Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Table of Contents
DELL’EROS COSMOGONICO
INDICE
Prefazione dell'autore alla prima edizione
Prefazione alla quinta edizione
I. Considerazione concettuale preliminare
II. Del concetto di Eros dell'antichitaà
III. L'Eros elementare
IV. Dello stato dell'estasi
V. Dell'essenza dell'estasi
VI. Del culto degli antenati
VII. Conclusione su Eros e passione
Appendice
Fonti
2
Klages è l'interprete più intelligente e profondo della cultura
tedesca tra le due guerre, il grande esponente dell'irrazionalismo e
della contrapposizione tra anima e spirito. in questa sua opera
fondamentale - "Dell'eros cosmogonico" - Klages pone la questione
dell'Amore totale come "mistico sposalizio" tra anime, al di là della
semplice sessualità. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco
romantico dai vuoti interessi terreni. Viene così celebrato l'Amore
totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra
loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di
natura e un legame di sangue: "Il compimento consiste nel destarsi
dell'anima, ed il destarsi dell'anima è contemplazione, ma essa
contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie
sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno
bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un
corpo". In questo "mistico sposalizio" tra anima e "demone
generatore" si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la
trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico. E qui si
radica, per il filosofo, l'antico nucleo mitologico orfico ed esiodeo
dell'eros, tanto amato dal neoplatonismo e che influenzerà studiosi
come Warburg e Panofsky.
3
Ocr e conversione a cura di Natjus
LDB
4
Ludwig Klages
DELL’EROS COSMOGONICO
5
2012 - PGRECO EDIZIONI
Via Gabbro 4-20100 Milano
Per informazioni
E-mail: edizionipgreco@gmail.com
6
INDICE
V Dell’essenza dell’estasi
Appendice
Fonti
7
8
DAS AÄ USSERE IST EIN IN GEHEIMNISZUSTAND
ERHOBENES INNERE
NOVALIS1
Ottobre 1921
L.K.
10
Prefazione alla quinta edizione
Poicheé questo libro, nato circa trent’anni fa in occasione di un
corso, appartiene, per l’autore, alla storia della propria opera, esso
deve rimanere com’eà , a parte poche rettifiche giaà iniziate nelle
precedenti edizioni, nonostante le sue non poche manchevolezze.
Possano cioà nonostante le buone qualitaà , delle quali non fu privo,
serbargli il favore di quei lettori che non hanno smesso di ricercare
nei pensieri misterici dell’umanitaà gli aurei chicchi del sapere!
Si noti ancora: il problema dell’Eros appartiene alla grande
cerchia dìà questioni che vengono trattate nel quarto volume della
nostra opera principale, Lo spirito come avversario dell'anima, sotto
il titolo Dell’essenza del pelasgismo. Ma questa poteà essere compiuta
solo circa dodici anni dopo. Cosìà il problema dell’Eros rimase escluso
da essa e forma una creazione che in realtaà completa l’opera
principale, ma eà completamente autonoma, e che fa desiderare la
conoscenza di quelle piuà ampie esposizioni, ma non la presuppone.
Autunno 1951
L.K.
11
I. Considerazione concettuale preliminare
13
altrettanto marcate antipatie, le quali talvolta possono crescere fino
a divenire idiosincrasie.
Inoltre c’eà l’inclinazione verso uomini determinati o verso loro
parti e qualitaà visibili. Qui ci sono di nuovo numerose sottospecie:
amore dell’amico, amor dei genitori, amor filiale, amore tra fratelli e
sorelle, amor familiare, amore cameratesco, amore per il capo, per il
dominatore, per il subalterno, per il popolo ecc. Ogni tipo di
inclinazione ha un tono sentimentale che gli eà assolutamente
proprio. Cosìà nell’amore per il dominatore risuona piuà forte il tono
dell’ammirazione, in quello per il subalterno o per il popolo invece eà
piuà forte il tono della compassione. L’amore tra fratelli e sorelle si
distingue da quello tra amici per tratti difficili da descrivere, e cosìà
l’amicizia tra uomini rispetto a quella tra donne, e ancora il
cameratismo dall’amicizia in generale. L’amore dei genitori per i figli
eà una cosa molto diversa dall’amore dei figli verso i genitori.
«Diversamente il garzone, diversamente il maestro ama il maestro»,
dice Nietzsche in Aurora.
EÈ appena il caso di dire che ogni inclinazione del cuore che
determina una scelta puoà fondare una affinità elettiva e percioà
appare come originario mezzo d’unione tra gli uomini. Dovunque la
mera comunitaà degli interessi non abbia ancora stracciato ogni
legame naturale, e perfino all’interno dei legami di interesse, la
coscienza di reciproca appartenenza di gruppi piuà o meno ampi
scaturisce da sentimenti di simpatia. Da questi, e assieme dalla forza
dell’abitudine, deriva il naturale attaccamento alla famiglia, al suolo
patrio, alla cerchia dei colleghi, e qui eà fondato il pathos nient'affatto
soltanto etico dell’antico concetto di fedeltaà . Per esempio
sbaglieremmo se considerassimo l’antica germanica «fedeltaà virile»
o la scita «fedeltaà tra amici», con le loro esigenze che ai nostri occhi
appaiono esuberanti e incantevoli, come il prodotto di una
particolare eticitaà , e se non sapessimo riconoscere invece in esse il
precipitato, consolidato in sentimenti costanti, di uno stato d’animo
simpatetico.
14
Inoltre c’eà , come si eà detto, un amore per parti o qualitaà umane
percepibili: per mani, piedi, portamenti, forme nude, nasi, colori di
pelle, profumi, particolari o belli. La predilezione per i capelli biondi
o neri, e per gli occhi celesti o scuri, determina notoriamente le
scelte ed indica come l’indole dell’inclinazione di un uomo dipenda
in parte da peculiaritaà razziali. Se infine distinguiamo per gradi, ecco
una serie divisibile a piacere che va dalla mera inclinazione dovuta
all’abitudine fino all’attrazione appassionata. Cosìà ogni tipo di
inclinazione che abbiamo visto potrebbe tanto rimanere tiepida
quanto innalzarsi al calore e all’ardore.
Se in tutti i casi fin qui considerati «amore» poteva essere
sostituito da «inclinazione», ora esaminiamo i casi in cui questa
parola indica innegabilmente degli «impulsi». Poicheé puoà sembrare
che impulsi e inclinazioni siano la stessa cosa, spieghiamo che cosa
intendiamo quando parliamo di diversitaà tra le due cose.
Nulla impedisce un’accezione della parola «inclinazione»
abbastanza vasta percheé essa significhi anche impulso, e viceversa.
Ma se noi lo facessimo, noteremmo tuttavia nelle conseguenze del
moto dell’anima chiamato ora impulso ora inclinazione due lati
diversi, dei quali l’uno dovrebbe essere compreso soltanto a partire
dal sentimento dell’inclinazione, l’altro soltanto a partire
dall’esperienza vissuta dell’impulso. Come cioeà «inclinazione», che si
puoà sostituire, mantenendone il significato, con «pendenza», giaà col
suo nome dichiara come chi ha l’inclinazione sia attratto verso il suo
oggetto, cosìà eà peroà altrettanto certo che ogni inclinazione può
mantenere la forma di una stabile situazione sentimentale senza per
questo sbiadire o perdere in significato. Invece, come se la forza
d’attrazione potesse agire su un altro organo dell’anima, il
sentimento dell 'impulso all’unione spinge inevitabilmente chi lo ha
a movimenti che realmente mirano all’unione, anche se, nel caso che
questa fosse impossibile, esso verrebbe immancabilmente vissuto
come un disturbo piuà o meno considerevole. Di conseguenza
distinguiamo inclinazioni e impulsi propriamente detti. «Impulso» eà
qualcosa che daà una direzione, che implacabilmente «spinge»
15
dall’interno; «inclinazione» eà qualcosa che daà una direzione secondo
la quale uno di tanto cadrebbe o si inabisserebbe, quanto le
circostanze glielo permettessero (Si osservi la locuzione «una
ragazza caduta», che giudica il cosiddetto passo falso come la
conseguenza di una «inclinazione», di una «pendenza», dando anche
peroà un giudizio di valore). Poche prove sono sufficienti a mostrare
che con cioà si eà ottenuto il nocciolo dell’uso linguistico corrente.
Mentre tutte le specie di inclinazione si chiamano anche
simpatie, questo suonerebbe in parte troppo debole, in parte non
appropriato per genuini impulsi all’unione. Inoltre non a caso
indichiamo con aggettivi diversi i gradi di ascesa dell'impulso da
quelli dell’inclinazione. EÈ piuà raro che parliamo di «violente
inclinazioni» che non di «violenti impulsi», e non scegliamo mai
l’aggettivo «profondo» per la forza di un impulso, mentre crediamo
di descrivere nella maniera piuà adeguata quella di una inclinazione
quando diciamo «profonda inclinazione», «profonda simpatia». Si
parla cioeà di un violento impulso quando si vuol far notare, in un
sentimento, cioà per cui esso eà causa di movimento; di profonda
inclinazione, invece, in quanto abbiamo in mente un πάά θημά,uno
stato.
Se infine confrontiamo con Abneigung o antipatia il
corrispondente impulso negativo, eà subito evidente che questo
provoca un’azione, quella al massimo un tralasciare. Per profonda
antipatia si eviteraà l'oggetto; chi prova invece l’impulso di un
violento odio, o ira, o invidia, cercheraà l’oggetto per distruggerlo. Si
parla di impulso di vendetta, e non certo di inclinazione alla vendetta.
Ora che la differenza in certa misura potrebbe essere chiarita,
vediamo tre specie di amori impulsivi che bisogna distinguere sul
piano linguistico.
16
Amore impulsivo eà sempre impulso all’unione, e l’impulso
all’unione eà sempre un impulso corporeo all’unione. Ora, poicheé due
esseri distinti non sono in grado di diventare corporeamente uno
solo, sembra che la forma originaria della soddisfazione dell’impulso
sia ogni piuà alta misura di vicinanza corporea, ossia il contatto
corporeo, del quale l’azione in pari tempo simbolica del bacio eà ,
presso un vasto gruppo di popoli, il segno del compimento. Se noi
cerchiamo il senso di questo amore nell’ambito di espressione della
tenerezza, incontriamo come sua forma fondamentale l'amor
materno.
Utilizziamo l’esempio dell’amor materno per illuminare ancora
una volta la differenza d’essenza tra inclinazione e impulso. L’amor
materno di una madre per i suoi figli si puoà distinguere esattamente
dalla sua simpatia per l’uno o per l’altro. Questa eà questione
d’inclinazione, quello di impulso. La simpatia, sempre personale,
mostra molte varietaà per specie e grado, mentre l’amor materno,
direi quasi impersonale, di una madre, eà simile a quello di un’altra
fino a non potersene distinguere, e cosìà anche l’amor materno di una
stessa madre per due suoi figli. Poicheé ogni impulso eà qualcosa di
puramente animale, l’amor materno ha certamente profonditaà
psichica, ma in nessun modo altezza spirituale, e appartiene alla
madre ferina non diversamente che a quella umana. Dalla sua
estraneitaà allo spirito risulta subito percheé la madre nel proprio
figlio non conosca in fondo e non riconosca nessun altro valore
emozionale che la sua appartenenza, come bimbo, a lei. Come madre
saraà attaccata al «figlio perduto», anche se dovesse condannare il
suo comportamento, non meno che al figlio modello. Non c’eà bisogno
per questo che sia cieca per le debolezze dei suoi figli: percheé esse
non toccano affatto il suo impulso materno alla tenerezza. E questo
per esempio non si puoà dire ugualmente dell’amore del padre, il
quale piuttosto in quanto padre rivela schizzinose inclinazioni per i
suoi figli. Cosìà ha ragione la lingua che non ha posto a fianco all’amor
materno [Mutterliebe] un «amor paterno» [Vaterliebe] simile per
essenza. (La relazione di natura impulsiva che non di rado si osserva
17
tra padri e figlie appartiene al campo della sessualitaà , della quale fin
qui non abbiamo ancora parlato). Contro il carattere impulsivo
dell’amor materno infine non dice nulla neppure il fatto che esso
culmini nella cura per l’amato. Infatti in primo luogo questa
appartiene giaà alle conseguenze naturali di un impulso che trova il
suo compimento nel tenero palpare, e poi la cura in questione
originariamente eà diretta esclusivamente al corpo del bimbo. Un
impulso alla cura esiste per seé anche da parte del padre, ma non
l’impulso alla cura che mira al contatto, che dona col corpo. Vediamo
bene che cosa significhi vicinanza corporea nel quadro dell’amor
materno appena consideriamo quale misura di impulsiva resistenza
la madre opponga alla separazione dal suo bimbo. Di fronte al dolore
per la separazione di una madre impallidiscono quelli di due amici
che si separano, o di un fratello e una sorella, o di due sposi: non
percheé il loro amore reciproco sia piuà scarso, ma percheé esso
(quando non sia stato trasformato da una lunga consuetudine di vita
comune) ha molto meno bisogno della vicinanza corporea del suo
oggetto di quanto la madre abbia bisogno di quella del figlio. La
scrittura ideografica dell’antica Cina esprime il concetto dell’amore
ponendo accanto alla figura di una donna quella di un bimbo.
Se nell’amor materno abbiamo riconosciuto l’«impulso all’unione
semplicemente», non ci stupiremo piuà di trovare sempre, nella
tenerezza, anche un supplemento di impulso materno. Il linguaggio
non ha formato, per le innumerevoli altre specie dell’impulso
all’unione non sessuale, tanti accoppiamenti di parole come ha fatto
invece per la sua specie principale con l’«amor materno», ma giaà con
la locuzione «tenero amore» lascia capire come la tenerezza sia il
contrassegno essenziale dell’amore che mira all’unione. Noi
troviamo la piuà grande ricchezza di impulsi del genere nell’infanzia
(«pendant» della maternitaà ), il cui amore per gli animali, molto
diverso dalla media dell’amore per gli animali degli adulti, si traduce
subito in carezze, abbracci e protezione per l’animale amato.
Il «tenero amore», che possiamo anche chiamare, per la sua
natura di impulso, bisogno di tenerezza, si trascina, anche se in
18
diversissimo grado, per tutta la vita dell’uomo, eà sempre piuà
accentuato presso le donne che presso gli uomini, ha per ciascuno
un massimo grado e puoà estendersi a tutte le cose possibili. Cosìà c’eà
un amore per le pellicce, il velluto, le penne d’uccello, i cuscini gonfi,
i molli prati, e per il divano, per un suono docile o per una terra
plasmabile, in breve per i piuà diversi oggetti molli o elastici: e tale
amore ha le sue radici nel bisogno di toccare teneramente. Perfino la
predilezione per i bagni in acque tiepide (nell'antichitaà , una
passione popolare) puoà essere in gran parte ricondotta a questo.
Come si eà giaà provato per il bimbo, anche l’amore per determinati
animali (ad esempio, per i gatti) puoà essere determinato anche dalla
forma molle e gonfia dell’oggetto, ed eà allora da distinguere
dall’amore per gli animali ricordato sopra, molto piuà concretamente
individuato. Infine non c’eà dubbio che quell’amor di patria del tutto
originario che nel caso di una separazione produce una nostalgia che
(almeno presso i popoli primitivi) puoà essere causa di morte, viene
nutrito da un impulso che soltanto la vicinanza corporea del focolare
domestico puoà appagare. Livingstone per primo riferìà, a proposito
degli abitatori delle sponde del fiume Lualaba, che essi dopo la
separazione dalla loro terra non di rado morivano in breve di
crepacuore. Presso questi e molti altri «popoli primitivi» la
profusione di tenerezze a piante e alberi, a strumenti di lavoro o ad
armi eà ancora qualcosa di abituale. Nell’antica Germania si augurava
all’albero «buon mattino» e gli si annunciava anche solennemente la
morte del capofamiglia. Alcuni africani svegliavano con i tamburi le
loro barche, e a viaggio avvenuto le facevano riaddormentare con
ninne-nanne. In questo contesto possiamo capire che possa
improvvisamente guarire l’ammalato di nostalgia al quale venga
portato un pezzo corporeo della sua patria, per esempio un filone di
pane che eà stato cotto laggiuà (qui ha peso anche il fatto che sia
commestibile, ma di cioà diremo piuà tardi). Qui puoà anche apparirci
in nuova luce il contenuto simbolico del mito di Anteo che perde la
propria forza se gli vien tolto il contatto corporeo con la terra.
19
Essendo cosìà giunti nuovamente alla maternitaà che caldamente
abbraccia, ma questa volta a quella della terra, percepiamo subito
una stretta affinitaà di «tenero amore» e «intimo amore», e vogliamo
fin d’ora sottolineare che la psicologia da imbrattafogli che fa
derivare tenerezza, intimitaà , maternitaà , insomma l’«impulso
all’unione semplicemente», dall’impulso sessuale, ha contribuito
come nient’altro a rendere il giaà ottuso senso della «persona colta»
del tutto cieco per l’essenza dell’Eros.
2. Impulso all’inghiottimento.
20
notare in esso, accanto al non disconoscibile lato di bisogno, anche
un lato di inclinazione, non ci saraà certo poi nessuno che non sia
capace di ricordare le particolari gioie e gli incomparabili godimenti
che il mangiare e il bere prima o poi gli hanno procurato. Ma se
nell’esperienza vissuta del mangiare o del bere ci sono sempre
anche tratti qualitativi, si concorderaà con noi nel considerare anche
l'aver fame e sete dal punto di vista di un impulso all’unione, che
mira all’inghiottimento, e nel respingere invece decisamente, per
quanto riguarda il lato del bisogno, il tentativo di farlo derivare da
un «impulso alla nutrizione». La nutrizione eà una conseguenza,
riconosciuta soltanto dall’uomo e pertanto solo per lui conscia,
dell’assunzione di nutrimento, e non una parte dell’impulso stesso!
Si falsifica irrimediabilmente l’intera dottrina degli impulsi, se si
presume di poter cogliere la loro essenza, che si puoà scoprire
soltanto nell’esperienza vissuta, dall’osservazione degli effetti della
loro attivitaà . Quanto in questo campo intendesse meglio la sapienza
di vita degli antichi, puoà mostrarcelo il fatto che anche un pensatore
cosìà tardo e giaà del tutto professorale come Aristototele determina la
fame come un impulso al contatto con l’asciutto, la sete a quello col
liquido.
21
Poicheé oggi con «impulso sessuale» piuà precisamente si pensa
l’impulso all’accoppiamento bisessuale, e partendo da esso si spera
di comprendere tanto ulteriori specie di impulso all’accoppiamento
quanto anche ulteriori specie di attivitaà sessuali (che in rapporto a
esso divengono poi tutte quante le cosiddette perversitaà ),
apparterrebbero, secondo l’uso linguistico, a questo settore
dell’amore: amore omosessuale, pederastia, amore lesbico, amore
sessuale per animali, amore solitario; inoltre amore per il procurar
dolore («sadismo») e amore per il patir dolore («masochismo»); e
poi l’amor sessuale per il mostrarsi [geschlechtliche Zeigeliebe], come
si potrebbe tradurre in tedesco l’«esibizionismo» con tutte le sue
innumerevoli sottospecie e specie collaterali; infine ogni specie di
amore sessuale per parti e prodotti del corpo umano e per oggetti
d’uso, per cui si impiega il termine inadatto di «feticismo».
Piuà tardi mostreremo, per quanto saraà richiesto dall’illustrazione
dell’Eros, percheé il modo di osservazione che prende le mosse
dall’impulso all’accoppiamento bisessuale non basti. Invece va
accentuato ancora particolarmente per l’impulso sessuale cioà che si
eà detto sulla differenza tra fame e «impulso alla nutrizione»; che cioeà
sarebbe un capovolgimento e una intenzionale falsificazione
chiamarlo «impulso di procreazione». Di nuovo infatti la
procreazione eà una possibile conseguenza di attivitaà sessuale, ma
non eà presente come rappresentazione di scopo nell'esperienza
vissuta dell’eccitazione sessuale. Non ne sa nulla l’animale, bensìà
esclusivamente l’uomo. Cosìà nell’uomo non l’animale, il quale peroà
soltanto ha l’impulso sessuale, viene spinto all'accoppiamento da
motivi di procreazione, ma piuttosto il suo spirito, che non ce l’ha,
puoà accompagnare l’attivitaà impulsiva con il pensiero della
procreazione e con il desiderio di essa. Ora, eà vero che anche il
desiderio puoà assumere una forma impulsiva. Soltanto, allora esso eà
qualcosa di totalmente diverso dall’impulso sessuale, che dal canto
suo cadrebbe a mero mezzo in vista di uno scopo; e inoltre esso in
generale non eà un impulso, ma un «interesse», una direzione della
volontaà , un movente [Triebfeder] di natura molto diversa da persona
22
a persona. Cosìà talvolta nell'uomo il maschio pone il proprio impulso
sessuale al servizio dell’interesse della conservazione della specie, e
questo potrebbe essere il suo «impulso alla procreazione». Invece, se
una donna desidera figli, magari un’intera schiera, ella di regola ha
subordinato l’impulso sessuale al proprio impulso materno, e questo
potrebbe essere il suo «impulso alla procreazione», che non ha
quindi nessuna somiglianza con i desideri dìà conservazione della
specie dell’uomo. Questo esempio mostra inconfutabilmente in
quale controsenso cadiamo se scambiamo genuini impulsi naturali
con desideri umani, e se vogliamo comprendere tali impulsi dalle
loro conseguenze. Per tutte le specie impulsive di amore vale in
particolar modo cioà che abbiamo giaà dovuto rilevare per le
inclinazioni, che cioeà i loro gradi piuà alti si chiamano «passioni»
oppure, nel caso di una valutazione sfavorevole del loro oggetto,
«manie».
Per motivi che non possono ancora essere spiegati, nella
passione d’amore si possono distinguere: profonditaà
dell’inclinazione, veemenza dell’impulso ed esclusivitaà della scelta.
Quest'ultima eà nota solo rudimentalmente all’animale e alla prima
umanitaà . Se si vuole accentuare soltanto la veemenza dell’impulso, sìà
parla di brama o di ardore: «amore ardente», «ardor d’amore» (peroà
nell’«intimo ardore» [Inbrunst] c’eà di nuovo la profonditaà ). Se infine
l’oggetto dell’impulso deve venir screditato, allora si sceglie il
termine «mania». Cosìà dall’amore per il gioco presto nasce la
«passione per il gioco», ma anche la «mania del gioco»; dall’«amore
per il bere» la «mania di bere», dall’«amore per il mangiare» la
«mania del cibo»; e cosìà la «morfinomania», l’«oppiomania», ecc.
Poicheé la parola «mania» [Sucht], indicava originariamente malattie,
ogni specie di morbositaà psichica eà legata strettamente alla
«viziositaà »: e cosìà si comprende come molte abitudini amorose
cadano nella categoria dei «vizi».
Giunti alla fine di questo panorama, non ancora affatto
esauriente, dei casi della parola amore nell’uso linguistico odierno,
mettiamo in fila alcuni dei concetti d’amore che abbiamo elencato e
23
cerchiamo di renderne afferrabile la differenza indicando di volta in
volta il loro senso essenziale in primo luogo mediante una parola
che non contiene «amore»; interesse per la cosa (amore per la cosa)
— egoismo (amor di se stessi) — rispetto umano (amore del
prossimo, del nemico) — entusiasmo per la bellezza (amore della
bellezza) — amicizia (amore dell’amico) — maternitaà (amor
materno) — tenerezza (tenero amore) — passione (amore
veemente) — alcoolismo (amor del bere) — impulso sessuale
(«amore»). Se si riflette che cosìà con una sola parola possono essere
indicati tra l’altro: egoismo, amicizia, interesse per la cosa,
sessualitaà , maternitaà , si comprende percheé sarebbe un inizio
disperato legare la ricerca di un’essenza al nome dell’amore, e si ha il
metro per valutare il modo di procedere da guastamestieri di chi,
menato per il naso da una parola, tenta di far derivare tutti i possibili
moti e qualitaà per i quali la parola occasionalmente trova un impiego
da un solo tratto dell’interioritaà , e poi ancora da un solo impulso, e
infine dall’impulso sessuale. Si conoscono le orge del sessualismo
della medicina passata e particolarmente di quella odierna. Ma dopo
i nostri chiarimenti linguistici non ci si lasceraà piuà indurre a
prenderle cosìà sul serio da litigare per la cosa in questione; piuttosto
ci si permetteraà di notare che l’oggetto discusso, cioeà il cosiddetto
amore, esisterebbe non nella realtaà ma solo nel campo d’impiego
iliusoriamente unitario di una parola ! Di qui potrebbe risultare
chiaro contemporanea-mente dove la «scienza», cioeà la mera ricerca
di dati di fatto, rischia di cadere qualora tralasci di accordarsi con la
«metafisica», cioeà con la ricerca dell’essenza!
