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Indice

Introduzione 3

I . Prospettive antiche sulla follia

§1. Il disagio della civiltà antica 14

Vita mentale in Omero e la relazione tra il «puritanesimo» e la «civiltà di colpa» 15

Il medium tragico nella presentazione della follia sulla scena 20

Sacro e contaminazione 23

Follia al femminile e mente al maschile 27

§2. Il punto di vista medico:un 'continuum' psicofisico 31

Il vocabolario medico 32

Le forme del delirio 36

§3. L'anima e i suoi 'poroi' 40

II . La medicina e Platone, la medicina di Platone

§1. Sulla 'techne' medica (ippocratica e platonica) 49

§2. La medicina nella rete delle analogie 64

§3. La città 'phlegmainousa': un modello fisico, politico, morale 73

§4. 'To nosema tes adikias': terapie del corpo e dell'anima 78

III. Il Fedro: mania e conoscenza 89

§1. Tecniche dell'irrazionale: la divinazione, il rito dionisiaco, la composizione


poetica 90

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§2. 'Eros': la follia connaturata 98

§3. L'ala del corpo, l'ala dell'anima 104

IV. Il Timeo: la kinesis dell'anima tra natura e patologia 115

§1.Malattie del corpo 116

Malattia come stasis 117

Malattia come diaphthora 118

Malattia come phlegmainein 118

§2. Dal corpo all'anima 121

I pathemata 121

§3. Le 'tracce' dell'anima 128

§4. Dall'anima al corpo: il sonno 134

§5. Malattie dell'anima 138

Bibliografia 152

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi getta uno sguardo sulla nozione di malattia mentale in
Platone, nelle sue connessioni con il sapere medico e con la riflessione, in
particolare nel Fedro e nel Timeo, sul rapporto anima-corpo. La combinazione di
lessico e nozioni mediche e uso platonico dell'analogia ha fatto emergere un
concetto 'trasversale' di salute, che porta con sé delle implicazioni di tipo
organico, etico-politico e, naturalmente, cosmico.

La ricerca si apre, da un lato, con una trattazione dell'irrazionale nel mondo


greco arcaico e classico, dall'altro con un esame del contributo della medicina
ippocratica alla spiegazione di fenomeni di disturbo mentale. Si premette che tale
resoconto non mira a (e non può) risolvere questioni di definizione e di confine
(che sembrano urgenti oggigiorno), ma dà semplicemente conferma del fatto che
ogni cultura, ivi compresa quella greca, ha avuto (e ha) i suoi patterns of mental
illness (Simon, 1978).
Nel primo capitolo ho tenuto conto della fortunata interpretazione di Eric
Dodds (1949) sulla letteratura epica e tragica, che ha posto la base per ulteriori
considerazioni sulla «psicopatologia antica» (Drabkin, 1955). Le fonti letterarie, e
il contesto socio-culturale entro cui queste si collocano, testimoniano la realtà di
manifestazioni diverse di disagio psichico (maschile e femminile) che possono
presentarsi in concomitanza con determinate situazioni o fasi della vita.
In Omero non esiste un termine corrispondente al nostro “mente”: si parla di
phrenes, con riferimento al diaframma, oppure del “cuore”, kardia o ker. Dove
troviamo noos sappiamo che si parla di un'attività di comprensione con caratteri
intellettuali, mentre il thymos è un'entità o un organo che si espande all'interno
della persona e che ha a che fare con la sfera della passionalità. Psyche, pur non
corrispondendo a un organo corporeo, sembra avere caratteristiche in qualche
modo fisiche: spesso appare dopo la morte, lasciando l'individuo al momento
della morte, e può essere connotata essenzialmente come “respiro”, “soffio
vitale”.

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Nel complesso non è operata una chiara distinzione tra organi del pensiero e
organi dell'emozione e nemmeno tra ciò che è fisico e ciò che è psichico. La vita
mentale in Omero non appare corrispondere a una qualche struttura o
organizzazione, per cui, quando si parla di agenti dell'attività mentale, non si fa
riferimento a un intero composto di parti in coordinazione tra loro o in una
disposizione gerarchica precisa. Questo è importante per il nostro discorso se
pensiamo che, secondo Bennett Simon, per esempio, là dove manca una nozione
di una struttura mentale, non può esservi neanche una nozione di disordine o di
deviazione interni a una struttura mentale. D'altronde, un concetto fondamentale
che nell'Iliade e nell'Odissea incontriamo spesso a proposito di una condotta
irrazionale è ate, declinato diversamente in rapporto con quei modelli culturali
che Dodds ha chiamato «puritanesimo», «civiltà di colpa» e «civiltà di vergogna».
Nell'Iliade ate non significa mai “rovina”, ma esprime un errore inesplicabile
attribuito a un'operazione demonica esterna, che viene rappresentata e oggettivata.
Ogni fenomeno psichico, in generale, assume l'aspetto della parzialità: in Omero il
carattere è spiegato come una specie di conoscenza e in un certo senso di
appartenenza, e la vita psichica viene concepita secondo uno schema
'fuori/dentro'. Nell'Odissea si inizia invece a delineare il nesso tra colpa e
punizione, e, pertanto, la civiltà incentrata sull'aidos, lascia spazio a una «civiltà
di colpa».
Bernard Williams (1993) ha sfumato alcune idee chiave della costruzione di
Dodds, e in particolare la contrapposizione tra «civiltà di colpa» e «civiltà di
vergogna», sottesa dall'idea che l'una sia più 'evoluta' dell'altra. È molto più
prudente, secondo Williams, parlare di colpa e vergogna come di sentimenti
condivisi e intersoggettivi, con i quali l'uomo greco si confronta in una sfera di
azione pubblica e privata. In questa prospettiva, la letteratura tragica (peraltro
tutt'altro che trascurata da Dodds) offre, rispetto all'epica, una maggiore ricchezza
di informazioni riguardo alla vita interiore dei personaggi e sembra altresì
possibile cominciare a parlare di conflitto psichico. Lo squilibrio psichico nella
tragedia è solitamente dovuto a una sorta di incompatibilità tra ciò che i
personaggi ritengono sia giusto e ciò che invece, inevitabilmente, sopraggiunge

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loro. Il vocabolario della follia presenta una certa continuità con quello dell'epica:
è frequente, in contesti diversi, l'uso del verbo mainomai, il cui significato
rimanda principalmente a un'azione che supera i confini della 'normalità'. La follia
è sempre provocata da un dio (il dio a cui è tipicamente associata è Dioniso) e
l'interiorità del personaggio è articolata nello schema 'fuori/dentro' di cui si è già
detto per quanto riguarda i poemi omerici: per esprimere le connessioni tra questi
due 'luoghi' troviamo la nozione di poroi, “passaggi”, “canali” (Padel, 1992).
Questi regolano la comunicazione fra ciò che è esterno al corpo e ciò che è interno
e, naturalmente, anche quella tra le sostanze interne al corpo stesso: è il caso di
sottolineare la presenza di tale «modello dei flussi» perché, come vedremo nel
corso del lavoro, esso è comune sia alla letteratura medica che alla
rappresentazione platonica della vita psichica (Sassi, 2007).
Il fenomeno della follia nell'antichità conosce ambiguità e contraddizioni che
possiamo rendere bene con l'espressione jeux d'exclusion (Foucault, 1966), in
quanto il folle è oggetto di un teatro di reintegrazione sia sociale sia spirituale.
Non abbiamo nel mondo antico un corrispettivo dell'istituzione del manicomio
moderno, ma possiamo dire che il folle è da subito colui che si rifiuta di
riconoscere il sistema di valori della società. Pertanto, per il folle è prevista una
terapia, che si configura come eminentemente rituale, mirata alla reintegrazione
nel tessuto sociale. Le cure tradizionali, di tipo esorcistico, musicale e iniziatico,
testimoniano di una volontà di 'spiegazione' (noi diremmo a livello culturale e
antropologico) del fenomeno della follia: all'interno della società greca (e non
solo) essa può essere contenuta (quindi razionalizzata e 'capita') solo
permettendone l'espressione per mezzo di riti codificati, e solo se identificata
come 'possessione' (Guidorizzi, 2010).
Uno sguardo alla letteratura medica ippocratica (un insieme di dottrine che
collochiamo tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a. C., e che
fanno capo a un Corpus di circa una sessantina di trattati) ci offre un cambiamento
di prospettiva essenziale: la malattia mentale non è più ricondotta all'intervento di
un essere soprannaturale ma richiede una spiegazione organica – e come tale non
costituisce una categoria separata rispetto al disturbo fisico (Drabkin, 1955; Di

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Benedetto, 1986; Sassi, 2005; Andò, 2007). Del resto, non troviamo un organo
della vita psichica distinto dal corpo e il termine psyche è presente in maniera
significativa solo nel trattato sul Regime. Questa assenza, compensata in parte dal
fatto che si cerca di individuare un organo o un fluido che abbia una funzione
'cognitiva' (si pensi al cervello o al sangue), non oscura una generale attitudine
osservativa degli ippocratici nei confronti del versante psichico della malattia.
Il vocabolario medico della follia non sembra rispondere a esigenze
nosografiche: la malattia con i suoi sintomi viene osservata nella sua globalità e
per lo più descritta. Causa ed effetto di questa metodologia basata sull'aisthesis è
la concezione di un continuum psico-fisico che riconduce qualsiasi disturbo a uno
squilibrio in ultima istanza corporeo. È quindi necessaria cautela sia rispetto alla
possibilità di rintracciare delle sindromi definite, sia nell'individuare nel
linguaggio greco un termine generale corrispondente al nostro “follia”. Per il
medico ippocratico non esiste, propriamente, una malattia chiamata “follia” e il
sostantivo mania non compare nel C. H., dove si predilige piuttosto la forma
verbale mainesthai, che indica un generico delirare del soggetto (Thumiger,
2013).
Ma al di là del problema terminologico, possiamo riconoscere nei quadri clinici
ippocratici due forme principali di disturbo psichico: un tipo, per così dire,
iperattivo, e un altro depressivo (Jouanna, 2013). Un esempio di questa doppia
tipologia è fornito dal trattato sull'epilessia Male Sacro, dal quale emerge
comunque un modello estremamente significativo della salute come equilibrio di
fluidi e di temperatura degli organi. Rispetto all'epica e alla tragedia, dunque, non
è il dio a causare la malattia, ma lo sono cause identificabili e interne al corpo
umano, cioè gli elementi stessi della costituzione fisica dell'individuo, o lo stile di
vita del paziente. La cura corrispondente consiste principalmente in esercizi fisici
e alimentazione appropriata (e, in alcuni casi, di farmaci).
All'interno della letteratura medica merita particolare considerazione anche il
trattato Peri parthenion, unico nel dare un quadro della follia tanto complesso
quanto specifico, al punto da caratterizzare la follia come la malattia dello stato
verginale (Andò, 1990). Come dagli altri trattati ginecologici, sembra emergere un

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certo 'pregiudizio' sul ruolo sociale della donna, che orienta gli autori ippocratici
da un lato a definire il fenomeno della follia, e dall'altro, a trattarlo come un
marchio di marginalità. È seguendo questa prospettiva più ampia che la malattia
mentale sembra trovare una sua 'spiegazione' convincente.
Inoltre, il trattato ippocratico Regime offre aspetti specifici di interesse per il
fatto che troviamo il termine psyche associato a due condizioni psichiche opposte:
l'intelligenza (phronesis) e il suo contrario (l'aphrosyne) e, nel capitolo XXXV del
libro I, l'autore espone una teoria dell'intelligenza. Ne esistono vari gradi,
ciascuno dei quali è associato a una specifica performance cognitiva (Jouanna,
2007; Van der Eijk, 2011). Interessa per la nostra ricerca notare come l'equilibrio
di anima e corpo è precario, perché dipende da un movimento continuo: di cibi, di
umori, di elementi, di caldo e di freddo, di flussi che vanno in una direzione
favorevole (kata physin) o sfavorevole (para physin). Ne deriva che l'intelligenza
è soprattutto una questione di qualità della percezione sensibile, che possiamo
definire come come l'incontro tra l'anima e le aisthesies (particelle sensibili che si
staccano dagli oggetti e che passano attraverso poroi dell'anima). Un'anima
turbata dal corpo e dal movimento si ritrova, come vedremo, nel Timeo.

Su questa base di ricostruzione del contesto culturale e scientifico si innesta


l'approccio di Platone al problema del disordine psichico aperto nel secondo
capitolo. Qui mi concentro anzitutto sull'ideale di techne medica che emerge nei
dialoghi e sulla 'nascita' di una metodologia filosofica unica nel pensiero antico,
che integra in una linea di ragionamento unitario (benché non visibilmente tale)
gli enti corpo, anima e polis.
La medicina in Platone è considerata sin dai dialoghi giovanili una techne
altamente specializzata perché riunisce in sé sapere specialistico e ethos
professionale: essa si distingue dalle altre technai e dalla iatrike dei trattati
ippocratici. Platone non si limita, infatti, a ereditare delle nozioni ma opera una
sua trasposizione personale del sapere medico (Vegetti, 1995), tanto che la sezione
del Timeo dedicata alle malattie trova un'ampia considerazione (più dello stesso
Ippocrate) nella dossografia medica dell'Anonimo Londinese.

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Il significato della medicina per Platone (significato che conosce uno sviluppo
e una sua caratteristica conformazione) si delinea nel Carmide nella definizione di
'scienza della salute e della malattia' (Charm., 171a): la techne medica rimanda a
un sapere specialistico, ha un oggetto suo proprio (in questo dialogo, il corpo
umano) distinto dal metodo, e implica criteri teorici, pratici e valutativi. Tale
concetto 'globale' di techne differisce dalla techne iatrike del trattato ippocratico
Sull'arte perché essere un medico non significa semplicemente guarire un malato
ma anche conoscere il modo per nuocergli. La medicina platonica non sembra
essere confinata alla terapeutica (campo di azione, pur con qualche variazione,
degli ippocratici), ma estendersi (e su questo punto si avvicina peraltro a una
concezione di Antica Medicina) fino a diventare una biologia, guardando
all'organismo nel suo insieme. Corrispondentemente, per Platone la techne medica
deve avere una sua unità formale: in linea con la posizione dell'autore del
Prognostico, il sapere del medico ha uno sguardo complessivo ai tre momenti del
passato, del presente e del futuro, di modo che «si tratti sempre di una e medesima
scienza» (Lach., 198d).
La nozione di salute in Platone è legata ai concetti di ordine e proporzione,
intesi in un senso affine a quello della harmonia pitagorica, cioè di una
disposizione gerarchica tra gli enti (Cambiano, 1982). Tale concetto di salute
presuppone, dunque, che ogni intero sia dotato di parti e che tra di esse domini
l'elemento 'per natura' migliore; inversamente, si verifica uno squilibrio. Sulla
base di questo presupposto si innesta una nozione 'trasversale', che emerge
dall'uso dell'analogia per l'esame del corpo, dell'anima e della polis. Sebbene i
confini tra l'anima e il corpo non siano sempre chiaramente definiti e, di
conseguenza, l'analogia non risulti sempre perfettamente coerente con le premesse
della sua fondazione, l'analogia mantiene un ruolo metodologico rilevante
(Balansard, 2006; Delcomminette, 2013). Rintraccio la 'storia' delle analogie
platoniche principalmente in due dialoghi: il Gorgia e la Repubblica. Nel Gorgia
(477c) Polo e Socrate discutono del corpo, dell'anima e dei beni di fortuna
stabilendone le rispettive poneriai. Lo stato malato del corpo corrisponde alla
condizione di ingiustizia nell'anima, che necessita pertanto di essere guarita. È

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così che, accolto implicitamente tale parallelismo corpo-anima (nonché l'ideale di
salute del corpo corrispondente alla condizione di sophrosyne dell'anima), nella
Repubblica viene inaugurato il percorso di ricerca della definizione della giustizia.
Compito non facile: infatti, Socrate decide di introdurre un'altra analogia, quella
tra l'anima e la città (Resp., 386c). Nella città la giustizia si mantiene se ognuno
«fa le proprie cose», lo stato patologico della città è quello in cui i ruoli delle
classi si scambiano. 'Patologico' qui è un aggettivo che ben si addice a una
situazione politica perché è in questo contesto che Platone dà spazio a una terza
coppia analogica, solitamente non tenuta debitamente in conto dagli studiosi. Nei
libri II-III, infatti, la città è trattata alla stregua di un corpo. Nel passaggio dalla
«città dei porci» alla città tryphosa Platone individua l'insorgere di un male
progressivamente sempre più grave: l'infiammazione del corpo sociale (372e8).
Fin qui il discorso ha portato al riconoscimento di situazioni patologiche
distinte, ma dal presupposto comune, per quanto riguarda tre enti: le analogie
platoniche sono infatti come incatenate tra di loro, e l'ulteriore coppia corpo-città
va riconosciuta come sorta di chiusura di un anello concettuale. Del resto,
soprattutto dal confronto con i testi ippocratici, sembra emergere che è proprio
l'applicazione dell'analogia all'anima e al corpo che ha permesso a Platone di
'inventare' la malattia dell'anima.

Nel terzo capitolo introduco il tema della 'follia' in Platone partendo dal Fedro,
in cui il fenomeno della mania interessa un recupero dell'irrazionale in certo senso
tradizionale, ma è anche investito di una prospettiva innovativa (è il caso, come
vedremo, della mania erotica). Socrate non considera la follia una malattia: essa è
un male se è umana, ma è il bene più grande per l'uomo se è una malattia divina.
La mania si presenta come un comportamento irrazionale (in quanto occultazione
temporanea della ragione) che assume diverse combinazioni in situazioni diverse,
e che Platone identifica come 'divino' certamente anche perché inesplicabile, ma
benefico.
Platone descrive quattro forme di mania e invita a soffermarsi sulla follia che
viene da Eros: essa è connaturata alla natura della nostra anima, la cui natura

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composita (espressa dalla celebre immagine della biga alata) è dovuta alla
comunanza dell'anima con il corpo. La concezione dell'anima 'impura' del Fedone
sembra sfumare per lasciare spazio a una rappresentazione dinamica della psyche,
che possiede qualità energetiche simili a quelle di eros (Guthrie, 1955; Cornford,
1967). Ritrovare un desiderio così plastico e dinamico (già emerso in una sua
manifestazione positiva, nella scala amoris del Simposio, e negativa, quale è la
figura dell'eros tiranno della Repubblica) ci conduce all'acquisizione che eros e
mania sono fortemente apparentati. In altre parole, in tale contesto del Fedro, la
follia erotica è l'espressione potenziata di una forza psichica connaturata all'uomo.
Il rapporto tra l'anima e il corpo nel Fedro è esemplificato nella concezione
dell'anima come principio di kinesis (proprietà primariamente fisica) e il modello
dei «flussi dell'anima» (Cornford, 1967; Sassi, 2007) si concretizza nella funzione
dell'ala, che pur appartenendo alla psyche, sembra avere qualità corporee
(Griswold, 1951; Fussi, 1995). Prova ne è la sua sensibilità e la sua fragilità: la
mania erotica è lo sconvolgimento che avviene nel corpo e nell'anima dell'amante
quando vede un bel ragazzo.
Nella lettura della sezione del Fedro relativa alla crescita dell'ala ho
sottolineato i numerosi paralleli con luoghi ippocratici (per esempio di Regime,
per quanto riguarda la nozione dei poroi, degli scritti Della generazione e Della
natura del bambino, per quanto riguarda le metafore che descrivono la crescita
dell'ala mediante analogie con il mondo vegetale). Da questo esame risulta che
Platone fa ampio ricorso a vocabolario e nozioni mediche, mirando a fare
emergere, attraverso il dispiegarsi di una precisa sintomatologia, il concetto di
“malattia dell'anima”, che potremmo dire già 'fisiologico'.

Il Fedro sembra in questa lettura preannunciare l'approccio alla malattia


dell'anima sviluppato nel Timeo, cui è dedicato l'ultimo capitolo. Nella seconda
parte del dialogo Platone attinge a una vasta tradizione di sapere elaborato dai
medici e dai naturalisti presocratici per descrivere la costruzione del corpo umano
da parte degli 'dei minori' (Solmsen 1950; Lloyd, 1968). Le modalità patologiche
esaminate sono definite da termini (stasis, diaphthora, phlegmainein) usati da

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Platone nei dialoghi precedenti per indicare la malattia non solo del corpo, ma
anche dell'anima e della città: si riconferma dunque qui l'idea di una catena
analogica, emersa nel corso di questa ricerca. È da notare inoltre che le malattie
(così come le percezioni) sono riportate a un corpo epyrrhyton kai aporrhyton
(43a5-6), cioè come un ente che subisce influssi ed efflussi. Vediamo dunque
riemergere il «modello dei flussi» già rilevato nel Fedro, e del resto un altro
elemento di continuità col Fedro va visto nella nozione di kinesis dell'anima, che
nel Timeo trova una manifestazione fisiologica nei vari pathemata che l'anima
subisce, e una manifestazione patologica nei suoi nosemata.
Abbiamo dunque affrontato la teoria della sensazione del Timeo nel suo
complesso per sottolinearne il carattere di processo eminentemente corporeo che
ha per destinatario l'anima.
Come ho anticipato all'inizio di questa introduzione, mantenere il riferimento
al Regime ci conduce verso un problema cruciale nel Timeo: quello della 'forma'
dell'anima. Essa presenta, infatti, dei tratti 'materiali', che la apparentano più a
un'entità corporea. Una simile immagine della psyche si regola, come per il
trattato ippocratico di riferimento, su un rapporto reciproco tra l'anima e le
aisthesies, da cui dipendono la qualità della trasmissione e la performance
cognitiva dell'individuo (Brisson, 2013; Jouanna, 2013). È, in definitiva, il
movimento proprio all'anima razionale a essere il fattore discriminante per la
salute e la malattia, qualora esso sia costante e regolare. Proprio come nel capitolo
XXXV di Regime, la regolarità di questo movimento ha come effetti l'intelligenza e
«il suo contrario». Il termine è lo stesso nel trattato e nel Timeo: se le periodoi (nel
Timeo l'anima segue i movimenti del cerchio dell'Identico e del Diverso)
dell'anima vengono turbate e sono o troppo veloci o troppo lente, l'anima si
ammala, vista la sua stretta comunanza con un corpo epyrrhyton kai aporrhyton.
Ma il peso della trattazione in questo capitolo cade sull'operazione che Platone
conduce nel Timeo per una spiegazione dell'irrazionale, lungo due binari: da un
lato (e in linea col Fedro), un processo di razionalizzazione di fenomeni
tradizionalmente assorbiti per via culturale, quali la divinazione e il sogno
profetico, sulla cui riduzione fisiologica mi soffermo mettendo in evidenza

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paralleli con il libro IV del Regime. Qui l' 'interpretazione dei sogni' è resa
possibile dal fatto che il corpo, l'anima e il cosmo sono della stessa natura e,
pertanto, il linguaggio del corpo è in armonia con il linguaggio del cosmo (Struck,
2003). Dall'altro lato, finalmente, ecco nel Timeo la spiegazione delle malattie
dell'anima: qui metto l'accento sull' 'invenzione' del concetto di nosos psyches, che
nel Timeo prende il nome di anoia ed è posta in dipendenza dalla
(pre)disposizione del corpo, nelle sue due specie della mania e dell'amathia (da
notare che ritroviamo la classificazione binaria dei disturbi mentali del C. H., in
quanto l'una si caratterizzerebbe per un comportamento iperattivo, l'altra somiglia
a un'ipotonia dell'umore). Centrale è nuovamente il concetto di equilibrio, ma
l'interesse è per l'organismo nel suo complesso. Il nodo centrale della questione
ruota anzi attorno alla continuità tra lo psichico e l'organico, sulla base di un
comune sostrato fisiologico: tutti i disturbi psichici dipendono da un cattivo stato
del corpo e questa condizione si ripercuote sulle capacità cognitive del soggetto
(Jouanna, 2013), che non è più padrone del suo ragionamento. Il detto socratico
per cui “nessuno compie il male volontariamente” trova una significativa
estensione nel fatto che i motivi di questa malvagità risiedono nella cattiva
costituzione dell'individuo (Cornford, 1937; Tracy, 1969; Sassi, 2013).
Le terapie previste da Platone riguardano il ripristino della proporzione tra il
corpo e l'anima, perché la ametria più grande è quella che riguarda l'anima nei
confronti del corpo (87d2-3). La definizione della malattia come dismisura e
bruttezza riecheggia un passo del Sofista (già considerato nel secondo capitolo) in
cui viene però utilizzata una terminologia differente e una diversa applicazione
dell'analogia corpo-anima, su cui val la pena di soffermarsi. Le difficoltà
presentate da una ricostruzione lineare della rete di rapporti analogici che si è
tentato di ricostruire in questo lavoro sembrano risolversi nel Timeo, perché il
'dualismo' di Platone si presenta ora come un 'dualismo integrato' e l'attenzione è
rivolta all'insieme di corpo e anima e non da uno dei due enti. La nozione di
movimento salda equilibrio e squilibrio, anima e corpo, uomo e cosmo: la salute
psicofisica si mantiene e si recupera esercitando il corpo con la ginnastica e
tenendo attiva la psyche con la musica e la filosofia, e ponendoli così entrambi in

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armonia con il principio razionale del cosmo. Il movimento è principio
terapeutico (Van der Eijk, 2013), e non è questo l'unico caso in cui Platone a esso
affida un ruolo guida nella conoscenza: lo abbiamo visto nel Fedro in cui
un'anima 'mossa' dalla mania è un'anima filosofica che si prende cura di sé come
tramite tra un mondo finito e il mondo intelligibile.

Il presente lavoro affronta, senza pretendere di chiuderle, questioni


ampiamente dibattute nello studio del pensiero antico, quale, per esempio, quella
del ruolo della medicina antica in una 'storia del corpo' nei suoi rapporti con quel
principio cognitivo che in Platone si definisce in modo autonomo come psyche.
D'altra parte, il tema della psicopatologia del Timeo, in tutta la sua novità e
problematicità, si connette con la questione più ampia della strumentazione
concettuale applicata da Platone nella riflessione sul rapporto fra corpo e anima. Il
presupposto di una symmetria tra un microcosmo e un macrocosmo non è
certamente del tutto originale, ma la sintesi e rielaborazione platonica di idee
tradizionali assume una veste linguistica e concettuale degna di essere sottoposta a
un rinnovato esame. I concetti di “anima del mondo” e “corpo del mondo”, a mio
avviso, sono inscindibili dal lavoro analogico che Platone ha messo in atto nei
vari dialoghi, attingendo al sapere naturalistico e medico precedente, quell'ambito
dominato, come ha brillantemente indicato Geoffrey Lloyd (1966),
dall'argomentazione per analogia.

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I . Prospettive antiche sulla follia

§1. Il disagio della civiltà antica


Di fronte all'associazione classicistica di logos e pensiero greco, di nascita
insieme della civiltà greca e della filosofia, gli studiosi del Novecento si sono
ampiamente e progressivamente interrogati sugli elementi irrazionali di questa
civiltà, svelandone le origini col Vicino Oriente e i suoi Rois Divins1.
Il problema dell'irrazionale nel mondo antico riguarda soprattutto l'uomo nel
suo essere un individuo impegnato in vincoli sociali, quindi l'immagine che
l'uomo greco (inteso normalmente al maschile) rimanda alla comunità che lo
circonda e alla quale si sente di dover corrispondere. È pertinente, dunque,
ipotizzare, sulla base dei dati sull'irrazionale che la cultura greca ci ha lasciato, la
presenza di un disagio della civiltà antica. È una situazione che emerge
chiaramente, per esempio, dalla letteratura medica: Israel Edward Drabkin spiega
che sintomi come allucinazioni, compulsioni e fobie «reflect difficulties in
personal relations, and the fears, anxieties, stresses and strains of daily life» 2. E, in
un contesto di vita quotidiana, non si può non tener conto anche di un altro
soggetto esposto allo stress sociale: le donne.
Sicuramente la malattia mentale costituiva un fatto in qualche modo
prodigioso, anche per gli osservatori più convinti di una sua spiegazione
fisiologica e non soprannaturale. Così ci dice l'autore del trattato ippocratico Male
Sacro3 a proposito della visione diffusa dell'epilessia come male causato dagli dei:

Così stanno le cose a proposito della cosiddetta malattia sacra. A me non sembra
affatto che sia più divina né più sacra delle altre malattie […] Se invece la si vorrà
considerare divina per il suo carattere straordinario (dia to thaumasion), molte, per questo
motivo, saranno le malattie sacre. Per esempio, le febbri quotidiane […] E inoltre vedo
uomini in preda alla follia (mainomenous) e fuori di senno (paraphroneontas) senza alcun
motivo manifesto (ap'oudemies prophasios emphaneos) che compiono le più varie azioni
inconsulte, e so di molti che nel sonno gemono e gridano, di altri che addirittura si

1 J-P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, Paris 1962, p. 18.


2 I. E. DRABKIN, Remarks on Ancient Psychopathology, «ISIS», 46 (1955), p. 227.
3 L'autore è portavoce di una visione 'laica' del pensiero medico. Cfr. infra, pp. 36 ss.

14
sentono soffocare, e di altri ancora che balzano su e scappano fuori e sono fuori di senno
fino a che non si svegliano, dopo di che sono sani e in sé come prima, ma sono pallidi e
deboli; ciò accade spesso, non una sola volta (1, 1-8).

Emerge subito l'essenza del disturbo psichico: esso c'è, è manifestamente


presente, ma non si spiega. Vi è un senso di familiarità e al tempo stesso di
estraneità: la malattia mentale è visibile solo nel comportamento del malato
stesso, nelle sue azioni inconsulte, ed è visibile nella misura in cui un osservatore
si accorge di cambiamenti nello stato cognitivo del malato.
Si pongono, quindi, subito, gli stessi problemi che riguardano la psichiatria
moderna: cos'è la follia? Qual è la soglia superata la quale si può definire una
persona “folle”? Non ci proponiamo di risolvere questioni così ampie, questioni di
definizione e di confine.
Diamo semplicemente conferma del fatto che ogni cultura, ogni civiltà, ha
avuto e ha i suoi modelli di malattia mentale 4 e che anche per i casi di follia antica
il disturbo mentale può presentarsi in concomitanza con determinate altre
situazioni o fasi della vita: la pubertà, la malattia, una separazione o un evento
traumatico, la morte.
Vediamo dunque come nel mondo antico vengono conciliati logos e alogon e
in quale quadro le passioni vengono collocate o relegate, e, se logos e alogon
sono tra loro in conflitto, quali sono i sintomi di questo disagio in uomini e donne.

Vita mentale in Omero e la relazione tra il «puritanesimo» e la «civiltà di


colpa». Partiamo dalla civiltà omerica. I termini per indicare gli agenti interni
della vita mentale non sono chiaramente distinguibili5: non esiste una parola
4 Riprendo qui la definizione di Bennett Simon: models of mental illness. In particolare i modelli
di malattia mentale ai quali Simon fa riferimento si riconducono alla poesia epica e tragica, alla
filosofia e alla medicina. Cfr. B. S IMON, Mind and Madness in Ancient Greece. The Classical
Roots of Modern Psychiatry, New York 1978.
5 Possiamo trovare phrenes, che si riferisce alla parte del corpo corrispondente al diaframma,
oppure le varianti del termine “cuore”, come kardia e ker. Il termine che meglio indica
un'attività puramente intellettuale è noos, mentre il thymos è un'entità o un organo che si
espande all'interno della persona e che può fuoriuscire dal corpo al momento della morte. È
l'organo a cui si rivolge un personaggio nel suo dialogo interiore. Psyche, che appartiene solo

15
corrispondente alla nostra “mente” e in Omero non è operata una chiara
distinzione tra organi del pensiero e organi dell'emozione. «To a large degree, all
of the terms of mental functioning are amalgams of mind and heart or of thinking
and emotionality»6.
Al di là di una mancata distinzione tra ciò che è fisico e ciò che è psichico, la
vita emotiva in Omero non appare come il prodotto di una qualche struttura od
organizzazione. Quindi, quando si parla di agenti dell'attività mentale in Omero,
non si fa riferimento a un intero composto di parti in coordinazione tra loro 7 né in
una disposizione gerarchica precisa.
Bennett Simon suggerisce che, non essendoci la nozione di una struttura
mentale, conseguentemente non c'è una nozione di disordine o di deviazione
interni a una struttura mentale. La conferma di una tale 'assenza' risulterebbe
anche dal linguaggio: la follia farebbe parte di un incidental vocabulary8
all'interno di un contesto più ampio di descrizione di stati mentali normali.
Piuttosto che specifiche connotazioni di stati psichicamente alterati, si preferisce
un linguaggio metaforico come: “Devi essere pazzo a pensare ciò...”. «In contrast
to characters in the tragedies, no one in the poems is considered out-and-out
mad»9. Lo stesso linguaggio 'incidentale', comunque, suggerisce che i poeti e
l'audience a cui i poeti si rivolgevano conoscevano il fenomeno della follia, e,
naturalmente, Omero descrive numerosi situazioni di conflitto interno, soprattutto
relative al momento opportuno in cui compiere una determinata azione.
Altri dati sulla vita mentale in Omero e sulla questione dell'irrazionale in
generale possono esserci forniti dalla nozione di ate, nelle sue diverse sfumature
di significato per i due poemi dell'Iliade e dell'Odissea10. Il termine ate nell'Iliade
non significa mai “rovina”, ma esprime un errore inesplicabile attribuito a

agli uomini e non agli animali, pur non corrispondendo a un organo corporeo, sembra avere
caratteristiche in qualche modo fisiche: spesso appare dopo la morte, può lasciare una persona
quando questa perde conoscenza e, presumibilmente, ritornare al suo risveglio; può anche
essere connotata come “respiro”, “soffio vitale”.
6 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 59.
7 E naturalmente non vi è un termine corrispondente a “struttura”.
8 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 66.
9 Ibi, p. 65.
10 È sempre illuminante la trattazione di E. DODDS, I Greci e l'irrazionale, trad. it. di Virginia
Vacca De Bosis, Milano 2009.

16
un'operazione demonica esterna. Questa può assumere l'aspetto di Zeus, di una
Moira, delle Erinni. Analogamente accade per il menos, lo stato d'animo, la
fiducia e lo slancio che invadono chi ne ha avuto infusione.
Scettico sulle interpretazioni di questa tendenza all'oggettivazione che fanno
leva su una 'instabilità di spirito' degli eroi omerici, Dodds spiega che essa riflette
piuttosto la volontà di evitare l'indeterminazione. L'uomo omerico crede
nell'intervento psichico e gli attribuisce un carattere demonico o comunque
soprannaturale, perché non possiede un concetto unitario di anima come principio
di conoscenza. Ne consegue che ogni fenomeno psichico assume l'aspetto della
parzialità, diviene oggettivo e perciò rappresentabile. Infatti, i personaggi omerici
hanno l'abitudine di spiegare il carattere come una specie di conoscenza e, in un
certo senso, come appartenenza. « […] se carattere vale conoscenza, quel che non
è conoscenza non fa parte del carattere […] »11: questo il modo di concepire la
vita psichica secondo uno schema di tipo 'fuori/dentro'.
L'interpretazione di Dodds, che vede nella società omerica il prodotto di una
«civiltà di vergogna» i cui membri agiscono in vista della propria time, implica
che il concetto di ate funga per l'uomo omerico da proiezione su una potenza
esterna del proprio insostenibile senso di vergogna. Col tempo ate, pur
mantenendo il significato di condotta irrazionale, diventa l'espressione del castigo,
della generale rovina12. Così nell'Odissea si iniziano a delineare il concetto di
giustizia divina e il nesso tra colpa e punizione.
La lettura di Dodds ricostruisce concetti (tra cui, appunto, ate) e atteggiamenti
che, in seno all'esperienza religiosa greca, hanno acquistato una connotazione
sempre più morale e «puritana»13. L'idea ponte tra la civiltà di vergogna e una

11 DODDS, I Greci e l'irrazionale, p. 59.


12 Susanne Said preferisce non fare riferimento a un 'doppio' significato di ate. Al di là delle
possibili differenziazioni, secondo la studiosa, il vero significato di ate sta negli effetti
dell'azione commessa in stato di ate: dagli effetti si comprendono la mancata lucidità del
soggetto e la qualità dell'azione compiuta. «This is the reason why mistakes brought about by
alluring promises of gods, or men, actions of other men or interventions of a god, errors made
out of carelessness, intoxication or stupidity that had fatal consequences for their author are a
posteriori acknowledged as ate by their agent or by the narrator in the Homeric poems». Cfr. S.
SAID, From Homeric 'ate' to Tragic Madness, in W. V. HARRIS (ed.), Mental Disorders in the
Classical World, Leiden-Boston 2013, pp. 364-365.
13 DODDS, I Greci e l'irrazionale, p. 183.

17
nuova «civiltà di colpa» è lo phthonos theon (invidia degli dei), ma i cambiamenti
investono, naturalmente, la dimensione pubblica e privata della società greca. La
polis si innesta, infatti, con continuità sull'oikos, il corrispettivo nucleo privato
della famiglia. Dalle ceneri del vecchio potere centralizzato del basileus risorge la
figura del padre, il garante della solidarietà e solidità familiare. Con la civiltà di
colpa il timore del pubblico discredito diventa bisogno intimo di punizione.
Dodds osserva come nell'evoluzione da una civiltà all'altra si raccolgano segni di
crescente ansia e timore, dovuti certamente al clima di scarsa sicurezza personale
– cambiamenti geopolitici dovuti anche alle invasioni doriche –, ma soprattutto a
un rilassamento dei vincoli familiari.
La ricostruzione di Dodds andrà ridimensionata almeno alla luce di alcune
considerazioni di Bernard Williams (che su questo punto concorda con quella di
Simon14), che oltrepassa la distinzione tra un 'primitivo' sentimento di vergogna e
un 'evoluto' senso di colpa. Per l'uomo omerico l'aidos è un sentimento condiviso
e intersoggettivo: è criterio di valutazione delle proprie azioni tanto quanto delle
azioni altrui. Esporsi al giudizio degli altri non sarebbe dunque solo questione di
'perdere la faccia': è un valore interiorizzato come arete, come andreia. La
differenza rispetto al senso di colpa risiederebbe piuttosto nella diversa modalità
di percezione del sentimento. Nel caso della vergogna, l'esperienza ha a che fare
con l'essere visto, con lo sguardo. Nel caso della colpa «è interessante che […]
affondi le sue radici nell'ascolto, il risuonare in se stessi della voce del
giudizio»15. Persino lo spazio in cui il soggetto agisce si modificherebbe:
compiere un'azione vergognosa suscita il desiderio di scomparire o che lo spazio
attorno a noi si svuoti. Il pensiero della colpa suscita nel soggetto, ovunque si
trovi, un senso di persecuzione. E il desiderio di nascondersi conferma la
differenza tra una vergogna che si limita all'imbarazzo e una vergogna più
profonda, che investe l'autostima.
È però più prudente, per non sminuire l'importanza della vergogna nella società
greca a favore della centralità della colpa, inserire il sentimento etico dell'aidos
(qualcosa che per noi è vergogna) in un quadro ampio, al cui interno risiede
14 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 67.
15 B. WILLIAMS, Vergogna e necessità, trad. it. di Mauro Serra, Bologna 2007, p. 105.

18
qualcosa che per noi è identificato come sentimento di colpa (termine che non ha
un corrispettivo in greco). Non vi è probabilmente una così netta distinzione tra
vergogna e colpa per i Greci, quanto, piuttosto (e questo è ben messo in evidenza
nella tragedia), tra sfera pubblica e sfera privata. Non possiamo né dobbiamo
'correggere' i Greci, pensando come se provassero emozioni 'sbagliate' nel
contesto sbagliato: è chiaro che l'etica competitiva suggerisce che, in un campo di
battaglia ad esempio, si provassero spinte individualistiche, ma nulla esclude che
queste stesse spinte venissero messe da parte.
Non è comunque improprio riscontrare, nel cammino che porta alla
democrazia, i segni della formazione di questo 'sentimento del peccato'. Dopo la
crisi del sistema monarchico, infatti, Atene partecipa del processo della divisione
del potere: «L'accent n'est plus mis sur un personnage unique qui domine la vie
sociale, mais sur une multiplicité de fonctions qui, s'opposant les unes aux autres,
nécessitent une répartition, une détermination récriproques»16. Jean-Pierre Vernant
descrive la nuova vita politica di Atene come un momento di trasformazione e
trasferimento di poteri: dall'aristocrazia sacerdotale al demos. In questo processo
di razionalizzazione, le antiche procedure religiose non vengono semplicemente
spazzate via, ma gli strati sopravvissuti sono portatori di quel carattere «puritano»
che Dodds ha rilevato.
Al centro di questa lettura si trova, progressivamente, l'anima. I termini che la
connotano sono, come abbiamo detto, in qualche modo imprecisi17, ma non si
parla (ancora)18 comunque dell'anima intellettuale: l'io in questione è un io
emotivo, una dimensione interiore che inizia a contrapporsi al corpo.
Nella interpretazione puritana di Dodds una tale psicologia deriva dalla civiltà
sciamanica19. Uno sciamano è un soggetto psichicamente instabile, la cui anima si
credeva lasciasse il corpo e viaggiasse. È un uomo dotato di vocazione religiosa, e
per questo osserva un regime di vita ascetico grazie a cui prende possesso delle
16 VERNANT, Les origines de la pensée grecque, p. 50.
17 Cfr. supra, nota 5.
18 È con Socrate e più decisamente con Platone (per quanto riguarda l'immortalità) che avviene
questo passaggio.
19 Una civiltà al tempo di Dodds ancora viva in Siberia e che ha lasciato il suo passaggio nell'arco
che ricopre i territori della Scandinavia, passando per il continente euroasiatico, fino
all'Indonesia.

19
sue facoltà particolari. I Greci sarebbero venuti a contatto con questa civiltà in
Scizia e in Tracia (patria del leggendario Zalmoxis), quando nel VII secolo a. C. il
Mar Nero si aprì al commercio e alla colonizzazione. Il successo di questi
personaggi risponde a un bisogno di quell'epoca.
Per Dodds a una «psicologia puritana» si riferiscono sia l'orfismo che il
pitagorismo. Tralasciando i dettagli che portano all'identificazione di una dottrina
o dell'altra, basti ricordare che la concezione del corpo come carcere dell'anima, la
prescrizione del regime vegetariano e di tabù alimentari, l'eliminazione della
contaminazione con mezzi rituali e la teoria della reincarnazione si connettevano
con interrogativi riguardanti non solo il destino oltremondano, ma l'agire morale.
Vi è una dimensione interiore, una sorta di demone, rispetto a cui si rivolge la
purificazione: «la purezza, piuttosto che la giustizia, è diventata strumento
capitale di salvazione»20. Dietro la ricerca di una askesis si nasconde l'orrore
primordiale per lo spargimento di sangue. Qual è la fonte? La risposta è nel mito.
Quando i Titani catturarono Dioniso bambino, lo fecero a pezzi e lo mangiarono.
Zeus li incenerì con un fulmine e dai loro resti nacque il genere umano, che
ereditò così il temperamento crudele dei Titani, e una piccola parte immortale (l'io
occulto che viene da Dioniso). Anche questo popolo ebbe la sua dottrina del
'peccato originale' per spiegare l'universalità del senso di colpa.

Il 'medium' tragico nella presentazione della follia sulla scena.

Perhaps the answer to why Homer at most only hints at madness can be found in the
epic form, which has certain capabilities that the tragic does not. Epic allows for an
unending story, and so greater potential for action. As long as a hero can act (which
means fight) he does not have to go mad […] Tragedy requires situations in which action
either is blocked or has shattering consequences that cannot be undone. Epic time is never
ending; tragic time is short and intense, and allows no return 21.

20 DODDS, I Greci e l'irrazionale, p. 202.


21 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 71.

20
C'è questo nesso, riconosciuto da molti studiosi 22, che lega la rappresentazione
della follia (e specialmente una sua manifestazione particolare, come vedremo)
nella tragedia all'essenza stessa della tragedia come rappresentazione sulla scena,
e quindi con la visibilità a cui è soggetto il materiale di una composizione tragica.
È bene innanzitutto ricordare che c'è continuità tra il vocabolario della follia
nell'epica e quello nella tragedia23, come può mostrare anzitutto l'uso del verbo
mainomai. Questo ha la sua radice in menos, in Omero un termine generico per
indicare vitalità ed energia, ma la connotazione positiva del sostantivo non è
presente nella forma verbale: mainomai qualifica un individuo come al di fuori
dei confini della normalità, della sanità mentale 24. Tuttavia, nella tragedia vi è una
ricchezza di descrizioni della vita interiore dei personaggi che non ritroviamo
nell'epica e un grande interesse per il fenomeno della follia. L'attenzione è
focalizzata sull'individuo e sul conflitto: conflitto tra uomini e dei, tra uomo e
uomo, o interno all'individuo. I personaggi diventano folli nel momento in cui
patiscono l'incompatibilità tra ciò che essi ritengono sia giusto e ciò che
inevitabilmente, invece, sopraggiunge loro. Possiamo, dunque, dire che nella
tragedia si tratta sempre di una questione di equilibrio e armonia: lo squilibrio
causa la malattia e il collasso.
E, difatti, come efficacemente sostiene Simon: «If the causes of madness could

22 Si vedano R. PADEL, In and Out of the Mind. Greek Images of the Tragic Self, Princeton 1992;
G. MOST, The Madness of Tragedy, HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical World, pp.
395-410.
23 Questa continuità è stata rilevata da Simon (S IMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p.
68) e da Said (SAID, From Homeric 'ate' to Tragic Madness, pp. 363-393).
24 Mainomai è molto usato come un insulto all'interlocutore; può connotare la furia del guerriero,
ed essere usato per criticare coloro che non rispettano le leggi di ospitalità; in generale, come
ate e menos sono spesso presentati come doni divini, anche la mania è connessa a un
intervento soprannaturale. A differenza di ate, però, la mania non è mai 'oggettivata' e può
essere attribuita agli dei (il dio a cui è associata specificamente è Dioniso). Inoltre, mentre ate
mette l'accento sul danno che il soggetto fa a se stesso, con mainomai l'attenzione è concentrata
sul danno ai nemici o agli amici.
Altri termini già presenti in Omero che hanno contribuito alla formazione di una follia tragica
sono (oltre al già citato ate), lyssa (e i composti lyssodes e lysseter), margos e margainein, che
sono comunque piuttosto rari. Lyssa e i suoi composti si possono riferire alla foga delirante del
guerriero, mentre margainein (come mainomai) esprime gli effetti fisici della frenesia
guerriera, come la pulsazione del cuore, la bocca che schiuma, e gli occhi fiammeggianti.
Sono presenti nel vocabolario omerico anche aphron, aphrosyne, aphronein e aphrainein:
denunciano la stupidità dell'interlocutore, il suo comportamento infantile o una condanna per
delle azioni criminali.

21
be epitomized in a single sentence, it would be this: Madness comes from
conflict»25. Insieme al conflitto, gioca un ruolo importante l'ambivalenza, che si
esprime nel sacrificio rituale, nella mistura di amore e aggressività che si
riversano sulla vittima, animale o umana. E proprio l'insorgere della follia
conferma un'altra differenza rispetto all'epica: anche se nella tragedia gli dei, per
quanto presenti, non gestiscono solitamente i pensieri e le emozioni dei
personaggi, proprio la follia, così come il sacrificio, sono sempre provocati dal
dio. Il dio rappresenta in qualche modo la forma del conflitto interiorizzata dal
personaggio: i vincoli sociali e l'obbligo di obbedienza a questi vincoli sono la
causa del conflitto nella tragedia. Il folle si pone subito come il disobbediente
della società.

Thus madness in Greek tragedy is inseparable from religion and from feelings about
the gods. That feeling, a mixture of reverence, dread, occasional affection, and dutiful
obligation, bespeaks an attempt to cope with emotions and wishes that must also exist
between parents and children and between the sexes 26.

L'interiorità del personaggio è espressa nel linguaggio concreto delle


connessioni tra ciò che è fuori e ciò che è dentro: è il linguaggio 'materialista'
della filosofia presocratica, e un termine-chiave è poroi27, “passaggi”, “canali”.
Sono queste le vie di comunicazione fra ciò che è interno al corpo e ciò che è
esterno al corpo (e, naturalmente, i poroi regolano anche la comunicazione tra le
stesse sostanze interne al corpo).
È il senso della vista anzitutto a favorire la comunicazione tra il soggetto e
l'ambiente che lo circonda, in un senso più 'stratificato' rispetto all'epica. Nella
tragedia l'interiorità dei personaggi interagisce nella trama e per il pubblico. La
visione è un fenomeno di trasmissione e interazione tra la realtà esterna e
l'interno, e l'occhio nella tragedia è hermeneus della realtà. Lo sguardo di un
personaggio può esprimere le emozioni del personaggio e gli occhi emanano i
segnali di uno stato alterato. La follia che viene da fuori esce fuori attraverso lo

25 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 101.


