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MIMESIS / FILOSOFIE

N.

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese)


e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)

comitato scientifico
Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio
Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro
Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università
degli Studi di Urbino Carlo Bo), Morris L. Ghezzi (Università degli Studi
di Milano), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Gio-
vanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università
degli Studi di Cassino), Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di
Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panai-
no (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari
(Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi
di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni
(Univ. di Urbino), Luca Taddio (Università degli Studi di Udine),Valentina
Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università de-
gli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza),
Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
Francesca Gruppi

DIALETTICA
DELLA CAVERNA
Hans Blumenberg tra antropologia e politica

MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Filosofie n.
Isbn: 9788857537672

© 2017 – mim edizioni srl


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

Introduzione. Non fare i farmacisti con Blumenberg 9


1. Le ragioni di uno stile 9
1.1. Debolezza e narrativismo 9
1.2. Impossibile rinuncia alla filosofia e integrazione
dell’inconcettuale 13
1.3. Variazioni sul tema 15
1.3.1. Alla ricerca del Grundgedanke 15
1.3.2. Le «belle inesattezze» delle variazioni
fenomenologiche 20
2. La riflessione antropologica come traccia esoterica dell’opera
blumenberghiana 22

Capitolo primo. Antropologia fenomenologica


e filosofia della preistoria 29
1. Il divieto antropologico della fenomenologia 29
2. Paradossi fenomenologici: superamento
del divieto e legittimità dell’antropologia 33
3. Un’antropologia trascendentale e storica 38
4. La fenomenologia della storia di Blumenberg 42
5. Fenomenologia e preistoria 48
6. Archeologia e metaforologia 51

Capitolo secondo. Risvegli 57


1. Sassi (Homo faber) 57
1.1. Distanza, prevenzione e aggressione:
dalla pietra alla trappola e oltre 65
1.2 Sul concetto di tecnica: un approfondimento 69
1.3 Esitazione e pensosità 78
2. A piedi nella savana (Homo theoreticus) 84
2.1. Distanza, visibilità e attenzione 92
2.2. L’uomo come Angstwesen e l’orizzonte
come soglia dell’indeterminato 97
2.3. Umwelt, Welt, Lebenswelt. Uomini e no 107
3. Discesa nelle caverne (Homo symbolicus) 125
3.1. Distanza, simbolo e immagine 130
3.2. Inconcettualità e concettualità:
mito, metafora, retorica, concetto 138
3.2.1 Mito 138
3.2.2 Retorica 148
3.2.3 Metafora versus concetto 153

Excursus. Sul concetto di cultura: carenza, lusso,


compensazione e domesticazione 159
1. Blumenberg tra umanesimo e post-umanesimo 168

Capitolo terzo. How to do nothing with words 173


1. Il biotopo sociale 173
2. L’unità minima del politico: la polis tra immunità
e visibilità 175
3. Il meccanismo della delega e il vantaggio
delle istituzioni 177
4. Antiassolutismo e antitotalitarismo 182
5. Il binomio amico/nemico 183
6. Autoaffermazione vs. teologia politica:
volontarismo vs. decisionismo 185
7. How to do nothing with words: mitigazione
del potere attraverso la retorica 188
8. Conservazione e utopia 191
9. Brevi conclusioni 195

Bibliografia
197
Scritti di Hans Blumenberg 197
Scritti su Hans Blumenberg 200
Altre fonti citate 207
a Emiliano
INTRODUZIONE
Non fare i farmacisti con Blumenberg

[Il giovane farmacista colto] sceglieva Bartleby invece di


Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard
e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o Il cir-
colo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano.
Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le gran-
di opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’i-
gnoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In
altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scher-
ma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combatti-
menti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro
quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomen-
ta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.1

1. Le ragioni di uno stile2

1.1. Debolezza e narrativismo

La domanda ricorrente tra i lettori ‘occasionali’ di Hans Blumenberg


concerne l’ambito disciplinare della sua produzione: si può ancora parlare

1 R. Bolaño, 2666, I, Adelphi, Milano 2007, pp. 285-286.


2 Per una ricostruzione della biografia dell’autore si vedano in particolare: gli sporadi-
ci accenni dello stesso Blumenberg contenuti in Id., Passione secondo Matteo, il Mu-
lino, Bologna 1992, pp. 61-66 e Id., Concetti in storie, Medusa, Milano 2004, pp. 25-
26; il breve ma efficace profilo tracciato da Andrea Borsari nella sua introduzione a
Id. (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, il Mulino, Bologna
1999, pp. 9-17; quello ancor più essenziale che si trova nell’importante monografia
di Franz Josef Wetz: Id., Hans Blumenberg zur Einführung, Junius, Hamburg 1993,
p. 11; nonché le notizie riportate da Martin Thoemmes in Id., Die verzögerte Antwort.
Neues über den Philosophen Hans Blumenberg, in «Frankfurter Allgemeine Zei-
tung», 26.3.1997, p. 37 e Ferdinand Fellmann in Id., Gelebte Philosophie in Deutsch-
land. Denkformen der Lebensweltphänomenologie und der kritischen Theorie, Al-
ber, Freiburg-München 1983, pp. 257-258. Per un ritratto di fantasia, che tuttavia non
sembra tradire biografia e opera del filosofo, si veda il romanzo di Sybille Lewitscha-
roff: Id. Blumenberg, Suhrkamp, Berlin 2011.
10 Dialettica della caverna