Poche parole basteranno a dire anche il secondo motivo che
impedirebbe di trattare, invece che dell’«Eros», dell'«amore». Tra
tutti i significati sopra raccolti per la parola amore non ne compare
cioeà nessuno che sia ricavato dalla conoscenza dell’Eros elementare.
Noi vedremo bene che questo partecipa a piuà d’un moto amoroso;
ma nessuno di essi sarebbe appropriato a stare in sua vece. Noi
dunque non possiamo prendere anche solo uno qualsiasi tra i mille e
un significati che la parola amore oggi possiede, se trattiamo
24
dell’Eros originario; e con questo la rinuncia al nome dell’amore
potrebbe essere sufficientemente fondata.
Dopo questo chiarimento del concetto di amore, e prima di
giungere all’Eros elementare, dobbiamo brevemente spiegare che
cosa eà stata, nell’accezione dell’antichitaà , l’esperienza vissuta
battezzata col nome del dio pagano.
25
II. Del concetto di Eros dell'antichità
Noi pensiamo che tra questi versi e quelli di Teocrito visti sopra
ci sia un lungo cammino, durante il quale il concetto di Eros
27
si trasformoà completamente, mentre, di pari passo con un’epoca che
si definiva e limitava in modo sempre piuà umano, a poco a poco
scompariva in nuvole lontane la figura non meno minacciosa che di
buon auspicio di un demone di elementare violenza naturale, fino a
cadere, in ultimo, nell'oblio. Ai tempo di Teocrito erano passati, da
Ibico, due secoli e mezzo: nessun dubbio dunque che quanto piuà
andiamo indietro nel tempo tanto piuà si ricompone quell'immagine
e riemergono i suoi tratti oltreumani. Il fatto che Eros non sia
presente tra gli deà i del molto piuà antico Omero non puoà impedirci di
accostare un’antichitaà che si estende oltre lo stesso Omero per
rintracciare gli impulsi formativi ai quali l’Eros eà debitore della
propria esistenza. Infatti non c’eà piuà nessun dubbio che presso i
greci ionici della costa dell’Asia minore le divinitaà spirituali e
personali ottennero la vittoria su quelle ctonie ed elementari molto
prima che presso i greci della madre patria. Non possiamo sperare di
trovare in Omero i segni piuà eloquenti dell’epoca originaria, ma
dobbiamo cercarli parte in Esiodo e parte nell’ereditaà delle sette e
dei movimenti segreti che si depositoà dalla lotta di tutti gli strati
dell’anima greca con l’alta marea dionisiaca, nell'ottavo e fino al
sesto secolo. In Esiodo, che peroà parla poco dell’Eros, non ci
imbattiamo ancora nell’Eros cosmogonico in senso stretto, ma in un
Eros che assieme a Gea e al Caos prepolare che li precede entrambi
forma, «il piuà bello tra tutti gli deà i immortali», la triade creatrice di
ogni accadere. Conoscono l’Eros del tutto come cosmogono
finalmente le dottrine mitiche dell’orfismo; in quelle tra esse che
sono per noi piuà importanti Cronos, il «tempo che mai invecchia»,
forma dall’etere e dallo smisurato abisso l’argenteo uovo de!mondo.
Da esso balza fuori lo splendente dio Fanes — Eros — Dioniso
(chiamato anche Metis ed Erichepeo), di natura androgina e recante
con seé i germi di tutti gli deà i. Per autoaccoppiamento, come noi
possiamo anticipare, egli genera la piuà antica delle tre schiatte
divine di Grecia: Echidna, Gea e Urano. Similmente lo Zeus di
Ferecide diviene il demiurgo soltanto dopo che si eà trasformato in
Eros. Ancora Luciano parla dell’Eros demiurgico come dello
28
«ierofante dei misti», che ha fatto sprofondare il Caos ed ha
penetrato con «raggiante lume» la notte. Ma che gli orfici, per quanto
in seguito siano deragliati in una dottrina di redenzione e con i
frammenti di questa abbiano concimato il suolo sul quale doveva
prosperare la scuola pitagorica e piuà tardi il platonismo, si siano
collegati a culti antichissimi, eà ormai indubbio grazie ai risultati
della ricerca piuà recente. Mal si accorda con la nostra immagine
dell’amorino alato il sapere che l’Eros originario di Tespie, in Beozia,
in onore del quale i tespii ogni cinque anni tenevano la festa delle
Erobie, era una poderosa pietra greggia: come gli aeroliti della
Grande Madre, di Cibele, o, per gettare ponti attraverso il tempo,
come quella pietra conica proveniente da Emesa con la quale il folle
imperatore Eliogabalo, sacerdote dell’omonimo dio, beffoà gli dei
olimpici di Roma. (Molto meno olimpici di quel che sembrava, peroà ,
se anche nel tempio di Jupiter Feretrius c’era una «pietra focaia
sacra», presso la quale si prestava giuramento e si concludevano
patti solenni). Parimenti ci eà rimasta notizia di templi e feste dello
stesso Eros da Leuttra, in Laconia, e da Pario, nella Troade: ma qui lo
sguardo si volge all’indietro fino alla preistoria pelasgica. Il
passaggio a rituali orfico-bacchici eà chiaramente mediato da un
antico culto di Demetra «che offre doni» a Fila, dove oltre a Zeus
Ctesio domina l’Eros cosmogono come dio misterico e «redentore».
In suo onore risuonavano gli inni orfici dei licomidi, a proposito dei
quali Pausania, che li conobbe ancora, giudica che gli inni omerici
fossero piuà belli per «eleganza delle parole», ma che quelli orfici
stessero piuà in alto per «timor di dio».
Non meno di quanto questo demone di gravidanza planetaria e
di eterna rinascita eà diverso dall’Eros alessandrino dalle fuggevoli
passioni, l’Eros dell'amore omosessuale virile, bencheé piuà tardo, eà
diverso dalla rappresentazione che noi comunemente leghiamo al
concetto, derivante principalmente da Platone, della «pederastia»
greca. Dev’essere stato qualcosa di profondo e serio, anzi terribile,
riguardante un dio, cioà che intreccioà nella fedeltaà la «sacra schiera»
dei tebani fino all’eroica morte per la patria, o che indusse i cretesi a
29
porre proprio i giovinetti piuà belli nella fila piuà avanzata nello
schieramento di battaglia, in sacrificio all’Eros. E non certo per un
tratto femminile il suo culto si mantenne relativamente piuà a lungo
nella dura ed arcaica Sparta.
Da tutto cioà noi ci riteniamo autorizzati a collocare l’Eros
originario nella serie dei grandi dei misterici, dei Sabazio, Attis,
Adone, Dioniso, Bacco, Osiride, Serapide, e cosìà via, che dal canto
loro formano soltanto il seguito, ricco di figure, della Grande Madre:
di Cibele, Astarte, Afrodite, Ma, Anaetis, Berecinzia, Iside, Demetra,
Ecate, Persefone, Urania, Luna, Magna Mater, Venus coelestis, Anna
perennis, Bellona, e cosìà via. Ma mentre questi fiorirono sempre piuà
splendidamente nella mescolanza di dei dell’epoca imperiale
romana, il culto dell'Eros tramontoà , e del demone di una volta, di
antichissimi riti, rimasero due forme: l’Eros umano, che l’arte
celebra nella maniera nota, e del quale i lirici seppero cantare
maliziosamente, e l’Eros come concetto filosofico parziale ad uso
della catarsi delle sette segrete, degenerata a fuga dal mondo e a
dottrina di rinuncia: e il tardo culto di tali sette ruotoà principalmente
attorno alle figure di Baal, Serapide, Zagreo, Mitra, Sol invictus.
Accenneremo ancora al motivo per il quale presumibilmente un tale
destino eà toccato proprio all’Eros cosmogonico, ma prima dobbiamo
dedicare qualche parola alle dottrine dell’uomo che determinoà in
modo decisivo il concetto filosofico di Eros dell’antichitaà : alle
concezioni cioeà di Platone.
Sebbene tutta quanta la filosofia di Platone sia in maggiore o
minor misura compenetrata del pensiero dell’Eros, i due dialoghi
propriamente «erotici» sono il Simposio e il Fedro. Poicheé il
contenuto del Simposio si puoà considerare noto, ci accontentiamo di
citarne alcuni passi ai quali piuà tardi ci collegheremo, in parte per
confermarli, in parte per confutarli.
Nel chiarire l’irresistibile desiderio d’amore col tendere l’una
verso l’altra delle metaà di quegli esseri originari androgini e dalla
figura sferica che gli dei, per impedire che divenissero troppo
potenti, avevano diviso tutti in due pezzi, si dice, di coloro che si
30
amano, che essi, alla domanda di Efesto se egli debba saldarli
insieme, crederebbero di aver udito proprio «quello che da sempre
desideravano, di congiungersi cioeà e di fondersi con l’amato per
formare, di due, un essere solo»4.
Della successiva caratterizzazione di Eros da parte del
Socrate platonico, in parole che notoriamente vengono presentate
come rivelazione di una donna, di Diotima, sìà puoà soltanto ricordare
l’essenziale affermazione per la quale Eros non eà neé un dio neé un
uomo, ma un «demone» che partecipa di entrambi per la sua
discendenza dal padre divino Poros (espediente, pienezza) e dalla
non divina madre Penia (mancanza, povertaà ): per cui si puoà dire che
ha abbastanza perfezione per dover tendere a piuà alta perfezione.
Cosìà egli eà mediatore tra gli dei e gli umani: per opera di demoni «si
svolge tutta l'arte che predice l’avvenire, e tutto il complesso delle
funzioni e delle pratiche sacerdotali: sacrifici iniziazioni
incantamenti..., e la magia. La divinitaà , vedi, non ha diretto rapporto
col genere umano; soltanto per mezzo di demoni ha relazione con
noi; ogni suo colloquio con gli uomini, cosìà nella veglia come nel
sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha
conoscenza sicura di questo eà un uomo in rapporto con potenze
superiori, un uomo demoniaco. Invece chi sa cose d’altro genere...
non eà che un uomo comune».5
Alla base dello stato di eccitazione erotica, che come si eà visto eà
intesa in un senso molto piuà ampio che quello dell’uso linguistico
odierno, viene dunque posto un particolare stato di bisogno che
spinge il bisognoso verso l’oggetto del suo bisogno come verso un
polo che eà complementare e pertanto puoà dare, esso solo, la
pienezza. «Ammesso che l'amore sia veramente cioà che abbiamo
trovato», prosegue Diotima, «... in quale condizione l’impulso e lo
sforzo intenso dell’uomo si potranno chiamare amore?». E, poicheé
Socrate non sa rispondere, ella continua: «Ebbene, te lo diroà io. Si
tratta neé piuà neé meno di un parto nel bello tanto per il corpo, quanto
per l’anima. Tutti gli uomini, vedi, Socrate, e nel corpo e nell’anima,
sono gravi d’un germe profondo. E quando poi a etaà certa
31
pervengono, allora tutto il loro essere agogna di dare col parto vita a
quel germe. E questo parto non puoà avvenir nella bruttezza; nella
bellezza, bensìà»6. «... cosìà che Bellezza fa da Sorte (Moira) e da
Levatrice (llìàtia) nella procreazione».7
Poi, la gioia di generare del corpo viene distinta da quella
dell’anima. Quella si troverebbe nell’animale e, nell’uomo, per la sua
parte ferina; questa, invece, solo nell’uomo per la sua parte psichica.
E dall'ultima scaturirebbero tanto le opere degli artisti e dei poeti e
le azioni degli eroi (per assicurarsi un’«eterna fama» nel ricordo dei
posteri) quanto i veri e propri rapporti amorosi — s’intende, tra
uomo e giovinetto —, che hanno lo scopo di generare altissima
sapienza nell’anima dell’amato, e di riottenere insieme una
beatitudine celeste. Come ora in tal guisa l’amante infine raggiunga
lo scopo dell'Eros, la teleteé , possiamo vederlo meglio volgendoci alla
platonica «dottrina delle idee» secondo il Fedro, piuà ricco di risultati.
L’opinione di Platone eà questa: se uno ama un uomo bello od
eccellente, non ama l’individuo caduco e sicuramente affetto da
alcune manchevolezze, bensìà ama in lui, o meglio per suggerimento
suo, la bellezza, l’eccellenza, la bontaà , la giustizia e quante altre virtuà
possono apparire amabili ed eccitatrici d’amore. L’uomo singolo non
eà mai la bellezza, la bontaà , eccellenza, ma soltanto le rappresenta
come altri ancora oltre a lui. Molti sìàngoli partecipano dell’unica ed
identica bellezza, bontaà , eccellenza, e questa loro partecipazione alle
sovrapersonali, non caduche ed immacolate «idee» della bellezza,
eccellenza, bontaà li rende amabili. Ma come giungiamo a sapere di
tali «idee», se ogni singola cosa percepibile non eà mai identica a
un’idea? Come giungiamo a sapere di qualcosa che non scorgiamo
mai in seé e per seé , in nessun modo? La risposta platonica suona:
grazie al ricordo (= anamnesis). In una esistenza prenatale
«migliore», «piuà elevata», quando la nostra anima, anzi, la sua parte
immortale, non si era ancora mescolata con la corporeitaà , eravamo
in grado di intuire le «idee», ossia le immagini originarie; poi peroà —
evidentemente in conseguenza di una specie di metafisico peccato
originale — l’anima immortale s’inabissoà nella corporeitaà , e di qui
32
derivoà l’oblio di tutto il suo stato anteriore alla nascita, e di
conseguenza anche delle «idee» allora intuite. Ora, l’Eros consiste in
questo, che, alla vista di certe persone che sono dotate piuà
dell’usuale della partecipazione a quelle «idee», in noi di nuovo
balena il ricordo di cioà che prima abbiamo intuito, cosìà che —
scoprendo la bellezza, la bontaà , l’eccellenza, invisibili per i sensi,
nella loro caduca copia — siamo presi da amore per questa. «Percheé
bisogna che l’uomo comprenda cioà che si chiama idea, passando da
una molteplicitaà di sensazioni ad una unitaà organizzata dal
ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle veritaà che
una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito
d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora
chiamiamo esistenti, e levava il capo verso cioà che veramente eà ».
«Cosìà solo la bellezza sortìà questo privilegio di essere la piuà
percepibile dai sensi e la piuà amabile di tutte». Ma l’iniziato, «quando
scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea
che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce, e lo colgono di
quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la
venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto
impazzito, sacrificherebbe al suo amore come all’immagine di un
dio».8
Segue la battaglia tra il «cattivo ed il buon destriero» dell’anima,
ossia tra le platoniche invenzioni dell’amore «terreno e celeste» (nel
Simposio come Afrodite Pandemia e Afrodite Urania), o infine, senza
circonlocuzioni, tra sensuale inclinazione ed un entusiasmo psichico
astratto. Nella misura in cui l’«amore celeste» vince su quello
«terreno», il desiderio d’amore si dilegua ed al suo posto arriva il
desiderio di sviluppare fino alla massima fioritura il contenuto
spirituale dell’amato e di renderlo in tal modo simile al dio che il
lampo di ricordo dell’Eros fece riconoscere germogliante in lui. Ed
invero ogni amante — per l’affinitaà elettiva del simile — forma
l’amato secondo il dio che lo guida. Cosìà quelli che erano al seguito di
Zeus anelano ad amare chi abbia un’anima conforme alle virtuà di
Zeus: scrutano se abbia sortito da natura amore alla saggezza e
33
carattere per comandare; quanti invece furono al seguito di Era
anelano ad un'anima regale, e cosìà via.
Ed ora, «ecco che attribuendo il merito di cioà al loro amato lo
amano ancor piuà , e sebbene l’abbiano attinto da Zeus come
attingono le Baccanti, lo riversano nell’anima del diletto e
la formano cosìà per quanto possono piuà simile al proprio dio». 9
Ma attraverso un siffatto amore ritornano a poco a poco
all'anima quelle «ali» che essa aveva perso nella caduta dalla zona
delle immagini originarie al mondo delle caduche copie, ed essa giaà
si avvicina al confine presso il quale eà in grado dìà contemplare,
invece di cioà che sempre muta, che «mai si comporta nella stessa
maniera», «quella essenza priva di colore e di figura e di materia, la
quale ha in veritaà un essere».(!) Dopo la morte certo gli amanti
giungono al «luogo iperuranio» che «nessun poeta ha ancora cantato
degnamente». Percheé essi, «alati e lievi, delle tre gare veramente
olimpiche ne hanno vinta una, di cui neé la saggezza umana neé il
delirio divino possono recare maggior bene all’uomo». 10
Abbiamo qui il germe filosofico della narrazione di «Amore e
Psiche», e vediamo cioà che vi era di piuà importante per l’anima degli
antichi, l’Eros, posto dalle finissime arti seduttrici di una dialettica
mezzo poetica al servizio di quella metafisica di fuga dal mondo che
con la vana promessa di beatitudini nell’al di laà nasconde la propria
essenza di ostilitaà ai sensi e maschera il proprio scopo, che eà odio e
guerra contro i piaceri.
Dovremo ancora parlare del senso delle cosiddette idee, e per
ora scopriamo lo scopo di negazione della vita di questo pensiero
soltanto in relazione all’esperienza vissuta dell’amore, aiutandoci
con una riflessione tanto ovvia quanto dìà facile comprensione.
Ci chiediamo cioeà : eà proprio vero che quando un essere umano
ne ama un altro ama in ques’ultimo/a bellezza, bontaà , eccellenza?
Ognuno sa che proprio un amore forte e profondo cerca meno di
ogni altro i motivi della propria presenza; ognuno sa anche che
l’amante puoà scoprire nell’amato alcuni difetti e debolezze, ma che
non desidera affatto allontanarli da lui, bensìà lo ama assieme ai suoi
34
difetti, e che, addirittura spaventato, desidererebbe di riavere
determinate mancanze, se esse sparissero improvvisamente dalla
sua immagine. «Che tu prima mi ispirassi spavento, anche questo
appartiene come un’immagine oscura alla poesia del mio amore e
della mia vita» (parole di Accorombona in Tieck). Nondimeno
resterebbe possibile che le vissute bontaà , bellezza, eccellenza
abbiano formato il segreto punto d’origine dell’amore. Ma per ogni
pregio e per ogni difetto che noi siamo in grado di nominare l’essere
amato corrisponde indubbiamente a tutti gli altri esseri a proposito
dei quali si possono affermare uguali pregi ed uguali difetti. C’eà forse
qualcuno che ammetterebbe, dopo essersi esaminato seriamente, dìà
aver amato un altro in considerazione dei tratti che questi aveva in
comune con altri uomini? O non dovrebbe piuttosto notare che
quello, in quanto era un amato, si distingueva da ogni essere anche
solo immaginabile? Ma rievochiamo una delle grandi passioni che la
storia e la leggenda ci sanno raccontare: per Crimilde c’eà solo un
Sigfrido, per Tristano solo una Isotta, per Ofelia solo un Amleto, per
Eloisa solo un Abelardo, per Dante solo una Beatrice, per Giulietta
solo un Romeo, per Holderlin solo una Diotima. Se quest’unico
muore o viene strappato all’amante, all’amante muore e viene
strappata ogni cosa. Il pensare a quante si voglia altre donne o
uomini di pari eccellenza non puoà sostituire minimamente per
l’amante quell’unica donna o quell’unico uomo al quale,
imprevedibile com’eà , l’amore lo ha legato. Come abbiamo giaà visto,
certamente l’antichitaà non conosce passioni «eterne», ma solo di
durata limitata. E poi, perfino una passione «eterna» puoà spegnersi,
ed una seconda, una terza persona possono passare sotto il raggio
del lume dell’Eros; ma quell’unica che vi sta nell’attimo eà resa
proprio per questo incomparabile, ed eà rapita a tutto il resto del
mondo. Questo almeno vale, senza differenze, per l’amore degli
antichi e la passione dei medievali. Ed essa non si sottrae ad ogni
paragone percheé , per esempio, l’amante vaneggi che sia piuà bella dìà
ogni altro essere, bensìà percheé eà questa e nessun’altra. «Nulla», scrive
Eloisa ad Abelardo, «ho mai cercato in te se non te stesso, bramando
35
soltanto te e non cioà che eà tuo». Ma allora mente chi sostiene che se
un essere diviene amabile per un altro cioà dipende dalla sua
(universale) bellezza ed eccellenza, in quanto chi afferma questo ha
scambiato il vitale stato dell’Eros con quello spirituale della
conoscenza! EÈ peroà chiaro quale segreto scopo questa falsificazione
puoà perseguire. Adornando con la parola «Eros» un interesse
dell'intelletto e tollerando soltanto un Eros tale che il suo oggetto
abbia qualche «virtuà », essa allontana ed annienta l’Eros reale.
Proprio come la cristiana frase dell’amore eà servita a sostituire al
genuino amore, che sceglie e divinizza, l’esigenza uguagliatrice
dell’universale rispetto (del prossimo, si dice, ma s’intende dello
straccione!), allo stesso modo l’Eros platonico (secondo Nietzsche,
«cristianesimo preesistente») tenta di sostituire all’eccitazione
psichica dello stato erotico una affezione della ragione, per la quale
noi nei fatti dovremmo amare, sulla base di un pensiero
ammaestrato, degli spettri concettuali! EÈ appena il caso di
aggiungere che cosìà eà dimostrata la totale inconsistenza della
«contemplazione» nella quale questo Eros dovrebbe trovare
compimento.
36
III. L'Eros elementare
38
essi di inclinazioni, siano di impulsi, siano di passioni, non ce n’eà
nessuno il cui significato rimandi allo stato di voluttaà : e la parola
«voluttaà » nuovamente sarebbe equivoca, percheé senza dubbio
indurrebbe a pensare ad una fuggevole eccitazione, e
prevalentemente del corpo. Parimenti vediamo senz’altro che per la
concezione di Platone, nonostante la distinzione tra un amore
«terreno» ed uno «celeste», l’origine eà stata il sesso e non l’Eros. Il
suo Eros eà «demoniaco» in quanto significa uno stato a metaà tra
mancanza e pienezza che, come vedremo ancora, da ultimo non eà
altro che la situazione dìà chi aspira a qualcosa. E certo dev’essere un
aspirare cioà per cui la propria relazione amorosa serve solo come un
mezzo per raggiungere una perfezione spirituale a proposito della
quale ci viene assicurato che per l’uomo non c’eà maggior beatitudine
del suo possesso. Soltanto, comunque possa andare con la
beatitudine spirituale, una cosa eà certa: essa ha il carattere
dell’appagamento in rapporto a una precedente aspirazione, proprio
come la voluttaà sensuale dell’atto dell’accoppiamento appaga il
precedente impulso all’unione. Ed ora noi sosteniamo che nessuna
beatitudine, sia sensuale, sia spirituale, ha, in quanto consista
essenzialmente in un appagamento di un impulso o di un desiderio,
il carattere di genuina teleteé , cioeà del compimento e della pienezza
perfetti. Cosìà tocchiamo una insufficienza di tutte le ideologie, che
piuà ancora di quella che abbiamo giaà trattato ci svela che con ogni
tendenza alla spiritualizzazione l’uomo fugge il mondo dei sensi, che
gli eà diventato insipido o amaro. Nessuno lo seppe meglio di
Schopenhauer, che pure sbaglia, come Platone, nella sua
interpretazione.
Con parole eloquenti egli mostra a quali conseguenze porti il
porre la pienezza della vita nell 'appagamento di cioà che per lui eà il
senso di cioà che accade, la generalizzata «volontaà ». Egli mostra con
motivi inconfutabili che ogni appagamento della volontaà eà posto solo
nel fugace attimo del passaggio dallo stato del non possedere ancora
a quello del possedere, al quale immancabilmente dovrebbe
succederne uno di noia se un nuovo bisogno non portasse nuove
39
aspirazioni della volontaà . «Tutta la vita umana», egli dice, «scorre tra
il desiderio e la soddisfazione. Il desiderio eà per sua natura dolore: la
soddisfazione si traduce presto in sazietaà . Il fine, in sostanza, eà
illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in
forma nuova, e con esso, il bisogno; altrimenti ecco la tristezza, il
vuoto, la noia, nemici ancor piuà terrìàbili del bisogno.» 1 E: «La
soddisfazione, o, come si dice ordinariamente (!), la felicitaà , eà per
natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo... Il desiderio,
la privazione, sono infatti condizioni preliminari dìà ogni gioia».2 Si
vede come egli conosca solo la pseudofelicitaà dell’eliminazione di
una privazione, dell'accantonamento di un impedimento o della
rottura di un ostacolo: la felicitaà cioeà di quel moto pendolare tra non
avere ed avere che eà il contenuto di ogni aspirazione e che tra l’altro
accompagna l’avvicendarsi di tensione e liberazione sessuale. Ma
egli ha anche visto che tutto questo, in quanto intimamente privo di
una fine, non sfocia affatto in un vero compimento. Ed allora egli
fugge nel pensiero di una «autonegazione della volontaà », come per
lo stesso motivo Platone era fuggito nel luogo «iperuranio» del suo
mondo, esangue e percioà anche privo di dolore, di concetti reificati. E
di fatto tale aspetto avrebbe la vita, se non fosse altro che tendere,
aspirare, desiderare, necessitaà di chi eà sospinto e pena del volere, e
non fosse piuttosto l’inesauribile ricchezza dei colori, dei suoni, degli
odori nei quali la trasforma il prodigio dell’Eros. Nell’ebbrezza che
tale prodigio reca a compimento, l’anima del mondo, configuratrice
di essenze, libera e permea il portatore dell’anima. Cosìà lo esprime
Hafis, il sapiente:
40
partecipa dello stato dell’ebbrezza erotica, e che la voluttaà sessuale
in tanto manca della perfezione dell’Eros, in quanto essa eà
meramente appagamento di un impulso o perfino solo di un
desiderio umano.
