding, in La contesa tra fratelli, a cura Giulio Maria Chiodi, Torino,
Giappichelli, 1992, § 3, Il cerchio, pp. 232-233.
28. Giuseppe Fornari, Filosofia di passione. Vittima e storicità radicale, Ancona-
Massa, Transeuropa, 2006, pp. 367-368.
29. Ivi, p. 369.
30. Ivi, p. 370.
il “cammello di fuoco”
onde galattiche mantengono cioè gli astri ognuno sulla propria or-
bita, armonizzandone il movimento in una spirale autoavvolgente.
Vale a dire che, raggiunto il punto limite dell’attrazione gravitazio-
nale, superato il quale i corpi celesti rischiano di collidere, le onde
galattiche agiscono in controtendenza come forze centrifughe e
disperdono la formazione. Ciò avviene fino al punto in cui la forza
centrifuga che sviluppano, perdendo progressivamente potenza man
mano che si allontana dal centro, viene di nuovo contrastata dalla
forza gravitazionale. Il conflitto fra forze centripete e forze centri-
fughe mantiene in armonia le orbite dei corpi celesti, giacché essi
subiscono contemporaneamente i moti di attrazione e di repulsione
emessi dal loro centro.
Mi piace usare questa immagine cosmica perché essa rende
ragione della naturalità delle formazioni circolari ed è utile a com-
prendere l’importanza vitale che assume, anche, nel subcosmo
umano, il punto centrale attorno a cui si dispone il cerchio ed ogni
membro del gruppo.
32. Maria Stella Barberi, Mysterium e ministerium. Figure della sovranità, Torino,
Giappichelli, 2002, pp. 37-38.
33. Elias Canetti, Massa e potere, cit., pp. 21-22.
34. Ivi, p. 22.
il “cammello di fuoco”
sé. Tolto il peso della distanza, egli si sente libero e la sua libertà è
passar oltre questi confini. Ciò che gli accade dovrà accadere anche
agli altri e lui se lo aspetta.»35
- derivato
40. L’espressione “precessione degli equinozi”, dal latino tardo praecessione,
di praecedere “precedere”, indica il «movimento conico del’asse terrestre che provoca un
lieve anticipo annuo degli equinozi e lo spostamento dei poli celesti» (Grande Dizionario
Garzanti della Lingua Italiana, Milano, Garzanti Editore, 1987, p. 1465).
41. Per catasterismo si intende, nella mitologia classica, quel processo per il quale
un eroe o una divinità viene tramutato in astro o in costellazione.
42. Cfr. Giorgio de Santillana, Hertha Von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio
sul mito e sulla struttura del tempo, Milano, Adelphi, 1990.
CATASTROFI GENERATIVE
43. Pare che mentre in Mesopotamia il tamburo dovesse essere rivestito della
pelle di un toro per celebrare i riti dedicati all’uccisione di un dio di tali sembianze, in
India si celebrasse un «colossale sacrificio del cavallo» e, per l’occasione, il tamburo
venisse rivestito della pelle di quest’ultimo animale. La finalità era identica, giacché
era credenza comune ad entrambe le tradizioni che l’anima del dio celatasi sotto sem-
bianze animali potesse ascendere al cielo solo attraverso la danza a loro dedicata con
l’uso di tali strumenti (cfr. Giorgio de Santillana, Hertha Von Dechend, op. cit., pp.
157 e passim). In Calabria l’animale tradizionalmente utilizzato per la realizzazione di
tamburi e ciaramedde, in italiano zampogne, è la capra (cfr. Antonello Ricci, Roberta
Tucci, La capra che suona. Immagini e suoni della musica popolare in Calabria, Roma,
Squilibri, 2004).
44. Maria Stella Barberi, op. cit., p. 39.
45. I miti originari rivestono, secondo Girard, lo stesso significato in tutte le cul-
ture. Rappresentano cioè un momento di passaggio che avviene sempre in maniera
traumatica. Perciò la riproduzione del trauma è essenziale al rituale, giacché serve a
elaborarne la strategia di affrancamento. Se veniva colta una coincidenza tra un evento
celeste – per esempio un’eclissi di sole o di luna, il passaggio di una cometa o altro – ed
uno terrestre – terremoti, carestie, inondazioni, crisi sociali, etc. – la mentalità arcaica
stabiliva una connessione sacra che riproduce le fasi della crisi e il suo superamento
(cfr. René Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 13-62; Idem, Delle cose nascoste sin
dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 2001, pp. 68-109).
il “cammello di fuoco”
quali si reggeva l’ordine politico mantenevano la continuità con la
natura proprio perché esse non avevano nulla di teorico; si trattava
di pratiche che si inscrivevano nel contesto della vita naturale. È
in questa astuzia naturale della cultura che è dato di riconoscere,
secondo Gehlen, il momento dell’ominazione: la capacità umana di
agire per “esonerarsi” dai pericoli e dalle necessità che incombono
nella vita naturale – agendo sull’habitat e sul contesto relazionale per
creare la propria Umwelt, l’ambiente artificiale precipuo all’esistenza
della nostra specie – stabilisce la cultura come “seconda natura”.46
La cultura racchiude, cioè, in uno spazio precipuamente umano le
pratiche di esonero dalla natura. Come abbiamo già detto anche
Robertson-Smith è un convinto assertore dell’originarietà delle
pratiche rituali, alla base delle istituzioni religiose e delle istituzioni
politiche:
46. Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 64.
47. William Robertson-Smith, op. cit., p. 20.
CATASTROFI GENERATIVE
53. Ibidem.
54. Ibidem.
55. Ibidem.
il “cammello di fuoco”
[...]. Ora dobbiamo macinare / sempre più forte, ragazze, nessun
calore avremo / dal sangue degli uccisi. Ora la figlia di mio padre
/ fa girare con impegno il mulino. Ella di molti uomini destinati a
morire / vide il numero. Or si son rotti i grandi / supporti del mulino
fasciati di ferro. / Maciniamo ancora!»56
Non ci possono essere dubbi sul fatto che «le dure lance, le armi
insanguinate» che le gigantesse avevano imparato ad usare sui loro
monti, volteggiassero e roteassero come macine trattenute da perni
per straziare corpi e irrorare le profondità della terra dalla quale il
Grotti proveniva. Né sussistono incertezze riguardo ai «supporti del
mulino fasciati di ferro»: armi grondanti del sangue che lubrifica
il congegno e tritura gli «uomini destinati a morire». Le mugnaie
macinano ossa e midolli per servire al reame di Fróδi la farina di
prosperità, pace e stabilità, fino al momento in cui il torchio este-
nuato si sganghera. Il destino dell’incauto Fróδi è inesorabilmente
segnato! La sua temerarietà ha forzato e rotto gli equilibri di «colui
che dà pace». Grotti «lo stritolatore» dà pace agli uomini per mez-
zo della morte, secondo il procedimento dell’ «inganna violenza»
descritto da Girard: la comunità ottiene il beneficio della calma
apparente e momentanea sostenendosi sul male perpetrato a scapi-
to di vittime innocenti e predestinate. Ma le macine di Fróδi sono
divenute incontrollabili, l’«albero-mesu»57 che le manteneva in sesto
si è scardinato, come il perno di un torchio logorato nella foga della
pressatura. L’asse terrestre che esso rappresenta, persi nuovamente
i riferimenti cardinali, è sottoposto ad uno sconvolgimento cosmi-
co e la ruota del tempo ciclico richiede fluidi freschi per ingranare
l’antico movimento.58 Non a caso il termine tedesco Müll, che sta a
indicare la raccolta dei rifiuti organici, i resti degli alimenti appena
«Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero
alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia
me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro
opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato;
ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo
perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno
odiato senza ragione.»60
misure» genera il gorgo o maelstrom: porta d’accesso al regno dei morti (cfr. Ivi, p.
259). Il gorgo disegna inoltre la via della «trascendenza che caratterizza il pensiero
della gnosi e dell’induismo», ivi, p. 288.
59. Cfr. Il nuovo dizionario Sansoni Tedesco-Italiano, Macchi-Edigeo, 1990, p. 545.
60. Giovanni 15, 22-25 (BdJ).
il “cammello di fuoco”
ne del martirio, l’unico limite al dilagare della furia omicida, il solo
percorso verso la salvezza.61
Fra i tanti che Lo imitarono, troviamo un martire che sembra
proprio fare al caso nostro per il significato che attribuì alla scelta
di donare la vita: S. Ignazio d’Antiochia, vescovo di Siria succeduto
a S. Pietro, vissuto durante il I sec. d. C. e finito in pasto alle fiere
a Roma, durante i festeggiamenti in onore dell’imperatore Traiano,
vittorioso in Dacia.
In attesa di essere giustiziato a causa della propria fede in Cristo,
S. Ignazio scrisse una commovente ma dignitosa lettera ai suoi amici
e discepoli romani, pregandoli di non intercedere in suo favore, di
non evitargli il supplizio, per non privarlo della grazia di una morte
santa. «Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per
diventare pane puro di Cristo», proclama nella lettera.
che il Santo afferma subito dopo, giacché manifesta la tensione mistica dell’unione al
Cristo come a Colui che ci mostra cosa desiderare: «Potessi gioire delle bestie per me
preparate e m’auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divo-
rino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non
volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello che mi conviene. Ora incomincio ad
essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo
Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle
ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del
diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo» (Ivi, 5, 2-3). Per
una disamina del concetto di “modello-mediatore” del desiderio si rimanda all’opera
d’esordio di René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del
desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani, 2002, pp. 7-47.
63. S. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, 6, 2-3.
64. Per la “pressatura di Cristo” si rimanda alla tradizione pittorica alto-tedesca
il “cammello di fuoco”
dare il succo del mosto o alle olive frante per stillare l’olio. Scrive 65
Agostino:
«Tutti sappiamo che l’uva pende dalle viti e l’oliva dagli olivi:
come pure sappiamo che è per questi due frutti che si sogliono
allestire i torchi. Orbene, fino a tanto che stanno sull’albero, tali
frutti si godono, per così dire, della loro aria libera; e l’uva non è
vino né l’oliva è olio, finché non vengano ad essere spremute. Così
capita agli uomini che dall’eternità Dio predestinò a diventare
conformi all’immagine di suo Figlio unigenito: il quale, soprattutto
nella passione, ci appare come un grappolo di grandi proporzioni
che viene spremuto.
Tali uomini, dunque, prima che si consacrino al servizio di Dio,
nel mondo godono di una certa libertà, per molti aspetti deliziosa.
Sono come le uve o le olive ancora pendenti sull’albero. Viceversa,
la Scrittura contiene la massima: Figlio, quando ti metti al servizio di
Dio, sta’ saldo nella giustizia e nel timore e disponiti alla prova; per
cui chi si consacra al servizio di Dio ha da sapere che è entrato nel
torchio. Sarà stritolato, schiacciato, spremuto.
Non perché abbia a morire fisicamente, ma perché fluisca nei
serbatoi divini.»66
67. Rudolf Kassner, Der grösste Mensch. Ein imaginäres Gespräch, Wien, Amandus
Edition, 1946 (trad. it. e commento introduttivo a cura di Margherita Geniale, L’uomo
più grande. Un dialogo immaginario, Working Paper 8, Messina, 2005).
68. Scrive Nietzsche a proposito della “psicologia del «Vangelo”: «Il «peccato»,
qualsiasi rapporto di distanza tra Dio e l’uomo è eliminato – precisamente questa è
la «buona novella». La beatitudine non viene promessa, non è associata a condizioni:
essa è la sola realtà [...]. La conseguenza di un tale stato si proietta in una nuova pratica
di vita [...]. La vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche
la sua morte non fu null’altro… Egli non aveva più bisogno di nessuna formula e di
nessun rito per il suo commercio con Dio» (Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del
cristianesimo, Milano, Adelphi, 2003, pp. 43-44).
IX
Pasquale Maria Morabito
il passaggio di s. paolo a reggio: catastrofe pagana
e fondazione cristiana della città in Atti, 28, 3
Inde circumlegentes
devenimus Rhegium
(Atti, 28, 3)
La spada e la parola
Il nòmos, la città
Il taglio di questo saggio non può, per forza di cose, essere storico
ed esegetico, ma antropologico e teologico-politico, avendo come
fine il reperire nelle indicazioni testuali e nella tradizione, un modello
catastrofico di fondazione.
Ci serviremo di due tipi di fonti: una canonica, quella degli Atti
degli apostoli, ed una tradizionale, leggendaria, devozionale, che si in-
nesta sulla prima. Nella ricerca e nell’interpretazione delle fonti, ciò
che interessa nel presente contesto non è, “evidentemente” il valore
storico del documento. Interessa invece ciò che la memoria condivisa
della comunità si racconta attraverso l’evento di fondazione. D’al-
tronde, gli attuali studi esegetici su San Paolo e le fonti, diffidano
perfino dell’attendibilità storica degli stessi Atti, propendendo invece
per la veridicità delle Lettere4. Scrivere dei viaggi apostolici di Paolo
può quindi diventare un’impresa complicata. Gli esegeti e gli storici,
infatti, sostenevano di possedere una biografia di prima mano, gli
Atti degli Apostoli, redatti da san Luca. La tradizione riteneva che
4. Cfr., tra gli altri, Michel Quesnel, Paolo e gli inizi del cristianesimo, Libreria
Editrice Vaticana, 2004.
il passaggio di s. paolo a reggio
l’autore del terzo Vangelo fosse un compagno di Paolo. Lo stesso
apostolo lo nomina in tre occasioni nelle sue lettere,5 dandogli tra
l’altro il titolo affettuoso e celebre di “caro medico”.
La seconda parte degli Atti, dedicata soprattutto ai viaggi di
Paolo, contiene anche un insieme di passi redatti secondo la prima
persona plurale, la “sezione noi”,6 considerata come un diario di
viaggio che lo stesso Luca avrebbe scritto e integrato nel suo racconto
con qualche altra fonte.
