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La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi il

cuore, ma che questa  apertura non può essere richiusa. (Del resto
ogni radiografia lo mostra, lo sterno è ricucito con pezzi di filo di ferro ritorti).
Io sono aperto chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso
incessante di estraneità: i farmaci immuno-depressori e gli altri che servono a
combattere alcuni effetti detti secondari, le conseguenze inevitabili (come il
deterioramento dei reni), i ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un nuovo
piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e riportata su
molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità di morte.

Sono dunque io stesso che divengo il mio intruso, in tutti questi modi che si
accumulano e si oppongono.

Jean-Luc Nancy

Di Jean-Luc Nancy Cronopio ha pubblicato: comunità inoperosa (20033),


La comparizione, in AA. VV., Politica (1993), Corpus (20043), Hegel.
L'inquietudine del negativo (1998), Tre saggi sull’immagine (20072), Sull’agire.
Heidegger e l’etica (2005),  La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I
(2007). 
tessere

Cronopio
Jean-Luc Nancy

L’intruso

a cura di
Valeria Piazza
titolo originale
L'intrus

© 2000 Éditions Galilée


© 2000 Edizioni Cronopio - I edizione
© 2006 Edizioni Cronopio - II edizione
I ristampa - 2008
Calata Trinità Maggiore, 4 - 80134 Napoli
Tel./fax 0815518778
Progetto grafico di Andrea Branzi
www.cronopio.it
e-mail: cronopio@blu.it

ISBN 88-89446-11-0
Indice

L’intruso

Il taglio nel senso - Intervista a Jean-Luc Nancy


L’intruso
Non c’è nulla di più 
ignobilmente inutile e superfluo 
dell’organo chiamato cuore, 
il mezzo più sporco 
che gli esseri abbiano potuto inventare 
per pompare in me la vita

Artaud
L’intruso si introduce di forza, con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso
senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di
intruso  nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già
diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di
lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più
nemmeno lo straniero. Escludere quindi ogni  intrusione dalla venuta dello
straniero non è logicamente accettabile, né eticamente ammissibile.

Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece
di «naturalizzarsi» semplicemente, la sua venuta non cessa. Continua a venire e
la  sua venuta resta in qualche modo un’intrusione. Rimane cioè senza diritto,
senza familiarità e senza consuetudine: un fastidio e un disordine nell’intimità.

È questo che si tratta di pensare e quindi di praticare: altrimenti l’estraneità


dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcato la
soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero dev’essere anche
provare la sua intrusione. Anche se per lo  più non lo si vuole ammettere: il
motivo dell'intruso è esso stesso un’intrusione nella nostra correttezza morale (è
anche un esempio cruciale contro il politically correct). Eppure è indissociabile
dalla verità dello straniero. Questa correttezza morale presuppone che si riceva
lo straniero annullando sulla soglia la sua estraneità: pretende quindi che non lo
si sia affatto ricevuto. Ma lo straniero insiste e fa intrusione. È proprio questo
che non è facile accettare e neppure forse concepire...
Io (chi, «io»? è proprio questo il problema, il vecchio problema: qual è
questo soggetto dell’enunciazione  sempre estraneo al soggetto del suo
enunciato, di cui è per forza l’intruso, pur essendone per forza anche il motore,
la leva o il cuore) - io, dunque, ho ricevuto il cuore di un altro quasi dieci anni
fa. Me l’hanno trapiantato. Il mio proprio cuore (è tutta qui la questione  del
«proprio», lo si è capito - o invece non è affatto questo, e non c’è proprio niente
da capire, nessun mistero, e neppure nessuna questione: solo la
semplice evidenza di un trapianto d’organi1, come preferiscono dire i medici) -
il mio cuore, dunque, era fuori uso, per  una ragione che non è mai stata
chiarita. Per vivere allora, era necessario ricevere il cuore di un altro.

(Ma quale altro programma si incontrava allora con il mio programma


fisiologico? Meno di vent’anni prima non si facevano trapianti e soprattutto non
si ricorreva alla ciclosporina, che protegge dal rigetto dell’organo trapiantato.
Fra vent’anni certamente vi saranno altri tipi di trapianto, con altri mezzi. Una
contingenza  personale si incrocia così con una contingenza della  storia delle
tecniche. Prima, sarei morto, dopo, sarei  sopravvissuto in un altro modo. Ma
l'io» si trova sempre rinchiuso in uno stretto spazio fra possibilità tecniche. Per
questo è inutile il dibattito, a cui ho assistito,  fra chi riteneva il trapianto
un'avventura metafisica  e chi lo considerava una prestazione tecnica: esso
è evidentemente entrambe le cose, l'una nell'altra).

Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni
parvero vacillare, tutti i riferimenti  capovolgersi. Senza riflettere, certo, e
perfino  senza individuare nessun atto, nessun mutamento.  Semplicemente la
sensazione fisica di un vuoto già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui
niente,  assolutamente niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare  per me
l'organico, il simbolico, l'immaginario, né a separare il continuo dall'interrotto:
era come un  unico soffio, ormai sospinto attraverso una strana caverna  già
impercettibilmente dischiusa, un'unica impressione:  di essere caduto in mare
pur restando ancora sul ponte.

Se il mio proprio cuore mi avesse abbandonato, fino a che punto sarebbe


stato il «mio» e «il mio proprio» organo? Era poi un organo? Già da qualche
anno conoscevo un batticuore, delle aritmie, poca cosa in verità (cifre tecniche,
come la «frazione di eiezione» di cui mi piaceva il nome): non un organo, non
una massa  muscolare rosso scuro bardata di tubi, che adesso  ero costretto
all'improvviso ad immaginarmi. Non «il  mio cuore» che batteva senza posa,
assente fino a quel momento come la pianta dei miei piedi mentre camminavo.