Ma di qui risulta una cosìà straordinaria diversitaà tra le occasioni
delle due ebbrezze che non possiamo piuà attendere di far luce piuà a
fondo sull’essenza dell’Eros confrontandolo soltanto con l’impulso
sessuale. Mentre cioeà la voluttaà dell’appagamento dell’impulso
sessuale compare con l’unione sessuale di due esseri,
presumibilmente non si possono delimitare le occasioni che
permettono l’ingresso del portatore d’anima nel cerchio di fuoco
dell’ebbrezza erotica. Questa puoà giungere al compimento al solo
sguardo di un essere amato, e questo puoà essere o no del sesso
opposto; puoà essere un animale, una pianta; e non di meno puoà
trovare il compimento nel fiutare un profumo, nel gustare un vino,
nell'udire un suono, nel toccare un ramo gocciolante. Puoà destarsi
nella veglia come nel sogno. Festeggia le sue orge al soffio del vento
tempestoso di primavera, alla vista del firmamento disseminato di
stelle, nel brivido della grandine, sulla fiammeggiante vetta del
monte, nella furia della risacca, tra i lampi del «primo amore», ma
non meno nell’abbraccio del destino, che stritola il suo portatore.
EÈ contemporaneamente voluttaà del sorgere e del tramontare ;
voluttaà per la quale il morire e la morte divengono una
dolorosamente beata trasformazione. Nell’attimo d’eternitaà della sua
perfezione c'è delirio scatenato o cristallino rapimento. E con questo
abbiamo giaà indicato cioà che dovrebbe essere detto in secondo
luogo. Lo stato dell’ebbrezza erotica eà cosìà poco simile a quello di un
qualsivoglia bisogno che dobbiamo contrassegnare cioà che in esso eà
impeto come impeto dello straripare, della raggiante effusione, dello
smisurato donarsi. Non eà bisogno e mancanza, ma esuberanza della
pienezza piuà sorgiva, fiamma che sparge oro e gravidanza pregna di
mondi. Per questo cioà su cui cade il suo raggio arde di bellezza
ineffabile, e dove esso poggia il piede sbocciano cespugli di fiorìà, e il
suo abbraccio libera da uomini e cose il dio incarcerato. Questa eà
41
l’indole piuà generale di quello stato che nel linguaggio simbolico
dello spirito veggente degli antichi si chiama l' Eros cosmogonos.
Come la brama dell’impulso sessuale gli si avvicinoà ? Percheé , a quel
che sembra, ne eà rimasto un resto, afferrabile anche da parte degli
uomini, soltanto nell’atto dell’accoppiamento? E in che rapporto sta
con esso l’amore genuino, profondo, «che supera la morte»? Poicheé
potrebbe essere piuà facile trovare la risposta a tali domande
partendo dall’essenza dell’Eros piuttosto che dalle sue forme
fenomeniche, la rimandiamo e preferiamo dotare di maggior
ricchezza di linee lo schizzo che in un primo momento risultoà dal
confrontarlo con i tratti principali del sesso. Cioà che si puoà
riconoscere da quei pochi tratti sembra in certa misura simile
all'immagine dello stato dell’ebbrezza dionisiaca che Nietzsche
traccioà , con linee piuà audaci, nella sua memorabile Nascita della
tragedia.
Egli riprende perfino il giovanile inno di Schiller alla gioia per
renderci piuà chiaro come l’onda dell’entusiasmo bacchico congiunga
cioà che essa scatena e libera, proprio col liberarlo. E senza dubbio si
potrebbe chiamare lo stato erotico anche uno stato dionisiaco, anche
se eà vero che non si potrebbe con ugual diritto chiamare erotico lo
stato dionisiaco. Certo entrambi concordano tanto nella disposizione
estatica dell’anima quanto in quello straripare che (con una
locuzione di Nietzsche che deriva da Schopenhauer) spezza la
barriera dell’«individuazione» e rituffa la vita del singolo nella vita
degli elementi.
Non c’eà quasi piuà bisogno ora di spiegare da che cosa sia stata
determinata la scelta di parole come «Eros cosmico», «Eros
cosmogonico», «Eros elementare». L’Eros si chiama elementare o
cosmico in quanto il singolo essere afferrato dall’Eros si sente come
attraversato da pulsazioni e inondato quasi da una corrente elettrica
che, simile per essenza al magnetismo, incurante dei loro limiti
muove due anime lontanissime a ricercarsi reciprocamente in uno
slancio che le unisce; e che trasforma il mezzo stesso di ogni
accadere, lo spazio ed il tempo che separano i corpi,
42
nell’onnipresente elemento di un oceano che sorregge e circonda
con le sue acque: e cosìà congiunge, senza danno per la loro non
sminuibile diversitaà , i poli del mondo. E si chiama cosmogonico
percheé eà uno stato di pienezza in espansione per il quale l’interno,
generando contemporaneamente se stesso, diviene all’istante un
esterno, mondo e realtaà che appare. Molto diverso dal mero
sentimento, esso eà l’incessante rivelarsi di cioà che incessantemente
sgorga da un’anima nascostissima. Se noi completassimo la veritaà
hegeliana: «niente eà essenziale, che non appaia», incuranti del
pensiero di chi l’ha detto, con: «e solo in quanto accesa dall’Eros,
l’essenza passa dagli informi inferi allo splendore dell’apparire»,
avremmo giaà con questo fatto riconoscere, nell’ebbrezza elementare,
cioà per cui essa, al di laà di ogni mero stato dell’anima che in essa
vibra, eà garanzia della sua immediata partecipazione all’accadere
creativo. Ma almeno cosìà potremmo aver scoperto fino a qual punto
soltanto essa conceda queiresuberante felicitaà che, «come il sole alla
sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza
inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si
sente assolutamente ricca, quando anche il piuà povero pescatore
rema con un remo d’oro»3.
In una corona di sonetti, la piuà bella forse che sia toccata alla
lingua tedesca, Eichendorff fa derivare l’irresistibile potenza del
canto originario dall’Eros creatore del mondo, e lo rivela in tale
occasione con parole che, come se fossero esse stesse scaturite dalla
sua fiamma, non sono in nessun modo spiegabili, e che, con il loro
canto, possono del pari confermare l’argomento appena toccato:
43
Bald Bahn sich brechend durch die Kluft zur Helle,
Bald kühle rauschend dann in Nacht versunken.
44
comportamento che altrimenti le eà abituale, e cosìà possiamo farci
guidare dalle seguenti domande:
45
IV. Dello stato dell'estasi
47
nuovamente la vita da questo giogo, tanto per quanto riguarda
l’anima quanto anche per quanto riguarda il corpo, eà la propensione
nascosta di tutti i mistici e i dediti ai narcotici, che lo sappiano o lo
disconoscano: e tale propensione trova compimento nell’estasi. Per
dimostrarlo, non ci basterebbero cento pagine. Basti qui uno
sguardo alle prove piuà importanti.
Che solo l’uomo possieda una coscienza dell’io, necessariamente,
a causa della sua partecipazione allo spirito, sempre uguale, eà stato
sostenuto da parecchi tra i piuà recenti pensatori di rango: valga
percioà per dimostrato.2 Se ora l’estasi eà una despiritualizzazione
dell’anima, deve anche essere una privazione del suo seé . Tra l’altro,
ce lo conferma il linguaggio, ed in particolare la lingua tedesca.
Tradotta secondo il suo senso, estasi non significa «essere portati
via», ma «esser fuori di seé » (= essere fuori dell’io). Colui che eà
ubriaco o ebbro, indifferentemente se in stato di entusiasmo o in
conseguenza di narcotici, non eà piuà «presso di sé», eà «uscito fuor di
seé », corre il pericolo di «dimenticare se stesso», e, sobrio, «ritorna in
seé ».
Nondimeno a buon diritto si scelgono proprio le stesse locuzioni
per indicare la strapotente efficacia di un impulso. Infatti, nel fatto
che in un attimo lo spirito viene spodestato, l'eccitazione meramente
impulsiva concorda pienamente con quella estatica. Anche per un
accesso di collera uno puoà «dimenticare se stesso», «uscire fuori di
seé », e, dopo l’azione impulsiva di un omicidio commesso al colmo del
furore, «ritornare in seé ». Soltanto, se nell’estasi, come ancora
dimostreremo, il seé viene provvisoriamente abbandonato,
nell’attimo dell’abituale eccitazione esso sta soltanto sotto il
dominio di un impulso somatico; e se pure l’impulso abbatte la
barriera dell’arbitrio, non abbatte peroà ugualmente la barriera
dell’essere particolare. Nell’impulso eà la preponderanza dell’essere
singolo a togliere le forze allo spirito; nell'estasi, anche se mediata
da quella, eà la violenza vitale del mondo. L’impulso annuncia la vita
animale, l’estasi rivela la vita elementare. Quello si mostra attraverso
48
la veemenza dell’eccitazione che ci afferra, questa attraverso la sua
profondità.
Tra le lingue indogermaniche difficilmente ce n’eà una che non
descriva profonditaà e potenza dei sentimenti come una cosa che
capita, che viene subita. «Pathos» (πάά θος), «passione» (passio),
«Leidenschaft»: tre volte «sofferenza» per il piuà alto grado del
sentimento che sboccia dal profondo dell’anima! Se solo ci si fosse
chiesti: che cos’eà che soffre e che cos’eà cioà che fa soffrire, non si
sarebbe potuto sbagliare risposta; passivo, sofferente eà il nostro io,
ed esso cade in potere della vittoriosa violenza della vita. Ogni volta
che vogliamo o pensiamo, noi diciamo: io penso, io voglio, io agisco, e
tanto piuà decisamente mettiamo in rilievo l’io, quanto piuà
fortemente appunto noi pensiamo o vogliamo. Quando invece
abbiamo vissuto e sentito qualcosa di grande, ci sembra sbiadito e
fiacco dire: io sentii cioà che segue; diciamo allora piuttosto: quella
cosa mi ha afferrato, scosso, preso, travolto, trascinato. Che cosa ci
trascina? la vita! e che cosa viene trascinato? l’io! A cioà si aggiunge la
lunga serie di testimonianze linguistiche della diversitaà ed estraneitaà
all’io di cioà che in tali casi prende possesso di chi si eà completamente
abbandonato. Per i greci, il miste era «entheos», cioeà colmo del dio o
del demone. Di qui ci sono rimasti i concetti dell’invasamento e
dell’entusiasmo. Nell’ultima parola Begeisterung non c'eà lo spirito
(Geist) grazie al quale gli uomini esprimono giudizi, bensìà uno
«spirito», un essere extraumano di diversa specie, come anche nella
locuzione «apparizione di spiriti», anche se in quest’ultima si tratta
di uno spettro. Inoltre: cioà che il miste riporta dall’estasi allo stato di
veglia eà per lui «ispirazione», «illuminazione», dunque qualcosa che
non eà generato dall’io, ma che anzi s’impadronisce dell’io come
venendo dall’esterno. E alle prove linguistiche si affiancano infine,
completandole, molte espressioni che provengono dalla bocca di
genuini estatici, e che illustrano la stessa cosa con suadente
originarietaà . Gialal ad-Din Rumi, fondatore dell’ordine Mawlawi,
dice:
49
La morte pone fine agli affanni della vita:
eppure la vita rabbrividisce di fronte alla morte...
Così rabbrividisce un cuore, di fronte all’amore,
quasi fosse minacciato di morte,
infatti, dove si desta l’amore,
muore l'io, l’oscuro despota.
50
Il «saggio» frattanto, come Goethe magnificandolo ripete, brama
una «morte tra le fiamme», poicheé sa che soltanto la mortificazione
dell’io gli apriraà la porta della vita. Ma la perdita del seé viene vissuta
in due modi, e percioà con le epoche e con gli individui cambiano le
celebrazioni preparatorie, a seconda che l'io nell'ebbrezza si dilaceri
o si sciolga. A fianco dell’estasi dovuta ad interna lacerazione c’è
l’estasi dovuta ad interno scioglimento. Se di quella eà testimone la
furia delle menadi (e il vino in quanto spezza gli affanni), questa ci eà
confermata dalla circostanza che tutti gli dei dell’ebbrezza, ed
innanzi a tutti Dioniso, Bacco ed Eros, hanno il soprannome di
«Lisios», «Lisimeles», dunque di «scioglitore», di «scioglitor di
membra». E come la lacerazione ricorda ia morte del corpo, cosìà lo
scioglimento ricorda il dolce sonno «che scioglie le membra». Ma se
quindi sonno e morte possono liberare l’anima dal suo antagonista
piuà terribile, l’io, si comprende percheé proprio l’anima possa aver
parte all’antichissima propensione dell’umanitaà verso i «veleni»
narcotici. Forse fino ad ora non c’eà mai stato un genuino estatico che
non sia stato anche all’occasione dedito ai narcotici, e non a caso fino
nelle epoche piuà remote alla festa della vendemmia si
accompagnarono usi orgiastici. Ma se il demone delle consacrazioni
bacchiche eà contemporaneamente anche un dio del vino, e perfino
ancora oggi van d’accordo Bacco e Venere! Nessuno l’ha annunciato
piuà radiosamente che un altro grande poeta, l’immortale Hafis:
51
l’«ubriacone» eà un fenomeno di degenerazione: ma non percheé beve,
bensìà percheé in lui eà diventata ottusa abitudine cioà che per chi eà vivo
eà una festa. E forse l’uomo degenera soltanto nel godimento dei
narcotici? Forse l’attivitaà senza tregua, sotto la costrizione del
bisogno, che oggi rende innumerevoli uomini servi della macchina,
non eà un vizio di fronte alla cui snervante terribilitaà il vizio del bere
conserva ancora un bagliore festoso?
Finché si è sobri,
piace il male;
ma appena si beve,
si conosce ciò che è giusto.
52
Oggi, dobbiamo accontentarci dell’ispezione interna.
Almeno della forma della perdita del seé per scioglimento
parecchie locuzioni dicono che essa trasporta in stati di sogno. Dal
ricordo tutti sappiamo che vivevamo come in sogno, nell’«oblio di
seé » di una straordinaria felicitaà , o quando fummo completamente
«perduti» alla vista del sole che tramontava, del tutto «assorti»
nell’allettante canto di un flauto, profondamente «immersi»
nell’immagine di lontananza di giorni passati della giovinezza. Se
nella lacerazione si annuncia che l’anima svincolata eà pronta
all’«uscita», all’«esaltazione», al «vagare», l'interno scioglimento
prepara l’incanto del suo «esser rapita». Ora, sebbene la
perfetta voluttaà dell’Eros possa essere legata tanto alla perdita del seé
per lacerazione quanto a quella per scioglimento, c’eà peroà tra
quest’ultima e la voluttaà dell’Eros una sensibile affinitaà elettiva, per
la quale noi non possiamo descrivere meglio la dolcezza del brivido
erotico che accentuando il dissolvente traboccare, l’abbandonarsi
dell’anima. Ma se teniamo fermo a questo come contrassegno della
voluttaà erotica, senza difficoltaà riconosceremo la sua partecipazione
a tutti gli attimi di «gioia» nel placare brame del corpo (si tratti di
mangiare e bere, o dell’amplesso), come d’altra parte ad ogni specie
di vera «felicitaà », di «beatitudine», «estasi», «incantamento», e
ancora perfino agli elevati sentimenti, giaà spiritualizzati, del
«rapimento estatico» e della «trasfigurazione».
Nelle dottrine degli orfici e di Esiodo sull’origine degli dei, il Caos
precede la nascita dell’Eros. Questo tratto del mito si poggia su
un’esperienza vissuta estatica. Nel passaggio di ogni estasi dalla
perdita del seé , per lacerazione o scioglimento, al compimento, che
non abbiamo ancora considerato, prorompe, dalle profonditaà
dell’anima, un caos di tutti i sentimenti. Cioà che nel mero sentimento
diverge fino ad opposizioni estreme, come piacere e disgusto, gioia e
dolore, attesa e ricordo, speranza e timore, amore e collera, trionfo e
angoscia, dolcezza e amarezza, si trova qui annodato in un
indivisibile intero. «Dalla gioia piuà alta risuona il grido dell’orrore».
(Nietzsche). Chi non ha mai vissuto questo, si basi su «sentimenti
53
misti», che guidano dall’una e dall’altra parte, come la dolcezza
piena di nostalgia della tristezza, l’oppressione che pure nel brivido
dell’elevatezza daà felicitaà , il doloroso ardere di ebbre malinconie.
Oppure pensi alla strofa rivelatrice di Goethe:
54
superiore dell’ebbrezza caotica, dovrebbe quindi lasciar riconoscere
tre forme particolari. Sono passati decenni da quando siamo riusciti
ad indicare queste tre forme fondamentali, cioeà la forma eroica,
quella erotica e quella magica. Che cosa significhi la forma erotica, il
termine medio della triade, lo vedremo sotto. Nella forma di
ebbrezza magica prevale la doppia, ma essenzialmente identica,
relazione alla lontananza del firmamento notturno e al regno dei
morti. I suoi culmini storici sono nel magismo dei Medi e nel culto
tombale dell’antico Egitto, e la sua maggiore ereditaà eà forse
l'astrologia caldea. L'ebbrezza eroico-tragica, basata
prevalentemente sulla perdita dei seé per lacerazione, ha dato ad
un’intera epoca dell’umanitaà tardo-pelasgica il nome di epoca eroica,
e ha generato presso i quattro popoli eroici a noi noti la forma
poetica dell’epos. Il suo segno distintivo piuà appariscente sta in
questo, che la morte dell’io passa tutte le volte per la morte in
battaglia del corpo; la sua apparizione piuà grandiosa tra i popoli
eroici eà offerta dai Germani, presso i quali soltanto essa assorbìà
totalmente in seé le altre due forme di ebbrezza. Il guerriero
predestinato a far parte degli Einherier vive la morte in battaglia
come bacio della Valchiria, e dall’oscuritaà ebbra di tormenti del
trapasso si desta nel regno dei morti del Walhalla.
Tornando all’ebbrezza erotica, tenteremo di mostrare la
particolare polaritaà per la quale essa si stacca tanto dal caos psichico
che precede la sua nascita quanto dalle ebbrezze eroica e magica
(che nascono al suo stesso tempo). Le parole da noi
intenzionalmente preferite: ebbrezza, ubriachezza, voluttaà ,
beatitudine, rapimento, non permettono in nessun modo di
riconoscere, come si puoà notare, se gli stati dei quali si parla possano
unire parecchi esseri. E qui bisogna ripetere: non c’eà soltanto
l’ebbrezza solitaria, l’ubriachezza solitaria, la beatitudine solitaria,
bensìà l’estasi eà originariamente sempre perfetta solitudine, poicheé eà
perfetta pienezza, che, liberata da ogni dimidietaà (Hälftenhaftigkeit),
porta in sé stessa il polo completante. Anche il gamos dell’ebbrezza
erotica eà gamos interno, o autoaccoppiamento di un essere ampliato
55
fino a divenire mondo, che percioà generale concepisce. Nel
linguaggio del mito il gamos unisce l’uovo fecondato assieme al dio
che ne scaturisce, ovvero: amplesso, gravidanza e nascita. In seé e per
seé quindi ogni estasi porta non tanto tratti patici quanto piuttosto
tratti idiopatici. E non cambia niente che il portatore dell’ebbrezza
spesso trovi il compimento soltanto in occasione di chiassose feste
popolari o di feste notturne.
Le baccanti, che ci servono egregiamente da modello, erano delle
esaltate idiopatiche. EÈ vero che cominciavano l’evocazione del dio a
schiere: ma tanto piuà il demone le trascinava, tanto piuà esse si
disperdevano, «si davano alla dissolutezza», fincheé nella notte
taluna, nella impervia selvatichezza dei monti, crollava, solo ora
disciolta nella corrente «ieromanica». E lo stesso vale dei furiosi
ieroduli della sirìàaca. Ma, della frigia Cibele, della fenicia Astoret,
delle babilonesi Beltis e Militta, della caria Ecate, della indiana Kali,
dell’egiziana Pachet; inoltre delle apparizioni analoghe dell’ambito
culturale islamico, come delle danze vorticose dei dervisci o delle
sanguinose feste di flagellanti con le quali le confraternite degli
Aissauya e dei Rifaya onorano la memoria dei loro santi; ed infine di
tutte le celebrazioni estatiche che ancora oggi talvolta possiamo
osservare presso alcuni «popoli primitivi», ed in particolare presso i
Lapponi, i Samoiedi, i Tungusi, i Bureti, i Coccini, gli indiani, e
numerose stirpi malesi. Ma anche i genuini poeti — tutti quanti
sbandati e attardati «discepoli del dio Dioniso» —, sono, in quanto
poeti, sempre idiopatici, anche se alcuni di essi possono aver
bisogno, per trarne «ispirazione», perfino, tra l’altro, di essere
innamorati. Non eà l’essere innamorati a poetare, come si eà
erroneamente pensato, ma tutt’al piuà , in occasione
dell'innamoramento, ed in quanto l’innamorato sia un poeta, eà l’Eros
che in lui dimora come ospite! I due poeti forse piuà fortemente
dotati in senso dionisiaco nel diciannovesimo secolo, Lenau e
Conrad Ferdinand 3, condussero una vita del tutto chiusa verso
l'esterno, questo sepolto tra i libri e quello fra tabacco e violino; e
56
Keller, meno profondo ma artisticamente ancor superiore, non fu da
meno.
Dobbiamo quindi distinguere con precisione il contenuto
dell’ebbrezza e le condizioni del suo presentarsi. Anche se queste
possono essere nell’unione di una folla, sia per una festa, sia per gli
usi di un culto, l’ebbrezza puoà nondimeno appartenere alla specie di
quelle proprie del singolo. Ogni ebbrezza ha cioeà , per la sua natura
di straripante onda vitale, il dono di propagarsi a chi eà presente e
spettatore. In una folla eccitata orgiasticamente eà diffuso un
contagio psichico che minaccia di pervadere anche l’osservatore piuà
freddo, ed infine di sopraffarlo. Chi eà in tal modo afferrato
certamente sta in un mezzo comune con ognuno degli altri; ma ciò
che lo sconvolge, lo sgretola, lo rapisce, non per questo egli lo divide
con i disgregamenti degli altri. «Soltanto da soli si eà entusiasti». Ma
se anche dobbiamo allora riconoscere, nell’ebbrezza dell’anima, uno
stato idiopatico, difficilmente troveremmo la via che conduce
proprio alla particolaritaà dell’Eros se rimanessimo a questo grado
del suo operare. Dobbiamo salire un ultimo grado dell’ebbrezza, per
spiegare che cosa trasformi l’«ebbrezza in generale» nell’Eros che si
compie.
Il fiore non eà soltanto la sommitaà di cioà di cui la radice eà la
punta piuà bassa: anche la radice infatti giunge su fino al fiore, ed il
fiore giuà fino alla radice; in quello c’eà , solo trasformata, la radice, e
non meno c’eà in questa — ma non dispiegato — il fiore. Ma se
dobbiamo farne esperienza, allora la radice deve aver liberato il
ceppo, e il fiore deve essersi dischiuso sulla cima. La stessa cosa
intendiamo, quando diciamo che il caos dell’anima libera da seé il
triplice ceppo delle ebbrezze cosmiche, e che soltanto il ceppo
mediano porta peroà da ultimo il fiore dell'Eros. Anche di cioà sìà puoà
render conto indicando la diversitaà dell’ebbrezza erotica da quella
caotica. Nel caos orrore e beatitudine sono inseparabilmente
intrecciati; nel cosmo questa sta in quello, discorde o alleata, simile a
una stella che brilla in fluttuante oscuritaà ; nel compiuto Eros
l’ebbrezza eà illuminata dalla corona di raggi (= ghirlanda
57
dell’iniziato), che immerge lo splendore trasfigurante fino nell’abisso
della notte (= freccia dell’Eros) 5. Ma giaà abbiamo preso in aiuto, non
a caso, il linguaggio dei simboli, poicheé alla fine sarebbe un’impresa
infruttuosa descrivere esperienze estatiche dìà vita nel linguaggio dei
concetti, nel quale perfino i nomi piuà espressivi nella migliore delle
ipotesi significano soltanto dei sentimenti. Per avvicinarci di piuà al
fiore dell’ebbrezza, disponiamo fortunatamente peroà di un altro
mezzo, del quale ora non dobbiamo piuà temere che possa essere
frainteso a causa di insufficienze dei concetti d’amore.
