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Alessandro Fersen, Risalendo a Dioniso. Conversazione con Giorgio Colli, in AA.VV., La dimensione perduta.

Alessandro Fersen 1957-1978, ventun anni di Laboratorio Teatrale, a cura di G. Polacco, Roma, Galleria dArte Moderna, 1978; ripubblicato sul sito Internet www.giorgiocolli.org; una versione parziale disponibile sul sito Internet www.miserabili.com.

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Da La dimensione perduta. Alessandro Fersen 1957-1978, ventun anni di Laboratorio Teatrale (1)

Colli: Devo premettere che il mio rapporto con Fersen, che data dai tempi della guerra, non riguarda il teatro in particolare, perch un rapporto completo: quello che ci dicevamo e ci diciamo pu riguardare la poesia, pu riguardare la filosofia, il teatro ed ogni altra cosa, ma si riferisce sopratutto ad una visione del mondo, pur nella diversit dei nostri punti di vista. In questa prospettiva, ogni volta che ho potuto vederlo nel suo laboratorio, con i suoi attori, ho sempre seguito con grandissimo interesse il suo lavoro, perch lo stesso interesse porto anchio verso i giovani, e da lui ho imparato molte cose sul rapporto fra maestro e discepolo.

Fersen: Io ho il timore che, malgrado i nostri incontri a Firenze, a Settignano, incontri, del resto, saltuari, che hanno luogo a distanza di anni, oggi possa intervenire fra noi qualche problema di lessico, nel senso che vivendo attualmente in una mia prospettiva che quella del laboratorio teatrale, e servendomi di un mio lessico ormai acquisito, io stenti a pormi in una certa angolazione, quale la nostra, che unangolazione decisamente filosofica. Daltra parte, per me una preziosa occasione questa, perch non desidero chiudermi nel solo ambito teatrale e non considero il mio lavoro di laboratorio come un fatto esclusivamente teatrale.

Colli: Se ti ricordi, gi trentanni fa, nelle nostre discussioni il discorso, spesso, si soffermava proprio sul problema della terminologia: questo inevitabile in ogni discussione di tipo filosofico, dove il concetto lo strumento attraverso cui si comunica e siccome il concetto si esprime in un termine, si rende necessaria una chiarificazione

sul significato che al termine ognuno attribuisce. Che, poi, il linguaggio che usi con i tuoi giovani sia diverso da quello che usi con me mi sembra naturale, dato che con loro tendi a stabilire una comunicazione, non tanto concettuale e quindi legata a un uso dei termini corretto, quanto a una comunicazione di stati interiori, di una certa vibrazione di sentimento, di volont, forse. una trasmissione pi profonda che non quella concettuale, una forma di paideia, in cui il lessico vale soprattutto come punto di riferimento. I due momenti, cio, sono diversi: uno il momento dellesperienza teatrale diretta e laltro quello del teatro visto come soluzione filosofica della vita, e allora per la comunicazione si impone la scelta di una rosa di concetti. Siccome io da sempre ho posto la mia espressione, la mia comunicazione in unaltra sfera, ecco che tra noi, date le due sfere diverse di espressione, sempre si pongono problemi di comprensione.

Fersen: Paideia un termine tipicamente tuo, che ti ho sentito usare fin dai nostri primi incontri, quando discutevamo dei tuoi Presocratici (2) e dellUniverso come gioco (3). Che cosa vuol dire il termine paideia applicato al mio lavoro nello Studio?

Colli: Uso il termine paideia proprio nel suo senso greco di educazione, di formazione umana: , cio, il modo in cui si trasmette un valore non soltanto contingente, transeunte, che valga per i rapporti della vita privata, ma anche un valore che vada al di l della persona. Questa trasmissione, per cui qualcosa passa da un uomo formato ad un uomo da formare, d a questultimo il senso che nella vita c qualcosa che va al di l dei fini immediatamente individuali: e questo lo chiamo paideia. Quando, negli anni passati, ho assistito al tuo rapporto con i giovani, ho avuto proprio questa sensazione di una capacit di trasmissione di qualcosa di interiore, di qualcosa che per definizione difficilmente esprimibile, ma che essenziale per la vita delluomo. Ora, per un filosofo ci sono, in questo senso, gravi difficolt per operare questa trasmissione: inevitabile, per lui, servirsi di concetti, cio di qualcosa che non rispondente n alla natura di quello che uno porta dentro di s e che vuole trasmettere, n alla natura di ci che laltro recepisce. Quindi il concetto una mediazione falsa, cio lontana dalloriginale: uninvenzione, per cos dire, intermedia che dovrebbe, da un lato, esprimere quello che c in partenza in chi trasmette, e dallaltro lato, dovrebbe porre chi ascolta nelle condizioni corrispondenti per ricevere quella comunicazione. Nel tuo caso, invece no: tu non ti servi di una comunicazione concettuale, tu provochi una disposizione nellinteriorit del tuo attore o discepolo mediante vari mezzi tecnici e in questo caso il