Mi diventava estraneo, faceva intrusione per defezione: quasi per rigetto, se


non per deiezione. Avevo  questo cuore che mi saliva alla gola come un cibo
indigerito. Una specie di nausea, ma dolce. Un dolce slittamento mi separava da
me stesso. C'ero ancora, era estate, bisognava aspettare, qualcosa si staccava da
me o qualcosa sorgeva in me dove non c'era nulla: nulla se  non la «propria»
immersione in me di un «me stesso»  che non si era mai identificato come
questo corpo e ancor  meno come questo cuore e che all'improvviso
cominciava a guardarsi. Per esempio quando più tardi salivo le scale e sentivo
ogni stacco dell'extrasistole come la caduta di un sasso sul fondo di un pozzo. In
che modo  si diviene per se stessi una rappresentazione? e un  montaggio di
funzioni? e dove finisce l'evidenza muta  e potente che teneva insieme tutto
questo senza proplemi?
Il mio cuore diventava il mio straniero: giustamente straniero perché si
trovava dentro di me. L’estraneità infatti doveva venire dall’esterno solo perché
era sorta prima all’interno. Che vuoto si aprì all’improvviso nel petto o
nell’anima - è la stessa cosa - quando mi  dissero: «Sarà necessario un
trapianto»... La mente incontra a questo punto un oggetto nullo: niente da
sapere, niente da capire, niente da sentire. L’intrusione di un corpo estraneo al
pensiero. Questo vuoto resterà  per me come il pensiero stesso e
contemporaneamente come il suo contrario.

Un cuore che batte solo a meta è solo per metà il mio cuore. Comincio a
non essere più in me. Vengo già da altrove, oppure non vengo più. Un’estraneità
si rivela «al cuore» di ciò che vi è di più familiare - ma dire familiare è dire
ancora troppo poco: al cuore di ciò  che non si è mai rivelato come «cuore».
Finora era  estraneo a forza di non essere nemmeno sensibile,  nemmeno
presente. Ormai viene meno e questa estraneità mi mette in rapporto con me
stesso. «Io» sono perché sono malato. («Malato» non è la parola giusta: come
non lo è infetto, ma è piuttosto arrugginito, rigido, bloccato). Quel che è
malconcio è quest’altro, è il  mio cuore. Questo cuore ormai intruso, bisogna
estruderlo.
Ciò può avvenire solo a condizione che a volerlo sia io e qualcun altro
insieme a me. «Qualcun altro» sono i miei, ma anche i medici e infine io stesso
che mi scopro in questa circostanza più doppio o molteplice che mai. Bisogna
che tutte queste persone, per motivi ogni volta diversi, concordino sul fatto che
vale la pena prolungare la mia vita. Non è difficile immaginare la complessità di
questo insieme estraneo che interviene così nel più profondo di me. Lasciamo
perdere coloro che mi sono più vicini e anche me «stesso» (che pure, come ho
già detto, si sdoppia: una strana sospensione di giudizio fa sì che io mi
immagini di morire  senza rivolta, ma anche senza attrattiva... si sente che  il
cuore viene meno, che si sta per morire, si sente che presto non si sentirà più
nulla). Ma anche i medici  - che in questo caso sono un’intera équipe -
intervengono molto più di quanto non avessi pensato: essi devono innanzitutto
giudicare sull’opportunità del trapianto, poi devono proporlo e non imporlo (per
questo mi diranno che ci sarà un «seguito» impegnativo, senza aggiungere altro
- e del resto cos’altro avrebbero potuto garantire? Otto anni dopo e dopo molti
altri disturbi avrei avuto un cancro provocato dalle cure; ma ancora sopravvivo:
chi può dire che cosa «vale la pena»? e quale pena?).

Inoltre i medici, sarei venuto a saperlo solo indirettamente, devono decidere


anche riguardo a una iscrizione in lista d’attesa (e per me, per esempio,
acconsentire alla mia richiesta di iscrivermi solo alla fine dell’estate: il che
presuppone una certa fiducia nella resistenza del cuore); questa lista comporta
alcune scelte: mi parleranno di un’altra persona idonea a subire un trapianto, ma
palesemente incapace di sopportarne il  decorso successivo e in particolare la
terapia farmacologica. Vengo a sapere anche che posso ricevere solo un cuore
di gruppo 0+, e questo limita le possibilità. Non chiederò mai come si decide e
chi decide nel caso in cui  un organo disponibile sia adatto a più di un
potenziale  ricevente? Si sa che qui la domanda eccede
l’offerta... Improvvisamente la mia sopravvivenza viene iscritta in un complicato
processo intessuto di estranei e di estraneità.

Su che cosa bisogna che tutti siano d’accordo per prendere la decisione
finale? Su una sopravvivenza che  è impossibile considerare come una pura
necessità: dove trovarla? Che cosa dovrebbe costringere a farmi sopravvivere?
Questa domanda ne apre molte altre: perché io? perché sopravvivere in
generale? cosa significa  «sopravvivere»? sopravvivere è poi un termine
appropriato? in che senso la durata della vita è un bene? Allora avevo
cinquant’anni: a quest’età si è considerati  giovani solo in un paese
industrializzato alla fine del ventesimo secolo... Solo due o tre secoli fa morire
a quest’età non avrebbe avuto niente di scandaloso. Perché oggi può venirmi la
parola «scandaloso» in questo contesto? E come e perché non vi è più per noi,
«industrializzati» dell’anno 2000, un’«età giusta» per morire (almeno non prima
degli ottant’anni e questo limite  continua a spostarsi in avanti)? Un giorno un
medico  mi dice, quando ormai si è rinunciato a trovare una  causa per la mia
cardiomiopatia, «il suo cuore era programmato per durare fino a
cinquant’anni». Ma qual è  questo programma che non posso considerare
destino  e neppure provvidenza? È solo una breve sequenza  programmatica in
una generale assenza di programmazione.

Dove sono in questo caso il giusto e la giustizia? Chi li misura e chi li


pronuncia? In questa storia tutto mi verrà da altrove e da fuori - così come il
mio cuore e il mio corpo mi sono venuti da altrove, sono un altrove «in» me.