L’ebbrezza che si compie eroticamente non eà mai idiopatica, ma
senza eccezioni eà simpatetica; e percioà ogni ebbrezza partecipa alla
particolaritaà di quella erotica esattamente in tanto, in quanto il suo
contenuto eà simpatetico. Che cosa dobbiamo intendere per
ondeggiamento simpatetico? Questo: che dell’eccitazione di un
essere eà parte la sua comunanza con l’eccitazione almeno di un altro
essere. Per esempio sarebbero eccitate simpateticamente due
persone le quali non soltanto si sentissero indignate per lo stesso
motivo, ma contemporaneamente si sapessero anche alleate dalla
comunanza della loro collera, e proprio da cioà attingessero il pathos
della loro indignazione. Forse non c’eà nessun sentimento umano che
occasionalmente non possa entrare in nessi simpatetici, e in
particolare i sentimenti di difesa e di attacco non escludono affatto il
pathos simpatetico; cosìà i partecipanti ad una lotta di liberazione
nazionale possono essere legati dall’impetuoso sentimento della
profonda comunanza della loro ira. Ma anche se cioà salisse fino a
gradi da ebbrezza, rimarrebbe peroà , come nessuno puoà
disconoscere, qualcosa di completamente diverso dall’orgiasmo
delle baccanti.
Il pathos dell’ira, negativo quanto alla forma, può essere la
risposta di un amore ardente per la vita all’empietaà (Frevel) contro
la vita. Ma qualora ponessimo l’impulso di negazione giaà alla fonte
dei sentimenti, allora di pari passo scomparirebbe il loro carattere
simpatetico. Se cioeà lo stimolo che mi determina eà indirizzato contro
la vita, esso punta anche contro i sentimenti di altri esseri, e non si
58
troveraà piuà incrementato dal sapere che altri siano partecipi con me
dello stesso stimolo. Poicheé l’invidia per la vita guarda con astio ogni
entusiasmo altrui, perfino tra compagni essa immancabilmente
preclude a se stessa il pathos dell’entusiasmo comune; e cosìà l’Eros
preferisce l’ondeggiamento affermativo a quello negativo, ed offre la
sua massima forza illuminante alla reciproca inclinazione amorosa.
Non tralasciamo qui di ricordare che una profonda diversitaà tra
intere razze e popoli, ed innanzitutto tra le etaà della vita, eà fondata
dal fatto che gli attimi del compimento della vita dell’anima rechino
prevalentemente tratti idiopatici o simpatetici. Se talvolta
un’enigmatica nostalgia della fanciullezza coglie l’adulto, allora in lui
freme nuovamente l’oscuro ricordo della profonditaà e della pienezza
dei brividi vitali della primissima giovinezza, e tale ricordo eà legato
peroà alla consapevolezza dell’impossibilitaà del loro ritorno. EÈ il
mistico splendore di una ininterrotta beatitudine idiopatica cioà che
divide principalmente le ebbrezze dell’anima del fanciullo dagli
ondeggiamenti, quasi sempre afflitti, dell’etaà piuà tarda. Quel cielo
estivo ignaro di seé di una solitudine che basta interamente a se
stessa, che non eà neppur turbato dal piuà delicato velo del presagio
della dolorosa propensione alla vita a due, avvolge, in tutto il mondo,
solo il giardino incantato degli anni dell’infanzia. La felicitaà dei bimbi
non eà priva della voluttaà , ma solo della voluttaà simpatetica; ma non
ne ha neppure minimamente bisogno. Quando dei bimbi giocano
insieme, dice Jean Paul in Levana, «giocano due fantasie, come due
fiamme vicine ma non congiun-te»! Le iniziazioni alla pubertaà ,
diffuse presso quasi tutti i «popoli primitivi», e dalle quali la chiesa
ha preso l’uso della cresima, sono tra l’altro l’espressione cultuale
del trapasso dell’etaà idiopatica in quella simpatetica.
Ma non solo le diverse etaà della vita, ma anche popoli e razze
presentano simili differenze. L'opposizione, fino ad oggi inspiegata,
tra i popoli extrastorici (si pensi per esempio agli originari abitanti
della Nuova Zelanda, di Samoa, di Tucopia, o anche agli esquimesi, ai
ciukci, agli aleuti, agli abitanti della Terra del Fuoco), e i popoli
storici, che come i cinesi, gli egizi, i greci, i romani, i germani
59
svilupparono da se stessi una cultura, suole essere spiegata con
differenze di doti spirituali. Ma non eà lo spirito che ha fatto maturare
i culti, i templi, i riti festosi delle prime culture, cheà anzi a causa dello
spirito ogni cosa muore, proprio come accade allo «stato di natura»;
ed anche ammettendo che sia lo spirito, con questo pur sempre non
sapremmo da quale trasformazione della vita sia stata resa possibile
una tale evoluzione. Tutti i primitivi hanno od almeno ebbero
dimestichezza col sacrificio umano, e la maggior parte inoltre con il
pasto delle parti dell’uomo sacrificato ritenute particolarmente
animate. L’indifferenza, davvero straordinaria, dei loro usi approvati
e perfino santificati rispetto al valore della vita umana, non puoà
essere spiegata soltanto con il loro io piuà debole, ed ancor meno con
la presuntuosa credenza in una originaria rozzezza, poicheé a questo
contraddirebbe non soltanto la loro arte veramente sublime — le
«forchette dei cannibali» per cibarsi di carne umana sono ornate nel
modo piuà ricco —, ma anche la bontaà d’animo e la prontezza nel
soccorrere, molto diffuse tra essi, nelle quali troviamo la conferma
delle parole di Seume sugli Huroni, tanto piuà se confrontiamo con
esse le diavolerie della «Zivilisation». Se nel Borneo alcuni daiacchi
per proteggere la casa del Consiglio dal terremoto o dall’incendio
fracassavano viva nelle sue fondamenta una schiava, dedurne la
crudeltaà dei popoli primitivi puoà avere una parvenza di
giustificazione, sebbene la stessa stirpe ci sia descritta dai migliori
conoscitori di essa come amante della veritaà , leale, benevola, e come
— almeno nei primi tempi — del tutto all’oscuro di furto e ruberie 6.
Ma se allo stesso scopo, fino alle epoche di piuà alta cultura, fu
praticata la muratura di uomini vivi, e principalmente di bimbi, tra
l’altro da indiani, serbi, scandinavi e — tedeschi, allora l’ipotesi della
rozzezza d’animo si dissolve nel nulla. Poicheé tra i «selvaggi»
troviamo in quantitaà usi parimenti terribili, come l’abbandono di
bimbi in soprannumero, l’uccisione di vecchi troppo deboli,
l’inesorabile vendetta sanguinosa, il sacrificio degli schiavi favoriti
alla morte del padrone, la «caccia di teste», e cosìà via, mentre d’altra
parte la vita della stirpe si svolge nel segno di un’estrema placiditaà ,
60
uno sviluppatissimo senso di giustizia, e una stupefacente prontezza
del singolo al sacrificio, siamo spinti a supporre una diversitaà di
sentire che da ultimo puoà essere pensata soltanto come diversitaà di
dimensione. La consueta osservazione per la quale simili costumi
sarebbero prodotti della «superstizione» si ritorce su se stessa, in
quanto usi e simboli sono piuà antichi delle loro spiegazioni mitiche:
per tacere poi del fatto che perfino una cosiddetta superstizione
infine riporta ad un tipo di esperienza vissuta, e non al contrario.
Ora, noi pensiamo che la nascita della cultura coincida
generalmente col trapasso al grado simpatetico del sentire, a
raggiungere il quale era destinata soltanto una parte scelta, tra i
popoli. Di tutti i sentimenti per i quali il linguaggio ha nomi che li
indicano con sufficiente chiarezza, difficilmente ne manca anche solo
uno ai primitivi, e soprattutto non mancano quelli dell’amicizia e
della fiducia, senza i quali — almeno tra umani — non potrebbe
sussistere il nesso simbiotico che eà proprio ai legami naturali in
misura ancor maggiore che alle culture dell’antichitaà ; tali sentimenti
mostrano peroà , tutti quanti, una mirabile differenza di tinta dagli
stati d’animo a noi usuali. Sono colorati, per cosìà dire, con una tinta
di fondo che ha qualcosa di opposto alla tinta di fondo dei sentimenti
omonimi in noi, e che risalta sempre piuà forte e da ultimo inghiotte
tutte le singole tinte nei piuà festosi stati di ebbrezza, che nei casi di
una selvatichezza che afferra irresistibilmente sono totalmente privi
della dolcezza dell’Eros. Chi talvolta, non prevenuto, si sia
abbandonato all’impressione dei canti trionfali dei cacciatori di teste
malesi (oggi universalmente accessibili grazie ai dischi), o ai canti di
guerra e alle danze funebri di stirpi di indiani d'America in via
d’estinzione, o di una musica negra, la piuà primitiva possibile, e
paragoni a tutto questo melodie popolari russe, finlandesi, svedesi,
comprende senza bisogno di spiegazioni come noi possiamo pensare
di udire in quelli il suono dell’anima del pianeta stesso, in
indissolubile consonanza con le voci e le figure della flora e della
fauna dell’artico o dei tropici, ed in questi invece le rivelazioni
dell’anima umana, certo ancora elementare, che corona l’incessante
61
dover passare di tutte le immagini con il brivido malinconico
dell’amore. Laà una ritmica quasi demoniaca, frequenti passaggi
cromatici e battute anapestiche, che seducono l’ascoltatore in un
vortice sempre piuà delirante; qui il melos che placa, l’uso del modo
minore e la voluttaà affine al pianto nel dolore, cosìà come risulta giaà
solo dal testo del canto di dolore, profondamente erotico, di una
donna maori:
62
espressione del sentire simpatetico, invece, la polifonia. Dal fatto che
la polifonia divenne dominante dopo l’invasione dei barbari,
deduciamo il carattere marcatamente simpatetico dei popoli nordici,
ai quali l’umanitaà deve il dono fatale dell’amore fanatico dell’anima
(ambiguo e fatale come l'altro: la polifonia infatti degeneroà , per
l’irruzione dello spirito di calcolo, nei virtuosismi di una
armonizzazione che digerisce ogni cosa, e l’amore dell’anima
degeneroà , corrotto dalla frase cristiana, dapprima in una passione
che esclude ogni altra cosa (e di cioà parleremo ancora), ed infine
peroà nello spettro, mortale per l’amore, di un universale «amore per
gli umani»!). Mentre il canto popolare preferisce, quanto piuà eà
originario, tonalitaà minori, secondo i ricercatori moderni la
predilezione germanica dev’essere stata originariamente per le
tonalitaà maggiori. E qui vorremmo notare che la pura tonalitaà
maggiore esige come nessun’altra una seconda voce, che eà sempre di
carattere piuà debole in relazione ad essa; e che percioà non il canto in
maggiore, ma in realtaà il canto in maggiore a due voci dice cioà che eà
decisivo nell’essenza del tedesco, cioeà una profonditaà di interioritaà
simpatetica che era ancora estranea ai popoli mediterranei.
Ma se nei ritiri e nelle leghe virili dei «popoli primitivi» vediamo
decisamente il modello dell’idea che la chiesa piuà tardi pose al
servizio dell’astinenza, l’idea cioeà della claustrale monosessualitaà di
quelle leghe, questo puoà ancora una volta ammonirci a non mettere
in un sol fascio l’Eros con la diversitaà dei sessi e l’inclinazione
amorosa che si accende con essa. Troppo spesso sesso ed Eros
stanno in rapporto di disturbo reciproco, tanto che da sempre una
delle piuà difficili questioni vitali dell’umanitaà eà stata creare un
equilibrio tra essi — e nessuno l’ha mai risolta. Il tentativo di
inzuppare di essenza erotica l’impulso all’accoppiamento eà spesso
finito con il tragico tramonto degli amanti; il tentativo opposto, di
strapparli l’uno dall’altro, ha portato e porta invece
all’avvelenamento ed infine alla morte dell’Eros; ma su questo
ritorneremo. Qui vogliamo notare che il brivido simpatetico non di
rado suole esercitare la sua forza piuà profondamente tra esseri dello
63
stesso sesso che non di sessi diversi. Il suo eterno simbolo eà la
dualitaà dei dioscuri, e le sue piuà importanti feste non sono state
affatto sempre celebrate dalla relazione d’amore, ma almeno
altrettanto spesso dall’amicizia. (Ma forse talvolta con piuà brividi
nella relazione amorosa? Forse - Ma solo in quanto essa fu seguita da
quella tragicitaà selvaggiamente dolorosa che — celebrata con
tremante fervore da poeti, non spiegata da nessun sapiente — come
un sanguinoso chiarore di fiamma, al tempo stesso avvincente e
spaventoso, sta sospesa sulle nubi di polvere del campo di battaglia
dell’umanitaà storica: sempre ancora ripetendo il piuà appassionato
dramma di Shakespeare, che si chiude con le parole: «Poicheé non ci
fu mai un destino cosìà luttuoso — come quello di Giulietta e del suo
Romeo»), Da questo punto di vista consideriamo la fedeltaà virile dei
germani; ma anche l’originario «amore tra uomini» dei greci, che ha
molto poco in comune con l’odierna omosessualitaà , e che soltanto
per un malvagio irretìàmento nell’impulso all’accoppiamento
bisessuale degeneroà nella bassa pederastia. Chi in gioventuà non
sarebbe stato acceso d’entusiasmo dal racconto di Damone e Pìàtia, o
dal rapporto tra Hagen e Volker, o dalla fiaba dei fratelli, diffusa in
tutto il mondo? Chi potrebbe disconoscere che nella fiaba in
generale il legame erotico avvolge con materna tenerezza tutti gli
esseri, uomini, animali, piante, rocce, e in modo speciale tutti gli
utensili?. Ricordiamo per esempio la commovente amicizia tra cane
e passero, e la terribile rappresaglia del passero contro il carrettiere
che aveva investito «suo fratello, il cane». L’Eros dell’occidente sta
sotto il segno della «fratellanza di sangue», della quale eà un esempio
nella storia mondiale anche la «santa schiera» dei tebani. Esso creoà
la poesia delle gilde e delle comunitaà artigianali, dei lanzichenecchi e
dei vagabondi e, morente, influìà sui riti di fratellanza delle leghe
studentesche, i cui simposii ricchi di canti seppero mantenere,
ancora fino a una generazione fa, abbastanza di esso da far ricordare
per tutta la vita con malinconia a qualche «filisteo» la vecchia «gloria
studentesca». Si potrebbero riempire pagine, se volessimo seguire le
sue tracce attraverso tutte le cristallizzazioni di un’umanitaà che non
64
era ancora schiava del diritto coercitivo della famiglia, che pretende
di essere la sola in grado di dare felicitaà . Ma qui ci fermiamo, e ci
volgiamo a quella vetta mediana dell’ebbrezza che sola merita di
portare il nome dell’Eros cosmogonico.
In realtaà fin qua abbiamo parlato di sentimenti simpatetici, ma
non ancora della loro transizione nella voluttaà dell’ebbrezza. Anche
se questa deve essere duplice, il suo contenuto essenziale non
potrebbe essere nella voluttaà dell’unione corporea, neppure se in via
eccezionale fosse legato a questa. L'Aristofane di Platone fa
dichiarare dagli innamorati che «divenire, da due, una cosa sola»
corrisponde al loro piuà intimo desiderio. Ora, in qualsiasi misura
possa l’abbraccio dei corpi esaudire tale desiderio, eà peroà certo che
proprio nella stessa misura ne risulterebbe stracciato il legame
dell'Eros. Infatti cioà con cui io sono diventato una cosa sola non eà piuà
presente davanti a me; la sua e la mìàa realtaà sono confluite in una
sola realtaà , nella quale amante e amato non si staccano piuà . Ma se
l’unisono consiste proprio in questo, che l’eccitazione altrui
partecipi alla mia, aumentandola, esso cade se l'«altro» stesso si eà
spento per me in quanto si eà sciolto nella realtaà non articolata della
voluttuosa unitaà . Il legame erotico non è mescolanza: esso lega i poli
senza negarli. Proprio percheé , dal grande erotico che indubbiamente
era, Platone lo seppe, egli poteà combattere i piaceri a partire
dall'opposizione dell'Eros alla voluttaà di appagamento di mere
brame. La comunitaà a due dell’entusiasmo fu il ponte sul quale egli
adescoà l’Eros cosmico fino al «luogo iperuranio» del suo Eros
«celeste». Non l’amante bramoso, ma quello che dona divenne il
modello di tutte le «figure di redentore». Infatti il «salvatore» ha
questo in comune con l’amante creativo, che egli non vuole
possedere, ma «trasfigurare» il corpo del suo discepolo, anche a
prezzo del soggiogamento, di gran lunga peggiore, della vita stessa
sotto il parassitario Logos! E cioà che nella distorsione di un Platone
rimase ancora prevalentemente falsificazione dialettica, negli insulti
del fanatico Paolo discende giaà da quella istupidente malvagitaà che
puoà svelarci la fonte velenosa di ogni ascesi. Ecco alcuni esempi:
65
«Ma io vedo un’altra legge nelle mie membra, che lotta contro
la legge del mio pensiero e mi imprigiona nella legge del peccato, che
eà nelle mie membra». «Per questo Dio le ha consegnate ad infamanti
passioni: tanto le vostre donne hanno capovolto l’esercizio naturale
in quello contro natura, quanto gli uomini hanno abbandonato il
naturale rapporto con la donna e si sono accostati in selvagge brame,
uomo a uomo, in azioni impudiche».
«EÈ bene per l’uomo non toccare nessuna donna. Peroà , per gli atti
di lussuria, ogni uomo puoà avere la sua donna ed ogni donna il suo
uomo».
«Ai coniugi peroà io ordino, o meglio non io, ma il Signore ordina:
che la moglie non deve separarsi dal marito... parimenti il marito
non deve lasciare sua moglie».
E ancora, discoprendo senza ritegno cioà che sta dietro:
«Cioà che per il mondo eà folle, Dio l’ha scelto, per umiliare i
sapienti; e cioà che per il mondo eà debole, Dio l’ha scelto, per umiliare
cioà che eà forte; e cioà che per il mondo eà ignobile, ed eà disprezzato,
Dio l’ha scelto; e ha scelto cioà che non eà nulla, per annientare ciò che
è qualcosa : affincheé ad ogni cosa carnale sia tolta la fama di fronte a
Dio».
Nessuna spiegazione su santificazione del matrimonio e
diffamazione dell’Eros, su amore cristiano e amore pagano, potrebbe
superare l’impressione di tali frasi, alle quali se ne possono
aggiungere centinaia di simili. Ne concludiamo che chi, ritenendo
per qualsiasi motivo necessario respingere la sessualitaà , condanna
assieme ad essa l’Eros, tradisce con questo il fatto che l’Eros gli eà del
tutto sconosciuto, e che la voluttaà gli eà familiare solo piuà come
solletico privo di ebbrezza. Ostilitaà al mondo laà e un sesso
furiosamente bisognoso di accoppiamento qua sono percioà soltanto
diversi lati della stessa faccenda, e la sediziosa ascesi non eà mai stata
altro che lussuria capovolta. EÈ la vorace «volontaà di potenza» di una
sessualitaà deerotizzata, quella che sostiene parimenti astensione e
matrimonio sacramentale; cosìà come ogni societaà basata sulla legge
66
della monogamia ha sempre portato una venale prostituzione alla
piuà rigogliosa crescita.
«Il cristianesimo diede veleno da bere all’Eros: ed esso non ne
morìà, ma degeneroà a vizio» (Nietzsche).4 Se per gli antichi la pietra
fallica era il simbolo dell’Eros cosmogonico, cosìà per noi la sessualitaà
puoà essere un contrassegno essenziale della purezza o meno dei
processi vitali. Ma odio del mondo, ubbia di peccato e svalutazione
dell’attimo, ed in breve tutte le specie dell’ostilitaà ai piaceri sono il
segno di un modo di essere che eà toccato ad un impulso sessuale
divenuto delirante in quanto completamente separato dalla
unificatrice corrente dell’Eros. E cosìà dall’«amore» dei sessi cresce
l’«odio mortale» e la lotta dei sessi, ovunque l’uno significhi per
l'altro solo un mezzo al servizio dei propri fini egoistici. Questa eà la
forma occidentale del render nemici i poli della vita da parte del
principio dello spirito. E se infine consideriamo quanto interesse
abbia la spiritualitaà del nudo ardore sessuale a mettere in un sol
fascio voluttaà erotica e lussuria priva di ebbrezza, non ci
meraviglieremo piuà che nell’uso linguistico dominante le gioie
dell’atto dell’accoppiamento abbiano potuto allontanare il concetto
della voluttaà psichica.
Ma come puoà l’ondeggiamento erotico rimanere simpatetico,
quando diviene genuina estasi? Se l’estatico non solo ha lasciato il
suo io, ma perfino i limiti della sua singolaritaà , ed eà divenuto egli
stesso la triade nella quale i poli del mondo si sono interiorizzati,
come potrebbe ancora esserci, nella sua ebbrezza, posto per
l’ebbrezza di un altro essere? Questo sembra essere impossibile,
eppure, dove accadesse, sarebbe il piuà profondo e ultimo mistero
dell’anima. Non alzeremo il sipario, ma guideremo solo fino alla
soglia; prima peroà definiremo le conseguenze della natura duplice
dell’ebbrezza erotica.
Noi avevamo presupposto la possibilitaà che il congiungimento
sessuale porti con seé una passeggera unitaà nelle anime degli amanti,
e faccia annegare la dualitaà nel buio dell’ebbrezza. Ma se anche
provassimo a supporre che anche la voluttaà del congiungimento
67
possa essere vissuta simpateticamente, questa rimarrebbe sempre
un’esperienza vissuta di una parte soltanto, senza nessuna garanzia
di essere nello stesso attimo anche dell’altra. Senza dubbio, di due
che si abbracciano, l’uno puoà vivere come amore prodigo di doni cioà
che l’altro vive invece meramente come appagamento di un impulso
a prendere e a prender possesso. Ma allora, non sarebbe piuà
compiuta la condizione nella quale abbiamo trovato il contrassegno
dell'essenza dell’Eros: la polare reciprocitaà dell’essere afferrati. E c’eà
di piuà . Anche se la voluttaà di mescolanza fosse scaturita da un
traboccare in doni e da un abbandonarsi all’amore, trascinerebbe
tuttavia nel vortice liberatore di un’oscuritaà assolutamente
inarticolata, nella quale la dualitaà apparrebbe come non piuà
presente. Ma non c’eà nessun destarsi da questa oscuritaà , che non
spezzi anche l’incanto. «Ritornato a seé », ognuno degli amanti si
ritrova come cioà che era prima, come un individuo separato, non
liberato dall’esser per seé in un mondo che, insieme all’amato, rimane
un eterno Esterno. Non giudichiamo per ora se e quanto tale bagno
di splendore dei corpi sia talvolta in nature elementari una
condizione dell’aprirsi dell’anima al flusso di potenze cosmiche, ed in
certo modo il ceppo di legno del quale la fiamma mistica ha bisogno
per nutrirsi; ma il congiungimento sessuale stesso non eà quella
fiamma, non conduce fuori dall’essere singolo e non dona agli amanti
la «corona della vita». Paragonato alla sacertaà dell’Eros
cosmogonico, l’impulso all’accoppiamento eà un adiaphoron, e la
voluttaà dell’appagamento eà una liberazione che rende felici in modo
soltanto animale. Cioà che separa da essa il brivido dell’Eros eà il fatto
che l’Eros anche nell’attimo del piuà alto compimento rimane un Eros
della lontananza (Eros der Ferne), e l’ebbro per l’altro ebbro rimane
un Secondo che non si mescola mai, un occhio del tutto che lo guarda
da una purpurea notte. Abbandonarsi a questo, non significa
bramarlo; abbracciarlo non significa divenire una sola cosa con esso;
e tramontare in esso, ma significa destarsi! La soluzione del
cosiddetto enigma del mondo eà l’interiorizzazione estatica del
mistero del mondo. Percheé le domande della sfinge sono mortali per
68
l’uomo? Percheé la vista della Gorgone trasforma in pietra? Percheé
sollevare il velo di Iside porta alla rovina? Migliore di qualsiasi
sobria risposta, l’antichissima questione del destino puoà essere per
noi il simbolo, portatore di sapere, del fatto che soltanto qualcosa di
eternamente lontano dona beatitudine di rapimento8.
E cosìà abbiamo detto la parola magica della quale saraà colorata
ogni cosa che d’ora in avanti diremo ancora. Ma poicheé per molti
essa eà come una runa, che non si lascia decifrare da chi applichi
soltanto ai suo posto un significante piuà noto, tenteremo di render
piuà comprensibile il suo senso nascosto con degli esempi:
certamente l’uno troveraà in essi piuà dell’altro, ma ognuno si accinga
a inoltrarsi fino ai confini della propria esperienza di vita.