26 Ibi, p.102.
27 Si veda lo studio di PADEL, In and Out of the Mind, p. 41.

22
sguardo: occhi che roteano, che fiammeggiano. Non solo, la vista è un senso
particolarmente debole e sensibile all'alterazione (nella sua connessione
privilegiata con la percezione e la conoscenza), e perciò precisamente la tragedia
si presta a una rappresentazione della follia sotto forma di stati allucinatori28.
Oreste è l'esempio principe della follia tragica: sia Eschilo che Euripide
delineano il profilo dell'eroe che, in uno stato precedente alla follia, uccide la
madre, e viene in seguito per questo perseguitato dalle Erinni. Al di là del fatto
che le allucinazioni possano avere il carattere di visioni o di illusioni29, la follia
tragica così presentata è decisamente influenzata dalla visualità dello stesso
medium tragico. Questa è la prospettiva adottata da Glenn Most 30, rafforzata anche
dal fatto che l'istituzione tragica, già nel nome theatron, sottolineava come il
luogo della sua rappresentazione fosse “il luogo del vedere” e lo spettatore, il
theates, “colui che guarda”. Più precisamente, secondo Most, una delle ragioni
per cui la follia di Oreste è una follia allucinatoria è che la storia di Oreste veniva
rappresentata sulla scena. Viene, così, veicolato un messaggio agli stessi
spettatori: “Anche voi state guardando qualcosa che non è realmente lì”. Questo
messaggio si lega alla funzione catartica dell'esperienza tragica: lo spettatore,
assistendo al pathos del personaggio, alterna pietà e paura; teme che la stessa pena
del personaggio possa sopraggiungere e prova compassione. Ma è in qualche
modo rassicurato dalla presenza della follia sulla scena sotto forma di
allucinazione: lo spettatore è chiamato a svolgere un ruolo attivo e a distinguere la
finzione dalla realtà.

Sacro e contaminazione. Nella sua Histoire de la folie à l'âge classique Michel


Foucault descrive l'evoluzione dell'esperienza della follia dal Medioevo al
Rinascimento: essa si fece posto gradatamente nella vita sociale, in un processo di

28 Cfr. MOST, The Tragedy of Madness.


29 In Eschilo Oreste vede cose che non sono presenti fisicamente, mentre in Euripide vede figure
che sono realmente presenti, ma vengono scambiate per altro da quello che sono. La prima
forma di allucinazione è chiamata da Most “visione”, l'altra “illusione”. Ed è l'illusione a
essere più spiccatamente teatrale, perché permette agli spettatori di compartecipare al momento
che Oreste vive. Lo spettatore vede una figura presente sulla scena, esattamente come Oreste,
ma, a differenza di Oreste, sa che Oreste si sta sbagliando.
30 MOST, The Tragedy of Madness, p. 404.

23
integrazione che appare frammentato. All'inizio del Medioevo la follia nelle sue
rappresentazioni è tenebra, portatrice di un sapere segreto, espressione
significativa di un rapporto dell'uomo con il mondo. Per questo Foucault fa
riferimento a una expérience cosmique: la follia affascina. A partire dal
Rinascimento la letteratura e la filosofia rendono la follia oggetto del sapere ed
espressione del rapporto dell'uomo con se stesso. Questa è l'expérience critique: la
problematizzazione del ruolo della follia fa sì che l'uomo ne prenda distanza. In
ogni caso, la follia intrattiene una relazione stretta con il sapere e la ragione: follia
e ragione si avvicendano in una dialettica che non lascia mai la questione risolta,
ma sempre un'ombra di tragicità. Le tappe verso quello che Foucault chiama le
grand renfermement sono essenzialmente due: la scoperta di una follia immanente
alla ragione, con conseguente sdoppiamento della nozione stessa di follia. Esiste
la categoria della folie folle, che rifiuta la déraison come parte della ragione, e la
categoria della sage folie, che invece la accoglie come bisogno e forza della
ragione stessa.
Nel mondo greco non ci fu il corrispettivo di quello che Foucault chiama «il
grande internamento»: nella polis i rapporti sociali vedono gli uomini davanti allo
stato come homoioi, e sul piano politico i cittadini si sentono intercambiabili: «à
l'intérieur d'un système dont la loi est l'équilibre, la norme l'égalité» 31. Che posto
aveva, dunque, la follia?
«In origine la follia è una dimensione stessa dell'essere umano, perciò non può
essere separata da lui e dalla società»32. Ricordiamo che a Dioniso è associata la
follia, in quanto il simbolo del dio è il vino che provoca alterazione psicofisica.
Ma anche se nella società greca i folli non erano reclusi e isolati, il folle è da
subito colui che si rifiuta di riconoscere il sistema di valori della società.
Non è facile sintetizzare questi dati raccolti sugli atteggiamenti intorno alla
follia: il destino che toccò alla malattia mentale conosce ambiguità e
contraddizioni. Abbiamo visto come in Omero, mancando un concetto definito di
anima, non è possibile nemmeno classificare la follia come malattia dell'anima: la
difficoltà sta nel fatto che l'io in questione sarebbe piuttosto scomposto in 'io
31 VERNANT, Les origines de la pensée grecque, p. 68.
32 G. GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima. I Greci e la follia, Milano 2010, p. 17.

24
parziali'. Dodds propende per una definizione della mania come una sospensione
temporanea di un flusso di pensieri, un sorta di confusione.
La follia, poi, lo abbiamo visto, diventa oggetto di riflessione critica nel teatro
antico: è un'esperienza connessa col dolore, implica pathos ovvero un «sentiment
direct et concret de souffrance et d'impuissance, sentiment de vie contrariée» 33.
Ma è chiaro che ciò che i Greci sentivano, ciò che credevano, quello che da fuori
osservavano a proposito di questa esperienza doveva in qualche modo suscitare
reazioni che avrebbero marcato il confine tra l'individuo folle e il gruppo,
mettendo, d'altra parte, il folle in rilievo.
La bella immagine della Nef des fous34 che Foucault offre all'inizio della sua
storia della follia racconta di un'antica suggestione: l'esperienza liminare del folle.
Già il lebbroso era considerato sacro e, nonostante gli si proibisse l'accesso alla
Chiesa (sorte che naturalmente toccò anche al folle), la sua esistenza era
manifestazione di Dio «[…] puisque tout ensemble elle indique sa colère et
marque sa bonté»35. Ed effettivamente la “Nave dei folli” consisteva nell'invio in
mare aperto di una carovana di stolti viaggiatori: follia è peregrinare, il viaggio
comprende la purificazione attraverso l'elemento dell'acqua.
Anche nell'antichità la mania era legata a motivi quali contaminazione e colpa
morale, e la religione provvedeva a guarire coloro che erano divenuti folli per
avere violato un divieto connesso a un luogo sacro o per avere dimenticato un atto
rituale. Il ruolo del folle coincide con il suo spazio: il margine mitico e invisibile,
margine che contribuisce a determinare la sua personalità. L'espressione
foucaultiana jeux d'exclusion si addice bene a questa situazione: il folle è il
protagonista di un alternarsi di esclusione sociale e reintegrazione spirituale. È
infatti un individuo aghios, che contiene la forza positiva e malefica, che al tempo
stesso santifica e annienta.
«In genere, i miti sulla follia rituale o iniziatica seguono uno schema ricorrente:
contaminazione-follia-fuga dall'umanità-purificazione-reintegrazione»36. La

33 G. CANGUILHEM, Le normal et le pathologique, Paris 1966, p. 85.


34 M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l'âge classique, Paris 1972, p. 18 ss.
35 Ibi, p. 18.
36 Per i contenuti di questa pagina cfr. GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima, pp. 43-62.

25
patologia necessita il riconoscimento e l'integrazione nel corpo sociale per potere
essere meglio gestita e, caricandosi di significato religioso, trova la sua terapia. Le
cure previste per la follia erano di carattere rituale, di tipo esorcistico, musicale, o
iniziatico. La cura esorcistica veniva praticata dal katarthes, e mentre nella
tradizione giudaico-cristiana il demone imprigionato, essendo il simbolo del male,
viene scacciato, nella tradizione greca il demone viene ammansito, perché
presenza divina. La malattia trova qui i tratti di un'esperienza soprannaturale, è
ritualizzata e assorbita.
La cura musicale, che spesso si intreccia con la cura iniziatica, è affidata a un
tipo di follia che chiamiamo collettiva, in opposizione alla follia privata (ad
esempio, quella degli eroi nelle tragedie): come abbiamo ricordato Dioniso era
folle e per questo causa di fobia improvvisa e collettiva. Tra i gruppi più
specificamente associati alla cura musicale della pazzia troviamo le Baccanti e i
Coribanti: essi erano considerati i guaritori della follia. Il loro stato allucinatorio,
per cui credevano di sentire il suono dei flauti, provocava in loro il desiderio
irrefrenabile di danzare, atto che diveniva, quindi, la terapia. Il rituale, dunque,
non fa che riassumere in sé malattia e cura.
Come si svolge, allora, questo processo di alterazione psichica? Secondo
Giulio Guidorizzi ai Greci non era sfuggita la differenza che oggi poniamo tra
trance e estasi. In entrambi i casi si tratta di un cedimento dell'identità, ma per
l'estasi avviene in solitudine e riguarda una perdita della connessione tra anima e
corpo, un allentamento di questo legame: l'anima, infatti, viaggia fuori dal corpo
(esce da sé, appunto). La trance, invece, è l'enthousiasmos, uno stato infuso dal
dio, in cui il corpo umano diventa più vivo ed energico37.
Ognuno di questi folli lo è per 'concessione divina', vale a dire, non per una
scelta autonoma si è chiamati a ricoprire questo ruolo. La follia si riconferma
un'esperienza dolorosa. Guidorizzi rimarca, infatti, la funzione difensiva e
regressiva sia della trance sia dell'estasi38: la follia corrisponde al momento
dell'intervento del dio per difendere colui che viene posseduto, quando lo
sconvolgimento del corpo e dell'anima sono molto violenti. Così la regressione in
37 Cfr. GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima, pp. 167-168.
38 Ibi, pp. 159-206.

26
una esperienza molto 'corporea' come quella della danza coribantica può essere il
mezzo per lasciare la civiltà e i suoi disagi alle spalle. È, del resto, il fil rouge del
nostro discorso: non escludiamo che la pressione sociale e psicologica nella civiltà
antica abbiano avuto un peso considerevole, e per questo venissero espresse in
atteggiamenti ritualizzati e codificati, al fine di 'chiudere' gli individui entro
confini (anche spaziali) ben precisi.

Follia al femminile e mente al maschile. A numerosi studiosi non è sfuggita la


principale caratteristica di riti come quello dionisiaco: essi sono a carattere quasi
esclusivamente femminile39. Difatti, accanto al culto dionisiaco ufficiale,
permangono i rituali di dionisismo primitivo. Le seguaci di Dioniso sono
comunemente chiamate Baccanti' o Menadi (“furiose”, “deliranti”), ma prendono
anche denominazioni locali.
Come abbiamo visto, il rito è un'esperienza conoscitiva, spinge l'uomo ai
confini dell'invisibile e lo mette in armonia con il Tutto. Dapprima Dioniso
chiama i suoi seguaci e li costringe a seguirlo, ed è questa un'esperienza dolorosa i
cui effetti permangono anche dopo: si instaura una sorta di dipendenza tra il
seguace e il rituale, per cui la trasformazione psicologica tende a diventare
permanente.
Questo perché la concessione a cui sono soggetti i 'posseduti' è di tipo sociale:
in alcuni periodi dell'anno è loro permesso di farsi prendere dalla mania. In
occasione delle feste trieterides, infatti, le Baccanti, ma anche le Tiadi (seguaci di
Dioniso a Delfi) e le Menadi praticano l'oreibasia, la processione sul monte. Varie
testimonianze letterarie confermano una reale esistenza di queste figure
femminili, che dunque non farebbero parte solo dell'immaginario dei Greci.
Vi sono, dunque, periodi dell'anno e luoghi nei quali alle donne è permesso di
allontanarsi dalla casa paterna, liberarsi dai gravami dell'allevamento della prole,
e durante la notte raggiungere la cima della montagna fuori dalla città. Come una
malattia contagiosa, la danza accompagnata da flauti e tamburelli consentiva la
trance e offriva uno spettacolo che doveva essere assai particolare: le
39 Cfr., ad esempio, DODDS, I Greci e l'irrazionale, pp. 329-344; GUIDORIZZI, Ai confini
dell'anima, pp. 184-200.

27
rappresentazioni figurate e letterarie delle donne in trance sono accomunate da
tratti caratteristici, come nuca all'indietro, capelli sciolti e selvaggi, occhi rivolti
verso l'alto. Questi e altri caratteri avvicinano i riti greci ai riti di altre società
'primitive' e a figure della modernità (come le donne isteriche di fine Ottocento):
utilizzo dei medesimi strumenti musicali, stesso portamento della testa, analgesia
del corpo40, alterazione della voce41.
Le donne, inoltre, sono rappresentate mentre vengono chiamate al rituale da
Dioniso nel momento in cui tessono nella quiete della casa paterna, e la fuga dalla
casa e dalla città simboleggia proprio l'insania e il disordine. È ancora una volta la
coppia 'fuori/dentro' che segna i confini tra lecito e illecito. « […] les Bacchantes,
[…] disent le renversement de l'ordre de la cité et de la famille» 42. Non solo:
durante il rito il capovolgimento coinvolgerebbe anche i ruoli del maschio e della
femmina43. Le donne diventano selvagge, cacciano, si vestono di pelli animali e
allattano cuccioli di animale e, al culmine del rituale, uccidono una vittima
(sparagmos) e divorano la sua carne cruda (omophagia). Dodds sottolinea che
questo aspetto fa parte della «logica selvaggia»: tra le testimonianze troviamo il
termine charis ad accompagnare la consumazione del pasto e a indicare quasi un
certo compiacimento. È il carattere ambivalente del sacrificio: la complessità di
questo rito crudele e catartico al tempo stesso, la presenza del sacro e della
contaminazione prevede anche la cura del male attraverso l'alimentazione carnea.
Queste le manifestazioni del rituale, al cui interno è racchiusa una ricca
simbologia. Per esempio, sono molte le attestazioni del legame tra il suono del
flauto e la follia. Per Aristotele (che, come Platone, ci offre una teoria dei modi
musicali) il modo frigio sarebbe quello che causa entusiasmo e delirio, quello
dorico invece è nobile, ha un suono più grave e ristabilisce l'equilibrio. Aristotele
aggiunge che è anche “virile”. Non è difficile riordinare gli elementi e affermare
che per i Greci ciò che vi è di nobile, equilibrato e razionale appartiene alla sfera
40 Nelle Baccanti di Euripide le danzatrici portano il fuoco sulla testa senza bruciarsi.
41 Un altro aspetto tipico del rito bacchico è il grido, o meglio, la destrutturazione della voce:
Dioniso è infatti Bromio, “il dio che freme”.
42 L. BRUIT ZAIDMAN, Les filles de Pandore, in G. DUBY- M. PERROT, Histoire des femmes en
Occident. L'Antiquité, Paris 1992, p. 465.
43 Ricordiamo qui, per esempio, che nelle Baccanti Dioniso convince Penteo a vestirsi da donna
per potere spiare le Baccanti sul monte.

28
della sessualità maschile, l'irrazionale, e in genere il mondo dei sentimenti
devastanti, alle donne.
Anche i medici ippocratici hanno rilevato disturbi mentali tipicamente
femminili, che avevano come caratteristiche l'insorgenza improvvisa della
malattia e il suo carattere collettivo. Essi colpivano le donne, dato il loro
temperamento ritenuto instabile, e spesso anche le fanciulle nubili. La terapia
praticata comunemente era di tipo rituale44.
Nel quadro del Peri parthenion45 ippocratico, la donna è infatti più debole
dell'uomo e quindi più facile a cadere in stati depressivi, oltre a essere
naturalmente incline all'autodistruzione. Il corpo della donna appare legato in
modo irrimediabile alla sua funzione riproduttiva, il ruolo sociale par excellence
della donna greca.
Del resto, la ciclicità della vita femminile e i suoi cambiamenti rendono la
donna oggetto di osservazione (e di mistero): in una cultura in cui la donna è un
soggetto muto, è l'uomo a decidere che la patologia si riflette nella capacità di
procreare.
Lo stato verginale (come nel caso del Peri parthenion), ma anche la vedovanza
o più in generale la sterilità, sono situazioni guaribili unicamente con
l'accoppiamento. La cura che il medico prescrive non è, dunque, rituale, ma –
possiamo dire – contrattuale: il matrimonio e una regolare attività sessuale
ripristinano l'equilibrio.
Per tutte le malattie del Corpus Hippocraticum, come vedremo, l'alterazione ha
un carattere psico-fisico. In età puberale, infatti, il sangue confluisce nell'utero e
normalmente defluisce all'esterno: se il sangue è bloccato nella sua fuoriuscita,
risale verso il cuore e il diaframma, spingendo, e causando la malattia. Cosa lo
blocca? La chiusura dell'orifizio (stoma) vaginale, ostruzione che provoca delirio
44 Il suicidio per impiccagione caratterizza spesso il risolversi di questo tipo di disturbi nelle
donne. Sarebbe interessante chiarire, in base a queste considerazioni, il ruolo del
comportamento suicidario come malattia nell'età classica. Recentissimi studi, che rivedono la
classificazione nosografica del DSM, hanno proposto tra i disturbi anche il suicide behavior
disorder. Sebbene la proposta non sia stata accolta, le neuroscienze hanno confermato il
concorso di fattori non solo sociali, ma anche genetici, che predisporrebbero all'atto (http://le-
cercle-psy.scienceshumaines.com/le-suicide-faut-il-en-faire-une-maladie_sh_30853).
45 Si veda lo studio di V. A NDÒ, La verginità come follia: il 'Peri parthenion' ippocratico,
«Quaderni storici» (1990), 75, pp. 715-729.

29
(paraphrosyne) e follia (manie). La sensazione fisica è simile a quella
dell'intorpidimento delle gambe, quando si rimane troppo a lungo seduti: in questo
caso, il sangue rimasto fermo può facilmente ritornare a scorrere in modo
normale, in quanto le vene nelle gambe sono diritte. Nel caso del 'ristagno' del
sangue nel cuore e nel diaframma, essendo le vene oblique, non è altrettanto
semplice ripristinare il complessivo equilibrio. Ne conseguono sintomi a carattere
infiammatorio, come tremori e febbre, e altri psichici, cioè manie omicide, fobie,
agitazione, allucinazioni e desiderio di morte.
Ci sono sintomi comuni ad altre malattie ginecologiche: è il caso dell'hysterike
pnix, cioè la soffocazione isterica, ricondotta a un utero visto come un animale
vagante che si sposta nel corpo quando la donna si astiene dall'attività sessuale. Si
presentano dolori fisici, rigidità e alterazione della coscienza. La terapia è quella
consueta, in associazione a una terapia specifica: la fumigazione, che serve a fare
ritornare l'utero nella posizione 'normale', avvicinando fumi alle due 'bocche' del
corpo femminile, la bocca e la vagina.

Testi medici, narrazioni mitiche e costruzioni simboliche concorrono nel restituire in


maniera univoca l'immagine della fanciulla greca, della parthenos, il cui corpo, […] (è)
compreso tra due stomata […]46.

Ritroviamo, inoltre, il sintomo del suicidio: non compare qui solo nella forma
(della tragedia e del mito) dell'impiccagione, ma anche come desiderio di
precipitare nel vuoto (o nelle acque).
Il quadro del Peri parthenion è unico in tutta la letteratura medica nel dare un
quadro della follia tanto complesso quanto definito, fino al punto di caratterizzare
la follia come la patologia dello stato verginale. Forse non è un caso che ciò si
verifichi in un testo orientato da obiettivi di codificazione culturale: è una certa
percezione della posizione sociale e culturale della donna che orienta il nostro
autore a una definizione del fenomeno della follia, mentre lo tratta come un
marchio di marginalità. È seguendo questa prospettiva più ampia, e dunque
culturale, che siamo sulle tracce della malattia mentale; per contro, come vedremo

46 ANDÒ, La verginità come follia, pp. 717-718.

30
subito, solitamente nella letteratura medica non c'è un riconoscimento del disturbo
mentale.

§2. Il punto di vista medico:un 'continuum' psicofisico


All'interno della 'psicopatologia antica' possiamo ritrovare due diverse
attitudini nei confronti dei disturbi mentali. Da un lato la letteratura, in particolare
epica e tragica, come abbiamo visto, descrive un comportamento umano anormale
come causato da un intervento soprannaturale esterno rispetto all'uomo. Dall'altro
lato vi sono gli autori dei trattati ippocratici che, come vedremo, rifiutano
omogeneamente la spiegazione soprannaturale delle patologie psichiche. La
malattia mentale trova una spiegazione fisiologica, anche se ne variano i dettagli:
uno dei dibattiti più ferventi dell'antichità riguardava la 'localizzazione' della
facoltà psichica o delle facoltà psichiche, vedendo il 'centro' del pensiero e delle
funzioni vitali di volta in volta nel cervello, nel cuore, nel sangue47.
Il fatto che la malattia mentale non costituisca per i medici ippocratici una
categoria separata rispetto alla malattia fisica48 non sminuisce l'importanza del
loro interesse per gli aspetti cognitivo-comportamentali delle malattie del corpo.
Va piuttosto riconosciuto il presupposto di base del loro approccio, che è una
visione dell'anima per lo più concepita come un'entità materiale che percorre il
corpo, spesso sotto forma di flusso, causando determinate variazioni49.
In ogni caso, il medico rivolge la sua attenzione alla situazione patologica del
paziente in quanto insieme inscindibile di anima e corpo: per questo la cura va
applicata tanto all'anima quanto al corpo. «L'anima dell'uomo continua a
svilupparsi fino alla morte: se contemporaneamente alla malattia scoppia una

47 Cfr. per questo P. MANULI-M. VEGETTI, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel
pensiero antico, Milano 1977.
48 Su questo punto hanno insistito numerosi studiosi. Si vedano: I. E. DRABKIN, Remarks on
Ancient psychopathology, «Isis», 46 (1955), pp. 223-234; V. DI BENEDETTO, Il medico e la
malattia. La scienza di Ippocrate, Torino 1986, pp. 35-69; M. M. SASSI, 'Mens sana in corpore
sano': una riflessione antica, «L'arco di Giano», 44 (2005), pp. 9-19; V. ANDÒ, 'Psyche' e
malattie psichiche nella prima medicina greca, in R. BRUSCHI (a cura di), Gli irraggiungibili
confini. Percorsi della psiche nell'età classica, Pisa 2007, pp. 103-129.
49 Le occorrenze del termine psyche più significative nel Corpus, che danno conto di una grande
varietà di concezioni, sono ordinate da ANDÒ, 'Psyche' e malattie psichiche, pp. 103-129.

31
infiammazione sia l'anima che il corpo si consumano» (Epid. VI, 5 2).
Dato che per noi la questione dei disturbi psichici, pur essendo molto
controversa, rimanda immediatamente a un problema di classificazione
nosografica, occorre mostrare qual era la tendenza generale del medico di fronte a
un'esigenza di questo tipo e in che misura una terminologia nosologica offre
indicazioni per una 'psicopatologia'.

Il vocabolario medico. La lingua greca ha moltissime parole per riferirsi a stati


anormali e al comportamento che a essi si accompagna, ma almeno fino al II
secolo d. C. pochi vocaboli per definire effettivi disturbi mentali (i Greci
evitavano quella che è stata chiamata nosologorrhea50, la tendenza a moltiplicare
all'eccesso il numero delle sindromi riconosciute). Il vocabolario che troviamo nel
Corpus, limitatamente ai casi relativi all'insanità mentale dei pazienti, ci aiuta a
rendere un'idea di come i medici interpretavano i fenomeni psichici.
I termini più diffusi sono phrenitis, melancholia e altri che più genericamente
fanno riferimento a uno stato di delirio, che possiamo indicare in maniera
impropria con mania, in quanto una malattia classificata come tale non è presente
nel Corpus51. I disturbi che portano questi nomi non costituiscono categorie
omogenee, ma mettono in evidenza le manifestazioni psicologiche della malattia
del paziente, come un disagio più esteso che il medico, pur trattandolo in
connessione col disordine fisico che affligge il malato, tenta di curare e spiegare
razionalmente.
Come vedremo, solo la phrenitis è riconosciuta come una malattia acuta (una
malattia comunque organica, che causa l'infiammazione delle phrenes): per tutte

50 Così W. V. Harris in HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical World, p. 1.


51 Chiara Thumiger, in uno studio accurato sulla general terminology of insanity, si concentra
soprattutto sulle occorrenze dei termini che hanno a che fare con la mania intesa come
fenomeno generale di squilibrio mentale e delirio. Una delle ragioni dell'esclusione dei
vocaboli sulla phrenitis e la melancholia sta nel fatto che, secondo la studiosa, queste categorie
sono state già fatte oggetto di sufficiente attenzione da parte degli studiosi di medicina antica.
Inoltre, la phrenitis e la melancholia sembrano avere, in misura diversa, un significato più
definito: la phrenitis è riconosciuta come una malattia a tutti gli effetti, così come la
melancholia, nonostante il carattere comportamentale che ha in comune con la mania, ha tratti
molto più specifici. Per un riscontro filologico più preciso, si veda C. THUMIGER, The Early
Greek Medical Vocabulary of Insanity, in HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical
World, pp. 61-95.

32
le sue manifestazioni che incontriamo nella letteratura ippocratica, dobbiamo
quindi considerare come certa esclusivamente la loro connessione con uno stato
mentale deviato, anormale, alle volte semplicemente confusionale.
Introduciamo un breve confronto tra la melancholia e la phrenitis. Quanto alla
melancholia52, si dovrà innanzitutto notare che il termine, pur non essendo
esclusivamente né primariamente psicologico, si caratterizza fin dalle prime
attestazioni per implicazioni con la sfera psicologica. Più spesso, infatti, il
melancholikos è un individuo affetto da un qualche grado di insanità, e può anche
essere soggetto a delirio: nelle descrizioni dello stato di un paziente 'melanconico'
è spesso presente il verbo mainomai, che fornisce l'indicazione di uno stato
psicologico sicuramente aggravato, contrariamente ai casi in cui lo stesso verbo
(e, in misura minore, gli altri verbi che vedremo fra poco) non compare.
Del resto, un certo intento classificatorio (affine a quello che contraddistingue il
vocabolario moderno) sembra emergere dalla ricchezza di forme grammaticali
usate per i disturbi appena esposti. Più precisamente53, l'uso di nomi implica che
un concetto ha già raggiunto un certo grado di definizione 54 e di 'astrazione', là
dove le forme verbali esprimono un insieme di azioni e comportamenti condivisi e
riconosciuti, nonché considerati primariamente nel loro aspetto di diretta
osservabilità. Se, quindi, una classificazione in qualche modo più scientifica è
stata favorita per la phrenitis, lo stato maniacale è stato piuttosto oggetto di
descrizioni comportamentali, mediante l'impiego di diverse forme verbali 55.
L'azione osservabile fa sì che la follia appaia in maniera variabile come
disposizione di carattere, un generico modo di essere e di 'stare al mondo', un
momentaneo stato psichico, o una degenerazione di altre patologie («as general

52 La connessione tra la melancholia e la melaina chole (bile nera) non è senza difficoltà e per
alcuni studiosi addirittura improbabile. Il sostantivo melancholia deriva dall'aggettivo
melancholos (trovato in Sofocle), il cui suffisso -cholos ha a che fare con la collera e la rabbia.
Inoltre, nel Corpus non vi è significativa traccia della qualità depressiva che questi disturbi
acquisteranno nella letteratura successiva, ragione per cui non è prudente tradurre melancholia
con “malinconia”: la connessione è, piuttosto, tra tratti depressivi e bile nera.
53 Cfr. THUMIGER, The Early Greek Medical Vocabulary of Insanity, p. 69.
54 È questo il caso della phrenitis e meno della melancholia, che troviamo più frequentemente
indicata con l'aggettivo melancholikos.
55 È più corretto, dunque, parlare di phrenitis, hoi melancholikoi e mainesthai.

33
'raving' with illnesses otherwise defined»56).
I termini più usati per indicare lo stato maniacale vengono suddivisi da
Thumiger in famiglie lessicali:
– parakrouo: letteralmente “urtare” o “spingere lateralmente”. Il campo
semantico è quello del combattimento e della musica (parakrousis è “il suonare
una nota sbagliata”, e questo termine può avere aiutato la trasposizione verso la
sfumatura dell'insanità mentale); può avere anche il significato di “indurre in
errore, fuorviare, ingannare”. La connotazione psicologica di essere folle non è
comune al di fuori del Corpus;
– parakopto: in riferimento alla salute mentale appare solamente nel Corpus.
Come per parakrouo, il termine implica l'idea del colpire come dell'ingannare, ma
significa anche “falsificare” con riferimento specifico al conio di moneta. «Money
and coinage and the purity of precious metals are increasingly present as
metaphors for soundess and value in the fifth century» 57. È interessante osservare
che nella letteratura medica il termine assume una connotazione di 'deviazione',
mentre nella letteratura non medica si sottolinea piuttosto il carattere di
'possessione', nel senso dell'essere colpiti da una malattia come entità esterna al
soggetto;
– maino, mainomai/ekmaino, ekmainomai: i termini appaiono come
sinonimi nel Corpus con riferimento alla collera, con il senso di “far diventare
qualcuno furioso” e “infuriarsi”. I riferimenti sono più frequenti in fonti letterarie
e in contesti religiosi, più che nella letteratura medica. Diversamente da
parakrouo, questi verbi non vogliono avverbi di qualità, il che suggerisce che
possiedono un grado di specificità maggiore rispetto ad altri verbi nell'indicare lo
stato delirante;
– (ou) katanoeo, paraphroneo, (ou) phroneo: hanno una forte connotazione
cognitiva: si riferiscono alle situazioni di perdita di capacità di ragionamento e
abilità cognitive del soggetto. Katanoeo è usato solamente nel Corpus nel senso di
“essere sano di mente” e “riacquistare il senno”, mentre altrove ricorre con il

56 THUMIGER, The Early Greek Medical Vocabulary of Insanity, p. 70.


57 THUMIGER, The Early Greek Medical Vocabulary of Insanity, p. 70.

34
significato non tecnico di “capire”, “cogliere con la mente”. Paraphroneo e (ou)
phroneo vengono usati in un senso più generico, senza intendere un'alternanza di
lucidità mentale e delirio. Il composto allophroneo (letteralmente “pensare ad
altro”, “cambiare idea”) slitta verso il significato di “essere insensato”, “essere
deviato”. Le espressioni nominali aphron, emphron, ekphron, phronimos
generalmente vengono usate anche in contesti diversi da quello medico. Il nome
paraphrosyne, infine, deriva dall'aggettivo paraphron, molto usato nel linguaggio
comune: in ambito medico indica in senso ampio insanità mentale, senza forti
connotazioni;
– paralereo: come i sostantivi paraleresis, leros/leresis, e l'aggettivo
paraleros, il verbo paralereo è usato per descrivere il comportamento del soggetto
delirante visto da un osservatore esterno, piuttosto che per indicare uno stato
psicologico o cognitivo. Leros, in particolare, si riferisce a suoni inarticolati o
inappropriati del folle, in realtà senza un chiaro e preciso riferimento all'aspetto
verbale, che emerge invece nei verbi paralego e allophasso: «it should be more
generally translated with 'to act foolishly'; the etimology is uncertain»58;
– syniemi, synesis59, synetos/asunetos: appaiono nel Corpus solo in pochi
casi con un senso patologico o con esplicito riferimento a capacità cognitive; più
spesso sono usati per qualificare la competenza e la prudenza del buon medico e
dell'uomo intelligente in generale. Questi termini giocano un ruolo importante
nella prosa filosofica (ma anche nel vocabolario medico li troviamo con la stessa
sfumatura), in riferimento a una capacità di comprensione che determina la
profonda consapevolezza di una situazione o di un'azione – consapevolezza che
può lasciare spazio al senso di colpa e al rimorso;
– existamai e altri composti con ek/ex: qualificano l'insanità mentale in
riferimento a una fuoriuscita dai 'limiti' su azione di una forza esterna. Questo
verbo e le espressioni che appartengono al suo gruppo sono i meno specifici del
Corpus e i meno tecnici in generale.

58 THUMIGER, The Early Greek Medical Vocabulary of Insanity, p. 75.


59 È l' 'intelligenza' di cui il cervello è hermeneus in Male Sacro (I, 6).

35
I termini qui sopra considerati sono dunque vocaboli generici e non vogliono
esprimere accuratamente concetti che noi oggi definiremmo di carattere
psicopatologico, ma solo alcuni dei sintomi che il medico annota in conformità
alla guida dell'aisthesis e alla tendenza alla registrazione. Inoltre, la breve
rassegna qui sopra ci dice come vi siano vocaboli che designano la follia in
maniera più specifica (e sono quelli del gruppo semantico con tema radicale
man-) e altri che solitamente non vengono usati in contesto psicopatologico.
Questi, a loro volta, si dividono in due classi: termini che designano
'negativamente' la follia (e sono i termini con a- privativo o espressioni verbali
negative) e i «'distancing' compounds»60 (con prefisso para-), che marcano invece
la distanza da un modello normale di salute mentale e si riferiscono, appunto, alla
deviazione dalla normalità.

Le forme del delirio. Autorevoli studiosi del Corpus hanno individuato nella
classificazione della malattia mentale operata dai medici greci una tipologia
binaria di due stati opposti, identificati come eccessi rispetto a uno stato normale
di equilibrio. «At one extreme is a type of madness that, from its low-energy
nature, we might call a depressive madness. At the other is what we might qualify
as a hyperactive madness»61.
Un caso significativo della doppia tipologia del disturbo mentale, è fornito dal
trattato sul Male Sacro, dedicato all'epilessia. L'autore conduce qui un importante
excursus sulla base fisiologica dell'attività cognitiva, dimostrando il ruolo del
cervello nella percezione, nelle emozioni e nel pensiero. Nella misura in cui il
cervello è in salute, tutte le sue 'facoltà' sono intatte, quando subisce degli
squilibri subentra la malattia.
L'equilibrio di cui si tratta è un equilibrio di flussi. L'autore dice che ogni
organo, compreso il cervello, prima della nascita si purifica (5, 2). Se il cervello
non è stato purificato (katharthe) in modo tale che in esso scorra una giusta
quantità di flusso (rhye), si formerà molto liquido: da una mancata depurazione

60 Così J. JOUANNA, The Typology and Aetiology of Madness in Ancient Greek Medical and
Philosophical Writing, in HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical World, p. 98.
61 JOUANNA, The Typology and Aetiology of Madness, p. 97.

36
deriva la costituzione flegmatica62, cioè quella in cui il flegma (una sostanza di per
sé fredda e densa) risiede abbondante nel cervello, causando la malattia.
Il cervello (come tutte le parti del corpo) ha bisogno di pneuma (“soffio”,
“respiro”), che in esso determina il pensiero, e come il flegma passa attraverso le
'vene' (phlebes: 4, 1)63. Pertanto, se c'è una quantità eccessiva di flegma nel
cervello, esso non viene aerato e viene privato della sua freschezza naturale,
dando luogo a perdita di voce e di coscienza64:

L'aria che va nelle vene […] entrando […] nel cervello, e così fornisce il pensiero (ten
phronesin) e il movimento (ten kinesin) delle membra; sicché quando le vene sono
private dell'aria65 dal flegma e non la ricevono, rendono l'uomo privo di parola (aphonon)
e di coscienza (aphrona) (7, 6-7).

Nelle phlebes scorre, del resto, anche il sangue. Sono, dunque, diversi fattori
concomitanti66 a causare l'epilessia: uno scorrimento improvviso del flegma nelle
phlebes67, tale da bloccare la respirazione, e l'incontro-scontro con il sangue: «Gli
62 «Se non c'è depurazione, ma (il flusso) si raccoglie nel cervello, allora è necessario che sia
flegmatico» (5, 6).
63 Notoriamente non esiste ancora in questa fase una distinzione tra vene e arterie. Inoltre, in
Morb. Sacr. le phlebes sono anche i canali della respirazione, in quanto attraverso di esse passa
l'aria che viene così trasportata al resto del corpo: «Attraverso queste vene introduciamo in noi
anche la maggior parte del pneuma; esse infatti sono per noi i canali della respirazione del
corpo poiché attirano a sé l'aria, la distribuiscono al resto del corpo attraverso le piccole vene,
lo raffreddano e quindi la rilasciano» (De morb. sacr,., 4, 1). Essendo le phlebes canali di
trasporto, attraverso di esse passano dunque tanto aria che sangue, flegma e bile.
64 Anche la polarità caldo-freddo caratterizza le condizioni di salute e malattia dei singoli organi
e del corpo nel suo complesso. Il cervello, infatti, è naturalmente fresco e asciutto (un cervello
refrigerato costantemente dal ricambio di aria e in cui non ristagna nessun fluido) e questa
condizione di freschezza garantisce l'integrità delle sue funzioni. Il cuore, invece, organo del
sangue, è caldo per natura e viene rinfrescato dal polmone, organo a esso vicino e naturalmente
freddo: «Quando infatti il flegma freddo discende sul polmone e sul cuore, il sangue si
raffredda; (il malato) infatti non può ricevere quanto pneuma vuole finché non abbia dominato
il flegma che è affluito e finché, riscaldatolo, non lo abbia riversato nelle vene; […]» (6, 2-3).
Il funzionamento di un simile organismo risulta complesso, ma è evidente che gli eccessi (di
fluidi, di caldo, o di freddo) dominano il quadro patologico.
65 È chiaro che la condizione di mancata refrigerazione coinvolge più in generale il cervello,
anche se qui è detto che sono le vene a essere private di aria.
66 Tra cui, naturalmente, anche fattori meteorologici e, in particolare, i venti: gli attacchi
epilettici, infatti, sono particolarmente favoriti dai venti del Sud (13).
67 Tra i sintomi che il malato epilettico presenta troviamo la perdita della parola: «Io sono in
grado di dire come gli venga ciascuno di questi sintomi: perde la parola quando il flegma,
scendendo all'improvviso (exaiphnes) nelle vene, chiude fuori l'aria e non consente più di
riceverla né nel cervello, né nelle vene cave, né nelle cavità, ma impedisce la respirazione» (7,
3).

37
accade tutto questo quando il flegma che è freddo fluisce nel sangue che è caldo;
esso infatti raffredda e arresta il movimento del sangue» (7, 13).
A sostegno della centralità del ruolo del cervello nel discorso sull'epilessia,
viene di seguito illustrata la condizione ottimale di quest'organo e dell'uomo
quando è in pieno possesso delle sue facoltà mentali (phronei) (14, 7). A seconda
che a 'corrompere' il cervello sia il flegma o la bile, l'uomo delira in maniera
corrispondente allo schema di follia 'calma' e follia 'agitata' a cui abbiamo
accennato:

La corruzione (he diaphtore) del cervello (tou enkephalou) avviene per effetto del
flegma e della bile. Riconoscerai l'uno e l'altro in questo modo: quelli che sono folli (hoi
mainomenoi) per effetto del flegma sono tranquilli (hesychoi), non gridano e non
strepitano, quelli che lo sono per effetto della bile gridano, si comportano male e non
riescono a stare fermi (15, 2).

Vediamo che non si parla qui di un'anima come sede della follia (e, del resto, il
termine psyche non compare in tutto il trattato) e, a differenza di quello che
vedremo emergere in Platone, non è operata una distinzione tra lo psichico e
l'organico. Tutto riguarda in ultima istanza il corpo: il disturbo mentale è
indubbiamente organico. Per converso, come deduciamo anche da altri passi, il
cervello è identificato precisamente come l'organo dell'attività cognitiva: ogni
disturbo che colpisce il cervello è dovuto a un disequilibrio tra le qualità caldo-
freddo secco-umido, disequilibrio a sua volta causato da un'imperfetta mistura dei
fluidi corporei, cioè sangue, flegma, bile gialle e bile nera.
Segue un'articolata descrizione della paura che coglie il malato di epilessia:

Se invece sovrastano timori e paure, ciò avviene per effetto di un cambiamento del
cervello; esso cambia per effetto del calore; si riscalda per effetto della bile quando essa
si muove verso il cervello […] Soffre e ha nausea senza motivo se il cervello si raffredda
e si condensa più del solito. […] Di notte grida e urla, quando il cervello si surriscalda
improvvisamente […] si surriscalda quando il sangue arriva al cervello in grande quantità
e bolle […] quando l'uomo vede un sogno spaventoso ed è colto dalla paura […] quando
poi si sveglia e torna in sé (kataphronese) e il sangue si disperde di nuovo nelle vene,
smette (15, 3-8).

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Ritroveremo descrizioni altrettanto attente di fenomeni di disordine mentale in
altri quadri nosologici, anche basati su diverse coordinate eziologiche. In
particolare, va notato che il delirio ha spesso, nei trattati del Corpus, un'immediata
connessione con la paura. In Mal. II, per esempio, nella malattia denominata
phrontis (termine che ha un'accezione generica, non tecnica, di “pensiero”, nella
duplice valenza di “preoccupazione” e “riflessione”) si riscontra la seguente serie
di sintomi psichici:

Il malato sembra avere nelle viscere come una spina che lo punge; egli è in preda alla
nausea, fugge la luce e gli uomini, ama le tenebre; è in preda all'angoscia; la regione del
diaframma sporge verso l'esterno; soffre quando lo si tocca; è angosciato; ha delle visioni
spaventose, degli incubi e qualche volta vede i morti (Mal. II B 72, 15-20).

Vediamo qui emergere un «quadro sintomatologico […] caratterizzato in


misura rilevante dalla paura»68 che ci fornisce altrove vari esempi di 'fobie
classiche': c'è l'individuo che ha paura di attraversare i ponti, quello che teme (ma
solo di notte) il suono della flautista. Le spiegazioni date dell'origine della paura
sono svariate: o di tipo endogeno, e quindi dipendenti dalla xynnoia (la capacità
della gnome di essere ricettiva di per sé), o di tipo psicofisico (spiegazione che
riguarda le paure come le altre emozioni che fanno parte del soggetto)69.
L'uscire di senno, come abbiamo anticipato all'inizio, il perdere il controllo di
sé, possono essere un fenomeno connesso con la melancholia e la frenite:

[…] I pazienti affetti da frenite rassomigliano molto ai melancolici nel loro delirio
(kata ten paranoian), per questo anche i melancolici, quando il loro sangue è squilibrato a
causa della presenza della bile e del flegma, hanno questo disturbo e sono come confusi
(paranooi ginontai), alcuni delirano anche (de kai mainontai) (Mal. I 30).

Oppure possono essere il sintomo degenerativo di una malattia diversamente


definita:

68 V. DI BENEDETTO, Il medico e la malattia. La scienza di Ippocrate, Torino 1986, p. 35.


69 Ibi, pp. 35-69.

39
Quando la perdita della parola si produce a seguito di uno stato di ubriachezza […] se
questo malato, aprendo gli occhi e mettendosi a parlare, ritorna in sé (par'heoutoi
genetai) e non divaga […] l'indomani guarisce. Ma se, alzandosi, vomita bile, è preso dal
delirio (mainetai) e muore generalmente entro cinque giorni […] (Mal. II 22).

In ogni caso, l'attenzione è concentrata sul mainesthai, quel generico delirare


che abbiamo individuato come meglio pertinente al nostro concetto di follia.
Nei trattati del Corpus, in conclusione, emergono spesso casi di fobie classiche
ma mai ricondotte a una sindrome precisa, e neanche è ravvisabile un sistema di
malattie psichiche ben definite. I sintomi di squilibrio mentale vengono per lo più
associati all'immagine di un malato stressato dalla sua stessa malattia, e quindi
particolarmente debole e sensibile a determinate situazioni emotive più o meno
patologiche. A parte il trattato Male Sacro, non vi è una consapevolezza di un
nesso specifico tra la follia e un determinato organo cognitivo. Tuttavia, rispetto ai
modelli di rappresentazione della follia tipicamente attestati nell'epica e nella
tragedia – in cui la malattia mentale è sempre ricondotta a una causa divina – i
medici del Corpus operano certamente un'innovazione: non è il dio a causare la
malattia, fisica o mentale, ma lo cause identificabili e interne al corpo umano, cioè
gli elementi stessi della costituzione fisica dell'individuo, oppure lo stile di vita
del paziente e la sua alimentazione70. La cura corrispondente consiste nel
riequilibrare un determinato regime, attraverso farmaci, esercizi fisici, alimenti
appropriati.

§3. L'anima e i suoi 'poroi'


Il trattato ippocratico Sul regime presenta elementi significativi di riflessione

70 Si veda P. van der Eijk sulla continuità che c'è invece fra medici e tradizione epica e tragica
(continuità che avrebbe fornito in tal senso importanti patterns of thought) quanto alla mancata
distinzione categoriale tra mente e corpo. «It is generally agreed that Greek medical writers of
the late fifth and early fourth century did not make a categorical distinction between mind and
body, or between mental and physical illness. And while being innovative in many other ways,
in this respect they adhered to existing patterns of thought as represented in Greek epic or
tragedy, where no such distinction is made either […]» (P. VAN DER EIJK, Cure and
(In)curability of Mental Disorders in Ancient Medical and Philosophical Thought, in HARRIS
(ed.), Mental Disorders in the Classical World, p. 311).

40
sulla malattia mentale 'localizzata' in un'anima materiale e soggetta quindi a una
spiegazione fisiologica. Sebbene parli di elementi e non di umori, suggerisce
corrispondenze efficaci con la tipologia di patologia mentale che abbiamo
delineato sulla base di Male Sacro71, nonché aspetti specifici di interesse.
Consideriamo in particolare il capitolo XXXV del libro I, che così inizia:
«Intorno all'intelligenza dell'anima (peri de phronesios psyches) e il suo contrario
(kai aphrosynes)» (Vict., I XXXV, 1 11-12). Notiamo subito nella presenza del
termine psyche quel possibile criterio di distinzione tra disturbi fisici e mentali di
cui siamo già andati alla ricerca, nonché la definizione di una condizione contraria
a quella dell'anima sana, l'aphrosyne, che segnala fin da subito l'attenzione del
medico per gli aspetti psichici della malattia.
Segue una lunga e importante discussione sulla teoria dell'intelligenza, della
sensazione e dell'anima. L'uso di termini connessi con la radice di phren- rinvia a
una nozione di 'intelligenza' che va nel senso di abilità e di performance cognitiva.
Non a caso, la teoria dell'intelligenza qui esposta è una teoria dei diversi tipi di
intelligenza: da cosa dipende questa diversità? È essa 'naturale' o, nel caso, può
essere corretta?
La diversità delle intelligenze individuali dipende dalla mescolanza (he
sygkresis aute aitie estin) (I XXVI 1, 20-21) di fuoco e acqua, elementi di cui sono
composti sia il corpo che l'anima: il corpo e l'anima sono quindi evidentemente
accomunati da una stessa composizione, uno stesso destino (entrambi possono
ammalarsi) e una stessa terapia72. In particolare, l'anima più intelligente e che
conserva la migliore memoria (phronimotate kai mnemonikotate) (I XXXV 1, 22-
23) è composta dalla mescolanza del fuoco più umido (puros to hygrotaton) e
dell'acqua più secca (kai hydatos to xerotaton) (1, 12-13).
L'anima è, dunque, materia composta da questi elementi, e in quanto materia si
muove nel corpo: la 'psicologia' in questione è piuttosto una fisica, che, in linea

71 Jouanna sottolinea la presenza di elementi in comune tra Male Sacro e Sul regime riguardo alla
tipologia binaria del delirio. Cfr. JOUANNA, The Typology and Aetiology of Madness, pp. 102-
103.
72 «La fisicità e materialità dell'anima comporta di conseguenza che tra fisico e psichico, tra stato
del corpo e stato dell'anima, ci sia stretta connessione […] una situazione patologica coinvolge
in uguale misura sia il corpo che l'anima» (ANDÒ, 'Psyche' e malattie psichiche, pp. 107-108).

41
con il quadro concettuale della tradizione della physiologia, concepisce le
sostanze e le qualità in movimento e mutamento all'interno dello spazio,
compreso quello corporeo. Il divenire biologico può essere espresso come il
risultato di movimenti in entrata e in uscita dal corpo: ta prosionta (ciò che entra)
e ta apionta (ciò che esce)73 sono le cause di tutti i fenomeni vitali, e
naturalmente, anche della salute e la malattia. È facile vedere come il corpo e
l'anima siano in un equilibrio precario, perché la loro salute dipende da un
movimento continuo: di cibi, di umori, di elementi, di caldo e di freddo, di flussi
che vanno in una direzione favorevole (kata physin) o sfavorevole (para physin).
Questo movimento, a sua volta, coinvolge quello più grande della natura e
dell'ambiente circostante l'uomo, in modo tale che i cicli del corpo umano
vengano assimilati a quelli della natura. Questa «physique du changement» 74 si
fonda quindi su cambiamenti di tipo qualitativo e dispiega una macrobiologia in
cui l'organismo uomo e i suoi processi vitali somigliano a quelli di una pianta.
Così la malattia, che nasce, cresce e muore con il malato.
La psyche del Regime «condivide la fisicità del corpo e ne segue
l'andamento»75, e penetrando nel corpo umano si accresce (auxetai) (I VI 3, 18). Il
suo movimento varia a seconda della tipologia di intelligenza, quindi della
sygkresis:

Con una mescolanza di fuoco e di acqua molto puri (eilikrinestatou), se il fuoco è di


poco inferiore (oligon) all'acqua, coloro la cui anima è così mescolata sono sì intelligenti
(phronimoi) ma meno dei precedenti 76, perché il fuoco dominato dall'acqua e producendo
un movimento lento [nell'anima] si porta (prospiptei) più lentamente verso le aistheseis.
Queste anime (hai toiautai psychai) sono sufficientemente costanti (paramonimoi) in
quello a cui si applicano (I XXXV 2, 1-7).