Non intendo disprezzare la quantità, né dichiarare che oggi sappiamo fare i


conti solo con una durata della vita indifferente alla sua qualità. Sono pronto a
riconoscere che anche un’espressione come «è sempre meglio di niente» voglia
dire più di quanto non sembri. La vita non può che spingere alla vita. Ma essa
va anche  verso la morte: perché in me andava verso questo limite del cuore?
Perché poi non l’avrebbe fatto?

Isolare la morte dalla vita, impedire che l’una sia intimamente intrecciata
con l’altra, che ognuna faccia intrusione nel cuore dell’altra, ecco ciò che non
bisogna mai fare.

In questi otto anni ho sentito dire tante volte e tante volte ho ripetuto a me
stesso, nei momenti più difficili: «Ma altrimenti, tu non ci saresti più!». Come
pensare questa specie di quasi-necessità o d’auspicabilità di una presenza, la cui
assenza avrebbe sempre potuto, semplicemente, configurare altrimenti il mondo
di alcuni? A prezzo di una sofferenza? Certamente. Ma  perché continuare a
rilanciare l’asintoto d’una assenza di sofferenza? È una vecchia questione, che la
tecnica  però esaspera portandola fino a un punto per il quale,  bisogna
ammetterlo, siamo ben lontani dall’essere pronti.
Almeno dall’epoca di Cartesio l’umanità moderna ha reso il desiderio di
sopravvivenza e d’immortalità  un elemento del programma generale di
«dominio e  possesso della natura». Ha programmato così una crescente
estraneità della «natura», ravvivando l’estraneità  assoluta del duplice enigma
della mortalità e dell’immortalità. Essa ha portato ciò che le religioni
rappresentavano alla potenza di una tecnica che respinge la fine in tutti i sensi.
Allontanando il termine, l’umanità  ostenta un’assenza di fine: quale vita
prolungare? a quale scopo? Differire la morte è anche esibirla, sottolinearla.

Si può solo dire che l’umanità non è mai stata pronta a nessun punto di
questa questione e che la sua impreparazione alla morte è solo la morte stessa: il
suo urto e la sua ingiustizia.
Così, lo straniero molteplice che fa intrusione nella mia vita (la mia fragile
vita che talvolta scivola nel malessere al limite di un abbandono soltanto
stupito) non è altro che la morte, o piuttosto la vita/la morte: una sospensione
del continuum dell’essere, una scansione con cui «io» non ha/non ho gran che
da fare. La ribellione e l’accettazione sono ugualmente estranee alla situazione.
Ma qui non vi è nulla che non sia estraneo.  Il mezzo di sopravvivenza è lui
stesso, lui per primo, d’una estraneità completa: cosa può significare sostituire
un cuore? La cosa eccede le mie possibilità di rappresentazione. (L’apertura di
tutto il torace, la conservazione dell’organo da trapiantare, la circolazione
extracorporea del sangue, la sutura dei vasi sanguigni... Capisco che i chirurghi
ritengano insignificante quest’ultimo punto: nei by pass, infatti, i vasi sanguigni
sono molto più piccoli. Ma questo non impedisce che il  trapianto imponga
l’immagine di un passaggio attraverso il nulla, dell’uscita in uno spazio svuotato
di ogni proprietà e di ogni intimità, o invece di un’intrusione di questo spazio
dentro di me: tubi, pinze, suture e sonde).

Qual è questa vita «propria» che si tratta di «salvare»? Risulta chiaro se non
altro, che questa proprietà non risiede in niente che si trovi nel «mio» corpo.
Essa non è situata da nessuna parte e neppure in quest’organo la cui la
reputazione simbolica è un fatto acquisito. (Si potrebbe dire: rimane il cervello.
E, certo,  l’idea di trapiantare il cervello agita di tanto in tanto la  cronaca.
Probabilmente l’umanità ne riparlerà un giorno. Per ora è sicuro che il cervello
non sopravvive senza il resto del corpo. In compenso, e per finire,
forse sopravviverebbe con un intero sistema di corpi estranei trapiantati...).

Vita «propria» che non è in nessun organo e che senza di essi non è niente.
Vita che non solo sopravvive, ma che propriamente vive ancora sotto una
triplice influenza estranea: quella della decisione, quella dell’organo trapiantato
e quella delle conseguenze del trapianto.
Inizialmente il trapianto si presenta come una restitutio ad integrum: si ha di
nuovo un cuore che batte. Di fronte a questo tutta la dubbia simbologia del
dono  dell’altro, di una complicità o di un’intimità segreta,  fantomatica, fra
l’altro e me si sgretola subito: del resto  sembra che l’uso di tale simbologia,
ancora diffuso  quando fui operato, cominci poco a poco a scomparire  dalla
coscienza di chi ha subito un trapianto: esiste già  una storia delle
rappresentazioni del trapianto. Si è  molto insistito su una solidarietà, o
addirittura su una  fraternità fra i «donatori» e i riceventi, allo scopo
di convincere a donare gli organi. Ed è indubbio che questo dono sia diventato
un obbligo elementare per l’umanità (nei due sensi del termine) e che esso
istituisca fra tutti, senza nessun altro limite se non l’incompatibilità dei gruppi
sanguigni (e in particolare senza limiti sessuali né etnici: il mio cuore può
essere il cuore di  una donna nera), la possibilità di una rete in cui la vita/la
morte viene condivisa, in cui la vita si connette  con la morte, in cui
l’incomunicabile comunica.

Ben presto tuttavia l’altro come straniero comincia a manifestarsi: non la


donna, né il nero, né il giovane o  il basco, ma l’altro immunitario, l’altro
insostituibile  che è invece stato sostituito. Si chiama «rigetto»: il mio  sistema
immunitario rigetta quello dell’altro. (Significa  che «io ho» due sistemi, due
identità immunitarie...). Molti credono che il rigetto consista letteralmente nello
sputare il proprio cuore, nel vomitarlo: in fondo la parola sembra scelta apposta
per farlo credere. Non è  così, si tratta invece di ciò che è intollerabile
nell’intrusione dell’intruso e che può diventare ben presto mortale senza una
terapia.