La critica moderna ha frantumato certezze di questo genere. Al-
cune tra le lettere di Paolo che nominano Luca, infatti, potrebbero
essere non autentiche. E ci si rende conto che gli Atti non hanno un
carattere di cronaca diretta, ma si tratta di un’opera messa insieme
concretizzando una concezione particolare della storia che corri-
sponde ad un progetto teologico dell’autore, che può non essere
per forza San Luca.7 Tra le indicazioni dateci dagli Atti e quelle
che si possono trarre dalle stesse Lettere di Paolo si notano delle
incompatibilità, anzi delle vere contraddizioni. A chi si dovrebbe
allora dar ragione? A Paolo, testimone privilegiato degli avvenimenti
di cui parla, ma soltanto a frammenti? O agli Atti degli Apostoli,
che offrono un racconto più completo, ma non necessariamente
affidabile dal punto di vista storico? Le divergenze tra le lettere di
Paolo e il racconto degli Atti sono moltissime.8 A forza di metterle
a confronto, gli esegeti conclusero, intorno agli anni cinquanta, che
si doveva dare in genere la preferenza alle lettere paoline, piuttosto
che agli Atti. Ci si riferiva, per la maggior parte, ad una regola di
prudenza detta “Principio di Knox”, dal nome del suo ideatore,9
da riassumere così: si può ricorrere agli Atti per completare quan-
to dicono le Lettere, mai però per correggerle. Non bisogna però
fermarsi qui. Anche se il “Principio di Knox” costituisce un’ipotesi
5. Colossesi, 4, 14; Seconda Lettera a Timoteo, 4, 11; Filemone 24.
6. Ivi, p. 11.
7. L’evidenziare il progetto teologico dell’autore del terzo Vangelo e degli Atti
degli Apostoli è legato al nome di Hans Conzelman, nella sua opera Die Mitte der
Zeit, Studien zur Teologie der Lukas, Tübingen, 1954 (trad. ing. The Theology of Luke,
London, 1960).
8. Rimando ancora una volta al testo di Michel Quesnel, op. cit., in particolare ai
capp. 1 e 2.
9. Cfr. John Knox, Chapters in a life of Paul, New York, 1950.
CATASTROFI GENERATIVE
l’antichità della sede di Reggio, fondata dallo stesso Paolo: «Ceterum Sedes Regina est
vetustissima ab Apostolo Paulo fondata» (cfr. Francesco Russo, Storia dell’Archidiocesi
di Reggio Calabria, Napoli, Laurenziana, 1961). Il Papa Benedetto XIV confermerà
questa origine, definita da Russo come «il valore della tradizione», nella Bolla Suprema
disposizione, del 25 settembre 1741, in cui dichiara la Chiesa di Reggio come Chiesa-
madre di tutte le altre della Calabria, fondata da Paolo Apostolo: «Ipsaque Ecclesia
Regina,caput omnium Ecclesiarum totius Calabriae Ecclesiarum a Divo Paulo Apostolo
et gentium Doctore constituta extiterit» (in Giovanni Fiore, Calabria Illustrata, II,
Napoli, 1691, p. 287).
11. Carlo Guarna-Logoteta, Di Diana Fascelide e del suo tempio a Reggio, Reggio
Calabria, 1852. Resti del tempio di Diana Fascelide sono stati recentemente ritrovati a
30 metri a largo dello Stretto, da Punta Calamizzi, nella zona sud di Reggio Calabria.
Il promontorio Artemisio (questo l’antico nome della punta), era luogo di culto per
gli abitanti della Magna Grecia. Lì era sepolto il mitico ecista della polis di Region,
Iokastos. E lì, in epoca Bizantina, sorgevano il monastero di San Nicola e la Chiesa di
San Giorgio Drakoniaratis.
12. Francesco Russo, op. cit., p. 52.
CATASTROFI GENERATIVE
13. Acta SS, Jul. II 220, Migne, P. G., 115, col. 317.
14. Su queste circostanze e credenze, cfr. De Antiquitate et situ Calabriae di Giusep-
pe Barrio, il Sacro Trionfo ovvero Leggendario dei SS. Martiri di Calabria (Napoli,1630)
di Paolo Gualtieri, Dell’origine, stato e progresso del Rito Greco (Roma, 1763) di Pietro
Rodotà, il Culto dei Martiri in Calabria (Napoli, 1905) di Domenico Taccone Gallucci,
le Memoriae Civitatis Rhegii (Vibo Valentia, Biblioteca Capialbi), di Tegani, la Cronaca
della nobile città di Reggio (Messina, 1617) di Marco Antonio Politi, S. Paolo a Reggio
(in: Albo Reggino, II, pp. 108-109), La prima pagina di nostra storia ecclesiastica: la
predicazione di San Paolo a Reggio, (Ivi, III, pp. 171, 172), I monumenti e il culto di
San Paolo a Reggio, (Ivi, pp. 194-196), di Antonio De Lorenzo.
15. In Chronicon Rhegii, MS, (Reggio Calabria, Biblioteca Comunale).
16. Francesco Russo, op. cit, p. 53.
il passaggio di s. paolo a reggio
di Diana Fascelide, trasformato in luogo di culto cristiano dopo il
passaggio dell’Apostolo.17 Il passaggio dal culto arcaico e pagano a
quello cristiano. La tradizione storico-letteraria di cui abbiamo tro-
vato riscontro nei racconti della tradizione, nell’arte e nella liturgia
offre spunti interpretativi di carattere antropologico e politico sullo
spazio e il tempo sacri (la festa, il tempio) e sui simboli legati al culto
(la colonna, il fuoco), che esamineremo nelle pagine seguenti.
37. Ibidem. A questo “indecifrabile segno” che assume la possibilità di una rottura
dell’alleanza tra Dio e gli uomini, René Girard, nell’Introduzione ad Achever Clau-
sewitz, dice che Dio volle con la morte del suo figlio farsi perdonare per aver svelato
“così tardi” la violenza degli uomini. Il “così tardi” potrebbe esprimere allora l’ansia
di Dio di ricostruire il patto, dopo la rottura dell’Antica alleanza. (Cfr. René Girard,
Portando Clausewitz all’estremo, Milano, Adelphi, 2008, p. 12).
38. Agostino, Discorsi, 295, 7.8.
39. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, Inscr. Funk, I, 252.
il passaggio di s. paolo a reggio
veri pastori, che per farti degna del regno dei cieli hanno edificato
molto più bene e più felicemente di coloro che si adoperarono per
gettare le prime fondamenta delle tue mura.»40
La fondazione per mezzo del martirio riconsacra il territorio citta-
dino, ridona un significato al legame politico e sociale, distrugge – o
esaugura – il precedente ordine. Il processo di origine delle chiese è
una nascita, un nuovo inizio della comunità che viene “generata”41
dal cristianesimo. Analizzato da un punto di vista meramente stori-
co, tale processo di generazione avviene in maniera diseguale e non
omogenea. All’ecista di un tempo subentra il santo fondatore; al
complesso rituale che le garantiva la protezione degli Dèi si sovrap-
pone la venerazione del Santo patrono, della sua tomba e delle sue
reliquie; alla dialettica tra i templi cittadini e i luoghi di culto extra
moenia succede la complementarietà tra la struttura ecclesiale delle
parrocchie e i santuari. A partire dal IV secolo, infatti, si evidenziano
in forme inedite i caratteri di un secolare processo metamorfico so-
stanziatosi di una duplice appropriazione: quella dell’antica sacralità
del tempio, e quella, di natura coattiva (per distruzione ovvero, più
raramente, esaugurazione), degli spazi lasciati liberi dai santuari che
demarcano la presenza del cristianesimo nelle città e nelle campagne
del mondo antico.42 Non bisogna dimenticare come l’idea di pegno
40. Leone Magno, Omelie, 82, 7.
41. Gli apostoli, «seguendo l’esempio di Cristo, predicarono la parola della verità
e generarono le Chiese». Agostino, Enarratio in Psalmos, 44, 23, mign. PL, 36, 508.
42. Cfr. Agostino, De Civitate Dei VIII 23-24. Sugli aspetti archeologici e archi-
tettonici si veda Jean-Pierre Caillet, La transformation en Église d’édifices publics et de
temples à la fin de l’Antiquité, in La fin de la cité antique et le début de la cité médiévale
de la fin du IIIe à l’avènement de Charlemagne, études réunies par Claude Lepelley,
Bari, Laterza, 1996 («Munera», 8), pp. 191-211. Da almeno una ventina d’anni è stata
abbandonata dalla storiografia l’associazione quasi automatica tra paganitas e rusticitas;
talvolta, anzi, l’evangelizzazione dei territori rurali precedette quella delle città: cfr. Rita
Lizzi Testa, Vescovi e strutture ecclesiastiche, p. 11 sgg.; Chiara Pietri, Chiesa e comunità
locali nell’Occidente cristiano (IV-VI sec. d. C.). L’esempio della Gallia, in Società romana
e impero tardoantico, 3: Le merci, gli insediamenti, a cura di Andrea Giardina, Roma-
Bari, Laterza, 1986, pp. 761-795, 923-934 (rist. in Pietri, Christiana Respublica, I, pp.
475-521; e vedi Ibidem altri importanti saggi dello stesso Giardina sulla cristianizzazione
delle campagne galliche). Rinvio anche agli atti del seminario promosso dal Pontificio
istituto di archeologia cristiana e dall’École française de Rome (Roma, 19 marzo 1998)
Alle origini della parrocchia rurale (IV-VIII secolo), a cura di Philip Pergola, Città del
Vaticano 1999 (Sussidi allo studio delle antichità cristiane, XII).
CATASTROFI GENERATIVE
associata alle reliquie dei santi affondasse le proprie radici, oltre che
sul terreno della religiosità apotropaica tipica della civitas latina,
anche in quello della giustificazione propriamente cristomimetica
del martirio e, per estensione, della santità cristiana. Il santo, in virtù
della perfetta imitazione di quel Cristo che fu “primizia dei dor-
mienti” (Prima Lettera ai Corinzi, 15, 20) e “primogenito dei morti”
(Colossesi, 1, 18), esercita, nella sua attuale condizione privilegiata
di intercessore presso l’altare celeste, e nella concretezza della sua
presenza vitale nel mondo sotto forma di reliquie corporali, un ruolo
di garante e perciò di pegno della futura resurrezione dei membri
ordinari del corpo di Cristo.
L’evento sacro narrato nella tradizione della città di Reggio, il
“segno” del fuoco dato ai cittadini, ci riporta all’immagine dell’al-
leanza. In Seconda Lettera ai Corinzi, capitolo 3 Paolo parla di
Antica e Nuova Alleanza, di Abramo, Mosè e Cristo. Riferendosi al
Vecchio Testamento, alla berît tra Dio e il popolo, l’Apostolo fa una
distinzione: non parla di alleanza ma di alleanze. Quella abramitica,
iniziale e duratura; quella mosaica, “rinnovo” della promessa fatta ai
patriarchi; quella con i Profeti. La nuova ed eterna, eonica alleanza,
invece, è quella fatta per mezzo di Cristo.
Il sangue della Cena è vincolo di un’alleanza che – a differenza
delle precedenti – non si può rompere. È importante sottolineare
come due versioni dei Vangeli relative al racconto dell’Ultima
Cena43 siano riprese integralmente dal racconto della stipulazione
dell’alleanza sul Sinai. «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore
ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole» (Esodo, 24,
8). Mosè asperge l’altare, immagine del Dio nascosto, con il sangue
del sacrificio. Il rito del sangue compiuto da Dio con Israele nel
deserto significa la medesima cosa di un’alleanza tra gruppi tribali
diversi: entra con loro in una “misteriosa parentela di sangue”.44 È
qui che i Vangeli – e le lettere paoline – sottolineano, pur con le
differenze sostanziali a cui accennavo prima, il legame tra antica e
nuova alleanza, Antico e Nuovo Testamento. Secondo studi recenti,
l’alleanza sinaitica deriva probabilmente da un antichissimo rito
43. Matteo, 26, 26-29 e Marco, 14, 22-25.
44. Benedetto XVI, op. cit., p. 75.
il passaggio di s. paolo a reggio
di teofania e lettura della legge in uso presso le tribù ebraiche.45
In effetti, rileva Weinfeld, la parola berît nel Vecchio Testamento,
in particolare nel Pentateuco, significa legge, comando: nell’Esodo
l’alleanza sinaitica appare sostanzialmente come «un’imposizione
di leggi ed obblighi per il popolo.»46 Ciò che in greco viene solita-
mente tradotto come diatheke, ha, nel suo significato originario, più
il carattere del nomos, di una legge estratta, per così dire, dal culto,
che indica l’appartenenza del popolo a Dio. Carl Schmitt evidenzia,
dal suo punto di vista giuridico-politico, il legame inscindibile tra il
nomos, principio originario di suddivisione dello spazio, e il culto.47
Anche Paolo e i Padri, come abbiamo visto sopra, sembrano andare
in questa direzione.
L’alleanza nuova dal punto di vista religioso, il foedus con Dio
per mezzo di Cristo si proietta nello spazio cittadino cristianizzato.
La presenza del Santo, il miracolo narrato, le reliquie, il martirio
sono gli elementi che ri-fondano la città.
45. Su ciò cfr. Martin Weinfeld, alla voce “Berît” in Theologisches Wörterbuch
zum Alten Testament, a cura di Johannes G. Botterweck, Helmer Ringgren, vol. I,
pp. 781-808.
46. Ivi, p. 784.
47. Cfr. Carl Schmitt, op. cit., in particolare, pp. 54-71.
x
Wolfgang Palaver
la fine del tempo:
catastrofismo e apocalittica cristiana1
4. «Da wir Heutigen die ersten Menschen sind, die die Apokalypse beherrschen,
sind wir auch die ersten, die pausenlos unter ihrer Drohung stehen.» (Günther An-
ders Die Antiquiertheit des Menschen. Band I, Über die Seele im Zeitalter der zweiten
industriellen Revolution, 2^ ed., München, C.H. Beck, 2002, 242).
5. René Girard, Portando Clausewitz all’estremo, Milano, Adelphi, 2008, pp. 89-90.
6. Idem, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano, Adelphi, 1998, p. 452.
7. Idem, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi,
1983, p. 313.
la fine del tempo
«La rivelazione cristiana chiarisce non solo tutto ciò che è av-
venuto prima di essa, ossia i miti e i rituali, ma anche tutto ciò che
viene dopo, la storia che noi stiamo forgiando, la decomposizione
sempre più completa del sacro arcaico, l’affacciarsi su un avvenire
globalizzato, libero in misura crescente dalle antiche servitù, ma pri-
vo nello stesso tempo di ogni protezione sacrificale […] Questo è il
vero significato dell’attesa apocalittica che caratterizza l’intera storia
cristiana, un’attesa che non ha nulla di irrazionale nel suo principio.