di filosofia in senso pieno, o ci troviamo di fronte a un’opera letteraria, sep-


pur innegabilmente penetrante sul piano teoretico? Abbiamo a che fare con
un «eccentrico», che «in operoso isolamento ha scritto dei libri eruditi», o
al contrario con «una personalità essenziale della storia della filosofia»?3
Ancora: il gusto per l’aneddoto e per l’Umweg, la divagazione, il tratto
«torrentizio»4 e barocco della scrittura blumenberghiana costituiscono un
vezzo stilistico, una forma di narcisismo con cui l’autore fa sfoggio del suo
sapere smisurato, o si pongono in un rapporto di interdipendenza con i mo-
tivi più profondi del suo pensiero?5 Dove, tra le molteplici direzioni prese
dalla riflessione, bisogna cercare, scavare, per portare alla luce le ragioni di
uno stile che talvolta appare più simile a un ostacolo che a un viatico per la
comprensione del discorso filosofico che veicola?
Non sono domande inedite. In maniera più o meno estesa, la gran parte
degli ‘studi blumeberghiani’ ha dedicato un’attenzione preliminare alla que-
stione della forma; perciò vale la pena tentare di ordinare le diverse posizio-
ni entro alcune ipotesi interpretative e indicare all’interno di esse una o più
strade possibili per una lettura corretta della vasta opera blumenberghiana.
Se è vero che Blumenberg è stato «l’esempio, inusuale in Germania, di
un pensatore che filosofava in maniera letteraria», se egli, col suo gusto per
la narrazione, per le immagini evocative, per la dimensione del mitologico,
del metaforico, si è trasformato nel «filosofo del racconto infinito», la spie-
gazione più immediata di questa contaminazione è quella che ne individua
le ragioni in una peculiare forma di scetticismo filosofico. Ed è innegabile
che Blumenberg sia stato a suo modo un filosofo scettico, certamente un
critico acutissimo delle pretese veritative della filosofia, dei vicoli ciechi,
dei fallimenti e delle delusioni che hanno segnato il percorso della storia
dello spirito, cosciente dei confini angusti del pensiero speculativo e con-
vinto che la Begriffsgeschichte si giochi in larga misura nella dimensione
dell’inconcettuale. Hans Blumenberg era «un rinnegato dell’unicità»,
«l’antipodo del pensatore sistematico monadico»6 intento a condensare in
un unico punto prospettico e in una formula definitiva la teoria vera del

3 O. Müller, Sorge um die Vernunft. Hans Blumenbergs phänomenologische An-


thropologie, Mentis, Paderborn 2005, p. 16.
4 G. Vattimo, Figli di Prometeo. Blumenberg e il mito: il fascino eccessivo del pen-
siero debole, in «La Stampa», n°170, 1991, p. 6.
5 Si vedano a tal proposito ad esempio le riflessioni di Carlo Gentili, che peraltro di
Blumenberg non è certo un lettore occasionale, in C. Gentili, Introduzione all’edi-
zione italiana, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 9.
6 Nordhofen, E., Die Proklamation des Plurals. Zum Tode des Philosophen Hans
Blumenberg, in «Die Zeit», 12.4.1996, p. 47.
Introduzione 11

mondo. Vi è chi lo definisce una delle più autorevoli voci dello «spirito
pluralistico, antimetafisico, relativistico del suo tempo», conforme al «mi-
lieu intellettuale del multiculturalismo» sorto in Francia, padre di una me-
taforologia le cui affinità col decostruttivismo derridiano e la sua tensione
verso l’ineffabile non sarebbero state sottolineate a sufficienza.7
D’altra parte è innegabile che Blumenberg faccia professione di scettici-
smo in numerosi passaggi della sua smisurata opera, se per scetticismo
s’intende una sorta di ponderato j’accuse al carattere «dispotico» della fi-
losofia, laddove essa pretende di sostituirsi una volta per tutte all’universo
‘umbratile’ del mito e all’innocenza della «menzogna estetica», senza esse-
re in grado di soddisfare la propria aspirazione all’autarchia e le proprie
pretese fondative; in tal modo la filosofia rimane indissolubilmente legata
alla «figura originaria della delusione»,8 alla luce della quale è lecito chie-
dersi se non si debba, anziché coprirli, ‘dissotterrare’ i depositi di «signifi-
catività» cresciuti nello spazio del metaforico e nel lavoro del mito, come
parte integrante della Begriffsgeschichte, della stessa storia della filosofia.
Tale è l’intento di Blumenberg: scrivere e riscrivere l’epopea spirituale
dell’Occidente spalancando le porte a tutto quanto il pensiero speculativo
ha disperatamente tentato di bandire ed espungere da sé. Da ciò dipende-
rebbero dunque l’enciclopedismo esasperato, la «pedanteria» nell’insistere
su particolari apparentemente irrilevanti, il ricorso ad «aneddoti e vignette
filosofiche» che spesso «divertono più di quanto orientino», col rischio co-
stante di una deriva nella «provincialità».9
Questa modulazione dell’incedere riflessivo, figlia della lezione witt-
gensteiniana secondo cui «la filosofia non è una dottrina, ma un’attività»,10
rende la prosa di Blumenberg, seppur nella sua eleganza, di difficile com-
prensione per i lettori e il punto di vista dell’autore non sempre facile da
rintracciare nel mare magnum delle citazioni e dei rimandi.11 Così non sono
del tutto peregrine le preoccupazioni di chi – come Jürgen Habermas – in-
dividua nella mise en question della differenza di genere tra filosofia e let-