L’espressione di Stendhal, immediatamente persuasiva, secondo la
quale la bellezza della statua artisticamente perfetta eà una
«promessa di felicitaà », doveva forse realmente significare, nello
spirito del suo inventore, cioà che Nietzsche le attribuisce per
difendere la propria concezione secondo la quale l’arte deve
persuadere lo spettatore all’affermazione della vita a qualsiasi
prezzo. Ma la frase in questione ci insegna ancora qualcos’altro, se
riflettiamo che la promessa celata dal dolore cantato, dall’amore
poetato, dalla grazia scolpita, dalla tempesta dipinta o dalla affinitaà
con gli astri della Porta nigra5, resa eterna nella pietra, non
troverebbe mai adempimento nell’esistenza diurna e desta. Chi
anche una volta soltanto fu commosso dalla lontananza marina
coperta di nubi che il pennello di Boà cklin fece destare nella dolorosa
ebbrezza del suo sguardo di tritone, come potrebbe sperare di veder
cessare in qualche dove l’oltreumano brivido di nostalgia, in un
appagamento che gli ponesse fine? Chi, incantato da cioà che resta
dello splendore di millenni irremediabilmente morii, cammina lungo
le tombe della via Appia, come potrebbe vaneggiare che cioà che non
puoà essere posseduto sia divenuto suo, per quanto egli si sia sentito
trasportato nella Roma imperiale? E cosìà, cioà che il detto di Stendhal
spiega per un 'espressione vitale mediata dall’uomo vale piuttosto a
proposito del mistero stesso della vita. Alla vicinanza appartiene,
69
come polo ad essa opposto, l’essenzialmente irraggiungibile
lontananza. Ogni alzata d’occhi, rimessa anche soltanto all’ampiezza
dello spazio, promette e attira; ma non troveremmo cioà verso cui
essa attira, se anche ci avviassimo e tendessimo lontano: l’orizzonte
fugge indietro davanti a noi, e nessun viandante ha mai attraversato
il tramonto. Cosìà preparati, possiamo considerare adesso
un’esperienza vissuta di poca appariscenza, che certo ognuno
nell’etaà delle sue aspirazioni ha vissuto, anche se, giunto nell’etaà
dell’azione, l’ha dimenticata da tempo.
In una notte d’estate, dal profumo di lillaà , in un incerto vacillante
chiarore, lo colpìà con un’inesprimibile promessa di felicitaà un raggio
proveniente, luminoso, da umidi occhi; il misterioso sorriso lo scosse
e lo trasformoà , il fascino amoroso della figura fluttuante lo avvolse
magneticamente, una corrente lo sciolse in rapimento, e la fiamma
dell’amore, come aumentata da una folata di vento, avvampando
toccoà il firmamento. Ma guai a lui se, non saggio, prese questo attimo
di compimento per nient’altro che una promessa, scambioà il fascino
dell’apparizione con il suo portatore corporeo, e si lascioà trasportare
dal mistico cenno in un possessivo rapporto d’amore. Tale rapporto
non manterraà cioà che l’istante di libertaà sembroà promettere, e troppo
presto, tormentosamente disilluso, egli troveraà , al posto della figura
divina che lo illuminava, un essere finito, limitato, misurabile. Cioà che
umanamente avevamo preso per una mera promessa, era piuttosto
un sorso dal calice dell’Eros della lontananza, che rapisce dal mondo
afferrabile delle cose nella intangibile realtaà delle immagini!
70
Nach seinem Ursprung. Spruhender Schimmer krànzt
Das Unerreichte und erlischt, sobald
Wir nach ihm haschen. Denn die Ferne ist,
Wo niemals wir sind; doch geheimster Drang
Will sie in Nàhe uns und Eigen wandeln.
71
Es funkein auf mich alle Sterne
Mit gluhendem Liebesblick.
Es redet trunken die Ferne
Wie von kunftigem, grossem Gluck.
72
3 Conrad Ferdinand Meyer (N.d.T.).
4 In Al di là del bene e del male (N.d.T.).
5 EÈ il nome di una antica porta romana di Treviri. Ricordiamo
che eà anche il titolo di una poesia del Settimo anello di George, che
nelle Lezioni di sociologia a cura di Horkheimer e Adorno viene
presentata come la punta estrema degli «sfoghi contro la
Zivilisation». (Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di
sociologia, Torino, 1970, p. 106). (N.d.T.)
73
V. Dell'essenza dell'estasi
75
aver visto questo (δερχθεά ντες)», dice Sofocle. «Felice chi va sotto la
terra dopo aver visto cioà (ιδωάν)», dice Pindaro: «egli conosce infatti
il compimento e l'inizio della vita, dati dagli dei». «Coloro che
partecipano a riti bacchici o coribantici vanno in estasi fino a vedere
cioà che aspettavano», riferisce Filone nel suo scritto Della vita
contemplativa. Ma una delle tavole auree orfiche annuncia cosìà
l’unione mistica col dio — trasferendola, conformemente alle
speranze dell’iniziato, in una beatitudine postmortale, nella nuova
vita al di laà della morte del corpo —: «o felicissimo e beatissimo, tu
sarai un dio, invece che un miserevole uomo!». Su di un’altra, l’anima
dell'iniziato esulta di fronte agli dei; «io mi onoro di essere della
vostra beata stirpe!».
Gli usi sacri sono qualcosa di regolato, di posto da un fondatore
umano, per legare in una sola comunitaà di vita le molte stirpi e per
conservare al ritmo del tutto la forza necessaria ad allentare
nuovamente i legami coatti nei quali lo spirito vuole estraniare
coloro che un tempo erano legati in tale ritmo. Ma l’esperienza
vissuta della quale essi vorrebbero facilitare il rinnovamento, l’estasi
originaria, un tempo, nell’epoca pelasgica, sorresse tutte le opere
dell’uomo (di quell’epoca oggi raccogliamo schegge e frammenti tra i
morenti «popoli primitivi»), e ancor oggi reca (o almeno l’ha fatto
fino a poco tempo fa) la poesia e l’arte genuine: e anche per questo il
suo contenuto non puoà essere tramandato per mezzo di mere
asserzioni. L’espressione, corrente almeno per un gruppo di arti, di
«arte figurativa» (bildende Kunst) ci ricorda peroà che l’attivitaà
configuratrice sen/e all’oggettivazione di immagini (Bilder), e ci fa
immaginare che l’evento che costringe lo spirito a sforzi figurativi sia
connesso con il risplendere di interne immagini. Percioà faremo il
passo determinante per la comprensione dell’essenza dell’estasi
chiarendo in che cosa l'evento della contemplazione di indicibili
immagini sia diverso dall’arbitrario atto della percezione, che ci daà
cose (Dinge) dicibili.
Non posso portar via con me un bel paesaggio: ma posso
farmene una «rappresentazione», qualora me ne sia rimasta
76
un'immagine interna. Mentre l’oggettivo paesaggio rimane,
immutato, dov’eà , la sua immagine vaga con le migliaia di esseri
individuali capaci di esperienze vissute ai quali eà toccata la sua vista,
ed eà in realtaà sempre diversa in ognuno, tanto in seé e per seé quanto
per i colori, i rumori, i movimenti del modello che ne eà alla base. Se
dalla rappresentazione togliamo l’attivitaà spirituale di colui che
rappresenta, diamo in tal modo all'immagine la magnificenza
propria di una visione di sogno, che viene incontro a colui che, nel
sogno, sta contemplando, come qualcosa di reale; e se infine
pensiamo questa realtaà meno condizionata dall’anima di chi la riceve
di quanto sia fondata nel modello stesso, abbiamo in essa la forma di
presentazione dell’accadere nel suo complesso: tale forma, nella
coscienza notturna dell’estatico e in generale nella coscienza
dell’uomo originario, dominava sul mondo dei dati di fatto.
Premesso questo, formuliamo le seguenti opposizioni:
l’immagine ha presenza solo nell’attimo del suo esser vissuta; la cosa
(Ding) eà «fissata» una volta per tutte — l’immagine fluisce assieme
al sempre fluente vìàvere esperienze; la cosa persiste, dura, sta in una
indivisibilitaà ostile alla vita — l’immagine eà solo nell’esperienza di
chi la vive; la cosa esiste nel qualsiasi atto di percezione di chiunque
— dell'immagine posso ricordarmi, ma non posso renderla presente
nel giudizio; alla cosa posso riferirmi nel pensiero in ogni momento,
poicheé adesso eà la stessa che era prima, ed annunciando il mio
giudizio posso renderla identico punto di riferimento di tutti i miei
ascoltatori — l’immagine, tuffata nella corrente del tempo, si
trasforma, come si trasforma tutto, compresa l’anima che la vìàve; la
cosa, in quanto eà al di fuori del tempo, va, se la si misura col tempo,
incontro alla distruzione — l’immagine viene ricevuta dall’anima; la
cosa eà il prodotto dell’atto di giudizio dello spirito, sulla base di cioà
che eà stato ricevuto — l’immagine ha realtaà indipendente dalla
coscienza; la cosa eà pensata nel mondo della coscienza ed esiste
soltanto per una interioritaà di esseri personali. Percioà : per colui che
nell’estasi spezza la forma dell’esser persona, nello stesso momento
tramonta il mondo dei dati di fatto, e risorge il mondo delle
77
immagini, la potenza della cui realtaà allontana ogni cosa. L’anima
contemplante ne eà il polo interno, la realtaà contemplata quello
esterno. Quella eà connessa a questa (= incessante gamos), ma non
coincide mai con essa (= incessante contemplazione). Dal contatto
polare di interno ed esterno si genera incessantemente l'immagine,
essa stessa animata (= incessante parto). L’esterno genera, l’interno
concepisce, e dal loro abbraccio erompe la canora corrente di fuoco
delle immagini del tutto, la «stella danzante» del caos, articolato in
cosmo. La frase da veggente di Novalis: «l’esterno eà un interno
elevato allo stato di mistero», esprime con leggera grazia il senso
dell’estasi ed il fondamento di ogni certezza contemplativa.
Ci interrompiamo un attimo per proteggere la contemplazione
delle immagini originarie dal rovinoso equivoco che la minaccia dal
momento dello sviluppo delle «idee» platoniche da parte di
Schopenhauer. Non possiamo dimostrare il nichilismo di quella
«dottrina delle idee» in modo piuà persuasivo che nel seducente
riflesso che di essa ci mostra lo specchio de! pensiero di
Schopenhauer. Nello stato pensante, egli ci insegna, troviamo singoli
dati di fatto, che piuà tardi formano l’oggetto della ricerca scientifica.
Nello stato della contemplazione invece troviamo, nella singola cosa,
la sua non caduca «immagine originaria». Poeti ed artisti sono
personalitaà alle quali tocca piuà spesso ed in maggior grado che
all’uomo comune di rapportarsi contemplativamente all’immagine
del mondo, e di ottenere cosìà l’immediata intuizione della sua realtaà
di immagine originaria. A cioà si lega in lui l’opinione, di tinta
fortemente buddistica, per la quale lo stato pensante sarebbe al
tempo stesso nel senso piuà ampio uno stato «interessato».
Generalmente l'interesse alla cosa consisterebbe per lui in una
inclinazione o in una antipatia del tutto personale; ma, in via
eccezionale, potrebbe anche essere l’interesse universale del
ricercatore, e non rimarrebbe peroà di meno una specie
dell’interesse, ossia dell’eccitazione della «volontaà » immanente a
tutto cioà che appare. Lo stato contemplativo si rappresenta cosìà
come una passeggera liberazione dal bisogno della volontaà , e
78
l’immagine originaria che viene contemplata diviene l’immagine
riflessa di una «conoscenza» tanto sovrapersonale quanto
sovraindividuale. Non possiamo fare a meno di citare alcuni passi di
Schopenauer, percheé vorremmo mostrare il non comune fascino
della sua concezione, prima di mostrarne la falsitaà .
«Nessun oggetto del volere, una volta' conseguito, puoà dare
appagamento durevole, che piuà non muti: bensìà rassomiglia soltanto
all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita
per continuare domani il suo tormento. Quindi fincheé la nostra
coscienza eà riempita dalla nostra volontaà ; fincheé siamo abbandonati
alla spinta dei nostri desiderii, col suo perenne sperare e temere;
fincheé siamo soggetti del volere, non ci eà concessa durevole felicitaà
neé riposo. Cosìà posa il soggetto del volere senza tregua sulla volgente
ruota d’Issione, attinge ognora col vaglio delle Danaidi, eà
l’eternamente struggentesi Tantalo.
Ma quando una causa esteriore, o un’interna disposizione ci trae
all’improvviso fuori dall’infinita corrente del volere, e la conoscenza
sottrae alla schiavituà della volontaà , e quando l’attenzione non eà piuà
rivolta ai motivi del volere, bensìà percepisce le cose sciolte dal loro
rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza
soggettivitaà , in modo puramente obiettivo, dandosi tutta ad esse, in
quanto esse sono pure rappresentazioni e non motivi: allora
sopravviene d’un tratto, spontaneamente, la pace ognora cercata
sulla prima via, la via del volere, e ognora sfuggente; e noi ci
sentiamo benissimo. EÈ lo stato senza dolore, che Epicuro lodoà come
il massimo bene, e come condizione degli Dei: poicheé noi siamo, per
quell’istante, liberati dalla bassa ansia della volontaà , celebriamo il
sabba dei lavori forzati; e la ruota d’Issione si ferma.
Ed eà questo appunto lo stato, ch’io ho descritto piuà sopra come
necessario per la conoscenza dell'idea quale pura contemplazione,
assorbimento nell’intuizione, smarrimento di seé nell’oggetto, oblio
d’ogni individualitaà , abolizione della conoscenza che segue il
principio di ragione e soltanto le relazioni afferra; eà lo stato, in cui
d’un subito e indissociabilmente s’innalza il singolo oggetto intuito
79
all’idea della sua specie, e l’individuo conoscente a puro soggetto del
conoscere fuori della volontaà ; sìà che entrambi, in quanto tali, non
stanno piuà nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. EÈ
tutt’uno, allora, se il sole che tramonta si vegga da un carcere o da un
palazzo».
E:
«Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto
e sìà appieno, quanto il sonno e il sogno: felicitaà e infelicitaà sono
svanite: non siamo piuà l’individuo, che eà obliato, non siamo piuà che
puro soggetto della conoscenza: non esistiamo piuà se non come
l’unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti
guarda, ma nell’uomo soltanto puoà diventare del tutto libero dal
servigio della volontaà : e allora ogni distinzione da individuo a
individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il
contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato
mendico».1
Udendo queste parole non si dovrebbe peroà pensare che si tratti
della stessa cosa della quale noi abbiamo giaà parlato come del
contrassegno essenziale dell’estasi, pur se anche noi diciamo che
l’estasi ci rende capaci di far penetrare lo sguardo, attraverso il
mondo delle cose, fino alla realtaà delle immagini, indipendenti
dall’io. EÈ vero che sembra che Schopenhauer veda la condizione
preliminare della contemplazione in uno spezzare i limiti
dell’individuo, e che cosìà egli dichiara guerra in modo altrettanto
deciso che il nostro ad ogni soggettivismo nella considerazione del
mondo: ma cosìà sembra, e quest’apparenza inganna! Non possiamo
fare a meno di riportare ancora un passo che puoà svelare in modo
stridente che il nostro pensatore ha in mente piuttosto tutto il
contrario. Sforzandosi di chiarire con degli esempi che cosa formi
propriamente il contenuto delle idee cosìà contemplate, ci fa sapere
tra l’altro quel che segue:
«Consideriamo delle nubi fuggenti nel cielo: le loro figure non fan
parte della loro essenza, sono del tutto indifferenti; ma che il vento
le raccolga e le disperda, le dilati e le squarci, questa eà la loro natura
80
di vapore elastico, l’essenza delle forze che vi si oggettivano, l'idea ;
mentre le figure accidentali non esistono che per l’individuo che
osserva. Per il ruscello che scorre giuà fra i sassi, i gorghi, le
increspature e gli spruzzi, i capricci delle schiume che vediamo alla
superficie, sono cose affatto indifferenti e non essenziali; ma
l’ubbidire alla legge di gravitaà , il comportarsi come liquido
anelastico, perfettamente mobile, amorfo, trasparente, questa eà la
sua essenza, questa eà , se si ricorre alla conoscenza intuitiva, la sua
idea ; le altre formazioni esistono soltanto per noi, che le conosciamo
come individui. Il ghiaccio si depone sui vetri delle finestre secondo
le leggi della cristallizzazione, che rivelano l’essenza della forza
naturale attiva in tale fenomeno, e rappresentano quindi l’idea; ma
gli alberi e i fiori che i cristalli disegnano sul vetro, hanno un
carattere puramente accidentale, non esistono che per noi» .2
Questo passo ci mostra con chiarezza quasi spaventosa che le
cosiddette immagini originarie o idee che Schopenhauer ha in mente,
e in perfetto accordo con Platone, non sono affatto immagini bensìà,
tutte quante, nient'altro che concetti\ Cioà che qui viene indicato
come l’essenza delle nuvole, come l’essenza del ruscello, come
l’essenza dei cristalli di ghiaccio, eà solo quel concetto della natura
universale del vapore, dell’acqua e del congelamento che, come
nessuno puoà disconoscere, forma l’oggetto delle scienze naturali;
tanto che, non a caso, in occasione della sua descrizione gli sfugge
anche la parola d’ordine di queste ultime: «legge». Di fatto egli non
parla d’altro che delle leggi naturali del mondo, e commette un
gravissimo errore quando ciononostante pensa che simili leggi di
natura vengano intuite. Ma proviamo a trasferirci col pensiero nello
stato di colui che alla vista dei fiori e degli alberi di ghiacco alla
finestra realmente si «perde nell’oggetto», che dimentica se stesso e
il resto del mondo, per essere completamente assorbito
nell'immagine di questi fiori di ghiaccio: come potrebbe capitargli,
proprio in quell’attimo, di pensare alle leggi della cristallizzazione e
del congelamento, e come potrebbe presentarglisi intuitivamente,
nei fiori di ghiaccio che crescono in modo leggero e misterioso e che
81
l’inverno produce per incanto alla sua finestra, la legge della
formazione del ghiaccio? No, egli si sentiraà rapito lontano da tutti i
concetti di cristallizzazione; evaporazione, congelamento,
altrettanto, quanto si sentiraà rapito alla propria persona; e si sentiraà
trasportato in sogno nel mondo animato di quelle formazioni di
ghiaccio, per partecipare all'intimità di quel fiorire e di quel crescere.
Le «idee» di Schopenhauer, esattamente come quelle di Platone, non
sono immagini di fronte all'anima contemplante, ma prodotti dello
spirito che giudica, e si differenziano dai concetti dell’abituale
ragione umana, come anche da quelli della scienza, esclusivamente
per la loro pretesa di realtaà metafisica. Ma proprio grazie a questa si
scopre come l’intenzione del pensiero platonico e schopenhaueriano
sia indirizzata contro la contemplazione delle immagini originarie:
infatti essa cerca di mettere, al posto di reali immagini originarie,
concetti reificati e leggi di natura assolutizzate. Platone, in questo
vedendo a fondo, fu percioà nemico dichiarato dell’arte;
Schopenhauer invece, da uomo non per nulla moderno, tenta,
certamente senza saperlo, di nascondere l’opposizione facendo
scaturire da uno stato di rapimento contemplativo la conoscenza
intuitiva da lui inventata, la quale eà peroà in realtaà ancora una volta la
conoscenza propria dell’intelletto (Verstandeserkenntnis). Ma cosìà
facendo egli falsa l’estasi, e percioà dovrebbe respingere le sue
genuine conseguenze, proprio come Platone, conseguentemente,
rifiutoà perfino l’arte. Ora, eà davvero cosìà!
«Per chi abbia compreso bene tutto cioà , per chi sappia
distinguere la volontaà dall’idea, e ('idea dal suo fenomeno, il
significato vero degli avvenimenti eà quello d’essere un alfabeto che
permette di leggere l'idea...; mentre in seé e per seé non hanno alcun
valore. Allora non si crederaà piuà , come fa l’uomo del volgo, che il
tempo possa generare qualcosa di veramente nuovo e di veramente
importante; che nel tempo e per via del tempo qualcosa possa
attingere ad una realtaà assoluta». 3 «...Perciò sarà tanto lontano
dall’istituire con Omero tutto un Olimpo di Dei a guida di quegli eventi
temporali, quanto dal tener con Ossian le forme delle nubi per esseri
82
individuali; poiché, come s’è detto, l’una e l’altra cosa ha eguale (cioè
egualmente poco) significato, in rapporto all’idea che vi si
manifesta»4.
83
Ma allora nessuna immagine originaria puoà essere identica a una
cosa!
Immaginiamoci due amanti, mentre il loro amore per cosìà dire eà
in fiore: ciononostante non accadraà che essi, per un intervallo di piuà
settimane, provino in ogni ora e in ogni minuto lo stesso grado di
entusiasmo.
Shakespeare
84
Cento volte posso aver visto la foresta davanti alla mia finestra,
senza aver vissuto altro che la cosa, quella stessa cosa che anche il
botanico ha in mente: ma una volta, mentre arde nello splendore del
sole della sera, la sua vista riesce a strapparmi al mio io: ed allora la
mia anima d’improvviso scorge cioà che io non ho mai visto prima,
forse per minuti, forse per secondi; comunque, per breve o per lungo
tempo, cioà che veniva scorto era l’immagine originaria della foresta,
e questa immagine non torneraà neé per me neé per nessun altro. A
questo punto forse qualcuno faraà un’obiezione realmente
importante. Se la foresta eà un contenuto concettuale, si potrebbe
allora dire che chi ne scorge l’immagine originaria non dovrebbe piuà
accorgersi di una foresta; ma se eà difficile che cioà accada, come si
potrebbe ancora affermare che egli eà libero dalle catene dell’io, dello
spirito e di ogni concettualitaà ? Rispondiamo cercando di definire ora
anche positivamente l'immagine originaria.
Ma per prima cosa vediamo come qualsiasi contenuto di
intuizione sia pur sempre piuà vario della cosa che da esso si puoà
trarre. Cosìà il concetto della foresta, e perfino di una ben
determinata foresta, non contiene nulla dei suoi colori. Nell’attimo
della mia contemplazione invece la foresta ardeva alle luci serali del
sole, e questo splendore non si poteva assolutamente separare
dall'immagine che io vivevo. Un’altra volta la stessa foresta puoà
ondeggiare nella tempesta, e puoà essermi dato di contemplare
nuovamente la sua immagine originaria: ma questa eà diversa da
quella ricevuta allora. Paragonata con le dicibili cose della
percezione, l’immagine dell’impressione si mostra piuà ricca per
numerosi tratti che non si lasciano mai completamente spartire in
proprietaà a loro volta dicibili. Ma ci si obietteraà che questo dipende
dalla particolaritaà del pensiero che forzatamente astrae, e
probabilmente del linguaggio, ma che non serve alla distinzione
dell’atto di percezione dall’evento della contemplazione; che se si
sostituisce a quello una lastra sensibile alla luce, essa saraà
perfettamente in grado di catturare l’impressione istantanea della
cosa della percezione, ed anche di conservare in una copia cioà che ha
85
catturato. Con l’opposizione dell’impressione istantanea e della cosa,
che resta, volevamo peroà soltanto ricordare percheé la loro diversitaà
non consista e non possa consistere nel fatto che per il contemplante
al posto della cosa da chiamare «foresta» si sia presentata un 'altra
cosa (Ding). Come abbiamo giaà accennato, dall’immagine
dell’impressione viene tratta la cosa dicibile, e questo vale tanto per
la copia della foresta quanto per la foresta reale: ma con questo sono
anche esaurite le somiglianze tra mere immagini della percezione ed
il contenuto della contemplazione (estatica). Infatti l’immagine
originaria, (come l’abbiamo chiamata), che eà stata vissuta grazie ad
essa, non sta mai lìà come qualcosa che eà e si puoà trovare e catturare
nella camera oscura, bensìà si genera dal contatto polare di un’anima
ricettiva e di un demone: e di tale provenienza eà segno e sigillo lo
splendido brivido che essa diffonde nel momento del suo nascere.
Proprio a causa del loro nimbo le immagini originarie sono più ricche
della stessa occasione di impressione che lo spirito riesce a cogliere in
esse. Sarebbe vano voler smembrare il nimbo e dividerlo in concetti;
invece possiamo tentare di destarne il ricordo mediante un richiamo
alle sue conseguenze figurative.
Nell’antica lirica cinese, della sposa del re si dice che ella eà «un
albero in fronde di seta». Nell’epidosio di Naia e Damayanti
(dell’indiano Mahabharata) l’eroe, mezzo nudo, viene dipinto con
queste parole: «chi eà quella fiamma di bellezza avvolta nel fumo?».