La possibilità del rigetto mette in una doppia estraneità: da una parte quella
del cuore trapiantato, che l’organismo identifica e attacca in quanto estraneo,
e  dall’altra quella della condizione in cui la medicina pone chi ha subito il
trapianto per proteggerlo. Essa abbassa la sua immunità in modo che egli possa
sopportare l’estraneo. Lo rende dunque estraneo a se stesso e a questa identità
immunitaria che è in qualche modo la sua firma fisiologica.

L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso. Un rigetto sarebbe


molto forte, bisogna quindi farmi resistere alle difese dell’organismo umano (e
lo si fa  con un’immunoglobulina estratta dal coniglio e destinata a quest’uso
«antiumano», com’è specificato nella  sua avvertenza e di cui mi ricordo gli
effetti sorprendenti, i tremiti quasi convulsi).

Ma divenire estraneo a me stesso non mi avvicina all’intruso. Sembra che


questa sia una legge generale dell’intrusione: non vi è mai un’intrusione unica:
non appena se ne produce una, si moltiplica e si identifica nelle sue rinnovate
differenze interne.

Così, conoscerò più volte lo zostervirus o il citomegalovirus, estranei


assopiti in me da sempre e improvvisamente risvegliati contro di me dalla
necessaria immunodepressione.
Questo è quel che accade: identità equivale a immunità, l’una si identifica
con l’altra. Abbassare l’una è abbassare l’altra. L’estraneità e l’essere straniero
diventano comuni e quotidiani. Questo si traduce in una costante
esteriorizzazione di me: è necessario misurarmi,  controllarmi, testarmi. Ci
vengono fatte mille raccomandazioni riguardo al mondo esterno (le folle, i
negozi, le piscine, i bambini, i malati). Ma i nemici più pericolosi sono
all’interno: i vecchi virus da sempre nascosti all’ombra dell’immunità, gli intrusi
di sempre, perché ce ne sono sempre stati.

In quest’ultimo caso non c’è nessuna prevenzione  possibile. Ma solo cure


che esiliano nuovamente nell’estraneità. Che affaticano, che rovinano lo
stomaco, oppure il dolore urlante dell’herpes zoster... Passando per tutto questo,
quale «io» segue quale traiettoria?
Che strano io!

La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi il


cuore, ma che questa apertura non può essere richiusa. (Del resto ogni
radiografia lo  mostra, lo sterno è ricucito con pezzi di filo di ferro ritorti). Io
sono aperto chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso
incessante di estraneità: i farmaci immuno-depressori e gli altri che servono a
combattere alcuni effetti detti secondari, le conseguenze inevitabili (come il
deterioramento dei reni), i  ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un
nuovo piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e riportata su
molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità di morte.

Sono dunque io stesso che divengo il mio intruso, in tutti questi modi che si
accumulano e si oppongono.

Lo sento distintamente ed è molto più forte di una sensazione: mai


l’estraneità della mia propria identità, che pure mi è sempre stata presente, mi
ha toccato così intensamente. «Io» è diventato chiaramente l’indice formale di
una concatenazione inverificabile ed impalpabile. Fra me e me c’è sempre stato
uno spazio-tempo: ma adesso c’è l’apertura di una incisione e l’irriconciliabile
di un’immunità contrariata.
Arriva anche il cancro: un linfoma, di cui non mi ero mai accorto che
l’eventualità (certamente non la  necessità, perché solo pochi fra coloro che
hanno subito un trapianto ci passano) era segnalata nell’avvertenza della
ciclosporina. Deriva dall’abbassamento delle  difese immunitarie. Il cancro è
come la faccia smangiata, adunca e divorante dell’intruso. Estraneo a me stesso,
e io stesso estraniantemi. Come dirlo? (Ma si discute ancora della natura
esogena o endogena dei fenomeni cancerosi).

Anche in questo caso, seppur in modo diverso, la terapia esige un’intrusione


violenta. Incorpora una  quantità di estraneità chemioterapica e
radioterapica. Mentre il linfoma consuma il corpo e lo esaurisce, i trattamenti lo
attaccano, lo fanno soffrire in vari modi  - e la sofferenza è il rapporto fra
un’intrusione e il suo  rifiuto. Anche la morfina, che attenua i dolori, provoca
un’altra sofferenza, quella dell’abbrutimento e dello smarrimento.

Il trattamento più complesso si chiama «auto-trapianto» (o trapianto delle


«cellule madri»): dopo aver riavviato la mia produzione linfocitara attraverso
i «fattori di crescita», mi vengono prelevati, per cinque giorni di seguito, globuli
bianchi (si fa circolare tutto il  sangue fuori dal corpo, li si preleva durante il
passaggio). Vengono congelati. Poi mi mettono in una camera sterile per tre
settimane, mi praticano una chemioterapia molto forte, che abbatte la
produzione del midollo, prima di rilanciarla nuovamente iniettandomi le cellule-
madri congelate (uno strano odore di aglio regna durante questa iniezione...).
L’abbassamento delle  difese immunitarie è al suo culmine e ne derivano
forti febbri, micosi, disturbi di tutti i tipi, prima che riprenda la produzione di
linfociti.