7 Ibidem. Per un confronto tra Blumenberg e Derrida si vedano ad esempio C. De-


maria, Metaforologia e grammatologia: illeggibilità del mondo e indecidibilità
del testo, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità,
cit., pp. 109-138; J. C. Monod, Hans Blumenberg, Belin, Paris 2007, pp. 36-39.
8 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, Medusa, Milano 2009, pp. 472-473.
9 Cfr. J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself: Hans Blumenberg’s
style, in «History of the Human Sciences», n°6, 1993, pp. 4-6.
10 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi,
Torino 2009, p. 27.
11 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 37.
12 Dialettica della caverna

teratura, condotta dal decostruzionismo e resa possibile dalla «svolta lin-


guistica» con cui il pensiero contemporaneo si è congedato dalla «filosofia
del soggetto»,12 la compiuta impossibilità di tracciare una distinzione fra
finzione e realtà e fra i corrispondenti tipi di testo e generi letterari, cosic-
ché «la casa dell’essere viene trascinata nel vortice di una corrente lingui-
stica priva di orientamento».13 E benché i «racconti filosofici» di Blu-
menberg, precisa Habermas, non aderiscano al progetto di «liquidazione»
della differenza di genere, non rinuncino all’orientamento verso questioni
di verità, tuttavia il rischio che il filosofo sia confuso con uno scrittore e i
suoi libri letti come testi letterari è reale e documentato.14
Tuttavia vi è chi non si limita a stigmatizzare il carattere «alessandrino»
del metodo blumenberghiano15 e, soprattutto, non ne cerca le ragioni in un
presunto ‘reincantamento’ del linguaggio filosofico, in una metamorfosi
del filosofico in letterario o mitologico, bensì, inversamente e curiosamen-
te, in una sorta di ‘eccesso di zelo filosofico’, ossia nell’applicazione al
mito delle caratteristiche della filosofia. È la filosofia che «nasce quando
già le cose hanno nome» e procede interrogando nomi, come interpretazio-
ne «ri-flessa» di parole già dette, limitandosi a pronunciare «parole sue, se-
conde, parole che interpretano altrui parole».16 È dunque a essa che va at-
tribuita l’operazione di denominazione, di separazione dell’essere dal
linguaggio, che Blumenberg assegna già al mito, il cui scopo invece risie-
de nella conciliazione dell’uomo con la natura. Se Blumenberg «tinge, alla
fine, il tessuto della storia di un unico colore – tendente al grigio», non è
perché trasforma il ragionamento in favola, ma perché, «troppo moderno,
troppo alessandrino, per scorgere i limiti della modernità»,17 dipinge erro-
neamente il mito con i contorni della filosofia.
E se invece questa monumentalità rappresentasse uno degli elementi
chiave imprescindibili per comprendere la filosofia di Blumenberg nella
sua complessità? Se «l’autore si trova da qualche parte tra le righe delle sue
opere»,18 è necessario rintracciare le ragioni di questo nascondimento, di
questo trinceramento «dietro il suo immenso schedario»,19 e capire in che

12 J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 238-239.


13 Ivi, pp. 242.
14 Cfr. ivi, pp. 238-239, 257.
15 Cfr. V. Vitiello, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg
a Vico, Laterza, Roma-Bari 1998. pp. 7-9.
16 Ivi, pp. 18-19.
17 Cfr. ivi, P. 20.
18 F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit. p. 8.
19 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 14.
Introduzione 13

senso valga la pena penetrare nei suoi testi alla stregua di chi, smarritosi tra
gli alberi di un bosco, cerca il sentiero che conduca all’uscita, la via per una
visione dell’intero.