73 Questa coppia oppositiva è al centro dello studio di M. F. FERRINI, 'Ta prosionta'/'ta apionta':
ciò che entra nel corpo e ciò che ne esce. Utilizzazione e funzione di uno schema oppositivo
nel 'Corpus Hippocraticum', in A. THIVEL-A. ZUCKER, Le normal et le pathologique dans la
Collection Hippocratique, I, Actes du Xème Colloque Hippocratique, 1999, pp. 271-284.
74 Così definita in A. THIVEL, La valeur scientifique de la médecine hippocratique, in A. THIVEL-
A. ZUCKER (éds.), Le normal et le pathologique, pp. 349-427.
75 ANDÒ, 'Psyche' e malattie psichiche, p. 106.
76 Quelli la cui anima ha la mescolanza 'perfetta' di fuoco più umido e acqua più secca sono,
dunque, i più intelligenti.

42
È dunque in un'anima materiale che si trova l'intelligenza, ed è notevole che
alle notazioni sull'intelligenza si accompagnino notazioni sul carattere: la seconda
categoria di intelligenza è propria di un'anima più lenta, l'anima di coloro che
sono meno 'brillanti' ma determinati: «cette lenteur d'esprit est compensée par une
ténacité au travail»77.
La terza categoria di persone presenta una mescolanza in cui il potere del fuoco
è ancor più debole rispetto a quello dell'acqua: l'anima è più lenta della precedente
e coloro che possiedono una tale anima sono chiamati «sciocchi» (elithioi: 5, 5).
Segue un passo molto complesso in cui è spiegato perché quest'anima è più lenta;
qui trascrivo la traduzione che propone Jouanna:

Etant donné, en effet, que la révolution (de l'âme) est lente (hate gar bradees eouses
tes periodou78), les parcelles sensibles (hai aistheseis) n'ont qu'un court instant à chaque
fois pour s'y précipiter (prospiptousin) quand elles sont rapides et, par conséquent, ne
peuvent s'y mêler qu'en petite quantité à cause de la lenteur de la révolution (tes
periodou). C'est que les parcelles sensibles saisies par l'âme, quand elles pénètrent par le
canal de la vue ou de l'ouïe, sont rapides, alors que, quand elles y pénètrent par le canal
du toucher, elles sont plus lentes (bradyterai) et plus facilement saisies (euaisthetoterai)
(I XXXV 5, 5-10)79.

Il movimento proprio all'anima è dunque una rivoluzione e la conoscenza


sensibile avviene grazie all'incontro tra l'anima e le aisthesies80 (che Jouanna

77 La frase è di J. Jouanna in un importante articolo dedicato ai rapporti tra la teoria della


sensazione nel Regime, in Empedocle e nel Timeo platonico: J. JOUANNA, La théorie de la
sensation, de la pensée et de l'âme dans le traité hippocratique du 'Régime': ses rapports avec
Empédocle et le 'Timée' de Platon, «Aion», XXIX (2007), pp. 11-38.
78 Il termine periodos ricorre spesso nel trattato e designa una rivoluzione interna al corpo,
analoga a una rivoluzione astrale. La nozione di un movimento circolare dell'anima emerge
chiaramente in un altro passo del trattato: «L'anima dell'uomo, come ho detto, composta di
fuoco e acqua […] penetra in ogni animale che respira e naturalmente anche in ogni uomo,
giovane e vecchio. Non cresce (auxetai) in tutti allo stesso modo, ma nel corpo dei giovani in
cui il giro è rapido (hate tachees eouses tes periphores) […] essa brucia, diviene leggera […];
nei corpi dei vecchi in cui il movimento è lento (hate bradees eouses tes kinesios) […] essa si
consuma [...]» (I XXV 1, 1-10). Qui è esplicita una corrispondenza tra periphore e kinesis che
autorizza a pensare – rileva Jouanna – che anche altrove, come nel nostro caso, ove il
movimento è indicato con periodos, si tratta della rivoluzione dell'anima. Ne consegue una
visione concreta e dinamica dell'anima: essa, composta di fuoco e acqua, si muove, in
particolare effettuando delle rivoluzioni intorno al corpo.
79 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 21.
80 Traduco mantenendo di preferenza il termine greco aisthesies, in quanto, a mio avviso, un
corrispettivo vocabolo italiano risulta non poco problematico. Aisthesis è la facoltà della
sensazione in generale (teniamo presente che l'autore non fa distinzione tra sensazione e
percezione), e al plurale (qui nel testo come variatio ionica di aistheseis) può indicare sia le

43
traduce con parcelles sensibles) degli oggetti sensibili. Questi frammenti sensibili,
inoltre, se penetrano nei «canali» della vista e dell'udito sono più veloci, se
attraverso il canale del tatto, più lenti e più facilmente percepiti. Ne deduciamo,
sul piano gnoseologico, che un'anima lenta, per il suo movimento lento, non riesce
ad assimilare (Jouanna usa il verbo digérer81) tutti i frammenti sensibili degli
oggetti, e quindi la sua conoscenza è imperfetta. E, da un punto di vista
strutturale82, che è il fuoco a dare velocità al movimento dell'anima.
La nozione di canal, introdotta da Jouanna nella traduzione riportata poco
sopra, non trova nel passo un preciso corrispettivo, ma è giustificata dal passo
precedente, che riguarda la seconda categoria di individui (quelli "tenaci"). Qui si
fa infatti chiaro riferimento a dei poroi, e si inserisce inoltre un discorso
terapeutico e correttivo insieme: un discorso che incrocia patologia e physis,
laddove physis è intesa nel senso individuale83 e dunque coinvolge il carattere
della persona. Leggiamo:

Se il regime è corretto (ei de orthos diaitoito), si può diventare più intelligenti e più
acuti (oxyteros) di quanto la natura non abbia voluto […] bisogna praticare una corsa
sensazioni sia gli organi di senso. È da escludere a priori che si tratti di organi di senso, in
quanto l'autore ci dice che le aisthesies passano per i canali della vista, dell'udito e del tatto.
Resterebbe da tradurre con “sensazioni”, ma al lettore moderno risulta una traduzione
incomprensibile. Ancora una volta è il testo stesso che ci viene in aiuto, dicendo che non solo
le aisthesies si precipitano (prospipto) verso qualcosa, ma l'anima (o il fuoco che sta per
l'anima) a sua volta si precipita verso le aisthesies (cfr. XXXV 2, 3-5 in cui to pyr prospiptei
pros tas aisthesias).
Viene in aiuto, a questo punto, anche il confronto con dottrine presocratiche: sappiamo che
Empedocle e in minor misura Anassagora e Democrito elaborarono dettagliate teorie della
percezione e della conoscenza, basate sul presupposto che i sensi offrono una visione non del
tutto ingannevole delle cose (in questa prima fase la conoscenza è incerta, ma i sensi
forniscono la chiave per l'interpretazione di ciò che è invisibile). Per Empedocle, in particolare
(a questo proposito si veda JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, pp.
19-26), da tutti gli oggetti sensibili si staccano effluvi materiali, che passano attraverso i poroi,
cioè passaggi del corpo: «(O come affermerebbe Empedocle, che effluvi (aporrhoas) si
dipartirebbero da ciascuna delle cose […] )» (DK 31 B 109a). Gli effluvi sensibili sono, quindi,
composti di piccole parti che si staccano dall'oggetto.
81 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 20.
82 È proprio Regime che autorizza l'uso di questa espressione, che vuole corrispondere alla
nozione greca di kosmos: «Ogni cosa, e particolarmente l'anima dell'uomo, e il corpo come
l'anima, hanno una struttura (diakosmeitai)» (VI 1, 17-18).
83 In linea con la precisazione dell'autore di Epidemie I per cui la sfera d'azione del medico
abbraccia la natura koine, quella cioè comune a tutti gli uomini, e la natura idie, quella propria
a ciascun individuo: « […] imparando dalla natura comune a tutti (ek tes koines physios
hapanton) e dalla natura particolare dell'individuo (kai tes idies hekastou), dalla malattia, dal
paziente […] » (Epid. I, XXIII).

44
rapida affinché il corpo si svuoti di umidità. Non è conveniente invece fare la lotta […]
perché i pori essendo più incavati (ton poron koiloteron), non si riempiano (plerontai)
dell'eccesso (plesmones), nel qual caso è inevitabile che il movimento dell'anima (tes
psyches ten kinesin) si appesantisca (barynesthai). È utile […] al mattino [fare delle
passeggiate] affinché i passaggi (hai diexodoi) si svuotino (kenontai) dell'umidità e i pori
dell'anima (hoi poroi tes psyches) non si ostruiscano (me phrassontai) […] (2, 7)-(3, 10-
20).

La cura prevede l'usuale abbinamento di esercizi e dieta, ed è naturalmente una


cura che provvede al riequilibrio del corpo e dell'anima insieme: infatti, una volta
svuotato il corpo di umidità, i passaggi attraverso cui l'anima scorre e si muove
sono meno pieni di eccesso e il movimento è più agile. Ricordiamo che anche per
gli sciocchi di I XXXV 5, 5 è previsto un miglioramento84, sempre attraverso un
buon regime.
Proseguiamo con l'ultima delle mescolanze che vede il fuoco dominato
dall'acqua: se questa predominanza avviene in massima parte, la caratteristica di
tali individui è di essere insensati (aphrones) o dementi (embrontetoi).

La loro follia (he manie toiouton) va di pari passo a una grande lentezza (epi to
bradyteron). Questi piangono senza motivo, temono ciò che non è da temere, si
affliggono a sproposito e non percepiscono in realtà nulla come conviene alle persone
sensate (tous phroneontas) (I XXXV 7, 1-5).

« […] C'est la folie dépressive des gens hébétés et angoissés qui sont dans un
état de prostration totale: ils sont comme frappés du tonnerre (embrontetoi)»85: qui
84 In particolare, l'incapacità degli sciocchi e il loro deficit cognitivo sono riportati alla pachytes
dell'anima (dia pachyteta) (I XXXV 6): l'intelligenza poco acuta (dovuta a un movimento
dell'anima lento) non consente loro di percepire le qualità dell'oggetto connesse alla vista e
all'udito. Ricordo qui un parallelo degno di nota: in Affezioni interne vi è la descrizione di uno
stato di alterazione psicofisica, un disturbo definito 'spesso' (pachy). Questo disturbo,
curiosamente, colpisce maggiormente i sensi della vista e dell'udito, li indebolisce e li altera:
«Proviene dalla bile, quando la bile affluisce al fegato e si pone sulla testa. (Il paziente) soffre
dunque di questi disturbi: il fegato si gonfia e per via del gonfiore si piega contro il diaframma,
e subito un dolore viene alla testa e soprattutto alle tempie; l'udito non è acuto, e spesso
(l'ammalato) non vede; lo prendono brividi e febbre […] Col procedere della malattia la
sofferenza si fa più acuta nel corpo, le pupille si dilatano, (l'ammalato) ha la vista annebbiata e,
se gli si mette un dito davanti agli occhi, non se ne accorge, perché non ci vede […] Strappa fili
di lana dalla coperta, credendo che siano pidocchi. Quando il fegato si piega ancora di più
verso il diaframma, allora delira (paraphroneei). Gli sembra di vedere rettili, bestie selvagge di
ogni tipo e opliti che combattono […]» (48).
85 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 14.

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sembrerebbe essere prevista una terapia, ma non un decisivo miglioramento.
Quando il predominio del fuoco sull'acqua è debole, le persone sono
intelligenti e hanno un'anima virtuosa (agathe) (8, 12): anche queste persone
possono migliorare con un regime corretto, peggiorare con uno scorretto. Se,
invece, l'acqua è dominata maggiormente dal fuoco, l'anima è naturalmente più
veloce e più viva ma è meno stabile (hesson monimon) delle precedenti «perché
distingue più velocemente quello che le si presenta e si porta verso più oggetti,
vista la sua rapidità (dia tachyteta)» (9, 1-3). Noi diremmo che il soggetto è
incapace di mantenere la concentrazione e 'dispersivo' 86: in particolare, qui, a
causare il disturbo è l'abbondanza di carne (pros sarkos euexien) (10, 11) che
favorisce l'infiammazione del sangue. La soluzione migliore, in questo caso, è
prescrivere un regime dimagrante.
Veniamo all'ultima categoria, in cui il predominio del fuoco è estremo.
Quest'anima è troppo viva (oxea he toiaute psyche agan) (11, 19): è
un'intelligenza in cui si ha una sovrapproduzione di immagini, una fantasia
illimitata. Pertanto, queste persone hanno gli incubi (oneirossein) e sono affette da
quella che chiameremmo follia allucinatoria. «Chiamiamo queste persone dei
semi-folli (hypomainomenous): infatti una tale costituzione è molto vicina alla
follia (engista manies to toiouton)» (11, 20-21). Osserva, qui, opportunamente,
Jouanna:

Ce qu'il y a de remarquable, c'est que l'auteur a donné au vocabulaire abstrait de la


psychologie un support concret. La vivacité ou la lenteur d'esprit correspondent en fait à
la vitesse ou à la lenteur de l'âme, mélange de feu et d'eau qui tourne en circuit fermé
dans le corps87.

Riassumendo, si può ragionevolmente parlare non solo di varietà di


intelligenze ma anche di diversi gradi di performance88. L'autore spiega queste

86 Jouanna traduce piuttosto con légers: c'è certamente una parte di superficialità nel giudizio di
chi considera le cose senza soffermarvisi più di tanto.
87 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 18.
88 Questa la prospettiva di P. VAN DER EIJK, Modes and Degrees of Soul-Body Relationship in 'On
Regimen', in L. PERILLI-C.BROCKMANN-K.-D. FISCHER-A. ROSELLI (ed.), Officina Hippocratica,
Berlin-New York 2011, pp. 1-13.

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variazioni anche in termini di stabilità e movimento. Ma non spiega tutte le
possibili variazioni, illustrandone solo sette:

Ecco dei caratteri che non hanno per causa la mescolanza (di fuoco e acqua) (he
sygkresis): irascibilità, indolenza, astuzia, semplicità, malevolenza, benevolenza. Di
questi caratteri la causa è la natura dei pori attraverso cui l'anima scorre (he physis ton
poron di'hon he psyche poreuetai). Si hanno variazioni a seconda dei vasi (angeion)
attraverso cui l'anima passa, a seconda degli oggetti che essa incontra, a seconda di ciò a
cui si mescola. Ecco perché non è possibile cambiare tali inclinazioni con il regime: non
si può infatti plasmare una natura invisibile (physin aphanea) (XXXVI 2, 26-7).

Per questa conclusione enigmatica non possiamo servirci di altri passi del
trattato dove si parla della conoscenza dell'invisibile, e possiamo solamente
avanzare delle ipotesi. Una risposta potrebbe trovarsi nel fatto che per questi
caratteri, visto che non sono dati dalla mescolanza di fuoco e acqua, non è
prevista la cura che è invece prevista per le mescolanze sopra descritte. Non
sarebbe adatta una terapia volta a cambiare il regime o a fare praticare esercizi
fisici: è forse qui ipotizzato, sia pure per negarne la possibilità concreta, un
trattamento di tipo 'morale'? una terapia che più specificamente volge la sua
attenzione agli aspetti del carattere dell'uomo?
Per una comprensione di questo passo van der Eijk punta su una prospettiva
più ampia, riguardante l'intera relazione anima-corpo che emerge dal Regime:
«Thus it is possible to read On Regimen as a consistent account of the soul and its
varying relationship to the body […]»89. Se dunque la relazione anima-corpo è
variabile occorrerà ammettere che non c'è sempre una stretta connessione tra
anima e corpo.
Nel quarto libro del trattato, quello riguardante i sogni, è in effetti descritto
l'allentamento di tale legame che ha luogo nel sonno: infatti, in un passo che tratta
dei sogni troviamo quanto segue:

[…] quando il corpo è sveglio, l'anima è il suo servo: è divisa tra molte parti del corpo
e non si occupa mai di se stessa, ma assegna una parte di sé a ogni parte del corpo […]

89 VAN DER EIJK, Modes and Degrees of Soul-Body Relationship in 'On Regimen', p. 12.

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Tuttavia, quando il corpo riposa, l'anima […] da sola porta a termine le azioni del corpo
[…] vede ciò che è visibile, ascolta ciò che è udibile, cammina, tocca, prova dolore,
pondera, stando solo in un piccolo spazio (Vict., IV90 LXXXVI 1-2).

Viene qui descritta l'esperienza onirica, in termini che fanno intendere che i
processi relativi all'anima e al corpo vanno dai 'più fisici' ai 'meno fisici'. Il sogno
è un caso in cui la relazione dell'anima con il corpo è meno forte, perché il corpo e
la sensazione 'dormono'. Anche se non è esplicitata una topica delle parti
dell'anima e non sappiamo dove si trova l'anima quando è da sola, raccolta in se
stessa, possiamo ipotizzare che sicuramente nel sogno non è disturbata dalle
aisthesies che entrano nei suoi poroi. In ogni caso: «this is still something
happening within the body, not a kind of temporary, 'ecstatic' departure by the soul
from the body»91.
Il nesso anima-corpo emerso dalla lettura del Corpus, nonché alcune nozioni
particolari ritrovate in Male Sacro e in Regime, rivestono un'importanza notevole
per la prospettiva platonica sulla follia. Del resto, l'interesse di Platone nei
confronti della medicina investe una problematica più ampia e più definita, e la
follia acquista soprattutto un significato filosofico.

90 Sin dall'antichità il libro IV è stato percepito come un testo a parte rispetto al resto dell'opera e
addirittura effettivamente separato nelle edizioni dai libri I-III, con il titolo Peri enypnion (Sui
sogni). Oggi l'unità del trattato Sul Regime è ampiamente accettata dagli studiosi, sebbene non
manchino innegabili differenze tra il Libro IV e il resto dell'opera.
91 VAN DER EIJK, Modes and Degrees of Soul-Body Relationship in 'On Regimen', p. 13.

48
II . La medicina e Platone, la medicina di Platone

§1. Sulla 'techne' medica (ippocratica e platonica)


La nozione di salute e malattia percorre il pensiero di Platone in maniera così
incisiva che alcuni studiosi ne hanno fatto il punto più alto della sua riflessione.
Fra costoro, Werner Jaeger ha colto ben presto il giusto senso che ha per Platone
il sapere che se ne occupa, ovvero la medicina: grazie al suo congiungersi di
solido impianto teorico e saldo ancoraggio all'esperienza, essa è l'esempio più alto
di scienza dell'uomo nel suo essere una dottrina altamente specializzata ma anche
accompagnata da un forte ethos professionale92. In questa interpretazione vediamo
riecheggiare le posizioni di quella medicina che chiamiamo ippocratica,
intendendo con questo termine un complesso di sapere dalle diramazioni variegate
che si colloca, nel periodo compreso tra la seconda metà del V e la prima metà del
IV secolo a. C., in un momento generale di maturazione del pensiero scientifico
greco93.
In questa sede mi propongo di esaminare in prima istanza i riferimenti alla
medicina in Platone e a questa medicina ippocratica, con attenzione specialmente
alla fisiologia e alla patologia in generale, e ai disturbi mentali in particolare. Tali

92 W. JAEGER, Paideia, Firenze 1959, III, p. 3.


93 Ippocrate, figlio di Eraclide, nacque a Cos nel 460/59 a. C. e apparteneva alla famiglia degli
Asclepiadi, nella quale era tradizionalmente praticata l'arte medica. Sappiamo che morì in
Tessaglia in età avanzata. A lui è attribuito un corpus di scritti (circa una settantina di trattati, il
numero varia in base alle differenti divisioni operate) in dialetto ionico, cronologicamente
compresi tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a. C., che prende il nome di
Corpus Hippocraticum (o Collezione Ippocratica). Tuttavia, l'unico nesso abbastanza sicuro tra
un'opera del Corpus e il suo autore è quello tra il trattato Natura dell'uomo e Polibo, discepolo
e genero di Ippocrate. Si tende, dunque, a rinunciare a individuare quali sono le opere
genuinamente ippocratiche, e si suole riferirsi a questa collezione come a un 'canone' di testi
medici con una orientativa collocazione temporale. Tenere presente che queste opere sono state
scritte da autori diversi, e che all'interno del C. H. stesso è possibile reperire una forte varietà
concettuale sia nella sincronia che nella diacronia, invita ad affrontare con maggiore
consapevolezza critica il materiale in questione.
Per un quadro esaustivo della medicina ippocratica e dei suoi metodi, si veda IPPOCRATE, Testi
di medicina greca, Milano 1983; J. JOUANNA, La nascita dell'arte medica occidentale, in Storia
del pensiero medico occidentale, Roma 1993, I, Antichità e Medioevo, pp. 3-72; S. GIUROVICH,
Problemi e metodi di scienza ippocratica. Testi e commenti, Bologna 2004; V. NUTTON, Ancient
medicine, Oxon 2013.

49
riferimenti sono infatti numerosi e concettualmente impegnativi, non si limitano
cioè a essere mere 'testimonianze'. Da un lato, è ovvio, forniscono informazioni
importanti per la comprensione del clima intellettuale in cui Platone scriveva: un
clima che presuppone il fiorire culturale dell'epoca di Pericle, crocevia di
tradizioni come quella eleatica e anassagorea, terreno favorevole per l'incontro tra
la retorica sofistica, la dialettica socratica e la storiografia tucididea, e per il
dibattito sulle technai. D'altronde, le nozioni mediche vengono da Platone
'trasposte' e rielaborate in proprio venendo a formare un tessuto relativamente
organico, sia che la medicina sia introdotta in via analogica con altre technai, sia
che si faccia riferimento a elementi del sapere medico stesso. Non deve
sorprendere che considerazioni di carattere medico si ritrovino in un filosofo, in
quanto il mondo greco arcaico e classico era ben lontano dalla specializzazione
della nostra epoca94. In ogni caso gli interessi di Platone e le sue conoscenze in
campo medico sono così precise da spingerci a non vedere nelle sue
concettualizzazioni solo riecheggiamenti di altri autori medici. Una lettura
accurata ci mostra, anzi, che Platone si può inserire a buon titolo nella storia della
medicina antica95.
Nei dialoghi cosiddetti giovanili o socratici96 i riferimenti alla medicina
prendono forma nel contesto della critica ai saperi riconosciuti nella città e della
ricerca di un metodo di conoscenza obiettivamente valido. Nell'Apologia Socrate
connette gli inizi della propria pratica di discussione con l'indagine del sapere di
politici, poeti e lavoratori manuali. Ha scoperto allora che i primi due gruppi

94 Nell'antichità non c'era un titolo legalmente riconosciuto che legittimasse chi era medico e chi
no, e la maggior parte dei malati si curava da sola o con l'aiuto dei parenti. La figura del
medico che emerge è quella di un professionista itinerante: egli appartiene alla categoria dei
demiourgoi, cioè di coloro che lavorano per il demos, e si sposta da un posto all'altro.
95 È notevole, da questo punto di vista, che le teorie mediche del Timeo siano riportate dall'autore
dell'Anonymus Londinensis (XIV [12], 27, XVIII, 7) sullo stesso piano di altri autori del
settore, Ippocrate incluso.
96 La cronologia comunemente accettata di questi dialoghi va dalla morte di Socrate (399 a. C.) al
primo viaggio in Sicilia (390-389 a. C.) e comprende: Apologia, Critone, Eutifrone, Ione, Ippia
Maggiore, Ippia Minore, Lachete, Liside, Carmide, Alcibiade I, I libro della Repubblica,
Protagora. Le indicazioni di Platone, inoltre, ambientano i dialoghi più importanti negli anni
dal 432 al 420 a. C. circa, ovvero in un arco di tempo in cui erano presenti in Atene
Anassagora, Ippocrate e i maggiori sofisti. La presenza di Socrate e dei dibattiti culturali
nell'Atene della seconda metà del V secolo erano evidentemente ancora ben vivi quando
Platone ha iniziato a scrivere.

50
risultano possedere un sapere falso: per molti uomini essi sono sapienti e di sicuro
anche per loro stessi, ma in realtà non lo sono perché credono di sapere pur non
sapendo (oietai ti eidenai ouk eidos) (21c-22c). Quando l'indagine ha coinvolto i
cheirotechnai Socrate si è accorto però che, sebbene essi si mostrino poi poco
consapevoli dei limiti della loro arte, conoscono molto bene (epistanto) delle cose
che lui non conosce e in questo lo superano in saggezza (22d). Ai tecnici viene
dunque attribuito uno status di competenza relativamente a ciò di cui si occupano,
nonostante la loro fama di essere uomini da poco.
La medicina in particolare, sin dagli inizi della sua comparsa nei dialoghi
platonici, è considerata una techne altamente specializzata, in stretta connessione
con la dietetica97. Per Socrate, come per il giovane Platone, la medicina acquista
presto, dunque, un valore più specifico, differenziandosi dalle altre technai e
anche all'interno del suo stesso campo: la nascita di questo nuovo concetto di
techne e di techne medica suggerisce dunque la presenza di un approccio critico,
di una scelta orientata verso una tendenza piuttosto che un'altra. Una
testimonianza utile a chiarire le ragioni delle 'scelte' platoniche si trova nel
Protagora, là dove Socrate chiede a Ippocrate perché intende frequentare a
pagamento le lezioni di Protagora98. Chi insegna offre, dietro compenso,
l'apprendimento di una techne: così chi va da Policleto o da Fidia paga per
diventare scultore, e se Ippocrate pagasse un compenso al suo omonimo Ippocrate
lo farebbe per imparare l'arte medica:

SOCRATE: Dimmi, Ippocrate, ora ti accingi a recarti da Protagora e a offrirgli del


denaro come compenso perché si occupi di te: lo fai pensando di andare da chi e di
diventare che cosa? Come se tu decidessi di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos,
uno degli Asclepiadi, offrendogli del denaro come compenso perché si occupi di te, e
qualcuno ti chiedesse: “Dimmi, Ippocrate, tu intendi pagare un compenso a Ippocrate,
perché è... chi?” Che cosa risponderesti? IPPOCRATE: Gli direi, rispose, che lo faccio
perché è medico. SOCRATE: Quindi per diventare che cosa? IPPOCRATE: Medico, rispose.
SOCRATE: Ma io incalzai: E se decidessi di andare da Policleto di Argo o da Fidia

97 Tale connessione è un dato interessante ma problematico, come vedremo, che ci rimanda


immediatamente alla medicina ippocratica e viene mantenuto anche negli sviluppi teorici dei
dialoghi della maturità e tardi come la Repubblica e le Leggi.
98 Per uno studio critico che tenga conto sia della complessità delle teorie mediche elaborate fra
V e IV secolo a. C. sia dello sviluppo del pensiero di Platone, ho fatto riferimento a M.
VEGETTI, La medicina in Platone, «Rivista Critica di Storia della Filosofia» I (1965), pp. 1-37.

51
l'Ateniese e di offrir loro un compenso perché si occupino di te, se qualcuno ti chiedesse:
“Intendi offrire questo denaro a Policleto e a Fidia perché sono chi e che cosa?” cosa
risponderesti? IPPOCRATE: “Perché sono scultori”, risponderei. SOCRATE: E per diventare
che cosa? IPPOCRATE: Evidentemente uno scultore (311b-c).

Il passo sembra confermare che Ippocrate insegnava medicina dietro


compenso, e sottintende comunque che questi era riconosciuto ad Atene come
maestro di questa techne. In qualche modo Platone compie una scelta tra i vari
medici autorevoli del suo tempo. Poco più avanti, infatti, il medico Erodico di
Selimbria, originario di Megara, viene considerato un «sofista travestito»,
addirittura «non inferiore a nessuno» (316d): Platone sembra dunque separare
dall'ambito specialistico della techne medica quella cosiddetta “medicina
sofistica” che Bourgey fa propria dei médecins raisonneurs99 (hoi ietroi
sophizomenoi). I medici oratori dovevano occupare un posto molto importante
nella società ateniese (e, possiamo presumere, in altre città greche di avanzato
livello culturale), e potevano essere percepiti simili ai sofisti perché la loro attività
era legata principalmente alla produzione e recitazione di discorsi. La funzione
dei dei discorsi medici non doveva essere univoca: essi potevano avere un ruolo
ausiliario rispetto a una tecnica medica già solida, oppure costituire il fulcro stesso
della professione medica. Entrambi i ruoli potevano essere considerati sullo stesso
piano: «Entre une affirmation médicale résultant d'un raisonnement rigoureux
fondé sur les faits, et une autre affirmation qui fait appel surtout au jeu subtil de la
dialectique, la moyenne des intelligences est embarrassée pour choisir» 100. Ed era
comunque usanza ai tempi di Ippocrate che, davanti a cerchie più o meno estese, i
medici facessero degli exposés accuratamente preparati e si sfidassero.
L'importanza di queste dispute era dovuta al fatto che non esisteva alcun criterio
ufficiale che stabilisse a priori la validità del sapere medico. In questa prospettiva
si comprende meglio l'attenzione di Platone a che il sapere medico fosse completo
sia dal punto di vista della forma teorica che da quello del riferimento
all'esperienza, così come si comprende meglio, per esempio, il riferimento ai
99 L. BOURGEY, Observation et expérience chez le médecins de la Collection Hippocratique,
Paris 1953, p. 121.
100 Ibi., p. 120.

52
discorsi della medicina nella discussione fra Socrate e Gorgia:

SOCRATE: Non tutti i discorsi sono, dunque, oggetto di retorica. GORGIA:


Evidentemente no. SOCRATE: Eppure essa rende abili a parlare. GORGIA: Sì. SOCRATE: Ma
anche a pensare su ciò di cui si discorre? GORGIA: Certo! SOCRATE: Ma anche la medicina,
di cui ora parlavamo, non rende abili a parlare e a pensare sugli ammalati? GORGIA: Per
forza! SOCRATE: Anche la medicina, dunque, sembra abbia a suo oggetto discorsi.
GORGIA: Sì. SOCRATE: I discorsi sulle malattie? GORGIA: Esattamente (Gorg., 449e-450a).

In ogni caso, il vantaggio tecnico della medicina è di avere a che fare con un
campo chiaramente circoscritto, quello della patologia del corpo. In tal senso
sembrano convergere l'affermazione di Socrate appena esposta e la definizione
della medicina che si legge nel trattato ippocratico Sull'arte, un trattato di chiara
impronta sofistica101:

In primo luogo definirò ciò che ritengo essere la medicina: in prima approssimazione,
liberare i malati dalle sofferenze e contenere la violenza delle malattie, e non curare chi è
ormai sopraffatto dal male, sapendo che questo non può farlo la medicina (III, 1-10) .

Come si evince subito, la medicina ha un ruolo eminentemente strumentale ed


è confinata alla terapeutica, «mentre le questioni del 'primo sapere' vanno relegate
ad 'altri discorsi'»102. In un altro dialogo, dove pure si pone il problema di un
'primo sapere', Platone offre una diversa definizione della medicina:

SOCRATE: Che dunque possiede un sapere, questo potrà sapere il saggio del medico;
ma dovendo accertare di quale sapere si tratti, che cos'altro andrà osservato se non ciò su
cui verte? Non è così che di ogni sapere si può definire non solo che è un sapere, ma
anche quale sapere è, cioè mediante i suoi oggetti? CARMIDE: Certo, così. SOCRATE: E la
medicina è stata definita come diversa dalle altre scienze per il fatto di essere la scienza
della salute e della malattia (he iatrike de hetera einai ton allon epistemon horisthe toi
tou hygieinou einai kai nosodous episteme) (Charm., 171a ).

101 Più precisamente, il Peri technes appartiene ai trattati del C. H. con una marcata impronta
teorica, ma, rispetto agli altri, possiede una struttura formale eccezionalmente 'controllata' e
'studiata', tanto da indurre gli studiosi a ipotizzare che non sia stato scritto da un medico, ma da
un sofista vicino ad ambienti medici. Cfr. R. LO PRESTI, Il sapere del malato nel trattato
ippocratico 'Sull'arte', «Medicina nei secoli. Arte e scienza», 19/3 (2007), p. 706.
102 Così Vegetti in IPPOCRATE, Opere, a cura di Mario Vegetti, Torino 1965, pp. 461-462.

53
Qui è mostrato efficacemente quale autonomia ha il sapere medico: la medicina
ha una sua struttura epistemica che consiste nell'essere vincolata a un oggetto
(distinto da essa, se non vuole solo risultare mero 'sapere di sapere') ma nel
contempo separata da esso nel metodo. Il passo appena citato si inserisce infatti in
un discorso più ampio, quello del kriterion della medicina. L'unico a potere
decidere della validità di una techne è il possessore stesso della techne di volta in
volta in questione: solo il medico potrà giudicare (krinein) della sua arte, in
quanto il suo sapere è relativo al campo di esperienza della salute e della malattia.
Una techne è tale se l'oggetto del suo sapere è limitato e se possiede un criterio
autonomo di giudizio.
Il concetto platonico di techne integra aspetti teoretici, pratici e valutativi.
Infatti esso implica la conoscenza di un campo specifico del sapere, e tale
conoscenza è orientata a un fine specifico, che è produttivo, e può essere
insegnata. La riflessione di Platone in tal senso trova i suoi riferimenti portanti in
alcuni scritti del Corpus Hippocraticum e, per approfondire e chiarire meglio il
senso di questa relazione, è utile un interessante articolo di Bjørn Hofmann in cui
viene compiuta un'analisi del concetto di techne mostrandone gli sviluppi e gli usi
nella moderna medicina103.
Nella prima parte di questo studio, in particolare, l'autore argomenta che il
concetto specifico di techne iatrike rintracciabile in alcuni scritti del Corpus
Hippocraticum104 presuppone un concetto generale di techne105. Emerge che la
103 B. HOFMANN, Medicine as a 'techne'. A perspective from antiquity, «Journal of medicine and
philosophy», 28 (2003), 4, pp. 403-425.
104 I trattati maggiormente considerati sono: Sull'arte, Sul regime delle malattie acute,
Prognostico, Antica Medicina, Il giuramento, Sulle arie acque luoghi, Male sacro, Aforismi,
Natura dell'uomo.
105 Alessandra Fussi distingue più precisamente tra il concetto generale di techne in senso forte
(espresso nel concetto platonico di techne del Gorgia) e il concetto di techne stocastica (di cui
portavoce è l'autore del trattato ippocratico Sull'arte). Nel Gorgia, infatti, Socrate sostiene che
la retorica non è una techne ma è una empeiria: essa non rispecchia dunque quei criteri che
appartengono al concetto 'forte' di techne, quali il possesso di un campo specifico di sapere,
l'orientamento verso un fine specifico, una sua identità e unicità, l'insegnabilità, l'affidabilità
rispetto alla sua capacità di produrre risultati universali e necessari. Queste caratteristiche le
ritroviamo bene in alcune arti produttive o in arti rette da principi universali e necessari, come
la matematica, ma non si addicono né alla techne medica né alla retorica. Del resto anche il De
arte, come abbiamo visto, difende la medicina proprio in quanto techne in un senso diverso da
quello forte. La particolarità della medicina come 'techne a sé' ha a che fare con la complessità

54
medicina ippocratica ha come oggetto il corpo malato (come abbiamo visto nel
De arte), e il suo scopo è guarirlo dalla malattia, tanto che se la guarigione non è
possibile il medico deve astenersi dall'intervenire. Il medico aiuta dunque il
paziente a liberarsi dai mali del corpo 106 e in più ristabilisce il kosmos del corpo,
manipolandolo il meno possibile, quasi ponendosi come la controparte umana
della natura. Il medico può solo fare bene al corpo del paziente, grazie non solo
alla conoscenza generale delle proprietà dei farmaci, ma anche avendo
complessivamente cura del paziente con cui ha a che fare. Intrinsecamente legata
al fine della medicina è la terapeutica, nella quale consiste il prodotto della techne
medica. L'astensione del medico nel caso di un malato grave è in connessione con
l'intervento di un altro fattore, la tyche, che assume così un doppio significato. In
quanto riferita a una casualità dell'azione del medico, essa è inammissibile: la
tyche si colloca proprio all'opposto della techne, il medico come tale non agisce a
caso. In quanto riferita all'effettiva accidentalità dei processi naturali, invece, la
tyche fa parte del raggio di possibilità che il medico deve considerare. Sia la

del suo oggetto: il corpo, nonché l'animo umano, dato che il medico si trova a dovere interagire
con un soggetto, tanto quanto con un corpo (e di certo non un corpo inanimato, quale può
essere l'argilla o il numero). «È sbagliato pretendere dalla medicina gli standard di precisione,
universalità e infallibilità […] La medicina è una scienza 'stocastica' legata alla contingenza
[…] Un sapere, ovviamente, che si arresta consciamente al di qua dell'universalità, al livello
del 'per lo più'» (ALESSANDRA FUSSI, Retorica e potere. Una lettura del 'Gorgia' di Platone, Pisa
2006, pp. 137-138).
106 In che misura il medico «aiuta il paziente a liberarsi del suo male»? Il Peri technes fornisce
una risposta apparentemente contraddittoria. L'autore del trattato, infatti, in un primo momento
polemizza apertamente contro coloro che negano la validità della techne medica richiamandosi
ai pazienti che guariscono pur non avendo fatto ricorso alla medicina. La risposta a questi casi
di 'guarigione naturale' trova una sua logica nel fatto che si sono comunque imbattuti nella
medicina, perché pur senza conoscere perché determinati rimedi sono stati efficaci nella cura di
alcuni malanni, hanno in qualche modo riconosciuto che cosa ha giovato loro e cosa ha
nuociuto (De arte, V 2-4). Più avanti, però, laddove il nostro autore non può negare che alcuni
pazienti muoiano pur facendo ricorso alla medicina, l'argomentazione è nuovamente
strutturata: i malati sono fondamentalmente incapaci di conoscere la natura del loro male e
possono (ed è quello che succede a coloro che muoiono) travisare o trascurare le prescrizioni
del medico (VII). Pur essendo al limite della contraddittorietà e quindi manifestamente
ambigua, la posizione dell'autore ha una sua coerenza e validità: il medico, in quanto
possessore di un sapere tecnico, è l'unico in grado di conoscere le cause delle malattie e i modi
per guarirle. Ricordiamo che il suo metodo procede dal 'visibile' all' 'invisibile', mentre il
paziente, essendo coinvolto in prima persona non può in nessun modo avere la percezione di
ciò che si 'nasconde' dietro il suo male, e perciò, proprio nel non affidarsi al medico, nuoce a se
stesso (anche se è certamente possibile che diventi in grado di riassumere la sua esperienza in
una serie di comportamenti negativi o positivi per la sua salute). Tale consapevolezza della
complessità dei processi psicopatologici nell'autore del De arte emerge dallo studio di LO
PRESTI, Il sapere del malato nel trattato ippocratico 'Sull'arte', pp. 705-715.

55
techne, sia la natura hanno dei limiti e chiunque non comprendesse ciò è da
considerarsi folle:

Infatti se un uomo pretende da un'arte che essa abbia potere su ciò che non rientra nei
confini di tale arte, o dalla natura che il suo potere sia al di sopra di quello che è, la sua
ignoranza (agnoian) è più simile alla follia (maniei) che alla mancanza di conoscenza
(amathiei) (De arte, VIII, 10-13).

Come anche Hofmann sottolinea, sebbene non emerga negli scritti del Corpus
in modo univoco né omogeneo, l'atteggiamento del medico ippocratico tende ad
avere un carattere razionale, che esclude la presenza del soprannaturale nella
malattia. Un trattato rappresentativo in tal senso è Male Sacro, che è al tempo
stesso testimone della diffusione di una visione magica della malattia nella Grecia
del V secolo a. C. In particolare il trattamento dell'epilessia, non a caso chiamata
hiera nosos, riflette una posizione superstiziosa (e sopravvisse per molto tempo la
credenza che l'epilessia fosse causata da un intervento demonico)107, e l'incipit
dello scritto è chiaro nella sua duplice intenzione: smascherare i falsi tecnici e
dimostrare per mezzo di una spiegazione basata sulla natura stessa della medicina
la validità della medicina per la cura del male:

Così stanno le cose a proposito della cosiddetta malattia sacra (peri tes hieres nousou
kaleomenes). A me non sembra affatto che sia più divina (theiotere) né più sacra
(hierotere) delle altre malattie, ma come anche le altre malattie, essa ha una causa
naturale (alla physin men echei) e da essa deriva. Gli uomini invece la considerano divina
per la loro incapacità (hypo apories) e per il suo carattere straordinario (thaumasiotetos),
perché non assomiglia in nulla alle altre» (1-3).

Platone, rispetto al problema della curabilità e del sapere del medico in quanto
technites, fa un passo ulteriore: il medico grazie alla sua competenza conosce il
modo non solo di fare del bene al corpo, ma anche di nuocergli. Proprio solo
perché capace di procurare del bene come di toglierlo, la medicina può definirsi

107 «Quello che fa di queste pagine un documento così singolare e pressoché unico nella
letteratura greca classica è che esso descrive con precisa caratterizzazione alcune figure di
guaritori, medicine-men, e di maghi della pioggia, rain-makers (di “sciamani”, per servirci di
un termine piuttosto improprio, ma ormai invalso), all'opera e con un loro seguito in Grecia sul
finire del V secolo» (G. LANATA, Medicina magica e religione popolare in Grecia. Fino all'età
di Ippocrate, Roma 1967, p. 20).

56
scienza della salute e della malattia. Questa concezione non si ritrova né nei
trattati medici di carattere sofistico, come il De arte, né nell'ambiente dei
physiologoi108, che riportavano la medicina a postulati cosmologici e basavano la
terapeutica su un principio di analogie di macrocosmo e microcosmo. La
trattazione platonica concepisce invece la medicina come una scienza
dell'organismo umano nel suo insieme, per cui la techne iatrike si spinge fino a
essere una biologia umana. E una simile riflessione si può riscontrare anche in un
importante trattato del Corpus: Antica Medicina.
Sintesi rappresentativa di nuove consapevolezze, non tanto riguardanti la
terapeutica, quanto lo sviluppo e i metodi della medicina, Antica Medicina è un
trattato ippocratico (risalente approssimativamente al 430/420 a. C.) di impronta
polemica, considerato il 'manifesto' della scienza nuova. In esso l'autore specifica
l'oggetto e lo statuto della techne medica, come un sapere che ha per oggetto
l'uomo e può vantare una sua autonomia. In particolare lo scritto si rivolge contro
quei physiologoi che ritenevano indispensabile conoscere l'uomo partendo
dall'origine del cosmo, allontanandosi in questo modo dal terreno empirico. La
descrizione dell'uomo, piuttosto, è una descrizione di relazione: l'uomo è in
rapporto con ciò che mangia e col suo regime di vita, prima ancora che in

108 In Ionia, nel VI secolo a. C., si fa iniziare la speculazione filosofica e scientifica per opera dei
cosiddetti Presocratici, detti anticamente physiologoi, in quanto il loro oggetto di indagine era
identificato nella physis. L'uso della denominazione 'presocratici' risale alla prima edizione
dell'opera di Hermann Diels (poi completata da Walter Kranz, e quindi abbreviata in 'DK') che
rimane la raccolta fondamentale dei loro testi, suddivisi in testimonianze (A) e frammenti (B).
Questa denominazione serviva a marcare, secondo Diels, il contrasto tra Socrate, interessato a
questioni di tipo etico, e i suoi predecessori, che appunto si suppone si occupassero
principalmente di questioni cosmologiche e fisiologiche. Ma 'Presocratici' non è un termine da
prendere in un senso strettamente cronologico, perché alcuni di essi erano contemporanei di
Socrate e anche di Platone. Il nostro discorso sulla medicina intende tenere conto della
problematicità della 'questione presocratica', in quanto, nell'introdurre un nuovo modo di
ricerca sul mondo e sull'uomo, i Presocratici svilupparono un metodo che ebbe un ruolo
rilevante anche nella formazione delle teorie mediche. Troviamo, infatti, tracce di approccio
filosofico in alcune opere del Corpus come Sul regime, Carni, Venti: in particolare, tanto i
physiologoi quanto gli autori del Corpus che percorrono la strada della fisiologia elementare
tendono a ritenere il caldo, il freddo, il secco e l'umido responsabili di salute e malattia, e in
generale a ricondurre alla coppia caldo-freddo (e questa tendenza possiamo ritrovarla, per
esempio, anche in Antica Medicina) la spiegazione dei fenomeni vitali dell'uomo. Nel C. H. si
fa spesso riferimento, inoltre, a un calore 'innato' (di nuovo in Antica Medicina e Epidemie I,
Malattie I, Natura dell'uomo) con un ruolo causale nel processo di pepsis degli umori: la
cozione è quel processo dal quale risulta la perfetta krasis (mescolanza) degli elementi, segno
di salute psico-fisica.

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rapporto con il cosmo. L'identica natura umana è composta per tutti dei medesimi
fattori, ma è calibrata in ognuno in modo diverso. La polemica di Antica Medicina
punta sull'impasse in cui è facile cadere se la medicina ricorre agli elementi 'in sé'.
Se davvero essi sono i responsabili delle malattie e si trovano in coppie di opposti
nella natura dell'uomo, la cura verrebbe a coincidere con la somministrazione
dell'opposto corrispondente: «Se infatti ciò che nuoce è uno tra essi, bisogna
eliminarlo con il suo contrario, come vuole la loro teoria» (13). Ma come trovare
in natura il caldo, il freddo... in sé? In natura non esistono elementi o qualità in sé,
ma 'cose' calde, fredde... L'uomo è una serie di umori che posseggono proprietà
(dynamias echonta) di ogni sorta (pantopoias) che reagiscono agli alimenti, alle
condizioni atmosferiche, agli sbalzi termici. Questi umori, quando sono ben
mescolati (memigmena kai kekremena) non sono mai manifesti e l'organismo è in
salute. Quando, invece, uno di essi è separato (apokrithe) e sta da solo (auto
eph'heotou genetai), allora subentra lo stato morboso (14, 33-37).
Anche qui dunque il principale compito della medicina è curare i malati, ma è
evidente l'alto livello di consapevolezza metodologica che si manifesta ancora
nell'identificazione dell'essenza del processo scientifico con il suo svolgersi
storico. Coloro infatti che primi fra tutti si sono occupati di medicina hanno
rivolto la loro attenzione al regime e all'alimentazione opportuni per i malati, e
non differiscono in nulla dai (buoni) medici contemporanei all'autore. Il sapere
medico non è basato come per i physiologoi109 su principi cosmici, perché secondo
l'autore di VM questi non si ritrovano tali e quali nella natura dell'uomo, ma
sull'osservazione attenta della natura, che mostra che i cibi che l'uomo mangia
sono portatori di salute come di malattia. Non solo ma, come emerge anche da
altri scritti, anche l'ambiente in cui l'uomo vive è un fattore importante: la
medicina ippocratica si qualifica essenzialmente come dietetica, ma non manca di
mettere l'accento sul ruolo degli aspetti geografici e climatologici. Per il medico
ippocratico, dunque, la medicina è un sapere che ingloba diverse discipline e

109 È importante distinguere chiaramente fra autori che criticano l' 'astrazione' della physiologia,
come per esempio l'autore di Antica Medicina, e l'effettiva influenza esercitata dagli studiosi
della natura. Il tipo di indagine dei primi filosofi, infatti, era volto alla definizione di un
principio del divenire a livello micro- e macrocosmico.

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diviene l'autentico sapere sull'uomo.
Si noti infine che il percorso di conoscenza del medico procede dal visibile
all'invisibile, congruentemente con un'impostazione empiristica diffusa in età
presocratica, condensata, per esempio in Anassagora. Sesto Empirico riporta che:

[…] come dice Anassagora, che per questo è lodato da Democrito, «Aspetto di cose
celate (opsis adelon) sono le apparenti (ta phainomena)» (DK 59 B 21a).

Il medico procede, dunque, dal segno (semeion) osservato sul corpo del malato,
alla causa, attraverso il ragionamento del medico e l'aiuto del paziente relativo alla
sua percezione dei sintomi (sebbene imprecisa e insufficiente di per sé). La
scienza medica greca ha infatti costituito una tappa fondamentale
nell'elaborazione di un 'sistema' omogeneo di segni da decifrare, omogeneo in
quanto inserito in una qualche regolarità propria allo svolgersi dei fenomeni 110.
Sebbene la medicina greca, come abbiamo visto, comprenda in sé vari
orientamenti e non abbia un carattere 'razionale', la techne dei medici ippocratici,
basandosi sulla aisthesis e sui «soli segni giudicati sicuri»111, si avvicina il più
possibile a un criterio di correttezza metodologica.

È questo momento, in cui la tendenza a ricercare fuori dell'uomo i segni da


interpretare (come nella «exosemiotica» magica) trapassa in un esame dello stesso corpo
malato, che vede propriamente la nascita della medicina scientifica: perché una semiotica
centrata sul paziente è operazione che di per sé dà impulso a osservazioni sempre più
numerose e accurate, e pone problemi teorici di completezza, anche se perlopiù non va al
di là di una conoscenza della storia dell'organismo nel suo insieme, e del suo significato
globale nel contesto della natura che lo circonda, e non giunge a una comprensione del
suo funzionamento come unione «sintattica» di elementi112.