Questa razionalità aderisce im modo ogni giorno più stretto ai dati
concreti della storia contemporanea, come dimostrano i problemi
degli armamenti, dell’ambiente, dell’andamento demografico, e
così via.»8
8. Idem, Vedo Satana cadere come la folgore, Milano, Adelphi, 2001, pp. 239-240.
9. Idem, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 546.
CATASTROFI GENERATIVE
10. Carlo Maria Martini, Umberto Eco, Belief or Nonbelief? A Confrontation, New
York, Arcade, 2000, p. 21.
la fine del tempo
efferati nella speranza di renderlo irreale. Ma il potere dello spettro
consiste, precisamente, nella propria irrealtà.11
Eco sa perfettamente quanto la speranza sia importante onde
evitare questa narcosi consumistica. Egli mette in rilievo la cir-
costanza che «una visione originariamente cristiana della storia»
porta con sé il seguire «le indicazioni segnaletiche della speranza»,
e che ogni «millenarismo disperato» è il risultato di una perdita
della speranza.12 Ha chiesto, così, al Cardinal Martini se per caso
esiste una nozione di speranza che credenti e non credenti possano
condividere, giacché senza speranza sarebbe perfettamente coerente
accettare l’avvicinarsi della fine senza neppure darsene da conto,
seduti di fronte ai nostri schermi televisivi – dietro allo scudo delle
nostre fortificazioni elettroniche – nell’attesa di qualcuno che ci
intrattenga mentre, nel frattempo, accada quel che accada, e che
mai può importarci di quel che può capitare.13
La replica di Martini riprende il tema della necessità della spe-
ranza senza rispondere chiaramente alla domanda sulla possibilità
di una sua accezione che risulti condivisibile da credenti e non
credenti. Tuttavia, egli almeno riconosce la necessità pratica di un
lavoro comune. È importante che la visione della storia di Martini
sottolinei, una volta ancora, la dimensione teologica della speranza,
che trascende la pura immanenza. La storia trova il suo senso al di
là di se stessa. Questo senso non può essere oggetto di calcoli, ma
resta l’obiettivo finale della speranza.
Che cosa, dunque, deve essere fatto in questo stato di emergenza
apocalittica? Nella sua riflessione sulla tecnica, il celebre filosofo
tedesco Martin Heidegger si riferiva in maniera peculiare all’inno
di Hölderlin Patmos, mettendo in risalto che pericolo e salvezza
vanno l’una a fianco dell’altro.14 Il pericolo è accompagnato dalla
11. Ivi, p. 21. Prima Lettera ai Corinzi 15, 32: «Se è solo con speranze umane che ho
combattuto le fiere ad Efeso, che cosa ci avrei guadagnato? Se i morti non risuscitano,
“beviamo e mangiamo, la morte ci attende domani”.»
12. Ivi, p. 24.
13. Ivi, p. 26.
14. Martin Heidegger, The Question Concerning Technology. In Philosophy of
Technology: The Technological Condition. An Anthology, ed. by R. C. Scharff and V.
Dusek, Oxford, Blackwell, 2005, pp. 252-64 (ed. or., 1954).
CATASTROFI GENERATIVE
sua propria salvezza: «Dove però è il rischio / anche ciò che salva
cresce.»15 Nonostante sia io stesso un «figlio delle Alpi», cui Höl-
derlin si riferisce al fine di esemplificare in quale maniera pericolo
e salvezza possano andare di pari passo, mi trovo, fino a un certo
punto, dalla parte di Günther Anders – ex-allievo di Heidegger
– che fu un critico severo dell’uso superficiale di questo distico
hölderliniano.16 Egli avanzò, addirittura, il suggerimento che la sua
citazione venisse proibita, dato che essa è parte integrante di quella
più generale svalutazione dei pericoli, che il mondo moderno porta
con sé, attraverso il meccanismo della loro solennizzazione. Due
esempi che apporta illustrano in maniera convincente la sua critica.
L’esercito americano avrebbe dunque – magari – dovuto portare
conforto al popolo di Hiroshima il giorno prima del lancio della
bomba con la citazione di questi versi di Hölderlin? Si potrebbe,
d’altro canto, facilmente immaginare che anche i nazisti avrebbero
potuto usare queste parole sul cancello di ingresso del loro campo
di concentramento di Auschwitz. I versi di Hölderlin possono fa-
cilmente essere usati in modo cinico.
Se si vuole evitare il suo cinico abuso, l’inno di Hölderlin deve
essere letto nel contesto dell’apocalittica cristiana. Possiamo ren-
derci conto della fondatezza di questa ipotesi se già riconosciamo
che il suo titolo, naturalmente, si riferisce all’autore dell’Apocalisse
neotestamentaria: a Giovanni, che precisamente nell’isola di Pat-
mos ricevé le sue rivelazioni. Anders si riferisce a questo fatto in
una nota. Anche l’interpretazione che ne ha fornito Girard resta
nell’ambito dell’apocalittica cristiana.17 Girard prende nettamente
le distanze dall’interpretazione heideggeriana dei versi di Hölderlin,
propugnante un ritorno al paganesimo. Come già i Presocratici e
32. Ibidem.
33. Josef Pieper, Hope and History, cit., p. 97. «Ad essere nascosti sono, precisa-
mente, gli eschata che vengono annunciati, così come – a rovescio – l’annuncio fa uscire
ciò che è nascosto fuori dalla regione di ciò che è puramente ignoto, assente o ignorato,
per farlo entrare nella regione di ciò che è presente come nascosto, inconfondibile,
supremamente minaccioso e irresistibile. Né più si può parlare di occhio non vede,
cuore non duole”, né – ancora – diventa oggetto calcolabile e, pertanto, controllabile,
che cessa di essere minaccioso giacché sappiamo “tutto a suo riguardo. La rivelazione
dell’elemento escatologico fa apparire quest’ultimo, precisamente, come un mistero».
(Karl Rahner The Hermeneutics of Eschatological Assertions, cit., p. 330).
la fine del tempo
La parte più essenziale dell’apocalittica cristiana è, tuttavia, il
fatto che la predizione della catastrofe non è la sua ultima parola,
ma è legata alla promessa di un cielo nuovo e una terra nuova; a una
promessa che ispira vera speranza:
«infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà
il giorno del Signore. E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora
d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta;
e nessuno scamperà.» (Prima Lettera ai Tessalonicesi, 5, 2 e sgg.)
46. John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London,
Penguin Books, 2008, (ed. or. 2007).
47. «C’è […] una sola differenza fra la tradizione religiosa e quella secolare mille-
naristica: che la credenza nel rinnovamento del mondo in un’epoca di conflitti grazie
alla buona provvidenza di Dio è – messe a parte una o due eruzioni spettacolari – più
spesso associata al pacifismo, se messa a confronto con la versione secolarizzata, la
quale fa irrompere il giudizio divino nella storia attraverso la violenza esemplare di
eroi rivoluzionari.» (David Martin, Spilt Religion, «Times Literary Supplement», n.
5445, 2007, pp. 3-5).
48. John Gray, op. cit., p. 297.
CATASTROFI GENERATIVE
Bibliografia:
1. Girard parla «delle diverse epidemie come di un “simbolo” della crisi sacrificale
[…] nella tragedia e fuori», cfr. René Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi,
1980, pp. 113-114.
2. Idem, La voce inascoltata della realtà, Milano, Adelphi, 2006, p. 196.
3. Michel Serres, Rome. Le livre des fondations, Paris, Grasset, 1983, p. 195. Quello
del lettisternio era un rituale praticato in occasione di pubbliche calamità, durante il
quale agli dèi veniva offerto per intercessione un banchetto sacro, disponendone le
CATASTROFI GENERATIVE
relativi agli anni fra il 366 e il 342, descrive il duplice segno – per
l’appunto culturale e naturale – di una crisi mimetica. Il suo racconto
ci presenta una situazione di instabilità politica, dovuta alle pressanti
richieste di cooptazione istituzionale avanzate dalla plebe,4 in cui
la crisi interna è aggravata dalla minaccia dei Galli nemici e dalla
defezione di uno dei popoli alleati, gli Ernici. Nonostante il pericolo,
gli affari politici vengono tutti intenzionalmente rinviati per far sì
che ad agire non sia un console plebeo, e «su tutto fu silenzio - dice
Livio - e un otium simile al lutto pubblico (iustitium)». Poi comincia
una terribile pestilenza in cui «si dice che morirono un censore, un
edile curule e tre tribuni della plebe, e che in proporzione vi furo-
no molti altri lutti, anche fra il popolo (ex multitudine)». Donde la
necessità del lettisternio.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi poiché, quale metafora di
malattia sociale, il tema della peste è rintracciabile «nei miti e nei
rituali di tutto il mondo», ed è «onnipresente in letteratura e ad
essa anteriore.»5 Più in particolare, nelle fonti d’età medievale - una
cui attestazione, sia pur tardiva, è l’oggetto del presente studio –
questo tema è spesso associato a quello della persecuzione degli
Ebrei, accusati di avvelenare fiumi e pozzi per diffondere il morbo.
Lo stesso Girard ha studiato un poema scritto nel XIV secolo da
Guillaume de Machaut, il Jugement dou Roy de Navarre, in cui si
racconta di un massacro avvenuto in Francia in tali circostanze.6
statue intorno ad una tavola imbandita. Il primo lettisternio con dodici divinità fu
preparato a Roma nel 399 a.C., proprio in occasione di una pestilenza, cfr.
Livio, V, 13.
4. Così Livio descrive la grave crisi interna che minacciava la stabilità politica ro-
mana: «Quell’anno fu segnato dal consolato di un homo novus, e dall’istituzione di due
nuove magistrature, edilità curule e pretura; i patrizi richiesero per sé queste cariche in
cambio di uno dei consoli concesso alla plebe […] ma i tribuni non sopportarono in
silenzio né che per un console plebeo la nobiltà si attribuisse tre magistrature patrizie,
con la pretesta ed il seggio curule dei consoli; né che il pretore poi amministrasse anche
la giustizia, reso collega ai consoli da identici auspici. Allora si impose in Senato il ritegno
a stabilire (verecundia iubendi) che gli edili curuli fossero eletti fra i patrizi. Dapprima
si convenne che ad anni alterni fossero nominati dei plebei, poi fu indifferente (postea
promiscuum fuit)», Tito Livio, Ab urbe condita, VII, 1-6 (traduzione mia).
5. René Girard, op. cit., p. 191.
6. Nell’analisi del testo operata da René Girard, quella del poeta francese somiglia
a tutte le altre descrizioni della peste che ridicono «instancabilmente la fine delle regole
la peste eccentrica
La malattia in questione è naturalmente la Morte Nera, il morbus
pestilentialis che «irruppe in Europa nel settembre del 1347»7 de-
cimando in pochissimi anni la popolazione dell’intero continente.
«Diffondendosi dall’antico focolaio naturale nello Yunan-Birmania,
o forse riversandosi da un focolaio d’infezione di recente formazione
nella steppa manciuriano-mongolica fra i roditori scavatori»,8 nel
1331 il batterio della Pasteurella pestis aveva raggiunto la Cina, e
dopo quindici anni la Crimea. Di qui era poi approdato a Messina
nel 1347 a bordo di dodici navi genovesi che, cariche di grano
russo, fuggivano dal porto di Caffa, sul Mar Nero, da tempo sotto
l’assedio di un esercito mongolo già colpito dalla peste. Disperando
di poter conquistare la città, al momento di abbandonare il campo
i Mongoli avevano compiuto «il primo atto storicamente accertato
di guerra batteriologica»9 catapultando al di là delle mura i cadaveri
dei loro morti; e avevano contribuito in tal modo alla «unificazione
microbica del mondo»,10 dato che la peste aveva invaso sia l’Europa
che il Vicino Oriente. Una catastrofe, dunque, che ha scatenato un
terrore diffuso fra le popolazioni e ha colpito l’immaginazione così
dei contemporanei sopravvissuti come dei posteri, lasciando traccia
di sé in tante e diverse testimonianze.
In un’opera del XVII secolo, Iconologia della Gloriosa Vergine
Madre di Dio Maria protettrice di Messina, scritta in volgare dal pa-
dre gesuita Placido Samperi e stampata a Messina nel 1644, così si
racconta l’arrivo della peste bubbonica sulle rive dello Stretto:
e delle “differenze” che definiscono gli ordini culturali.» Girard arriva a distinguere,
nel testo di Guillaume de Machaut, gli stereotipi che il meccanismo persecutorio esige
logicamente e cronologicamente: eclissi culturale, arbitrarietà dell’accusa, appartenenza
degli accusati a minoranze sacrificabili, cfr., Idem, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi,
1987, pp. 11-44.
7. Ruggero Taradel, L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita, Roma,
Editori Riuniti, 2002, p. 62.
8. William Hardy McNeil, La peste nella storia, Torino, 1981, p. 149, cit. in Ruggero
Taradel, op. cit., p. 328, n. 26.
9. Ruggero Taradel, op. cit., p. 62.
10. E. Le Roy Ladurie, «Un concept: l’unification microbienne du monde (XIVe-
XVIIe siècles)», Revue Suisse d’Histoire [1973], a. 23, pp. 627-696, cit. in Ruggero
Taradel, op. cit., p. 328, nota 25.
CATASTROFI GENERATIVE
«Et avvenga che fosse stata per li peccati de’ Popoli gravissima
questa calamità, ad ogni modo non posso ragionevolmente approvare
ciò che riferisce F. Michele di Placea dell’Ordine de’ Frati Minori
di S. Francesco, per quello, che da un suo manoscritto antico, han
rapportato alcuni moderni Autori, per parere piuttosto favolose
quelle apparitioni di Demonij per la città in forma di cani, con
altre cose assai prodigiose, che da quello si raccontano, con stile
assai impolito e rozzo, le quali per essere state tanto publiche, e
notabili, se ne sarebbe conservata appresso gl’Historici perpetua
la memoria.»13
11. Placido Samperi, Iconologia della Gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice
di Messina, Messina, Intilla, 1990, II, p. 321.