Dall’avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce più: ma «riconoscere»


non ha più senso. Si diventa, rapidamente, solo un ondeggiamento, una
sospensione  di estraneità fra stati non ben identificati, fra dolori,  impotenze,
cedimenti. Riferirsi a se stessi è diventato  un problema, una difficoltà o
un’opacità: lo si fa mediante il dolore o la paura, e non è più niente di
immediato - e le mediazioni stancano.
L’identità vuota di un «io» non può più fondarsi sulla semplice adeguazione
(sul suo «io=io»): quando  si enuncia «io soffro» implica due io estranei l’uno
all’altro (che pure si toccano). Lo stesso vale per «io provo piacere» (si
potrebbe mostrare come ciò emerga  nella pragmatica dell’uno e dell’altro
enunciato): ma in «io soffro» un io rifiuta l’altro, mentre in «io provo piacere»
un io eccede l’altro. In verità le due situazioni si assomigliano come due gocce
d’acqua: né più, né meno.
Io finisce/finisco per non essere altro che un sottile filo che va di dolore in
dolore e di estraneità in estraneità. Si giunge cose a una certa continuità nelle
intrusioni, a un regime permanente dell'intrusione: all’assunzione più che
quotidiana di medicine e ai controlli in ospedale si aggiungono gli effetti della
radioterapia  sui denti, come anche la perdita della salivazione, il  controllo del
cibo, e quello dei contatti che possono provocare contagio, l’indebolimento dei
muscoli e  quello dei reni, la diminuzione della memoria e della  capacità di
lavorare, la lettura delle analisi, i ritorni insidiosi della mucite, della candidosi e
della polinevrite, e l’impressione generale di non potere più essere dissociato da
una rete di misure, di indagini, di connessioni  chimiche, istituzionali,
simboliche che non si possono ignorare come quelle di cui è sempre intessuta la
vita comune, ma che al contrario tengono la vita continua-mente in allerta con
la loro presenza e il loro controllo. Divengo indissociabile da una dissociazione
polimorfa.

Questa è sempre stata più o meno la vita dei malati e dei vecchi: ma per
l’appunto io non sono propriamente né l’uno, né l’altro. Ciò che mi guarisce è
ciò che  mi attacca e mi infetta, ciò che mi permette di vivere è  ciò che mi
invecchia prematuramente. Il mio cuore ha vent’anni meno di me e il resto del
mio corpo ne ha (almeno) una dozzina in più. Ringiovanito e invecchiato allo
stesso tempo, non ho più un’età propria e non ho  più propriamente età. Così
come, pur non essendo in  pensione, non ho più propriamente un lavoro e
non  sono niente di ciò che dovrei essere (marito, padre,  nonno, amico) senza
esserlo sotto questa generale condizione dell’intruso, dei diversi intrusi che
possono in ogni momento prendere il mio posto nel rapporto con gli altri o nella
rappresentazione altrui.

Con un unico movimento l’«io» più assolutamente proprio si allontana a una


distanza infinita (dove va a  finire? in quale punto inafferrabile dal quale
continuare a proferire che questo è il mio corpo?) e sprofonda in una intimità
più profonda di ogni interiorità (la nicchia inespugnabile dalla quale dico «io»,
ma che so spalancata come un petto aperto sul vuoto o come lo scivolare
nell’incoscienza morfinica del dolore e della  paura mescolate nell’abbandono).
Corpus meum e interior intimo meo, i due insieme per dire esattamente, in una
configurazione completa della morte di dio, che la verità del soggetto è la sua
esteriorità e la sua eccessività:  la sua esposizione infinita. L’intruso mi espone
eccessivamente. Mi estrude, mi esporta, mi espropria. Io sono la malattia e la
medicina, io sono la cellula cancerosa e l’organo trapiantato, io sono gli agenti
immunodepressori e i loro palliativi, io sono i pezzi di filo di ferro che tengono
insieme il mio sterno e io sono questo sito di iniezione cucito sotto la clavicola,
così com’ero già queste viti nell’anca e questa placca nell’inguine. Divento come
un androide della fantascienza o piuttosto  come un morto-vivente, come ha
detto un giorno il mio ultimo figlio.
Noi, io e tutti i miei simili sempre più numerosi2, siamo in effetti l’inizio di
una mutazione: l’uomo comincia a superare infinitamente l’uomo (questo è
ciò che ha sempre voluto dire «la morte di dio», in tutti i suoi sensi possibili).
Egli diviene ciò che è: il tecnico piu terribile e inquietante, come Sofocle aveva
previsto venticinque secoli fa, colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea
la creazione, che la fa uscire dal niente e che, forse, la riconduce a niente. Colui
che è capace dell’origine e della fine.
L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun
altro se non lo stesso che  non smette mai di alterarsi, insieme acuito e
fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso, inquietante
spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente3.
Il taglio nel senso
Valeria Piazza - Da dove ti e venuta l’idea di scrivere sull’esperienza della
tua malattia? Come è nato questo testo?

Jean-Luc Nancy - All’improvviso. Mi hanno chiesto un articolo per il


numero di una rivista sul tema «la venuta dello straniero». Non sapevo bene che
cosa fare. Avevo solo un’idea: insistere sull’estraneità dello straniero (invece di
riassorbire tutto nella prossimità,  nella fraternità, ecc.). Così ho cominciato a
scrivere e subito, all'improvviso, ho cominciato a pensare che l’«intruso» fosse
questo cuore dentro di me. Non so da dove mi sia venuta questa idea. Per nove
anni, avevo sempre evitato di scrivere sul trapianto. Avevo provato a prendere
qualche appunto in ospedale e poi nel periodo del cancro, ma non se ne
otteneva niente di interessante... Invece, l’occasione per iniziare a
scrivere doveva venire senza che io lo volessi, da fuori.

V. P. - Questo libro può essere visto come una specie di «biografia


filosofica». Attraverso la narrazione dell’esperienza del trapianto e poi del
tumore, ritorni su alcuni fra i motivi principali della tua filosofia: in particolare
sull’estraneità del soggetto a se stesso e sull’esposizione.
Nonostante tu ti opponga alla «dubbia simbologia del dono dell’altro» e alla
retorica che circonda l’idea  del trapianto, esso potrebbe comunque essere
pensato  come una figurazione o, meglio, come una concretizzazione,
un’incarnazione della radicale esposizione agli altri che, sola, permette un vero
partage. Sembra che  l’episodio dei trapianto nella tua vita e il motivo
dell’esposizione, cardine della tua filosofia, non siano separabili e che insieme
costruiscano l’intreccio che sta alla base del tuo pensiero. Che cosa ne pensi?