1.2. Impossibile rinuncia alla filosofia e integrazione dell’inconcettuale

Innanzitutto occorre chiarire i termini dello ‘scetticismo blumenberghia-


no’, poiché, se è vero che la riduzione del campo operata dalla filosofia vie-
ne sottoposta a revisione, è altrettanto innegabile che tale revisione non è
compiuta al fine di depotenziare la riflessione filosofica, di far sì che essa si
ritragga una volta per tutte dall’orizzonte dell’indicibile. Come osserva Odo
Marquard, uno dei suoi interpreti più acuti, restituendo dignità filosofica
all’infinitamente piccolo, Blumenberg non ha voluto sbarazzarsi dell’infini-
tamente grande: non ha ceduto alla tentazione di indietreggiare di fronte al
divieto metafisico di porsi le domande fondamentali (su Dio, il mondo, l’uo-
mo, la morte, il male);20 sebbene al termine dei suoi libri «la morale non ar-
rivi mai», ciò non significa necessariamente che ci si trovi di fronte a una «fi-
losofia dopo (o meglio, come) la ‘fine della filosofia’».21 Solo osservando
l’opera di Blumenberg da una giusta distanza, che permetta di abbracciarla
nel suo insieme e di coglierne le stratificazioni, è possibile sfuggire alla ten-
tazione di omologarla «con una facile filosofia della dissoluzione della
filosofia».22 Allora apparirà chiaro come la vena scettica di Blumenberg, in
una sorta di torsione riflessiva, si rivolga anche su di sé, come «scetticismo
sulla scepsi».23 Occorre tornare alle grandi domande, ma con una prospetti-
va mutata, inesorabilmente modificata dall’insoddisfazione per i risultati
raggiunti e dal disinganno rispetto alle prerogative della filosofia: se ci si at-
tiene al catalogo kantiano delle questioni ultime, scrive Blumenberg,

la precedenza non va più al «Cosa possiamo sapere?». La delusione, proprio


per quello che è risultato il sapere di cui siamo stati capaci, rende necessario
chiedersi: «Cos’era che volevamo sapere?». Anche l’altra questione capitale
del canone: «Cosa possiamo sperare?», subisce allora una variazione, che ren-

20 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, in F.J. Wetz, H. Timm, (a cura di),
Die Kunst des Überlebens. Nachdenken über Hans Blumenberg, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1999, p. 23.
21 Cfr. J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself, cit., pp. 2-3. La stes-
sa posizione è espressa da Carlo Gentili: cfr. Id., Introduzione all’edizione italia-
na, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., pp. 9-10.
22 A. Borsari, Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito,
metafora, modernità, cit., p. 24.
23 E. Nordhofen, Die Proklamation des Plurals, cit., p. 47.
14 Dialettica della caverna

de inevitabile la domanda: «Cos’era che potevamo aspettarci?» […] Dove si


nasconde ciò che era stato l’aspettativa? O, forse, dove ancora potrebbe
sorgere?24

La resistenza all’unità sistematica e all’ideale di purezza di una filosofia


decisa a sbarazzarsi di tutto ciò che esuli dal dominio del concetto non si
attua come rassegnazione a uno statuto narrativo della filosofia: dalla rein-
troduzione di miti e metafore all’interno della propria storia essa non esce
degradata o esautorata, ma «rinvigorita».25 Se il programma cartesiano di
formalizzazione della scienza è irraggiungibile, non vi è scienza o filosofia
che possa svilupparsi senza miti o immagini; tutte sono «bisognose di me-
tafore» (metaphernpflichtig),26 né si può separare la sistematica filosofica
dalla sua storia. Non solo: raccontare un oggetto filosofico in maniera di-
scorsiva e aforistica è sempre anche un modo di sopportare, attraverso una
loro proliferazione, il peso delle domande, il loro potere paralizzante, sen-
za azzardare risposte che si presumano totali e definitive ma senza rifugiar-
si in un’afasica epoché; si tratta di alleviare la semplicità dei problemi at-
traverso la molteplicità delle loro possibili formulazioni.27 In sostanza,
l’aspetto ‘resistenziale’ della prosa blumenberghiana non riguarda solo gli
eccessi dogmatici della teoria, ma anche la fuga di fronte all’insistenza di
interrogativi inestinguibili: si resta in prossimità dei problemi, ‘girandovi
attorno’, poiché si sa a un tempo di non poterli né risolvere né eludere.
Continuare a fare filosofia significa tenere «a bada l’energia delle grandi
aspettative» che, deluse, potrebbero sfociare in «collera universale».28 De-
streggiarsi in una costante oscillazione tra oblio e memento, alleggerimen-
to, presa di coscienza e negazione delle scorciatoie, poiché «anche questa
[è] una delle più importanti funzioni [della filosofia]: reclamare che la
somma delle risposte scientifiche non costituisce la risposta alla domanda
un tempo posta».29
Un’ultima osservazione: la cifra del ‘racconto filosofico’ blumenber-
ghiano consiste in un «senso di avvolgimento quasi esasperante», per cui i