12. René Girard, La voce inascoltata della realtà, cit., p. 191.
13. Placido Samperi, op. cit., p. 321.
la peste eccentrica
«piuttosto favolose» – mostra però di aver fede nel miracoloso
14
16. Non si insisterà qui nell’analisi di questa strana peste che colpisce solo una parte
della città, circoscritta alla Giudecca; eppure un simile comportamento del contagio
è fortemente sospetto ed una lettura mitico-rituale del testo porterebbe a dubitare
ch’esso potrebbe nascondere in realtà un massacro inconfessabile di Ebrei da parte
di una folla inferocita.
17. Cfr. Ivi, pp. 55-56.
18. E ciò, nonostante i ripetuti appelli delle autorità ecclesiastiche e civili, contrari
alla veridicità di tali accuse.
19. Vero e proprio deus ex machina sulla scena tragica della lugubre pestilenza.
CATASTROFI GENERATIVE
20. Il rapporto tra la peste e il teatro risale almeno a Livio, VII, 2, 1-6, che mette
direttamente in relazione con una pestilenza (implacabile, malgrado lettisterni e altri
mezzi tentati), l’introduzione rituale a Roma delle prime forme di teatro, provenienti
dall’Etruria, «essendo gli animi – dice Livio - in balìa di ogni superstizione.» Su questo
passo di Livio e più in generale sugli spettacoli teatrali si veda Agostino, La Città di
Dio, I, 32-33. Su Agostino e la peste si veda poi Antonin Artaud, Il teatro e la peste, in
Idem, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 2000, pp. 134-150. Girard dice che in
quella sede Artaud ha «sfiorato l’isteria», attribuzione questa assolutamente appropriata
considerando Livio, VII, 2, 6, che racconta come, nell’occasione qui sopra richiamata,
agli attori romani si diede nome di istrioni, perché ister era il nome etrusco dell’attore,
René Girard, La voce inascoltata della realtà, cit., p. 192.
21. Come si dirà più oltre.
la peste eccentrica
in una Croce, rinuovando nella persona di quell’innocente, quanto
nella persona di Christo haveano eseguito i loro maggiori. E dopo
di avere compitamente alla loro fredda rabbia, e crudeltà sodisfatto,
acciò quella sceleraggine non venisse a manifestarsi, gettarono in un
pozzo il cadavero. Ma Iddio Nostro Signore non permise, che un
empietà così notabile se ne stesse occulta, imperoche miracolosa-
mente il pozzo cominciò a bollire, ridondare e versar fuori abbon-
danza di vivo sangue. Si smarrirono a tanto prodigio i Giudei, e non
potendo, con tutta la loro diligenza, seccare quella viva sorgente, i
cui sanguinolenti rivi correano sin nella publica strada, finalmente si
manifestò l’atroce caso, et i Ministri di Giustizia viddero il cadavero
del Fanciullo ferito nelle mani, ne’ piedi, e nel costato su le acque
sanguigne nella bocca del pozzo nuotar a galla, e per ordine della
Maestà della Regina Elisabetta, se ne fece diligente Inquisizione, e
publichi processi, non senza il dovuto castigo di quei perfidi, le cui
teste in luogo pubblico, per ispavento degli altri, collocate è fama,
che vi si pose una pietra, in cui erano scolpite queste parole:
La quale poi, con gli anni, nella parte destra della facciata del
Duomo, vicino alla porta maggiore, fu incrostata con l’altre et hog-
gidì si vede. Tanto habbiamo risaputo da alcune scritture, da un
Autor moderno, che l’accenna, e dalla traditione di persone degne
di fede, che mi han riferito di haver letto in un publico stromento
tutto il seguito. Il pozzo in cui fu gettato il Fanciullo si vede sin al
presente in quella Contrada, e si chiama il Pozzo del Giudeo, hoggi
compreso nell’habitazione de’ Padri di S. Filippo Neri. Fu parimente
la Sinagoga de’ Giudei convertita dalla Regina in Cappella Reale,
sotto titolo di S. Maria della Candelora, et è quella, che si accennò
di sopra. Per questa poi, e per altre molte scelleratezze furono da
tutto questo Regno scacciati tutti li Giudei da Ferdinando Re di
Sicilia detto il Cattolico.»22
Se nell’Antichità l’accusa di omicidio rituale attribuito ad Ebrei
23. Nel I sec. d. C., Giuseppe Flavio ha difeso gli Ebrei dall’accusa di omicidio
rituale nel Contra Apionem. Va ricordato che anche i Cristiani furono colpiti dall’accusa
di omicidio rituale e di cannibalismo, come si ricava ad esempio dalla loro difesa fatta
da Tertulliano nell’Apologetico. Non è possibile dire se e in che misura i paganiab-
biano potuto attribuire questo genere di accuse ai Cristiani senza troppo distinguerli
dagli Ebrei, ma è opportuno ricordare a questo proposito il passo, di interpre tazione
controversa, della Vita di Claudio (23, 4) in cui Svetonio dice che l’imperatore Claudio
cacciò da Roma i Giudei impulsore Chresto adsidue tumultuantes, mostrando di non
fare ancora troppe distinzioni fra le due realtà del giudaismo.
24. Dovuto in quest’ultimo caso all’importanza sempre crescente che assume nel
mito l’elemento del sangue, sulle cui doti medicamentose concordavano le pratiche di
magia naturale diffuse tanto fra i cristiani quanto fra gli ebrei.
25. L’episodio fu reso celebre da una Vita et Miracula S. Wilelmi Norwicensis, scritta
dal monaco Thomas di Monmouth, che rappresenta l’archetipo del mito diffusosi in
età medievale. A breve distanza di tempo dai fatti di Norwich, l’Inghilterra sarà teatro
di altre vicende simili in diverse città.
26. È questa la tesi di fondo dello studio di Ariel Toaff, Pasque di sangue. Ebrei
d’Europa e omicidi rituali, Bologna, Il Mulino, 2008, che peraltro sposta nel tempo
e nello spazio l’insorgenza del mito: egli sostiene infatti la tesi di chi ne anticipa di
qualche anno rispetto al testo di Montmouth, e ne localizza in area germanica, le
prime attestazioni.
27. Il mito dell’omicidio rituale ha continuato a diffondersi in Europa lungo tutta
l’età cosiddetta moderna, e poi con effetti sempre più deboli fino al ‘900. Per la sua
attualità in ambito islamico si veda Massimo Introvigne, Cattolici, antisemitismo e
sangue. Il mito dell’omicidio rituale, Milano, Sugarco, 2004, pp. 55 e 80.
28. Tommaso Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino, Roma, Viella, 2007, p. 32.
29. Del caso messinese fa menzione anche Rocco Pirri, storiografo di Filippo IV di
Spagna nel suo Sicilia sacra, stampato in latino a Palermo nel 1644, lo stesso anno della
pubblicazione dell’Iconologia di Samperi, cfr. Tommaso Caliò, cit., p. 31-32.
30. Fra gli studi pubblicati in Italia negli ultimi anni (che tengono conto peraltro del-
le più importanti ricerche sull’argomento effettuate nel resto d’Europa e negli Stati
la peste eccentrica
ne proposta», e più in generale le circostanze in cui si sono svolti
31
Uniti), se si esclude il già citato Caliò, né Taradel, né Introvigne, né Toaff, pur essi
tutti già citati, accennano al caso messinese. Ignorano l’Iconologia di Samperi anche
Alessandro Allegra e Pietro Giacopello, Signum perfidorum Iudeorum. Gli Ebrei a
Messina attraverso i secoli, Messina, Intilla, 2006, che pure riferiscono l’episodio nelle
due versioni di Giuseppe Cuneo, Avvenimenti della nobile città di Messina, a cura di
G. Molonia e M. Espro, Messina, 2001, pp. 877-878, e di Domenico Gallo, Apparato
agli Annali della città di Messina, Messina, 1755, rist. anastatica a cura di G. Molonia,
Messina, 1985, Libro IV.
31. Tommaso Caliò, op. cit., p. 32.
32. Tutte attestazioni, queste, solo apparentemente vaghe e prive di rilievo.
33. Una porzione della lapide è ancora oggi visibile nella facciata del Duomo di
Messina, a sinistra della porta centrale, nonostante le diverse distruzioni subite nei
secoli dalla chiesa Cattedrale (considerazione. questa, che sollecita un’ulteriore ricerca).
Del pozzo, invece, rimane forse una traccia nella via Pozzo Giudeo del Villaggio Torre
Faro, a circa 15 Km. dalla città.
34. Non è opportuno in questa sede sviluppare la questione dello spazio urbano
e del suo rapporto con gli accadimenti del passato, ma l’intero capitolo in cui si trova
il racconto del fanciullo ucciso dagli Ebrei, si può leggere come una sorta di locale
Reconquista «culturale», ossia territoriale e insieme religiosa: esso infatti inizia al tempo
CATASTROFI GENERATIVE
del dominio saraceno con la Compagnia dei Verdi, costituita da nobiltà e popolo per
fare da scorta all’eucarestia che i sacerdoti portavano ai malati e ai moribondi; continua
con la cacciata degli occupanti, sconfitti dai Normanni, e con le fortune della Compa-
gnia dei Verdi; racconta poi il «caso assai strano», fino a giungere all’espulsione degli
Ebrei dalla Sicilia nel 1492. Tanto la processione “militarizzata” dei Verdi che scortano
l’ostia, quanto la riconsacrazione cristiana della Sinagoga divenuta Cappella Reale, e
poi la rovina definitiva di quest’ultima, andrebbero lette in tal senso.
35. Si riferisce alla Chiesa di S. Maria di Goffredo, poi chiamata dell’Agonia o anche
della Candelora, sede della Compagnia dei Verdi, già Disciplinanti della Grecìa, cioè
del quartiere detto dei Greci, di cui si parla nel capitolo che contiene questo brano.
36. Si tratta appunto dei Verdi di cui alla nota precedente.
la peste eccentrica
VI, e del reggimento d’Elisabetta Madre di Federico Terzo, che qui
riferirò a perpetua memoria, come trovo in quel manoscritto, e ne
fan menzione altri Scrittori. Eravi un fanciullo…»37
42. Era questo un elemento presente sin dal racconto di Montmouth, ed era proprio
un ebreo convertito al cristianesimo a rivelare a Thomas che gli Ebrei si riunivano ogni
anno a Narbona per celebrare Purim la festa delle sorti, e sorteggiare la città in cui
operare l’omicidio rituale.
43. Il culto di William non venne mai autorizzato dalla Chiesa di Roma. Va ricor-
dato che nel XII secolo la «gestione» della santità era ancora in gran parte affidata ai
vescovi locali.
la peste eccentrica
dell’acqua ormai mutata in sangue, che aumentando di volume tra-
bocca fuori dalla bocca del pozzo. Avvertito della cosa, il vescovo
interviene personalmente. Segue l’arresto, la condanna a morte degli
Ebrei e l’esposizione dell’ostia alla venerazione dei fedeli.44
Il sangue – Come l’ostia dell’episodio appena ricordato, nel rac-
conto di Samperi il corpo del fanciullo crocifisso e gettato nel pozzo
galleggia sulla superficie dell’acqua, mutata pur essa in sangue, i cui
«sanguinolenti rivi» corrono «sin nella publica strada» svelando il
rito orrendo compiuto dagli Ebrei. Che a Messina, come già a Parigi,
vengono arrestati e giustiziati. Manca invece, nel testo del gesuita,
ogni riferimento alla presunta necessità degli Ebrei di procurarsi
sangue cristiano a scopo rituale o magico; e non si fa cenno nemmeno
alla prescrizione talmudica di tali pratiche, credenze l’una e l’altra
diffusamente attestate nelle precedenti versioni del mito.
Si è detto all’inizio che Girard vede un rapporto manifesto tra
catastrofi naturali e culturali; per l’antropologo francese lettore di
miti, tragedie e romanzi, «l’assimilazione delle malattie contagiose
e della violenza in tutte le sue forme […] poggia su un insieme di
indizi concordanti che compongono un quadro di straordinaria co-
erenza». La cifra di tale assimilazione è la perdita delle differenze da
cui promana una violenza essenziale che, in caso di peste biologica,
livella gli uomini nella morte; e in quello di peste culturale, li ugua-
glia in una reciprocità simmetrica altrettanto distruttiva.45 Se non
c’è alcun problema a definire “catastrofe naturale” una pestilenza,
resta invece da chiarire in che senso si possa considerare una “cata-
strofe culturale”46 l’accusa del sangue formulata ripetutamente dai
Cristiani contro gli Ebrei. Di certo nel mito delle pasque di sangue
si possano individuare tracce di simmetrie che denunciano processi
di desimbolizzazione mascherati e stravolti da tentativi ingannevoli
e vani di risimbolizzazione, e da significazioni simboliche eccedenti
ogni misura. È ciò che sembrano suggerire, in effetti, gli studi più
51. «I padri degli stessi fanciulli – continua il testo – o altri cristiani rivali degli
stessi ebrei, nascondono gli stessi fanciulli, affinché possano danneggiare gli stessi
ebrei ed estorcere a questi, come risarcimento delle torture da loro inflitte, una certa
somma di denaro; inoltre asseriscono il falso dicendo che gli ebrei fanno sacrificio del
cuore e del sangue di quei fanciulli, benché la loro legge proibisca categoricamente ed
espressamente proprio che gli stessi tocchino, sacrifichino, mangino e bevano sangue
umano», riportato in Ruggero Taradel, op. cit., p. 44. È curioso che a fornirci parecchi
dettagli del mito siano i documenti imperiali e pontifici che intendono scagionare gli
ebrei dall’accusa di praticare l’omicidio rituale in obbedienza ai loro testi sacri, o di
aver bisogno di procurarsi sangue cristiano per i loro riti, e che anzi invocano spesso su
di essi la protezione delle autorità locali .Si fa riferimento soprattutto alla Bulla Aurea
di Federico II di Hoenstaufen del 1236; alle quattro bolle di Innocenzo IV dirette ai
vescovi francesi e tedeschi fra il 1247 e il 1253; al Privilegium libertatis di re Ottokar
II di Boemia, del 1254, e alle bolle di Gregorio X del 1272 e del 1274. Cfr. Ruggero
Taradel, op. cit., pp. 35-46. Su questo si veda anche Ariel Toaff, op. cit., p. 110.
52. L’argomento era affrontato nelle costituzioni LXVII-LXX, proprio quelle che
precedono l’ultima costituzione con cui il Concilio indiceva la quinta Crociata per la
riconquista della Terra Santa.