J.-L. N. - La tua descrizione è giusta, ma non so che cosa pensarne. Un


altro, partendo dalla stessa situazione, avrebbe potuto scrivere tutt’altra cosa e
io  stesso avevo scritto sui temi di cui parli, prima di fare  l’esperienza del
trapianto. Probabilmente avrei anche potuto non scrivere nulla riguardo a questa
storia.  Vorrei insistere innanzitutto sul fatto che, se c’è qualche cosa come
un’esperienza in ciò che si pensa e che  si scrive, non è immediatamente
l’esperienza più visibile e tangibile. Per quanto mi riguarda, ad esempio, e  a
proposito del motivo dell’«esposizione», potrei dire  che ho un’esperienza
intima, che non ha nulla di medico e nemmeno di fisico, ed è l’esperienza
dell’esposizione del mio viso al fuori, agli altri: io non vedo mai  quello che
lascio vedere agli altri e ciò si mostra sempre a mia insaputa, qualsiasi cosa io
faccia. Oppure, più in generale, ho sempre avuto l’impressione che la mia vita
fosse plasmata dal di fuori, dai casi, dalle occasioni, dagli incontri, e che in
tutto questo «io» non c’entrassi molto.
In compenso, nell’ordine di ciò che tu chiami «biografia filosofica», io noto
che non ho mai avuto nessun’altra malattia seria, se non questa cardiomiopatia
di natura sconosciuta, che non è nemmeno una malattia, ma piuttosto una
deficienza meccanica. E anche  tutti gli altri problemi di salute che ho avuto
sono sempre stati meccanici (fratture, ferite, ernia del disco, ernia inguinale).
Mi sembra che questa meccanicità si coniughi bene con qualche cosa di «me»:
un «me» tutto  in esteriorità, senza interno, senza quelle pieghe dell’interno in
cui la malattia infettiva o infiammatoria  può insediarsi (e lo ha fatto, per
l’appunto, solo dopo l’abbassamento terapeutico delle mie difese immunitarie).
C’è in me poca presenza dello straniero (virus, batterio...). Ma sono piuttosto io
«stesso» il primo straniero, da sempre, già prima del trapianto: è questo che mi
incuriosisce.
Noto sempre quanto le persone abbiano una maniera molto singolare, molto
propria, di essere malate: alcune si infettano di continuo, altre hanno
disfunzioni (polmonari, digestive), ecc. Le tipologie sono sempre generiche, ma
vi è comunque una realtà almeno tendenziale in alcuni «tipi» di idiosincrasie,
come ce  n’è in alcuni tipi di visi, di corpi, di andature: questa  possibilità di
tracciare delle linee trasversali attraverso  le singolarità irriducibili, mi pare
affascinante. È uno  spazio dove il riconoscimento e l’estraneità reciproca
si moltiplicano, si complicano...

V. P. - In un contesto come quello che hai presentato nel Senso del mondo,
che esclude ogni ulteriorità e ogni anteriorità del senso e in cui, si potrebbe dire
con un chiasmo, il mondo non è mondo che come senso e il senso non è senso
che come mondo, dove si situano  e come sono giustificabili (se lo sono) il
dolore e la sofferenza?

J.-L. N. - È una domanda capitale. E sono colpito dal fatto che tu me la


poni, mentre io non me la sono posta nemmeno per un istante mentre scrivevo
L’intruso. Chiaramente mi è capitato di farmi domande del genere durante gli
episodi di cui parlo. Quando mi chiedi «qual è il posto della sofferenza», mi
viene da pensare che probabilmente non sia giusto porre la questione in questi
termini, anche se non la si può nemmeno porre altrimenti. Il termine «posto»
evoca infatti un ordine d’insieme, una configurazione con posti e ruoli: ma  si
ritornerebbe così a dare alla sofferenza un senso al di  là di se stessa e del
mondo. Ora, è questo senso d’al di là che si è chiuso o assentato per il nostro
mondo. Tanto vale dire allora il senso tout court, nel significato pregnante della
parola.
Nell’esperienza che, semplificando, chiamerò «a-tea», la sofferenza non è in
questione. Del resto si potrebbero usare a questo proposito le due parole che usi
anche tu, «dolore» e «sofferenza», per dire che la sofferenza si riduce al dolore
(se la parola sofferenza evoca un lavoro, un processo, qualche cosa che
potrebbe ancora essere reso dialettico - il dolore vuole dire invece che qualcosa
fa male, punto e basta. È immediato, brutale, subito intollerabile).
Il dolore annuncia che vi è qualche cosa di intollerabile: è inconciliabile,
ingiustificabile, irrecuperabile. Il dolore lo si può dimenticare (io ho la fortuna
di dimenticarlo piuttosto in fretta - anche se conservo alcuni brutti ricordi, che
quindi sono ancora oggi dei dolori), ma non lo si può mediare, né convertire.
Il dolore fa un taglio nel senso e impedisce che ci sia senso: quando si prova
un grande dolore niente ha senso. Il solo senso possibile è quello di respingere il
dolore, di rifuggirlo o di essere scaltri nei suoi confronti.
Tuttavia esso annuncia sempre il taglio ultimo, il dolore di morire,
l’interruzione definitiva del senso. Si  può solo pensare che questa interruzione
appartenga al  senso e che debba appartenergli, perché senza questo il  senso
diventerebbe una risposta finita, una rappresentazione consolatoria (religiosa),
in realtà un insulto all’infinita grandezza dell’uomo e del mondo.
Ma non bisogna cercare subdolamente un’altra forma di riconciliazione e di
giustificazione nel fatto che l’interruzione appartenga al senso e che il fuori-
senso  del dolore sia legato al senso... È molto difficile, è forse impossibile:
infatti non appena si dice qualche cosa del dolore si tende a giustificarlo (ed e
cioè che, tuo malgrado, fa la tua domanda a proposito del «posto del dolore»,
che pure è soltanto una domanda, nemmeno una risposta!).
Sul dolore non c’è nulla da dire. Si può solo gridare o gemere. Vorrei quasi
dire: si deve solo gridare o gemere e non fare né discorsi, né retorica. D’altra
parte però tutto ciò che si dice e che si pensa, tutta l’arte che viene fatta o che
viene desiderata, non ha altro senso se  non quello di andare incontro a questa
interruzione:  non di assorbirla (atteggiamento religioso) e nemmeno  di
affrontarla (atteggiamento eroico), ma di andarvi incontro e di accettare che vi
sia un’ambiguità impossibile da eliminare, come se si desse senso nello stesso
punto in cui il senso si ritrae. Qualche volta il pensiero di  tutto questo,
mescolato all’orrore e alla tristezza, ha  aleggiato davanti a me, come un
pensiero che mi veniva molto vicino, pur restando impossibile da
pensare... come uno sfiorare...