24 H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, il Mulino, Bologna 1984, p. 3.


25 C. Gentili, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secon-
do Matteo, cit., p. 9.
26 Su questo punto si veda, tra l’altro, P. Hadot, Jeux de langage et philosophie, in
«Revue de métaphisique et de morale», n°67, 1962, pp. 330-343.
27 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit. pp. 22-23.
28 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 605.
29 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt am Main
2006, p. 498.
Introduzione 15

materiali utilizzati non rimandano a qualcosa di esterno, ma al loro stesso


statuto e orizzonte di verità: il mito di Prometeo illustra il lavoro del mito,
l’episodio della caduta del protofilosofo Talete è un aneddoto sugli aneddo-
ti, il racconto filosofico della caverna è la parabola che «parla della filoso-
fia e della sua funzione»:30 ogni testo è in realtà un «metatesto», ognuno
costituisce una cornice che «racchiude cornici, finché la cornice diventa la
cosa stessa».31 Questa forma di «auto-riflessività» labirintica non è che
un’ulteriore conferma di quel movimento circolare che caratterizza la pro-
sa blumenberghiana, il cui carattere ‘ossessivo’ mostra come la comparsa
di determinati miti o metafore al centro del discorso filosofico non sia ca-
suale né pretestuosa e che, narrando e ragionando, si orbita sempre attorno
al senso e alle possibilità di narrazione e ragionamento.

1.3. Variazioni sul tema32

1.3.1. Alla ricerca del Grundgedanke

Più che come un processo di ‘dissolvenza’ del filosofico in letterario, lo


stile blumenberghiano si potrebbe forse descrivere ricorrendo al modello
delle variazioni sul tema, della suite musicale,33 o alle figure dell’albero
che ramifica in innumerevoli direzioni e del delta di un fiume che si apre in
mille rivoli. Ciò significa innanzitutto che l’incedere del discorso ruota at-
torno ad alcune tesi filosofiche ‘forti’, che si ‘animano’, prendono vita e at-
traversano la storia nel gioco infinito delle variazioni. In riferimento a co-
loro che accreditano a pieno titolo Blumenberg come uno dei grandi
filosofi del secolo scorso, il «dilemma dell’interprete»34 riguarda esatta-
mente il modo di porsi nei confronti di questa tecnica compositiva: il fine
di un’esegesi rigorosa e corretta consiste nel «contornare gli infiniti detta-
gli rendendo l’alta definizione di un discorso continuamente esposto a de-
viazioni, rinvii e ritorni», o nel «venire a capo del “Grundgedanke”, del
pensiero e dell’insieme di idee fondamentali che ne animano la ricerca»?35
Si tratta di ripercorrere e seguire, o di contrarre, o meglio estrarre dai testi

30 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 619.


31 J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself, cit., p. 9.
32 Per questo paragrafo, come per tutta l’introduzione, si deve molto alla ricostruzio-
ne di A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., pp. 17-22.
33 Cfr. F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit., p. 8.
34 Cfr. A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., p. 17.
35 Ivi, p. 19.
16 Dialettica della caverna

il loro cuore duro? Nell’un caso il guadagno consisterebbe in una restitu-


zione più fedele dell’«aroma originario, la brama dell’aconcettuale», col li-
mite però di una parafrasi incline ad «arenarsi in una intuizione cieca»;
nell’altro il taglio «crudamente ‘teorico’» consentirebbe di estrarre dalla
materia testuale i paradigmi concettuali essenziali che altrimenti troppo
spesso si confondono «dietro la sterminata deriva narrativa», col rischio
tuttavia di «trovarsi fra le mani una concettualità vuota».36
È dunque possibile operare una «riduzione» che non tradisca i testi ori-
ginali? «Quanto […] può essere lasciato da parte, senza che il residuo di
questa distruzione testuale (Textvernichtung) cessi di essere veramente
Blumenberg?».37 Ciò che qui Marquard intende suggerire è che per proce-
dere a questi ‘tagli’ senza ‘provocare la morte del paziente’ il metodo cor-
retto consiste nello scavare alla ricerca di un motivo ricorrente profondo –
non solo un «punto di domanda» ma piuttosto un «pensiero fondamentale»
–, accettando però le regole del gioco della variazione, ossia considerando
i libri di Blumenberg come approfondimenti prospetticamente diversi in-
nanzitutto di quel Grundgedanke, a loro volta soggetti a molteplici rifrazio-
ni e rielaborazioni, prima ancora che come saggi filosofici dedicati a preci-
si contenuti e tematiche. Il vantaggio di un criterio simile si rivela allora
non tanto nella semplificazione, ma nell’ottenimento di una visione d’in-
sieme in grado di mostrare l’impresa filosofica nella sua grandiosità e com-
plessità, nella scoperta di una continuità che non si potrebbe percepire ad
esempio classificando la varietà della produzione di Blumenberg entro al-
cune grandi griglie categoriali o periodizzazioni.38 Insomma, forse seguire