ruolo del concetto assunto da una tecnica di comunicazione espressiva di tipo teatrale, che pu essere la tecnica dellattrezzo o unaltra delle tue tecniche, che sono delle mediazioni parallele, per, in un certo senso, pi vicine al concreto che non sia un concetto. Quello che mi ha molto colpito era la facilit e la sicurezza e lesito devo dire lampante delloperazione stessa: mentre invece per un filosofo lesito della comunicazione rimane sempre incerto, perch al massimo pu contare su di un assenso che non controllabile nella sua entit intrinseca: mentre nelle tue tecniche lo stesso comportamento del discepolo dimostra che la comunicazione avvenuta.

Fersen: Ma non pensi, da quello che hai potuto constatare, che, pi che trasmettere, nel senso di trasmettere dei contenuti, io operi soprattutto nel senso di provocare una forma di autoconoscenza, cio una rivelazione di s stesso, in ognuno dei partecipanti a questo tipo di lavoro?

Colli: S, questo verissimo. Per vorrei precisare che questo qualcosa che appartiene ad ognuno e che attraverso la tua tecnica viene scoperto, non appartiene soltanto allindividuo, ma, secondo me, costituisce , se posso dire cos, lessenza del mondo. Ecco il punto. Penetrando in questa parte pi intima di noi stessi attraverso queste esperienze, noi non soltanto ci spogliamo di tutte le sovrastrutture della vita quotidiana, di quello che noi crediamo reale e che scopriamo non essere pi reale, nel senso che linteresse che portiamo per le cose che ci stanno attorno viene in questo momento a cadere totalmente e noi scopriamo questo noi stessi come qualcosa che non ha nulla a che fare con quella che si manifesta quotidianamente come la nostra personalit limitata: ma questo noi stessi profondo, ad un certo punto, non neanche pi qualcosa di individuale. Ed in questo che consiste la comunicazione teatrale, io penso, nellidentificazione di questo noi stessi con lessenza del mondo. E un discorso molto generico, me ne rendo conto Voglio dire che questo io pi profondo che viene a galla, secondo me, va al di l della nostra personalit e questo laspetto divino dellesperienza teatrale.

Fersen: Mi sembra, mentre ti ascolto, di percepire qualche eco di quello che tu dici nellIntroduzione ai tuoi Presocratici, dove parli di conoscenza dionisiaca, cio di quel tipo di conoscenza concreta che lesperienza del vivere e che non ha niente a che fare con la conoscenza concettuale.

Colli: Certamente. Per continuare il parallelo che tu hai fatto con la Grecia antica, posso indicare, come esemplificazione di questa esperienza, la conoscenza di Eleusi, la conoscenza misterica, che in relazione, come tu sai, con lorigine della tragedia. Ora, in questi misteri di Eleusi, in cui Dioniso aveva cos grande parte, si raggiungeva una conoscenza suprema che era una visione: una visione per la quale gli autori pi antichi che ce ne parlano, non usano altro termine che quello del vedere: vedrai quelle cose, veniva detto agli iniziati. Questa visione sta alla base di quellesperienza che poi, sempre attraverso Dioniso, si manifestata come tragedia: quindi la relazione con levento teatrale, in questo caso, proprio intrinseca. Senza contare che molti elementi ci fanno pensare che nelliniziazione misterica di Eleusi trovasse posto una specie di rappresentazione teatrale. Questa conoscenza immediata, intuitiva, sta allorigine di ogni altra conoscenza. In Grecia essa si trasmette attraverso i sapienti fino alla filosofia: cio, tutto il pensiero astratto, il pensiero discorsivo, razionale, ha la sua origine e il suo fondamento in questa esperienza intuitiva. Esperienza retrospettiva, da cui tutto il resto dipende, e che manca a noi moderni.