110 Si veda M. M. SASSI, La scienza dell'uomo nella Grecia antica, Torino 1988, pp. 148-149:
«Nel percorso fra la notazione di eventi isolati, il cui senso non può che venire rintracciato in
parametri estrinseci (una punizione divina, un incantesimo), e l'osservazione di un loro
ripetersi con diversi gradi di regolarità, di cui ricercare gli interni nessi di implicazione, la
medicina assume un ruolo guida per l'urgenza con cui è chiamata a giudicare i segni impressi
sul corpo dell'uomo».
111 Ibi, p. 151.
112 Ibi, p. 155.

59
Ora, la prospettiva in cui Platone si pone di fronte a questo sapere può essere
descritta attraverso quella che Vegetti chiama «storia dell'occhio» 113. Nel Lachete
Socrate pone a Nicia una domanda significativa:

SOCRATE: […] quando per esempio si esamina un farmaco per gli occhi, se lo si debba
applicare oppure no, credi forse che la decisione riguardi la medicina o gli occhi? NICIA:
Che riguardi gli occhi (Lach., 185c).

Il medico che delibera sulla cura dell'occhio malato, si intuisce, deve


conoscerne la fisiologia e la patologia; egli, dunque, non si limita a somministrare
semplicemente il farmaco, e con ciò rientra nella categoria dei 'buoni medici' del
Carmide, medici contemporanei a Platone e di cui Platone ci offre una
testimonianza e interpretazione. Costoro curano muovendo da un'attenzione acuta
per il corpo malato e, basandosi su una precisa nozione dell'unità dell'organismo e
delle sue vicissitudini, adeguano la terapia a questa unità: il regime non solo
guarisce l'uomo ma lo fa vivere bene, in quanto ne ripristina il complessivo
equilibrio. Il corpo, da 'parte del cosmo' qual era, diventa parte di un organismo,
la terapia isolata diviene regime, che è, così, il simbolo della medicina platonica
come scienza dell'uomo.
In tale visione della malattia «non plus ontologique mais dynamique […]»114,
per unità dell'organismo non si intende la totalità cosmica di cui l'uomo fa parte
(come per i physiologoi), né si può ottenere un risultato adeguato semplicemente
elencando i nomi e le suddivisioni di ogni malattia quando si esaminano i sintomi,
come nell'ambito della 'scuola cnidia'115. Si dice per esempio nel Regime delle

113 VEGETTI, La medicina in Platone, p. 20.


114 G. CANGUILHEM, Le normal et le pathologique, Paris 1984, p. 12.
115 È questo il caso, per esempio, dei cosiddetti trattati tecnico-terapeutici (Malattie I-III,
Affezioni, Affezioni interne, cfr. BOURGEY, Observation et expérince, p. 6): in essi troviamo una
visione rudimentale della fisiologia e dell'anatomia del corpo umano, largo impiego della
cauterizzazione e costante successione di sintomatologia e terapia (i trattati risultano così
organizzati in singole sezioni dedicate ognuna a una singola manifestazione morbosa). La
registrazione scrupolosa dei sintomi non risponde a un criterio eziologico, ma alla percezione
diretta del medico, con il risultato di una «paratassi esasperata» (V. Di Benedetto, IPPOCRATE,
Testi di medicina greca, Milano 1983, p. 22). Prendiamo, ad esempio, il caso della 'malattia
livida': «Malattia livida (pelie). Lo tiene una febbre secca e tremito di tanto in tanto e ha male
alla testa e un dolore gli tiene le viscere e vomita bile e allorché lo tenga il dolore non riesce a
vederci, ma ha pesantezza. E il ventre si fa duro e il colorito livido (pelidne) e le labbra […] e
il bianco degli occhi è livido, e li ha fuori dall'orbita come chi è strangolato. Talvolta cambia

60
malattie acute: «A me invece piace che si ponga mente alla scienza nel suo
insieme» (IV, 1-2).
Anche l'autore del De arte accenna a un simile orientamento nel caso, per
esempio, dei disturbi che colpiscono le 'cavità' interne al corpo: la medicina deve
ragionare per prove (tekmairetai) in base non solo ai sintomi presenti, ma anche in
base a quelli che si riferiscono a una condizione passata e a quelli che possono
aiutare a capire che una parte verrà di lì a poco colpita dal disturbo (ha te
peponthoton ha te pathein dynamenon) (XIII, 10-11). In molti scritti del Corpus il
medico non solo esamina i sintomi parallelamente ad altri fattori come la
costituzione umorale, le condizioni atmosferiche, la regione in cui il paziente
vive, ma cerca di ricostruire a fini prognostici la storia personale del paziente,
mediante un procedimento chiamato anamnesis116.
Similmente Platone, nel Lachete, orienta la medicina nel senso di un modello
generale di episteme, in quanto nella fase di formazione della prognosi, essa
connette le dimensioni del passato, del presente e del futuro sempre volgendosi
all'individuo particolare e al caso particolare. È questo il valore assunto dall'idea
di prognosi nel Prognostico, che si apre con queste parole:

Per il medico – mi sembra – è cosa ottima praticare la previsione: prevedendo infatti e


predicendo, al fianco del malato, la sua condizione presente e passata e futura, e
descrivendo analiticamente quanto i sofferenti stessi hanno tralasciato, egli conquisterà
maggior fiducia di poter conoscere la situazione dei malati, sicché essi oseranno
affidarglisi. E potrà progettare un'eccellente terapia se avrà previsto i futuri sviluppi a
partire dai mali presenti (I, 1-10).

anche colorito e da livido (pelidnou) si fa verdastro» (Morb. II A, 68).


Risale agli anni Settanta del secolo scorso la tendenza a individuare una contrapposizione tra la
scuola medica di Cos e un'altra scuola medica della città di Cnido, rivale a essa e ritenuta
'inferiore'. Vi sono riferimenti a 'medici di Cnido' in Galeno e all'interno del Corpus stesso, e
alcuni ritengono che i cosiddetti trattati tecnico-terapeutici vadano considerati cnidii. L'ipotesi
di questa contrapposizione sembra oggi infondata o comunque da ridimensionare. Possiamo
dire, per non creare una segmentazione arbitraria, che nella storia della medicina greca a Cos e
a Cnido ci fu notevole fioritura. Ma esistevano altre scuole mediche coeve alla coa, tra cui la
scuola medica italica, e una varietà di orientamenti anche non riducibili a specifiche scuole.
116 Compito del medico è interpretare il passato anche per aiutare il paziente a comprendere la sua
malattia: « […] non è certo facile comprendere i loro propri mali, come sorgano e cessino e per
quali ragioni s'accrescano o scemino, ma se da altri tutto ciò è stato scoperto e viene esposto,
allora riesce agevole; perché ciascuno, ascoltando, null'altro fa se non ricordare
(anamimnesketai) ciò che è accaduto a se stesso» (VM, 2).

61
Questa è l'essenza del procedimento scientifico, che tiene infatti conto
dell'estensione temporale degli eventi. Sulla nozione di unità dell'organismo si
innesta quella di unità della scienza, come leggiamo nel Lachete:

SOCRATE: Ecco. A me e a Lachete qui pare che in ogni ordine di cose delle quali si dia
scienza, non vi sia una scienza per il passato, a conoscere come è avvenuto, una per il
presente, a intendere come avvenga, una infine per il futuro, a vedere come meglio potrà
avvenire o avverrà ciò che ancora non è avvenuto, ma che si tratti sempre d'una e
medesima scienza. Prendiamo ad esempio la salute; quale sia il tempo che s'abbia a
conoscere, non c'è che la medicina, che è una, la quale guardi insieme a cioè che è che è
stato e che sarà, come sarà (198d).

Inoltre, il procedimento con cui il medico ippocratico riconduce le varie


aistheseis a una memoria e a un logos unitario crea un rapporto di fiducia tra
medico e paziente, che diventa migliore nella misura in cui si rispettano le regole
di tale rapporto: il paziente deve raccontare i suoi sintomi al medico, anche per
facilitare la guarigione117. Anche questo punto trova un interessante riscontro e
sviluppo in Platone, e precisamente nel Gorgia, là dove Socrate osserva che il
rapporto ideale tra medico e paziente118 è quello in cui è il paziente stesso a volere
117 Interessante notare, a questo proposito, la differenza tra pazienti maschili e femminili (che,
peraltro, è problema ancora attuale). Le donne, infatti, data la loro particolare condizione,
avevano maggiore riserbo nel descrivere i propri sintomi.
118 La relazione tra medico e paziente in Platone è una tematica piuttosto complessa, che investe
il rapporto tra theoria e praxis costitutive della stessa techne medica. Possiamo considerare due
punti come abbastanza sicuri: nell'ottica di Platone, a) l'empeiria è distinta dalla techne e b) il
ruolo dei logoi (e, dunque, della persuasione) è centrale nella pratica medica. a) Nel Gorgia è
detto che la medicina è in grado di «rendere ragione» (logon didonai) del suo sapere perché
esamina la natura (physis) e le cause (aitiai) e, a differenza, delle empeiriai (come la cucina e
la retorica) non procede per associazione – diremmo noi in termini humeiani (501a1-b1).
Apparentemente, vi è, dunque, un'opposizione tra techne e empeiria. Nella techne medica
questa opposizione trova un compromesso, perché vi devono essere dei rapporti tra questi due
'saperi'. Nella Repubblica Socrate concorda con Glaucone sul fatto che un buon medico è tale
se oltre ad apprendere una techne ha il più possibile a che fare con dei corpi malati (408c6-e2).
I rapporti tra il sapere tecnico e il riferimento all'esperienza esistono a patto che i due momenti
non si scambino e non si faccia dell'empeiria la condizione necessaria per la costruzione della
techne. L'esperienza è, piuttosto, l'applicazione positiva del sapere teorico che la presuppone.
b) Nelle Leggi sono distinte due tipologie di medici: i medici degli uomini liberi e quelli degli
schiavi. Mentre gli uni stabiliscono una relazione con i loro pazienti, rendendo loro ragione del
sapere di cui sono in possesso, gli altri si limitano ad applicare ciò che i medici hanno
prescritto (720b2-5; c3-6). È, dunque, implicata l'importanza della comunicazione tra il medico
e il paziente, che lascia supporre che il malato possa in qualche modo capire la natura del suo
male. Questo è naturalmente vero solo in parte, in base a quanto abbiamo appena esposto in a),

62
la guarigione e la salute, una volta compreso il male che lo affligge:

SOCRATE: E allora, se uno di noi, o altri che ci sta a cuore, commette atti ingiusti, deve
subito recarsi, di propria spontanea volontà, là dove si pagano alla giustizia i propri
debiti, deve recarsi dal giudice come si va dal medico […] senza rimanere nascosti, ma
mettere in piena luce l'azione ingiusta, perché si paghi la pena e si ritorni sani; bisogna
anzi, costringere se stessi e gli altri a non aver paura, ma a offrirsi senza fiatare,
spontaneamente, coraggiosamente al giudice, come ci si affida al medico per lasciarsi
tagliare e cauterizzare in vista del buono e del bello, senza tener conto del dolore (Gorg.,
480 b-d).

Il medico platonico ha chiaro il legame che intercorre tra la salute del corpo e il
bene dell'anima: l'influenza socratica arricchisce e completa, così, la figura del
medico ippocratico, producendo, per così dire, una nuova figura di medico.

Siamo così giunti a toccare il concetto platonico fondamentale del parallelo fra
salute del corpo e bene dell'anima, in cui si innesta una rete complessa di analogie
che analizzeremo nel prossimo paragrafo. In tale analisi, l'esame finora condotto
delle caratteristiche della techne medica risulterà di grande aiuto119. Abbiamo
infatti visto finora che lo statuto della medicina ippocratica riassume aspetti
teoretici, pratici e valutativi e per questo si presta bene a una funzione
paradigmatica. Più in dettaglio questa techne si pone quale modello per altre
technai, e questo punto diventa centrale e pervasivo in Platone: la medicina
costituisce un vero sapere, non un sapere fittizio, e l'arte del governo e la retorica,
se vogliono essere qualificate come arti, devono prenderla a modello nell'esercizio
delle loro specifiche funzioni. Inoltre, la medicina indica una norma per la natura
e per l'azione umana. Rammentiamo qui che l'ideale di salute ed equilibrio
onnipresente nel Corpus è identificato in un'ordinata mescolanza degli elementi

perché tra paziente e medico esiste la differenza che separa la techne dall'esperienza e i due
ruoli non sono intercambiabili. L'esempio delle Leggi sembra essere in linea con quello del
Gorgia nella valorizzazione di un tipo particolare di persuasione, cioè la peithodidaskalike
(Gorg., 452e), in opposizione alla persuasione retorica. Per ulteriori spunti e riferimenti anche
ai trattati ippocratici, si veda G. CAMBIANO, Platon et ses rapports entre théorie et 'praxis' dans
la médecine hippocratique, «Études platoniciennes», 10 (2013), pp. 2-11.
119 A questo proposito lo sezione di Hofmann sullo statuto paradigmatico della techne medica
risulta molto utile: cfr. HOFMANN, Medicine as a 'techne', pp. 408-411.

63
del corpo (krasis): la malattia ha luogo quando l'equilibrio di tale mescolanza si
rompe e alla medicina spetta ripristinarlo, in ciò peraltro incrementando un
processo naturale. È questo il senso della medicina come medicina naturalis120:
l'arte e la natura si aiutano a vicenda, nel senso che dove la natura non può,
interviene l'arte. «Cosicché là dove possiamo esercitare la nostra competenza
attraverso i mezzi che ci sono concessi da una costituzione o dalla nostra arte, in
quel caso siamo 'demiourgoi', altrimenti no» (De arte, VIII, 13-16).

§2.La medicina nella rete delle analogie


Il modo in cui Platone tratta di salute e malattia è da vedere in connessione con
diverse esigenze teoriche che notiamo emergere nei dialoghi, quali la discussione
sulla retorica (nel Gorgia), ma anche la costruzione di una teoria dell'anima e di
una teoria della giustizia (per esempio nella Repubblica) o di una visione
cosmologica e fisiologica come nel Timeo121. Questi diversi campi sono tenuti
insieme da una domanda: cosa costituisce la giusta proporzione di un intero? Tali
interi in questione sono l'anima, la polis, il corpo dell'uomo122.
In generale la nozione di disturbo in Platone è legata per opposizione, pur nelle
variegate implicazioni a cui abbiamo appena accennato, ai concetti di ordine e
proporzione. Un ente (anima, polis, corpo) quando è ordinato è detto sano, quando

120 Per un chiarimento di questa nozione, cfr. A. JORI, Medicina e medici nell'antica Grecia.
Saggio sul 'peri technes' ippocratico, Napoli 1996, pp. 168-176. Si veda in particolare p.169:
«La medicina naturalis, precisamente in quanto sistema oggettivo e originariamente atematico
della corretta operatività terapeutica, s'impernia sulle connessioni necessarie della realtà. Essa,
inoltre, costituisce, di fatto, un complesso di opportunità favorevoli che possono essere còlte
[…] pure dall'infermo il quale non intenda (o non possa) far ricorso alle cure di un terapeuta. Il
malato che “fa da sé”, infatti, si colloca manifestamente, per ciò stesso, in un ambito ben
distinto dell'area operativa che è interessata dalla techne professionale […]. Nondimeno, egli è
pur sempre in grado di accedere […] alla techne, nella sua dimensione di medicina naturalis:
ovvero di insieme organico di norme pratiche, naturali e oggettivamente valide. Può infatti
accadere che l'infermo scelga […] proprio i rimedi o, più in generale, i moduli
comportamentali adatti a curare la sua malattia: quelli, cioè, che gli sarebbero stati prescritti
anche dal medico, se egli avesse potuto (o voluto) rivolgersi a quest'ultimo».
121 Per uno sguardo complessivo al problema si veda G. E. R. LLOYD, In the grip of disease.
Studies in the Greek imagination, Oxford 2003, pp. 142-157.
122 La mia ricerca tralascia la questione del corpo del mondo del Timeo: qui il mondo è descritto,
infatti, come una «creatura vivente dotata di anima e ragione» (30b).

64
non è ordinato accoglie in sé conflitto (stasis) e malattia (nosos). Obbligatorio qui
fare riferimento ad Alcmeone123, di cui prendiamo in esame un famoso frammento
riportato da Aezio:

Per Alcmeone, sarebbe conservativa della salute (hygieias) la pari dignità dei poteri
(ten isonomian ton dynameon): umido, secco, freddo caldo, amaro dolce ecc.; mentre la
signoria (monarchian) di uno tra essi sarebbe produttiva di malattia (nosou): distruttiva
sarebbe infatti la signoria dell'uno sull'altro opposto (hekaterou monarchian). E
accadrebbe la malattia, quanto alla causa, per eccesso (hyperbolei) di caldezza o di
freddezza; quanto all'occasione a causa di copia (trophes) di cibo o sua carenza (endeian);
quanto alla sede, o nel sangue o midollo o cervello. Vi sopravverrebbe talora anche per
cause esterne: qualità (?) delle acque o luogo o fatiche o sevizia o altre prossime a queste.
La salute sarebbe la commisurata miscela (ten symmetron krasin) delle qualità. (DK 24 B
4).

È notevole qui (siamo verosimilmente agli inizi del V secolo a. C.) l'uso di
metafore politiche per designare un processo naturale. Il senso di questo passo va
indirizzato più nella direzione della funzionalità che della quantità: la nozione di
isonomia, ovvero uno stato definito negativamente dalla non prevalenza di un
opposto sull'altro, non implica un equilibrio esattamente misurabile di fattori
esterni e interni al corpo. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un'altra specie di parità:
gli opposti per mantenersi tali devono potersi integrare nelle loro funzioni. Se una
delle funzioni prevarica sull'altra cessano di essere opposti, e non si effettua la
krasis, ovvero la mescolanza proporzionata in cui consiste la salute. Ne deriva che
se a perdita di opposizione equivale una perdita di uguaglianza, si genera la
monarchia, ovvero il prevalere assoluto di un potere sugli altri.
A prima vista la condizione di squilibrio del corpo sarebbe da imputare al
prevalere di una sola qualità su tutte le altre. Ma più avanti il termine hekaterou
(genitivo di hekateros, 'ciascuno tra due') suggerisce che Alcmeone, il quale non si
preoccupa di stabilire un numero preciso di qualità, né di chiarire quali
corrispondenze vi siano tra le varie coppie di opposti, definisce la malattia come
stato distruttivo tra due qualità opposte, quando una domina l'altra. Questa lettura
conferma la centralità della nozione di dualità e opposizione nel pensiero di

123 Riprendo qui alcune considerazioni di G. CAMBIANO, Patologia e metafora politica.


Alcmeone, Platone, 'Corpus Hippocraticum', «Elenchos», vol. 2 (1982), pp. 219-236.

65
Alcmeone, insistenza che non caratterizzava solo l'ambito medico124.
Anche Platone, analogamente, ricorre a metafore politiche per descrivere una
situazione di equilibrio e squilibrio, ma a differenza di Alcmeone stabilisce
piuttosto un'equivalenza di nosos e stasis, e non prende in esame una coppia di
opposti, evidenziando che la malattia è uno stato che ha a che fare con la globalità
della physis individuale (una physis che, come vedremo, ammette e anzi richiede
al suo interno una precisa gerarchia di elementi). Questa diversa definizione di
salute e malattia emerge da un passo del Sofista:

STRANIERO: Occorre dire che due sono gli aspetti della malvagità (eide kakias)
riguardo all'anima. TEETETO: Quali? STRANIERO: L'uno è quale la malattia (noson) nel
corpo, l'altro quale la difformità (aischos) in esso. TEETETO: Non ho capito. STRANIERO:
Non ritieni tu che la malattia e il dissidio (stasin) siano la stessa cosa? TEETETO:
Nemmeno a questo io ho di che dover rispondere. STRANIERO: Ritieni dunque che il
dissidio sia qualcosa d'altro se non la rovina (diaphoran) di un'affinità voluta da natura
(tou physei suggenous) in conseguenza di qualche lacerazione (ek tinos diaphthoras)?
(228a 4-8).

Su questa linea si potrà leggere anche il passo di Repubblica IV in cui,


parlando della temperanza come virtù di chi è 'più forte di se stesso' nel senso
dell'autocontrollo nei piaceri, Socrate spiega ad Adimanto la causa del conflitto
interno 'a una stessa persona' (ho autos):

A mio parere, però – aggiunsi – questa espressione significa che nell'anima di uno
stesso individuo (en autoi toi anthropoi) coesistono una parte migliore e una peggiore e,
quando quella per natura migliore (to beltion physei) prevale su quella peggiore, si dice
che uno è più forte di se stesso […] (431a ).

Lo stesso – prosegue Socrate – succede nella città: il comando spetta alla classe
per natura migliore, e finché determinati rapporti di comando e sudditanza
vengono rispettati regnano concordia (homonoia) e temperanza (sophrosyne). È
questo il quadro della salute per Platone: è necessaria una retta relazione tra
elementi dominanti (e che è giusto che dominino) e elementi dominati. La
distanza di Platone da Alcmeone potrebbe avere un corrispettivo ideologico nel

124 Aristotele in Metafisica, A 5, 986a, 31 gli attribuisce una dottrina («molto simile a quella dei
Pitagorici») secondo cui molte delle cose che appartengono alla sfera dell'umano si trovano in
numero di due (duo ta polla ton anthropinon).

66
fatto che Alcmeone, anche se attivo nello stesso periodo e luogo dei primi
pitagorici, aveva una visione non tradizionale del sapere e parallelamente dei
rapporti di potere, dunque non sacerdotale, non aristocratica, non gerarchica 125.
Proprio la gerarchia degli elementi nel corpo, delle classi interne a un corpo
sociale, delle parti dell'anima, caratterizza invece il pensiero di Platone. Elemento
che avvicina, in ultimo, la concezione platonica dell'armonia a quella
pitagorica126: Platone parla infatti di harmonia (che intende in senso affine
all'armonia pitagorica) non di isonomia. Questo schema verticale anziché
orizzontale dello stato di salute e la definizione della norma in termini di
adeguazione alla natura, kata physin anziché para physin, si trova già nel Fedone
là dove Socrate, per chiarire la natura dell'anima, spiega che è la natura stessa ad
avere ordinato all'anima e al corpo di trovarsi in un rapporto gerarchico: l'anima
comanda il corpo. «Poni mente ora anche da questo punto di vista: quando anima
e corpo si trovano insieme, all'uno la natura impone di servire e di farsi
comandare, all'altra invece di comandare e signoreggiare» (Phaed., 80a).
La nozione alcmeonica di isonomia e quella medica di krasis vengono
necessariamente a mancare in Platone, perché la 'monarchia' per Platone non è
sempre negativa, almeno non se a dominare è l'elemento migliore tra gli altri. In
conclusione, quindi, le concezioni di Alcmeone e Platone si possono ritenere
sostanzialmente diverse: per Alcmeone fondamentale era l'uguaglianza e la
cooperazione, là dove per Platone è invece necessaria la sottomissione delle parti
inferiori a quelle superiori127.
125 MANULI-VEGETTI, Cuore, sangue e cervello, pp. 29-30.
126 Come testimonia Aristotele in Metafisica A 5, anche per i Pitagorici la realtà è il risultato
dell'equilibrio tra coppie di principi contrari e più specificamente è retta dal numero (DK 58 B
5). Dalla scoperta dei rapporti musicali i Pitagorici sarebbero stati spinti a estendere l'idea di
regolarità matematica alla serie dei fenomeni sensibili. Partendo dal rapporto tra movimento e
suono fondarono una teoria delle proporzioni: la harmonia è la legge che regola tutti gli aspetti
dell'universo (B 4, B 35).
127 Sfuggono nel contesto platonico (ma riemergeranno come vedremo nel Timeo) i riferimenti a
quelle sostanze che circolano nel corpo e vengono frequentemente chiamate 'umori', che
giocano, invece, un ruolo importante nella fisiologia ippocratica. È il trattato ippocratico
Natura dell'uomo che dà il via alla fortunata spiegazione della fisiologia umana in base a
quattro umori: l'autore rimprovera ai physiologoi un attaccamento logico-formale all'unità del
pensiero e dell'essere. Sembra infatti che tutti, filosofi come medici, seguano la stessa dottrina
che potremmo chiamare 'monistica', ma non dicono le stesse cose. Per alcuni il principio è
l'aria, per un altro il fuoco, c'è chi dice che è sangue, chi flegma. L'uomo è formato da tante
componenti, ognuna con una proprietà: sangue, flegma, bile gialla e nera nel loro corretto

67
All'analogia tra malattia e stasis subentra, dunque, la gerarchia tra l'anima e il
corpo, e la presenza di un'analogia di fatto tra anima-polis-corpo sull' 'asse' anima-
corpo introduce una evidente complicazione.
Vediamo ora come la complessità dei rapporti tra l'anima e il corpo è illustrata
da Platone mediante numerose analogie, presenti anche nei dialoghi precedenti lo
sviluppo della teoria delle tre parti dell'anima nella Repubblica.
Era sicuramente un luogo comune culturale al tempo di Platone che l'ignoranza
è la malattia dell'anima e la sua guarigione spetta al sapiente: nell'Ippia Minore
Socrate chiede a Eudico di non rifiutarsi di curare la sua anima «perché mi rechi
un bene più grande se curi (iasasthai) la mia anima dall'ignoranza, che se curi il
mio corpo da una malattia» (372e9-373a). Uno dei riferimenti più precisi da cui
emerge il senso che per Platone riveste la 'cura dell'anima', e con esso il
riferimento al paradigma medico, si ritrova nel Carmide, nel contesto dedicato
alle malattie dell'occhio128. Platone rivolge qui una critica a quegli stessi agathoi
iatroi che aveva in un primo momento elogiato, introducendo, in un contesto ricco
di riferimenti 'magici', la figura di un medico trace, seguace di Zalmoxis, a
suffragare la tesi che come non si può curare l'occhio senza tenere conto della
testa e di tutto quanto il corpo, non si può curare il corpo senza tenere conto
dell'anima (Charm., 156d-e). Questa metodologia risponde al rapporto gerarchico
tra anima e corpo, infatti:

Ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l'uomo se non dall'anima,
dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così
che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti
del corpo stiano bene. […] Perciò anche ora si fa questo sbaglio fra gli uomini, che taluni
temperamento danno salute al corpo, mentre quando uno di questi elementi è in eccesso o in
difetto, ed è separato da tutti gli altri, subentra la malattia. Ognuno di essi è inoltre in rapporto
simpatetico con la qualità della stagione: il quadro di corrispondenze tra gli umori si presenta
in un rapporto tetradico, per cui ogni umore è definito da una coppia di qualità, il cui equilibrio
può spostarsi in una direzione o nell'altra con l'alternarsi delle stagioni (si veda SASSI, La
scienza dell'uomo, pp. 156-159). Da uno scritto all'altro del Corpus gli umori variano in realtà
numero e caratteri: troviamo, infatti, anche lo 'sputo', l'acqua, il 'moccio' e altre sostanze
mucose, ognuna con un diverso livello di patologicità. Nondimeno, la teoria dei quattro umori
di Natura dell'uomo verrà considerata la teoria ippocratica (cfr. NUTTON, Ancient medicine, p.
81): Galeno le darà, poi, una configurazione definitiva, integrando lo schema con le età della
vita, la corrispondenza con gli organi principali (in un modo simile a quello del Timeo
platonico) e soprattutto gli elementi del cosmo.
128 Cfr. supra, pp. 60 ss.

68
cercano d'essere medici dell'uno o dell'altra cosa separatamente, o della saggezza o della
salute (Charm., 156e-157b).

La sophrosyne è per l'anima ciò che per il corpo è la salute: il medico platonico
è capace di curare l'anima, nella misura in cui essa è la cosa più importante,
producendo, così, secondariamente, effetti benefici anche per il corpo.
Non si tratta, è bene precisarlo, di una critica assoluta alla medicina
ippocratica, ma di una dichiarazione di inferiorità della medicina intesa come
circoscritta alla cura del corpo rispetto a una scienza globale di salute e malattia,
che mira alla sophrosyne come salute dell'anima.
Qui possiamo trovare un primo spunto dell'analogia corpo-anima che viene
sviluppata nel Gorgia. Socrate e Polo discutono su quali sono le condizioni
negative (poneriai) relative a ognuna di queste entità: i beni di fortuna, il corpo e
l'anima. Per i primi è la povertà, per il corpo la malattia (nosos) e per l'anima
l'ingiustizia (adikia). Lo stato peggiore, il più bello e il migliore (essendo tale in
vista del piacere o dell'utile che se ne ricava), è l'ingiustizia (ma sono da rifuggire,
perché peggiori, anche tutti gli altri malesseri dell'anima). È ragionevole per
l'anima, trovandosi in questo stato, sentire il bisogno di liberarsi da questo male. E
così come esiste un'arte che libera il corpo dalla malattia, la medicina, esiste
un'arte che cura l'anima (la più bella secondo le premesse appena convenute) ed è
la giustizia (477c-478b). È chiaro che la migliore condizione tra tutte è quella in
cui l'anima non sia malata affatto, ma, tra due anime malate, felice è quella che
paga il debito delle proprie colpe, perché, se punito giustamente (dikaios),
l'individuo diventerà migliore. Analogamente per il corpo, le cure non sono di per
sé piacevoli, e c'è il rischio che il malato le rifugga temendo per esempio il dolore
del cauterio, ma dopo le cure il corpo starà meglio. Per il principio socratico che
chi compie il male lo fa involontariamente, coloro che fuggono le cure sia del
corpo che dell'anima lo fanno perché ignorano (agnoon) cosa sia la salute del
corpo e dell'anima.

SOCRATE: E lo fanno ignorando, a quanto pare, quale sia la salute ( he hygieia) e il


valore (arete) del corpo. Ebbene, in base a quanto abbiamo di comune accordo stabilito,

69
rischiano di fare una cosa di questo genere anche coloro che sfuggono alla giustizia, o
Polo: considerano solo il suo aspetto doloroso, sono ciechi alla sua utilità, e ignorano
quanto sia più infelice vivere con un'anima non sana, ma marcia, ingiusta ed empia, che
vivere con un corpo non sano […] (479b-c).

Qui l'analogia, nel mettere in primo piano la necessità di scontare la pena dell'
ingiustizia, esibisce anche il rapporto gerarchico che intercorre tra il bene
dell'anima e i desideri del corpo. In questo dialogo, d'altronde, come vedremo
anche per il Sofista, la gerarchia implicita fra anima e corpo non esclude, anzi si
salda con l'introduzione di un rapporto analogico. Più avanti, infatti, Socrate e
Callicle convengono sul fatto che come un buon corpo è quello che ha ordine
(taxeos) e armonia (kosmou), così l'anima sarà buona quando ha un certo ordine e
una certa armonia (taxeos te kai kosmou tinos) (504b). L'ordine e l'armonia del
corpo fanno la sua salute (hygieian) e la sua robustezza (ischyn), mentre «il nome
per l'ordine e l'armonia dell'anima è 'legale' (nomimon) e 'legge' (nomos)» (504d).
Dall'avere un'anima tale e condurre una vita ordinata (kosmioi) derivano giustizia
e temperanza. Come si comportano i tecnici specializzati per questi scopi?

SOCRATE: […] Dimmi: l'uomo buono, che parla in funzione di ciò che è meglio (epi to
beltiston), non è forse vero che non parlerà a caso (eikei), ma avendo di mira qualche
cosa? E così, del resto, anche tutti gli altri artefici mettono cose, ciascuno nella propria
opera, scegliendole non a caso, ma stando attenti che ciò che viene realizzato possa avere
una forma (eidos) che gli sia propria […] finché il tutto (to hapan) non prenda
consistenza in qualcosa di organizzato e ordinato (503e-504a).

Osserviamo qui quell'insistenza sulla natura di 'intero' che consente di innestare


un'analogia fra gli enti presi in considerazione. Come i maestri di ginnastica
mantengono l'ordine nel corpo e i medici ve lo riportano, il buon retore,
rivolgendo il suo discorso alle anime, deve mirare a che non si ingeneri ingiustizia
in quelle dei suoi ascoltatori.
Da questa prima analisi è risultato che: I) l'anima può essere malata
analogamente al corpo; II) come ci sono i medici che sanno cosa fare nel caso di
disturbi fisici, esistono persone capaci di curare l'anima dai suoi mali.
La Repubblica è la sede in cui vengono discussi i problemi già affrontati che

70
riguardano lo statuto della techne medica129, e in cui è introdotto nel gioco
analogico il terzo ente di paragone: la polis. Non è facile passare da un'analogia a
un'altra senza porsi il problema di quale tra queste analogie abbia priorità per
Platone. Data la complessità della questione, procediamo non secondo la sequenza
del dialogo, ma rispetto alle esigenze della nostra ricerca.
In Repubblica IV la salute nel corpo è paragonata alla salute nell'anima. Qui
troviamo un esempio di quell'uso platonico della metafora politica, diverso
dall'uso alcmeonico, di cui abbiamo detto sopra. La giustizia e l'ingiustizia
dell'anima non sono differenti dalle cose sane e morbose per il corpo: le cose sane
producono salute, come le azioni giuste generano la giustizia.

SOCRATE: E procurare la salute significa mettere gli elementi del corpo nella
condizione di dominare (kratein) ed essere dominati (krateisthai) gli uni dagli altri
secondo natura (kata physin), mentre procurare la malattia significa creare delle
condizioni analoghe contro natura (para physin) (444d).

129 I riferimenti si addensano nella discussione tra Socrate e Trasimaco nel I libro della
Repubblica, ove ritroviamo l'opposizione tra la linea socratico-platonica (e fino a un certo
punto ippocratica) e quella sofistica sui temi del senso e del valore delle technai . Il punto di
partenza qui è il problema dell'errore: secondo Trasimaco ogni techne (e quindi anche la
medicina) in quanto techne non può errare, altrimenti viene meno tutta quanta (Resp., 340d-e).
Tale equazione di compiutezza ed esistenza del sapere riecheggia la posizione eleatica e in
certo modo riflette la visione sofistica sul sapere sullo scorcio del V secolo a. C. Socrate, in
linea con le posizioni di Antica Medicina, risponde a Trasimaco che ogni scienza ha un telos al
quale cerca di avvicinarsi il più possibile, ma se erra non è perché sia meno scienza (341d).
Negli scritti ippocratici, infatti, lo statuto della techne medica corrisponde alla sua natura di
strumento razionale che viene orientato in modo positivo per sopperire ai bisogni del corpo. Se
la natura del corpo è costantemente minacciata da fattori negativi o squilibrio, la colpa
dell'insuccesso e dell'errore sono imputabili allo stato di poneria del corpo e non alla medicina
in sé.
Ora, se Socrate seguisse puntualmente nella sua argomentazione il punto di vista ippocratico si
verrebbe a delineare una posizione diametralmente opposta a quella di Trasimaco e dai
presupposti speculari: proprio in quanto techne, con una sua storicità e una sua struttura
dialettica, la medicina non può essere una scienza esatta (conclusione che va nella stessa
direzione della techne stocastica rilevata nel Gorgia, cfr. supra nota 61). Ma Socrate-Platone
approda a una conclusione differente, e in questo si separa dalle concezioni mediche del suo
tempo: «Né carenza né errore ineriscono ad alcuna techne, né a essa spetta di cercar altro utile
se non per ciò di cui è techne, bensì essa stessa è pura e incorrotta nella propria correttezza,
finché resti rigorosamente e totalmente ciò che è […] La medicina non ricerca dunque quanto è
utile alla medicina, bensì al corpo» (342 a-c). Manca, quindi, la prospettiva dialettica della
medicina propria degli Ippocratici, perché una medicina così provvista di orthotes
metodologica è intrinsecamente compiuta: la situazione di poneria, così come perfezionabilità
e storicità in direzione del telos (cioè la salute), riguardano il corpo e non la techne medica.

71
L'obiettivo platonico, però, sembrerebbe quello di individuare prima di tutto la
salute-giustizia in uno stato, presupponendo dunque un'altra analogia. Vale la pena
di citare questo passo famoso per intero, perché la sua lettura può guidare nella
comprensione dell'utilizzo di questa complessa rete analogica:

SOCRATE: […] L'obiettivo che ci accingiamo a perseguire non è un obiettivo da poco,


ma s'addice, secondo me, a una persona dotata di vista acuta. Ora noi, continuai, non
siamo tanto abili e mi sembra perciò che la nostra ricerca si debba condurre esattamente
come se si ordinasse a persone miopissime di leggere a distanza caratteri minuti e a una
venisse in mente che i medesimi caratteri esistono anche altrove, maggiori e su superfici
più ampia. Sarebbe allora una bella fortuna, a mio avviso, poter leggere prima questi e
così esaminare poi i minori, se sono gli stessi (368c7-d7).

Infatti, nell'anima sana e virtuosa (con aretai si denominano infatti le


eccellenze proprie del corpo e dell'anima) l'elemento per natura migliore, la parte
razionale, domina sulla parte animosa e su quella appetitiva. L'uomo giusto cura
l'anima e le sue parti (ta en te psyche gene) e non confonde i loro ruoli. Nella città
giusta si mantiene la giustizia se ogni classe 'fa le proprie cose': lo stato patologico
è quello in cui i ruoli delle classi si scambiano (tallotria prattein) e in cui una o
più classi si arrogano più compiti (polypragmonein). L'uomo virtuoso, guardando
alla sua anima, mirerà a una buona disposizione (eu themenon) delle parti e a
essere ordinatore e amico di se stesso (kosmesanta kai philon heautoi). Questo
non significa che l'uomo giusto non si curerà del corpo o dei beni materiali,
poiché si occuperà di tutto: il suo essere in armonia gli permetterà di agire bene
«si tratti dell'acquisto di ricchezze, della cura del corpo (somatos therapeian),
della vita politica o degli accordi privati» (443e). Ma il comportamento interiore
domina su quello esteriore, come l'anima sul corpo.

§3. La città 'phlegmainousa': un modello fisico, politico, morale


Finora, dunque, la mia ricerca ha portato alla luce una serie di analogie
successive, nate dalla funzione paradigmatica della medicina. Queste analogie,
alternativamente, vengono presupposte per introdurre una nuova esigenza, e, non

72
solo: divengono veri e propri codici del linguaggio di Platone. Se è vero che per
spiegare l'anima Platone fa riferimento al corpo, e per spiegare la città si fa
riferimento all'anima (considerando, dunque, chiarito il concetto di anima grazie
al procedimento analogico già operato con il corpo), la polis malata di
infiammazione (phlegmainousa) del libro III è considerata un corpo a tutti gli
effetti, e nella diagnosi, perché malata di una patologia sociale, e nella terapia, in
quanto viene poi purificata.
Vediamo ora come anche alla città si applica il paradigma medico: per questo
passaggio prendiamo in esame Repubblica II-III130.
Socrate descrive la città sana (hygies tis) (372e7) come una città in cui domina
la semplicità e le condizioni in cui i cittadini vivono sono primitive. Per questo
Glaucone la descrive come una 'città di maiali' (hyon polin) (372d5):
bisognerebbe introdurre companatico, e sedie e suppellettili. In questo modo,
però, la città sarà come colta da una infiammazione (phlegmainousan) (372e8) e
divengono, allora, necessari molti più medici, in quanto la dieta dei cittadini
risulta compromessa.
Il libro III fa spazio, così, a una violenta critica alla medicina dietetica e il
lettore noterà immediatamente una contraddizione rispetto alla concezione
espressa nel Carmide. L'ambivalenza manifestata da Platone è il segno che il
sapere medico a lui contemporaneo costituisce un elemento di tensione rispetto
alle specifiche esigenze etico-politiche espresse nel contesto della Repubblica. Se
è infatti richiesta una terapia per la città – si precisa qui –, è altrettanto necessaria
una riforma della medicina stessa.
Questa critica violenta sembrerebbe uno slancio di 'tradizionalismo': Platone
non vede di buon occhio la novità che si insinua nella 'città primitiva'. In realtà il
punto di partenza, nella direzione di quel 'linguaggio in codice' platonico a cui ho
fatto riferimento poco sopra, è non solo il nesso tra la patologia sociale e lo
sviluppo della medicina, ma anche il nesso in ambito morale tra la decadenza dei
costumi e l'espansione della pratica giuridica. Se il piacere e non il 'Bene' viene a
fare parte della città, i disturbi che colpiscono i nuovi cittadini non sono
130 Si veda Mario Vegetti Medicina, in PLATONE, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, II, Napoli
1998, pp. 427-443.

73
solamente le lesioni traumatiche (le ferite sui campi di battaglia, per esempio) o le
malattie a decorrenza stagionale: vi sono nuove malattie che richiedono nuovi
medici e dall'aumento dei medici si evince la presenza di un nosema di diversa
portata che mette a repentaglio lo statuto della polis stessa131. Chi sono questi
nuovi medici e che fine hanno fatto gli agathoi iatroi?
Platone li caratterizza in modo duplice: essi usano un nuovo lessico medico e
fanno capo a una figura già criticata altrove, cioè Erodico di Selimbria(in Prot.,
316d un sofista 'travestito')132. Il nuovo lessico patologico designa le malattie
causate da una dieta malsana e dalla mancanza di esercizi e comprende physai e
katarrhoi, cioè 'flatulenze' e 'catarri' (Resp., 405d2-3). Questi termini che usano i
«raffinati Asclepiadi (tous kompsous Asklepiadas)» (405d4) sono 'nuovi e assurdi'
(kaina kai atopa, 405d5) secondo Glaucone e compaiono sia in testi che dovevano
essere già noti a Platone sia in testi che potevano essere più nuovi per Platone (e

131 È qui pertinente un breve confronto con le concezioni di Antica Medicina, ove la medicina
attuale viene paragonata a quella che viene appunto chiamata l'«antica medicina», secondo
vraisemblance. Cioè, per mostrare il valore della medicina attuale, che guarisce i malati
attraverso un regime di vita appropriato, l'autore trova un precursore ugualmente importante, e
vale a dire la 'prima medicina', quella che scoprì il regime alimentare adatto all'uomo ( VM, III).
Anche la nuova medicina è d'altronde un punto di partenza per nuovi spunti e ricerche (II, 1):
l'autore, nella sua prospettiva storica, immagina una evoluzione progressiva, assumendo con
ciò una posizione opposta al Peri technes, in cui la medicina è una scoperta fatta una volta per
tutte. Platone, per contro, nel passaggio dalla «città dei porci» alla polis tryphosa offre una sua
'storia della medicina', nella quale la dietetica è descritta anch'essa come un'invenzione recente,
ma condannabile, identificando nell'invenzione del regime adatto ai malati il sintomo della
corruzione della società (cfr. nota seguente). Per ulteriori approfondimenti sulla decadenza e il
progresso della medicina tra gli ippocratici e Platone, si veda P. DEMONT, Progrès ou
décadence de la technè médicale selon [Hippocrate], 'Ancienne Médecine' et Platon,
'Republique', «Études platoniciennes», 10 (2013), pp. 2-8.
132 Erodico viene accusato di avere confuso la ginnastica con la medicina (406a-b): in questo
modo il cittadino, praticando con rigore il rispetto della dieta prescritta, dieta di lunghissima
durata, è ossessionato dalla salute del corpo, invece di concentrare la propria attenzione sulla
vita sociale. La stessa continuità di ginnastica e medicina è raccomandata anche in trattati più
facilmente identificabili come 'ippocratici', come per esempio Antica Medicina (3, 4, 7).
Integrando questi riferimenti con la menzione di Erodico nei dialoghi Protagora (311b-c) e
Fedro (270b-c) possiamo ipotizzare una spiegazione per questo attacco. Come già visto a
proposito degli agathoi iatroi, infatti, Platone si pone in modo critico: i buoni medici
(ippocratici) rappresentano degnamente la loro arte, ma per il progetto 'sociopolitico' di Platone
essi si rivelano in un'ultima analisi inadeguati. Così per l'identificazione tra medicina e
dietetica, di cui sia Erodico sia Ippocrate sono rappresentanti: anche la dietetica mantiene la
sua importanza metodologica e deontologica (Platone del resto ne afferma l'importanza, per
esempio in Gorg., 464b), ma ha individuato quale minaccia essa può costituire per l'ordine e la
salute (fisica e morale) del corpo sociale. Platone, dunque, conosce e valuta della medicina
ippocratica e della sua applicazione potenzialità e rischi.

74
che presumibilmente costituiscono il suo bersaglio polemico)133.
Ancora una volta Platone fa dunque riferimento a un tipo preciso di medicina.
Bisogna tornare alla medicina tradizionale, quella dei 'figli di Asclepio' (406c),
praticata nei campi di battaglia. La medicina 'purificata' ha dei requisiti ben
precisi: dovrà occuparsi solo di malattie circoscritte (nosema apokekrimenon,
407d) e non dell'intero organismo malato, come vuole la tendenza ippocratica.
Tendenza, che, peraltro, Platone aveva altrove condiviso e approvato134: la
spiegazione di questo 'cambiamento di rotta' risiede, dunque, nell'esigenza di
medici 'politicamente impegnati' e socialmente utili nella kallipolis, che si
renderebbero altrimenti ridicoli (geloios, 406c6).

SOCRATE: […] se rifletti, dissi, che questa medicina d'oggi, che educa le malattie (tei
paidagogikei ton nosematon), non era usata dagli Asclepiadi, dicono, prima che nascesse
Erodico. Erodico era un insegnante di ginnastica che, ammalatosi, mise insieme
ginnastica e medicina e tormentò per primo e specialmente se stesso, in seguito molti
altri. GLAUCONE: In che senso?, chiese. SOCRATE: Rendendosi lunga la morte (makron ton
thanaton autoi poiesas), risposi. Pur seguendo attentamente il decorso della malattia, che
era mortale, non era capace, credo, di guarirsi, e passava la vita a curarsi senza
interessarsi di nulla, tormentandosi ogni poco che uscisse dal solito regime di vita; e per
la sapienza giunse alla vecchiaia sempre lottando con la morte. GLAUCONE: Oh!, disse,
riportò proprio un bel premio per l'arte sua! SOCRATE: Qual è naturale che riporti, feci io,
chi non sa che Asclepio non insegnò ai figli questo metodo terapeutico non perché lo
ignorasse o ne fosse inesperto, ma perché sapeva che tutti coloro che sono retti da buone
leggi hanno ciascuno un compito determinato nell'ambito statale; e debbono
necessariamente eseguirlo, e nessuno può concedersi il lusso di restare malato e curarsi
per tutta la vita (406a5-c5).

Del resto, sarebbe ridicolo anche che un uomo per tutta la vita malato sapesse
qual è la terapia migliore! Il trattamento di queste malattie locali dev'essere rapido
e immediatamente efficace: niente diete, ma solo purghe e cauterio (407d2-3), e
chi è gravemente malato viene lasciato morire («ma che non ritiene di dover
curare, come persona non utile né a sé né allo stato, chi non può vivere il tempo

133 Sono i trattati di impronta 'filosofica' del Corpus, cioè Regime e Venti: in entrambi compaiono
i termini 'nuovi e assurdi' della Repubblica, mentre è in Regime che si trova il riferimento
all'eccesso di cibo rispetto agli esercizi come causa di plesmone (e, dunque, di produzione di
physai da un lato, e di katarrhoi dall'altro).
134 Cfr. supra, pp. 60 ss.

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fissatogli dalla natura») (407d8-e)135. Anche quest'ultimo punto si spiega facendo
riferimento all'attenzione che Platone rivolge al corpo sociale nel suo complesso,
più che all'individuo particolare. Oltre che essere una misura preventiva, la terapia
'purgativa' di Platone mira al mantenimento della salute nella città, dalla quale
sono allontanati gli individui pericolosi. Tuttavia, serviranno ancora buoni medici:

GLAUCONE: […] che dici, Socrate? Non bisogna avere nello stato medici bravi
(agathous iatrous)? Tali dovrebbero essere, secondo me, tutti quelli che hanno avuto
come pazienti quanti più sani e quanti più malati possibile […] SOCRATE: Certo, feci,
intendo parlare di medici bravi (agathous) (408c5-d5).