Un sonetto di Eichendorff all’amata, morta, finisce con la strofa:
86
Il rapimento, la malinconia, il notturno lutto del cantore
trasforma per lui la figura illuminata da amore e la trasporta in nessi
di lontananza di cosmica profonditaà , e ci fa scorgere nel dettaglio
dell’apparizione cioà che nessun occhio diurno della coscienza
troverebbe: l'anima del mondo, nel suo spegnersi o nel suo
divampare, nel suo avvicinarsi oppure in fuga, nel pianto o nel
giubilo. All’oscura malinconia di Lenau l’adorabile immagine appare
nei lampeggianti tratti di un firmamento ondeggiante:
Wie gewitterklar
Mein ich dich zu sehen,
Und dein langes Haar
Frei im Sturme wehn.
87
Il vecchio cantò un canto così bello, così potente,
che il mare incominciò ad ascoltare,
ed anche le azzurre onde, e le profonde correnti,
e le rive, stettero ad ascoltare.
Il vecchio cantò un canto così bello, così potente,
che le gialle rive si sporsero l’una verso l'altra:
si sporsero tanto che non rimase il minimo spazio tra loro,
e presto furono strettamente legate:
si unirono saldamente,
la riva sinistra con la riva destra,
la riva destra con la riva sinistra,
formando un ponte sicuro10
88
Ma anche del tempio mistico davanti al quale, a causa della
discesa di Faust alle madri, deve di nuovo svolgersi il ratto di Elena, eà
detto in Goethe:
[Ebbene geà ttati nel mare, dove piuà infuria selvaggio! / Appena ne
avrai toccato il fondo ricco di perle, / subito un magnifico cerchio si
formeraà ondeggiando. / E vedrai su e giuà labili onde verde-lucenti
89
dai bordi purpurei ! gonfiarsi in bellissima dimora intorno a te, / che
stai fermo al centro. Ad ogni passo, / dovunque tu vada, ti
accompagnano i palazzi].6
[Che cosa sei tu, piuà che lo stoppino della mia candela, / piuà che il
bollente olio balsamico della mia lucerna? / Che cosa sei tu, piuà che
sangue della mia dolcezza, / piuà che lo sfarzo di gemme dei miei
mosaici, / che si accende al mio passaggio? / lo sono la luce, che ti
succhia dalla notte, / Io sono l’occhio, che ti finge lo splendore, / lo
sono la perla, che colma la conchiglia, / lo sono l’ebbrezza, che
ringiovanisce questo mondo, / lo sono la vita].
90
Ogni cosa casuale potrebbe, pensa Novalis, «diventare il nostro
organo del mondo. Un volto, un astro, una contrada, un vecchio
albero, possono far epoca nel nostro intimo. Questo eà il grande
realismo del feticismo». Invero, qualsiasi cosa possa piacevolmente
sorprenderci in azioni cultuali, sacre feste, usi magici, tabuizzazioni,
arti mantiche, essa eà fondata senza eccezione sul prevalere della
interioritaà contemplante sulla mera capacitaà percettiva, e inoltre
sull’intrecciarsi del mondo degli oggetti, che eà mosso sempre
soltanto meccanicamente, nella demonicamente viva realtaà delle
immagini. Ma come questa si configuroà immediatamente in tutto il
modo di vita dell’uomo preistorico, come per cosìà dire si cristallizzoà
in templi, idoli e monumenti tombali, come ancor piuà tardi prese
dimora nella dispersa pioggia di fiori della poesia, cosìà ne rimase
anche una notizia che noi non possiamo disdegnare di accogliere in
aiuto, se dobbiamo passare dal contenuto dell’estasi, non
partecipabile percheé extraconscio, a quelle certezze logicamente
incomprensibili che il pelasgo visse, e che l’uomo dell’antichitaà
storica almeno riottenne in modo spirituale nei riti segreti. Se cioeà ci
fu un’umanitaà per la quale fu ancora cosa abituale entrare in legame
con il mondo attorno a seé grazie alla feconda contemplazione, essa
dovette, negli stati intermedi di sobrietaà , cercare di fermare per
incanto, mediante segni per la coscienza, cioà che era appena
trascorso, in modo simile a quello in cui l’uomo della ragione
conserva, con l’aiuto di un linguaggio concettuale, il suo sapere di
cose. Ora: questi segni sono i simboli. Essi sono glifi di immagini
scorte nell’estasi, dunque veri ieroglifi, proprio come la parola
dell’uso linguistico comune eà il glifo che fissa oggetti in concetti. Se il
linguaggio concettuale serve alla trasmissione del giudizio, il
linguaggio simbolico serve a ridestare la contemplazione; e se il
concetto forma il punto di partenza dell’indagine scientifica, il
simbolo forma l’origine del mito. Sterminata eà la scienza dei segni
dello stato di coscienza contemplante, come lo chiameremo d’ora in
poi, sterminato l’arricchimento di conoscenza per chi sa leggere in
essa. Per i nostri scopi puoà bastare prendere dalla pienezza dei suoi
91
sedimenti e delle sue usanze una sola pagina, per comprendere la
quale peroà dobbiamo prima guardare piuà a fondo nell'essenza delle
immagini.
Siamo passati dallo stato all’essenza dell’estasi mettendo in
rilievo la lontananza dell’immagine in rapporto alla vicinanza della
cosa della percezione. All'obiezione, difficilmente evitabile, per la
quale anche cioà che eà lontano viene peroà percepito, ed in particolare
la lontananza spaziale percepibile forma il modello di ogni possibile
lontananza, dovremmo soltanto ribattere che senza contemplazione
(anche se rimane inconscia) non c’eà nessuna percezione, neppure di
cioà che eà spazialmente vicino, e che la percezione di cioà che eà
spazialmente lontano ha un proprio «timbro», nel quale chi eà
abituato all’ascolto sente la voce dell’anima che si desta; e che
proprio in questo giaà si annuncia a bassa voce il mutamento di stato
che giaà inizia. Paragonato ad uno che osserva l’insetto sulla propria
mano, l'osservatore, in circostanze simili, di una catena di colline
velate d’azzurro eà essenzialmente piuà vicino al «sognatore» o a chi eà
«immerso». L’osservatore deciso a porre differenze tratta perfino il
lontano come se fosse un vicino, e sacrifica l’immagine intuitiva ad
una sequela di luoghi che egli misura con lo sguardo uno dopo
l’altro, cioeà separati, mentre lo sguardo di chi eà immerso
nell’osservazione, foss’anche di un oggetto vicino, eà avvinto, in modo
privo di scopi, dall’immagine dell’oggetto, e cioà significa almeno
dell’immagine di una forma che non eà racchiusa da confini, ma
dall'insieme delle immagini all’intorno. Non tanto la distanza
dell’oggetto quanto il modo di osservazione decide se esso abbia la
caratteristica del vicino o del lontano; e nessuno disconosce come la
vicinanza abbia il carattere della cosa (Ding), e la lontananza quello
dell’immagine.
Ora, qualcuno potrebbe opporci, apparentemente a buon diritto,
che, per quanto tutto questo possa anche in seé e per seé essere giusto,
in tal modo scivoleremmo in una insolubile contraddizione con lo
stato di coscienza primitivo, che sarebbe invece, secondo la nostra
opinione, tenuto per le dande dalla contemplazione. Perfino gli
92
oggetti siderei, per tacere poi degli oggetti vicini, sarebbero cioeà
rivestiti di lontananza per noi, che sappiamo o pensiamo di sapere
qual eà la loro natura oggettiva, ma non certo per chi li vive come
apparizioni; e piuttosto proprio in questo starebbe il segno
distintivo dell'etaà arcaica: che essa riportava anche distanze astrali
in una vicinanza domestica. «La cosmogonia greca», cosìà potrebbe
proseguire, «conobbe l’Eros come creatore del mondo: ma esso
rimase, nonostante la sua natura cosmica, un Eros della vicinanza.
Che per essa le stelle si nutrano dei vapori della terra, ha un senso
piuà profondo di quello che potrebbe chiarire l’odierna astronomia;
ma, accanto a cioà , indica anche il rapporto di vicinanza che la misura
visiva della sensualitaà ellenica esige tra paesaggio celeste e terrestre.
La sua simbolica, in fondo elementare, paga il fascino della
determinatezza formale architettonica con una restrizione del
campo visivo dell’anima, che certamente rese possibile, essa per
prima, l’incanto di bellezza, unico nel suo genere, della sua arte dalle
figure umane, ma non meno ha accellerato l’insabbiamento del
pensiero cultuale in quello soltanto piuà logico. Forse non c’eà una
testimonianza piuà persuasiva, della dipendenza della facoltaà di
giudizio dallo «sguardo di veggente» dell’esperienza vissuta, della
riscoperta copernicana del vagabondaggio della terra. La concezione
elio-centrica, — nota ai primi greci (Aristarco, forse giaà Filolao) — fu
per l’antichitaà un «punto di vista» inverosimile, che accanto allo
schema tolemaico disseccoà , percheé non provoà mai il pathos
vertiginoso, il quale soltanto puoà dargli voce e, assieme, colmare
quella che apparentemente eà soltanto una formula astronomica con
il significato della piuà inaudita rivoluzione che, riguardo
all'immagine dello spazio, abbia finora fatto irruzione nell’animo
degli uomini! Il materialista greco sta ad occhi aperti sulla «salda
duratura terra». Il sacro boschetto, gli scogli e la costa marina si
accordano come nell’articolato imeneo, racchiusi e chiaramente
delimitati dalla raggiante campana della volta dell’«etere». La
fiamma guizza in alto negli spazi vicini, la pioggia che cade rende
feconda la terra che la riceve, il vento che daà vita, sussurrando da
93
vette annunziatrici di destino, collega la lontananza alla vicinanza, il
sopra al sotto, ed il cielo con tutti i suoi astri «pasce i suoi occhi»
nello splendore delle acque. Ogni cosa si muove e vaga, si annuncia,
si dispiega e scompare, e cosìà vive: impulsi e desideri, ricerca di
satollamento o di accoppiamento, guerra e affratellamento fanno
condensare cioà che eà aereo, sciolgono cioà che eà solido, traggono il
fuoco celeste nell’abbraccio delle paludi, mandano, come nebbia,
l’umore che nutre nella zona incandescente del sole. La fede nella
vita del tutto, nella panmixia e nell’incessante metamorfosi, nutre il
mito come i sistemi dei primissimi pensatori. Ma, nonostante questi
la abbiano liberata dai limiti della percezione ed abbiano insegnato il
circolare ritorno delle fasi polari della realtaà , si spiegherebbe in
modo non meno falso il loro stato di coscienza a partire dal nostro di
oggi, qualora si pensasse che essi abbiano mai lasciato il punto di
vista geocentrico. A cioà si opponeva la loro contemplazione dello
spazio! Si sottragga lo spazio occidentale-antico dai miti, dai simboli,
dalle dottrine di sapienza, dall’epica di Omero, dalla lirica eolica e
pindarica, dai cori dei tragici, dai templi e dalle sculture: esso ha
sempre la figura della sfera che chiude insieme, la cui metaà visibile
sta, come un tetto a padiglione, o simile alla cupola di un duomo, sul
sottostante piano del paesaggio terreno. Il sentimento della vita
degli antichi eà cosmico, ma cellulare, e prende il macrocosmo per un
microcosmo allargato. Rimane sordo alla scoperta degli Aristarchi,
poicheé il suo spazio eà la cellula macrocosmica, che tiene ogni
accadere come la brocca il getto d’acqua, o che pone le immagini del
cielo con le immagini della terra sotto il tetto della stessa casa. Lo
spazio dell’antichitaà era lo spazio di vicinanza dell’οιἶ κος; e forse che
le cose stanno diversamente per lo spazio dei «selvaggi»? Alcuni
popoli della Polinesia hanno la salda convinzione che il cielo
all’orizzonte arrivi giuà sulla terra e cosìà la tenga racchiusa, ed
esprimono tale convinzione chiamando gli stranieri «papalangi»,
cioeà «coloro che spezzano il cielo», in quanto avrebbero fatto
irruzione da un altro mondo in questo. Ma che cosa potrebbe parlare
piuà forte a favore del carattere di vicinanza di cioà che eà vissuto
94
originariamente, e come si potrebbe accordare tutto questo con una
dottrina della contemplazione che scorge il contrassegno essenziale
delle immagini proprio nel carattere di lontananza del loro
contenuto?».
Abbiamo tolto le considerazioni che precedono dalla nostra
opera principale Lo spirito come avversario dell’anima (pp. 875-878),
nella quale viene giustificato piuà espressamente cioà di cui qui
diciamo solo l’indispensabile nella forma di una risposta. Chi ottenga
il concetto di lontananza dall’«infinitaà » dello spazio copernicano e la
paragoni alla coscienza domestica dell’antichitaà , potrebbe
certamente e a ragione essere tentato di chiamare l’Eros
dell’antichitaà , in confronto, un «Eros della vicinanza». Ora peroà ,
come si mostreraà , noi siamo autorizzati, per mantenere separate
contemplazione e percezione, ad intendere l’espressione «Eros della
lontananza» in un significato piuà ampio, che consente di applicarlo al
grado cultuale di tutti i popoli e di tutte le epoche, senza eccezione.
Ma, prima, notiamo che cioà che rendeva valida l’obiezione
precedente riguarda molto meno la diversitaà tra i tempi precedenti e
posteriori che quella tra due indoli razziali, e piuà precisamente, che
riguarda la diversitaà dei gruppi di popoli greco-romani (con i quali in
questo molti «popoli primitivi» — non tutti — coincidono) da
numerose stirpi orientali, ed in particolare dai germani preistorici e
dagli indiani. Molti inni dei Veda piuà antichi per esempio, nonostante
fossero all’oscuro dello spazio copernicano, sono irradiati all’intorno
da uno splendore di lontananza delle immagini al quale neppure la
lirica eolica puoà contrapporre qualcosa di simile, per tacere poi di
Omero e dei tragici; e l’architettura indiana anticipa di piuà di un
millennio il tratto dissolvente del romanticismo paesaggistico del
tardo barocco.
Ma anche nell’antichitaà dell’occidente ci furono ripetutamente
dei singoli che spezzarono l’idea di oicos, cosìà il giaà citato Aristarco
di Samo, cosìà anzitutto Eraclito con il suo sradicamento della
staticitaà del pensiero per mezzo dell’antigreca dottrina della realtaà
95
dell’eterno fluire. Ma questo sia detto di passaggio, e adesso
torniamo a!l’«Eros della lontananza» in senso allargato.
Se l’oggetto, in quanto spostato nella lontananza, puoà divenire
almeno immagine intuitiva, direi quasi riflesso, della immagine
reale, eà altrettanto vero che, al contrario, l’immagine di lontananza
puoà spostarsi, dall’infinitaà dello sconfinato spazio mondiale, sempre
piuà vicino, e che cosìà, come vien da pensare, corre il rischio di
irrigidirsi in un’oggettualitaà isolata. Se ora ci chiedessimo se ci sia un
contrassegno che permetta di distinguere l’immagine vicina anche
dall’oggetto piuà allontanato, ci vedremmo dapprima rinviati al segno
negativo della intangibilità di qualsiasi immagine. EÈ vero che sopra
abbiamo sentito che il miste eà solito non di rado udire, fiutare,
toccare, gustare qualcosa; ma nel prossimo capitolo, e
principalmente mediante l’esempio del gusto, spiegheremo che in
questo non entra affatto in opera il tastare, bensìà una facoltaà
contemplativa interna al gusto e al tatto. Certamente in senso stretto
non si puoà toccare qualsiasi cosa che sia oggettivamente lontana,
anche solo di poco, dal corpo che tocca; ma, se prescindiamo dalle
apparizioni del firmamento, non c’eà niente di oggettivamente cosìà
lontano da non poter capitare in una vicinanza toccabile, sia per un
moto suo verso l’osservatore, sia per un moto di questo verso
l’oggetto. Se quindi alla natura del corpo terreno, tanto di quello
lontano quanto di quello vicino, appartiene la tangibilitaà , allora il
contrassegno essenziale della lontananza non apparterraà ad essa,
bensìà alle immagini del cielo, e pienamente soltanto ad ogni cosa che
sia passata temporalmente.
Vicinanza e lontananza sono i poli, che si completano a vicenda,
non solo dello spazio, ma anche e altrettanto del tempo. Noi ci
rappresentiamo una lontananza temporale per mezzo dell’immagine
intuitiva di una lontananza spaziale; ma cioà che pone quel che eà
lontano spazialmente in una intangibile «lontananza» eà la
lontananza temporale. Questa appare nella lontananza
spaziale; owero: cioà che appare nella lontananza dello spazio eà
lontananza del tempo. Detto in breve (come giaà sopra): il tempo eà
96
l’anima dello spazio. Sembrerebbe di poter chiamare in nostro aiuto,
in via eccezionale, la «scienza naturale»: infatti l’astronomia suole
insegnarci che giaà da Sirio, una stella fissa molto vicina, la luce per
raggiungerci ha bisogno di parecchi anni: percioà , guardandola,
nell’atto di percezione avremmo presente qualcosa che eà giaà passato
da tanto tempo! Pure, anche se noi non credessimo di essere certi
che giaà la scienza di domani rigetteraà come errata questa opinione
oggi popolare, si confonderebbe tutto se scambiassimo la misurabile
lontananza del corpo di Sirio dal pianeta terra col carattere di
lontananza dell'immagine di Sirio! Non parliamo della lunghezza di
miglia o di anni luce di distanze che separano i corpi, bensìà di quella
lontananza (in certo modo, della lontananza «in seé ») che viene
scorta immediatamente (e quindi in modo preconcettuale) nella
contemplazione dell'immagine.
Il lettore immagini di essere sulla riva del mare a riposare,
abbandonato senza altri pensieri all’estremo orlo dell’orizzonte,
indicato da una nebbiolina di vapore: ed ora, nella successiva
riflessione, confronti il sentimento che accompagna la profonditaà
spaziale che ha vissuto con l'esser sprofondato nelle immagini del
ricordo di una gioventuà che non puoà tornare: se egli ha il dono di
saper scrutare nei regni dell'interno, li troveraà simili tanto da poter
essere scambiati. Cioà con cui, irraggiungibile, il profumo di
lontananza dell'orizzonte colma il cuore di tormentosa nostalgia,
eccitando dolorosamente e allo stesso tempo dolcemente placando,
eà la non più tangibile realtaà di cioà che eà passato; e cioà per cui,
nell'immagine interiore, una cosa trascorsa da lungo tempo si
distacca, come fuggita lontano, da cioà che eà appena accaduto ed eà
ancora vicino nel tempo, eà l’incomparabile azzurro di lontananza
della profonditaà dello spazio. Simile a nuvole che vagano attorno a
cime innevate, e con lo splendore illusoriamente lontano delle stelle,
l’etaà originaria eternamente scorre davanti allo sguardo di chi
involontariamente si eà trovato prigioniero di tali immagini.
Ricordiamo ancora una volta la rivelazione mistica: l’esterno eà un
interno elevato allo stato di mistero.
97
Ma giaà si annuncia la nuova obiezione: se la vicinanza temporale
e spaziale e la lontananza temporale e spaziale possono essere, per
quanto riguarda l’essenza, rispettivamente la stessa cosa, percheé cioà
che eà spazialmente lontano deve apparire assolutamente nella luce
del passato e non altrettanto in quella del futuro? Secondo il
linguaggio cioà che eà passato sta dietro di noi, cioà che eà futuro
davanti: il tramonto ci rammenteraà quello, l’alba questo. E poi,
Eichendorff non disse, nel suo canto, che la lontananza parla di una
futura felicitaà ? Per non allontanarci dall’oggetto principale,
dobbiamo accontentarci di accenni nello spiegare percheé la
lontananza del tempo passato viene pensata come posta dietro di
noi; ciononostante speriamo di persuadere il lettore che qualcosa
come un lontano futuro assolutamente non c’eà nella realtaà .
Spazio e tempo, appartenendosi polarmente, hanno questo in
comune: che ognuno di essi eà disteso tra i poli della vicinanza e della
lontananza. Come eà certo che la vicinanza spaziale eà solo una (e, per
l’essenza, = toccabilitaà ), indifferentemente dal luogo dove io mi
fermo, e parimenti la lontananza spaziale eà soltanto una,
indifferentemente dal fatto che io guardi a est o ad ovest, a nord o a
sud, eà altrettanto certo che, in rapporto alla vicinanza temporale, c’eà
anche una sola lontananza temporale. Se ce ne fossero due, se cioeà
accanto alla lontananza del passato ci fosse anche una lontananza
del futuro, il carattere di lontananza del punto di vista davanti a me
sarebbe in qualche modo opposto per specie al carattere di
lontananza del punto dìà vista dietro a me. Ma poicheé eà innegabile il
contrario, la duplicitaà della lontananza temporale eà stata inventata, e
una delle due dev’essere una chimera! Ma noi dobbiamo ritenere
tale il futuro, per il motivo che segue. Se io mi ricordo il passato, mi
ricordo di una realtà che eà stata; se invece penso a qualcosa di
futuro, penso a qualcosa di non reale, o meglio a qualcosa che esiste
soltanto nell’essere pensata. Se in un attimo svanissero tutti gli
esseri pensanti, il passato realmente avvenuto rimarrebbe
esattamente quel che era prima; mentre il nome «futuro»
perderebbe completamente il suo senso appena mancassero esseri
98
con il pensiero del futuro. Il futuro non si rapporta al passato come
una lontananza temporale ad un’altra, opposta, lontananza
temporale, bensìà come un mero concetto alla realtaà , ovvero: il futuro
non eà una proprietaà del tempo reale.
Forse ci si opporraà che reale eà soltanto l'accadere presente, ma
che come questo certamente eà stato determinato anche
dall’accadere passato, cosìà a sua volta forma nuovamente la
condizione preliminare dell’accadere futuro. Che inoltre numerosi
impulsi alla cura non lascerebbero dubbio che giaà lo stato di vita
animale sia connesso intimamente tanto col futuro quanto col
passato (esempio: la nidificazione, da parte degli uccelli, per il tempo
dell'accoppiamento). Che chi percioà concede realtaà al passato non
puoà negarla al futuro. A questo dovremmo ribattere che una cosa eà
la necessitaà nel prosieguo dell’accadimento, e un’altra eà
l’anticipazione nel pensiero di un presente che non eà ancora qui; e
ancora che questa non sta affatto sullo stesso grado con il pensiero
mediante il quale io mi riferisco a qualcosa che realmente eà stato.
Del resto, senza contrappesare valori di certezza, ognuno deve
comunque sapere e riconoscere che non c’eà nessun evento collocato
nel futuro del quale non si potrebbe pensare che, invece di accadere,
esso non accadraà . Se l’esperto degli astri ci predice l’eclissi di luna
fino alla frazione di secondo, noi non dubitiamo che essa accadraà e
proprio nel punto del tempo che eà stato determinato; peroà non
sarebbe impossibile pensare che, prima che essa accada, tutto
l’universo per noi visibile vada in pezzi. Sarebbe invece impensabile
che l’eclissi di luna che c’eà stata ieri non ci sia stata. Chi non si
persuade per gli esempi fisici, ne scelga dal campo della vita. Noi
possiamo sperare che il nostro amico riesca in una difficile impresa,
e possiamo temere che non ci riesca; ma per lui non abbiamo niente
piuà da sperare e niente piuà da temere, dopo che egli vi ha trovato la
rovina. Ma se il futuro eà popolato dal gioco di ombre di timori e
desideri umani, allora eà esso stesso qualcosa di non reale,
meramente pensato, una chimera. E se, al contrario, perfino i
desideri piuà appassionati devono infrangersi impotentemente
99
contro cioà che irrevocabilmente è accaduto, in tal modo il passato si
dimostra colmo di realtà fino all’orlo. Passato e presente, e non
passato e futuro, sono i poli del tempo, e la lontananza temporale
coincide esattamente con la lontananza del passato. «La natura eà
schietto passato» (Novalis). Nel linguaggio «fern» (lontano), vicino
etimologicamente a «firn» (= dell’anno passato), originariamente era
usato soltanto a proposito di cioà che era trascorso, e perfino con lo
stesso senso di «di prima, di una volta, vecchio».
L’umanitaà prometeica, che precedette immediatamente quella
storica, innalzoà il futuro allo stesso grado di realtaà del passato, cosa
sulla quale torneremo; quella eracleica della «storia mondiale»
uccise ed uccide con la chimera «futuro» la realtaà di cioà che eà stato,
priva del noccioio l’attimo annientando il suo contenuto di passato, e
lacera il fecondo nesso di vicinanza e lontananza per porre al suo
posto la relazione ahasverica del presente a quello spettro di
lontananza che si chiama futuro. Alla fine essa avraà perduto
totalmente il suo passato: ma nello stesso istante avraà anche
annientato se stessa, percheé saraà privata del presente: infatti
soltanto in immagini di cioà che eà stato il tempo si realizza ed appare.
«Soltanto il passato continua a splendere, come talvolta sul mare le
navi trascinano dietro di seé una strada luminosa». (Jean Paul). Le
«escatologie» e le «apocalissi» sono l’espressione piuà terribile della
pazzia che si chiama «storia». Ma di cioà diremo piuà tardi
l’indispensabile, e qui aggiungeremo solo poche parole ancora su cioà
che eà «davanti e dietro» a noi.