V.P.- C’è un passaggio nell'Intruso in cui parli dell’incrocio e dello scambio


fra morte e vita. In altri libri hai molto insistito su una visione dell’esistenza
come costitutivamente e originariamente in-comune.
La mia domanda, sulla scorta del pensiero heideggeriano del Sein zum Tode,
è: come bisogna pensare la morte (che fa anch’essa parte dell’esistenza) in
relazione all’essere-in-comune? E possibile pensare, contrariamente a ciò che
dice Heidegger, che vi sia un un’esperienza comune e un modo comune di
rapportarsi alla morte?

J.-L. N. - È significativo che nel mondo moderno abbiamo sempre più


testimonianze di questo intreccio fra la morte e la vita.
Invece d’essere un momento di passaggio in un processo (quello della
salvezza religiosa o quello della riproduzione delle specie), la morte diventa una
presenza familiare ed estranea contemporaneamente. Si scopre che essa agisce
al cuore della vita: esistono meccanismi estremamente complessi di morte
cellulare (o  addirittura di ciò che i biologi chiamano «suicidio cellulare») che
contribuiscono allo sviluppo degli organismi. All’estremo opposto, l’umanità si
è dotata di mezzi di morte di portata incommensurabile: non alludo  solo alle
armi, ma anche ad ogni tipo di manipolazione  della natura o dei corpi, ossia
degli equilibri che una volta erano considerati immutabili.
Si fanno crescere insieme i mezzi di vita e di morte. In questo modo mi
sembra che si mostri sempre di più  che la vita e la morte, o ciò che
bisognerebbe sempre chiamare «la vita/la morte», non siano affatto una fine in
sé, ma che ciascuna metta di fronte all’altra, indefinitamente. E questo è il cuore
di un’esposizione generale. Voglio dire che nella vita/morte è in questione solo
un’alterità incommensurabile, irriducibile e allo  stesso tempo infinitamente
circolante. La mia morte è  solo «la mia», come sottolinea Heidegger, ed è la
mia  nella modalità in cui non vi è più nulla di «mio». Ma  anche la morte
dell’altro mi mette davanti alla sua estraneità compiuta, proprio perché essa è la
«sua». Di  conseguenza noi condividiamo una estraneità rigorosamente
incondivisibile. E se non condividessi questo in  condivisibile non mi
condividerei neppure con me stesso, se così posso dire...
Strasburgo, 14 marzo 2000
tessere

1.    Biagio de Giovanni, Dopo il comunismo


2.    Rezvani, Avevo un amico
3.       Sestov, Berdjaev, Stepun, Askol’dov, Un artista del pensiero. Saggi  su
Dostoevskij
4.    Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa (3a ed.)
5.    Agamben, Badiou, de Carolis, Nancy, Russo, Zanardi, Politica
6.    Philip K. Dick, Un oscuro scrutare (esaurito)
7.    Juan José Millás, Il disordine del tuo nome
8.    Jean-Luc Nancy, Corpus (3a ed.)
9.    Giuseppe Di Costanzo, I popoli
10.    Luigi Trucido, Navicelle
11.    Maurice Blanchot, L’eterna ripetizione
12.    Jean-Luc Nancy, L'«etica originaria» di Heidegger (esaurito), ora in Jean-
Luc Nancy, Sull’agir e. Heidegger e l’etica
13.    Gilles Deleuze, Pericle e Verdi
14.       Badiou, Castellucci, de Berardinis, Lombardi, Martone,
Neiwiller, Moscato, Pardeilhan, Teatro
15.    Gilles Deleuze, La filosofia critica di Kant
16.    Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! (2a ediz.)
17.    Collettivo 33, Per l’emancipazione. Critica della normalità
18.    Pascale Kramer, Manu
19.    Jean-Luc Nancy, Hegel. L’inquietudine del negativo
20.    Lino Fiorito e Luigi Trucillo, Polveri
21.    Angela Putino, Amiche mie isteriche
22.    Gabriele Frasca, Tele
23.    Alain Badiou, San Paolo. La fondazione dell'universalismo
24.    Massimo De Carolis, Una lettura del «Tractatus» di Wittgenstein
25.    Gilles Deleuze, L’esausto (2a ed.)
26.    Ingeborg Bachmann, Libro del deserto
27.       Abensour, Badiou, Derrida, Ferraris, Franzini, Garelli, Härle,  Milner,
Nancy, Sossi, Vidal-Naquet, Pensiero al presente. Omaggio  a Jean-François
Lyotard
28.    Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività
29.    Jean-Luc Nancy, L'intruso (2a ed.)
30.    Angelo Maria Ripellino, Nel giallo dello schedario
31.    Mario Pomilio, Emblemi
32.    Arturo Martone, Questioni di Enunciazione
33.    Jacques Derrida, Interpretazioni in guerra. Kant, l'ebreo, il tedesco
34.    Mario Di Pinto, Il prigioniero
35.    Alain Badiou, Metapolitica
36.    Bruno Moroncini, La comunità e l’invenzione
37.    Gilles Deleuze, Foucault
38.    Jean-Luc Nancy, Tre saggi sull’immagine
39.    Gilles Deleuze, Che cos’è l'atto di creazione
40.    Julio Cortázar, Teoria del tunnel
41.    Valerio Romitelli, Storie di politica e di potere
42.    Maurice Blanchot, Nostra compagna clandestina. Scritti politici
43.    Jean-Luc Nancy, Sull'agire. Heidegger e l’etica
44.    Bruno Moroncini, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone
45.    Jacques Derrida, Abramo, l’altro
46.       Agamben, Altaras, Cavalletti, Cohen Dabah, Härle, Moscati, Traverso,
Vidal-Naquet, Shoah. Percorsi della memoria
47.    Alain Badiou, L’etica
48.    Jean-Luc Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I
49.    Georges Bataille, Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti
50.    Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario
del seminario sull’etica di Jacques Lacan
51.    Peter Weiss, Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte
52.    Jacques Rancière, L’odio per la democrazia