La posizione di Platone nei confronti della medicina nei libri II e III della
Repubblica risulta dunque piuttosto articolata, ma non intacca la funzione della
medicina come paradigma metodico e modello etico.
Da rilevare infatti è che non solo qui nel passaggio dalla città 'sana' a quella
'malata', ma lungo tutto il dialogo136, Platone utilizza il lessico dei medici,
applicando anche le sue conoscenze in questo campo a fini – potremmo dire –
diagnostici.
La città appena descritta, la città 'lussuosa'137, soffre di infiammazione e non si
tratta soltanto dell'impiego metaforico di un termine medico, ma di una vera e

135 Il problema della curabilità non viene posto in questi termini negli scritti del Corpus. In linea
con la semiotica che abbiamo descritto (cfr. supra, pp. 61 ss.), che supporta l'intuizione del
medico riguardo all'esito finale della malattia, la previsione (nel suo significato diacronico di
esame dei momenti passati, presenti e futuri della storia del malato) consente al medico di
suscitare stupore e ammirazione nei pazienti e nella loro cerchia e di guadagnarsi la loro
fiducia e, naturalmente, di sollevarsi da ogni responsabilità in caso di morte. «[…] non si offre
al medico via di mezzo fra guarire del tutto o non guarire affatto: suo compito è restaurare la
krasis complessiva dell'individuo […], oppure prevedere e assistere impotente – ma libero da
colpe – a una più o meno lunga agonia» (SASSI, La scienza dell'uomo, p. 154).
136 Nell' VIII libro, per esempio, la tirannia (la costituzione peggiore) origina dalla stessa malattia
(nosema) che affliggeva l'oligarchia: ogni tipo di eccesso (to agan) produce un mutamento nel
senso opposto e questo vale per tutto, costituzioni, piante, stagioni. Come nel corpo il flegma e
la bile causano disordine, allo stesso modo gli uomini-fuchi sono i responsabili della malattia
della città: «[...] perciò il buon medico e il legislatore della città, non meno di un esperto
apicultore, deve prendere per tempo le sue precauzioni, innanzitutto per impedire che nascano,
e se nascono perché siano recisi al più presto assieme ai loro favi » (564b-c). Non è qui
specificato se bile e flegma siano in eccesso o di per sé costituiscano un fattore patogeno.
Risulta, quindi, rilevante per Platone la presenza all'interno della fisiologia corporea di un
fluire 'disordinato', indipendentemente da fattori quantitativi.
137 Sulla polis tryphosa si veda il commento di Campese-Canino, La genesi della 'polis' in
PLATONE, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, II, pp. 318-332.

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propria diagnosi. L'eziologia di questa infiammazione è indicata, nel libro III,
nella cattiva dieta e nella mancanza di esercizi (405d). Questo nesso diagnostico è
diffuso nella medicina dietetica, di cui Platone si serve per individuare una
malattia sociale e morale. Ecco indicata la terapia: essa consiste nel 'purificare' la
polis. Il riferimento è dunque alle purghe dimagranti dei medici, ma in questo
caso è intesa come «'purga' morale e intellettuale»138 per mettere sotto controllo
l'abuso dei piaceri del lusso: «[...] senza accorgerci abbiamo nuovamente
purificato (lelethamen ge diakathairontes palin) lo stato che poco fa dicevamo
gonfio di lusso (tryphan ephamen polin)» (399e5). Anche l'ambiente dev'essere
poi risanato, in modo che i giovani possano crescere in un luogo salubre:

Occorre invece ricercare quegli artigiani che per felici doti naturali siano capaci di
seguire le tracce della naturale bellezza ed eleganza; e così i giovani, come se abitassero
in un luogo sano (en hygieinoi topoi), trarranno vantaggio da ogni parte donde un effluvio
di opere belle, come una brezza spirante da luoghi salubri e recante salute (hosper aura
pherousa apo chreston topon hygieian), ne colpisca la vista o l'udito […] (401c4-d).

Al di là di un riferimento platonico a uno specifico testo ippocratico, qui Arie


acque luoghi risulta utile per un confronto dei punti finora trattati. L'influenza dei
venti sulla salute psicofisica delle popolazioni ha, infatti, un ruolo centrale in
questo trattato: vi sono città esposte a venti caldi, i cui abitanti, per esempio,
hanno l'apparato digerente spesso disturbato dal flegma; mentre le città esposte, al
contrario, ai venti freddi, sono abitate da uomini che hanno l'apparato digerente
più bilioso che flegmatico (cfr. capp. 3-4). Non solo: l'incipit dello scritto
suggerisce che la competenza del medico non verte solo su fattori meteorologici:

Chi voglia correttamente condurre indagini mediche, ha di fronte a sé questi problemi:


in primo luogo deve studiare le stagioni dell'anno, gli influssi che ognuna di esse può
esercitare […] e inoltre i venti e caldi e freddi […]. Deve ancora indagare le proprietà
delle acque […] e quale modo di vita gradiscano gli abitanti, se sono amanti del vino e
del cibo e avversi alle fatiche, o se invece amano l'esercizio ginnico e gli sforzi, mangiano
molto e bevono poco (Aër., 1).

138 VEGETTI, Medicina, p. 429.

77
Da qui traspare il nesso diagnostico usato da Platone per individuare la malattia
dei cittadini della polis tryphosa: un diverso stile di vita, come quello di chi non
pratica esercizio fisico e mangia molto, formerà diversi tipi di uomini, non sani
come coloro che invece praticano esercizio fisico e seguono una dieta equilibrata.
Più in generale, per l'autore ippocratico, anche i nomoi dei cittadini influenzano i
caratteri, insieme con la posizione geografica e le condizioni meteorologiche. Per
esempio, gli Europei sono di animo più generoso rispetto agli Asiatici:

Infatti nella perpetua uniformità s'ingenera indolenza, nei mutamenti invece si


temprano corpo e animo. E dalla quiete e dall'indolenza si alimenta la viltà, dai travagli e
dalle fatiche un virile coraggio. Perciò gli Europei sono più validi guerrieri, e inoltre per
le istituzioni, ché non sono sudditi a re come gli Asiatici. Vilissimi di necessità sono gli
uomini sudditi a re (Aër., 23).

Questa corrispondenza tra condizioni ambientali e caratteri psicologici trova


riscontro nella caratterizzazione degli 'atleti di guerra' di Platone (Resp., 404a7) :
essi infatti devono astenersi dall'ubriachezza, avere vista e udito acuti e essere in
grado di affrontare le metabolas (404a10) (delle acque, dei cibi inusuali per la loro
alimentazione, del caldo e del freddo) senza che questo comprometta la loro
salute139. È evidente, dunque, che Platone non dimentica la fruibilità metodica del
modello medico.

§4. 'To nosema tes adikias'140: terapie del corpo e dell'anima


La descrizione della transizione dalla prote polis alla polis tryphosa è anche il
passo che introduce la complessità dell'anima individuale141.
Abbiamo visto che la prote polis nasce dalla chreia, mentre la città 'malata'
nasce dalla tryphe. Questa trasformazione impone un criterio valutativo: non è
139 Del resto, più avanti, Platone afferma che coloro che praticano la sola ginnastica possono
diventare più selvatici (agrioteroi) del necessario: questo aspetto del carattere dipende dalla
«parte collerica (to thymoeides) della natura di ognuno» (410d7) che, se correttamente allevata
(orthos traphen) potrebbe diventare coraggiosa (andreion), altrimenti, se troppo tesa
(epitathen) dura e ostile (410d8-10).
140 Gorg., 480b.
141 Questo discorso viene infatti affrontato a partire dal libro IV.

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vera (alethine) la città tryphosa in quanto infiammata (phlegmainousa), ed è
l'impiego della terminologia medica da parte di Platone che inquadra
l'interpretazione. La polarità tra 'sano' e 'malato', infatti, combacia con il senso di
harmonia-salute platonica: la comunità sana è quella bene organizzata, mentre
l'altra è fragile e sensibile alla dissoluzione. Trovare il principio di
(de)generazione della nuova città significa trovare l'eziologia di un male sociale: il
superfluo soppianta il necessario.
Che questo fosse il 'destino' della prote polis è del resto naturale: ogni
comunità prende la via dei bisogni superflui142. Inoltre Platone nel suo progetto
della kallipolis configura una complessa articolazione delle funzioni militari,
politiche e produttive che trova la sua corrispondenza in un'anima articolata e
strutturata143.
Lo scenario della nuova città cambia e da agreste qual era diventa urbano, e
una serie di figure significative, attorno a cui ruota la nuova economia,
testimoniano della sua poikilia: vi è varietà di colori nella sua articolazione. Si
inseriscono, infatti, i technitai del lusso, l'etera come prima figura femminile che
fa il suo ingresso nella città, i cacciatori, artisti e produttori di ogni genere. Questa
varietà risponde all'elogio platonico del ta heautou prattein: che vi siano diverse
arti è garanzia di buon lavoro.
Il 'rigonfiamento' della prote polis è il sintomo di un passaggio significativo: il

142 Una prospettiva ampia su questo passaggio cruciale è offerta in M. M. SASSI, Natura e storia
in Platone, «Storia della storiografia», 9 (1986), 2, pp.104-127. L'opposizione tra salute e
malattia corrisponde all'opposizione tra una sorta di 'età dell'oro' (prote polis) e il presente
(polis tryphosa). Non si tratta, come abbiamo visto, solo di una metafora ma di una descrizione
di uno stato di cose: la dieta compromessa dei cittadini della nuova polis richiede
effettivamente un numero maggiore di medici. Il mito della genesi della città non è, dunque,
della specie degli eoikotes mythoi perché non racconta una situazione del passato, una
preistoria dell'umanità (cfr. su questo punto P. FRUTIGER, Les mythes de Platon, Paris 1930, pp.
190 ss.). Platone descrive «un momento quasi inevitabile, in cui la comunità creatasi attorno
alla necessità di soddisfare alcuni bisogni essenziali (nutrimento, case, vestiti), e a tal fine
obbligata a un minimo di divisione del lavoro e di contatti commerciali, prende la via dei
bisogni superflui e del lusso» (p.119). Sarebbe, dunque, proprio dello Stato nel suo sviluppo
imbattersi nella malattia, ma questa malattia è del resto anche presupposta dal bisogno stesso,
da solo insufficiente a soddisfare le necessità di un corpo sociale strettamente dipendente dalle
vicissitudini della physis.
143 Sulla focalizzazione dell'interesse di Platone, fin dall'inizio del dialogo, sulle tre parti
dell'anima e, dunque, l'ingresso nella 'storia' della città 'malata' come conseguenza della
«progressione logica propria alla edificazione della kallipolis», si veda CAMPESE, La genesi
della 'polis', p. 319.

79
passaggio da una polis legata alla physis a una polis centrata sui bisogni
dell'anthropos. In questo modo la figura del technites è quella in cui si riflette la
frammentazione sia della città (dal punto di vista dell'economia, del regime) sia
dell'anima: il nuovo cittadino, adesso identificato con i suoi bisogni, diviene
soggetto poikilos. Il concetto di tryphe in questo contesto porta quindi con sé una
sfumatura antropologico-culturale, nonché psicologica: « [...] segna la nascita
dell'anima, seppure anch'essa all'insegna dell'ambivalenza»144.
È d'obbligo notare, a questo punto, che al problema terapeutico proposto da
Platone per la città tryphosa si sovrappone la questione pedagogica: per i
fondatori dell'educazione tradizionale ginnastica e musica sono le discipline
fondamentali, in quanto l'una si prende cura del corpo e l'altra dell'anima (410c4-
5). Il punto che qui ci interessa emerge sullo sfondo: che corpo e anima risultino,
ai fini del procedimento analogico, due unità distinte, l'una meno problematica e
più conosciuta, l'altra di difficile definizione, non implica necessariamente che i
loro confini siano così netti. Socrate propone infatti a Glaucone una
reinterpretazione dell'educazione tradizionale:

SOCRATE: Non è da escludere, dissi, che entrambe (ginnastica e musica) siano state
istituite soprattutto in vista dell'anima. GLAUCONE: E come? SOCRATE: Non hai notato,
risposi, qual è la disposizione intellettuale di coloro che praticano la ginnastica per tutta la
vita, senza neppure sfiorare la musica? E di quelli che hanno un'attitudine opposta?
GLAUCONE: Ma di che cosa stai parlando?, disse lui. SOCRATE: Di selvatichezza e durezza,
e d'altra parte di mollezza e mansuetudine, dissi (410c4-d).

Queste caratteristiche risultano armonizzate nei difensori della città (tous


phylakas, 410e5), se la loro parte animosa (to thymoeides, 410d7) è orthos
traphen (410d8), e così saranno uomini coraggiosi. I termini qui utilizzati sono
quelli del linguaggio musicale (hermosthai, hermosmenou, anarmostou) (410e8-
411a5) e del resto la musica è un ingrediente essenziale nella costituzione della
nuova città. Il cacciatore, l'etera, il poeta fanno parte della poikilia della polis
tryphosa e l'armonia ionica, infatti, è identificata da Platone come appartenente al
gruppo di armonie «molli e simposiastiche» (malakai te kai sympotikai) (398e11)

144 CAMPESE, La genesi della 'polis', p. 332.

80
da bandire dalla città.
Nel Gorgia l'auletica, la citaredica, la coralità ditirambica sono forme di
adulazione (kolakeia), così come le arti che vediamo insinuarsi nella rete
metaforica che sottende questo dialogo:

SOCRATE: […] io dico che due sono le arti (technas): l'arte che riguarda l'anima la
chiamo 'politica' (politiken), mentre quella che riguarda il corpo non so chiamartela così
con un nome solo, ma, benché sia una sola cura del corpo (mias de ouses tes tou somatos
therapeias), dico che due sono le parti di essa: una è la ginnastica (ten men gymnastiken),
l'altra è la medicina (ten de iatriken). Nell'arte politica, poi, l'arte della legiferazione (ten
nomothetiken) è l'equivalente della ginnastica, mentre alla medicina corrisponde la
giustizia (ten dikaiosynen). L'una e l'altra di ogni singola coppia sono fra loro in stretta
relazione, dal momento che hanno a che fare col medesimo oggetto […] (464b-464c).

Socrate ritiene, dunque, che le vere technai siano due: una riguarda il corpo e
non ha un nome unico, mentre l'altra riguarda l'anima ed è la politica. Questa
prima suddivisione risponde alla distinzione tra corpo e anima: in questa
distinzione è importante focalizzarsi sul fatto che la cura del corpo è comunque
una (mias), ma si sdoppia fra un'accezione preventiva (la ginnastica) e una
correttiva (la medicina), e anche la politica, potremmo dire, si adatta a questa
doppia esigenza.
L'adulazione (kolakeutike) si è accorta145 che queste quattro arti mirano sempre
al meglio (pros to beltiston) e si è insinuata sotto ciascuna di queste parti,
fingendo di essere quell'arte di cui è la maschera (464d). E così Socrate introduce
le arti 'travestite', precisando che esse non si danno pensiero (ouden phrontizei)
del meglio, ma sempre mirano a ciò che di volta in volta è più piacevole (toi
edistoi):

Dunque, sotto la medicina si è insinuata la culinaria (he opsopoiike), e finge di sapere


quali siano i cibi migliori per il corpo così abilmente che, se un cuoco e un medico
dovessero competere davanti a una giuria di fanciulli, o di uomini tanto stolti quanto lo
sono i fanciulli, per decidere chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, se il
medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame […] Sotto la ginnastica, parimenti, la
145 Il soggetto di aisthomene è l'adulazione, che viene in questo modo personificata: la
personificazione sottolinea l'atteggiamento psicologico di chi pratica le arti che mirano al
piacere (cfr. FUSSI, Retorica e potere, p. 57).

81
lusinga dell'agghindarsi (he kommotike) […] che inganna […] al punto da far sì che gli
uomini, preoccupati di attirare su di sé una bellezza estranea (allotrion), trascurino la
propria (tou oikeiou), quella cioè che si ottiene grazie alla ginnastica (464d-465c).

La corrispondenza reciproca tra le arti vere e proprie e quelle adulatrici viene


ulteriormente chiarita con una proporzione geometrica: come l'arte di agghindarsi
sta alla ginnastica, così la sofistica sta all'arte della legiferazione e come la
culinaria sta alla medicina, la retorica sta alla giustizia. La retorica, mera empeiria
e non techne, è nell'anima la forma di contraffazione che corrisponde nel corpo
alla culinaria.
Ritroviamo qui l'inafferrabilità della distinzione tra corpo e anima che abbiamo
visto nella Repubblica, sebbene più avanti venga chiarito che di gerarchia
comunque si tratta: «Se infatti l'anima non governasse il corpo, e questo si
governasse da sé, e se non fosse l'anima a distinguere e riconoscere […] ma fosse
il corpo a giudicare» (465d), ci sarebbe confusione tra le cose della medicina,
della salute e della culinaria. Ciò significa che un uomo non sarebbe in grado di
distinguere una medicina da un cibo buono? In questo senso l'analogia non regge:
Socrate, infatti, ha precisato che «se un cuoco e un medico dovessero competere
davanti a una giuria di fanciulli, o di uomini tanto stolti quanto lo sono i fanciulli,
per decidere chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi [...]», allora
questo stesso uomo non penserebbe alla sua salute, ma preferirebbe il piacere.
L'errore in cui il giudicante cade dipende, a ben vedere, dalla sua condizione: egli
è anoetos come i fanciulli, cioè completamente in preda ai suoi appetiti 146. Che la
medicina e la culinaria si occupino del corpo è dunque pertinente, ma l'analogia
tra i retori e i cuochi è evidenziata perché entrambi fanno leva sulla stessa parte
dell'anima: quella più sensibile al fascino dei beni materiali. Culinaria e retorica
sono dunque contraffazioni di therapeiai, in quanto già di per sé non distinguono
perfettamente i loro oggetti, insinuando che bene e piacere sono la stessa cosa: il
bene dell'anima (il 'vero' bene) si trasforma in bene corporeo, il cibo delle anime

146 Non è un caso di akrasia, dunque, che coinvolge una persona razionale sopraffatta dalla forza
del desiderio materiale (cfr. FUSSI, Retorica e potere, p. 59).

82
stolte.
Ricordiamo, inoltre, che precedentemente Gorgia ha sostenuto che vi è
complementarietà tra retorica e medicina:

Spesso, ormai, mi sono recato con mio fratello e con altri medici da qualche ammalato
che non voleva bere medicine o mettersi in mano al medico lasciando che questi
praticasse tagli o cauterizzazioni, e, mentre il medico non riusciva a persuaderlo, io lo
persuasi con non altra arte che la retorica (456b).

La medicina, dunque, da sola, non può persuadere i suoi stessi pazienti a


preferire il bene al piacere: che abbia bisogno della retorica in senso stretto o no,
le è necessaria la capacità di persuadere. Se ne traggono osservazioni su un
orizzonte più ampio, quello che coinvolge l'ammissione da parte di Socrate che
esiste una retorica 'nobile': una retorica volta il più possibile al miglioramento
delle anime dei cittadini (503a). Non è aggiunto altro, se non che è una retorica
ancora non vista (503b): forse perché Platone stesso non aveva ancora detto
l'ultima parola sulla medicina ippocratica? Una possibile conclusione sembra
essere che «[...] il dottore e il cuoco, il filosofo e il retore necessitano l'uno
dell'altro molto più di quanto Socrate non sembri disposto ad ammettere quando
parla con Callicle»147.
Nel Sofista, dove l'analogia è raddoppiata, emergono difficoltà e i limiti del
procedimento analogico di Platone. Anche nel Sofista Platone infatti traspone uno
stato del corpo all'anima: è detto che esistono due tipi di purificazione
(katharseos), una per l'anima e una per il corpo, e il discorso sull'anima va fatto a
parte perché esistono due tipi di malvagità per l'anima e per entrambi i tipi
l'analogia con il corpo viene mantenuta: «L'uno è quale la malattia (noson) nel
corpo, l'altro quale la bruttezza (aischos) in esso» (228a). La bruttezza è
dissimmetria (ametria), la malattia è discordia, conflitto (stasis) e per l'uno e
l'altro caso vi è un'arte preposta a correggere il difetto, la ginnastica per la
bruttezza, la medicina per la malattia. Vi è, però, un'ulteriore suddivisione interna
alla malattia dell'anima, che può caratterizzarsi come malvagità (poneria)
147 FUSSI, Retorica e potere, p. 71.

83
propriamente detta, la cui purificazione verrà affidata alla giustizia, e come
ignoranza (agnoia) (228d), per cui non c'è misura più efficace dell'arte di
insegnare (didaskalike) (229a).
Che la malattia sia conflitto è nozione presupposta da Platone, lo abbiamo
visto, nella Repubblica, sulla base di un'analogia tra anima e città. Questo punto è
mantenuto nel Sofista, per quanto riguarda l'anima malvagia, in cui vi è divisione
e disaccordo (diaphora) tra la parte razionale, la parte animosa e la parte
appetitiva, che produce una situazione patologica:

STRANIERO: E dunque, nell'anima di coloro che vivono una condizione vile, non
sappiamo che dissentono (diapheromena) le opinioni dai desideri, la volontà dai piaceri,
la ragione da tensioni e altri uguali turbamenti tra loro? (228b).

Questo contesto disordinato corrisponde all'ingiustizia dell'anima-città della


Repubblica, quando la classe inferiore (e quindi la parte dell'anima inferiore)
comanda sulle altre.
Ma diversa è la spiegazione dell'ignoranza: allorché un soggetto non raggiunge
lo scopo prefisso, questo 'scarto' (paraphora) è causato da un difetto di misura
(ametria, che produce nel corpo la bruttezza) (228a). L'anima ignorante, dunque, è
come se fosse brutta e sproporzionata. Anche qui, come nel Gorgia, è stabilito un
parallelismo tra le arti che hanno per oggetto il corpo (la medicina e la ginnastica)
e le arti che hanno per oggetto l'anima (la giustizia e l'insegnamento 148). Ma il
modello politico, che ben si adatta per la definizione della malvagità come stato di
conflitto psichico, non si applica altrettanto bene alla definizione della malattia
dell'ignoranza come bruttezza149.
148 Per noi insegnare e legiferare sono due atti distinti, ma in una prospettiva platonica la
distinzione è meno netta. Ne può essere prova un interessante sviluppo nelle Leggi, ove il
legislatore non deve semplicemente stabilire delle norme, ma renderne conto in un lungo
prologo che ha una funzione preventiva: «ATENIESE: Forse dunque chi ha ricevuto da noi
l'incarico di redigere le leggi non formulerà alcuna avvertenza (proagoreuei) all'inizio delle
leggi, ma spiegherà subito quel che si deve e quel che non si deve fare, e dopo avere
minacciato la pena, rivolgerà le sue attenzioni a un'altra legge, senza aggiungere a quanto è
stato fissato per legge neppure un'esortazione (parathymias) o una parola di persuasione
(peithous)?» (719e-720a).
149 Si veda A. BALANSARD, Maladie et laideur de l'âme: la gymnastique comme thérapie chez
Platon, in P. BOUDHOL-F. GAIDE-M. LOUBET, Guérisons du corps et de l'âme: approches

84
Dunque, la definizione dell'ignoranza come malattia dell'anima non evoca una
città come termine dell'analogia, quanto piuttosto il corpo umano e i suoi canoni.
La bellezza fisica infatti è data dal rapporto armonioso delle parti del corpo tra di
loro, la bruttezza dalla loro disproporzione. Peraltro la definizione che lo Straniero
dà dell'ignoranza non è in termini di proporzione intrinseca: «L'ignorare è quando
l'anima si protende verso la verità, quando avviene che l'intelligenza vacilla,
niente altro è se non deviazione del giudizio» (228d). L'anima, in altre parole, è
sproporzionata rispetto al suo oggetto, quando tende a esso ma lo manca. Come
giustamente nota Balansard, «la notion de 'manque' qu'exprime le préfixe privatif
ἀ- dans ἀ-μετρία laisse la place à la notion d' 'écart', que connote le préfixe παρα-
dans παρα-φορά, παρα-φόρου et παρα-φροσύνη»150. Non è corretto, dunque,
affermare che come ci sono dei corpi evidentemente brutti, ci sono delle anime
intrinsecamente ignoranti: Platone non vuole trattare l'ignoranza come uno stato di
fatto, ritenendo che dall'ignoranza si deve guarire. Come si prepara un buon corpo
a essere sano con la ginnastica, allo stesso modo l'anima con l'insegnamento si
educa alla virtù: solo che, propriamente, la ginnastica non ha il solo scopo di
sviluppare il corpo, ma anche (come abbiamo visto nella Repubblica151) di
armonizzare il corpo e l'anima.
Ripensare l'analogia in Platone non significa negarne l'efficacia: ma mi sembra
giusto osservare che lo svolgimento delle due grandi analogie del Gorgia e della
Repubblica appare tutt'altro che risolto152. L'analogia in Platone, allorché è fondata
su una evidente identità di rapporti, può essere colta immediatamente, come nei
casi in cui, per esempio, ogni techne è definita tale in base al fatto che ha un suo

pluridisciplinaires, Actes du Colloque International organisé du 23 au 15 septembre 2004 par


l'UMR 6125, 2006, pp. 29-35.
150 BALANSARD, Guérisons du corps et de l'âme, p. 34.
151 Cfr. supra, p. 80.
152 Sylvain Delcominnette problematizza la definizione di Platone come «premier théoricien du
raisonnement analogique dans la pensée grecque». Platone nei suoi dialoghi non espone alcuna
teorizzazione dei processi metodologici che utilizza: la dialettica, secondo Platone la scienza
suprema, non può che essere compresa dall'interno della sua pratica. Inoltre, il raisonnement
analogique in questione è piuttosto un insieme di procedimenti diversi tra loro come l'analogia
stricto sensu, l'esempio, il paradigma, la metafora e il mito. Si veda S. DELCOMMINETTE,
Exemple, analogie et paradigme. Le paradigmatisme dialectique de Platon, «Philosophie
antique» 13 (2013), pp. 147-168.

85
oggetto proprio (come abbiamo visto nel Carmide153 e nel Gorgia154). Ma nel
Gorgia la complicata rete metaforica obbliga alla costruzione di un insieme di
rapporti che sono tutt'altro che immediatamente afferrabili. Le analogie tra
technai e empeiriai mostrano una struttura così come 'appare' (come ricorda
Socrate stesso, che espone il modo in cui la retorica gli 'appare', 463e) e non nella
sua verità, e il procedimento analogico non costituisce una verità autosufficiente,
ma piuttosto una guida orientativa. Lo stesso discorso vale per la Repubblica, in
cui tra l'anima e la città funge da elemento comune la giustizia e un certo ideale di
equilibrio, una certa struttura delle parti. E anche qui Socrate non sembra mancare
di consapevolezza riguardo alla funzionalità di cui l'analogia è dotata a scopo
illustrativo, ma non come procedimento dimostrativo assoluto: l'analogia può
fallire e allora si dovrà ricorrere a un metodo alternativo (di cui non è specificata
la natura).

SOCRATE: […] ciò che la giustizia ci è parso essere nella città, trasferiamolo
nell'individuo; e se in ciò riconosciamo la giustizia, tutto andrà bene. Se al contrario essa
ci appare qualcosa d'altro nell'individuo, ritornando di nuovo alla città, noi la metteremo
alla prova; e forse che nel confrontare queste realtà e facendole sfregare le une con le
altre, come si fa con due pietre focaie, riusciremo a fare scaturire la luce della giustizia
(434e-435a).

Anche qui, del resto, in quello che è il percorso pratico della ricerca, si è potuto
constatare che dal confronto analogico, qualora non si tratti di identità di rapporti
e somiglianze, scaturiscono piuttosto differenze, che sono peraltro utili per la
comprensione dei problemi.

In conclusione, questa prima parte del lavoro ha fatto emergere una nozione di
salute che, fino dall'età di Ippocrate, si identifica con l'equilibrio dei costituenti
del corpo, e una nozione di malattia come squilibrio 155. Questo «discorso sul
153 Cfr. supra, p. 53.
154 Ibidem.
155 Cfr. M. M. SASSI, Mens sana in corpore sano: una riflessione antica, «Corpo e cura di sé», 44
(2005), pp. 9-19.

86
corpo»156 nella medicina ippocratica acquista un carattere principalmente
dietetico: i medici ippocratici prestavano attenzione al regime di vita
dell'individuo (la sua alimentazione, la pratica degli esercizi fisici). I trattati del
Corpus che si riconoscono come più propriamente 'ippocratici', infatti, mettono al
centro l'uomo nella reazione con l'ambiente circostante, i cibi che mangia,
rispettando la natura individuale di ogni soggetto. Che lo squilibrio del corpo
umano sia dovuto a un'imperfetta mescolanza degli elementi (caldo, freddo, secco,
umido) o di altro tipo di proprietà e costituenti (per esempio, umori), il regime è
volto al ripristino dell'equilibrio perduto, per riportare l'uomo a una condizione di
benessere. Il medico ippocratico si pone, dunque, il problema della cura delle
malattie, ma è attento anche al mantenimento della salute.
Che si tratti unicamente di salute del corpo, vista la tendenza generale dei
medici ippocratici a ricondurre le manifestazioni psichiche a un coinvolgimento in
ultima istanza somatico, abbiamo già osservato. «L'attenzione quasi 'biografica'
per il paziente investe […] un individuo identificato come un corpo debole,
costantemente minacciato da aggressioni esterne»157. È in tal senso notevole che
Platone, le cui teorie mediche raggiungono una precisione e un'accuratezza tali da
annoverarlo tra i medici del suo tempo, si sia posto di fronte alla medicina
ippocratica con l'intento di 'completarla', affermandone lo statuto di scienza della
salute e della malattia (Charm., 165c), e con ciò intendendo che il medico deve
fare attenzione a cosa è l'uomo, a cosa ne fa un intero equilibrato, prima ancora
che individuare le sue patologie. Perciò nella Repubblica Platone attacca da un
punto di vista 'sociale' la medicina contemporanea, troppo attenta a misure di tipo
dietetico: una tale medicina è dannosa per l'individuo coinvolto in un progetto
'politico' di mantenimento di un equilibrio sociale.
Ma al di là di questo riferimento negativo, che rimane isolato anche nella
Repubblica, la medicina per Platone rimane una techne paradigmatica. Ma in
questo paradigma egli integra, infine, un'altra innovazione cruciale. Come
abbiamo visto, infatti, la problematica politica per Platone raccoglie il
presupposto analogico dell'anima-città e prima ancora dell'analogia tra l'anima e il
156 Ibi, p. 10.
157 Ibi, p. 12.

87
corpo (primariamente viste nel loro rapporto gerarchico) e le cure atte a
ripristinare l'equilibrio nell'una e nell'altro. Le difficoltà incontrate nel rispetto
puntuale delle analogie non mancano di mettere in evidenza la novità platonica
nel panorama del sapere medico e filosofico antico: la comparsa della malattia
dell'anima e, connessa con questa, l'attenzione per un equilibrio tra l'anima e il
corpo. Anzi, è a Platone che – anticipiamolo subito – si può attribuire la prima
definizione di malattia mentale.
Può sembrare curioso che questa non sia invece reperibile nel C. H.: se non
trova un posto autonomo nella medicina ippocratica non è (come già notato)
perché i medici ippocratici ignorassero il rapporto anima-corpo o un ambito
psichico (o come diremmo oggi 'mentale'). Come abbiamo visto, nel Corpus sono
presenti riferimenti a sintomi psichici, i quali hanno caratteristiche diverse dai
sintomi fisici. Ma i sintomi dell'anima hanno in ultima analisi una causa sempre
organica e sono collegati a malattie organiche, in un quadro in cui anima e corpo
non sono trattati come unità distinte nella sostanza e simili nei modi (che
aprirebbe la possibilità di un processo analogico)158. Al contrario, proprio la
posizione dualistica di Platone gli consente di elaborare una concezione di una
medicina globale, una costruzione di rapporti gerarchici e analogici tra 'interi'
concepiti come unità, a loro volta sede di altri rapporti, e ancora, una nozione
specifica di malattia psichica.
A sostegno della stretta corrispondenza tra il riconoscimento di un ambito
psichico separato dall'ambito organico e l'uso del procedimento analogico nella
trattazione di corpo e anima, affrontiamo adesso il discorso sulla malattia
dell'anima in Platone.

158 Del resto, i medici ippocratici, pur non applicando il metodo analogico nel contesto del loro
mind-body problem, ne fanno largo uso altrove: un esempio può essere in Antica Medicina
(10), dove si dice che lo studio della persona sana è utile per comprendere ciò che succede
negli uomini malati.

88
III. Il Fedro: mania e conoscenza

Sulla base delle conclusioni raggiunte sull'uso platonico dell'analogia, in


particolare sulla sua applicazione alla triade anima-corpo-città, proseguiamo
adesso con l'esame della malattia dell'anima.
Dal testo del Fedone ricaviamo che se c'è un motivo di malattia per l'anima, di
sofferenza per essa, è la sua comunanza con il corpo. Il corpo è quindi il limite e
l'ostacolo alla salute dell'anima e alla filosofia come distacco e raccoglimento:
«Dunque […] l'anima del filosofo non ha nel massimo disprezzo il corpo e rifugge
da esso e aspira di starsene tutta sola in se stessa?» (Phaed., 65d).
Nella Repubblica Platone precisa d'altronde che il vero danno che l'anima può
subire è il conflitto interno dovuto a un disequilibrio tra forze (disequilibrio a cui
vanno soggetti tutti gli esseri umani nell'arco della loro esistenza): nella misura in
cui salute è harmonia, la corretta gerarchia tra gli elementi migliori dell'anima e
quelli peggiori è l'obiettivo di un'anima filosofica. È stato, dunque, operato il
riconoscimento della complessità dell'animo umano e di una conflittualità non più
confinata allo scontro tra due physeis (cioè l'anima e il corpo), ma interna
all'anima stessa. D'altro canto anima e corpo stanno tra loro in un'interazione
reciproca, tanto che una buona condotta è sì il risultato di un controllo dell'anima
sul corpo e i suoi appetiti, ma tale controllo, come conseguenza di una sophrosyne
propria all'anima, produce notevoli benefici al corpo.
Abbiamo visto nel capitolo precedente che tra corpo e anima intercorrono dei
rapporti di tipo analogico che non sono semplicemente strumentali alla
comprensione dei dialoghi. Analogamente, troveremo ora (a cominciare da questo
capitolo per proseguire nel prossimo) che il rapporto tra malattie del corpo e
malattie dell'anima va rivisto in una prospettiva più profonda. Vale a dire:
scopriremo che per Platone non si tratta semplicemente di riconoscere il sostrato
organico delle malattie mentali, ma anche di valorizzare l'interdipendenza tra lo
stato mentale deviato, o la condotta immorale, e il disordine organico 159. Il
159 Muovo la mia riflessione da una considerazione di Pedro Laìn Entralgo: « […] between the
maladies of the body and those of the soul there is not only a metaphorical parallelism or
exstrinsic analogy; there is also an unbroken transition and a close genetic relationship, both in

89
disturbo mentale e la malattia fisica sono specchi della stessa situazione di
disequilibrio.
D'altro canto, alla luce delle considerazioni fatte nel capitolo introduttivo sul
ruolo dell'irrazionale nel mondo antico e sui meccanismi di integrazione qui messi
in atto, vedremo che anche in Platone è presente lo stesso atteggiamento di
valorizzazione e insieme di razionalizzazione.
Lungo questa duplice linea leggeremo la sezione dedicata alla mania nel
Fedro, dialogo di cornici concentriche ognuna essenziale alla comprensione del
tutto e meritevole di analisi accurata. Ci concentreremo sugli aspetti funzionali al
reperimento delle caratteristiche della mania come stato autonomamente
riconosciuto (naturalmente tenendo conto delle derivazioni della medicina
ippocratica dalle quali, come vedremo, sarà possibile ottenere un quadro
sintomatologico di notevole importanza). Noteremo che, sia che si presti
attenzione agli aspetti più tradizionali della prospettiva platonica sull'irrazionale,
sia che si metta in evidenza l'impronta platonica vera e propria, il discorso
complessivo confluisce in una concezione dell'anima dinamica, plastica e attiva,
ben condensata nell'immagine, che in parte deriva dalla tradizione presocratica e
ippocratica, dei flussi e dei poroi.

§1. Tecniche dell'irrazionale: la divinazione, il rito dionisiaco, la


composizione poetica
Nel raggiungere il cuore del discorso, quello sulle specie di mania elencate nel
Fedro, mi sembra interessante dispiegare in ipotesi cos'è il 'divino' comune a
queste forme di mania160.

the case of diseases that we are accustomed today to call “mental” as well as in disorders of
moral character, injustice, or wickedness» (P. LAIN ENTRALGO, The Therapy of the Word in
Classical Antiquity, New Haven and London 1970, p. 134).
160 Seguo la riflessione di Katia Maria Vogt, che distingue, all'interno della mania platonica, una
mania razionale, una mania data dagli dei, e una mania irrazionale. Una tale disposizione del
discorso rimane fuori dalla presente trattazione, tuttavia l'accento posto sulle caratteristiche
proprie alla mania divina fornisce una prospettiva fondamentale per la comprensione della
gestione dell'irrazionale, questo fondo di energia psichica al servizio della ragione e fonte di

90
Ricordiamo che, nel pronunciare un nuovo discorso in onore di Eros, Socrate
ammonisce se stesso e Fedro per non avere tenuto conto della natura dell'amore e
per avere adottato una prospettiva parziale e dannosa.

Nel momento stesso, amico mio, in cui stavo per ripassare il rivo, m'è accaduto di
sentire il mio segnale demonico e famigliare – che sempre mi trattiene sul punto di fare
qualcosa – e ho creduto di udire all'istante una voce che mi proibiva di andarmene se
prima non avessi espiato non so quale colpa commessa contro il dio (Phaedr., 242b8-c3).

Eros, infatti, è un dio, e nei due discorsi precedenti è stato trattato come un
male per le relazioni umane: il discorso di Lisia sosteneva che è preferibile
concedersi a chi non ama, piuttosto che a chi ama (230e6-234c5). Al contrario,
Eros non può che portare benefici, e tali effetti sono visibili nei doni che la follia
dispensa proprio agli esseri umani:

«Non è vero il discorso che a un innamorato si debba preferire chi non ama, con il
pretesto che questi delira e il primo invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il
delirio fosse invariabilmente un male; ora invece i più grandi doni ci provengono proprio
da quello stato di delirio, datoci per dono divino […] » (244a3-8).

Si parla qui di una follia distinta nella specie da quella umana, che siamo più
propensi a considerare come malattia.
Il primo incontro che facciamo con la 'malattia dell'anima' è duplice: vi è una
malattia pericolosa, di cui in questo dialogo non è specificata la natura, ma che è
contrapposta, evidentemente, alla mania divina161. Quest'ultima, in quanto data
dagli dei, possiede delle caratteristiche che la qualificano come estranea al

creatività. Si veda K. M. VOGT, Plato on madness and the good life, in HARRIS (ed. by), Mental
Disorders in the Classical World, pp. 177-192.
161 Una distinzione tra la pazzia comune e la 'follia divina' è già in Erodoto: Cleomene, che si
comporta in maniera inusuale a causa dell'eccessivo consumo di vino, da alcuni è creduto folle
per un castigo divino, da altri no. «Gli Argivi dunque dicono che, per questo, Cleomene sia
impazzito e finito male. Negano invece recisamente gli Spartani che la sua pazzia abbia avuto
origine divina, e dicono che egli impazzì perché, praticando gli Sciti, aveva preso a bere vino
puro» (Storie, VI, 84, 1). Lo schema arcaico prevedeva, dunque, una contrapposizione tra una
follia dovuta a cause naturali e una follia dovuta a un castigo divino. Erodoto, comunque,
sembra pronunciarsi a favore di un'origine organica della follia, come emerge dalla vicenda di
Cambise, malato di epilessia: «[…] Si dice infatti che fosse Cambise fin dalla nascita affetto da
una grave malattia, che alcuni chiamano sacra. E non sarebbe affatto improbabile che, essendo
il corpo travagliato da grave malattia, neppure la mente fosse sana» (Storie, III, 33).

91
soggetto, eppure parte del soggetto stesso, e che di fatto non sono di per sé né
positive né negative, ma lo divengono, rispettivamente, quando sono 'date' dagli
dei o quando invece sono umane162.
È evidente, infatti, che (senza dover necessariamente pensare a un dio che entra
nell'uomo e ne esce) la mania è buona nella misura in cui è divina: solo così lo
stato alterato si può configurare come un fenomeno (temporaneo) essenzialmente
positivo. Per questo, esso si colloca al di fuori dell'ordinario e il soggetto che è in
stato di mania agisce secondo modalità in cui non può pienamente riconoscersi.
Non si tratta, allora, di una 'perdita di salute', ma dell'attivazione di una
razionalità parallela a quella di cui ci si serve normalmente, e potenziata, di
qualità superiore rispetto alla consueta163.
In questo quadro la mania si presenta, più che come il sintomo di uno stato
alterato, come un comportamento che in situazioni diverse assume diverse
combinazioni, e che Platone identifica come 'divino' certamente anche perché
inesplicabile, ma benefico. Qualifichiamo tale comportamento pur sempre come
'irrazionale', in quanto la follia si caratterizza come un'occultazione (temporanea)
della ragione (e nel presentare la mania come appartenente al dominio
dell'irrazionale, ma anche provvedendo al suo riassorbimento, Platone è in linea
con la tradizione da noi delineata all'inizio della ricerca)164.
Consideriamo adesso ciascuna delle forme di follia, mettendo in evidenza le
caratteristiche fondamentali e isolando le prime tre forme dalla quarta165.
Cominciamo dalla follia mantica, cioè la divinazione, donata all'uomo da
Apollo. Dice Platone:

[…] è giusto che sia addotto a testimonianza questo fatto, che anche gli antichi artefici
dei nomi non tennero il delirio dell'esaltazione (manian) né in vergogna (ouk aischron),
né in disprezzo (oude oneidos), perché diversamente non avrebbero connesso questo

162 Cfr. VOGT, Plato on Madness and Good Life, p. 182.


163 Ibi, pp. 182-186.
164 Cfr. §1, cap. I.
165 La quarta forma di follia, la mania erotica, verrà esaminata nel paragrafo successivo, in
quanto rappresenta in modo più evidente una rielaborazione platonica, rispetto al quadro
tracciato per la follia profetica, telestica e poetica. Inoltre, le tre prime forme di mania sono
metodologicamente apparentate: si veda a questo proposito L. BRISSON, Del buon uso della
sregolatezza (Grecia), in J.-P. VERNANT (a cura di), Divinazione e razionalità. I procedimenti
mentali e gli influssi della scienza divinatoria, Torino 1982, pp. 239-272.

92
stesso nome con l'arte bellissima, per la quale si discerne il futuro, chiamandola
esaltazione profetica (“manica”) (maniken). […] I moderni, invece, non hanno alcun
senso del bello, inserendovi una 't' la chiamarono “mantica” (mantiken) (244b6-244c5).

Emerge che la follia di per sé non è oggetto di disprezzo: lo stesso nome


mantike (arte profetica) è apparentato etimologicamente a manike (pazzia). Lo
scopo della mantica è indagare il futuro e Platone la distingue da quella che i
'moderni' chiamano oionistica (collegando il termine a oiesis e sottolineando, così,
la natura razionalistica di questa pratica, 244c5-244d5), togliendo ogni dubbio
sulla sua alta considerazione dello stato mentale alterato: è addirittura più degno
di lode lo stato di delirio provocato dagli dei, rispetto a una tecnica basata su un
ragionamento (244d2-5).
Platone ripropone lo schema tradizionale di credenze che vedono il turbamento
mentale come un'ingerenza soprannaturale: rimane la considerazione del 'malato
mentale' come un soggetto da evitare, eppure da trattare con un certo rispetto. Ciò
avviene in un contesto religioso, in cui le alterazioni della personalità sono
credute segno di un essere divino che si manifesta attraverso l'uomo.
La divinazione è, infatti, una forma di 'entusiasmo' che i Greci definivano
'possessione' (katoche) e che può qualificarsi come uno sdoppiamento della
personalità166. Essa consisteva in due fasi: una fase percettiva e una fase
comunicativa167. La fase percettiva è quella caratterizzata dalle visioni e dalle
sensazioni che investono il prescelto dalla divinità (come, per esempio, la Pizia
del tempio di Apollo delfico), quella comunicativa riguarda la trasmissione del
messaggio in una forma razionale affidata al prophetes.
La seconda forma di mania appare molto simile alla prima: è la mania
telestica, il cui prototipo è la oreibasia, la danza sul monte provocata e guarita da
Dioniso. Nel contesto del Fedro, anche se non c'è riferimento a una pratica
definita, possiamo ipotizzare che Platone stia pensando proprio al dionisismo 168.
Dice infatti:

166 Cfr. GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima, pp. 103-104.


167 Ibi, p. 106.
168 Cfr. BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, p. 245.

93
[…] in occasione di malattie e pene grandissime, […] l'esaltazione divina (he mania)
apparve in coloro in cui doveva e, profetando (propheteusasa), assicurò la liberazione di
quei mali […] Onde con purificazioni e iniziazioni rese immune per il presente e
l'avvenire il sofferente […] (244d5-245).

Intravvediamo qui i caratteri del dionisismo. Il rituale dionisiaco aveva


carattere costrittivo, in quanto i 'posseduti' si sottoponevano a una tensione
estrema della sensibilità, fino ad avere delle visioni. Come acutamente coglieva
Erwin Rohde,

Era precisamente questa fortissima eccitazione lo scopo che si voleva raggiungere.


Quest'acutizzarsi della sensibilità artificialmente prodotto sembra avesse significato
religioso, in quanto pareva che solo per mezzo di questa straordinaria tensione, di questo
dilatarsi del suo essere, l'uomo potesse venire a contatto con esseri d'un mondo superiore,
con dio e con le schiere dei suoi spiriti […]169.

Lo svolgimento rituale prevede la combinazione di linguaggio divino e umano:

L'estasi profetica comporta l'annullamento dell'ordine temporale, poiché il processo


psicologico della visione arresta anche lo scorrere del tempo. L'abolizione della distanza
temporale è indicata dall'uso del presente anche per riferire eventi del passato o del
futuro, quasi che il tempo si arresti, nel momento della visione, in un tempo senza
tempo170.

Tale tipo di follia è essenzialmente collettivo e ha una funzione terapeutica:


libera gli impulsi irrazionali e contagiosi di un gruppo di individui in occasioni
prestabilite (quali erano le feste Trieterides171), impulsi che altrimenti
risulterebbero dannosi per la comunità. La danza, accompagnata da melodie
frigie, è integrata con le purificazioni e le iniziazioni. Anche in questo caso, come
per l'indovino, lo stato alterato è temporaneo e funzionale alla comunicazione con

169 E. ROHDE, Psiche. Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, trad. it. di E.
Codignola e A. Oberdorfer, Roma 2006, p. 285.
170 Ibi, p. 107.
171 Cfr. supra, p. 27.

94
il divino e al raggiungimento di un sapere altrimenti occulto alla ragione172.
Passiamo ora alla terza forma di follia, che viene dalle Muse: è quella della
poesia che « […] celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri» (245a4-
5). Di quanto gli dei sono superiori agli uomini, di tanto la poesia in stato di
delirio è superiore alla poesia del savio (he tou sophronountos, 245a10). Come nel
caso della divinazione, il delirio rappresenta uno stato superiore alla razionalità
umana, mentre uno stato più assennato (qui la poesia fondata solo su techne) non
può attingere un sapere altrettanto elevato. Del resto, è idea corrente nella civiltà
greca che le Muse trasmettono al poeta la materia e la forma da cantare, in un
momento in cui il poeta è predisposto a ricevere questo messaggio e, sfruttando
l'alterazione della sensibilità, creare173. Possiamo parlare di delirio solo nella
misura in cui viene impiegato un tipo di razionalità diversa da quella 'umana', vale
a dire una momentanea sospensione delle normali e quotidiane funzioni cognitive,
che tuttavia produce un messaggio portatore di verità: il poeta svolge per questa
via una funzione conservatrice e coesiva di altissima importanza, in quanto gli è
affidata l''identità culturale della società.
Questa forma di follia ha elementi in comune con la follia telestica: il legame è
reso esplicito nello Ione, dove leggiamo:

Infatti, tutti i bravi poeti epici non per capacità artistica (ouk ek technes), ma in quanto
ispirati e posseduti (all'entheoi ontes kai katechomenoi) compongono tutti questi bei
poemi, e la cosa vale anche per i bravi poeti melici; come i coribanti danzano solo quando
sono fuori di senno (ouk emphrones), così anche i poeti melici compongono queste belle
poesie solo quando sono fuori di senno. […] cadono in preda a furore bacchico

172 Ancora influente la prospettiva di Erwin Rohde, che ritiene la mantica per ispirazione di
derivazione dionisiaca: «Nell'estasi, liberazione dell'anima dalle strettoie del corpo e
comunanza col dio, crescono nell'uomo delle forze di cui nella vita comune, inceppata dal
corpo, egli non sa nulla. Come ora si muove liberamente, spirito fra gli spiriti, così, liberata
dalla relatività del tempo, l'anima può vedere ciò che ai soli spiriti è dato conoscere: ciò ch'è
lontano nel tempo e nello spazio. Dal culto entusiastico degli adoratori traci di Dioniso deriva
la “mantica per ispirazione”, quella forma di profezia che non deve aspettare i dubbi segni
causali e tutti esteriori della volontà del dio (come avviene sempre nei profeti di Omero), ma
che, nell' “entusiasmo”, si mette in comunicazione immediata col mondo degli dei e degli
spiriti, e così, in uno stato di spirito sublimato, indaga e predice il futuro» (ROHDE, Psiche, pp.
291-292).
173 Si deve a Democrito, prima che a Platone, la concezione del poeta 'frenetico': Democrito cerca
di offrire una spiegazione 'scientifica' dell'entusiasmo, mediante il modello atomistico. «È
veramente bella qualsiasi opera che un poeta scriva con passione (enthousiasmos), e invasato
da uno spirito sacro (hieron pneuma)» (DK 68 B 18).

95
(bakcheuousi) e a invasamento (katechomenoi), così come le Baccanti che attingono
miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma quando sono in sé non lo fanno (Ion.,
533d-534a).