La realtaà eà eterna, ed il tempo reale eà il pulsare dell’eternitaà , per
il quale ogni presente, per l’attimo che viene, ne scaccia uno del
passato, che scivola vìàa. In rapporto al sovrastante ponte dell’Ora
(Jetzt), il tempo eà una corrente con direzione dal futuro nel passato.
Se ci volgiamo verso quel lato, ci sembra che ogni attimo arrivi —
«kùnftig» (= futuro, agg., N.d.T.) eà linguisticamente la stessa cosa che
«kommend» (= venturo, agg. N.d.T.) —; ma se ci volgiamo verso
questo, ci sembra che vada via. Il fondamento vitale della possibilitaà
della coppia di concetti passato-futuro eà in questo, che il presente,
100
sempre istantaneo, puoà essere vissuto tanto come tempo che viene
quanto come tempo che sfugge, se ne va, passa. Poicheé abitualmente
non camminiamo all’indietro, e comunque a lungo andare mai,
l’estensione verso avanti eà la direzione nella quale camminiamo o
potremmo camminare, quella verso indietro eà la direzione dalla
quale veniamo. Se procedendo fissiamo con lo sguardo un qualsiasi
punto lontano, esso ci si avvicina sempre piuà , mentre in egual
misura cresce la distanza tra noi ed il punto lontano alle nostre
spalle. Quello eà qualcosa che viene, questo eà qualcosa che svanisce
ed infine passa; quello eà il simbolo dell’attimo che viene, questo di
quello che sfugge (ed allo stesso modo, come ognuno vede, il sorgere
del sole si rapporta al suo tramontare). Ma, con tutto questo, la
lontananza resta una, e sempre la stessa. Non l’abbiamo raggiunta
neppure quando abbiamo raggiunto quel punto lontano, che anzi col
suo essere raggiunto eà divenuto subito vicinanza, estrema vicinanza.
Ma poicheé infine non possiamo invertire la direzione del tempo, e
continuiamo incessantemente ad allontanarci da cioà che eà appena
accaduto, mentre ogni attimo pensato verosimilmente come futuro
prima o poi arriva e diviene presente, soltanto ciò che è stato puoà
assolutamente stare in reale luce di lontananza. Rimarrebbe ancora
da chiarire percheé anche il futuro possa talvolta rappresentarsi con
la apparenza della lontananza, come per esempio in quella strofa di
Eichendorff. La risposta eà : l’anima dell'immagine di lontananza che
abbiamo scorto eà sempre lontananza del passato; come esseri
pensanti siamo peroà in in grado di trasportarla nell’estensione dello
spazio che si trova davanti a noi: il futuro eà passato proiettato in
avanti. Questo vale anche del concetto di futuro (propriamente
atemporale) delle scienze naturali. Non c’eà nessun calcolo del futuro
il cui materiale non venga totalmente da un’interpretazione
concettuale dìà cioà che eà passato. Se l'astronomo predice esattamente
nel tempo l’eciissi di luna, certo non lo fa grazie ad una mera legge di
verisimiglianza che si baserebbe sulla registrazione delle distanze
temporali delle precedenti eclissi di luna: ma le forze e gli elementi
dell’orbita ed i tempi di rivoluzione sui quali egli si basa sono tutti
101
quanti messi insieme dall’osservazione di movimenti degli astri che
si sono giaà verificati. E con questo al riguardo basta.
Per trovare l’essenza dell’estasi, abbiamo dovuto trovare
l’essenza della contemplazione, e, a tal scopo, distinguere nel modo
piuà determinato il carattere di lontananza dell’immagine della
contemplazione dal carattere di vicinanza della cosa della
percezione. Ma tutto cioà che si eà detto al riguardo sarebbe rimasto
un’opera imperfetta e soggetta a fraintendimenti senza una
spiegazione metafisica sull’essenza della lontananza, della quale ora
abbiamo accertato che essa eà in seé passato, sebbene giunga ad
apparizione nella lontananza dello spazio. E cosìà, le immagini
originarie sono immagini di cioà che eà stato (di qui penetroà
nell’erotismo platonico il pensiero dell'anamnesi), e la
contemplazione estatica, in opposizione all'atto di percezione, eà
rivolta alla realtaà , assolutamente intangibile, di cioà che eà passato.
Che l’immagine dello spazio sia geocentrica o «infinita», l’Eros della
lontananza si conferma genuino nel suo splendere nella visione del
mondo passato. Nello specchio della dottrina dell’essenza il vicino eà
sobrio e fa rinsavire, ed eà inebriante soltanto il lontano; il presente eà
vicino, e solo il passato eà lontano; e questo eà il senso, certamente
extrarazionale, dello stato della contemplazione: esso «rapisce» laà
«dove non si puoà arrivare», nel mondo materno di cioà che eà stato,
ovvero riporta gli «spiriti» di chi eà morto da tempo. Nessun Platone,
nessun Plotino, nessuno Schopenhauer vide questo! Sedotti dal
fuoco fatuo del logos, i filosofi scambiarono l’eterno con l’atemporale
limite del tempo, o con il vaneggiamento di una durata senza fine, e
cercarono di ottenere con l’intelletto cioà che invece si dona soltanto
alla devozione sacrificante, e, commettendo empietaà contro
l’immagine meravigliosa di un tutto che partorìà anche loro,
cercarono al di là di esso, come se fosse un secondo mondo
oggettivo, ma arredato piuà comodamente, cioà la cui apparizione
splende soltanto al contemplante nell’azzurro notturno della
lontananza del passato. Ma tra i poeti alcuni lo seppero, e cosìà
Goethe.
102
Versinke denn! Ich kónnt' auch sagerr. steige!
’s ist eìnerlei. Entfliehe dem Entstandnen
In der Gebilde losgebundne Ràume!
Ergòtze dich am làngst nicht mehr Vorhandnen
103
anche se, con Faust, dovesse confessare:
104
che potraà chiarire per l’ultima volta quale sia l’essenza della
lontananza, e inoltre il motivo per il quale l’Eros del quale trattiamo
eà un Eros «cosmico».
Tutto cioà che eà spazialmente lontano, come abbiamo visto, può
giungere nella vicinanza, eccettuati soltanto gli astri. Se l’occhio per
mezzo di ben levigate lenti puoà spingersi per migliaia di anni luce in
fondo alle fauci dello spazio, e catturare nella camera oscura la copia
di miriadi di stelle in luoghi del cielo dove prima si stendeva per esso
solo una vacuitaà priva di luce, se possiamo descrivere i valli circolari
dei crateri della luna fino a misurarne l’altezza, se possiamo
analizzare chimicamente i materiali dei soli e di altri mondi, noi
abbiamo «presente», ora come allora, sempre e soltanto
l'apparizione delle stelle, mai la loro — meramente dedotta —
corporeitaà . Percioà le stelle, che non possono essere bramate, e la loro
presenza, splendono, se ci eà concesso un gioco di parole per
illuminare quello che c’eà di paradossale in questo, «per la loro
assenza»! — Ma se quindi nessun simbolo del tempo passato
potrebbe essere piuà persuasivo dello splendore delle stelle nella
notte, allora noi non solo capiamo il brivido sublime che attraversa
ogni osservatore ancora aperto al mondo alla vista della volta
sfavillante, ma comprendiamo anche percheé per il sentire originario
le stelle erano ora anime di chi era stato, ora luoghi della loro sosta,
sempre peroà cori del mondo antico, passati un tempo sulla terra ed
ora splendenti nell’eterno, ai quali ogni mutamento terreno restava
avvinto. Cosìà certamente ha ragione Bachofen quando nota che
l’asserzione di Aristotele, nella Metafisica, per la quale «il moto
circolare dei pianeti produce tutte le apparizioni» eà un «pensiero
originario dell’umanitaà , che dominoà completamente le concezioni
del mondo antico»14; ma egli aveva ragione percheé le immagini di
lontananza degli astri allora erano potenti demoni, ed i demoni a
loro volta «spiriti» di un mondo dei primordi. A tutto questo non
contraddice il loro altrettanto originario carattere infero, per il quale
essi abitano nell'interno della terra. Infatti, a parte che al «ctonismo»
si contrappose polarmente l’«uranismo» originario, e nient’affatto
105
ostilmente, la trappola della spiritualizzazione si impadronìà in
principio non delle notturne stelle ma del giorno e del sole che in
esso culmina; per cui parla ancora l’interioritaà di un’umanitaà che,
anche se privata del divino, si sapeva ancora nella vicinanza degli
dei, quando su una tavoletta aurea orfica l’anima dell’iniziato
testimonia cosìà di se stessa: «sono figlia della terra e del cielo
portator di stelle». Gli esempi che prendiamo tra innumerevoli altri,
quasi senza sceglierli, in parte dall’antichitaà , in parte dai «selvaggi»,
non lasciano dubbi che il culto degli astri sta ovunque sotto il segno
dell’Eros per il tempo passato, e ci insegnano inconfutabilmente con
quanto maggior forza l’uomo contemplante sia stato determinato
dalla intangibile lontananza delle immagini che dalla vicinanza dei
corpi che poteva afferrare.
Nessuna dottrina utilitaristica ci ha potuto spiegare percheé nei
costumi e nelle leggende di popoli pelasgici cosìà arretrati, quali
possiamo vedere in alcune delle stirpi negre, nei Boscimani, nei
Botocudo, negli abitanti della Terra del Fuoco, nei Puri, negli
australiani originari, accanto alla simbolica per esempio dello spiedo
da caccia, dell’arpione, della lesina, del fiasco fatto d’una zucca, e poi
dello sciacallo, della civetta, del rospo, della volpe, dell’orso, e del
tatuaggio, dello scongiuro e della fattura, della regola mensile delle
donne, dell’accoppiamento, del parto e dìà quanti altri simili casi
vicini e «troppo umani» ci sono, giochino peroà senza eccezione un
ruolo che non si puoà spiegare soltanto col timore le immagini di
lontananza degli astri, anche se certo non sul piano dell'astronomia;
e la conoscenza degli astri, davvero sproporzionata, che troviamo
presso i geniali popoli pelasgici dei cinesi, dei sumeri, degli assiri,
degli egizi, degli inca, degli aztechi, all’inizio della loro storia
conosciuta, dovrebbe — paragonata all’ottusitaà , nei confronti delle
stelle, dell’europeo di oggi — render certo all'istante chi non sia
prevenuto che dobbiamo rinunciare una volta per tutte a ritrovare,
nello spirito a noi familiare dell’espansione e conservazione del
proprio interesse particolare, gli stimoli di pensiero di una ricerca
mitica. I capi degli abitanti dell’antica Virginia proseguivano la loro
106
vita nella terra «al di laà del tramonto del sole». Nello stesso posto,
nel mare d’aria ebbro di colori dell'occidente, c’era per i greci l’«isola
dei beati». I polinesiani di Tokelan vedevano nella luna la dimora dei
loro defunti re. Plutarco nel suo trattato «Del volto che appare nel
disco della luna» ritiene che tutte le stelle siano «dei che appaiono in
cielo», ed in particolare che la luna sia la regione di Persefone e
l’«elemento delle anime». «Percheé esse vengono in essa discioite
come i corpi dei morti nella terra». Sulla faccia che non eà volta verso
la terra, ma verso il cielo, ci sarebbe la «pianura elisia». I Winipeg,
del Nord America, chiamavano la via lattea il «sentiero dei morti». In
cielo piantano le loro tende le anime dei groenlandesi, dove si curva
l’arcobaleno. Secondo la fede degli esquimesi, tutte le stelle furono in
tempi antichissimi uomini o animali. Nella zona di Orione essi
scorgevano una schiera di cacciatori di foche che avevano smarrito
la via del ritorno. Gli indigeni della Terra di Van Diemen erano soliti,
nelle notti chiare, indicare al forestiero la loro coppia di Dioscuri di
due stelle che avevano portato ai loro antenati il fuoco. I faraoni, i re
Sassanidi, gli imperatori romani, si chiamarono «fratelli del sole e
della luna», e dopo la loro morte tornavano laà donde erano discesi,
nel cielo stellato. Una cometa, alla morte di Cesare, fu interpretata
come la sua anima; come, del resto, presso quasi tutti i popoli della
terra, delle stelle che brillino all’improvviso, e specialmente le stelle
cadenti, sono anime che recano minacce o felicitaà . Plinio parla della
societas coelìà nobiscum!
L’Eros per il tempo passato eà Eros della lontananza che, in
quanto si accende per immagini prive di corpo, pone il contemplante
in connessione con l’intangibile mondo degli astri, facendo in tal
modo percorrere dal pulsare del ritmo del tutto la vita terrestre di
coloro che sono ancora presenti nella luce: ecco percheé i suoi
portatori furono letteralmente esseri «cosmici», e furono cioà che essi
si dissero ai piuà alti gradi iniziatici: figli del sole. Il riflesso di tutto
questo nella coscienza dei sapienti splende verso di noi da una tarda
iscrizione tombale dell’antichitaà , la quale — anche se giaà divide i poli
ed annuncia il distacco del mondo superno da quello infero —
107
esprime tuttavia radiosamente, nei versi di chiusura, l’antichissimo
brivido di beatitudine di quella parentela con le stelle che a noi eà
estranea.
108
1 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it. di P. Savj-Lopez e G. Di Lorenzo, Bari, 1972, pp. 270-272.
2 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it. di N. Palanga, Milano 1969, pag. 220.
3 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad,
it. Palanga, cit., pag. 221.
4 Schopenhauer, II mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it·. di Savj-Lopez e Di Lorenzo, cit., pag. 254.
5 Goethe, II Faust, trad. It. di G. Manacorda, Firenze 1949, vv
6447-6448.
6 Goethe, Il Faust, trad. It. cit., vv. 6006-6012
7 Goethe, II Faust, trad. it. cit., di G. Manacorda, Firenze 1949 pp
6275-6278.
8 Goethe, II Faust, trad. it. cit., vv. 6431-6434.
9 Goethe, II Faust, trad. it. cit., vv. 6223-6224.
10 Goethe, Il Faust, trad. it. cit., vv. 7738-7739.
11 Goethe, Il Faust, trad. it. cit., vv. 9413-9414.
12 Nietzsche,La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Milano 1971,
pag. 35.
13 Allusione alla lirica giovanile di Nietzsche Dem unbekannten
Gott (Al Dio ignoto). (N.d.T.)
14 Ci sembra probabile che qui Klages si sia ricordato di
Hoà lderlin: «Voi avete perduto la fede in ogni grandezza. E allora
dovete scomparire, se questa fede non torna, siccome una cometa da
cieli stranieri». (Hoà lderlin, Iperione, trad. it. di G.A. Altero, Torino
1960, PAG. 62). Ma eà ancor piuà probabile un riferimento alle parole
del barone Karl von Gersdorff su Nietzsche, l’amico della sua
giovinezza: «Etoile qui file, file et disparait» (N.d.T.).
109
VI. Del culto degli antenati
111
Bachofen): «Viene data maggior cura alle abitazioni dei morti che a
quelle dei vivi; essi considerano queste come alloggi per una breve e
fugace sosta, e le tombe soltanto come le vere e durature sedi di
abitazione per i tempi eterni».
112
originario invece, al quale il mondo meramente esistente si
nascondeva ancora come un’ombra dietro al mondo di anime di
viventi immagini, non conobbe neé l’uno neé l’altro. Egli era ancora
troppo poco persona percheé il pensiero dell’esistenza, anche solo in
relazione al proprio io, avvicinandolo potesse imbavagliarlo e
determinarne i costumi come fa con l’uomo d’oggi. Come eà certo che
tutto per lui, fosse uomo o cosa, «esisteva» direi quasi di passaggio,
altrettanto certamente per lui assolutamente non viveva soltanto
l’uomo, ma anche la cosiddetta morta cosa, e perfino la «materia»
della quale essa consiste (una parola, non lo si dimentichi, che deriva
da mater = madre, dunque dal simbolo della fonte originaria). Anche
per lui certamente il morire era un evento violento, ma non era
annientamento dell’esistenza, bensìà mutamento di vita. Non si
«moriva» allora nel nostro senso, percheé non c’era ancora niente di
essenzialmente morto nel nostro senso. Per comprendere il nesso
tra lo stato della contemplazione e l’eternizzazione della vita,
bisogna prima aver approfondito al massimo l’invalicabile baratro
che separa la concezione della morte delle origini da quella del
presente. Per una volta, le mostriamo percioà alla luce del mondo
delle origini. Ogni genuino aderente alla religione spirituale del
cristianesimo crede ad una immortalitaà dell’anima personale. Ma se
da un parroco cattolico, o da un pastore protestante, arrivasse un
contadino della comunitaà a dirgli che sulla tomba di suo nonno ci
sono gli spiriti, che cioeà laà attorno vaga la sua anima, il «curatore
d’anime» insegnerebbe che l’anima del nonno si trova nell’«aldilaà », o
nel «cielo», e percioà non puoà vagare all’intorno, da nessuna parte. In
tal modo la fede nell'immortalitaà respinge le anime via dal mondo, le
rende, da «potenti anime», «povere anime», e scredita come
superstizione la totalmente opposta fede nelle anime. Il cattolico
conserva ancora nell’estrema unzione, nella celebrazione della
messa e nella festa dei morti alcuni resti della cura dei morti
dell’antichitaà . Per il protestante, cioeà per il cristiano perfetto, la
polvere ritorna polvere, lo spirito ritorna spirito, mentre l'anima
perde, con il di qua, anche il di laà , ed infine l’ultima patria larga un
113
piede. Non rintracciabile neé sulla terra neé su uno dei mille astri, essa
non dimora in generale nello spazio, bensìà nel non-qui, nel «luogo
iperuranio», nell’«aldilaà ». Cosìà, conseguentemente, diventa affare
dell’arbìàtrio di una tenera «pietaà » cioà che eà stato al centro del culto
delle anime degli antichi: la cura per la salma, per la tomba, per la
cenere! Arte e cultura del mondo antico prosperarono sul suolo del
culto delle tombe, percheé esse non conobbero nessuna immortalitaà
dell’anima, bensìà la sua incessante presenza; tutta la cristianitaà che
crede nell’immortalitaà scorge nella salma soltanto un cadavere, nelle
tomba un luogo che dopo trenta o quarant’anni si puoà arare
nuovamente, per un uso utile, e nell’avo che eà stato un tempo vede un
essere pienamente impotente, in quanto morto, e che in nessun
modo mette piuà le mani nelle lotte di interessi dei vivi. Spostare
l'anima, come immortale, nell’aldilaà , significa derubarla della sua
patria mondana, renderla un’anima «dipartita», e, cosìà, annientarla.
Certamente non fu il cristiano in lui, ma il miste pagano, che suggerìà
al poeta questi versi:
114
[Noi morti, noi morti siam schiere maggiori / di voi sulla terra, di
voi sul mare! / Noi arammo il campo con azione paziente, / voi
brandite le falci e mietete il raccolto, / e ciò che voi avete compiuto, e
noi incominciato, / colma ancora lassuà le mormoranti fonti, / e tutto
il nostro amore, e il nostro odio, e i nostri contrasti, / pulsano ancora
lassuà in vene mortali, / e a cioà che abbiamo trovato in validi
principi / rimane legato ogni mutamento terreno, / e i nostri canti, le
nostre creazioni, le nostre poesìàe, / ottengono l’alloro nella luce
mortale; / noi inseguiamo ancor sempre le mete umane, / percioà
onorate e sacrificate: percheé noi siamo molti!].
115
puoà fare a meno di ammetterlo neppure chi per il resto nega
fondamentalmente ad un fantasma qualsiasi pretesa di realtaà . Gli
studiosi di miti che fanno derivare completamente la fede nelle
anime del mondo origina rio dalla vita di sogno sono pur sempre
giunti un po’ piuà vicini alla veritaà che i sostenitori del punto di vista
della sua provenienza dalla percezione del morire. Noi cioeà , che non
siamo poeti, possiamo soltanto, per mezzo di un considerazione dei
nostri sogni, tentare di riflettere almeno su questo: che per gli
uomini originari erano sensualmente presenti delle anime, proprio
come per noi le cose percepite. Ma di nuovo sbaglieremmo se
volessimo comprendere lo stato di coscienza dell’etaà originaria a
partire dall’ammissione di sogni piuà ricchi, e di un piuà vivo ripensare
ad essi. Non si tratta tanto dei sogni notturni quanto di questo, che io
stato di veglia dell’uomo di quel tempo si lascia paragonare molto
piuà al nostro sognare che al nostro esser desti; e ciononostante non
coincide affatto con lo stato del dormire.
Abbiamo ripetutamente detto che la contemplazione trasforma il
contemplante; e cioà denuncia manifestamente la sua estrema
opposizione rispetto all’atto di percezione, che stacca colui che
percepisce dalla cosa percepita e che, esso solo, lo assicura del suo
limitato esser per seé . Ora riportiamo, dal frammento, apparso da
decenni, del nostro lavoro «Della coscienza di sogno», alcune
proposizioni che cercano di mostrare il contrassegno essenziale
delle immagini, la loro mutevolezza, a partire dalla comune
esperienza del sogno, e che per questo sono adatte per introdurre
alla coscienza della realtaà propria di chi contempla, la quale suole
sorprendere fino allo sbalordimento il portatore dello stato di veglia
pensante.17 Le premesse sono che anche nello stato di veglia ci sono
degli stati d’animo di sogno, e che un segno di essi eà nel sentimento
della fugacitaà di cioà che si eà vissuto. Al riguardo, si dice:
«Collegandoci al terzo punto, alla trascinante fugacitaà del reale per
colui che eà nella disposizione del sogno, incontriamo una proprietaà
del sogno che eà stata sottolineata da tutti gli osservatori, e che peroà ,
a quanto ci sembra, non eà stata considerata da nessuno fino in
116
fondo: la mutevolezza di tutte le formazioni di sogno. La strada sulla
quale io ho appena viaggiato in sogno si eà trasformata, nell’attimo
successivo, in un canale, la carrozza in un vascello, e giaà si sono
ritirate anche le pareti di casa e io viaggio, nel porto, tra numerose
navi; e di tutto questo non mi stupisco, e non ho nessun sentimento
di una mancanza di connessione nella successione degli accadimenti.
Se prima abbiamo fatto derivare la predilezione del pensiero mitico
per le atmosfere nebulose dalla fuggevolezza della realtaà di sogno,
ora troviamo il fondamento di questa disposizione d’animo nella
capacitaà di ogni apparizione di sogno di trasformarsi in qualsiasi
altra; e, per quanto riguarda il mito, troviamo il motivo della sua
varietaà nella necessitaà di sapere gli dei, i demoni, le fate, gli elfi e gli
altri spiriti forniti della stessa dote. EÈ comune a tutti loro tanto il
cambiare la figura quanto il trasformare nemico o amico, cose,
animali o uomini. Ovidio colse con mano felice il nocciolo di tutti i
miti e le fiabe quando scelse le stazioni del suo attraversamento
poetico di essi dal punto di vista delle «Metamorfosi», anche se non
gii riuscìà poi di tradurne in linguaggio letterario il fenomeno
fondamentale. Anche riguardo al sentimento della caducitaà (sempre
di chi eà nella disposizione del sogno), noi comprendiamo almeno in
parte le sue cause in cioà che capita a chi sogna, che improvvisamente
crede di essere egli stesso trasformato : e in questo scorgiamo un
appoggio per la nostra accezione della relazione tra l’avvenimento
del sogno e l’«anima». Cioà che cioeà i dominatori del sogno, gli dei,
sono in grado di fare, deve poter capitare all’anima che sogna,
volente o nolente: disperdersi in tutta la molteplicitaà delle figure
delle cose, e divenire intimamente una cosa sola con pietre, piante,
animali, uomini e strumenti. Particolarmente come conseguenza di
questa logica del pensiero di sogno, che in molti luoghi si condensoà
nel dogma del vagare delle anime, lo spirito legato al sogno
fondamentalmente non conosce niente di non animato e di
meramente meccanico, e anzi animali, piante e cose «morte» gli
«parlano», ed esso in ogni attimo condivide il destino dei mondo che
lo circonda. E, di nuovo, eà la costrizione alla scelta di cioà che anche
117
come cosa eà mutevole che ha determinato le tipiche forme
dell’anima: l’ondeggiante respiro, la luce vacillante e la fiamma
(nella leggenda tedesca come uomini del fuoco, fuochi fatui, fiaccole
delle streghe), l’acqua delle fonti e dei fiumi, dalla quale sussurrano
voci profetiche, il pulviscolo atmosferico attraversato dal sole; e tra
gli animali invece quelli che volano o che sfuggono senza far rumore,
e quindi l’uccello, il pesce ed il serpente, la svolazzante farfalla,
l’inquieta ape, il lupo predatore, l’agile donnola, il veloce topo, il
quale cosìà spesso fugge via dalla bocca di chi dorme allorcheé l’anima
comincia il suo peregrinare. Portare il principio della trasformazione
e con esso le anime in potere dello spirito desto del giorno eà
l'antichissima meta di tutti i teurgi ed evocatori di spiriti, e una delle
radici protoetniche della mistica, la cui forma originaria, non
guastata da nessuna impostura spiritualizzante, possiamo vedere
nell’autotrasformazione di eroi germanici in lupi mannari e
furibondi guerrieri, e nella trasformazione in demoni dei danzatori
di Ceylon, o in quella del miste di Sabos nel tìàaso del delirante dio-
toro. Il mito greco — e del resto non solo esso— ha visto questo
principio della trasformazione nella figura di un dio, e, s’intende, di
un demone acquatico, cioeà di quel vecchio marino Proteo, amico
delle foche, del quale l’Odissea narra che, catturato da Menelao e dai
suoi compagni, si trasformoà subito in un leone, e, poicheé essi non lo
lasciavano, successivamente in un leopardo, in un drago, in un verro,
in fluente acqua e in un albero che si innalzava fino alle nuvole,
prima di cedere, vinto, la sua infallibile prescienza del futuro.