CATASTROFI GENERATIVE
che la vicenda messinese si presta ad una analisi girardiana della violenza anche per la
situazione politica vissuta in quegli stessi anni dalla città di Messina, divisa fra i par-
tigiani dei nuovi dominatori Aragonesi, e quelli rimasti fedeli a Roberto d’Angiò che
da Napoli, ancora due anni prima di morire, cercava di rientrare in Sicilia servendosi
della famiglia dei Palizzi (cfr. ad es. la Cronica di Giovanni Villani libro XIII, cap. XIV,
Come Messina fu rubellata a que’ d’Araona che·lla signoreggiava, e come la raquistò),
alcuni dei quali furono linciati durante uno dei tumulti tanto frequenti in quel tempo
di disordini. Per una interpretazione tragica delle vicende messinesi di questi anni si
veda il dramma di Friedrich Schiller, La fidanzata di Messina o I fratelli nemici (Die
Braut von Messina), del 1803.
60. Livio, V, 13, 4-8.
XII
Ferdinando Raffaele
catastrofe e metamorfosi del desiderio.
spunti d’indagine sul conte del graal di chrétien de troyes.
Tra gli episodi cruciali di una delle opere capitali, e per molti
versi fondative, della letteratura europea, qual è il Conte del Graal
di Chrétien de Troyes, ce n’è uno che tra gli studiosi non ha mai
cessato di suscitare nuove letture e interpretazioni, nonostante la mole
considerevole di lavori che nel tempo ad esso sono stati dedicati.1
Si tratta di quella parte del romanzo nella quale è narrato il
soggiorno di Perceval presso il castello del Re Pescatore, occasione
in cui gli è rivelata l’esistenza del santo graal.2 Di tale episodio si
cercheranno di indagare i risvolti “catastrofici”, in linea con l’asse
tematico sul quale è articolato il presente volume e con espresso
riferimento alla prospettiva metodologica del “desiderio mimetico”
di René Girard.3
1. Cfr. Bruno Panvini, «Matière» e «sen» nei romanzi di Chrétien de Troyes, Roma,
Il calamo, 1997, pp. 222-224.
2. Per un quadro complessivo delle opere letterarie di età medievale incentrate sul
tema del graal e dei principali studi critici ad esse dedicati, è d’obbligo il riferimento al
volume della collana «I Meridiani», curato da Mariantonia Liborio con introduzione di
Francesco Zambon, Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori,
2005, corredato da ampi riferimenti bibliografici. Per un essenziale profilo letterario
di Chrétien e una efficace sintesi delle sue opere si veda la voce «Chrétien de Troyes»,
curata da Jean-Marie Fritz, del Dictionnaire des Lettres Françaises. Le Moyen Âge,
Paris, Fayard, 1992, pp. 266-280.
3. Mi riferisco principalmente a Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris,
Grasset, 1961 [trad. it., Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1981]
e Achever Clausewitz, Paris, Carnets, 2007 [trad. it., Portando Clausewitz all’estremo. Con-
versazione con Benoît Chantre, a cura di Giuseppe Fornari, Milano, Adelphi, 2008].
CATASTROFI GENERATIVE
diretto di quel che più lo attrae.13 Anzi, si dimostra del tutto inade-
guato nei confronti del ruolo sociale che ambirebbe assumere; e le
ironiche chiose dell’autore non perdono occasione per rimarcarlo.14
Egli, in sostanza, si presenta come una figura ancora “primitiva”,
espressione di un’umanità non pienamente civilizzata.
Si può constatare, del resto, una conflittualità interiore, che si
sviluppa secondo un intreccio assai complesso, tra due opposte ten-
denze, ossia l’istinto, che lo induce a voler ottenere immediatamente
ciò che desidera, e gli insegnamenti ricevuti da persone ritenute
autorevoli e degne di fiducia, che gli impongono dei limiti da non
valicare e dei precisi percorsi comportamentali. D’altronde, le ragioni
che lo spingono ad una peregrinatio che appare ancora priva di una
meta ben precisa sono dettate essenzialmente dall’istinto. Esaminia-
mo, a tal proposito, un episodio che riassume emblematicamente la
condizione interiore di Perceval.
Dopo l’incontro con i cavalieri nel bosco, Perceval ha deciso di
lasciare la dimora di famiglia. E la madre, avendone constatata la
risolutezza, al momento della separazione gli elenca, suo malgrado,
una serie comportamenti cui egli, in quanto aspirante cavaliere,
avrebbe dovuto attenersi. Questi consigli delineano un modello
comportamentale abbastanza definito, che è il primo, nel corso del
romanzo, ad essere recepito dal giovane.
Incamminatosi quindi alla volta della corte di re Artù, Perceval
mimetica del tema della follia proposta da Cesareo Bandera, Follia e modernità di don
Chisciotte, in La spirale mimetica. Dodici studi per René Girard, a cura di Maria Stella
Barberi, Ancona-Massa, Transeuropa, 2006 [edizione originale: La spirale mimétique,
Paris, Desclée de Brouwer, 2001], pp. 79-96, specialmente p. 88.
13. Si rinvia alle illuminanti considerazioni di Pierre Gallais, Littérature et média-
tisation, réflexions sur la genèse du genre romanesque, in «Études littéraires», 4, 1971,
pp. 39-73: 39. Lo studioso intende per mediazione la «propension, que l’homme a peu
à peu acquise et renforcée, à interposer quelque chose ou quelqu’un entre soi-même et
l’objet qu’il désire». Se, cioè, il soddisfacimento diretto e immediato di quanto si desi-
dera è caratteristica del comportamento animale, la mediazione (o meglio la tendenza
ad essa), al contrario, è costitutiva dell’essere umano e della sua civilizzazione. Secondo
quest’ottica, Perceval nel corso del romanzo si stacca gradualmente dal mondo della
natura, nel quale è stato allevato, per essere introdotto nel mondo “civilizzato”, il cui
livello più elevato, per l’appunto, è rappresentato dalla cavalleria.
14. Sulla fondamentale importanza dell’elemento ironico nel Conte du Graal cfr.
Peter Haidu, Aesthetic Distance in Chrétien de Troyes. Irony and Comedy in «Cligès»
and «Perceval», Genève, Droz, 1968.
catastrofe e metamorfosi del desiderio
scorge, ai margini della foresta, una tenda riccamente addobbata
che scambia, mal interpretando le informazioni materne, per una
chiesa. Entratovi in groppa al proprio cavallo, con l’intenzione di
onorare Dio, trova distesa su un letto una fanciulla che dorme. Ella
è sola, poiché il cavaliere di cui è amie (amica) si è allontanato, e le
sue dame di compagnia si sono recate in un prato vicino per rac-
cogliere fiori. Travisando ancora le parole della madre, la quale gli
aveva raccomandato:
15. In effetti Perceval si renderà più avanti conto della violenza compiuta e cercherà
di riparare. Al momento, invece, si produce un effetto di paradossale irrealtà, che risalta
nella descrizione dell’assalitore che la fanciulla fa al suo cavaliere quando egli ritorna
alla tenda: «... un ragazzo del Galles, fastidioso, ignorante e sciocco» (p. 58).
CATASTROFI GENERATIVE
con il suo ospite. Dopo un po’ un giovane valletto gli consegna una
spada della quale egli fa immediatamente dono a Perceval, giacché
lo giudica il cavaliere più degno di farne uso.22 A questo punto ha
inizio una singolare processione. Entra infatti nella stanza un altro
giovane il quale «portava una lancia bianca impugnata nel mezzo
dell’asta [...]; e usciva una goccia di sangue dalla punta e quella
goccia vermiglia colava fin sulla mano del valletto» (p. 98).
22. Sul rapporto fra l’onore reso a Perceval e il dono della spada cfr. Antonio
Pioletti, op. cit., pp. 128-130, e Mariantonia Liborio, Introduzione. Sotto il segno del
doppio, cit., pp. 13-14 e 23-26.
catastrofe e metamorfosi del desiderio
ceval] non domandò del graal a chi lo si serviva. Temeva di chiedere
a causa del nobiluomo che lo aveva dolcemente rimproverato di
parlare troppo, e lui ci pensava sempre, e lo tiene bene a mente
[...] Eppure vorrebbe saperlo, ma lo domanderà di certo, si dice,
prima di andarsene, a uno dei valletti della corte; ma aspetterà fino
al mattino dopo, quando prenderà congedo dal signore e dal resto
della compagnia» (p. 100).
E ancora una volta il narratore rimarca il fatto che «egli tace più
di quanto non convenga»23 (p. 100). Come si vede, il comportamento
di Perceval per un verso risponde ad una imitazione imperfetta, in
quanto priva di discernimento, del modello che Gornemant gli aveva
indicato; ma per altro verso appare limitato dal modello stesso, nel
quale la prospettiva trascendente, che dovrebbe dischiudergli il
significato degli oggetti misteriosi che transitano di fronte a lui, si
rivela insufficiente. Al personaggio rimane cioè precluso l’esito ulti-
mo verso cui lo spinge il suo desiderio, che consiste nell’acquisizione
di una nuova, e più completa, dimensione personale.
Ma ritorniamo all’episodio. Terminata la cena, Perceval è ac-
compagnato nella camera che gli è stata assegnata, ove trascorre
la notte. Il mattino seguente, mentre tra sé si propone di cercare
l’occasione opportuna per chiedere cosa rappresentino il graal e la
lancia, constata con meraviglia come nel castello non ci sia più nes-
suno. Inoltre, dopo essersi invano aggirato per le stanze dell’edificio,
trova il proprio cavallo già sellato, pronto per la partenza. A questo
punto, credendo che il Re Pescatore e i suoi servitori si fossero
recati nelle vicinanze, decide di andarli a cercare. Quando però sta
per oltrepassare a cavallo il ponte levatoio, esso d’improvviso viene
sollevato, sicché Perceval, che rischia peraltro di essere sbalzato per
terra, si ritrova fuori dal maniero, senza la possibilità di rientrarvi.
E nessuna risposta è data ai suoi richiami rivolti a chi aveva alzato
materialmente il ponte. Decide allora di esplorare i dintorni del
castello, e nel frattempo si interroga, stupefatto, sul senso di quanto
gli è accaduto.
23. Sul silenzio di Perceval, e sulle sue conseguenze nefaste, cfr. Danièle James-Raul,
La parole empêchée dans la littérature arthurienne, Paris, Champion, 1997.
CATASTROFI GENERATIVE
«disse che non avrebbe dormito più di una notte in nessun posto
per il resto dei suoi giorni e non avrebbe sentito parlare di strani
passaggi senza andare là e superarli né sentito parlare di qualche
cavaliere che valga più di tutti gli altri messi insieme più di due che
non vada a combattere contro di lui, fintanto che non riuscirà a sa-
pere del graal a chi lo si porta e avrà trovato la lancia che sanguina,
così che gli sia detta la verità vera sul perché sanguina; e non si tirerà
indietro per nessuna fatica» (pp. 123-124).
CATASTROFI GENERATIVE
25. Allorché, a seguito delle parole della fanciulla mostruosa, ha deciso di mettersi
alla ricerca del graal, in realtà Perceval non ha ancora compreso il valore dell’episodio;
egli cioè lo considera, come sottolinea Filippo Salmeri, La scena del Venerdì Santo nel
«Perceval» di Chrétien de Troyes, in Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, in «Siculorum
Gymnasium», n.s. 52, pp. 879-894, «come una delle tante altre avventure cavalleresche,
forse la più difficile e la più straordinaria» (p. 881).
catastrofe e metamorfosi del desiderio
le più grandi imprese delle quali un cavaliere possa gloriarsi, egli ha
obliato il senso del suo agire:
26. Sul significato dell’episodio nella complessiva economia del romanzo cfr. Filippo
Salmeri, La scena del Venerdì Santo nel «Perceval» di Chrétien de Troyes, cit.
27. Cfr. le riflessioni su questa prospettiva antropologica di René Girard, Portando
Clausewitz all’estremo, cit., p. 55.
catastrofe e metamorfosi del desiderio
Al che il confessore aggiunge: «Fratello, ti ha molto nuociuto
un peccato di cui non sai nulla: si tratta del dolore di tua madre il
giorno in cui sei andato via da lei, che è caduta svenuta a terra in
cima al ponte, vicino alla porta, e di quel dolore è morta» (p. 151);
indicando anche la causa della mancata domanda:
venuto dalla foresta finisce con l’assumere il ruolo di una riserva pe-
riferica, potenzialmente rigeneratrice perché immune dalla duplice
forma di corruzione che affligge quel mondo.37 Egli dispone, per
l’appunto, delle qualità necessarie per farsi carico della rinascita.38
Ma l’assunzione di questo ruolo è resa possibile dal sistema di re-
lazioni intorno al quale ha avuto luogo la sua maturazione. Infatti,
rispetto al canone del «romanzo di formazione», che si struttura
più semplicemente lungo ad una serie di prove da superare,39 nel
Conte del Graal il mutamento segue per l’appunto una dinamica
triangolare. Come si è già anticipato, esso non riguarda solamente
il personaggio protagonista, bensì anche l’oggetto desiderato e chi
assolve alla funzione di mediatore:
soggetto = rozzo valletto = cavaliere = cavaliere “altruista” =
cavaliere “spirituale”;
oggetto = armi = cavalleria = “gloria” cavalleresca = cavalleria
spirituale (graal);
mediatore = cavalieri incontrati nella Gaste Foreste = madre =
Gornemant de Goort = zio eremita.
Appare chiaro, di conseguenza, in che termini l’evento che ha
luogo nel Castello del graal travalichi la dimensione individuale, per
assumere una portata di ordine generale. «Ora invece sappi che ne
verrà gran dolore per te e per gli altri» (pp. 105), è il rimprovero
fatto a Perceval dalla cugina germana; che qualche tempo dopo è
ribadito nelle parole della fanciulla mostruosa: «le dame ne perde-
ranno i loro mariti, le terre saranno devastate e le fanciulle rimaste
orfane saranno lasciate senza guida, e molti cavalieri ne moriranno,
e tutti soffriranno per colpa tua» (pp. 123-124).
36. Cfr. Mariantonia Liborio, Introduzione. Sotto il segno del doppio, cit. p. 9.
37. Cfr. Ibidem.
38. Perceval, peraltro, è portatore di una visione ancora “incantata”, contro quella
“disincantata” che riduce la cavalleria a pura forma o a pura violenza.