Anche qui il poeta ispirato è presentato come superiore al poeta freddo e


distaccato, anche perché il poeta è in grado di trascinare l'uditorio nella sua follia.
Celebre l'immagine del magnete che trasmette l'energia divina (theia dynamis,
533d2) in una catena che va dal dio alla Musa, dalla Musa al poeta, dal poeta
all'uditorio (Ion., 533d4-533e5)174.
Ognuna di queste tre forme di follia ha quindi delle finalità particolari, ma
comune è la radice psicologica: sono tutte considerate dalla tradizione greca (e
Platone lo conferma) forme di 'possessione', i cui soggetti sono in comunicazione
con una dimensione 'altra' dell'esistenza. Ma è importante sottolineare che la
mantica, la telestica e la poetica comprendono, a differenza della mania erotica,
un livello tecnico175. La follia mantica e la follia telestica si servono di rituali,
preghiere, musica a scopo terapeutico, così come la poesia adotta determinati
principi formali. Il fatto di implicare una dimensione tecnica conferisce però loro

174 Sulla base di un'interessante lettura di David Konstan, nello Ione Platone lascerebbe spazio
per una valutazione positiva dell'ispirazione poetica. Konstan si rifà a un libro di Julia
Kristeva, Revolution in poetic language (1984), dove la psicanalista (che a sua volta ripercorre
le teorie psicanalitiche precedenti, in particolare lacaniane) descrive la relazione tra il
linguaggio ordinario e la poesia: vi sono due modalità di significazione, il 'semiotico' e il
'simbolico'. Mentre alla sfera del simbolico appartiene il linguaggio strutturato e codificato,
cioè organizzato dalle convenzioni a cui facciamo riferimento nella comunicazione ordinaria, il
semiotico è il 'preverbale' e 'prelogico', non riferibile a un sistema di segni. Kristeva, inoltre,
avvicina la sua idea di semiotico alla funzione della chora del Timeo platonico: esso è un
'momento' di operazioni non-ancora-logiche, che precedono dunque l'evidenza, la spazialità, la
temporalità (in termini freudiani, il semiotico è l'inconscio). La (buona) poesia è un esempio di
irruzione del semiotico nell'ordine logico del linguaggio.
A questo punto Konstan, tornando allo Ione platonico, suggerisce che l'ispirazione poetica in
quanto mancante di techne è certamente svalutata, e può somigliare a un 'delirio'. Ma, in
quanto divina, essa non può essere totalmente negativa: l'abilità del poeta non si esaurisce nella
simulazione di un sapere. «If this is so, then poetry and interpretation, to the extent that they
are inspired, are neither “delirium” – that is Corybantic madness – nor “logic”, but a mixed
discourse that corresponds to what Kristeva calls a “text”, in which the drives “triggered within
the chora” intersect with the symbolic “in an endless rythm”. Perhaps the curious doubling in
Ion's state of consciousness, in which he is simultaneously carried away by the story he recites
and yet coolly aware of the audience's reaction, is a symptom of this textual fluctuation» (D.
KONSTAN, Plato's 'Ion' and the Psychoanalytic Theory of Art, «The Internet Journal of the
International Plato Society», 5 (2005), p. 4).
175 Si veda BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, pp. 247-256. In questo studio le
considerazioni dell'autore riguardo allo statuto della divinazione sono esplicative per
l'inquadramento delle prime tre forme di follia.

96
uno statuto ambiguo, che si riflette perfettamente nella concezione altrettanto
ambigua (duplice, come abbiamo detto) dell'irrazionale per Platone. Vale a dire:
dal punto di vista tecnico, esse non possono rendere conto del loro sapere e
possono pervenire solamente a un'opinione vera, ma senza consapevolezza; in
quanto divinamente ispirate, hanno diritto però a essere rivalutate nella loro
funzione conoscitiva.
Per capire qual è il senso di questa ambiguità, può essere utile confrontare le
classi politiche della Repubblica (libro V: 473c11-d3; libro VII: 535c1-d6; libro
X: 595a-608b3) e la gerarchia di tipi umani presente nel Fedro, là dove la
classificazione illustra il destino delle anime al ritorno dalla contemplazione del
mondo delle Idee. A seconda della qualità della sua contemplazione, l'anima si
incarnerà in un tipo umano diverso. Al primo posto troviamo il filosofo e l'amante
del bello, coloro che, per mezzo della dialettica e dell'intervento di Eros,
raggiungono il mondo delle Forme intellegibili. Al secondo posto vi è il re, atto
alla guerra e al comando; al terzo posto, il politico che amministra (Phaedr.,
248d3-6). Già questa classificazione differisce da quella della Repubblica, dove
sappiamo che Platone assegna ai filosofi-re le funzioni conoscitiva e direttiva
(Resp., 473d). Nel Fedro queste due funzioni vengono scisse e sotto-raggruppate:
si affida, infatti, la funzione direttiva al re e al politico e la funzione di comando al
quarto tipo umano che è il philoponos, cioè l'amante dello sforzo fisico (Phaedr.,
248d6-8).
La terza classe della Repubblica, quella dei demiourgoi, raggruppa gli uomini
della quinta, della sesta e della settima categoria, cioè (in ordine di importanza)
l'indovino e l'esperto di iniziazioni176, il poeta e lo specialista dell'imitazione (che
nella Repubblica sono esclusi dalla città, 595a ss.177), gli artigiani e gli agricoltori

176 Questo conferma l'inserimento della divinazione tra le tecniche e il riferimento da parte di
Platone a una tradizione che risale molto addietro nella storia della Grecia. Il significato
arcaico della parola demiourgos presenta affinità con la funzione regale: fra i demiourgoi (oltre
ai medici, come sappiamo, cfr. supra p.38, nota 95) si trovano, infatti, anche gli indovini. Per
un legame tra inserimento della divinazione tra le arti a sostegno del potere regale e il recupero
della divinazione da parte di Platone, si veda BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, pp.
248-251.
177 Sul 'problema della poesia' Platone sembra consapevole di offrire una prospettiva non
uniforme. Nello stesso libro X sembra essere ammessa nella città una poesia imitativa rivolta al
piacere, purché in qualche modo 'si difenda' e 'provi' di essere non solo piacevole ma utile alle

97
(Phaedr., 248e-3). All'ottavo posto troviamo il sofista e il demagogo, al nono, il
tiranno (Phaedr., 248e3-4): notiamo che il sofista è la controparte negativa del
filosofo; il demagogo e il tiranno, invece, sono la degenerazione della funzione
politica e di sovranità.
Questa analisi rivela la dinamicità delle gerarchie platoniche, e si chiariscono i
motivi per cui la follia profetica, la follia telestica e la follia poetica sono
considerate ambigue a vari livelli: il terreno entro il quale esse operano è un
terreno sdrucciolevole, quello dell'opinione vera e del sensibile «sottoposto al
passaggio del tempo»178. Una tale dinamicità è, inoltre, il presupposto della
traslazione dal piano politico al piano psicologico: l'irrazionale per Platone
necessita di essere codificato e integrato razionalmente, all'interno di una
gerarchia e in vista di un equilibrio globale.

§2. 'Eros': la follia connaturata


È lo stesso Platone che invita a soffermarsi sulla natura dell'anima prima di
illustrare la quarta forma di follia. Noi lo seguiremo.
Evidentemente, non basta fare riferimento agli esempi di mania appena
illustrati, non sufficientemente persuasivi. L'argomentazione della necessità di un
excursus sulla natura dell'anima dopo questi primi esempi anticipa quale sarà il
ruolo della follia amorosa: la follia che viene da Eros è 'migliore' delle altre,
perché calata nella natura della nostra anima, più di quella che può invadere
l'animo del poeta, o di un soggetto con doti particolari ma altrimenti mediocre.
Così il lettore viene (bruscamente) condotto da Platone a conoscere la natura
dell'anima: viene introdotta per prima cosa una 'prova' della sua immortalità che,
come è stato giustamente rimarcato, non ha un valore teoretico e in tal senso non
costituisce una vera 'dimostrazione'179: dire che l'anima è immortale perché
semovente ha soprattutto la funzione di aprire un discorso sulla paideia propria

costituzioni e alla vita umana (Resp., 607b2-e1 ss.).


178 BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, p. 256.
179 C. L. GRISWOLD, Self-Knowledge in Plato's 'Phaedrus', New Haven and London 1986, pp. 78-
79.

98
all'uomo. L'anima è descritta mediante un'immagine come può essere raffigurata
dalla mente umana: « […] del suo aspetto ecco come si deve parlare: dire quale è
(oion men esti) necessita di un'esposizione in tutto e per tutto divina, e lunga; ma
per dire a che cosa assomiglia (ho de eoiken) ne basta una umana e più breve»
(246a3-6). Data la sua comunanza con il corpo, essa ci appare composita: viene
definita come symphytos dynamis (246a7) di un auriga e due cavalli, l'insieme
tutto alato. Eppure, è immortale: la sua immortalità non dipende dalla separazione
da un corpo, ma dal suo essere semovente. L'anima è principio di movimento e,
dunque, muove se stessa e le altre cose. In qualità di principio, dev'essere
ingenerata e indistruttibile (245c5-246a2).
Se tutte le anime sono symphytai dynameis180, ne consegue che anche le anime
degli dei sono ugualmente tripartite: la differenza rispetto all'uomo sta nel fatto
che i cavalli degli dei sono entrambi buoni. «Souls that are destined for
incarnation in mortal bodies have already their three elements […] before their
fall from heaven, when they are still striving to follow in the train of the gods
[…]»181.
In primo luogo, complessità non implica necessariamente conflitto, perché le
parti dell'anima possono essere nella giusta gerarchia e scongiurare il disordine:
gli dei, infatti, rappresentano una situazione 'pura', in cui vi è da sempre assenza
di conflitto. Se poi facciamo attenzione all'espressione di Platone, nell'excursus
sull'anima, che fa riferimento al corpo come una tomba (250c5-7), potremmo
essere spinti a considerare Platone non coerente riguardo alla sua concezione
dell'anima. Sembrerebbe permanere un'oscillazione tra una concezione di matrice
religiosa che vede l'anima come essenzialmente divina, priva di attributi 'corporei',
e la concezione 'scientifica' dell'anima come principio di movimento del corpo.
Seguire la linea interpretativa di William K. C. Guthrie ci consente una
prospettiva dinamica, rafforzata dal linguaggio iconico proprio a Platone – e non

180 Il testo greco riporta: psyche pasa athanatos (245c5). In base a ciò che è detto prima, che cioè
dobbiamo sapere la verità intorno all'anima, divina e umana (peri theias te kai anthropines,
245c3), l'ipotesi da seguire è che tutte le anime presentano l'aspetto di una biga alata.
181 W. K. C. GUTHRIE, Plato's Views on the Nature of the Soul, in W. K. C. GUTHRIE (ed.),
Recherches sur la tradition platonicienne. Sept exposés par W. K. C. Guthrie (et alter.)
Vandoeuvres-Genève 12-20 aout 1955, vol. III,Verona 1957, pp. 9-10.

99
troppo lontana dai risultati ottenuti dall'esame dell'uso platonico delle analogie.
Guthrie in questo è chiaro: Platone, nello spiegare il destino dell'anima nel
Fedro, esemplifica nella familiarità dell'anima col corpo umano l'idea
dell'impurità, senza esaurire questa stessa idea nella comunanza dell'anima con il
corpo182. La difficoltà non è nel rispondere alla domanda se l'anima è per sua
natura immortale o no. Nel momento in cui l'anima è coinvolta nel ciclo delle
reincarnazioni, l'interesse è rivolto alla psyche che è riuscita a uscire da questo
ciclo e ritornare da dove è venuta (eis to auto hothen, 248e6). «Only after escape
is immortality attained, for immortality does not simply mean an ability to outlast
the body»183.
Se, invece, pretendiamo che Platone fornisca la spiegazione razionale della
caduta dell'anima umana dalla sua condizione originaria, ci troviamo di fronte a
un problema per sua natura insolubile, e siamo fuori strada rispetto alle
indicazioni dateci dallo stesso Platone, che coerentemente sceglie di comunicare
una 'verità di fede' all'interno di una cornice mitica. Non siamo lontani, dicevo,
dalla questione che riguarda le analogie: se, infatti, non è possibile spiegare
quando e perché l'anima sia caduta dalla sua condizione originaria, lo stesso vale,
nella visione platonica di un rapporto analogico tra gli enti, per l'infiammazione
della città. Si può solo dire, e questo è infatti detto, cosa possono diventare
l'anima e la città quando subiscono un processo di corruzione184.
Un elemento – seppur non completamente coesivo – di unitarietà della dottrina
platonica dell'anima, è la qualità energetica dell'anima: essa assume diverse
manifestazioni a seconda della direzione in cui viene canalizzata 185. Nel

182 GUTHRIE, Plato's Views on the Nature of the Soul p. 11.


183Ibi, p. 12.
184 Griswold giunge a una conclusione simile a partire da un'attenta analisi dell'excursus,
sottolineando il momento in cui Socrate dice che non possiamo comprendere la natura
dell'anima se non guardiamo a 'ciò che fa' e 'ciò che soffre': «We do not know what the soul is,
but we do know how it changes» (GRISWOLD, Self-Knowledge in Plato's 'Phaedrus', p. 81).
185 Francis M. Cornford ha qualificato l'eros platonico in termini energetici, evidenziando che
l'anima è principio di movimento proprio in virtù di questa energia: «We are now to learn that
the three impulses which shape three types of life are not ultimately distinct and irreducible
factors, residing in three separate parts of a composite soul, or some in the soul, some in the
body. They are manifestations of a single force or fund of energy, called Eros, directed through
divergent channels towards various ends […] the energy can be redirected from one channel to
another». Si veda F. M. CORNFORD, The Doctrine of Eros in Plato's 'Symposium', in The
Unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge 1967, pp. 68-80.

100
linguaggio platonico questa energia prende il nome di eros:

Dunque chi realmente ama apprendere deve, fin da fanciullo, desiderare più che può
tutta la verità. Sappiamo tuttavia che nella persona in cui i desideri sono fortemente
inclinati in un senso, essi sono più deboli negli altri sensi, come una corrente (hosper
rheuma) lì convogliata (Resp., 485d).

Come è bene indicato nel Simposio, siamo di fronte al fattore fondamentale del
desiderio: la sua essenza è neutra o, se preferiamo, demonica. Eros è una natura
che ha carattere di metaxy, carattere che manifesta nell'essere a metà tra
l'ignoranza e la conoscenza, nell'essere l'intermediario tra il mondo umano e
divino, nella sua discendenza dai genitori Espediente e Povertà. Tale natura
sintetica si presenta già nel Simposio nella sua dinamicità. Se poi guardiamo alla
la scala amoris, possiamo riconoscere in eros anche la sua capacità di manifestarsi
variamente, a seconda dell'investimento psichico: è questo un esempio
'ascendente', di 'eros positivo', in cui il desiderio viene educato a distaccarsi dai
corpi belli per dirigersi unicamente verso il Bello in sé. Come sostiene Pausania,
fondamentalmente le manifestazioni dell'eros sono due: l'eros volgare e l'eros
celeste (Symp., 180 d-e). Dalla parte opposta, infatti, abbiamo la Repubblica e il
tiranno come esempio di 'eros negativo'. Il sostrato psicologico del carattere di
questo individuo è «un certo eros (eros tina)» (Resp., 572e5) che è stato 'nutrito'
da cattive frequentazioni: maghi e creatori di tiranni.
Né nel Simposio, né nella Repubblica (né altrove) Platone determina qual è la
posizione di eros nell'anima: sembra, piuttosto, che eros abbia delle qualità che
possono adattarsi bene a, ma non risolversi in, tutte le facoltà che Platone
distingue nella psyche186. Pertanto, risulta « […] una forza organizzatrice e
preponderante nell'animo umano, apparentemente estranea alla tripartizione della
Repubblica […] »187.
Nella descrizione del tiranno della Repubblica ritroviamo anche la mania come

186 Tale processo discendente è analizzato nella sua relazione con la natura di eros nello studio di
M. NUCCI, La posizione di 'eros' nell'anima. Un caso esemplare: l' 'eros' tiranno, «Elenchos»,
22 (2001), pp. 39-73.
187 Ibi, p. 42.

101
stato alterato che, attingendo a una forza che ha le sue radici nell'inconscio,
permette al tiranno di condurre una vita organizzata così da perseguire i suoi
obiettivi. È uno stato totalmente negativo, opposto a quello della mania come
dono divino, che caratterizza un profilo patologico bene individuato da Freud.
Patologia e normalità convivono, ma quando l'una non corre accanto all'altra e la
sostituisce, subentra la perversione:

Nella maggior parte dei casi il carattere morboso della perversione non è riscontrabile
nel contenuto della nuova meta sessuale, bensì nel suo rapporto con la normalità. Se la
perversione non si presenta accanto alla normalità (di meta e oggetto sessuali), […] bensì
quando essa rimuove e ha sostituito la normalità in tutte le circostanze, ecco che
nell'esclusività e nella fissazione della perversione noi vediamo soprattutto la
giustificazione a considerarla un sintomo morboso188.

I desideri del tiranno appartengono alla sfera del paranomos, ovvero della
sfrenatezza e alla violenza, e sono 'messi a capo' da eros (Resp., 573e5-7): tale
forza accentratrice non si identifica con gli elementi inferiori dell'anima, ma, nel
distinguersi dagli appetiti, li comanda, conferisce loro una consistenza, rendendo
l'anima da molteplice (quale sarebbe senza eros) a unita.
Sulla base dell'esempio del tiranno, in cui eros (di per sé né buono né cattivo) è
una forza che ha il potere di plasmare l'individuo, siamo giunti all'acquisizione
che eros e mania sono fortemente apparentati. In altre parole, in tale contesto del
Fedro, la 'mania' erotica è l'espressione potenziata di una forza psichica
connaturata all'uomo, che nel migliore dei casi si traduce in una scelta condivisa
di vita filosofica.
Charles Griswold lega insieme la mania alla kinesis dell'anima nel concetto di
self-knowledge189 – su cui tornerò più precisamente nel paragrafo successivo –
partendo dal medesimo presupposto di Guthrie: eros e anima sono in certo senso
manifestazioni di un'unica natura. Mettendo l'accento sul contesto dialogico entro
cui Socrate si muove per confutare la tesi di Lisia, lo studioso chiarisce che la

188 S. FREUD, Tre saggi sulla teoria sessuale, trad. it. di Mazzino Montinari, Torino 1975, p. 44.
189 Si veda principalmente il capitolo terzo di GRISWOLD, Self-knowledge in Plato's 'Phaedrus', pp.
76-136.

102
potenza di eros ha una funzione 'pratica', etica: l'anima dell'amante ha la
possibilità di 'conoscere se stessa' e in questo senso essere virtuosa, completa. Il
concetto di self-knowledge implica una ricerca che mette in campo tutte le forze
dell'uomo, fisiche e psichiche. Socrate comprende in qualche modo la difficoltà e
la diffidenza di Lisia: come abbiamo visto nell'esempio del tiranno, eros è potente
e spaventoso e Lisia teme i suoi effetti. Ma questo genere di paura appartiene a
coloro che non hanno familiarità con la propria anima: bisogna conoscere i pathe
e gli erga della psyche per non farci sopraffare dall'ignoranza, che non è il sapere-
di-non-sapere ma il credere-di-sapere. Rimane vero che un'anima composita è
qualcosa di mostruoso, come è vero che chi è considerato 'folle' sembra non-
saggio. Ma, nella misura in cui il 'cavallo nero' è una presenza ineliminabile, il
ruolo della ragione è decisivo nel renderlo parte dei suoi stessi obiettivi.
Come ha acutamente notato Giovanni Ferrari, il 'fatto' che il conflitto
intrapsichico sia una lotta tra l'auriga e il cavallo nero, non vuol dire che la vittoria
della ragione sia sic et simpliciter la soppressione del desiderio190. A ben vedere, il
cavallo nero segue anch'esso un 'ragionamento' per ottenere il suo scopo, avendo
di mira esclusivamente il soddisfacimento del piacere sessuale. Egli è tuttavia
limitato dalla sua stessa natura e interpreta le 'mosse' dell'auriga e del cavallo
bianco come dettate da sentimenti di codardia. Non si preoccupa, dunque, di
capire qual è la natura del suo desiderio (né tantomeno le 'ragioni' degli altri due
compagni). L'asimmetria tra la parte razionale e la parte desiderativa dell'anima
riguarda la diversa qualità del ragionamento proprio a ciascuna di esse 191: l'auriga
è superiore nel conoscere i motivi del desiderio del cavallo nero, tant'è che è
costretto ad agire violentemente. Oltretutto, a questo punto, non senza imbarazzo
si identificherebbe il cavallo nero con quella parte dell'anima in cui hanno sede le
emozioni, visto che non conosce né paura né riverenza... È richiesta
un'integrazione, cioè una coesione tra i diversi interessi interni all'anima: «This is
to say that only the charioteer treats self-control as a project – appreciates that the
'self' to be controlled is the one that results from the interaction of all three parts

190 G. R. F. FERRARI, Listening to the Cicadas. A Study of Plato's 'Phaedrus', Cambridge 1987, p.
190.
191 Ibi, pp. 191-192.

103
of the soul»192.
Per altro verso, una tale acquisizione rende l'immagine dell'anima qualcosa di
diverso da una distribuzione delle facoltà sotto una precisa funzione 193: l'anima
non è divisa tra ragione e desiderio, piuttosto, è teatro di conflitto tra desideri
diversi.

§3. L'ala del corpo, l'ala dell'anima


L'amore, con le sue proprietà fluide, è il ristoro dell'anima: «Quando dunque
l'anima fissa lo sguardo sulla bellezza del ragazzo, accogliendo le particelle che di
lì partono e fluiscono (mere epionta kai rheonta) (che per questo sono dette
“desiderio”) (himeros)194, ne è irrorata e riscaldata, cessa di soffrire e gioisce»
(Phaedr., 251c6-d).
In questo passo è concentrato «il modello interpretativo dei flussi
dell'anima»195 che ricorre altrove nell'opera platonica e che suggerisce un rapporto
sempre più stretto tra l'anima e il corpo. Questi due enti mantengono la loro
'identità', ma 'ciò che è del corpo' e 'ciò che è dell'anima', forte anche dell'analogia
di rapporti, fa in realtà parte di uno scambio di processi.

192 Ibi, p. 193.


193 Su questo punto concordano sia Griswold che Ferrari.
194 Secondo l'etimologia del Fedro, himeros deriva dall'unione di ienai (=andare), mere
(=particelle) e rhein (=scorrere). Nel Cratilo troviamo un'altra etimologia: «Himeros,
“desiderio amoroso” o “brama”, prese invece nome da quel rhous o “flusso” che soprattutto
trascina l'anima; e perché hiemenos rhei kai ephiemenos, “impetuoso fluisce e bramoso” delle
cose, e così trasporta violentemente l'anima attratta dell'hesis tes rhoes, cioè dal “desiderio del
moto”; da tutto questo suo potere appunto fu chiamato himeros» (Crat., 419e3-420a4). A
differenza di pothos, anch'esso traducibile con 'desiderio', himeros è desiderio di un oggetto
presente, e l'etimologia del Cratilo rende bene l'idea di una forza impetuosa e violenta, che
sappiamo può trasformarsi in mania.
195 M. M. SASSI, 'Eros' come energia psichica. Platone e i flussi dell'anima, in M. MIGLIORI, L. M.
NAPOLITANO VALDITARA, A. FERMANI (a cura di), Interiorità e anima. La 'psyche' in Platone,
Milano 2007, p. 282. Questo modello interpretativo, che si salda nella rappresentazione
'energetica' di eros di Cornford e nella capacità sintetica conferita a eros da Léon Robin (cfr. L.
ROBIN, La théorie platonicienne de l'amour, Paris 1908), è, con diversa frequenza, reperibile
nell'intera opera platonica, e costituisce la griglia di lettura di numerose immagini che Platone
utilizza per caratterizzare l'anima.

104
Va ricordato, inoltre, che l'anima (e la tripartizione della Repubblica ne porta
un esempio più preciso e strutturato) ha i suoi desideri, elementi fluidi che la
attraversano e la caratterizzano: nel Simposio eros stesso da Agatone è
caratterizzato come hygros (Symp., 196a2), nel Gorgia l'anima dei dissennati è
paragonata a un orcio forato:

Un uomo assai fine, forse di Sicilia o italico, in un suo racconto mitico con un gioco di
parole chiamò questa componente dell'anima orcio (pithon) per la sua arrendevolezza e
persuadibilità (dia to pithanon te kai peistikon), e chiamò non-iniziati gli uomini
dissennati: intendendo dire che l'elemento dell'anima dei non-iniziati in cui hanno sede i
desideri, la sua sfrenatezza e permeabilità, sia quale un orcio forato, e ricorrendo a questa
immagine per la sua insaziabilità […] proprio questi sarebbero i più infelici […] (Gorg.,
493a5-b7).

I desideri, dunque, sono fluidi 'per natura' e la loro conformazione suggerisce


che la consistenza dell'anima cambia in base alla modalità del loro scorrimento.
Insieme con la metafora dei flussi è il movimento che contribuisce a raffigurare
lo scambio di processi che si svolgono tra corpo e anima. Tale proprietà,
primariamente fisica, nella prova dell'immortalità dell'anima del Fedro anticipa il
ruolo guida del movimento nel processo dell'innamoramento:

L'anima è immortale. Ciò che sempre si muove (to aeikineton) è infatti immortale: ma
ciò che muove altro (to d'allo kinoun) e da altro è mosso (kai hyp'allou kinoumenon),
quando ha una cessazione di movimento (paulan echon kineseos), ha una cessazione di
vita. Soltanto ciò che muove se stesso (monon de to auto kinoun), in quanto non
abbandona se stesso, non cessa mai di muoversi (oupote legei kinoumenon), ed è fonte e
principio del movimento (pege kai arche kineseos) per tutto ciò che è soggetto a
movimento (tois allois osa kineitai) (Phaedr., 245c5-d)196.

Poco prima, infatti, l'amante è detto 'colui che è mosso dalla passione' (tou
kekinemenou, 245b): questo il primo uso del verbo kineo in connessione con la

196 Il mito centrale del Fedro, nella sua articolazione linguistica e strutturale, sembra presentarsi
come la sintesi delle idee dell'intero dialogo. Cfr. A. LEBECK, The Central Myth of Plato's
'Phaedrus', «GRBS», 13 (1972), pp. 267-290.
Per esempio, sulla base dello stile 'secco' e dei vocaboli utilizzati, la sezione del mito dedicata
alla prova dell'immortalità dell'anima viene ricondotta alla tradizione presocratica: «The proof
of immortality which occupies the 'pre-Socratic' section is based upon the soul's automotive
faculty. In this short paragraph κινέω and its derivatives are repeated thirteen times, hammering
home that motion is the essential property of the soul» (p. 269).

105
mania197, in quanto l'innamoramento comprende percezioni e sensazioni, bisogni e
desideri, aspirazioni (tutto questo va sotto il nome di mania) che mettono in moto
l'animo.
Nel mito vero e proprio il concetto dell'anima come principio di movimento è
simbolizzato dall'ala198: l'anima è infatti una biga alata che vediamo agire (pathe
te kai erga, 245c3-4) secondo schemi di movimento, come il coro di anime che
segue gli dei nell'ascesa verso la volta celeste, il viaggio dell'anima da un corpo
all'altro, la lotta sanguinosa delle anime per raggiungere la visione delle Idee. La
funzione dell'ala è discriminante: senza ali l'anima non può salire verso l'alto.

È nella natura della potenza dell'ala (tou pterou199) condurre verso l'alto ciò che è
pesante, innalzandolo là dove risiede la stirpe degli dei. In un certo senso tra ciò che
riguarda il corpo (ton peri to soma) è l'ala che soprattutto partecipa del divino: e il
divino è bello, sapiente, buono e possiede ogni altra qualità affine. Di questo si nutre
dunque l'ala dell'anima (to tes psyches pteroma) e grazie a questo si accresce, mentre si
consuma e perisce per colpa di ciò che è turpe, cattivo e contrario a quelle qualità
(Phaedr., 246d6-e3).

Emerge subito un dato fondamentale: nonostante Platone abbia premesso che è


l'anima nella sua natura a essere alata, siamo qui portati a considerare l'ala come
una qualità che si presta bene a essere fisica, che riguarda il corpo. Non c'è
dubbio che corpi umani alati non esistano e che Platone parli all'interno del mito
in cui l'anima è rappresentata come un insieme costituito da un uomo e due
cavalli. Ma che l'ala possa appartenere in modo figurato al corpo come all'anima
chiarisce il suo ruolo di mediatore tra questi due enti: grazie all'ala, l'anima si fa
corpo, possiamo attribuirle desideri, passioni, movimento. Un corpo alato è il
corpo umano, quando, permeato di eros filosofico, aspira al divino: «Per questo è
giusto che solo la ragione (dianoia) del filosofo metta le ali (pteroutai): perché,
per quanto le è possibile, è sempre fissa sul ricordo di quelle cose, che rendono
divino un dio quando si rivolge a esse» (Phaedr., 249c4-7). Ma il corpo è anche
ciò che di più fragile appartiene all'uomo, il simbolo della temporalità e della

197 Cfr. GRISWOLD, Self-Knowledge in Plato's 'Phaedrus', p. 80.


198 LEBECK, The Central Myth of Plato's 'Phaedrus', p. 269.
199 Si tratta probabilmente di una svista, Mauro Bonazzi traduce dell'anima. Cfr. PLATONE, Fedro,
traduzione e cura di Mauro Bonazzi, Torino 2011, p. 95.

106
corruttibilità: l'ala è esposta ai turbamenti e al dolore, e alla necessità come rischio
della vita di quaggiù. Dice Platone che alcuni Omeridi cantano di Amore:

lui i mortali chiamano appunto Eros che vola,


ma gli immortali Pteros, perché costringe a mettere le ali (dia pterophytor'anagken)
(252b8-9).

Anche l'ala e il desiderio sono coinvolti nel flusso naturale delle cose, e
possono essere travolti dal cambiamento. La natura dell'ala è strettamente
connessa con la natura dell'anima e del suo movimento, ma la crescita è stimolata
fondamentalmente da una sensazione visiva. Per quanto riguarda l'anima, del
resto, sappiamo che possiede un suo proprio movimento, diverso da quello del
corpo, e che pertanto presumiamo sia incorporeo, o comunque non spaziale 200.
Non vi è menzione nella palinodia del modo in cui un corpo è mosso dall'anima
che lo occupa, tranne per la presenza del sostantivo zoe (245c7): «Ciò che muove
altro e da altro è mosso, quando ha una cessazione di movimento, ha una
cessazione di vita». Probabilmente, l'unico modo in cui Platone sembra volere
esprimere la modalità di interazione tra corpo e anima è quello della
fenomenologia dell'innamoramento. In questa situazione l'ala rappresenta la
tensione del corporeo all'incorporeo e il principio di unità tra le parti dell'anima è
eros201.
Cosa succede al corpo e all'anima quando l'amante vede un bel ragazzo?
Platone è attento a descrivere i sintomi di questa forma di mania, utilizzando
numerose metafore, immagini, e linguaggi.
La disposizione d'animo dell'uomo in stato di mania è resa col verbo
παρακινέω, (« […] è accusato dalla massa di essere fuori di sé (parakinon)»,
249d3), che indica un movimento scomposto, confermando che il movimento
proprio all'anima è congenere alla natura dell'amante-folle e del filosofo202.
La condicio sine qua non affinché eros sia desiderio di conoscenza di sé e
dell'Altro come se stesso e simile al dio è che l'anima abbia avuto una sufficiente

200 GRISWOLD, Self-Knowledge in Plato's 'Phaedrus', p. 85.


201 Ibi, p. 94.
202 LEBECK, The Central Myth of Plato's 'Phaedrus', p. 271.

107
visione delle Idee quando correva verso la volta celeste. Così, la vista di un bel
ragazzo suscita il ricordo delle Forme, del Bello soprattutto, perché la bellezza
risplende ancora nel mondo sublunare (249d4-250d2). Ecco perché la mania
erotica viene separata dalle altre tre forme di mania. Senza l'aiuto di alcuna
techne, ma con la sola forza della reminiscenza, l'individuo è condotto
direttamente alla conoscenza del mondo intellegibile203.
All'omaggio al ricordo (mnemei kecharistho, 250c8) segue l'omaggio ai sensi e
all'uomo per la sua capacità di sconvolgersi completamente, perché ha
riconosciuto una possibilità di crescita spirituale nel contatto con l'Altro.
La descrizione di questa metabole (251b2) amalgama l'ambientazione rupestre
del prologo al mito centrale: è la crescita di un «corpo-giardino»204, operata da
eros medico dell'anima (252b). Il punto di partenza è la vista, perché è il più acuto
(oxytate) dei sensi, che agisce al posto dell'intelligenza (phronesis), esclusa invece
da uno straordinario gioco di specchi. Dagli occhi, infatti, l'effluvio della bellezza
(tou kallous ten aporrhoen) arriva direttamente all'ala e la irrora. Il desiderio (che
ha nome himeros, come abbiamo visto, etimologicamente collegato all'idea di un
fluire di particelle) si 'stacca' dalla superficie del bel ragazzo per giungere
all'organo secondo una fenomenologia percettiva già incontrata nel trattato
ippocratico Sul regime (De victu, I XXVII, 2-3; XXXV, 3)205. Viene da supporre che il
modello presocratico di spiegazione materiale sia inglobato nel vocabolario
medico per concretizzare, attraverso il dispiegarsi di una precisa sintomatologia, il
concetto di 'malattia dell'anima'.
Altri trattati possono essere confrontati con la descrizione del Fedro, di cui
seleziono alcuni passi fondamentali per concentrarmi sul ricco intreccio di
metafore che la attraversa. Il testo stesso suggerisce che Socrate osserva con
sguardo 'clinico' lo svolgersi delle sensazioni e delle emozioni che travolgono
l'amante206: la sua ricerca investe la causa e la passione che provano gli amanti (he
203 Cfr. BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, p. 251.
204 SASSI, 'Eros' come energia psichica, p. 285.
205 Cfr. §3, cap. I.
206 Per un'analisi delle numerose corrispondenze tra la sintomatologia di Phaedr., 250e1-252c3 e
testi della Collezione ippocratica, si veda V. Longhi, L'amour médecin de l'âme dans le
'Phèdre' de Platon (250e1-252c3): rapprochements avec la 'Collection hippocratique', «Études
platoniciennes», 10 (2013), pp. 2-11.

108
ge aitia kai to pathos ton eronton, 252c2). E Socrate ritrova la causa nel fatto che
la zona attorno a cui crescono le ali (ta peri ten ekphysin, 251b4) viene riscaldata
dagli effluvi della bellezza, riuscendo a trasmettere calore e linfa vitale a tutta la
superficie dell'anima (upo pan to tes psyches eidos, 251b8). Platone riconosce in
chi possiede la bellezza (=eros) il medico dell'anima (252b). L'autore di Antica
Medicina chiarisce che lo scopo della medicina è sapere come le sofferenze
(pathemata) giungono ai malati e come questi malati cessano di soffrire e quali
sono i motivi per cui peggiorano o migliorano (VM, 2, 2).
Le metafore più suggestive sono quelle relative al mondo vegetale, che
descrivono la crescita dell'ala come la crescita di una pianta. Nei testi ippocratici
ritroviamo gli stessi verbi usati da Platone in contesti diversi. Ricordiamo che, in
generale, il verbo auxetai è usato dagli autori ippocratici per connotare lo sviluppo
della malattia: la malattia è vista come un ente autonomo che cresce e muore col
malato.
Platone ci dice che la formazione dell'ala avviene in tal modo: all'interno
dell'anima si produce una liquefazione che produce calore, il quale a sua volta
spinge l'ala a fuoriuscire. Questo processo di formazione è doloroso e piacevole
insieme207, e dipende dalla vicinanza dell'amato; quando, invece, il bel ragazzo si
allontana dalla vista dell'amante si verifica una situazione contraria, un
disseccamento della zona e un irrigidimento, e solo dolore e sofferenza.

Per il calore (thermanthentos) si scioglie la zona in cui crescono le ali […] affluendo il
nutrimento, il fusto dell'ala si inturgidisce (odese) e inizia a sbocciare (hormese
phyesthai) dall'alveolo (apo tes rhizes), su tutta la superficie dell'anima. […] Ribolle (zei)
allora tutta intera ed erompe, prova il dolore di chi sta mettendo i denti: quell'irritazione
(knesis) fastidiosa alle gengive che si prova quando spuntano i denti è la stessa che prova
l'anima di chi comincia a mettere le ali; mentre le ali spuntano, l'anima ribolle, prova
fastidio (aganaktei), sente prurito (gargalizetai). Quando dunque l'anima fissa lo sguardo
sulla bellezza del ragazzo […] cessa di soffrire e gioisce. Quando invece ne è separata e
si inaridisce (auchmese), gli orifizi dei pori (ta ton diedoxon stomata), dove le penne
premono, si seccano e si chiudono ostruendo i germogli dell'ala […] (251b4-d2).

207 Come ha rimarcato Ferrari, secondo una modalità affine a quella freudiana: questo 'piacere
misto' è caratteristico dell'eccitazione sessuale e differisce da altri tipi di sensazione piacevole
nella tensione dolorosa che prelude al soddisfacimento. Cfr. FREUD, Tre saggi sulla teoria
sessuale, pp. 93-94.

109
A questo proposito il nostro esame si rivolge al trattato ippocratico Della
generazione, in un passo che tratta della formazione e degli spostamenti del
liquido spermatico:

Si produce in tal modo: i vasi e i nervi si dirigono da tutto il corpo verso il pene. Per
effetto di uno sfregamento, si riscaldano (thermainomenoisi) e si gonfiano, e conoscono
una forma di irritazione (hosper knesmos), e in conseguenza, un sentimento di piacere e
di calore invade tutto il corpo. Per la frizione del pene e del movimento del corpo, il
fluido nel corpo si riscalda, si dilata e si agita a causa del movimento: si produce della
schiuma (Genit. I, 1-2).

Innanzitutto, sia l'autore del trattato sia Platone osservano quali sono gli effetti
che questo processo ha su tutto il corpo, a livello organico e a livello psicologico.
Ritroviamo la connessione tra la presenza di un liquido in un tessuto e il suo
riscaldamento, che provoca piacere. E l'irritazione provocata dal desiderio
sessuale è l'irritazione dell'anima che freme per mettere le sue ali.
In un altro passo dello stesso trattato è detto che negli eunuchi, essendo lo
sperma bloccato nella sua formazione, «[…] la via del seme è ostruita […] I nervi
divengono duri (sklera) e inerti a seguito della castrazione […]» (Genit., II, 1-2).
È qui descritta, nei termini di un irrigidimento, una condizione simile a quella
dell'ala impossibilitata a fuoriuscire.
La crescita dell'ala segue le stesse tappe della crescita di una pianta: si procede
dalla formazione delle radici e si giunge al frutto. All'inizio, vi è un arrossamento
che provoca lo spuntare del germe («si scalda (ethermanthe) nel punto in cui l'ala
viene irrorata (ardetai)», 251b4); in un secondo tempo, solo quando le ali hanno
cominciato a spuntare («per il calore si scioglie la zona in cui crescono le ali, zona
che prima era dura e impediva loro di sbocciare (blastanein)», 251b4-6), appare
una radice. Infine, sopravviene l'ebollizione («ribolle (zei) l'anima tutta intera»,
251c), la condizione che che permette di «cogliere (karpoutai) finalmente il frutto
di quel piacere dolcissimo» (251e5-251a).
Simili le tappe che scandiscono la crescita della pianta in Natura del bambino:
prima il seme è piantato, grazie all'umore che la stessa pianta produce il germe si
gonfia. Iniziano a spuntare le foglie che costringono la pianta a mettere radici.

110
Una volta che le radici si sono rafforzate, la pianta ritiene un umore spesso e
grasso che è la linfa che produce il frutto (Nat. Puer., XXII).
Altre corrispondenze sono ravvisabili208, soprattutto per quanto riguarda gli
aspetti patologici dello spuntare delle ali, come la pulsazione. In Platone il
momento in cui le ali stanno per spuntare e premono è paragonato a delle arterie
pulsanti (pedosa oion ta sphyzonta, 252d4), con una terminologia che rinvia a
situazioni descritte in trattati medici, in cui gli umori che sbattono forte nei vasi
sanguigni sopraggiungono col delirio: colui al quale, al piegamento del braccio,
palpitano (sphyze) i vasi sanguigni, ha un temperamento folle (manikos) e
collerico (oxythymos) (Epid. II, 5, 16). Più in generale, altrove nel Corpus, la
pulsazione è connessa con improvvise e grandi emozioni:

Io davvero non so quale sia il potere delle phrenes per la facoltà di pensare e
comprendere, salvo che, quando l'uomo prova inaspettatamente una grande gioia o un
grande dolore, esse sobbalzano (pedosi) e procurano nausea perché sono sottili e sono la
parte del corpo più tesa, che non ha cavità in cui accogliere il bene o il male che arriva
(Morb. Sacr., XVII, 2-3).

È notevole che i termini di cui Platone si serve (pedao e sphyzo) siano


impiegati dai medici nello studio del delirio o delle manifestazioni psicologiche
estreme. Il flusso di particelle di eros, dunque, svolge la sua funzione fisiologica
ma può rivelare anche la presenza di una patologia: in questo suo duplice aspetto
viene infatti inteso il rheuma che in un primo tempo esce dallo sguardo del bel
ragazzo per raggiungere l'amato. Per spiegare lo stato d'animo dell'amato sorpreso
dalle emozioni Platone utilizza l'immagine di un uomo che ha contratto una
malattia agli occhi, ma non sa in che modo (255d5-6). Emergono l'aspetto
contagioso dell'amore, la sua espressione sotto forma di mania e, dunque, il suo
aspetto patologico, in quanto impedimento al pieno controllo di sé. Un ulteriore

208 Un trattato ippocratico probabilmente posteriore a Platone, ma che può contenere elementi più
antichi, è Carni. In esso viene rimarcata la funzione del brivido (cfr. Phaedr., 251a2-5: «Chi
invece da poco si è iniziato […] inizialmente rabbrividisce (ephrixe) e s'insinua dentro di lui lo
sgomento di allora») come sintomo della gravidanza: «Alle donne che hanno esperienza appare
evidente quando sono incinte: subito provano dei brividi (ephrixe), avvertono calore (therme),
malumore, spasmi […] in tutto il corpo e l'intorpidimento dell'utero» (Carn., XIX, 1). Lo
stesso trattato parla dello spuntare dei denti, che ricorre nel Fedro. Cfr. LONGHI, L'amour
médecin de l'ame dans le 'Phèdre' de Platon, pp. 6-7.

111
raffronto con il Corpus può risultare favorevole. L'ophthalmia è una malattia che
fa lacrimare gli occhi, come ci dice l'autore di Arie acque luoghi: quando la
stagione offre condizioni meteorologiche sfavorevoli i fluidi interni al corpo
causano diverse malattie, tra cui l'oftalmia secca, che può essere caratterizzata
dalla discesa del catarro (katarrhous) dalla testa ai polmoni (Aër., X, 11-43).
Evidentemente Platone usa il termine rheuma per stabilire una corrispondenza tra
il flusso di particelle e questa scarica del flusso che colpisce chi soffre di un simile
disturbo agli occhi209.
La nostra analisi viene nuovamente a confermare che l'uso del vocabolario
medico non è solo finalizzato a efficacia descrittiva, ma ha una funzione ben
precisa nel quadro globale della malattia dell'anima. Camminare lungo il sentiero
delle immagini non è solo la strada facile per l'adepto ateles: Platone gioca con le
similitudini per suggerire la sua visione del mondo.
La sostanza dell'anima appare, nel Fedro, corporea, in un senso più complesso
rispetto a quello del Fedone («Perché ogni piacere e dolore, come avesse un
chiodo, la [l'anima] inchioda al corpo e la rende corporea (somatoeide) e le fa
credere che siano vere le cose che anche il corpo dice che son vere», Phaed.,
83d4-5). Che il riconoscimento della 'corporeità' dell'anima (riconoscimento
operato anche grazie al raffronto con la letteratura medica) sia un riconoscimento
delle possibilità dell'individuo in quanto essere divino e umano insieme, emerge
chiaramente dalla funzione dell'ala. L'ala rappresenta l'uomo nella sua fragilità.
Sulla base di un'interessante lettura che mette a raffronto la funzione dell'ala e
la funzione dei denti nella bocca (suggerito in parte dallo stesso Platone) 210,
possiamo spingerci fino a riconsiderare le stesse analogie corpo-anima che hanno
accompagnato la nostra ricerca fino a qui. L'analisi delle funzioni (sensazioni,
emozioni) dell'anima è operata, infatti, come fossero delle funzioni organiche:
quando l'amante vede il bel ragazzo avviene «un primo processo di
metabolizzazione, di trasformazione dell'altro in se stessi» 211. L'immagine

209 Cfr. LEBECK, The Central Myth of Plato's 'Phaedrus', p. 279.


210 Si veda la linea interpretativa di A. FUSSI, Vedere con gli occhi dell'anima. La funzione
dell'ala nella palinodia di Socrate, «Verifiche», 1-2 (1995), pp. 125-144.
211 Ibi, p. 129.

112
dell'uomo sopraffatto dai bisogni come un orcio forato viene messa da parte per
essere trascesa nella sua dimensione psichica ed esistenziale, per non dire erotica
(nel senso della natura demonica e 'folle' dell'eros). L'aspirazione al riempimento
non coincide infatti con l'appagamento del bisogno: l'una e l'altra insieme sono
condizioni essenziali dell'essere umano in quanto essere sociale non perennemente
in fuga dal contatto con l'Altro. Il caso dell'uomo che, una volta liberatosi dal
bisogno, vive «come una pietra, senza gioie e senza dolori» 212, suona come un
meccanismo difensivo patologico213.
Se scelta di vita filosofica equivale a scelta di vita (il più possibile)
consapevole, la mania erotica non si risolve nella pura contemplazione dell'Altro,
ma in una tensione quasi famelica, perché anche l'anima ha bisogno di
nutrimento. Ma l'ispirazione che l'amato sperimenta garantisce a quello stesso
appetito la possibilità di essere: l'ala ha innalzato il mero appetito ad appetito
umano214. E dico tensione quasi famelica perché la consapevolezza di sé, quella a
cui eros come desiderio di conoscenza di sé aspira, porta al riconoscimento che
«conoscere non è come mangiare»215, e che nella perdita di sé nel mondo
assolviamo al nostro compito di cercatori: «Il rapporto alla verità è desiderio, cioè
rapporto a qualcosa di sovrabbondante, di indistruttibile, di generoso»216.
Se vogliamo che la nostra lettura del mondo non si trasformi in una riduzione

212 Cfr. Gorg., 494a-b1.


213 Si veda D. R. LAING, L'io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, trad. it. di David
Mezzacapa, Torino 1969. Rinvio in senso lato al concetto di 'insicurezza ontologica' dello
psicanalista e psichiatra scozzese Donald R. Laing. Nel suo rapporto col mondo lo
schizofrenico attua una serie di meccanismi che si riflettono su di sé e sul mondo all'infinito,
proprio per la sua incapacità a farsi attraversare dal mondo e dagli altri senza mettere in
discussione la propria identità. I confini del suo io sono labili, se non sdoppiati in un 'Io vero'
(che è pur tuttavia una finzione, in quanto è un Io comunque non impegnato in una rete di
relazioni e azioni) e un 'Io falso', che costituisce la costante minaccia per l' 'Io vero'. Per
difendersi, lo schizofrenico attiva dei meccanismi ansiogeni di varia natura, uno dei quali è la
pietrificazione e spersonalizzazione: nella paura che l'altro possa trasformarmi in pietra,
provvedo io alla pietrificazione dell'altro, annullandolo come persona, cosicché non possa
farmi del male. In questo modo si erige una barriera all'espressione dell'altro, ma anche di sé, il
che è evidentemente dannoso per tutti, ma in particolare per individui con questo tipo di
personalità, perché «fondamentalmente queste persone hanno bisogno di ricevere
costantemente dagli altri una conferma della loro esistenza» (p. 56). L'esperienza
dell'innamoramento come è descritta nel Fedro rappresenta pienamente un rischio nel senso
esistenziale: l'amore è una minaccia per la propria soggettività ed è sinonimo di annientamento.
214 FUSSI, Vedere con gli occhi dell'anima, p. 133.
215 Ibi, p. 136.
216 Ibi, p. 134.