Conformemente al suo nome, in quanto eà il demone classico dell’arte
mitica della trasformazione, a buon diritto assegniamo carattere
proteiforme alla realtaà del sogno».18
Se prima abbiamo paragonato lo stato di veglia dell’uomo
contemplante al nostro stato di sogno, le ultime proposizioni
lasciano giaà indovinare qualcosa del violento mutamento nell’intera
sua concezione della vita, noi suo criterio di veritaà , nel suo pensiero
e nel suo agire. «A stento si puoà ancora fare un paragone con cioà che
noi intendiamo per «fede», (in quanto per fede noi intendiamo una
118
fede in solidi dati di fatto), quando per esempio l’inno vedico, senza
sentire la contraddizione, pensa il demone de! fuoco Agni come
sorto dal cielo, dall’acqua, nelle foreste, nella roccia, nell’albero, dei
gamos dei legnetti sfregati per accendere il fuoco, nel «grembo
materno dei burro»; e poi ancora lo fa rapire dall’alto, come il fuoco
di Prometeo, da un eroe antichissimo; e quando lo chiama ora toro,
ora rosso destriero, ora «lingua splendente degli dei», o bocca con la
quale essi consumano il pasto sacrificale. Ci si sente tentati di non
ritenere tutto questo altro che una selvaggia poesia naturale, quando
gli spiriti della tempesta, i Marut, impazzano, mungono le mammelle
del cielo e riempiono la terra di latte, suonano lo zufolo della
tempesta, saccheggiano il mare di nubi come il bruco fa con l’albero,
come elefanti spezzano le foreste, e si avvicinano con «tuono
leonino» cosìà che la terra vacilla come una nave. Abbiamo giaà visto
quanta parte abbia in questo fa genuina poesia. Intanto, non
dimentichiamo che tutti gli spiriti non soltanto vengono lodati, ma
vengono anche onorati con ricchi sacrifici, e che vengono placati e
attirati con un rituale che accompagna con le sue cerimonie e le sue
esigenze l’intera vita umana. E non dimentichiamo neppure che il
significato delie immagini, che apparentemente sono solo degli
ornamenti ma in realtaà sono discriminanti, ritorna in gran parte in
diffusi usi di magia, la qual cosa sarebbe certamente priva di senso
senza la fede nella loro realtaà . EÈ vano cercare di comprendere gli
ondeggiamenti onirici dalla prospettiva della coscienza desta.» 19
Perfino nella fiaba, nell’infantile germoglio secondario della vita
contemplante, che venga dall’india o dall’Arabia, dall’Oceania o dalla
Germania, l’avvenimento viene rapito allo spazio proprio del nostro
stato di veglia dallo slancio, segretamente immanente a tutti gli
oggetti e a tutti gli esseri, verso fulminei scambi di figura: e cosìà le
foglie marce diventano oro, il brutto ranocchio diventa un magnifico
principe, e l’assassinato risorge ancor piuà bello dalle sue ossa
scarnificate! L’indiano d’America non chiamerebbe mai il suo
animale totemico, per esempio il lupo, «il primo uomo», se egli non
119
avesse realmente vissuto, grazie alla contemplazione estatica, il
trasformarsi di un lupo in un uomo, o quello di un uomo in un lupo.
Nervo cardiaco del pensiero contemplante eà la certezza vissuta
della mutevolezza del mondo delle apparizioni. Ma allora anche il
morire rientra sotto il concetto di trasformazione. E infatti non eà
difficile determinare, seguendo fino in fondo la logica di sogno dello
stato originario, quale ruolo giochi il morto rispetto al vivo. Colui al
quale fu dato di uscire, grazie alla contemplazione estatica, nella
intangibile lontananza, una volta tornato in seé vive soltanto piuà
come catena dell’anima l’eterno qui del tangibile corpo. La sua
anima, che ne era volata via come un uccello, eà stata riportata da fili
invisibili al luogo, che saldamente incatena, e alla limitata vicinanza.
Se essa strappasse quei fili, otterrebbe, invece di una libertaà a
termine e di una trasformazione revocabile, il destino di un
vagabondaggio libero da legami e di una illimitata mutevolezza: un
destino che certo eà profondamente problematico, in quanto
promette cosmica pienezza di vita e in pari grado minaccia un arduo
errare. Ma essi si spezzano realmente nella morte, cheà
indubbiamente allora l’anima ha lasciato la salma, ed eà abbandonata
all’infinita possibilitaà dell’assumere figura nell’immensitaà dello
spazio. In questo si fonda principalmente la sua potenza demoniaca;
ma di qui, come vedremo, cresce per lei d’altra parte il pericolo di
perdersi, estraniata.
Utilizzando la locuzione del filosofo Plotino, che parla della
materia come «ricettacolo delle immagini», possiamo dare la
seguente formula: l’anima di chi vive eà un’immagine legata alla
materia, l’anima del morto eà l’immagine libera dalla materia.
Divenuta del tutto immagine, quest’ultima ha del tutto la forma di
realtaà dell’apparizione di sogno, si trasforma, viene e svanisce, non
impedita da limiti materiali.
Ma chi appare, come spirito vendicatore, all’empio Don Giovanni?
La statua del commendatore assassinato! Anche qui udiamo l’eco
della fede di tutto un mondo primordiale. Cosìà invece la annuncia,
con parole immortali, l’eloquente Pindaro: «Il corpo segue
120
l’onnipotente morte; ma viva rimane la copia del vivo, la quale
dorme (questo eidolon) quando le membra sono attive, ma mostra
talvolta in sogno il futuro a chi dorme». Questa eà la chiave per
intendere il culto delle anime! Quella statua vendicatrice ha molti
precedenti nell’antichitaà . Cosìà ci viene narrato che la statua di
Teagene, che un motteggiatore petulante aveva osato frustare,
aspettoà fino a quando, un giorno che l’empio le passoà accanto, cadde
e lo uccise.20 Ben lungi dall’essere strappata al mondo
nell’invisibilitaà dell’aldilaà , l’anima del morto eà piuttosto un’immagine
della vita demoniaca, ora di una stella, di una pietra, di una pianta o
di un animale, ora di una sorgente, di un fiume, della ventata d’aria
fresca, poi di nuovo la copia del suo precedente portatore corporeo.
La fede dei primi tempi non eà che ci sono anime invisibili, o
addirittura una prosecuzione dell’esistenza personale: essa suona
invece cosìà: vive sono le immagini delle cose, e una cosa vive tanto
piuà libera da impedimenti quanto piuà assume il carattere dell’anima,
capace di magiche trasformazioni, quanto piuà cioeà eà divenuta
immagine, e nient’altro che immagine.
Di passaggio ricordiamo che non solo greci e romani usarono la
parola che indica «ombra» (in greco σκιάά , in latino umbra:
«tumulum circumvolat umbra»!), come anche eidolon, in modo
concettualmente identico ad «anima», ma che lo fanno ancor oggi
innumerevoli «selvaggi»: cosìà per esempio i Tasmaniani, gli
Algonchini, i Quiecheé , gli Aruachi, gli Abiponi, gli Zulu, i Basuto, i
Groenlandesi, ecc. La multiforme magia dello specchio, le arti dello
scongiuro e della divinazione per mezzo di superfici riflettenti, la
fattura, diffusa in tutto il mondo, che impiega oggetti pensati come
copie, la dottrina delle segnature, l’astrologia, tutto questo diviene
comprensibile soltanto a partire dalla originaria eguaglianza tra
anima e immagine. Gli indiani Macusi in Guiana dicono che dopo il
disfacimento del corpo rimane «l’uomo nei nostri occhi». Gli abitanti
delle isole Figi distinguono lo «spirito oscuro» e lo «spirito chiaro»:
quello sarebbe l’ombra dell’uomo, questo la sua immagine
nell’acqua. Secondo una credenza popolare europea il malato era
121
stregato o destinato a morire quando l’immagine nella sua pupilla (=
ragazzina, bimbetta, bambola) svaniva. Del pari cadeva in potere
delle potenze infere chi aveva perduto la propria ombra: infatti solo
le immagini delle anime private della materia sono senza ombra.
E adesso, riflettiamo su che cosa erano originariamente i templi.
Non, come i duomi cristiani, spazi per la meditazione ad uso della
comunitaà , bensìà case degli dei, e quindi luoghi nei quali la venerante
devozione poteva scorgerli, e li scorgeva davvero, alla vista dei loro
«idoli». Per il pagano l’essenza delle potenze demoniache si
identificava talmente con la capacitaà di apparire, che la piuà diffusa
etimologia fa derivare θειον (theion), il divino, da θεάτοά ν (theaton), il
visibile. Atei, spregiatori degli dei, si chiamarono percioà per il
pagano giudei e cristiani, ed invero a ragione, incontestabilmente:
essi avevano innalzato a dio negatore degli dei lo spirito, l’invisibile
principio della volontaà che odia le immagini! Gli inizi del
cristianesimo lo seppero bene, come risulta chiaro dalle indicazioni
di Agostino, nella Città di Dio, sulle opinioni che si tramandavano
riguardo al leggendario portatore di sapienza e magia egizia dal
nome di Ermete Trismegisto. Questi deve avere infatti saputo e
insegnato come si invitano gli spiriti degli dei ad abitare «immagini
visibili e sensibili», le quali, quando sono «dotate di senso e colme
dello spirito... possiedono la scienza del futuro, e la annunciano
attraverso il destino, i sacerdoti, i sogni, ed in molti altri modi».
Ancora piuà istruttivo eà lo sdegno di Minucio Felice nell’Ottavio: «i
demoni, come eà dimostrato dai maghi, dai filosofi e da Platone,
stanno nascosti nelle statue e nelle immagini consacrate, e col loro
influsso acquistano una autoritaà come se si trattasse della presenza
di una divinitaà : a volte ispirano i poeti, a volte prendon dimora nei
templi, a volte fanno palpitare le fibre delle viscere, governano il volo
degli uccelli, regolano le sorti, rendono oracoli... Di qui anche quegli
invasati che voi vedete correre per le strade, sarebbero essi pure
degli indovini che operano fuor dai templi, ugualmente pazzi,
baccanaleggianti, piroettanti...»2
122
Ma cioà che vale per le anime degli dei vale anche, in minor grado,
per le anime piuà vicine di amici e parenti passati; percheé gli dei sono
essi stessi soltanto anime di antenati, che da un’altra sfera sovrastano
il presente come stelle tanto piuà raggianti per l’umanitaà , grazie alla
natura della contemplazione, quanto piuà la lontananza di passato
dalla quale essi splendono sembra crescere. Nei suoi Resti di
paganesimo arabo Wellhausen riferisce, dall’Oriente, come di
parecchi morti fossero state preparate le immagini, cosìà che ognuno
potesse visitare suo fratello, suo cugino, o suo padre; e come nella
generazione successiva la venerazione delle immagini fosse ancora
cresciuta, e come la terza generazione le adorasse! Il dio della guerra
dei cinesi era, nell’accezione popolare, lo spirito di un grande
guerriero del passato; il dio dell’arte, quello di un inventore di
strumenti; il dio dei maiali, quello di un eccellente porcaro. Allo
spirito di Confucio, come a una potente divinitaà , fino al passato piuà
prossimo l’imperatore della Cina sacrificava due volte all’anno. 21
Nelle parole di Agostino, alle quali se ne possono affiancare
numerose simili, risuona giaà quel dubbio troppo ovvio che in tempi
piuà recenti si condensoà nel problema, tuttora irrisolto per
l’etnologia, se statua, idolo e «feticcio» siano essi stessi esseri
demoniaci o se siano solo loro sedi. Le immagini, balenando
nell’evento della contemplazione, vengono e se ne vanno, si
trasformano, non si lasciano mai afferrare e fermare, ed il luogo che
si puoà toccare eà , in rapporto ad esse, nel migliore dei casi la loro
sede.
Esse possono esservi presenti, senza che l’uomo
necessariamente le noti. Non tutti riconoscono il segno segreto della
loro presenza, e solo colui che eà rapito in estasi accoglie con brivido
il loro respiro. Ma se la devozione che offre sacrifici nutre di magica
essenza il simbolo locale, allora esso si apre all'anima che vi si
stabilisce, la quale in un attimo trasforma la copia nell’apparizione
del dio.
Come abbiamo giaà accennato, l’anima che vaga eà minacciata dal
pericolo di esser fatta girovagare di lontananza in lontananza, di
123
trasformazione in trasformazione, ed infine di esser privata della sua
realtaà per la perdita della capacitaà di assumere figure. Presso gli
islandesi, la dipartita delle anime si chiama «viaggio delle figure».
L’anima ha ottenuto per patria lo spazio che si estende attraverso
cosmiche lontananze, ma ha perduto la patria del luogo, della
vicinanza che racchiude in intimo calore. Ora, si appartengono
reciprocamente e polarmente spazio e luogo, lontananza e vicinanza,
cielo e terra, vagare e restare, periferia e centro. Separato dal moto
del firmamento, l'elemento tellurico si dissecca, mentre l’elemento
sidereo si dilegua se non eà ancorato al nocciolo della terra. Se quello
per fiorire ha bisogno della feconda tempesta delle immagini del
passato, la devozione e lo spirito di sacrificio di coloro che sono
corporeamente presenti nella luce protegge le demoniache anime
degli antenati, dal carattere dìà sogno, dal perdersi nelle notturne
fauci dello spazio. Per questo — usando una metafora — i defunti,
simili a viandanti assetati, bramano un luogo adorno di fiori e
protetto come sacro, e i vivi, accesi dall’Eros della lontananza,
preparano loro, fregiandoli di segni atti ad evocarli, tombe o templi,
boschetti sacri o colonne, alberi o piramidi di pietra, urne o grotte,
statue o figure di lari: affincheé siano sede prediletta e segreto luogo
di riposo dell’anima, che non eà stata cacciata dallo spazio ma che
senza l’amore e le cure di coloro che sono ancora protetti dal corpo
sarebbe abbandonata ad un vagare senza sosta. Se un guerriero era
caduto in terre lontane o qualcuno in mare era naufragato, i
congiunti erigevano sulla sua terra un «cenotafio», una tomba vuota:
cioeà il luogo protetto dove l'immagine del morto era pregata di
tornare. Il tessuto dell’Eros, che non si puoà strappare, congiunge le
immagini del passato e gli animi dei vivi.22
Tutti gli usi funebri, i simboli e le leggende sull'anima
rimandano, concordi, al dato di fatto che nell’era pelasgica era
ancora popolarmente diffuso cioà che un’epoca piuà tarda riuscìà ad
ottenere soprattutto mediante i riti: l’epoptia estatica. Era un
dramma che costringeva al coinvolgimento (o meglio, alla
partecipazione intimamente necessaria) cioà che metteva in modo
124
passeggero il miste eleusino nello stato della contemplazione
indipendente dal corpo, e da questo egli riportava l’esperienza della
realtaà delle immagini e della presenza di coloro che erano sfati e,
assieme a tale esperienza, la certezza incrollabile dell’anima della
vita, che incessantemente si rinnova. Ma i misteri, poicheé tentavano
di continuare a donare la scienza extrarazionale del pensiero
contemplativo all'interno di un’umanitaà che era giaà degenerata per il
dominio dell’arbitrio dello spirito e di un sensato utilitarismo,
caddero anch’essi nel destino mortale della crescente
spiritualizzazione, e sarebbero stati, alla fine, l’opposto del loro
inizio, anche se non avessero dovuto prima bruciare nel fuoco
dell’odio cristiano; ma, di questo, piuà sotto diremo l’indispensabile.
Prima, concludiamo il nostro quadro generale della natura della
contemplazione, aggiungendo ancora un ultimo tratto preso dalle
tradizioni degli usi sacri a quelli che abbiamo ottenuto
interpretando il servizio dei morti.
Il «pasto sacrificale» originario non eà tanto un pasto in onore del
dio quanto piuttosto un sacrificio del dio stesso, con successiva
incorporazione da parte dei partecipanti, ma nel senso
dell’accoppiamento con lui. Non eà questo il luogo di darne la prova
universale, poicheé per lo scopo presente puoà bastare l’accordo per
quei soli casi che offriamo come esempi. Posto che le cose stiano
cosìà, il processo corporeo del pasto cultuale avrebbe, senza
eccezione, il carattere di un’azione simbolica, pur accadendo
attraverso il cibarsi dell’animale sacrificale, e perfino nella forma del
cannibalismo, che, come ormai nessuno contesta, all’inizio ebbe
ovunque significato religioso. Ma eà proprio cosìà. Soltanto poicheé non
si pensa affatto al corpo da mangiare, bensìà alla sua immagine, serve
ugualmente allo scopo la figura che la imita, fatta per esempio di
pasta per dolci, che in molti luoghi infatti aveva il nome di «dio che si
mangia». Le forme antichissime dei nostri cavalieri di pan pepato e
dei nostri uomini dal cappello a punta furono originariamente
popolari figure di dei. Ancor oggi, nei paesi cattolici, esse vengono
mangiate in occasione di feste che un tempo erano legate ad epoche
125
di pasti sacrificali, e vengono portate a casa agli amici, affincheé
anch’essi beneficino dell’effetto del pellegrinaggio.23 Ma prima di
esaminare la natura di gamos del pasto, allontaniamo un errore
diffuso.
Genuini simboli non sono mai metafore, e per esempio mangiare
la copia, in un dolce, della divinitaà , non eà affatto pensato come mera
metafora. Se per la coscienza originaria l’anima della cosa era
nell'immagine della cosa, allora anche l’abbracciare o il mangiare la
sua copia serviva ad unirsi con essa. La formula zwingliana della
cena, per la quale il vino sta solo a significare il sangue divino, eà un
falso operato dalla ragione. Il vino eà sangue, in forza della
contemplazione mistica, in quanto esso offre una copia visibile del
sangue (il vino viene ripetutamente chiamato «sangue della terra»,
presso antichi autori). Il punto di vista, dominante in modo ancora
quasi incontrastato nell’etnologia odierna, secondo il quale
originariamente si sarebbero sempre sacrificati corporeamente
animali o uomini, mentre piuà tardi, per un destarsi di «umanitaà », si
sarebbero preferiti al loro posto dei corpi privi di vita, in primo
luogo si mette in contraddizione con non pochi fatti di natura
esattamente opposta, nei quali peroà qui non possiamo addentrarci,
ed in secondo luogo resta incapace di spiegare percheé le
«sostituzioni» non avvenivano tramite il sacrificio di denaro, a noi
familiare, ma per mezzo di copie intuitivamente simili. Forse che eà
mai stato considerato annullato un debito percheé il debitore aveva
fatto il gesto di pagare? O forse il frutto che era stato venduto eà mai
stato considerato realmente consegnato grazie al solo gesto del
porgerlo? E poicheé , come eà certo, questo non eà mai accaduto, non
dobbiamo forse, invece di parlare di sostituzione, chiederci piuttosto
percheé presso tutti i popoli, e certamente per principio, essa era
accettata per l’azione del sacrificio? Ma la regola romana del
sacrificio suona, infine: sciendum in sacris simulata pro veris accipi
= bisogna cioeà sapere che, nei sacrifici, cose soltanto simulate sono
da ritener per vere ! In che modo sarebbe mai potuto sorgere un tale
principio, se per la coscienza di chi contempla la realtaà non fosse una
126
realtaà dell’apparizione? Ma se proprio per questo i δάιμονι ζομενοι
delle feste di eccitazione di tutti i popoli e di tutti i tempi vengono
trasformati mediante travestimenti e maschere! Il modo simbolico di
esercitare l’uso originario non ci mostra un tardo indebolimento di
esso, ma al contrario il suo senso piuà profondo.
In tutte le azioni cultuali non importa mai la materia, bensìà
l’anima della materia: la quale peroà si rivela soltanto nell’immagine.
In ogni caso ora ci si obietteraà che proprio il costume del cibarsi
del dio rimanda al fondamento assolutamente materiale della
concezione dominante. Che anche se resta considerevole il fatto che
al posto del dio reale venga ritenuta bastante la sua copia di pasta, o
perfino un pezzo di pane, per divenir partecipi, tramite queste cose,
della sua anima, questa conquista avviene tuttavia attraverso il
processo del mangiare, dunque incorporando il corpo ritenuto
divino. A tutto questo, dovremmo obiettare che il concetto della
materia appare in luce diversa a seconda che in essa si scorga il
sostrato degli oggetti della percezione oppure il punto d’appoggio ed
il luogo delle immagini; e che l’incorporazione che deriva da una
spinta a fondersi con l'immagine del cibo eà molto diversa da quella
che deriva da un impulso alla nutrizione. La materia come sostrato
del mondo della percezione eà soltanto una cosa del pensiero (che
serve a soggiogare e a controllare i movimenti), la materia come
luogo delle immagini allude invece — la parola «materia» lo tradisce
— all’emisfero oscuro della realtaà , senza il quale quello chiaro della
apparizioni non sarebbe neppure pensabile. Ma, come si eà detto
prima, non c’eà nessun impulso alla nutrizione, bensìà, al grado
animale, soltanto l’aver fame o l’aver sete, ossia — aristotelicamente
— ci sono solo irresistibili impulsi all’unione ora con qualcosa di
solido, ora con qualcosa di liquido: e tali impulsi possono essere
determinati adeguatamente soltanto tenendo conto delle immagini.
L’aver fame ed il saziarsi presuppongono cioeà due cose: la
dipendenza del corpo dell'animale dal mondo in generale, ed un
rapporto di scambio tra l’animale ed una porzione del mondo
qualitativamente determinata. L’impressione della porzione di
127
mondo che placa la fame agisce sul portatore di vita stimolandolo,
allettandolo, e l’animale si unisce ad essa mediante il processo del
mangiare, che eà contrassegnato da un senso di benessere corporeo.
Il fatto che la scelta delle immagini avvenga principalmente
mediante il naso, la lingua e gli organi del tatto, e molto meno
mediante l’occhio, non ci puoà impedire dìà valutare, nei processi dei
sensi che danno tali comunicazioni, il lato di contemplazione. Un
essere fornito soltanto di sensibilitaà ricettiva vivrebbe soltanto
differenze di pressione, e starebbe percioà nel mondo come tra le
pareti spostabili ma non spezzabili dìà un carcere, e per lo meno non
avrebbe nessuna esperienza di una realtaà delle immagini. Se
soltanto riflettiamo che sarebbe privo di senso ritenere che delle
qualitaà si possano toccare,24 allora sappiamo in che misura anche nel
gusto, nell’olfatto e nel tatto c’eà un contemplare, e percheé non rechi
nessun danno alla nascita estatica dell'immagine il fatto che essa
avvenga sulla scorta del gustare e del mangiare.
Se indubbiamente tra le facoltaà d’impressione degli animali e la
materia commestibile c'eà una particolarità della connessione, in
base alla quale ogni specie cerca un nutrimento che eà proprio solo a
lei, tale particolaritaà deve basarsi su una tensione polare tra l'anima
dell’animale e immagine dei materiali; ed in tal modo ci si
ricollegherebbe al fatto, messo in rilievo all'inizio, che ogni individuo
di evoluzione superiore dimostra, nel mangiare e nel bere,
inclinazioni perfino schizzinose, al compimento delle quali sono
legate gioie psichiche piuà grandi di quelle che il mero placar la fame
potrebbe concedere. Ma ora, se il prevalere della contemplazione
distingue l’uomo originario dall’animale, e se l’inclinazione che
determina le scelte cresce talvolta in lui potentemente oltre il mero
bisogno, perfino il pasto puoà infine apparirci alla luce di un
matrimonio tra anima e forza generatrice. Si sostituisca il pensiero
dominato dallo scopo dell’assunzione di nutrimento con l’esperienza
vissuta della voluttà del gusto, e ci si troveraà sulla strada della
concezione del pasto come di un lato delle apparizioni dell’Eros.
Percorrendola fino in fondo, si sapraà di un cibarsi che viene vissuto
128
come legame polare di chi mangia con il cibo, e che accade tra brividi
estatici. In tale caso peroà non sarebbe tant