Fersen: La dimensione perduta.?

Colli: Giusto: un altro modo di dire la stessa cosa.

Fersen: Sto ricollegando quello che dici alle ultime esperienze di laboratorio che vado conducendo in queste settimane. Si direbbe che certe mie tecniche riconducano alcuni dei partecipanti a ricordi ancestrali, forse ad una memoria collettiva, a un inconscio collettivo, come direbbero i seguaci di Jung. Ma anche quando levocazione porta in scena, se posso dire cos, delle vicende individuali, ti accorgi che queste vicende individuali non sono che il travestimento di moti molto pi profondi, che si valgono di questi simboli che sono le nostre passate vicende per esprimersi: in realt, lazione del dramma si svolge a tuttaltro livello, anche se, per manifestarsi, si serve di questo gesto personale, autobiografico.

Colli: Parliamo allora dei ricordi, della memoria. Se andando oltre a quello che si diceva prima sulla visione eleusina, sullorigine dionisiaca sia di Eleusi sia della tragedia, noi allarghiamo lo sguardo fino alla poesia orfica e a quello che Orfeo rappresenta in questa

tradizione che radicata anchessa nella religione di Dioniso, noi troviamo nelliniziazione orfica, messa in grande evidenza, la divinit di Mnemosyne, cio della memoria, che assume un valore assolutamente metafisico. Nelle famose laminette orfiche che gli iniziati portano con s nella tomba e che sono state appunto ritrovate in certe tombe dellItalia Meridionale e in varie parti della Grecia, sta scritto, con formule ricorrenti, simili le une alle altre, che lanima degli iniziati dopo la morte si presenta a dei custodi che le ordinano di bere alla fonte di Mnemosyne; chi ha bevuto alla fonte della memoria passa alla vita divina. Chi ha bevuto allaltra fonte, quella dellOblio, rimane nella vita terrena. Ora, lindicazione metafisica che bisogna trarne mi sembra molto simile a quello che dicevi tu prima: questo tipo di memoria che ci porta al dio, cio a qualcosa che sta dietro di noi: ed con questo ritorno allindietro che noi ci ricongiungiamo con il divino. Nei greci non c nessuna visione storica della vita, la storia ed il passare del tempo non hanno nessun valore positivo, il positivo sta dietro di noi, non sta davanti a noi e quindi attraverso la memoria che noi ci ricongiungiamo a Dioniso.

Fersen: Questa divinizzazione di Mnemosyne, che fa della memoria una realt superindividuale, mi pare addirittura profetica rispetto a molte cose che si dicono oggi, e si conf anche a quello che faccio io. La mia sperimentazione, tu lo sai, si svolge su un piano concreto e porta ad una valutazione sperimentale, di laboratorio: sperimentale nel senso che nasce veramente da quello che io posso vedere ed intuire. Ma dal resoconto di quello che ognuno dei partecipanti ricorda, ed normalmente abbastanza frammentario e confuso, emerge una dimensione che chiamerei eroica rispetto alla vita quotidiana, non perch fatti, gesti, emozioni vengano mitizzati e diventino leggendari, ma perch, effettivamente, attingono ad una matrice che supera langustia, le ristrettezze dell io individuale.

Colli: Vorrei ancora aggiungere questo: che un elemento comune, mi sembra, la ciclicit di questo fenomeno, perch nellevento teatrale si attua unesperienza assolutamente eccezionale, ma non duratura: La nostra condizione umana, a un certo punto, rompe quella magia per farti rientrare nella vita quotidiana. Ma la grande superiorit, per me, di una concezione di questo genere rispetto ad una concezione religiosa genericamente proiettata verso una vita ultraterrena, sta nel fatto che tu quella divinizzazione, quellesperienza definitiva, la raggiungi nella nostra vita. Siccome la

qualit di questa esperienza resta la stessa, ad un certo punto la sua durata diventa un elemento secondario: quello che tu raggiungi in quellesperienza equivale allessere una cosa sola con Dioniso. I greci definivano questo: bakkos, che anche uno dei nomi di Dioniso, ma nello stesso tempo bakkos colui che diventato Dioniso, , che, attraverso questa esperienza, lui stesso Dioniso. Quindi bakkeuein, il fare il Bacco, significa essere in quello stato di identificazione con la divinit.