113
di noi stessi a cosa (o pietra) siamo invitati a riconoscere nel divino che è in noi e
nell'Altro l'inafferrabile e l'incomprensibile: «Allora ama, ma non sa chi; e non
comprende ciò che prova né sa esprimerlo […]» (Phaedr., 255d4-5).
Nella mania erotica del Fedro l'intenzionalità propria a eros e la professione di
ignoranza di Socrate si completano: grazie alla reminiscenza l'amante filosofico,
attraverso la sua reazione217 alla vista del bel ragazzo, valorizza il suo corpo nel
ricordo della contemplazione. Anamnesis non è un processo puramente
intellettuale e ha come telos il ricongiungimento dell'uomo con il cosmo. La
conoscenza di sé che avviene grazie alla mania erotica porta l'uomo al
riconoscimento del suo essere parte di un Tutto.
Nella misura in cui l'anima non può cessare di muoversi, pena la morte del
corpo, nemmeno l'uomo dovrebbe smettere di richiamare alla memoria. L'attività
dell'anima e quella della reminiscenza procedono insieme e l'esperienza della
Bellezza non vale una sola volta per tutta la vita, perché dal momento in cui la
ricerca di noi stessi ha inizio sappiamo che non può essere mai pienamente
conseguita eppure è sempre attiva. L'anima dell'uomo dunque si esercita a essere
quello che è in realtà: una natura filosofica.
Una tale costanza (e un tale autocontrollo) è finalizzata a un tipo particolare di
'apprendimento': l'amante-filosofo impara a conoscere l'essenza dei propri desideri
e con essi l'arche della suo essere composito. L'amore è 'medico dell'anima'
perché grazie a eros l'uomo conosce le origini del male che lo affligge e questo
significa, in un certo qual modo, guarire da una passione cieca.

217 È bene tenere presente che non tutti gli amanti reagiscono allo stesso modo alla vista di un bel
ragazzo. La reazione che Socrate porta a esempio è la reazione 'ideale', cioè quella che 'prova'
il riconoscimento di una Bellezza al di là del bel corpo immanente (Cfr. GRISWOLD, Self-
Knowledge in Plato's 'Phaedrus', p. 125).

114
IV. Il Timeo: la kinesis dell'anima tra natura e patologia

Il carattere naturalistico del Timeo ha attirato differenti opinioni in merito alla


sua 'scientificità'218. Numerosi studiosi si sono interrogati sull'autenticità e
originalità (nonché sulla competenza) dei contenuti fisiologici e cosmologici del
dialogo. Si vuole suggerire qui la stessa posizione che abbiamo assunto nei
confronti di Platone medico: Platone scienziato della natura ha certamente
qualcosa da dire sulla materia che tratta, pur essendo debitore ai suoi predecessori
e contemporanei. Non mancano indicazioni di rielaborazione autonoma nello
stesso dialogo: a volte Platone impiega termini già usati, altre ancora parte da idee
di riferimento per poi procedere da sé. L'uso platonico delle fonti risulta dunque,
in ultima analisi, sempre metodologicamente mirato e rivela nell' 'adattamento'
alla materia da trattare (così come nel riferimento ad altri dialoghi del corpus
platonico) la sua originalità.
In questo capitolo mi limiterò alla valorizzazione della descrizione delle
malattie del corpo e dell'anima, e un'attenzione particolare riserverò alle modalità
di interazione tra anima e corpo (per quello che il dialogo ci consente) 219.
218 Si veda principalmente G. E. R. LLOYD, Plato as a Natural Scientist, «Journal of Hellenic
studies», 88 (1968), pp. 78-92. Per il debito platonico nei confronti di Empedocle e Anassagora
(e della tradizione medica italica e ippocratica) specificamente riguardo alla descrizione della
formazione del corpo umano, si veda anche la sezione su Platone di F. SOLMSEN, Tissues and
the Soul: Philosophical Contributions to Physiology, «The Philosophical Review», 59 (1950),
pp. 445-469.
219 Geoffrey E. R. Lloyd si concentra su altri casi rilevanti, di cui do qui solo un breve accenno,
riguardanti la conciliazione tra le fonti, in cui è evidente il livello di rielaborazione cui Platone
sottopone le sue fonti. Il riconoscimento della chora (Tim., 49a ss.), il ricettacolo di ogni
generazione (49a5-6), muove dalla constatazione della mutevolezza del sensibile. Non c'è,
infatti, sicurezza alcuna nel distinguere nettamente il fuoco dall'aria, o l'acqua dall'aria, dati i
continui cambiamenti di stato della materia. Non si possono, dunque, 'fissare' una volta per
tutte i 'quattro elementi', e determinarli: «Così, dal momento che ciascuna di queste cose non
appare mai la stessa, di quale di esse si potrebbe sostenere con fermezza, senza vergognarsi,
che, di qualsiasi cosa si tratti, è proprio questa e non un'altra?» (49c7-d3). È preferibile
riservare a essi una qualifica di toiouton e non di tode/touto, in modo da rendere al meglio, dal
punto di vista linguistico, la possibilità di parlare dei sensibili come di 'qualcosa che sono', pur
riservando alle sole Idee la determinazione (cfr. PLATONE, Timeo, introduzione, traduzione e
note di Francesco Fronterotta, Milano 2003, pp. 261-263, nota 193). Platone rende possibile
distinguere le cose che divengono da ciò in cui divengono, che invece sempre permane: la
chora come costituente ultimo della materia, «il puramente indeterminato e l'assolutamente
potenziale» (ancora Fronterotta in PLATONE, Timeo, p. 265, nota 195), è un'idea originale (cfr.
LLOYD, Plato as a Natural Scientist, p. 85). Naturalmente, è primariamente in Empedocle che
ritroviamo l'idea che il mondo del divenire è composto da quattro corpi semplici, quali l'acqua,
l'aria, il fuoco e la terra, ma Platone, facendo di questi stessi elementi una modificazione della

115
Incontreremo ancora nella nostra ricerca i segni di un debito e di un
riconoscimento di autorità, ma cercheremo di evitare considerazioni ponderali di
vantaggi e svantaggi teorici, le quali tengono certamente conto della complessità
di idee soggiacenti alla filosofia platonica, ma rischiano di relegare sullo sfondo
proprio la sua stessa identità.

§1.Malattie del corpo


Come abbiamo già brevemente ricordato220, è proprio la descrizione delle
malattie nel Timeo a essere oggetto dell'interesse dell'autore della dossografia
medica dell'Anonimo Londinese: a Platone viene data ampia considerazione, più
che ad altri medici – incluso lo stesso Ippocrate. Tale descrizione trova la sua
originalità nell'essere coerente con l'esposizione fisiologica precedente il
resoconto medico221, perché l'interesse di Platone nell'eziologia delle malattie del
corpo si concentra sui suoi costituenti naturali nella loro disposizione naturale222.
Platone prende in considerazione tre diversi eide di malattia, dicendo che come
avvengono è «più o meno chiaro a tutti» (Tim., 81e6). Precedentemente, infatti,
sono stati descritti la physis del corpo e i principali processi fisiologici che lo
interessano (respirazione, digestione e nutrizione): il corpo è stato definito
epirrhyton kai aporrhyton (43a5-6), un ente cioè che subisce influssi ed efflussi,
quindi è per natura in continuo movimento e sensibile alle stimolazioni
provenienti dall'esterno. Dunque, tutto ciò che avviene kata physin e secondo
materia originaria, rende conto delle trasformazioni della materia osservabili nell'esperienza e
'salva' la tesi empedoclea (cfr. SOLMSEN, Tissues and the Soul, p. 446).
Un altro punto riguarda la varietà degli oggetti sensibili, dovuta, in ultima analisi, alle
differenze di forma e dimensione dei triangoli di base: è da questi, infatti, che i quattro
elementi nascono (54b6-c3). Anche Leucippo e Democrito avevano ricondotto i caratteri dei
corpi sensibili a forma e disproporzione negli atomi degli aggregati. Gli atomisti, inoltre,
spiegavano l'esistenza del movimento postulando l'idea del vuoto, idea che Platone,
riconducendo il movimento al «periodo dell'universo […] [che] comprime tutte le cose e non
permette che rimangano spazi vuoti» (58a4-7). Platone si preoccupa, inoltre, di assegnare a
ciascun solido ottenuto dalle modificazioni dei triangoli di base l'elemento corrispondente
(55d6-56c7). Per un approfondimento, si veda LLOYD, Plato as a Natural Scientist, pp. 84-92.
220 Cfr. supra, p. 50, nota 95.
221 In proposito, si veda anche H. W. MILLER, The Aetiology of Disease in Plato's 'Timaeus',
«Transactions and Proceedings of the American Philological Association», 93 (1962), pp. 175-
187.
222 Ibi, p. 177.

116
ordine e regolarità favorisce il benessere del corpo, così come le modalità di
plerosis e apochoresis (81a2), se si compensano in modo da assicurargli il
nutrimento.

Malattia come 'stasis'. Ritroviamo il concetto di malattia come stasis223 che


abbraccia, a mio avviso, con sfumature diverse, tutti i generi di patologia da
Platone considerati. Nel primo caso che incontriamo nel testo platonico, si tratta
degli elementi che compongono il corpo, cioè la terra, il fuoco, l'acqua e l'aria:
quando si verificano eccessi o difetti di quantità224, o quando un elemento si sposta
dalla sua collocazione originaria225, o quando ancora non viene rispettata
l'appropriata combinazione tra le varietà (gene) degli elementi, avviene una
trasformazione contro natura (para physin, 82a7). Questo è un tipo di mutamento
al quale nessuna cosa dovrebbe andare soggetta, perché non avviene in base a un

223 Già da noi incontrato in Resp., 444b e in Soph., 228 a-b. Cfr. supra, pp. 53 ss., pp. 70 ss. A tale
proposito, Anne Balansard preferisce sottolineare un'incongruenza: «Dans le Sophiste, le
principe de la maladie, qu'elle soit corporelle ou psychique, c'est la “sédition” (stasis). Les
différentes catégories décrites dans le Timée tombent difficilement sous cette définition. Si l'on
se place au niveau des éléments, les causes des maladies sont de trois sortes: un “excès”
(pleonexia) ou “défaut” (endeia) de l'un des éléments, un “changement de place” (tes choras
metastasis), ou encore la présence d'une variété impropre de tel ou tel élément. Or, bien que
l'on ait ici un composé du terme stasis, la notion de “sédition” peut difficilement être importée
dans le texte. Par ailleurs, si les humeurs maladives qui circulent dans les vaisseaux sont
décrites avec des métaphores guerrières, l'origine de ces mêmes humeurs n'est pas une
“sédition”, mais la “corruption” du sang. Cette remarque confirme, si besoin en était, ce que
j'observais précédemment: dans le Sophiste, c'est le comparé, – l'injustice – , et non le
comparant, – la maladie – qui dicte l'analogie» (BALANSARD, Maladie et laideur de l'âme, p.
36). A mio parere, le differenze terminologiche tra il Sofista e il Timeo non sono tali da
oscurare una continuità di un concetto 'trasversale' di salute/malattia.
224 Sappiamo che per i medici greci il concetto di salute si basava generalmente sulla mescolanza
proporzionata degli elementi del corpo, e che diversi filoni differivano su quali fossero questi
elementi. Come abbiamo visto, Alcmeone riteneva che un corpo in salute fosse tale perché
caratterizzato da una isonomia di coppie di opposti, mentre i medici di Cos parlavano più che
altro di equilibrio tra sostanze fluide o 'umori'.
Diversi commentatori hanno suggerito nel Timeo l'influenza della scuola medica italica, e in
particolare di Filistione di Locri. La teoria di Filistione è più semplice, ma in generale
possiamo ritrovarvi la concezione che il corpo è composto dei quattro elementi menzionati da
Platone (e, naturalmente, da Empedocle). Ogni elemento ha la sua dynamis, e quando un potere
è in eccesso o in difetto si verifica la malattia. In particolare, le malattie sono dovute a tre
diverse cause: a un eccesso o a un difetto del potere proprio a ciascun elemento, a cause esterne
(come il clima o dei bruschi cambiamenti di temperatura), e allo stato generale di salute del
corpo. Si veda il commento al Timeo di F. M. CORNFORD, Plato's Cosmology. The 'Timaeus' of
Plato, London 1937, pp. 332-334.
225 Ricordiamo qui VM, 14, 33-37: la malattia subentra quando vi è assenza di mescolanza tra le
dynameis e un elemento si distacca e si separa, 'stando da solo'.

117
rapporto proporzionale (logos, 82b4).

Malattia come 'diaphthora'. Il midollo, i tessuti e, sebbene in modo diverso, il


sangue, sono composti dei quattro elementi, quindi possono ammalarsi di stasis,
come appena esposto. Ma le malattie più grandi si verificano per corruzione di
queste composizioni secondarie, quando il processo di formazione avviene
«all'inverso rispetto all'ordine naturale» (anapalin, 82c6). La corruzione, infatti,
riguarda i tessuti, la produzione di umori dannosi, come la bile e il flegma, e, non
da ultimo, il sangue che non può più nutrire il corpo, essendosi interrotto anche il
movimento regolare di trasporto. Al siero del sangue si sostituiscono i sieri della
bile e del flegma, che impediscono al corpo di purificarsi (83e) e diventano così
strumenti (organa, 83e2) delle malattie. Il corpo viene compromesso nella sua
struttura complessiva, e la situazione si aggrava ulteriormente quando ad
ammalarsi è il midollo (84c4), perché esso riveste un ruolo cruciale nel governo
dell'intero organismo226.

Malattia come 'phlegmainein'. La lettura di Male sacro ci ha già mostrato un


caso in cui lo pneuma ha una funzione refrigerante nell'organismo227: qui nel
Timeo l'aria rigenera i tessuti e ne impedisce la putrefazione. Platone evidenzia per
questo tipo di malattie un importante aspetto psichico: il dolore. Può succedere,
per esempio, che l'aria, non possa passare regolarmente per il corpo, e, 'forzando
le vene', prema sul diaframma (84d2-e1). Ritroviamo qui la nozione dei 'passaggi',
che mettono in comunicazione ciò che è interno al corpo con l'esterno, e il verbo
phrasso, nella loro combinazione elementi caratteristici del trattato ippocratico

226 Il midollo è l'arche del composto anima-corpo quale è l'uomo: « […] fissati infatti nel
midollo, i vincoli della vita (hoi tou biou desmoi), per cui l'anima è avvinta (syndoumenes) al
corpo […] » (Tim., 73b3-4). La composizione del midollo è, infatti, fisica, in quanto la
sostanza è identica a quella del cervello (73d) e del seme (77d3-4); e psichica, perché a partire
dai triangoli originari regolari e lisci (73b5-6), il demiurgo introdusse nel midollo le specie
(gene) dell'anima, collocando la parte razionale e immortale nella testa (73d), e il resto, cioè la
parte mortale, lungo la colonna vertebrale e nelle ossa (73d2-e). Potremmo dire di avere un
midollo 'cervicale' e un midollo 'spinale': «Plato has thus linked the tissues to Soul» (cfr.
SOLMSEN, Tissues and the Soul, p. 451).
227 Cfr. supra, pp. 36-37.

118
Sul Regime228.
Le principali secrezioni che causano malattie sono poi il flegma e la bile che
possono mescolarsi e causare diversi disturbi. In particolare, il flegma bianco può
produrre delle eruzioni cutanee bianche (85a4), mentre il flegma acido e salato
provoca flussi di catarro (katarrhoika, 85b4)229. La combinazione di flegma
bianco e bile nera porta all'epilessia:

[…] se il flegma bianco si mescola con della bile nera e si propaga per i periodi che
hanno sede nella testa e che sono i più divini, turbandoli, il malessere che ne deriva […] è
più difficile da respingere quando […] sopraggiunge in stato di veglia: ed è detto assai
giustamente 'malattia sacra', perché tocca ciò che in noi vi è di sacro (85a5-b2) 230.

La bile da sola è, invece, responsabile delle malattie infiammatorie


(phlegmainein, 85b5): la sua caratteristica principale è quella di ribollire (zeousa,
85c) e provocare, una volta coagulata e raffreddata, brividi e tremori. Il ristagno di
un umore produce sintomi infiammatori231 e l'associazione di brividi, calore e
liquefazione è stata già da noi riscontrata, sebbene con termini diversi, nei trattati
del Corpus e nello stesso Fedro232. In quest'ultimo dialogo i brividi e il calore si
riferiscono alla fenomenologia dell'innamoramento, e l'uso del vocabolario
medico è volto pertanto a sottolineare l'aspetto di 'medicalizzazione' della malattia
dell'anima. È interessante rilevare come tale prospettiva di medicalizzazione sia
accennata nel Fedro, e poi proseguita nel Timeo, in cui, come vedremo più avanti,
trova la sua più ampia espressione.
Platone, infine, conclude l'esame delle malattie del corpo, aggiungendo i casi di

228 Ad esempio: Vict., I XXXV 3, 10-20.


229 Sappiamo che i katarrhoi sono un sintomo patologico, e possono essere segno di una dieta
scorretta e mal bilanciata da esercizi fisici. Abbiamo incontrato queste sostanze in Resp.,
405d2-3 e Platone probabilmente prende a prestito il vocabolario medico dai trattati ippocratici
di impronta filosofica, come Regime e Venti.
230 Rispetto alla eziologia che l'autore di Male Sacro offre (cfr. supra, pp. 24-25), quella di
Platone risulta più semplice, ma dà corpo a una spiegazione originale perché legata alla
collocazione della sede immortale dell'anima nella testa, perché è lì che avvengono le periodoi,
i movimenti circolari propri all'anima. In questo modo Platone stabilisce un legame tra il fisico
e lo psichico, fornendo una qualità spaziale, quale è il movimento, sia all'anima che al corpo.
231 Si ricordi, per esempio, cosa succede al sangue nel Peri parthenion; cfr. supra, p. 17.
232 Cfr. supra, pp. 109 ss.

119
eccesso di uno dei quattro elementi (86a2-a8).

Le modalità patologiche fin qui esaminate sono definite da termini che già per
Platone hanno indicato la malattia, non solo del corpo, ma anche dell'anima e
della città. Rimarco l'interessante uso, in tale contesto fisiologico, del verbo
poikillomai che indica nel sangue «una molteplicità di colori e di asprezze, di
acidità e di salinità […]» (82e4-6). È la varietà di colori che caratterizzava la polis
tryphosa, una città che, come sappiamo, è costantemente anch'essa soggetta alla
stasis. Si riconferma il concetto sviluppato nel capitolo secondo riguardante la
catena delle analogie. Organizzare l'anima, il corpo e la città secondo rapporti
analogici significa dispiegare una lettura dei rapporti che regolano i fenomeni, ed
è questa l'operazione di un soggetto che pensa il mondo. D'altra parte, lungo tutta
la descrizione, ho notato che è frequente la presenza di metafore guerresche oltre
a quelle politiche, che presentano gli agenti fisiologici in questione come dei
viventi, e il corpo stesso e la malattia sono dei viventi in lotta tra loro. La bile, il
flegma e i loro sieri sono nemici a se stessi (83a3) e ostili a tutto ciò che nel corpo
rispetta la sua collocazione naturale (83a4-5). Di solito aggrediscono il corpo
(83b)233 e per questo sembrano qualificarsi come assolutamente nocivi – qualità
negativa che non avevamo invece riscontrato nella Repubblica234. A volte il corpo
riesce a opporre resistenza (85e8) e ad avere la meglio sulla forza della malattia
(83e6-7): e finalmente il 'nemico', «precipitandosi via dal corpo come un
fuggiasco da una città in rivolta (ek poleos stasiasases)» (85e10-86a), è scacciato.
Rafforzo le mie considerazioni con le parole di Geoffrey E. R. Lloyd:

Just as the Republic and other dialogues describe the state's disorders in bodily terms,
so conversely, we may say, the Timaeus describes the body's disorders partly in political
terms. […] The description of the proper, natural state of the body in health as orderly
and of its disruption as disorder is consonant with that cosmic message and fits those
traditional Greek beliefs well enough. But Plato carries the politicization of the body
much further than most, maybe than any, extant Greek medical theorist. His notions of
order, proportion, harmony span the fields of politics, morality, 'physics' (the nature of
things), and the body in particular. We should not say that those ideas arise in one of

233 Il verbo è prospipto, già incontrato nel trattato ippocratico Sul Regime (cfr. supra, p. 30), che
qui acquista una sfumatura di violenza e aggressività.
234 Cfr. supra, p. 76, nota 137.

120
those fields, then to be applied to others. Rather, their power and relevance in each field
get to be strengthened and confirmed by their use in others235.

§2. Dal corpo all'anima


Platone riprende nel Timeo l'immagine tripartita della psyche umana delineata
nella Repubblica e nel Fedro, dislocando l'anima in tre diverse zone del corpo e
offrendo così alle varie disposizioni del carattere e motivazioni dell'agire umano
una base e un'attività organica corrispondenti. L'anima immortale, che è sempre la
parte migliore, si trova nella testa, mentre l'anima mortale è collocata in altre due
zone: quella che partecipa del coraggio e dell'ira è nel petto, la parte dell'anima a
cui appartengono i bisogni del corpo risiede nel ventre.
In questo dialogo Platone dedica molta attenzione all'interazione tra l'anima e il
corpo, e la nuova tripartizione sembra confermarlo: non è mai esplicito il rapporto
tra i due enti, ma emerge fortemente la convinzione di una comunicazione che
passando per il corpo raggiunge l'anima. Pertanto, in questo paragrafo prendo in
esame la descrizione del meccanismo della sensazione, in cui Platone, oltretutto,
riconferma la sua attenzione alla techne medica (ci soffermeremo in particolare
sulle affinità, anche di matrice empedoclea, tra il Timeo e il Regime): l'anima si
presenta come un'entità materiale, che funge da destinatario di un processo svolto
dal corpo. Altri processi in cui emerge un'interazione tra l'anima e il corpo sono il
sonno e la divinazione: qui il fegato riflette come uno specchio (letteralmente) la
comunicazione tra il corporeo e l'incorporeo.

I pathemata. Nel Timeo la sensazione è un processo che riguarda un soggetto e


il mondo esterno, fatto di «corpi che derivano da molte figure» (61c4). Si tratta di
un meccanismo di trasmissione che va dall'oggetto alla parte razionale dell'anima:
gli oggetti emettono particelle che da essi si staccano sotto forma di effluvi (il
termine è aporrhoai, che ricalca gli effluvi materiali della teoria della sensazione

235 LLOYD, In the Grip of Disease, pp. 154-156.

121
di Empedocle), e raggiungono gli organi di senso. Questi, a loro volta,
trasmettono l'informazione al sangue che veicola il messaggio all'intelletto, di
modo che possa essere prodotto un giudizio236.
Protagonisti di questo processo percettivo sono le affezioni prodotte sul corpo
dagli oggetti sensibili (pathemata, 61c5) che Platone, dando per noto ciò che
riguarda il corpo e l'anima (61d5), passa a esaminare, distinguendo tra quelle «che
riguardano il corpo nel suo complesso» (peri holon to soma, 64a2) o impressioni
«comuni a tutto il corpo» (koina tou somatos pantos, 65b4)237, e «ciò che si
determina nei singoli organi del nostro corpo» (ta d'en idiois meresin hemon
gignomena, 65b6)238.
Innanzitutto, non tutte le impressioni suscitano una sensazione:

Così dunque procediamo all'esame delle cause di ogni impressione, che susciti o no
una sensazione (aisthetou kai anaisthetou), ricordandoci della distinzione introdotta in
precedenza fra ciò che si muove con facilità e ciò che si muove con difficoltà […].
Quando ciò che per natura si muove con facilità subisce l'azione di un'impressione, pur
lieve, le sue parti se la trasmettono le une alle altre circolarmente, riproducendo la stessa
impressione fino a che, una volta giunte alla parte razionale dell'anima (epi to
phronimon), le comunicano la proprietà dell'agente; invece, ciò che si muove con
difficoltà, in quanto è stabile e non procede affatto circolarmente, subisce soltanto
l'impressione, senza muovere nessuna delle cose circostanti, sicché […] l'impressione
iniziale rimane immobile in esse per l'intero vivente e il soggetto che la subisce rimane
privo di sensazione (64a6-64c3).

Esistono, dunque, impressioni che non sono percepite dal soggetto e restano
'immobili': perché il soggetto le 'senta', è necessario che l'oggetto abbia una
determinata composizione, e che la qualità della trasmissione sia tale che questa
composizione giunga alla parte razionale dell'anima.
Tra le impressioni comuni a tutto il corpo rientrano il piacere e il dolore, il cui
ruolo fondamentale ritroveremo più avanti nell'esame delle malattie dell'anima.
Non tutte le impressioni producono piaceri e dolori:

236 Per un'analisi delle fasi che costituiscono la fisiologia della sensazione nel Timeo, si veda L.
BRISSON, Le 'Timée' de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', sur le mécanisme de la
sensation, «Études platoniciennes», 10 (2013), pp. 2-6.
237 Tim., 61d5-65b3. Precisiamo che Platone è il primo a operare una distinzione delle sensazioni
tattili: in 62b6-64a vengono esaminati il 'duro' e il 'molle', il 'pesante' e il 'leggero'.
238 Ibi, 65b4-68d7.

122
[…] un'impressione contro natura e violenta (para physin kai biaion), che si produca
in noi all'improvviso (hathroon), è dolorosa, mentre un'impressione che, anch'essa
all'improvviso, ristabilisca di nuovo la condizione naturale (eis physin apion), è
piacevole; ancora, un'impressione che si produce gradatamente e a poco a poco non
suscita sensazioni, mentre un'impressione che si produce in condizioni contrarie ne
suscita. […] (64c8-d3).

Vi sono impressioni che suscitano sensazioni anche intense, pur non


implicando né piacere né dolore: questo è il caso delle impressioni che dipendono
dall'organo della vista, costituito da particelle molto piccole. Nel caso di quelle
che dipendono da organi di senso composti da particelle più grandi, si produce
tale effetto: gli organi di senso oppongono resistenza, e il movimento trasmesso
all'insieme del corpo può produrre piacere o dolore; piacere, se il movimento
trasmesso fa ritornare l'organo alla sua condizione naturale, dolore, se allontana
l'organo dalla sua condizione.
L'analisi delle impressioni che si determinano sui singoli organi del corpo
viene condotta per la lingua, le narici, l'udito e i colori. Per ognuno di questi
oggetti esiste uno o più media, ma la spiegazione che Platone offre delle varie
modalità di trasmissione non è sempre chiara.
Il gusto deriva dalle contrazioni e dilatazioni della lingua, che è dotata di
«piccoli vasi sanguigni (ta phlebia), che, come strumenti di assaggio della lingua,
giungono fino al cuore» (65c6-d).
Per quanto riguarda l'odorato, noi siamo dotati (evidentemente nelle narici) di
vene (hai peri tauta phlebes, 66d4) che servono a percepire gli odori, ma queste
sono «troppo strette per i diversi generi di terra e di acqua e troppo larghe […] per
i diversi generi di fuoco e aria» (66d4-6). Per questo, gli odori sono il risultato
dell'umidificazione, decomposizione o evaporazione dei corpi, e ne consegue che
noi percepiamo un odore «nella tappa intermedia della trasformazione di questi
elementi (acqua e aria) e, nel loro insieme, non sono che fumo o nebbia» (66e1-
2).
La descrizione dell'udito ci dice qualcosa di più sul veicolo della trasmissione
dell'impressione:

123
Poniamo dunque, in generale, che il suono sia l'urto che si propaga attraverso le
orecchie, per azione dell'aria, del cervello e del sangue, fino all'anima, e che il movimento
che da tale urto è determinato, a partire dalla testa e fin là dove si trova il fegato, sia
l'udito: […] (67b2-5).

Lo choc che attraverso l'aria si produce e colpisce le orecchie genera un


movimento che attraversa l'intero corpo, e quindi tutte le parti dell'anima, da
quella razionale, a quella desiderativa (esemplificata dal fegato).
Gli occhi sono stati definiti da Platone «portatori di luce» (45b3), perché
attraverso di essi scorre «il fuoco puro che è dentro di noi» (45b6-7) 239.
Dall'incontro tra il fuoco puro degli occhi e la luce del giorno, cioè «il fuoco che
non è in condizione di bruciare, ma che produce una luce tenue […] fratello di
quello di prima» (45b4-7), risulta il processo visivo. Più nel dettaglio, è l'incontro
del 'simile col simile', del fuoco 'interno' con il fuoco 'esterno', che rende il flusso
di particelle omogeneo e trasmissibile, sotto forma di movimenti, a tutto il corpo
fino all'anima (45c2-d3).
Il discorso prosegue nella descrizione dei colori, dove leggiamo che le
particelle che provengono dai corpi esterni sono di varia natura, e alcune sono
simili a quelle della vista. Alcuni colori dipendono, così, dalla diversa qualità
delle particelle, altri, invece, si ottengono dalle mescolanze dei colori principali
(67c4-68d7).

Possiamo sommariamente definire così le impressioni: essi non sono qualità


degli oggetti, ma gli effetti sul soggetto delle affezioni che le particelle
provenienti dagli oggetti esterni provocano sul corpo240. La trasmissione fino
all'anima dipende, in definitiva, dall'elemento che predomina nella parte che
riceve l'impressione: il fuoco è l'elemento più mobile, la terra quello più stabile.
Le ossa e i capelli, per esempio, sono composti di terra; la vista e l'udito, invece,

239 Il senso della vista è giudicato come il più importante dai filosofi presocratici. Anche qui
Platone, come vedremo, riprende Empedocle. «L'idea della natura ignea dell'occhio è dedotta
dallo stimolo causato dalla pressione oculare, ricondotto a una luce (chiamata appunto fuoco)
ritenuta innata nell'organo visivo» (M. M. SASSI, Le teorie della percezione in Democrito,
Firenze 1978, p. 78).
240 Cfr. BRISSON, Le 'Timée' de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', p. 2.

124
sono prevalentemente composti di fuoco e aria (61c6-7). Perciò, un'impressione
'subita' dalle ossa non trasmette nessuna sensazione, mentre questo non è il caso
che si verifica per i canali dell'occhio e dell'orecchio, che sono 'buoni
trasmettitori'.
Sulla base dell'esame appena condotto possiamo attribuire al sangue un ruolo
importante nella trasmissione delle impressioni sensibili: nel caso del senso del
gusto il passaggio ha luogo attraverso 'piccoli vasi sanguigni' (65c7) e per quanto
riguarda l'olfatto si fa riferimento alle vene (66d4) (anche se non sono in grado di
percepire l' 'odore degli elementi'); il sangue, poi, insieme con il cervello e l'aria, è
necessario affinché un suono possa essere udito dal soggetto (67b2-3). Notiamo
un legame tra sangue e cuore e tra sangue e movimento: il cuore è, infatti, «nodo
delle vene e sorgente del sangue che circola impetuosamente per tutte le membra
[…] » (70a7-b6).
La circolarità del movimento del sangue assicura nutrimento a tutto il corpo ed
è il caso di fermarsi sulla nutrizione perché è attraverso di essa che Platone
dichiara una continuità nella natura dei viventi, dal più semplice al più complesso.
Al «discorso verosimile» (72d7) sulla composizione dell'anima umana da parte
dei figli del demiurgo segue la descrizione della formazione del resto del corpo
secondo l'ordine naturale, quell'ordine che, se invertito, abbiamo visto causare
scompenso e malattia. Leggiamo come vengono formati il midollo, le ossa, i nervi
e la carne e tutte le parti del corpo (73b1-76e6).

E dopo che tutte le parti e tutte le membra del vivente mortale furono riunite in un
unico insieme, poiché gli [all'uomo] toccò per necessità una vita da vivere nel fuoco e
nell'aria, e per tali ragioni, dissolto e svuotato da questi elementi, ne sarebbe stato
devastato, gli dei provvidero a fornirgli un soccorso. Fecero nascere infatti una natura
dello stesso genere (suggene) di quella umana, con una mescolanza di altre specie e
sensazioni, in modo che sorgesse un nuovo vivente: si tratta degli alberi, delle piante e dei
semi oggi coltivati che, domati dall'agricoltura, ci sono divenuti familiari, […] (76e7-
77a7).

Le piante possiedono un'anima e sono considerate per questo dei viventi, ma


sembrano possedere facoltà simili a quelle della parte appetitiva dell'anima
umana. Esse non possono provare che piacere e dolore e sono escluse dalle

125
funzioni conoscitive (77b4-6). Questa mancanza fa delle piante la più passiva
delle specie dei viventi, ed esse infatti non possiedono movimento e restano
immobili (77c4-5).
È significativo che Platone abbia qui realizzato la sua immagine dell'anima
appetitiva sulla base di un esempio tratto dal mondo vegetale: con la nutrizione,
infatti, processo proprio dell'anima 'inferiore', e la metafora dei «flussi della
nutrizione (ta tes trophes namata)» (80d7), il corpo umano torna a essere un
giardino241.

Coloro i quali sono più potenti, dopo aver piantato tutte queste specie come fonte di
nutrimento per noi che siamo più deboli, formarono nel nostro corpo dei canali
(ochetous)242, simili a quelli che si scavano nei giardini, perché fosse irrigato (ardoito)
come da una sorgente da cui sgorga l'acqua (77c6-9).

La presenza del verbo ardo ci ripresenta l'immagine del corpo-giardino


incontrata nel Fedro (251b4). È il caso di notare, anticipando quanto diremo in
proposito nel prossimo capitolo, che i flussi della nutrizione del Timeo che
attraversano il corpo, e con il corpo l'anima, somigliano al nutrimento,
proveniente dagli effluvi della bellezza, che scalda l'ala dell'amante nel Fedro. In
quest'ultimo dialogo, come abbiamo appena notato, la comunicazione tra mondo
umano e divino, e tra corporeo e incorporeo, viene esemplificata nell'uso di
metafore vegetali. Ora, nel Timeo le metafore vegetali vengono certamente
mantenute, com'è detto alla fine del dialogo (« […] noi siamo piante celesti […]
», 90a6-7), e sembra esserci un'effettiva continuità 'psicofisica' che va dalla pianta
all'uomo.
Il passo continua con la collocazione del midollo, organo anch'esso
fondamentale per l'irrigazione del corpo, e delle vene. In particolare, le vene
vengono fatte passare intorno alla testa, «in modo che [...] costituissero un vincolo
fra la testa e il corpo, […] per fare anche in modo che il fenomeno della
sensazione […] si propagasse per tutto il corpo» (77e3-6). Il sangue si riconferma
il veicolo di trasmissione delle impressioni, e viene da Platone definito:
241 Cfr. supra, pp. 108 ss.
242 Si noti che termini come nama (i namata sono i 'flussi' della nutrizione) e ochetos fanno parte
dal gergo della navigazione.

126
[…] nutrimento della carne e dell'intero corpo, le cui singole parti, in quanto vengono
da esso irrorate, riempiono i vuoti che via via si formano; le modalità del riempimento e
dello svuotamento sono le stesse che caratterizzano il movimento di ogni cosa
nell'universo […] (80e6-81a3).

Esso deriva dalle particelle che risultano dalla decomposizione del cibo e che
hanno i colori più variegati, ma in esse predomina soprattutto il rosso, a causa
della «incisione provocata dal fuoco e dall'impronta che esso lascia nel liquido»
(80e3-4).
A questo punto, il sangue risulta adempiere a diverse funzioni. Esso fa da ponte
tra il mondo vegetale e animale, poiché è composto dagli stessi elementi di cui
sono composte le piante; attraverso la sua grande mobilità, dovuta alla
predominanza dell'elemento del fuoco, è l'unico elemento in grado di trasmettere
correttamente i pathemata. Inoltre, imitando il movimento circolare dell'anima,
svolge la sua funzione conoscitiva243.
Non è superfluo concludere notando che, nel contesto del Timeo, sono
numerosi gli echi empedoclei, a cominciare, come ricordato244, dalle nozioni dei
quattro elementi e delle aporrhoai245. Vediamo anche come il processo visivo è
descritto in Empedocle:

Come quando pensando uno di procedere nella notte invernale, s'armò di lume,
bagliore di bruciante fuoco, accendendosi lanterne spremitrici dell'urto dei più vari venti
[…] ; la luce mentre balza trapassando fuori, quanto più era fine, lampeggia per la soglia
con inconsunti raggi; così allora in membrane racchiuso il primèvo fuoco ˂ed˃ in sottili
veli, appostava la pupilla dal rotondo occhio; ˂i quali˃ veli erano tutti traforati di canali
divinamente miri, i quali eran poi un tetto per la profondità dell'acqua che fluiva intorno,
ma il fuoco fuori trasmettevano, quanto più era fine (DK 31 B84).

Tale frammento descrive l'occhio mediante l'analogia di una lanterna246: il


fuoco dell'occhio è come la luce di una lampada che balza fuori, grazie ai canali di
cui sono traforate le membrane oculari. Esse trattengono l'acqua, mentre lasciano
passare fuori il fuoco. In maniera simile, nel Timeo, la pupilla («la sua
243 Cfr. BRISSON, Le 'Timée' de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', pp. 4-5.
244 Cfr. supra, p. 115, nota 220.
245 Cfr. DK 31 B17.
246 Si veda SASSI, Le teorie della percezione in Democrito, pp. 82-91.

127
[dell'occhio] parte mediana», 45b8) è la parte dove si concentra il fuoco e che
trattiene il fuoco più grosso per lasciare passare quello più sottile, secondo
quell'incontro del 'simile col simile' con cui Empedocle rende conto della varietà
del processo conoscitivo247.
Infine, è proprio in Empedocle che troviamo affermata per la prima volta la
centralità del sangue come agente del pensiero: «Nutrita nei marosi del sangue dal
pulsare alterno, là dove soprattutto è quel che pensiero è chiamato dagli umani;
ché, per gli umani, è pensiero (noema) il sangue attorno al cuore» (DK 31 B105).

§3. Le 'tracce' dell'anima.


In base all'esame appena condotto, la sensazione si presenta nel Timeo come un
processo eminentemente corporeo, che ha per destinatario l'anima. Ma non vi è
menzione del modo in cui il corpo e l'anima comunichino tra di loro in questo
processo. Del resto, l'anima presenta dei tratti 'materialistici', che la apparentano
più a un'entità corporea248.
Ricordiamo che l'anima del mondo è formata dalla mescolanza di varie
porzioni di essere: il Demiurgo unisce in un'unica realtà l'essere indivisibile e
l'essere divisibile, l'identico e il diverso: si forma così un genere intermedio, che
assolve a una funzione mediatrice (35a-b3). La mescolanza ottenuta è divisa in
due strisce che si intersecano tra loro «nel punto mediano a forma di X (mesen
pros mesen hekateran allelais hoion chei)» (36b7-8): queste due strisce sono i
cerchi dell'Identico e del Diverso che regolano i movimenti dell'anima.
L'anima individuale è costituita di ciò che è avanzato dell'anima del mondo:

[…] e nuovamente in quel cratere di prima, nel quale aveva mescolato, temperandola,
l'anima del mondo, versò i resti degli elementi utilizzati in precedenza, mescolandoli più
o meno allo stesso modo, anche se non erano più puri come prima, ma solo secondi e
247 Cfr. DK 31 B109.
248 La descrizione delle caratteristiche dell'anima nel Timeo fornisce lo spunto adatto per un
confronto con la psyche del Regime ippocratico. Si vedano, a questo proposito, soprattutto
JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, pp. 31-38; BRISSON, Le 'Timée'
de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', pp. 5-8.

128
terzi in purezza (41d4-7).

L'anima dell'uomo somiglia a un intellegibile puro, ma nel momento in cui è


legata a un corpo mortale, viene colpita e turbata da un fiume di movimenti, cioè
le sensazioni (42e5-44b). L'intensità delle sensazioni scuote i movimenti
dell'Identico e del Diverso (propri dell'anima razionale) e si può dire che
ogniqualvolta nel corso della vita dell'uomo i movimenti sono turbati, subentra la
malattia. I periodi dell'anima possono essere ristabiliti, se l'uomo si dedica
all'imitazione di quel movimento circolare che è proprio dell'universo e, in parte,
proprio all'anima stessa.
All'attenzione del lettore viene così sottoposta l'immagine di un'anima che
conserva in sé il divino e purtuttavia acquisisce un legame strettissimo col corpo
(tanto da farne dipendere l'equilibrio o il disequilibrio) e con il mondo fisico
circostante.
È altresì possibile che le rivoluzioni dell'anima lascino delle tracce visibili 249,
come si può ricavare dalla descrizione della formazione della pelle:

Non si poteva tuttavia permettere che la testa, rivestita solo di ossa, rimanesse nuda, e
ciò a causa degli eccessi, in un senso o nell'altro, delle stagioni, né d'altra parte che,
interamente rivestita, divenisse ottusa e insensibile, e ciò a causa della massa delle carni;
ma, dal momento che la carne non si era ancora seccata, ne venne separata una scorza più
grande che si era formata intorno a essa, quella che adesso chiamiamo “pelle”. E questa,
crescendo per l'umidità presente intorno al cervello e raccogliendosi in se stessa, ricoprì
circolarmente la testa; e l'umidità, filtrando da sotto le suture (hypo tas rhaphas), la irrigò
e, stringendola come in un nodo, la rinchiuse in cima alla testa. Tutte le forme delle suture
dipendono dalla forza dei movimenti (dia ten ton periodon dynamin) e del nutrimento, e
sono in maggior numero quando tali forze sono maggiormente in contrasto fra loro, in
minor numero nel caso contrario (75e5-76b).

L'anima lascerebbe, dunque, come delle 'tracce' sul corpo umano, visibili più o
meno intensamente, a seconda della 'forza dei movimenti'. Esse «racontent
l'histoire des relations entre une âme et le corps qu'elle habite»250. È sorprendente
che le rivoluzioni dell'anima nell'uomo possano anche deformarsi tanto da
esaurire la loro attività: è così che sono stati generati gli animali.
249 BRISSON, Le 'Timée' de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', p. 6.
250 Ibi, p. 5.

129
La stirpe degli animali pedestri e selvaggi si generò a partire da uomini per nulla dediti
alla filosofia e ciechi del tutto di fronte alla natura delle cose celesti, per il fatto che non si
servivano più delle rotazioni che si compiono nella testa (tais en tei kephalei chresthai
periodois), ma seguivano come guida le parti dell'anima che si trovano nel petto. È quindi
in seguito a tali abitudini che essi hanno le membra anteriori e la testa ricurve verso terra,
perché alla terra sono affini, e hanno teste allungate e dalle forme più varie, secondo il
modo in cui le rotazioni in ciascuno di essi sono state compresse per l'inattività […]
(91e1-92a2).

Una simile immagine materiale dell'anima ci conduce naturalmente al già


incontrato trattato ippocratico del Regime251, in cui l'anima presenta caratteristiche
affini. E vale per entrambi i testi l'ulteriore riferimento a Empedocle, secondo
quanto leggiamo dalla spiegazione di Teofrasto nel De sensu252:

Allo stesso modo egli [Empedocle] dice poi anche dell'intendimento e dell'ignoranza
(peri phroneseos kai agnoias). L'intendere sarebbe infatti per via dei simili, l'ignorare
invece per i dissimili, come se fosse lo stesso o prossimo alla sensazione l'intendimento
[…]. Per cui è appunto col sangue che soprattutto si intenderebbe; in esso infatti
sarebbero mescolati più che nelle altre parti gli elementi.
Per quanti dunque vi è una mescolanza di componenti pari, o quasi, […] sarebbero
questi quelli che più intendono (phronimotatous) ed i più precisi (akribestatous) nelle
sensazioni; e con un discorso analogo quelli che li seguono più dappresso; per quanti
invece la mescolanza è nel senso contrario, sarebbero quelli che più fraintendono
(aphronestatous). E quelli i cui elementi stanno radi e dispersi, sarebbero torpidi e fiacchi
(nothrous kai epiponous); quelli i cui elementi stanno invece densi e minutamente
frammentati, gente del genere, che si lascia andare all'intensità dell'impulso e che ha
molta intraprendenza, poche cose porterebbe a compimento per via dell'intensità
dell'andamento del sangue (dia ten oxyteta tes tou haimatou phoras). Per quanti poi è in
una singola parte la mescolanza del giusto mezzo, è in questa che sarebbero ciascuno
sapienti (sophous); per cui gli uni sarebbero buoni oratori, altri invece artigiani, in quanto
per questi nelle mani, per quelli nella lingua sarebbe la mescolanza; starebbe poi
ugualmente la cosa anche per tutte le altre capacità (kata tas allas dynameis) (De sensu,
capp. 10-11).

Come abbiamo visto per il Regime, è qui il caso della dimensione


'prestazionale' dell'intelligenza: i concetti su cui verte il capitolo XXXV del trattato
sono gli stessi che Empedocle passa in esame secondo Teofrasto, cioè

251 Cfr. supra, §3, cap. I.


252 Un confronto puntuale tra i capp. 10-11 del De sensu di Teofrasto e il cap. 35 del De victu è
operato da JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, pp. 26-31.

130
l'intelligenza e il suo contrario secondo diverse modalità (De vict., XXXV 1, 11-12).
L'anima si presenta come una 'materia' dotata di una mescolanza di fuoco e acqua
(gli stessi elementi che compongono il corpo) e le varietà di intelligenza
dipendono dalla qualità della mescolanza. Il carattere e le capacità cognitive degli
uomini si diversificano: vi è il genio, il pigro, l'uomo malinconico e chi soffre di
allucinazioni.
In Empedocle il principio psichico dell'intelligenza, in quanto composto di
fuoco e acqua, è anch'esso un fluido costituito dalla mescolanza degli elementi e
le diverse varietà di intelligenza dipendono anch'esse dalla qualità della
mescolanza: i più intelligenti sono gli uomini in cui la mescolanza è perfetta.
Notevoli sono le corrispondenze concettuali e terminologiche, anche se
Empedocle non diversifica i tipi di intelligenza come fa l'autore del Regime. Una
riflessione densa di spunti è quella che riguarda la terza categoria intermedia del
resoconto di Teofrasto, gli uomini intraprendenti ma 'dispersivi' 253; leggiamo nel
Regime che, allorché il fuoco domina in misura maggiore rispetto all'acqua,
l'anima è vivace e molto rapida e le sensazioni sono rapide anch'esse; tuttavia,
essa non è stabile, perché il giudizio si 'precipita' sulle cose percepite e non
attende un'elaborazione più precisa. Alla tachytes dell'anima del Regime si
avvicina l'oxytes del movimento del sangue in Empedocle: come nel Regime
l'anima è principio dell'intelligenza, così in Empedocle lo è il sangue, ed entrambi
sono principi materiali. Non sappiamo esattamente di quale movimento sia dotato
il sangue in Empedocle e il termine phora può riferirsi a un movimento
qualsiasi254. In ogni caso, possiamo senza dubbio rilevare che già prima del
trattato ippocratico Sul Regime la teoria dell'intelligenza è messa in rapporto con
la velocità di movimento di un fluido, identificato come la fonte del pensiero.
Veniamo adesso al Timeo e ai suoi rapporti con il Regime: il punto di contatto
più evidente sta nel fatto che in entrambi i testi è presente un movimento di
rivoluzione dell'anima, da cui dipende l'intelligenza (e il suo contrario!). Per

253 Cfr. supra, p. 46.


254 Numerose ipotesi sono state avanzate: suggestiva è quella che, sulla base del frammento 105,
avvicina il movimento del sangue a quello di un'onda. Cfr. JOUANNA, La théorie de la
sensation, de la pensée et de l'âme, pp. 30-31.

131
designare il movimento dell'anima immortale Platone utilizza lo stesso termine
dell'autore del Regime (periodos)255, impiegando più spesso il plurale (come in tas
tes psyches periodous, 43d), visto che l'anima segue i movimenti del cerchio
dell'Identico e del Diverso. Per entrambi gli autori il movimento in questione è
circolare, data la sinonimia che vi è tra kyklos e periodos: nel Regime leggiamo
che i panierai fanno girare (agontes kykloi, XIX 9) il cesto intrecciandolo,
terminando dove si era iniziato, proprio come avviene nel circuito del corpo
(periodos en toi somati, XIX 11). Nel Timeo il dio ha impresso un movimento
circolare all'universo (kykloi, 34a4 e periodos, 34a6 sono usati come sinonimi).
Anche il termine periphora, sia nel Regime (xxv 1, 5; xxxv 5, 5-6) che nel
Timeo (36d; 42c5), è sinonimo di periodos.

Surtout Platon, comme l'auteur du Régime, met en rapport les révolutions à l'intérieur
du corps avec les révolutions astrales […] tous deux avaient un sentiment très net de la
correspondance entre la structure du microcosme et celle du macrocosme 256.

L'attribuzione di tratti materiali all'anima individuale potrebbe rispondere


all'esigenza di rendere l'idea di una concreta continuità tra l'uomo e l'universo e
che tale continuità si mantenga, lo vedremo, è essenziale affinché l'anima
dell'uomo non si ammali e non perda di vista il suo scopo nella vita terrena.
L'attività ordinaria dell'anima, immersa com'è nel flusso delle sensazioni, si
rispecchia nel quadro del Regime, dove tra l'anima e le aisthesies vi è attività
reciproca: l'anima dev'essere, infatti, in grado di assimilare nel modo corretto le
'particelle' che su di essa si precipitano. Questa capacità si misura in termini di
velocità del movimento dell'una e delle altre. Se, infatti, l'anima si rivela troppo
veloce o troppo lenta, si verificherà uno scompenso cognitivo. Ora, qualcosa di
analogo avviene nel Timeo: vi sono qualità di trasmissione delle impressioni
sensibili diverse, in termini di lentezza e velocità, a seconda dell'elemento
predominante nella natura dell'organo recettore.
Ricordiamo che tra le cause di turbamento per l'anima, oltre all'abbondanza di
nutrimento, vi è nel Timeo «l'invasion du sensible qui se précipite en masse dans
255 Sul termine periodos, cfr. supra, nota 78, p. 43.
256 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 33.