36 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Mito e storia in Hans Blumenberg, ab-


stract della relazione alla giornata di studio Hans Blumenberg. Mito, metafora,
modernità, Centro Culturale della Fondazione San Carlo di Modena, 16.5.1994;
cit. in A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., p. 18.
37 O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., p. 19.
38 Così ad esempio Jean Claude Monod, che pure non rifiuta in toto la prospettiva
inaugurata da Marquard, suddivide il lavoro di Blumenberg in categorie tematiche
legate ai contenuti espliciti attorno cui ruotano le diverse opere: agli studi di me-
taforologia sarebbero dedicati Paradigmen zu einer Metaphorologie (1960),
Schiffbruch mit Zuschauer (1979), Die Lesbarkeit der Welt (1981) e Höhle-
nausgänge (1989); al discorso sul moderno Die Legitimität der Neuzeit (1966) e
Die Genesis der kopernikanischen Welt (1975); ai rapporti tra mito e metafora e,
più in generale, alla delineazione di una «filosofia della cultura» Arbeit am My-
thos (1979) e alcune riflessioni contenute in Die Sorge geht über den Fluss (1987);
infine, al tema trasversale dell’«interpretazione del tempo» Lebenszeit und
Weltzeit (1986) e ampi stralci dei due grandi saggi sulla modernità (cfr. J.C. Mo-
nod, Hans Blumenberg, cit., pp. 12-14). Benché una simile modalità di raggrup-
pamento possa rivelarsi indubbiamente funzionale e non illegittima, essa ha forse
Introduzione 17

le tracce dei ‘temi esoterici’ che percorrono le riflessioni di Blumenberg


può rivelarsi più fruttuoso e più conforme allo spirito del filosofo, che la-
vorare esclusivamente sui contenuti dichiarati.
Già ai tempi del dibattito sul mito avviato dal gruppo di ricerca di «Po-
etik und Hermeneutik» (che Blumenberg contribuì a fondare), Marquard
sembrava aver formulato in nuce la tesi del Grundgedanke, come dimostre-
rebbe la propensione a inscrivere la Vorlage di Blumenberg «nel contesto
del suo tentativo di riabilitazione di ciò che viene discriminato come sba-
gliato e apparentemente nullo»: se nei Paradigmen zu einer Metaphorolo-
gie l’obiettivo era la difesa del «diritto della metafora» di fronte alle prete-
se di una scienza che si vuole rigorosamente formalizzata e nel saggio
sulla Neuzeit la rivendicazione del «diritto dell’autoaffermazione umana e
della curiosità teoretica» contro la scomunica teologica, nella prolusione su
Wirkungspotential und Wirklichkeitsbegriff des Mythos si afferma «il dirit-
to umano ai miti» contro «ogni forma di mitocritica che si apra la strada in
forza di posizioni dogmatiche».39 Il «diritto» è qui la Grundidee attorno a
cui Blumenberg lavora filosoficamente. Successivamente sarà il concetto
gehleniano di «esonero» (Entlastung) a guidare la lettura di Marquard, a
costituire la lente di quegli occhiali la cui energia consente la concentrazio-
ne testuale che s’intende raggiungere. Propria degli uomini è l’incapacità
di tollerare l’assoluto, questo l’assunto di fondo che anima la riflessione
blumenberghiana nella sua interezza. Che si considerino le strategie di au-
toconservazione (Selbstheraltung) e autoaffermazione (Selbstbehauptung)
messe in atto per difendersi dall’«assolutismo teologico» di un Dio onnipo-
tente (Die Legitimität der Neuzeit), la mitigazione dell’«assolutismo della
realtà» tramite il lavoro del mito (Arbeit am Mythos), o il riparo dall’espo-
sizione al rischio di un rapporto immediato con la realtà grazie alla costru-
zione di ‘caverne’ (Höhlenausgänge), in ciascuna delle forme che assume
l’Entlastung costituisce il compito vitale dell’uomo e la «cultura» la forma
concreta di questo lavoro sulla distanza intesa come «esitazione», «penso-

il difetto di restare troppo in superficie, di perdere di vista tutto ciò che attraversa
i testi in maniera obliqua e sotterranea e di non concentrarsi sulla possibile cifra
comune in grado di comporre tra loro i vari saggi come le tessere di un grande mo-
saico. Inoltre questa griglia categoriale lascia completamente fuori le opere del
Nachlass, che tuttavia Monod conosce in gran parte.
39 Mythos und dogma. Diskussion zu Hans Blumenbergs «Wirklichkeitsbegriff und
Wirkungspotential des Mythos», in M. Fuhrmann (a cura di), Terror und Spiel,
«Poetik und Hermeneutik», n°4, 1971, p. 527.
18 Dialettica della caverna