Fersen: Tradotto nel mio modo di vedere le cose e nella mia concezione del teatro, questo significa che la vera operazione teatrale, quella che tu chiami identificazione, va ricondotta ai suoi originari comportamenti rituali. Per fare questo occorre liberarsi da tutte le sovrastrutture che ci condizionano oggi .

Colli: Ma tu sei riuscito a farlo nel Leviathan (4) .

Fersen: Gi, sei venuto a Spoleto, alla prima. Ricordo che dopo lo spettacolo mi hai detto una frase sibillina: che ero andato al di l del concetto .

Colli: Adesso molto facile spiegarlo, dopo quanto abbiamo detto. Io di fronte a questo spettacolo ho avuto una fortissima emozione: emozione quello che non si pu dire a parole ed inutile che cerchiamo di spiegare in che cosa consiste lemozione. Comunque, con quella frase, volevo dire quello che si diceva prima a proposito della paideia: che sei riuscito a trasmettere qualcosa di molto profondo senza alcuna mediazione concettuale: pensiamo a quello che si diceva prima del dionisiaco, ecco, il Leviathan uno spettacolo dionisiaco, questo il punto. Attraverso quello che vedi e che senti, sei portato fuori dal tempo, in unaltra dimensione: nel Leviathan non ci sono concetti. Anche le parole sono estremamente frammentarie, sono dei puri pretesti

Fersen: Dei fonemi, vuoi dire?

Colli: No. Sono anche delle citazioni che hanno una notevole presa di carattere suggestionante, proprio perch tramite queste parole, non necessariamente sconnesse, cerano anche dei versi, mi ricordo dei versi dallEdipo Re, dei versi di Shakespeare, tramite questi frammenti poetici, non in una sfera del concetto Cio, la parola , si, lo

strumento che comunica in questo caso e non la pura visione: per la parola usata per suscitare unimmagine poetica, un tipo di emozione che completamente al di fuori del concetto. Il concetto ha come sua condizione il discorso, cio il collegamento tra le parole, quindi anche il discorso poetico diventa discorso nella sua continuit. Invece tu, non casualmente, avevi scelto dei frammenti, perch il frammento ti dava la visione, limmagine come tale, cio una mediazione pi vicina allinteriorit, in questo suo lampeggiamento.

Fersen: In che senso tu usi la parola visione e la parola immagine? Non credo che tu parli di visione come fatto visivo. Mi sembra, anche in riferimento a quanto dicevi prima di Dioniso, che non si tratta di una esperienza tendente alla visualizzazione.

Colli: Qui il discorso sarebbe complicato; comunque posso dire che nel linguaggio misterico dei greci ritorna sempre questa allusione alla visione. Tanto per dare una spiegazione un po banale, ma che pu servire sul piano corrente, mi rifarei alla distinzione tra visione data dai sensi, appartenente alla conoscenza quotidiana, e visione nel senso misterico che si apparenta allallucinazione. Nei Greci il carattere allucinatorio della conoscenza una cosa frequentissima. Quando nelle Baccanti Euripide dice che esse battevano col tirso sulla roccia e ne sprizzava il miele o il vino, vuol dire che esse vedevano veramente il miele e il vino e lo bevevano. Era una cosa reale per loro: questo laspetto visionario del conoscere. E a proposito dei Misteri Eleusini, nel documento pi antico che noi possediamo, cio nellInno Omerico a Demetra, VII secolo a.C., si dice testualmente: chi ha visto quelle cose, giunger beato nellaldil . Ci sono poi due antichissimi frammenti, uno di Pindaro ed uno di Sofocle, che usano il verbo vedere proprio in questo senso, secondo me. Non che ci sia una degradazione nel ricondurre queste esperienze nellambito visivo, perch non si tratta di una visione abituale, di una visione sensoriale, ma piuttosto di unesperienza di tipo visionario. Lidea platonicache etimologicamente vuol dire immagine , no? ha questa stessa carica visionaria, allucinatoria, propria di una visione che nasce dal di dentro.