39. Quale esempio relativo all’opera di Chrétien, si può indicare l’Erec et Enide;
sull’argomento cfr. Mariantonia Liborio, «Qui petit semme petit quelt». L’itinerario
poetico di Chrétien de Troyes, in Studi e ricerche di letteratura e linguistica francese, a
cura di Gian Carlo Menichelli e Gian Carlo Roscioni, Napoli, Istituto Universitario
Orientale, 1980, pp. 10-70.
catastrofe e metamorfosi del desiderio
Rileggendo quindi l’episodio come simbolo di una catastrofe,
vi si scorge una rappresentazione della crisi della civiltà cortese,
che costituisce la fine di un “arco storico”. Quest’ultimo, come ci
spiega Giulio Maria Chiodi, è uno spazio di tempo caratterizzato
dalla convergenza di vari elementi di ordine sociale, culturale,
politico e religioso, che è circoscritto tra una fase «germinale»,
che ne costituisce la matrice storica, e una fase «epigonale», in cui
«riprendono evidenza i caratteri e la natura della sua fase germinale,
certamente non come semplice ritorno all’origine, ma come una
risposta, a un livello di esperienza storica arricchita e consumata,
in situazioni problematiche e complesse».40 Ora, facendo riferi-
mento a tale approccio metodologico, è possibile enucleare nella
storia che la leggenda arturiana vuol rappresentare le seguenti fasi:
1) la formazione e il processo di ascensione di una civiltà; 2) il suo
culmine; 3) lo stato di appagamento per il livello raggiunto e la
tendenza alla formalizzazione dei suoi valori; 4) la sua decadenza;
5) l’attivazione delle proprie energie di riserva; 6) la sua rigenera-
zione o il suo dissolvimento. Lo stato in cui si trova il regno di Artù
quando Perceval inizia ad operare è perciò collocabile tra i punti (3)
e (4), il ruolo “storico” di Perceval si inscrive al punto (5), mentre il
punto (6) costituisce la fase «epigonale» dell’arco storico. E come
si può infine constatare, se dalla parabola esistenziale di Perceval
emerge la speranza di una rinascita, essa necessita, affinché acquisti
consapevolezza, di un evento catastrofico.41 È infatti la catastrofe
(rappresentata in termini sia culturali che naturali) a costituire, in
ultima analisi, l’elemento dinamico che nel romanzo di Chrétien
trasforma l’aventure individuale del protagonista in un vettore di
rigenerazione storica.
40. Giulio Maria Chiodi, La filosofia di fronte all’oggettivazione della libertà politica,
in Idem, Tacito dissenso, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 12-13.
41. Il modello su cui si fonda la sua identità è reso infatti intelligibile proprio alla
luce della catastrofe, la quale offre non una semplice prospettiva di ordine cognitivo,
bensì un fatto vissuto che diviene normativo per un modus vivendi.
XIII
Maria Grazia Recupero
quos ego…
la fontana del nettuno in una lettura mitico-rituale
del terremoto di messina
3. Salvatore Natoli, Parole della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 117. Sull’ar-
gomento cfr. Trattato di antropologia del sacro, a cura di Julien Ries, III, Le civiltà del
Mediterraneo e il sacro, Milano, Jaca Book, in part. p. 218 e sgg. Per un’approfondita
analisi di mitologia comparata rimandiamo alle opere di Joseph Campbell in particolare
L’eroe dai mille volti, Parma, Guanda, 2007. Per un’interessante riflessione sul tema cfr.
Vanni Ronsisvalle, Estetica del terremoto, I, in La furia di Poseidon, a cura di Giuseppe
Campione, Milano, Silvana Editoriale, 2009, p. 153.
4. Giuseppe Fornari, Da Dioniso a Cristo, Venezia, Marietti, 2006, p. 578.
5. Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999, pp. 68-69 (corsivo
mio). Potremmo dire, parafrasando il noto motto di Paul Valéry, che «All’inizio era la
favola. E vi sarà sempre». Precisa l’Autore: «Questo significa che ogni origine, ogni
aurora delle cose è della stessa sostanza delle canzoni e dei racconti che circondano le
culle» (Paul Valéry, All’inizio era la favola, Milano, Guerini e Associati, 1988, p. 55).
quos ego
o di distribuzione gerarchizzata.» Per questo il kosmos, tendenzial-
6
fig. 1
fig. 2
19. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 2004, p. 152.
«[…] il mito, immagine concentrata del mondo, che, come abbreviazione dell’appa-
renza, non può fare a meno del miracolo. […]. Senza mito però ogni civiltà perde la
sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere
in unità tutto un movimento di civiltà. […]. Le immagini del mito devono essere i
demonici custodi, inosservati e onnipresenti, sotto la cui vigilanza cresce l’anima gio-
vane, e dai cui segni l’uomo interpreta la propria vita e le proprie lotte […]» (Ivi, p.
151). Per un ulteriore approfondimento geofilosofico sulla città di Messina si rimanda
a Caterina Resta, Ricordare l’origine. Riflessioni geofilosofiche, www.geofilosofia.it/
pelagos, 2002.
20. Giovanni Angelo Montosoli (1507-1563), toscano di nascita, operò in nume-
rose città italiane – come restauratore, progettista, allestitore di apparati festivi. La
sua Fontana del Nettuno è probabilmente la più antica tra le fontane monumentali
dedicate al dio del mare.
21. Giuseppe Bellafiore, La civiltà artistica della Sicilia, Firenze, Le Monnier,
1963, p. 129. A completare questo simbolo della città, della sua anima più intensa
e misteriosa, diversi mascheroni versanti acqua nei fianchi, cavalli marini ai quattro
angoli, conchiglie e stemmi della dominazione spagnola, che si concedono copiosa-
mente alla tendenza manieristica dello scultore. Sull’attività messinese di Montorsoli
si consiglia Alessandra Migliorato, La produzione scultorea di Montorsoli a Messina,
«Messenium d’oro», 2007.
22. Giuseppe La Farina, op. cit., pp. 23-24.
quos ego
fig. 3
fig. 4 fig. 5
sono i doppi gli uni degli altri.»40 La turba della metafora virgiliana
agisce secondo i meccanismi dell’escalation mimetica, finché il “bieco
furore” non si placa improvvisamente dinnanzi al dio.
Violenza e sacro sono gli elementi costitutivi dello meccanismo
fondativo girardiano, che rende maggiormente comprensibile il
carattere isolato e maestoso della statua montorsoliana: separando
gli elementi caotici, il dio riproduce un ordine sociale che è, almeno
formalmente, in grado di sanare il contagio mortifero dei doppi.41
Nettuno è la figura, predestinata nel mito, a rappresentare il limen
tra turba e città, tra folla mimetica e società, tra violenza e ordine.
Nettuno dovrebbe incarnare l’artificio ordinatore e differenziatore
per eccellenza, la “categoria del politico”, basata sulla distinzione di
ciò che necessariamente oscilla tra scatenamento e controllo della
violenza. Ma al moderno uomo del nomos sfugge sempre l’uomo
della physis, intesa come «l’essenza intima di ciò che si è.»42 Scrive
40. René Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 111. I miti prendono inizio da una con-
dizione di disordine estremo, da una situazione di caos che il più delle volte nasconde
una situazione di squilibrio di fondo: nella comunità, nella natura, nel cosmo. «Gli
indistinti si battono senza tregua per distinguersi gli uni dagli altri. […] L’indifferenziato
non è che una traduzione parzialmente mitica di questo stato di cose. […]». (René
Girard, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 1982, p. 30 e sgg.). Cfr. inoltre Idem, La
voce inascoltata della realtà, Milano, Adelphi, 2006, pp. 58-59.
41. Circoscrivendo l’analisi a questo passo virgiliano non è facile evincere in tutta la
sua complessità l’elemento vittimario del circuito girardiano. Non sembrano emergere
indizi su una violenza unanime nei confronti «dell’uomo stimato e di molti meriti».
Eppure l’eventualità stessa dell’omissione, che potrebbe rientrate nel meccanismo del
misconoscimento, richiederebbe ulteriori riflessioni, ad esempio sul cosiddetto transfert
di riconciliazione con cui la folla giunge a divinizzare la propria vittima, trasfigurandola
come nume protettivo e salvifico nello “spazio simbolico divino”. È il doppio volto
simbolico del sacrificio che mentre uccide rende immortale la vittima, precisamente
il “capro espiatorio”, come pharmakon che libera e purifica: “la causa apparente del
disordine diviene causa apparente dell’ordine”. Cfr. René Girard, La violenza e il sa-
cro, Milano, Adelphi, 1982; Idem, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,
Milano, Adelphi, 1983.
42. Seppur considerato come fondamento della società e del cosmo intero, il nomos,
la legge umana basata sulla convenzione, non è sufficiente ad arginare i pericoli di ciò che
si presenta con i caratteri della Totalità: «Alla physis non si impongono le volontà degli
uomini» (Nicola Aricò, op. cit., p. 60). Sul tema cfr. André Motte, Il sacro nella natura e
nell’uomo: la percezione del divino nella Grecia antica, III, in Trattato di antropologia del
sacro, a cura di Julien Ries, Milano, Jaca Book, 1992, p. 233 e sgg. Per un’illuminante
ipotesi sulla possibilità di una “mitologica del politico” si consiglia Domenica Mazzù,
Logica e mitologica del potere politico, Torino, Giappichelli 1990, in part. p. 23 e sgg.
quos ego
Giuseppe Fornari: «l’uomo è la vera sintesi di tutte le distinzioni
che non si distinguono e di tutti i collegamenti che non si collegano
all’interno della physis greca: siamo noi il doppio vincolo più gran-
de esistente in “natura”, […], il doppio vincolo della coscienza e
dell’incoscienza, della pace e della violenza, del bene e del male.»43
Come dire che nomos e physis dipendono l’uno dall’altra, alla stessa
stregua della buona e della cattiva reciprocità.
Così come si erge per un’altezza totale di circa quattro metri
dalla torsione spiraloide di Scilla e Cariddi, che formano in due un
unicum informe, allo stesso modo Nettuno è al centro della spirale
mimetica.
Secondo un’espressione cara a Maria Stella Barberi, potremmo
sostenere che Nettuno, innalzandosi, crea la distanza trascendente
del sacro, “mettendo in forma” la disgregazione conflittuale dei
doppi.
Una distanza incolmabile, che è abisso (letteralmente “senza
fondo”) impossibile da contenere e da cui è impossibile affrancar-
si. Dal chaos si giunge e al chaos si ritorna secondo un meato che
Isidoro di Siviglia traccia in modo particolarmente appropriato al
nostro percorso ermeneutico: tutte le acque «tornano attraverso
vene occulte all’abisso-matrice».44
L’acqua non è semplicemente un elemento fisico-sensibile: rap-
presenta lo stato liquido della materia, l’indistinzione che cancella e
opera una rinascita; è potente manifestazione hyletica della natura.
«Nei miti, nei rituali, nelle cosmogonie, l’acqua precede le forme
che saranno create.»45
Per riassumere un argomento estremamente vasto e complesso,
la simbolica dell’acqua, ricorriamo alle dense parole di Mircea
Eliade:
48. Giorgio Boatti, op. cit., p. 47. Giuseppe Fornari afferma in maniera esplicita
che «[…] qualunque contenimento vero della violenza, qualunque fondazione politica,
qualunque nomos è in sé privo di fondamento» (Giuseppe Fornari, op. cit., p. 482).
49. Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, cit., pp. 83-84.
50. Nicola Aricò, op. cit., p. 17. Per un interessante approfondimento filosofico
politico, cfr. Enrico Piccinini, Il significato vitale della paura e la sua funzione cataliz-
zatrice nello sviluppo della città umana, in La paura e la città, a cura di Dino Pasini, II,
Roma, Astra, 1983, p. 171 e sgg.
CATASTROFI GENERATIVE
I.
1. Hermann Melville, Moby Dick, trad. it. di Cesare Pavese, Milano, Adelphi, 1994,
p. 12. Ma la prima edizione italiana per i tipi di Frassinelli è del 1932. Poi, Einaudi nel
1941. Ho confrontato la celebre traduzione di Pavese con il testo originale, edito da
Tony Tanner Oxford New York, University Press, 1988. Moby Dick or the Whale viene
pubblicato nel 1851. Questo saggio non sarebbe stato scritto se Maria Stella Barberi
non mi avesse invitato a farlo.
CATASTROFI GENERATIVE
ne, nella Wilderness dove l’anima vien meno, poiché giace esposta
alla tentazione, al pericolo come all’offesa del male, esige tonalità e
ritmo dell’azione – uno stile – un rapido contrasto di voci, accenni
e riprese, di un infinito, monotono gemito, che si rincorrono nella
prova d’orchestra del potere, come un vuoto nulla pieno di risonanze
simboliche, a fronte di un essere che sale, richiama a sé e si ritira.
Uno sconcerto senza capitolazione mi afferra mentre comincio a
scrivere di Moby Dick. Un tremito che non è di paura, benché regni
il terrore in questa storia. Non mi vince l’angoscia dell’influenza,
sono io che mi concedo ai vieti piaceri della mimesi. Se «raccontare
è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra
irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di
rivelarsi e sempre sfuggente»,2 fare filosofia ai margini della lette-
ratura significa corrispondere alle sue calme come ai propri silenzi.
Uno stato di bisogno che non si arrende alla parola che viene come
non si ritira davanti alla parola che si dilegua. Ma lotta a vita con
un’onda d’intensità che tutto sommerge. Dibattendo l’una e l’altra
nel vortice del poetato. Una contesa che si decanta nella verità che
va a fondo. Scrivere per Moby Dick è un anelito di conquista in
luogo di un ideale di pace. Un esercizio per opposizione. Insistere
nell’indistinto per esistere unicamente. Respingere quella naturali-
tà che ci fosse rimasta intorno, leggendo, per poterla possedere a
libro ancora aperto. E cedere la sua proprietà quando si trasforma
nel proprio concetto. Uno sciabolare per acqua. Mai la missione di
un dotto. E, neppure, una visione salvifica del futuro che s’invola
dall’immagine sempre uguale del presente. Piuttosto, l’eterno rivol-
gimento del tempo nella notte del mondo. Morti che seppelliscono
morti. La forza delle tenebre che esce dalla luce. Divenire Achab
e la balena bianca. Scendere nel loro gorgo. Abbandonarsi ad un
corpo di parole dalla lingua profana, che dice ciò che nessuno vuo-
le più ascoltare – della profezia nella politica – proprio quando il
romanzo è una errand dell’anima, ancor prima che un viaggio nello
spazio, uno sforzo interiore che costruisce una seconda natura, una
2. Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1961, p.