sità» (Nachdenklichkeit).40 Tutta la filosofia di Blumenberg, sostiene Mar-


quard, è «filosofia dell’esonero dall’assoluto».41
È dunque riconoscibile a uno sguardo acuto un punto di partenza concet-
tuale unitario (Denkansatz), che richiede un vero e proprio lavoro d’inve-
stigazione, di ricomposizione delle tracce, per essere rilevato e riconosciu-
to ovunque si sia manifestato. Poiché, come ormai appare chiaro alla luce
di questo tentativo d’illustrare la tecnica compositiva di Blumenberg, non
esiste il saggio dedicato all’esposizione sistematica della sua Grundidee;
essa è sorta e maturata gradualmente attraverso le opere, attraversandole «a
poco a poco e quasi sempre solo in modo enigmatico». Secondo Franz Jo-
sef Wetz, questo Denkansatz è l’assolutismo, declinato di volta in volta
come «assolutismo della metafora», «assolutismo dell’arbitrio divino» e,
nella sua forma più compiuta, «assolutismo della realtà», «il vero pensiero
fondamentale di Blumenberg».42 E, specularmente, le strategie distanzian-
ti e compensatorie messe in atto dall’uomo per reagirvi e contenerlo. Di
fatto, insomma, solo un modo di rinominare l’Entlastung a partire da
un’angolatura lievemente dislocata.
Si potrebbe allora affermare che:

lo Stichwort fondamentale della riflessione blumenberghiana, ora come


sfondo immaginativo ora come precisa designazione concettuale, è «distanza».
Rompere l’immediatezza, allontanarsi, aggirare, ritardare l’azione, differire le
urgenze, fare digressioni deviando dal percorso più breve tra due punti, sostitu-
ire, spostare, traslare […]. Prendere distanza è la prestazione basilare della co-
scienza intesa come struttura di rendimento (Leitungsstruktur), ovvero come
complesso di operazioni costruttive.43

Al polo opposto di questa dialettica, «assolutismo» è la parola utilizzata


da Blumenberg

per evocare la sfingea strapotenza di tutto ciò che contrasta la vita umana:
per morte, però, sia intesa anche ogni eccedenza, l’inafferrabile, l’irrappresen-
tabile, l’incalcolabile, tutto ciò la cui massa schiaccia l’esiguità del singolo,
sprofondandolo nell’insignificanza e nell’incomprensione, segnalati esisten-

40 Cfr. H. Blumenberg, «Pensosità», in «In forma di parole», n°3, 1981, pp. 5-18.
41 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., pp. 20-21 e Id., Lebenszeit und
Lesezeit. Bemerkungen zur Oeuvre von Hans Blumenberg, in «Akzente», n°3,
1990, p. 269.
42 Cfr. F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit., pp. 12-13.
43 M. Russo, Il gioco delle distanze. Tempo, storia e teoria in Hans Blumenberg, in
A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 265.
Introduzione 19

zialmente dagli estremi dell’angoscia e della noia. Bisogna diffalcare questa


massa, evitarne l’urto insopportabile, coprirsene la nuda vista: occorre istituire
distanze, dal cui aumentato respiro poter scrutare ed escogitare, guardare ed
ideare.44

Queste osservazioni rendono più esplicito il taglio antropologico che


pure già Marquard e Wetz intuiscono essere se non il più, certamente uno
dei più fecondi per comprendere la filosofia di Blumenberg, le sue tensio-
ni, le sue domande, anche i suoi cortocircuiti; una direzione che sarà am-
piamente confermata dalla progressiva pubblicazione delle opere postume.
Studi successivi ruotano proprio attorno al concetto di Distanz, mettendo in
rilievo un punto la cui centralità sembra essere definitivamente confermata
dall’edizione di alcuni scritti del Nachlass, in particolare la Beschreibung
des Menschen apparsa nel 2006, un volume monumentale e complesso che
sembra occupare il posto di quel «libro fenomenologico-antropologico» di
cui Marquard lamentava la mancanza, la cui esistenza avrebbe consentito
di afferrare «in maniera ancor più plastica» il pensiero fondamentale della
filosofia di Blumenberg».45 Concentrando l’attenzione su questo e altri te-
sti dichiaratamente fenomenologici e antropologici e riconsiderando da tale
prospettiva l’intero corpus blumenberghiano, recenti interpretazioni sotto-
lineano ed elaborano il motivo tematico dell’actio per distans quale presta-
zione umana fondamentale, intesa, fenomenologicamente, come facoltà
della coscienza di relazionarsi a oggetti che non sono presenti e, antropolo-
gicamente, come capacità di instaurare un rapporto mediato, preventivo,
‘culturale’ nei confronti della natura e della realtà. Al centro della filosofia
di Blumenberg, dunque, l’uomo come «essere della distanza», un Grund-
gedanke che è potuto emergere soprattutto grazie alle scoperte più recenti,
ma che in ogni caso mantiene un legame di affinità, se non di sinonimia,
con quelli già individuati di Entlastung e «assolutismo».46 Soltanto metten-
do a fuoco questo nucleo problematico è possibile comprendere finalmen-
te che «gli studi di storia dello spirito di Blumenberg non sono aridi eserci-
zi accademici», poiché «al centro di essi è sempre il problema di come
l’uomo possa venire a capo di se stesso e del mondo».47