Tessere

1.    L. Sterne, Un viaggio sentimentale


2.    F. W. J. Schelling, Dell'Io come principio della filosofia (2a ed.)
3.    G. W. Leibniz, Confessio Philosophi e altri scritti (2a ed.)
4.    F. Nietzsche, Sulla storia della tragedia greca (2a ed.)
5.    J.-J. Rousseau, Emilio e Sofia o i solitari
6.    R. Descartes - H. Regius, Il carteggio. Le polemiche
7.    Cristina di Svezia, La vita scritta da lei stessa
8.    J. Bentham, Teoria delle finzioni
9.    Autori Vari, Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento
napoletano
10.    A. Pizzuto, Ultime e Penultime
11.    G. Lubrano, In tante trasparenze
12.    Jean Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana
13.    G. Simmel, Filosofia e sociologia dei sessi
Ex-corde
1.    Rezvani, Tre quadri del Tintoretto
2.    Bruno Forte, Confessio theologi. Ai filosofi
3.    Eugenio Mazzarella, Filosofia e teologia di fronte a Cristo
4.    Paolo Valesio, Dialogo coi volanti
5.    Bruno Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan
6.    Vincenzo Vitiello, Vico e la Topologia

Lingue

1.    Hugo Hamilton, Lo scoppiato


2.    Nathalie Sarraute, Infanzia

lingue

1.    Tommaso Pincio, M.
2.    Antonio Pizzuto, Narrare
3.    Gabriele Frasca, Santa Mira
4    Luisa Stella, Le incurabili
5    Tommaso Ottonieri, Contatto
6. Luigi Trucillo, Lezione di tenebra

Virus

1.       Baino, Caputo, Carillo, Cicelyn, Fofi, Frezza, Mazzoleni, Mazzone,


Merlino, Scialò, Spina, Venezia, Zanardi, Le lingue di Napoli
2.    Linda De Feo, Philip K Dick. Dal corpo al cosmo
3.       Alfano, Berressem, Briasco, Carratello, Costigliela, Frasca, Herman,
Pincio, Portelli, Prezzavento, Rossi, Sinibaldi, Wolf, La dissoluzione onesta
4.       Amato, Borrelli, Di Marco, Martone, Moroncini, Zanardi,
Aporie napoletane. Sei posizioni filosofiche
5.       Cox, Francie, Hinant, Miller, Murphy, Paci Dalò, Quinz, Szepanski,
Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica
6.    Romano Gasparotti, Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e
filosofia

rasoi

1.    Gilles Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat


2.    Claude Lanzmann, Un vivo che passa
3.    Alain Badiou, La Comune di Parigi
4.    Michel Foucault, Utopie Eterotopie
5.    Gilles Deleuze, Che cos'è un dispositivo?

Soglie

1.       Cacciari, D’Amato, Herling, Martone, Venezia, La città


porosa. Conversazioni su Napoli
2.       Archibugi, Cassese, La Capria, Quinzio, Tafuri, Communis
patria. Conversazioni su Roma
3.       Branzi, dal Co, Salvatores, Sini, Tadini, La metropoli
accidentale. Conversazioni su Milano

l'espressione

0.       Badiou, Bensaïd, Collettivo 33, Costa, Formenti, Frasca, Moroncini,


Moscati, Nancy, Putino, Zanardi, Guerre
1.    Bavari, Badiou, Berardi, Collettivo 33, Cutro, Deleuze, Dumoulié, Frasca,
Foucault, Mele, Paci Dalò, Perretta, Putino, Villani, Weil,  L'anti-Edipo 30
anni dopo
2.       Badiou, Collettivo 33, Cutro, Esposito, Fonseca, Gilardi,
Kojève,  Moroncini, Nancy, Napolitano, Panero, Perna, Putino,
Romitelli, Žižek, Ateismo
Finito di stampare nel mese di febbraio 2008
presso la GraficArte sas - Marano di Napoli (NA)
1  Qui il termine usato è trasplantation, mentre in tutti gli altri casi viene usato il più comune greffe
[N.d.T.].
2 Mi collego qui ai pensieri di alcuni amici: Alex che, in tedesco, dice d’essere «un-eins» con l’Aids, per
significare un’e-sistenza la cui unità si dà nella divisione e nel disaccordo con se stessa o Giorgio che in
greco parla di un bios che è solo zoé, cioè di una forma di vita che non è che la semplice vita mantenuta
come tale. Cfr. A. Garcia-Düttmann, Uneins mit Aids, Fischer,  Frankfurt a. M. 1993 e G. Agamben,
Homo sacer I, Einaudi, Torino 1995. Per non parlare degli innesti, dei supplementi e delle  protesi di
Derrida. E il ricordo di un disegno di Silvie Blocher, Jean-Luc con un cuore di donna.
3 Questo testo è stato pubblicato per la prima volta su invito di Abdelwahab Meddeb a partecipare ad un
numero della sua rivista Dédale intitolato: «La venuta della straniero» (n° 9-10, Maisonneuve et Larose,
Paris 1999).

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