332. Il testo è prefato da Italo Calvino. Del mito, del simbolo e d’altro, in Pavese, scrive
Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1968.
moby dick e la catastrofe
sfida che esprime l’aperta ribellione contro il Regno di Dio nel mare
dell’essere, senza tradire o rubare il sogno americano, ma interpre-
tando l’ideale della terra promessa in una continua crisi escatologica,
come una frontiera che resta disponibile ad un’appropriazione dello
spirito, immanente però la fine della storia sotto la forma di un mito
millenario.3 Ma «c’è ancora un altro mondo da scoprire: e più di
uno! Via sulle navi, filosofi!»4
Certo. Moby Dick è grande politica. Un turbine d’indiscernibilità
della potenza e del potere. Uno scatenamento di energie allo stato
nascente. Il libero gioco delle forze attive e reattive. Ma anche la rap-
presentazione dello Stato come sudario della sovranità. Il più gelido
di tutti i gelidi mostri davanti alla maschera medusea del terrore. Una
lotta degli spiriti. Un destino manifesto. L’elezione di un popolo a
nazione universale. Il sacro esperimento della democrazia che intona
il De profundis di ogni teologia politica. Il canto della necessità per
un principio creatore di gerarchia e rango. Il pathos della nobiltà
e della distanza nonostante lo spirito dell’eguaglianza distenda su
tutta la specie umana un regale mantello di dignità democratica.5 Mi
spiego. Attraverso il solo pensiero politico che avvista Moby Dick.
Rovescio la sua prospettiva sul proprio punto di fuga – un colpo
d’occhio all’orizzonte invisibile, dove ogni salvezza cade. Quando il
Leviatano non ha la sembianza di un artificio meccanico che funziona
per un mero calcolo razionale ma, al contrario, mostra il corpo che
è – materia che vive grazie ad un segreto radicato al fondo della
propria affettività – l’analogia dell’immagine si spezza ed il giudizio
tace. È la vertigine del politico. La guerra infinita. La potenza che
diviene un potere superiore rispetto agli ostacoli prevedibili che la
sua azione deve superare affinché la volontà consegua una vittoria
su se stessa. Una forza più grande anche della resistenza di un potere
che esercita potenza. Il terrore, che ha come preda la propria libertà
e vuole essere signore nel suo deserto. Davanti alla balena bianca
3. Sacvan Bercovitch, America puritana, trad. it. di Giuseppe Nori, Roma, Editori
Riuniti, 1992; Reinhold Niebuhr, Fede e storia, trad. it. di Franco Giampiccoli, Bologna,
il Mulino, 1966.
4. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi,
1977, p. 166.
5. Hermann. Melville, Moby Dick, cit., p. 147
CATASTROFI GENERATIVE
6. Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, trad. it. di Enrico e Igea De Portu, Torino,
Einaudi, 1978.
7. Friedrich Hölderlin, Sul tragico, a cura di Remo Bodei, Milano, Feltrinelli,
1989.
8. Edmund Burke, Inchiesta sul bello e il sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e
Goffredo Miglietta, Palermo, Aesthetica, 1985; Immanuel Kant, Critica della capacità
di Giudizio, a cura di Leonardo Amoroso, Milano, Rizzoli, 1996.
moby dick e la catastrofe
Melville nell’orizzonte dell’infinito. Ecco. L’oceano non lo scorgiamo
9
più per come lo pensiamo grazie alle svariate conoscenze di cui siamo
ricchi, ma per come ce lo mostrano gli occhi, un chiaro specchio
d’acqua limitato soltanto dal cielo, oppure un abisso tempestoso che
minaccia di inghiottire ogni cosa, abitato da un mostro ponderoso e
profondo. Un effetto traslato dell’oscurità di quei governi dispotici
che si basano sulle passioni degli uomini, e principalmente sulla
paura, i quali sottraggono il più possibile i loro capi dalla vista della
moltitudine.10 Questo è. Nessuna destinazione morale si produce
dalla scossa dell’immaginazione. Non c’è rappresentazione possibile
dell’idea razionale che sveli la propria inaccessibilità come qualcosa
di presente nella natura sensibile dell’uomo nell’ora in cui l’immagi-
nazione passa il limite e l’anima si bacia in un punto di concentra-
zione nel soprasensibile. Ma soltanto la percezione incoativa di una
forza così spaventosa, da non esserci altro movente a sostenere tutta
intera la carne del mondo, al di fuori dello scatto di una tirannica
sensibilità, che esplode in petto come una bomba. Un principio di
potere che sfida l’emergenza dell’origine, il fondamento del dominio
innalzato dalle piramidi del sacrificio al cielo della vita democratica
contro l’indifferenza dell’inizio. Un segreto rubato a tutti, tranne
che al capo. Una ricerca della provenienza che inquieta chi la ignora
perché ai suoi occhi uguali il comando della volontà non si produce
come un caso della lotta. E, non di meno, il suo diniego ad apparire
non è mai una sparizione definitiva nell’oblio, né cessa di visitare la
moltitudine, di ritornare come una seconda coscienza, una voce di
dentro, ipnotica, che fa agire ciecamente, quasi che ognuno dovesse
esser soggetto ad un vincolo di ubbidienza per poter essere se stesso.
9. Mi riferisco all’aforisma 124 de La gaia scienza, cit., Nell’orizzonte dell’infinito,
precedente L’uomo folle, che cerca Dio ma annuncia la sua morte, al mercato. Trascrivo
Nietzsche perché avvisto Melville, in viaggio verso nessun dove: «Abbiamo lasciato la
terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non
è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai
tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta
e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito
e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è
sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della
terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più «terra» alcuna!»
10. Edmund Burke, Inchiesta sul bello e il sublime, cit., p. 86.
CATASTROFI GENERATIVE
11. Il riferimento è a John Milton, Paradiso perduto, a cura di Roberto Sanesi, Mon-
dadori, Milano 1984. Così commenta Edmund Burke, Inchiesta sul bello e il sublime,
cit., p. 87: «Nessuno meglio di Milton sembra aver compreso il segreto di dar risalto
a cose terribili o di porle, se così posso esprimermi, nella luce più viva, circondandole
con una sapiente oscurità. La sua descrizione della Morte, nel secondo libro, è studiata
in modo ammirevole, ed è sorprendente con quale tetro fasto, con quale significativa
ed espressiva incertezza di tocchi e di colori egli abbia delineato il ritratto del re del
terrore». Non era ancora comparso Melville sulla scena letteraria, e quel suo sublime
Leviatano di elusiva bianchezza, ad accrescere questo terrore fino all’estremo limite.
moby dick e la catastrofe
cui la teoria diviene pratica nel processo di trasformazione in atto
dell’esperienza, non secolarizzi lo spirito del trascendentalismo, per
il quale la filosofia si arrende ad una mistica della visione immediata
della realtà divina nella natura dell’uomo, ma esplori logicamente
le possibilità che si aprono alla vita della mente per raggiungere il
terzo grado di chiarezza della comprensione.12
Sì, sono gli effetti delle pubbliche relazioni che la storia dell’idee
intrattiene con quella delle credenze religiose, di là dall’oceano,
che Moby Dick rappresenta! C’è, infatti, che nulla, o quasi nulla,
accade della democrazia in America, all’infuori di una teofania della
storia, dove la fondazione è un dramma sacro, ed il compimento
il giorno del giudizio. Voglio dire che non si dà rappresentazione
dell’io americano, senza l’atto di riflessione di un soggetto politico
sul proprio stesso sostrato puritano, un’intelligenza della creazione
per la quale l’idea biblica di una sovranità di Dio sul destino storico
reca un marchio di peculiare qualità al suo venire al mondo. Ma c’è
di più. Il racconto di un viaggio nel cuore di tenebra della guerra.
Apocalypse now è girato da Melville. Non ci sarebbero gli Stati
Uniti d’America senza un rituale di iniziazione all’incontrario che si
celebra nello stato di morte di una tomba galleggiante. Dove anche
il mito della festa nasce dalla credenza che i defunti vaghino nella
oscurità della notte con dei fuochi in mano per rivendicare la loro
morte ed i vivi si muniscano di una faccia orripilante per ingannare
i loro fantasmi. Come nel tempo, fuori dal tempo, del grande anno,
in cui il velo che divide la terra dei morti si assottiglia tanto che i
vivi possono accedervi. Perché soltanto i morti hanno visto la fine
della guerra. C’è una volontà di potenza che forgia il proprio ne-
mico. Non è il sentimento oceanico che stringe in un indissolubile
legame l’io al mondo esterno, come al culmine dell’innamoramento
quando il confine tra l’io e il tu minaccia di dissolversi, ma neppure
12. Joseph Leon Blau, Movimenti e Figure della Filosofia Americana, trad. it. di
Alberto Pasquinelli, Firenze, La Nuova, Italia, 1957; Cornel West, La filosofia ameri-
cana, a cura di Francesca Romana Recchia Luciani, Roma, Editori Riuniti, 1997. Sulla
filosofia di Melville, si veda: Elemire Zolla, Le origini del trascendentalismo, Roma
Edizione dell’Ateneo, 1958; Enzo Paci, Il mito di Moby Dick e altri saggi americani, a
cura di Agostino Lombardo, Roma, Editori Riuniti, 1988; Hermann Melville, Clarel,
a cura di Elemire Zolla, Milano Adelphi, 1993.
CATASTROFI GENERATIVE
19. Jean Baudrillard, L’America, trad. it. di Laura Guarino, Milano, Feltrinelli,
1987, p. 44.
20. Hermann Melville, Diario italiano, trad. it. di Guido Botta, Roma, Robin,
2002.
21. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di Corrado Vivanti,
Torino, Einaudi, 2006.
moby dick e la catastrofe
che il suo naufragio. La sua religione e la sua gnosi. Un Dio così 22
II
22. Harold Bloom, La Religione Americana, trad. it. di Serena Lauzi, Milano,
Garzanti, 1994.
23. Gabriele Baldini, Melville o le ambiguità, Milano, Bompiani, 1952; Vito Amo-
ruso, Alla ricerca d’Ismaele: Melville e l’arte, «Studi Americani», 13, 1967; Idem, Un
mare senza rive: Melville e l’arte (II), «Studi Americani», 15, 1969.
24. Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Idem,
Angelus Novus, trad. it. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962.
CATASTROFI GENERATIVE
28. Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 63.
29. Henry Corbin, L’Homme et son Ange, Paris, Fayard, 1983. Il testo raccoglie
tre conferenze pronunciate al circolo di Eranos nel 1948, 1970, 1976. In particolare,
la seconda che ha come titolo L’initation ismaélienne ou l’ésotérisme et le Verbe.
CATASTROFI GENERATIVE
30. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ricerche sull’essenza della libertà umana,
cit., p.123.
31. Wystan Hugh Auden, Gli irati flutti, a cura di Gilberto Sacerdoti, Roma, Fazi,
1995, p. 132.
moby dick e la catastrofe
Satana crea le tempeste che sollevano fino alle nubi le tue acque
salate. Bisogna che tu me lo dica, perché mi rallegrerei di sapere
l’inferno così prossimo all’uomo».32 È l’ultima strofa dell’invocazio-
ne all’oceano prima che Maldoror lo saluti e gli dica addio. Soltan-
to Lautreamont, come Melville, rivaleggia con le forze universali.33
Un’accumulazione di istanti decisivi, la medesima tensione di pun-
ti di forza, come un atto di aggressione della scrittura al foglio
bianco, un impulso muscolare che scatta al solo contatto con la
parte acquea del mondo, è l’inizio del viaggio per mare di Ismaele,
ma anche la fine del suo vagabondaggio. Tempo e racconto diven-
gono la soglia d’accesso di un demone meridiano. Il bosco d’asilo
in cui si acquatta l’accidia da quando un novembre umido e piovig-
ginoso gli è sceso nell’anima. Ma anche l’immagine anatomica di
una malinconia che detiene il potere di riconoscere nell’intimo di
se stessa una parte d’ombra che la rende complice della follia del
mondo.34 Un umore nero, che si scaccia regolando la circolazione
del sangue sulle rotte verso nessun dove. Leggiamo. Ed è come la-
sciare per sempre la terra, abbandonare la buona città dei vecchi
manhattanesi, confusa ai suoi traffici, dove una folla solitaria si
perde in fantasticherie d’acqua, salpare per New Bedford, una città
industriale della Nuova Inghilterra che ha costruito la sua fortuna
sulla lavorazione dell’olio di balena, commerciando il destino con
la storia. E dalle sue terrazze di fiori trapiantate su sterili rifiuti di
roccia, salutare il gran mondo di questa Cartagine di nuovi ricchi,
dirigendo la fantasia alla volta dell’isola di Nantucket, l’antico por-
to dello Stato di Massachusetts, la vecchia Tiro della baleneria, il
luogo in cui si venne ad arenare la prima balena americana morta.
Nantucket, che si lancia sul mare arandolo da cima a fondo, come
fosse una sua piantagione particolare. Dalle sue leggendarie sabbie,
Ismaele scenderà in acqua per dare la caccia al Leviatano. Carica la
32. Isidore Ducasse, conte di Lautréamont, Opere complete, trad. it. di Nicola M.
Buonarroti, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 31.
33. Maurice Blanchot, Passi falsi, trad. it. di Elina Klersy Imberciadori, Milano,
Garzanti, 1976, p. 188-193.
34. Robert Burton, Anatomia della malinconia, a cura di Jean Starobinski, trad. it.
di Giovanna Franci e Francesco Fonte Basso, Venezia, Marsilio, 1994.