132
l'âme»257 (43b4-c7). Che l'essenza della sensazione stia nel movimento, Platone lo
conferma riconducendo il termine aisthesis al verbo aisso (=lanciarsi). Per questo
i 'movimenti' (hai kineseis, 43c4) vengono chiamati poi 'sensazioni' (aistheseis,
43c6). Nel vivente si produce un disordine 258, causato proprio dalle aistheseis
quando si precipitano (ton prospiptonton, 43b7) sull'anima. Ora, è il medesimo
termine al plurale, aisthesies, accompagnato dal verbo prospipto (De vict., XXXV 5
6) che nel Regime indica i sensibili provenienti dagli oggetti esterni che con un
movimento autonomo procedono verso l'anima. D'altra parte, la spiegazione
etimologica di Platone riconduce le aistheseis alla kinesis, cioè al movimento,
facendo dell'intero processo della sensazione un processo non passivo, ma
dinamico259.

Le corrispondenze che abbiamo esaminato non ci autorizzano a concludere in


maniera definitiva che il Regime abbia avuto un'influenza diretta sul Timeo260.
Tuttavia, il quadro dei processi cognitivi che emerge dalle due letture si presenta
con caratteristiche molto simili, soprattutto per quanto riguarda la
rappresentazione dell'interazione anima-sensazioni in concreti termini materiali.
Da un lato nel Regime non c'è, è vero, l'anima tripartita che troviamo in Platone, e
le rivoluzioni sono collocate nel ventre anziché nella testa come nel Timeo. Per
altro verso, non è azzardato avvicinare il phronimon a cui giunge l'impressione
nel Timeo alla phronesis psyches del trattato ippocratico261.
Possiamo in conclusione riconoscere che nel Timeo si ritrova un ampio
patrimonio di conoscenze legate alla medicina ippocratica.

257 JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 35.


258 Tale sconvolgimento è proprio dell'anima umana al momento della sua incarnazione, quando
essa viene creata dai figli del demiurgo. D'altronde Platone dice: «Ed è precisamente a causa di
tutte queste affezioni che, adesso come all'origine (nyn kat'archas te), l'anima diviene priva di
ragione, almeno inizialmente, non appena venga legata a un corpo mortale» (44a7-b). Mi
sembra che il nyn si possa riferire alla situazione presente dell'anima umana (quando nella sua
attività si accompagna al corpo), continuamente immersa nel flusso delle sensazioni (in
particolar modo quella del bambino, come vedremo più avanti, è sconvolta dalle sensazioni
perché appena legata al corpo). È la trophe (nel suo doppio senso di nutrizione e educazione)
che calma i movimenti agitati della psyche.
259 Jouanna, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, p. 37.
260 Ibi, p.33.
261 Cfr. BRISSON, Le 'Timée' de Platon et le traité hippocratique 'Du régime', p. 8.

133
§4. Dall'anima al corpo: il sonno.
Il meccanismo del sonno e il fegato hanno un ruolo fondamentale nella
'psicofisiologia' platonica e nella comunicazione tra corpo e anima. L'attività della
parte mortale dell'anima è dipendente dall'anima razionale e, mentre nella
Repubblica la parte appetitiva deve collaborare ai fini di un complessivo
equilibrio psicologico e politico, qui nel Timeo i figli del demiurgo hanno isolato
la parte desiderativa dal resto del corpo, per timore che contaminasse la parte
divina dell'anima.

La parte appetitiva dell'anima che brama cibi e bevande e tutto ciò di cui il corpo sente
per natura il bisogno, la stabilirono a metà strada fra il diaframma e il confine
dell'ombelico, dopo aver costruito in tutta questa parte una sorta di mangiatoia per il
nutrimento del corpo; e, come una bestia selvaggia, la incatenarono qui, […] (70d7-e4).

Ma nessuna parte del corpo (e dell'anima) può funzionare da sola, senza


cooperare con le altre: per questo, gli dei hanno hanno provvisto la parte
appetitiva di un organo di guardia, cioè il fegato. Quando non bastano le minacce
e gli avvertimenti della parte animosa, l'intervento della ragione dev'essere
immediato:

Sapendo che essa [la parte appetitiva] non avrebbe mai inteso ragione e che […] non
sarebbe stato nella sua natura di occuparsi dei ragionamenti, perché sempre, di notte e di
giorno, si sarebbe lasciata sedurre da simulacri e da apparenze (eidolon kai
phantasmaton), per questo un dio, dopo aver valutato tutti gli aspetti della questione,
compose la struttura del fegato […] facendo in modo che fosse spesso, liscio e lucido
(pyknon kai leion kai lampron), dotato di dolce e di amaro, affinché la forza dei
ragionamenti che proviene dall'intelletto (he ek tou nou pheromene dynamis), giungendo
in esso come in uno specchio (en katoptroi) che riceve le impronte e ne fa vedere le
immagini (eidola), gli suscitasse timore, ogni volta che, servendosi dell'amarezza che è
congenita nel fegato, gli si presentasse con un aspetto minaccioso e, diffondendo tale
amarezza per tutto il fegato, vi facesse apparire i colori della bile e lo comprimesse fino a
renderlo tutto rugoso e ruvido e, premendo e torcendo il lobo dal lato destro, ostruendo i
serbatoi e chiudendo le porte, gli provocasse dolori e nausee (lypas kai asas); quando
invece un'ispirazione dell'intelligenza (tis ek dianoias epipnoia) disegna le immagini
(phantasmata) contrarie, caratterizzate da dolcezza, e calma l'amarezza, perché non vuole
stimolare né toccare la natura che le è contraria, e, servendosi invece nei confronti del
fegato della dolcezza che gli è connaturata, raddrizza tutto ciò che in esso è diritto, liscio
e libero, allora tale ispirazione rende mite e serena (hileon te kai euemeron) la parte
dell'anima che ha dimora nel fegato, in modo che, avendo durante la notte il tempo

134
conveniente, possa nel sonno far uso della divinazione, visto che non partecipa del
ragionamento e dell'intelligenza (71a3-d4).

Abbiamo citato il passo per intero per evidenziare che Platone ammette
un'interazione tra il corpo e l'anima, che si traduce nell'interazione tra il fegato
(sede di una delle parti mortali dell'anima) e la ragione. Una ragione che si attiva
secondo due modalità differenti: una, è 'la forza dei ragionamenti'; l'altra,
'un'ispirazione dell'intelligenza'262. Ognuna di queste modalità svolge operazioni
proprie e produce determinati effetti. Sembra necessario ricorrere alla 'forza' nei
momenti di emergenza, quando la parte appetitiva non vuole obbedire263: così, la
ragione, servendosi della stessa qualità del fegato (cioè l'amarezza), 'punisce' il
corpo facendolo soffrire. La ragione, però, non è essenzialmente violenta: sembra
che le sue azioni siano 'a fin di bene', perché rispettano comunque le qualità
naturali proprie del fegato. Quando, infatti, la ragione avverte che la parte
inferiore dell'anima è ben disposta, le infonde quiete e serenità.
Gli effetti ottenuti non sono solo psicologici, perché il fegato subisce delle
trasformazioni fisiche in entrambi i casi esposti da Platone: quando 'si spaventa',
esso diventa ruvido e rugoso e la sua composizione acida; quando subentra la
quiete, il fegato è liscio e lucido e la sua composizione è ben equilibrata tra dolce
e amaro.
Al livello psicofisico si intreccia un ulteriore livello, quello conoscitivo: il
fegato, infatti, può partecipare della saggezza e della ragione perché ha una
conformazione tale che funge da specchio per esse. Lo specchio trasmette le

262 Il passo del Timeo sul ruolo del fegato è un luogo importante anche per mostrare come vi sia
da parte di Platone un recupero dell'irrazionale, attraverso la divinazione. L'ispirazione cui qui
si fa riferimento, affinché l'uomo possa interpretare i segni del fegato e così entrare in contatto
con il divino che è in lui, è un'attività di natura diversa da quella 'lucida' della vita ordinaria.
Questo recupero dell'irrazionale è in linea con il ruolo della divinazione che Platone illustra nel
Fedro, sotto il nome di mania profetica e, anche in questo caso come in quello del Fedro,
possiamo evincere che la ragione non è sempre il mezzo privilegiato per raggiungere la
conoscenza, tenendo conto dei doni divini della follia che sono molteplici. Il Timeo aggiunge
d'altronde una nota nuova in questo quadro perché l'irrazionale trova una sua base fisiologica, e
vi è un organo e asso corrispondente dalla cui composizione si può capire se la 'patologia' in
questione è 'umana' o 'divina'. Cfr. BRISSON, Del buon uso della sregolatezza, pp. 256-260.
263 Mi sembra di potere trovare una corrispondenza nel Fedro, in cui sembra di capire che il
cavallo bianco non ha di per sé influenza positiva sul cavallo nero se è necessario l'intervento
violento e diretto dell'auriga (Phaedr., 253e-255a).

135
immagini corrispondenti al suo stato: quando è malato le immagini sono
spaventose, quando è in salute, le immagini sono di natura opposta.
Che l'ambito di conoscenza proprio al fegato sia la divinazione è confermato
anche dalla presenza del lobo e delle vescichette, il cui aspetto è sottoposto
all'uomo durante l'esame delle viscere. Platone, dunque, conferisce un sostrato
fisiologico al sonno e alla divinazione, attraverso il linguaggio dell'epatoscopia264.
Platone aggiunge ancora sul fegato:

Per tali ragioni, quindi, la natura del fegato è stata fatta nel modo che abbiamo detto e
descritto e collocata nel luogo che abbiamo detto, in vista della divinazione; inoltre,
finché ogni creatura è viva, il fegato manifesta i segni più evidenti (semeia enargestera
echei), mentre, una volta che sia privata della vita, esso diviene cieco e manifesta dei
segni divinatori troppo oscuri per alludere a qualcosa di preciso (72b6-c) 265.

L'ambiguità del verbo echo si presta bene alla funzione ambigua svolta dallo
specchio: lo specchio è un oggetto che possiede e al tempo stesso rimanda le
immagini266.
Questo quadro conserva numerosi punti oscuri, ma la lettura che ne abbiamo
dato sembra congruente con la descrizione del sonno che leggiamo altrove nel
Timeo. È naturale che le immagini riflesse nel fegato, che vengano da esso
tradotte oppure no, sono pur sempre recepite dal soggetto:

[…] quando il fuoco esterno scompare al calare della notte, il fuoco interno che gli è
affine si trova separato da esso: infatti, incontrando all'esterno qualcosa di diverso da sé,
muta e si spegne, non essendo più della stessa natura dell'aria circostante, giacché questa
non ha più fuoco. Smette quindi di vedere e diviene inoltre stimolo al sonno; perché
questa fu la protezione che gli dei procurarono alla vista, la natura delle palpebre, che,
quando si chiudono, imprigionano la potenza del fuoco interno (ten tou pyros entos
dynamin); e tale potenza si diffonde e calma i movimenti interni, placati i quali si
determina la quiete e, se è profonda la quiete determinatasi, sopraggiunge un sonno quasi
privo di sogni, mentre, se permangono dei movimenti maggiori, a seconda della natura
loro e di quella dei luoghi in cui permangono, essi suscitano tali e tanti fantasmi
(phantasmata) che sono delle copie interiori di cui ci ricordiamo al risveglio nel mondo
264 P. STRUCK, Viscera and the Divine. Dreams as the Divinatory Bridge between the Corporeal
and the Incorporeal, in S. NOEGEL-J. WALKER- B. WHEELER (edd.), Prayer, Magic, and the
Stars in the Ancient and Late Antique World, Pennsylvania 2003, p. 134.
265 Qui ci si riferisce a un'altra caratteristica che il fegato deve avere perché possa svolgere
appieno la sua funzione: dev'essere un fegato vivo e non morto. Brisson nota qui una presa di
distanza dalla pratica normale dell'epatoscopia.
266 STRUCK, Viscera and the Divine, p. 134.

136
esterno. E non è più, a questo punto, difficile comprendere la formazione di immagini
sugli specchi (peri ten ton katoptron eidolopoiian) e sulle superfici lisce e levigate
(emphane kai leia) (45d3-46a4).

Non vi è in questo contesto menzione del fegato, ma vi sono sorprendenti


somiglianze con il brano che abbiamo precedentemente commentato: si parla di
'potenza' e 'fantasmi', di quiete che sopraggiunge per calmare dei movimenti
interni di lieve entità (se i movimenti sono più intensi, la stessa quiete onirica non
si produce), di superfici lisce. Teniamo presente, oltretutto, che l'occhio si trova
nella zona in cui risiedono i circuiti dell'anima immortale e che la vista è un senso
superiore, perché osservando lo svolgersi della notte e del giorno, delle stagioni,
noi apprendiamo

[…] il numero, la nozione del tempo e l'indagine sulla natura dell'universo; e da queste
cose abbiamo tratto l'esercizio della filosofia, rispetto alla quale nessun bene maggiore ci
venne mai né mai ci verrà dagli dei come dono elargito alla stirpe mortale (47a6-b2).

La vista, dunque, ha una potenza conoscitiva di giorno come di notte, perché è


il mezzo con cui l'intelligenza mortale comunica con l'intelligenza divina: ogni
momento della vita sensibile è prezioso per l'uomo, che sia di ordinaria natura,
che avvenga durante il sonno o attraverso la divinazione. È un altro caso, insieme
con il Fedro, in cui tra vista e divino si crea una corrispondenza già nella vita
terrena, ma qui nel Timeo è sottolineato il carattere necessario di tale
corrispondenza, in quanto è la stessa costituzione dell'uomo, con i suoi organi, la
sua composizione, la sua attività diurna e notturna, ordinaria o straordinaria,
nonché la sua struttura corporea esterna (ricordiamo che la testa è rotonda perché
imita l'anima del mondo, 44d3-4) che gli permette di stabilire una continuità con il
mondo intellegibile.
In continuità con il quadro del Timeo, in cui si crea un ponte tra la fisiologia
dell'uomo (e in questo contesto in particolare le viscere, e quindi, l'interpretazione
dei segnali provenienti dagli organi interni) e il divino, diamo un veloce sguardo
al Corpus Hippocraticum. Anche qui l'approccio al sogno rappresenta un
momento di comunicazione tra gli organi corporei e il divino. Quando il corpo

137
dorme, come abbiamo visto nel libro IV del Regime267, l'anima può raccogliersi in
se stessa e svolgere le funzioni del corpo. Nel sonno si producono dei segni, la
comprensione dei quali si approssima alla sapienza (De vict., IV LXXXVI 1, 1-16).
Esistono due categorie di sogni: quelli la cui traduzione spetta agli interpreti (sono
i sogni 'divini'), e quelli attraverso i quali l'uomo può conoscere i mali che
affliggono il corpo e curarsi, non solo con l'aiuto delle preghiere (IV LXXXVII 1, 1-
13). Come abbiamo visto per il Timeo, i sogni rivelano la presenza di irregolarità
nel corpo umano e 'parlano' un linguaggio peculiare: per esempio, vedere nel
sonno il sole, la luna, gli astri puri e luminosi è un buon segno, vuol dire che il
corpo è in salute (IV LXXXIX 1, 20-25)268.

§3. Malattie dell'anima.


Abbiamo visto che gli Ippocratici non hanno fornito una definizione, né un
esame accurato dal punto di vista medico, della malattia dell'anima. Più che altro,
pur prestando notevole attenzione all'aspetto 'psicologico' della malattia, i medici
del Corpus Hippocraticum non riconoscevano un'autonomia alla malattia
psichica, e la 'follia' appare un sintomo di una malattia diversamente connotata.
267 Cfr. supra, pp. 47 ss.
268 Perché l'anima produce i sogni servendosi del cosmo come linguaggio? Una possibile risposta
può trovarsi ancora una volta nel Regime, tenendo conto anche delle influenze eraclitee
riscontrabili in questo testo. Secondo Peter Struck, l'uomo e il cosmo, infatti, non sono solo
l'uno la copia e l'altro il modello: essi sono una coppia di opposti che coincidono. Uomo e
cosmo si comportano come una 'coppia eraclitea' in cui un agente completa il processo
dell'altro e, per questo, in un certo senso, questi agenti sono 'la stessa cosa'. L'uomo crede a ciò
che vede e pensa che nascita e morte, mescolanza e separazione, siano due cose diverse, ma in
realtà si tratta dello stesso processo. Lo stesso vale per il rapporto tra ciascuna cosa ( hekaston)
e il resto (pros panta) (I IV 1,14-3, 20). Poco più avanti, nel capitolo quinto, è detto anche che
ogni cosa, divina e umana, procede dall'alto verso il basso, cambiando di posto: le cose di
laggiù giungono qui e quelle di quaggiù vanno laggiù e, per di più, in questo incessante
scambio, le cose di qui svolgono il ruolo di quelle di là (diaprassomena) e viceversa. Ora, il
meccanismo con cui questo processo complementare avviene rimane in qualche modo vago,
ma nel testo è notato più volte che gli uomini 'non sanno' ciò che fanno, cioè non sono
consapevoli pienamente del loro ruolo quaggiù. È un po' quello che succede all'anima
dell'uomo nel Timeo, che, a causa dell'incarnazione, è confusa e inconsapevole durante tutta la
sua esistenza terrena. Per fortuna, avendo l'anima lasciato le sue 'tracce', è possibile farle
riprendere i suoi movimenti naturali, quelli che imitano il cosmo. Ora, è in questa stessa
inconsapevole attività di imitazione, che nel Regime l'uomo assolve la sua funzione
nell'universo: kai ha men pressousin ouk oidasin (I v 2, 6-7). Si veda, per ulteriori dettagli sul
rapporto tra gli organi interni e i corpi dell'universo, l'interessante studio di Struck già citato
(STRUCK, Viscera and the Divine, pp. 125-133).

138
Un'eccezione può essere fatta per il trattato del Peri parthenion, che presenta un
quadro sorprendentemente ampio e dettagliato di quello che oggi possiamo
chiamare 'delirio'. Ma è un trattato sulle donne e su un disturbo prettamente
femminile, che va giudicato considerando fattori socio-culturali e non solo di
competenza scientifica. Non dimentichiamo che per i trattati ippocratici non si
può parlare di psyche, se non per quanto riguarda il trattato Regime, che pure si
inserisce nella tradizione della physiologia e non della medicina coa. Pertanto,
l'anima non sembra possedere un'attività autonoma riconosciuta, e, con essa, una
sua patologia specifica.
Muovendo un discorso parallelo nei dialoghi platonici (parallelismo che ci è
reso possibile dagli stessi riconoscimenti che Platone tributa alla medicina del suo
tempo), abbiamo d'altronde potuto rilevare che in essi è riconosciuta un'autonomia
alla patologia dell'anima. Platone 'inventa' l'espressione nosos psyches (proprio
nel Timeo, come vedremo subito)269, ma giunge a questa formulazione attraverso
una peculiare direzione filosofica, che stabilisce le relazioni tra enti quali il corpo,
l'anima e la città, secondo un rapporto analogico. Questa catena ha permesso di
fornire un quadro non solo autonomo ma sfaccettato della malattia dell'anima,
perché essa ha una base fisiologica (e come tale viene trattata da un punto di vista
medico) e da essa derivano anche implicazioni di tipo etico (e nel Fedro ha
un'importanza di carattere 'antropologico' che consente una valorizzazione
dell'irrazionale). È proprio questo uso dell'analogia per il corpo e l'anima (e la
città) che non è condiviso dai medici ippocratici, che pure si servivano per altro
verso di categorizzazioni simili.
Veniamo adesso al Timeo e alla sezione dedicata alla malattia dell'anima, che
segue immediatamente la descrizione delle malattie del corpo e che si apre con
queste parole:

Le malattie del corpo si determinano quindi così, mentre quelle dell'anima hanno
luogo, in relazione alla disposizione del corpo (dia somatos hexin), nel modo seguente.
Bisogna riconoscere che la malattia dell'anima (noson men de psyches) dipende
certamente da un'assenza di senno (anoian synchoreteon) e che questa è di due tipi (dyo

269 Si veda M. M. SASSI, Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato, in HARRIS
(ed.), Mental Disorders in the Classical World, p. 413.

139
d'anoias gene): la follia (to men manian) e l'ignoranza (to de amathian) (86b1-4).

Il primo dato da ritenere è che la malattia dell'anima è in stretta dipendenza


dallo stato del corpo270: come nel Fedro, l'incarnazione prevede che l'attività
dell'anima non possa esistere senza l'attività del corpo. È quindi ragionevole
supporre che Platone voglia suggerire (anche in base a quanto ha già esposto nel
medesimo dialogo sulla composizione fisiologica dell'uomo) che un corpo
ordinato e in salute avrà un influsso positivo sull'anima, mantenendola sana, e che
quindi la salute riguarda soprattutto il composto corpo-anima. Ricordiamo, però,
che il corpo è pur sempre epirrhyton kai aporrhyton (43a5-6), quindi l'ambiente
esterno con i suoi molteplici stimoli lo minaccia costantemente: mi pare si possa
dire che già l'anima incarnata, in un certo senso, è un'anima 'malata'.
Riguardo ai due gene di anoia, poi, il passo lascia aperte due possibilità: stando
a una prima possibilità, esisterebbero altri tipi di malattia dell'anima 271, di cui
Platone, però, non parla altrove nel testo. Oppure: la malattia dell'anima è l'anoia
e si caratterizza come delirio e come ignoranza. Se vogliamo dare credito al fatto
che nel Timeo Platone ci fornisca la sua visione unitaria dei disturbi dell'anima 272,
proseguiamo su questa linea e iniziamo col precisare il significato del sostantivo
anoia. Platone l'ha già usato prima, a proposito dell'incarnazione 273. L'essere
umano viene formato dai figli del demiurgo che presero in prestito dal mondo
porzioni dei quattro elementi, unendoli in un unico composto, e fissando questo
composto ai periodi dell'anima immortale con 'fitti chiodi invisibili' (42e5-43a6).

270 Cornford preferisce la lettura 'debole' del verso: «It is not stated that all mental disorders are
solely due to bodily states» (CORNFORD, Plato's Cosmology, p. 346), mentre Sassi la lettura 'forte':
«Plato also argues here that all psychic diseases are due to some defective condition of the body –
according to the stronger reading, which I prefer, of the opening words, 86b2: ta de peri psychen
dia somatos hexin teide» (SASSI, Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato,
p.413).
271 Cornford: «It is not said that these states of mind cover the whole field of what could be called
'disorder of the soul'» (CORNFORD, Plato's Cosmology, p. 346).
272 P. LAUTNER, Plato's Account of the Diseases of the Soul in 'Timaeus' 86b1-97b9, «Apeiron»,
44 (2011), p.25.
273 Anche nel capitolo della patologia mentale si riscontrano ulteriori corrispondenze tra il trattato
ippocratico Sul Regime e il Timeo. Che l'anima venga turbata dal 'flusso del nutrimento', sia
nella sua condizione iniziale, sia successivamente, quando si tratta di definire la mania e
l'amathia, è già di per sé un dato che rivela che l'anima platonica è un'entità concretamente
materiale. Del resto, anche l'autore ippocratico prescrive una cura basata sulla buona
alimentazione. Cfr. JOUANNA, La théorie de la sensation, de la pensée et de l'âme, pp. 34-35.

140
L'anima dell'uomo, che condivide con l'anima del mondo i movimenti
dell'Identico e del Diverso, viene così immediatamente scossa dal flusso
tumultuoso delle sensazioni del corpo.

Ed è precisamente a causa di tutte queste affezioni (ta pathemata) che, adesso come
all'origine, l'anima diviene priva di ragione (anous psyche gignetai), almeno inizialmente
(to proton), non appena venga legata a un corpo mortale (44a7-b).

L'iniziale 'irragionevolezza' dell'anima corrisponde a uno stato di turbamento e


confusione per essere stata in qualche modo privata della sua condizione naturale:
cioè il movimento circolare, regolare e indisturbato. Questo è lo stato in cui si
trova ogni bambino appena nato, quando i suoi movimenti sono irregolari e
disordinati, e lo sono perché turbati dalle «[...] affezioni suscitate da ciò che
andava a colpire ciasucuno dei corpi» (43b7). La ragione non riesce a dominare
queste sensazioni e non è in grado di distinguere identità e diversità, sente
'imporre' i criteri di giudizio dalle sensazioni.
La condizione 'esistenziale' dell'anima umana è dunque proprio di essere
turbata dal corpo e non di dominarlo: successivamente (presumibilmente in un
momento corrispondente all'età adulta274), i periodi dell'anima ritrovano la quiete e
diventano sempre più regolari.

[…] allora, le orbite, già corrette secondo le traiettorie di ciascun cerchio che procede
secondo natura (kata physin), attribuendo correttamente i nomi di “diverso” e di
“identico”, rendono assennato (emphrona) colui il quale le possiede (44b4-7).

L'anima è dunque, come dicevamo, già malata appena calata in un corpo


umano: bisogna preoccuparsi di fornirle una buona educazione, in modo che
«sfuggito alla peggiore malattia, costui diviene perfettamente integro e sano»
(44c1-2). Se questo non succede, l'individuo torna di nuovo nell'Ade, ateles e
anoetos (44c3).
A questo primo sguardo, la malattia dell'anima non corrisponde se non alla sua

274 Platone parla di «quando ciò che fa crescere e nutre il corpo diminuisce» (44b1-2).

141
condizione di anima incarnata (cioè, di anima umana). Il sintomo principale è
un'incapacità cognitiva, una mancanza di lucidità, dovuta alla confusione di essere
stata 'strappata' dalla sua condizione naturale: la malattia consiste principalmente
nel disordine del movimento dell'Identico e del Diverso 275. È questo un fattore che
appartiene alla necessità, un fattore incontrollabile perché indissolubilmente
legato alla nostra natura corporea.
Avendo stabilito che anoia è il termine generico per indicare la condizione più
o meno propriamente patologica della psyche, dobbiamo riconoscere che questa
incapacità cognitiva caratterizza tanto la sua manifestazione chiamata mania
quanto l'altra, che ha nome amathia. Platone, infatti, dice: « […] ogni affezione
che provochi l'uno o l'altro di questi due stati dev'essere chiamata “malattia” […]
» (86b4-5). In entrambi questi casi, l'anima si trova in un rapporto conflittuale con
il corpo e con le sensazioni che provengono dall'esterno, perché non riesce a
dominarle: la mania suggerisce uno stato di eccessiva attività della mente, un
comportamento delirante, l'amathia un istupidimento causato da una ipoattività
della mente. Entrambi questi disturbi sono in relazioni con il piacere e il dolore,
nella misura in cui piacere e dolore sono in eccesso:

[…] infatti, un uomo che sia eccessivamente gioioso o che si trovi, per il dolore, nella
condizione opposta, tutto preso com'è a cercare di ottenere qualcosa o a fuggire
qualcos'altro ipportunamente, non riesce a vedere né a sentire alcunché come si conviene,
ma diviene un forsennato (lyttai276) che non è più capace di far uso del ragionamento (kai
logismou metaschein hekista tote de dynatos) (86b6-c3).

Vi sono individui, dunque, costituzionalmente svantaggiati che non riescono a


provare 'convenientemente' sensazioni di piacere e di dolore, ma inevitabilmente
sconfinano nell'eccesso, per cui sono o frenetici o 'depressi' 277. I piaceri e i dolori
mettono l'uomo in una condizione di incapacità cognitiva, per cui la percezione
del mondo esterno278, e il giudizio che ne segue, fondamentale per le motivazioni
275 Cfr. LAUTNER, Plato's Account of the Diseases of the Soul, p. 26.
276 Il verbo lyssao, qui alla forma attiva “essere furente; essere in preda a furore”, è stato da noi
incontrato nel vocabolario sulla follia dell'epica e della tragedia. Cfr. supra, p. 21, nota 24.
277 Emerge la fenomenologia binaria del C. H. Cfr. supra, pp. 36 ss.
278 La vista e l'udito sono i sensi prescelti per indicare una percezione più estesa, l'apprensione da
parte di un soggetto del mondo circostante. Platone, infatti, nel passo appena citato parla subito
dopo di logismos.

142
del proprio agire, sono totalmente distorti.
Tali stati psichici hanno la loro causa organica: quando nel midollo (organo
fondamentale per la vita del composto corpo-anima 279) scorre un liquido seminale
abbondante, l'anima, poiché prova questa sensazione mista di piacere e dolore
«nei suoi desideri e in ciò che da essi deriva» (86c7), si ammala e diventa
intemperante riguardo ai piaceri erotici (he akolasia peri ta aphrodisia, 86d3)280.
Un tale individuo è malvagio inconsapevolmente: riconosciamo qui la tesi
socratica per cui “nessuno compie il male volontariamente”, mettendo in rilievo la
straordinarietà di un esito quale quello del Timeo per la filosofia morale. Una
considerazione di tipo medico-fisiologico suggerisce che se l'anima è malvagia, lo
è a causa del corpo e della sua disposizione.
L'eccesso di dolore dipende, poi, anch'esso da sostanze organiche («flegmi
acidi e salati e tutti gli umori amari e biliosi», 86e5-6) 281 e ha diverse
manifestazioni a seconda della sede dell'anima in cui vengono trasportate queste
sostanze. Anche in questo caso si parla di individui dalla 'cattiva costituzione'
(kakos pagenton, 87b1), in cui l'attività dell'anima è compromessa da queste
sostanze nocive. Esse causano 'scontentezza' (dyskolia) e 'afflizione' (dysthymia)
se la parte dell'anima colpita è quella appetitiva, 'temerarietà' (thrasytes) e 'viltà'
(deilia) se viene colpita la parte animosa, 'oblio' (lethe) e 'difficoltà ad apprendere'
(dysmathia) se le sostanze danneggiano la parte intellettuale. Proviamo a
esaminare ciascuno di questi disturbi.
Van der Eijk ritiene che la descrizione delle malattie dell'anima di Platone sia,
nel suo complesso, di carattere 'clinico'. Sebbene Platone renda 'immuni' dalla
colpa gli individui con una cattiva costituzione, e naturalmente il passo sulla

279 Nel midollo sono fissati 'i vincoli della vita' (hoi tou biou desmoi, 73b3) per cui l'anima è
avvinta al corpo.
280 Questo disturbo è stato tradotto da molti studiosi con 'ipersessualità', concedendo un'eccezione
alla cautela da adottare nella traduzione dei disturbi antichi in sindromi moderne. Ci si
potrebbe domandare perché Platone non parli qui di ipersessualità femminile. Ora, come
abbiamo visto per il trattato Peri parthenion, nella cultura greca è presente la tendenza a isolare
la figura femminile nel suo ruolo e nella sua identità (o non-identità) e guardarla con sospetto,
per cui il 'pregiudizio' che riguarda le manifestazioni irrazionali della mente si acuisce quando
si tratta delle donne, alle quali non si è propensi a riconoscere una sessualità 'normale' propria
(si veda SASSI, Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato, pp. 420-421).
281 In particolare, le esalazioni (atmida, 87a) di queste sostanze vagano per il corpo e si
mescolano con il movimento dell'anima (phora, 87a), turbandola.

143
diversificazione dei disturbi in base alla parte dell'anima corrispondente offra un
quadro che copre il campo emozionale come quello cognitivo, l'esempio
dell'ipersessualità conferma che la questione riguarda vere e proprie patologie.

[...] Plato's references to diseases of the soul are not to be taken as metaphors for states
of ignorance, […] they are genuine diseases, caused no less by bodily states than by lack
of education; and they are not moral dispositions, but pathological conditions. Their cure
is likewise to be taken literally, as addressing both the underlying bodily condition and
the state of the soul itself282.

Siamo propensi a considerare questa una classificazione dei disturbi che


colpiscono più frequentemente l'anima283, ma se per la parte animosa e quella
intellettuale è evidente la connessione con i rispettivi disturbi, non è
immediatamente chiaro il legame tra la scontentezza e l'afflizione e la parte
appetitiva dell'anima. Possiamo risolvere questa oscurità guardando al passo del
Timeo sul fegato già esaminato284. La parte appetitiva infatti è collocata nel fegato,
che riflette le immagini provenienti dalla ragione, e quando è attaccato dagli
umori biliosi, vi sono sintomi come dolori e nausee. Gli 'dei minori' che hanno
costituito l'uomo hanno posto, allora, nella parte appetitiva la divinazione « […]
per correggere anche la parte debole in noi, affinché in qualche modo attingesse
anch'essa alla verità [...] » (71d6-7). La parte appetitiva, dunque, si ammala a
causa di un umore nocivo e sembra provocare dei veri e propri 'disturbi
dell'umore'. Per il legame tra dyskolia e la parte appetitiva dell'anima faccio
riferimento anche all'etimologia della radice κολ- che, secondo Ateneo, è
equivalente a he trophe, e infatti il significato di dyskolos è propriamente “un
individuo difficile da soddisfare col cibo”, genericamente “irritabile, nervoso”285.
Platone presupporrebbe dunque questo nesso etimologico, come dimostra il passo
delle Leggi in cui è detto che la mollezza (he tryphe, 791d5) e quindi l'attenzione
esclusiva al soddisfacimento degli appetiti più bassi, rende i giovani scontrosi

282 Si veda VAN DER EIJK, Cure and (In)curability of Mental Disorders, pp. 317-318 ss.
283 Si veda T. J. TRACY, Physiological Theory and the Doctrine of “the Mean” in Plato and
Aristotle, Moulon 1969, p. 126.
284 Cfr. SASSI, Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato, pp. 422-423.
285 L'etimologia è riportata da TRACY, Physiological Theory and the Doctrine of “the Mean”, pp.
126-127.

144
(dyskola), irascibili (akrachola) e facilmente 'suscettibili' (sphodra apo smikron
kinoumena) (791d6). Proseguendo leggiamo che il contrario della mollezza rende,
invece, i giovani apatici e asociali, una condizione simile all'abbattimento e
all'afflizione propri della dysthymia (791d7-9).
Dysthymia si ritrova di nuovo nelle Leggi in relazione all'inaridimento tipico
dell'età avanzata (dysthymia) in contrapposizione all'indole impulsiva dei giovani
(emmanes hexis) (666a2-c2), ed è un termine che compare anche nel C.H., a
indicare uno dei sintomi che il paziente avverte se salta un pasto (VM, 10)286.
Venendo adesso alla formula con cui Platone introduce questi disturbi: mallon
kai hetton kai elatto kai pleio (87a3) e seguiamo la traduzione di Cornford «they
induce all manner of disorders of the soul of greater or less intensity and
extent»287. Diamo prima uno sguardo al Filebo, in cui Socrate discute delle classi
di peras e apeiron e della loro combinazione (Phil., 23c ss.), assegnando
all'apeiron dei termini che tra loro sono in un rapporto di eccesso e difetto, come
il più caldo e il più freddo, il più asciutto e il più umido, e così via, secondo il 'più'
e il 'meno'. Nel Timeo, per quanto riguarda l'irritabilità e l'afflizione, lo abbiamo
visto, è facile concepire questi due disturbi come opposti in intensità rispetto a un
ideale di equilibrio288 connotato da un controllo dell'anima razionale su quella
appetitiva, e lo stesso discorso vale per la temerarietà e la viltà, che sono
palesemente due eccessi rispetto a una condizione psichica in cui tra ragione e
emozione vi è una collaborazione. Ma in che senso l'oblio e la lentezza
dell'apprendimento si situano in opposizione rispetto a una condizione mediana?
Entrambe sembrano, piuttosto, condizioni in cui la mente rallenta o addirittura
interrompe la sua attività. Dysmathia, lo conferma lo stesso Timeo, rispecchia
sicuramente una situazione di difetto dell'anima razionale: un'anima lenta ad
apprendere è un'anima ignorante (88b4-5). In che modo lethe sia legata all'eccesso
lo vediamo nel Teeteto, in cui vi è la celebre metafora della mente come una
tavoletta di cera (Theaet., 191c ss.). Quando la tavoletta si presenta di consistenza

286 TRACY, Physiological Theory and the Doctrine of “the Mean”, p. 127; cfr. anche SASSI,
Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato, p. 423.
287 Cfr. CORNFORD, Plato's cosmology, p. 345.
288 SASSI, Mental Illness, Moral Error, and Responsibility in Late Plato, p. 424.

145
né troppo morbida né troppo dura ed è lavorata in modo omogeneo, le impressioni
sono durevoli e l'apprendimento è veloce e si mantiene nel tempo (194c). Quando
invece la tavolette è troppo morbida, l'apprendimento è veloce ma non è durevole
(gli individui sono eumatheis men, epilesmones de), nel caso contrario, quando la
tavoletta è troppo dura, si verifica l'opposto, cioè una condizione di dysmathia. Il
passo del Teeteto è un parallelo adeguato per il discorso del Timeo, perché mostra
che Platone concepiva il lethe e la dysmathia come eccessi rispetto a un
equilibrio.
Inevitabile poi richiamare nuovamente il trattato ippocratico Regime, per le
somiglianze nella caratterizzazione dell'intelligenza. Nel capitolo XXXV, lo
abbiamo visto, l'intelligenza più perfetta è dovuta a un'adeguata e proporzionata
mescolanza tra il fuoco più umido e l'acqua più secca, e i vari tipi di phronesis e
aphrosyne dipendono dalla presenza in misura maggiore o minore di questi due
poteri.
Siamo giunti, così, a classificare i disturbi dell'anima in base alla sede
dell'anima in cui bile e flegma si trovano a interferire con i movimenti dell'anima
razionale, ma dobbiamo fare un'ulteriore e finale considerazione, perché sappiamo
che la bile è una sostanza eccessivamente calda 289, il flegma è eccessivamente
freddo. La fenomenologia binaria del C. H. ha mostrato che le costituzioni
'flegmatiche' sono tranquille, quelle 'biliose' sono agitate 290. E Platone stesso, lo
ricordiamo, nell'VIII della Repubblica spiega l'origine della tirannia dallo stesso
morbo che affliggeva l'oligarchia e la democrazia:

Ebbene, parlando di quel morbo intendevo dire la classe degli uomini oziosi e
spendaccioni. Di essi il gruppo più coraggioso dirige, il più codardo segue; e sono quelli
che paragonavamo a fuchi, gli uni forniti, gli altri sforniti di pungiglioni […] Questi due
gruppi, quando sorgono, producono turbamenti in qualunque costituzione, come nel
corpo il flegma e la bile […] (564b4-10).

Anche Platone considera la bile e il flegma umori dalle opposte proprietà:


l'una, come negli uomini 'dotati di pungiglione', causa iperattività e eccitazione, e

289 Lo abbiamo visto nel Timeo a proposito delle malattie del corpo: la bile causa il ribollire del
sangue e delle infiammazioni.
290 Cfr. supra, p. 36 ss.

146
l'altra che somiglia alla massa inerte del corpo politico, di nessuna utilità per la
coesione sociale291.
Mi sembra non sia stato finora notato dagli studiosi un particolare a mio avviso
degno di nota. Per una migliore comprensione della classificazione platonica delle
malattie-eccessi, riporto qui nuovamente in breve la sezione del Regime che
sfugge alla classificazione secondo la sygkresis:

Ecco dei caratteri che non hanno per causa la mescolanza (di fuoco e acqua) (he
sygkresis): irascibilità, indolenza, astuzia, semplicità, malevolenza, benevolenza. Di
questi caratteri la causa è la natura dei pori attraverso cui l'anima scorre (he physis ton
poron di'hon he psyche poreuetai). Si hanno variazioni a seconda dei vasi (angeion)
attraverso cui l'anima passa, a seconda degli oggetti che essa incontra, a seconda di ciò a
cui si mescola (XXXVI 2, 26-3).

Anche qui, infatti, si fa riferimento a due coppie di eccessi rispetto a una


medietas: questo è perlomeno certamente il caso dell'irascibilità e dell'indolenza,
dell'astuzia e della semplicità. La malevolenza e la benevolenza possono essere
identificati l'uno come un'estrema sfiducia, l'altro, come una altrettanto estrema
fiducia nei confronti del prossimo. Mi sembra altresì degno di nota il fatto che sia
Platone sia l'autore del Regime inseriscano questa classificazione in una sezione
separata rispetto alle distinzioni di principio iniziali (per Platone, le malattie
dell'anima non dipendono né da un eccesso di piacere né da un eccesso di dolore,
e analogamente per l'autore del Regime i tratti caratteriali non sono determinati
dalla mescolanza di fuoco e acqua), e per di più entrambi facciano dipendere tali
variazioni dal luogo in cui l'anima si trova (i poroi per l'anima del Regime, la sede
dell'anima mortale per Platone).
Queste, dunque, le disposizioni (o predisposizioni) del corpo riguardo alla
malattia dell'anima: Platone naturalmente non esaurisce con questa classificazione
secondo la bile e il flegma la totalità dei disturbi dell'anima, né tantomeno siamo
autorizzati a definire questi disturbi come esclusivamente causati dalla bile e dal
flegma. È lo stesso Platone che aggiunge che possono contribuire negativamente
delle cattive costituzioni e una cattiva educazione (87b1-9). Sebbene Platone non

291 Cfr. TRACY, Physiological Theory and the Doctrine of “the Mean”, p. 131.

147
sia qui specifico, possiamo considerarle concause della malattia, a un tempo
sociali e organiche292. È aisthesis, infatti, tutto ciò che dall'esterno, attraversando il
corpo, con un movimento più o meno intenso, colpisce l'anima (43c4-7). Pertanto,
Platone non può trascurare la portata dei cattivi discorsi e degli insegnamenti
scorretti nel rendere un individuo non solido intellettualmente e incapace di
scelte consapevoli. L'esempio della bile e del flegma conferma la stretta relazione
tra anima e corpo, nonché l'interesse di Platone a offrire una spiegazione
fisiologico-medica dell'attività psichica.

La terapia della 'misura'. La sezione sulle cure del corpo e della mente (peri
tas ton somaton kai dianoeseon therapeias, 87c1-2), provando a fare luce sui
rapporti tra corpo e anima, offre un contributo anche per la comprensione della
patologia dell'anima.
È ripreso il filo logico che caratterizzava il discorso sulle malattie del corpo:

Tutto ciò che è buono, certo, è anche bello, e ciò che è bello non è privo di misura e
proporzione (ametron): anche il vivente, quindi, se deve essere tale, bisogna porre che sia
ben dotato di misura e proporzione (symmetron) (87c4-6).

Il compito non è semplice, perché è richiesto all'uomo di avere un alto livello


di consapevolezza di sé, come parte di un Tutto. Platone dice, infatti, che non
siamo in grado di cogliere le dismisure più importanti e più grandi (ta de kyriotata
kai megista, 87c7-8) e usa l'espressione echomen alogistos: l'uomo è
costituzionalmente incapace di discernere con la sola ragione le questioni che
trascendono il mondano. È qui espresso nuovamente, a mio avviso, il concetto di
anoia a indicare la condizione umana.
Per la salute e la malattia, dunque, bisogna tenere presente che la più grande
dismisura è quella che riguarda l'anima nei confronti del corpo (87d2-3). Il
vivente nel suo insieme (l'unione di corpo e anima) non è bello e proporzionato
quando, per esempio, una struttura corporea debole è sostenuta da un'anima forte,
o quando anima e corpo sono congiunti secondo un rapporto contrario. La

292 Questa l'indicazione di LAUTNER, Plato's Account of the Diseases of the Soul, pp. 23-24.

148
dismisura, poi, oltre a essere evidentemente causa di bruttezza, è al tempo stesso
causa di molti mali.
La definizione della malattia come dismisura e bruttezza trova un richiamo nel
Sofista, che mantiene l'analogia tra il corpo e l'anima, ma usa una terminologia
diversa. Ricordiamo che nel Sofista la kakia è la malattia dell'anima e che essa si
presenta sotto forma di vizio (poneria) e ignoranza (agnoia). Il vizio è posto in
parallelo con la malattia nel corpo, e gli esempi portati da Platone sono la
codardia, l'intemperanza, la tracotanza. L'agnoia, invece, è come la bruttezza nel
corpo, nel senso di una sproporzione tra le sue parti. Nel Timeo invece ritroviamo
sì l'intemperanza e la codardia tra le malattie dell'anima, ma poste non tanto in
parallelo quanto in intrinseca connessione con le condizioni corporee. C'è dunque
continuità con il Sofista per quanto riguarda in generale l'applicazione della
categoria di malattia-salute all'ambito etico 293 e l'identificazione della salute nella
bellezza e nella proporzione, ma nello stesso tempo uno spostamento di accento
che non è dovuto semplicemente alla differente materia trattata, bensì al fatto
assai più significativo del cambiamento di prospettiva rispetto al rapporto corpo-
anima. Le difficoltà cui siamo andati incontro nel tentativo di ricostruire un
quadro coerente e sistematico del rapporto analogico anima-corpo in Platone, nel
Timeo sembrano dissolversi, perché qui il 'dualismo' di Platone si presenta come
un 'dualismo integrato' e l'attenzione è rivolta all'insieme del corpo e dell'anima e
non a tali enti presi separatamente.
Quando Platone descrive i casi in cui l'anima può nuocere al corpo, introduce il
discorso in una forma analogica, in cui i termini sono il corpo da un lato, e il
corpo-anima dall'altro:

Come un corpo che ha gambe troppo lunghe o qualche altro eccesso che lo rende
sproporzionato […], così bisogna pure pensare dell'unione di entrambi, corpo e anima,
ciò che chiamiamo vivente, perché quando l'anima in esso, che è migliore del corpo, si
adira, scuotendolo tutto dall'interno, lo riempie di malattie; quando si dedica con impegno
a certi studi e ricerche, lo corrode; quando, ancora, si applica all'insegnamento e ingaggia
battaglie, in discorsi pubblici e privati, per le contese e per il desiderio di vittoria che si
determinano, lo rende rovente e lo agita, e scatenando dei flussi, inganna la maggior parte
dei cosiddetti medici, facendo sì che essi indichino, di questi mali, cause contrarie a

293 Cfr. BALANSARD, Maladie et laideur de l'âme, p. 37.

149
quelle vere (87e-88a6).

Qui l'azione dell'anima è preponderante rispetto a quella del corpo. Quando


invece è il corpo a essere più forte dell'anima, ecco ricomparire l'amathia, con una
sua possibile causa:

Quando al contrario un corpo grande e superiore all'anima si trova connaturato a


un'intelligenza piccola e debole, poiché, per natura, vi sono nell'uomo due desideri –
l'uno, del nutrimento, a causa del corpo, l'altro, dell'intelligenza, in virtù di ciò che vi è in
noi di più divino – allora i movimenti del più forte, dominando e facendo crescere il
proprio dominio, e rendendo d'altra parte l'anima stupida (kophon), incapace di
apprendere (dysmathes) e senza memoria (amnemon), suscitano in essa la malattia
peggiore, l'ignoranza (amathian).

Notiamo che non vi sono casi secondo i quali l'anima possa nuocere a se stessa
– ossia non si dà la possibilità che l'anima si ammali per cause che non riguardano
il corpo – ma solo casi in cui il corpo può nuocere all'anima e l'anima al corpo.
L'amathia, qui, risulta derivare da una predominanza eccessiva del desiderio del
nutrimento sul desiderio di intelligenza.
La terapia prevista è volta al ristabilimento dell'armonia tra l'anima e il corpo:
un'intensa attività intellettuale dev'essere compensata da una altrettanto intensa
attività fisica; chi dedica molte cure al corpo, invece, deve «fornire all'anima i
suoi movimenti» (88c4), cioè quelli circolari che imitano i movimenti
dell'universo. Sono previste anche diete (89c8)294, che regolano l'andamento della
malattia, ma in primo piano emergono la musica e la ginnastica per l'anima e il
corpo, volte a regolare il movimento dell'una e dell'altro, in vista di un ordine
complessivo. La circolarità dei movimenti rispecchia la circolarità interna
all'essere vivente, in cui fisico e psichico si influenzano a vicenda: Platone
ribadisce che vi è una parte atta a governare e questa dev'essere preparata meglio,
'mossa' di più (cioè l'anima razionale). Ma è riconosciuta l'influenza positiva di
nutrimenti e movimenti appropriati (90c5-6). Il movimento si presenta, dunque,

294 Come nel Regime, in cui per qualcuna delle variazioni patologiche dell'intelligenza è previsto
un miglioramento attraverso una dieta alimentare corretta. Cfr. supra, pp. 40 ss.

150
come un principio terapeutico295 e non è l'unico caso in cui a esso è affidato da
Platone un ruolo guida per la conoscenza. Lo abbiamo visto nel Fedro, in cui
un'anima 'mossa' dalla mania è un'anima filosofica che si prende cura di sé come
parte di un Tutto. Nel Fedro il fenomeno della mania non trovava una diretta
spiegazione fisiologica (benché alcuni elementi descrittivi del quadro
preannunciassero la direzione poi presa nel Timeo), ma si faceva tramite tra
mondo umano e divino, grazie alla concezione dell'anima come principio di
movimento. Nel contesto del dialogo il 'movimento scomposto' dell'anima
assumeva connotazioni patologiche, ma solo parzialmente, perché quando l'anima
mette in atto la reminiscenza, dovrebbe essere guidata naturalmente da se stessa
verso la conoscenza di sé. Qui nel Timeo è invece postulata la necessità di
un'armonia del movimento dell'anima e del corpo, movimento che riflettendosi in
quello dell'anima e del corpo del cosmo, ricongiunge l'uomo all'universo di cui è
parte, e conduce l'anima al luogo di appartenenza, eis to auto hothen (Phaedr.,
248e6).

295 Cfr. VAN DER EIJK, Cure and (In)curability of Mental Disorders, p. 319.

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