Fersen: Ti interesser sapere che in alcuni aspetti del mio lavoro, per esempio nel mnemodramma, che pure parlato, si susseguono delle visioni che nessuno di noi presenti percepisce, ma che sono estremamente concrete e reali per il soggetto che in

quel momento sta vivendo la sua esperienza e che vede, tocca, sente cose e persone inesistenti nella realt.

Colli: secondo me, questo lessenziale nellorigine della tragedia. Una delle cose pi geniali che in proposito ha detto Nietzsche che lazione teatrale unallucinazione del Coro: il Coro nella sua emozione dionisiaca vede la scena e la scena che noi vediamo la riproduzione di questa visione primordiale del Coro. Cio, il mito tragico una visione del Coro grazie a cui, dice Nietzsche, esso si scarica del dionisiaco.e su questo non sono daccordo. Per me la visione la cosa stessa, non stabilisco una sfera dionisiaca ed una sfera apollinea in contrasto, come sempre Nietzsche postulava: io invece vedo le due sfere molto vicine, quasi identificate. Quindi, in questo senso, se anche possiamo chiamare apollineo un certo tipo di rovesciamento visionario come il mito tragico, questo non vuol dire che esso scarichi langoscia dionisiaca: perch luno coincide con laltra, il mito la faccia apollinea del fenomeno dionisiaco.

Fersen: Ma la concezione aristotelica del carattere liberatorio della tragedia?

Colli: Su questo carattere liberatorio io non sono daccordo. Nietzsche lo critica, ma poi, in fondo, ci ricasca a sua volta.

Fersen: Per, nel mnemodramma, evitando qualsiasi definizione di carattere clinicoterapeutico che detesto, lesperienza convalida lesistenza di un risultato liberatorio o, se vogliamo chiamarlo cos, di un arricchimento della personalit.

Colli: Certo, perch un momento in cui si aderisce al fondo dionisiaco che c in ognuno di noi: ed l che nasce il teatro. Con la tua esperienza e con uno spettacolo come il Leviathan tu hai attinto a questa essenza dionisiaca e lhai espressa in visioni.

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Note

1) Per Laboratorio teatrale si intende lo Studio Fersen, creato Da Alessandro Fersen nel 1957 a Roma. Lo Studio, fino al 1995, ha svolto unattivit ininterrotta di laboratorio teatrale, promuovendo ricerche sperimentali e seminari, allestendo spettacoli, istituendo corsi di insegnamento dove si sviluppata la tecnica psicoscenica dellattore che, attraverso una serie di esercizi, culmina nel mnemodramma.

2) Con lespressione: i tuoi Presocratici Fersen allude al primo libro di G. Colli Fusiscruptistaifilei- Studi sulla filosofia greca. Pubblicato a Milano nel 1948. Ripubblicato da Adelphi nel 1988 col titolo, tradotto dal greco, La natura ama nascondersi.

3) LUniverso come giuoco il primo libro di Alessandro Fersen, pubblicato da Guanda nel 1936. Fersen ha poi pubblicato, nel 1980, per Laterza, Il teatro, dopo.

4) Il Leviathan di Alessandro Fersen, fu prodotto dallo Studio Fersen e presentato, nel Luglio del 1974, al XVII Festival dei Due Mondi di Spoleto. Cos Fersen lo riassumeva:
Leviathan anzitutto uno spettacolo di ricerca realizzato con il gruppo di lavoro del mio Studio. Larco dello spettacolo muove da una specie di eden naif, in cui si adombra una condizione umana fatta di armonia ed autenticit; si sviluppa nel primo traumatizzante episodio di sopraffazione (Caino e Abele), in cui lutensile arcaico diventa arma fratricida; si amplia coralmente nella progressiva proliferazione di questo cancro della convivenza umana. I corpi e gli spiriti restano coartati in aggregazioni alienanti che adombrano lantico mostro biblico. Ma il Leviathan moderno porta in s le premesse del proprio disfacimento: la Bestia apocalittica resta progressivamente paralizzata nel suo funzionamento. Finir per esplodere cedendo alle spinte disgregatrici che lavorano al suo interno e nelle quali si esprime lantica aspirazione ad una vita su misura umana. Il bateau ivre di Rimbaud, nel corso delle sue peregrinazioni, vede: Fermenter les marais, normes nasses/ o pourrit dans les joncs tout un Lviathan . Devo al ricordo di questi versi il titolo dello spettacolo. .

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