CATASTROFI GENERATIVE
sua solitudine a bordo del Pequod, una stultifera navis che ritorna
a dichiarare l’eterna guerra dell’impero del mare «alla più formida-
bile massa animale sopravvissuta al diluvio, mostruosa ed enorme
tra tutte! Quell’Himalaia d’un Mastodonte marino, rivestito di un
tale portento di forza incosciente che i suoi stessi terrori sono più
paurosi dei suoi attacchi più audaci e maligni».35 Ma si tufferà
nell’oceano soltanto dopo aver aperto le chiuse dell’amore e della
relazione umana a Quiqueg, un principe polinesiano dal cuore
nobile, nativo di un’isola così lontana da non essere segnata da
nessuna carta, ma irresistibilmente attratto dalla cristianità, un
anello di umanità che vuole portare al dito per educarsi alla virtù e
rendere così più felice la propria tribù al suo ritorno. Una matura-
zione interiore all’ombra di una città distrutta, un matrimonio
pattuito, come dice la lingua dei selvaggi, tra un giovane inesperto
e tremebondo ed un cannibale consumato, deluso dalla miseria
morale della civiltà che impara a conoscere, idolatra per cultura,
venditore di teste imbalsamate e ramponiere d’esperienza, i quali
hanno condiviso il letto in una notte di spavento nella locanda di-
roccata di Mr Coffin a New Bedford, «The spouter-inn.»36 Un rito
di passaggio. Quiqueg, che stringe il corpo di Ismaele al terrore
infantile di una punizione matrigna – ricordo che allucina una mano
soprannaturale posata sulla sua, nel letto di spine della propria
colpa, come un fantasma immobile che pare essersi distaccato dal
braccio, quasi a voler formare l’orribile incantesimo di un corpo
senza organi – ed Ismaele che si sente sciogliere dentro da uno
straziato bisogno di uscire da se stesso, un cuore a pezzi e una mano
esasperata che non si rivoltano più contro un mondo di lupi perché
tale è la redenzione, che pur essendo nato e cresciuto nel seno
dell’infallibile Chiesa Presbiteriana, egli cadrà in ginocchio in ado-
razione del pezzo di legno del carezzevole selvaggio, a servire l’ido-
letto innocente del suo prossimo perché sia fatta la volontà di Dio,
visto che la bontà cristiana si è dimostrata nient’altro che una vuo-
ta cortesia.37 Un amore platonico che trascende la sensibilità, poiché
44. Circa il rapporto di Achab con Don Chisciotte, vedi Wystan Hugh Auden, Gli
irati flutti, cit. Memorabili restano le pagine che alla creatura di Cervantes dedica Michel
Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di Emilio Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1967.
45. Giorgio Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995.
46. Hermann Melville, Scritti letterari, in Opere scelte ii, a cura di Claudio Gorlier,
Milano, Mondadori, 1972, p. 1023. Quest’importante nota su Shakespeare si trova nel
saggio Hawthorne i suoi muschi, in cui l’autore de La lettera scarlatta è avvicinato al
creatore dei tenebrosi personaggi di Amleto, Timone, Lear e Iago. Shakespeare è magni-
ficato da Melville non per ciò che ha fatto quanto per quello che non ha fatto: «Giacché
in questo mondo di menzogna, la verità è costretta a fuggire come una sacra cerbiatta
bianca nei boschi: e, astutamente, si rivelerà solo a barlumi, come in Shakespeare e
negli altri maestri della grande Arte di Dire il Vero, anche se di nascosto e a sprazzi».
Al genio di Hawthorne è dedicato Moby Dick. Da parte sua, Hawthorne ha lasciato
CATASTROFI GENERATIVE
un ricordo della frequentazione con Melville, nell’anno in cui i due abitarono a poca
distanza l’uno dall’altro, nelle campagne del Massachuttses, in quella piccola meraviglia
di Venti giorni con Julian, trad. it. di Paolo Dilonardo, Milano, Adelphi, 2004: «Dopo
cena ho messo Julian a letto, e Melville e io abbiamo parlato del tempo e dell’eternità,
di cose di questo e dell’altro mondo, di libri, di editori, e di ogni argomento possibile
ed impossibile, fino a notte fonda; e a voler essere del tutto sinceri, abbiamo anche
fumato un sigaro entro i sacri recinti del soggiorno. Alla fine, Melville si è alzato, ha
sellato il cavallo (che avevamo messo nel fienile) e si è diretto verso casa, mentre io mi
sono affrettato ad approfittare del poco tempo rimastomi per dormire».
moby dick e la catastrofe
L’incombere di una condanna divina per chi si è macchiato dell’as-
sassinio di Nabot, con delle false lettere scritte a suo nome, e ne ha
usurpato la vigna. Una profezia che si compie con la disfatta nella
guerra contro gli Arami: Achab morirà, sotto mentite spoglie, ed i
cani leccheranno il suo sangue nel punto ove lambirono quello del
suo antico rivale.
Achab ed Ismaele: un’antitesi irriducibile. Impossibile aggio-
garla al carro di una dialettica servo-padrone, nonostante l’immane
potenza del negativo sia al lavoro per ottenere il loro reciproco
riconoscimento. E tuttavia la loro differenza si esclude in un rap-
porto d’inclusione. È catturata dal medesimo bando. I due, come il
delirio e il sogno, entrano in una discrepanza che suscita sgomento.
L’azione di Achab si svolge all’interno del discorso di Ismaele, la sua
morte è all’opera nello spazio letterario aperto dal secondo. Anche
l’odio inestinguibile che nutre per Moby Dick, trapassa nella follia
della letteratura, mentre l’odio di sé, diviene la passione inutile
dell’altro. Achab è in balìa della propria differenza, appeso ad una
contraddizione che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia, esposto
ed abbandonato al mare dei doppi discorsi già dal ritorno di un
viaggio precedente, calato dall’inizio nella tomba della sua anima,
benché Ismaele chieda di lui prima di partire ai due capitani in
riposo, proprietari della nave, voglia vederlo, ora che ha ottenuto
la spettanza e si è imbarcato. Ma niente più. La risposta dei due
armatori quaccheri, che non è possibile vederlo, perché egli si tiene
chiuso in casa, come se fosse malato, eppure non sembra, non può
non alludere ad una doppia eccezione del corpo del re, ed accen-
dere un indescrivibile timor sacro in chi ascolta: il comandante non
è malato, ma neppure a posto, quantunque incluso di nome nel
censimento della cristianità, egli è di fatto estraneo. «È un uomo
strano il capitano Achab, ma è un brav’uomo. […] È un uomo
grande, non è religioso e pare un dio, il capitano Achab; non parla
molto, ma quando parla potete stare ad ascoltare. […] Achab è un
uomo fuori dal comune, Achab è stato all’università e in mezzo ai
cannibali, è abituato a cose meravigliose più profonde del mare, ha
piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene.
La sua lancia! È la lancia più affilata e infallibile di tutta quest’isola.
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a mare la vecchia cara pipa, sparito ogni incanto di pace dai suoi
soffi, che Achab si rivolge all’equipaggio con l’aspetto non dissimile
all’orizzonte sotto vento quando arriva la tempesta: «Chiunque di voi
mi segnali una balena dalla testa bianca, dalla fronte rugosa e dalla
mandibola storta […] riceverà questa oncia d’oro, marinai!»50 Un
ordine di sfida che conquista l’equipaggio al suo selvaggio proposi-
to. Ma anche parole che rivelano una verità senza confini, assoluta,
non relativa, un fine senza scopo, come una moneta che non si può
scambiare con nessuna merce, a quegli uomini che avevano investito
la caccia di un interesse per il guadagno: che il tempo non è denaro.
Un’azione del mondo, che non dà dividendi. La parte maledetta,
come il dorso della mano invisibile dell’economia della produzione
e del consumo. Un empio scialo di morte, piuttosto che una riserva
morale d’utilità. Una licenza dallo spirito del capitalismo, il dispen-
dio di una verità in un eccesso di follia, una pazzia impazzita, un
furore di cui non si fa commercio al mercato, che non arricchisce di
valore e mai si abbandona ad un godimento, che non ha da passare
un piacere, neppure differito. Forse, la costituzione di una proprietà
positiva della perdita dalla quale discenderebbero la nobiltà, l’onore,
il rango e la gerarchia. Ma questo lo sanno meglio i marinai, che
bevono per dimenticare di essere stati presi per il sedere! Certamente
non un’ascesi professionale che riconosce la grazia di Dio dai suoi
frutti, secondo lo schema puritano dell’interpretazione pragmatica
della salvezza. Semmai, la consumazione del proprio stesso sacrifi-
cio, l’abbandono alla vertigine della guerra, l’immolarsi alle leggi di
un’economia generale in cui poter bruciare per un attimo il carico
di dolore che il bastimento della propria mente porta da quando
la follia ha dato assalto alla sua sanità, espugnando le porte della
percezione e rivolgendo la concentrata potenza di fuoco del proprio
pensiero alle mire sconsiderate di una mania sovrana.51 Una catarsi
impossibile, consegnata ad un monologo che evoca ancora Re Lear,
49. Silvana Damiani, Medusa, Bergamo University Press, Edizioni Sestante, 2001.
50. Hermann Melville, Moby Dick, cit., p. 192.
51. Vedi: Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. di Anna
Maria Marietti, Milano, Rizzoli, 1991; Georges Bataille, La parte maledetta, trad. it. di
Francesco Serna, Torino, Boringhieri, 1992.
CATASTROFI GENERATIVE
al tramonto del suo regno: Achab che guarda fuori, dalla finestra di
poppa della sua cabina, mentre il sole si tuffa lentamente dal meriggio
e scende sul suo spirito senza concedere più sollievo alla sua vita, al
di fuori di una calma demoniaca in cui quella follia ha l’occasione
di comprendere se stessa e di giocare d’astuzia con la ragione. E la
corona di ferro del suo pensiero dominante che gli tortura il capo
proprio mentre irraggia in lontananza il suo splendore: «Questa bella
luce non mi rischiara più: ogni bellezza mi è d’angoscia, dacché non
posso più goderla. Dotato della percezione superiore, mi manca la
bassa potenza di godere. Sono dannato nel modo più sottile e più
perverso: sono dannato in mezzo al Paradiso. Addio! Addio!»52
L’eccitazione cresce, tra i marinai, come la loro sete di sangue,
ma il sopravvissuto non è a capo di una muta. La caccia non pulsa
all’unisono di un battito mortale come non è condotta per ripartire
un bottino.53 Non è la competizione per il profitto, né la luce di grazia
della salvezza a lanciare l’impresa. Il comando è in fuga dalla massa
aizzata, arrischiato nella terra incognita, si perde in mezzo ai vuoti
e le immensità spietate dell’universo. La logica del capitale arretra
davanti ad un desiderio che insegue l’oggetto immenso della pro-
pria ossessione. Una mancanza che non si trasforma in un feticcio.
La legge individuale del denaro è nel potere del suo bando. La sua
circolazione, come il rendimento del suo titolo, non può solidificarsi
per acqua, evapora in una mistica che non lo farà uscire dalla propria
astrazione, ma lo rigira sul suo conto, in uno schiumoso rollio che si fa
beffe di ogni appropriazione. L’aspettativa di colonne ascensionali di
dollari mobilita l’illusione del futuro per rimuovere i cattivi pensieri
dall’attesa della fine. La caccia è preda di una passione insensata, la
consumazione di una vendetta assurda. Uccidere una balena sola ed
un’unica balena, un capodoglio colossale, uno spermaceti mostruoso,
un oceano d’astuzia e ferocia inenarrabili, la pura intelligenza del
male, una testa di medusa dalla fronte maestosa di un bianco imma-
colato: il terrore della sovranità, Moby Dick. Il Leviatano, che in un
disperato corpo a corpo, nelle fasi di una cattura che non ha avuto
52. Hermann Melville, Moby Dick, cit., p.198. Circa il rapporto tra Achab e King
Lear, vedi: Charles Olson, Call me Ishmael, San Francisco, City Light Books, 1947.
53. Elias Canetti, Massa e potere, trad. it. di Furio Jesi, Milano, Adelphi, 1981.
moby dick e la catastrofe
luogo, ha mutilato Achab di una gamba. Irati flutti, dalla bianchezza
elusiva della morte. Certo. Una divinità disalberata che si amputa di
una parte di se stessa. Una volontà caduta in disgrazia, che caccia
gli uomini dall’economia della creazione e dalla teologia del patto.
E si fissa violentemente nell’urto del predominante contro la stessa
prepotente natura dell’uomo che la sfida. Una volontà che naviga,
con a bordo il piede di capra del principio di individuazione, con-
centrata nella demoniaca forza della personalità del capitano, uno
spirito maligno sprigionato dal suo sinistro carisma, ma racchiuso
in un misterioso segreto, rivelato da una gamba rigida d’avorio,
un tronco che fa presa sui marinai come su tutta una serie di fori,
praticati nel legno per tenersi in piedi, ferma sul proprio stesso
proposito. Una volontà risoluta che non fallirà il bersaglio. Una
capacità di persuasione che non conosce colpa, ma alza il tiro in
politica, muovendosi lungo i passaggi obbligati del ponte, su tavole
tanto familiari alla sua orma che, come pietre geologiche, sono tutte
intaccate dal segno particolare di quella gamba.54 Potenza del pro-
prio potere. Un’onda d’intensità emotiva che trasmette il suo odio
privato a tutto l’equipaggio, in una dichiarazione d’ostilità pubblica,
cui è sacro dovere di ognuno rispondere come fosse un’ingiunzione
della necessità. Una missione che i marinai raccolgono giurando,
sopra un doblone d’oro inchiodato all’albero della nave, contro un
nemico assoluto che irride qualunque probabilità di ritorno del loro
investimento. Politica dalla esclusiva vocazione demoniaca. Una
causa assoluta senza una lungimirante responsabilità. Un dono di
grazia avvelenato. Un consenso di morte che si aggancia ad un capo
per resistere ai mutamenti della fortuna. Ma la bestia è il sovrano.55
Come può non saperlo un vecchio lupo di mare?
E tu li vedrai andare incontro alla morte per ucciderla, su
fragili vascelli, come pazzi, o rinnegati, quei marinai, passare
dall’umano troppo umano desiderio di portare a casa la propria
pelle nelle fauci della necessità, credere che il sogno si realizzi dan-
do la caccia al mostro per scacciare l’incubo di stringere il proprio
62. Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Torino,
Einaudi, 1962, p. 440. Sulle presenze leopardiane nell’opera di Melville, vedi Danilo
Bonanno, A Chartless Voyage, Pisa, Edizioni Ets, 2006.
63. Hermann Melville, Moby Dick, cit., p. 502.
moby dick e la catastrofe
in fronte la cicatrice, sanguina ancora nei grovigli di correnti e di
gorghi che riflettono il pensiero monomaniaco del suo spirito. E
non di meno la sua immaginazione non è al servizio dell’intelletto.
Contempla la sua follia. Ama vivere pericolosamente