44 Ivi, p. 266.
45 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., pp. 22.
46 Cfr. R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur. Philosophische und theologi-
sche Perspektiven in Hans Blumenbergs Anthropologie, Königshausen & Neu-
mann, Würzburg 2009; in particolare R.A. Klein, ‚Auf Distanz zur Natur‘. Eine
Beschreibung des Menschen, pp. 9-19.
47 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 14.
20 Dialettica della caverna

Forse, di fronte alla «galassia Blumenberg»,48 all’«efflorescenza» della


sua opera, l’impostazione mono-interpretativa si scontra col paradosso che
uno dei pensieri fondamentali che l’attraversano è proprio la convinzione
che «l’essenziale si giochi nelle deviazioni, nelle digressioni, nei cammini
trasversali della cultura». Allora probabilmente occorre riavvolgere il na-
stro ancora una volta e ripercorrere il cammino, per scoprire «attraverso
quali giri e quali svolte si operino le donazioni di senso, storicamente va-
riate e determinate […], tramite cui l’umanità ha ‘fatto parlare’ una realtà
muta».49

1.3.2. Le «belle inesattezze» delle variazioni fenomenologiche

L’alternativa posta dal «dilemma dell’interprete» ci dice innanzitutto del


modo blumenberghiano d’intendere la storia, e la storia delle idee, fenome-
nologicamente. In conclusione, ciò che di prezioso questo problema esege-
tico trasmette non riguarda semplicemente

la rilevazione, tante volte avanzata, circa il carattere costitutivo che stile e


forma hanno nella filosofia. […] Il dilemma dell’interprete traduce una caratte-
ristica specifica e determinata del lavoro di Blumenberg. La sua qualità emi-
nentemente ‘retorica’, la strategia difensiva messa dispendiosamente in campo
a «neutralizzare» – proprio nel senso husserliano – qualunque tesi e qualunque
credenza, rappresenta lo spettro illusorio, la policromia avvincente e suggesti-
va in cui si rifrange, sullo schermo del mito prima della storia poi, nella caver-
na (che è anche cinema) delle istituzioni umane, l’invarianza della nostra fini-
tudine nel prodigio stesso della sua fantasia. Il dilemma metodico
dell’interprete coglie così bene il doppio volto paradossale del pensiero di Blu-
menberg, che è, al tempo stesso, una atemporale fenomenologia della storia e
un platonismo dell’immanenza.50

«Neutralizzate», ovvero «messe fra parentesi», sottoposte a sospensione


di giudizio, affermazioni e certezze dogmatiche, Blumenberg procede
all’osservazione di «oggetti esemplari», prendendo a prestito il metodo fe-
nomenologico della «libera variazione». L’«arbitrario» non ottiene cittadi-
nanza in quanto espressione di un’ormai raggiunta indifferenza degli og-
getti e dei linguaggi rispetto alla possibilità di dire il vero, bensì perché
solo attraverso il gioco ‘a briglia sciolta’ delle variazioni prodotte dall’im-

48 R. Brague, La galaxie Blumenberg, in «Le Débat», n°83, 1995, pp. 173-186.


49 J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 15.
50 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Mito e storia in Hans Blumenberg, cit.,
p. 18.
Introduzione 21

maginazione è possibile cogliere intuitivamente ciò che permane «invinci-


bilmente» identico nonostante tutte le deformazioni possibili dell’oggetto
scelto come esempio, ovvero quell’«invariante» che per Husserl altro non
era che l’«eidos», l’«essenza» o «forma essenziale ontica» cui ogni ogget-
tività particolare rimanda. E poiché non ci troviamo in uno spazio empiri-
co definito, bensì nel dominio della fantasia, l’orizzonte è potenzialmente
illimitato e le variazioni infinite e totalmente svincolate da ogni criterio se-
lettivo preliminare o legame con «“fatti” già dati in partenza».51
Ciò che in merito allo stile di Blumenberg si potrebbe dire è che, abban-
donata la dimensione della coscienza individuale privilegiata da Husserl,
egli applica il medesimo procedimento all’intera storia dello spirito, po-
nendo al centro di ciascuna riflessione un oggetto culturale, filosofico,
un’immagine, un mitologema, assunto in modo esemplare, per ‘liberare’
letteralmente le molteplici possibilità di variazione e variazione della va-
riazione che da esso sono scaturite nel corso del tempo e possono ancora
scaturire, o che sono rimaste invisibili fino a ora, nonché quelle che germo-
gliano spontaneamente nella mente del filosofo, poiché nessuna di esse,
neanche la più infinitesimale e apparentemente insignificante, è da consi-
derarsi illegittima, perché più ricco, più vario, più multiforme è il gioco,
più ampia è la sua estensione, maggiore è la possibilità di cogliere in con-
troluce quell’invariante cui si accennava.
Anziché «indietreggiare di fronte al vago», la descrizione fenomenolo-
gica si arrischia nel campo dell’inesattezza in cui ogni fenomeno, mostran-
dosi, conserva sempre «il proprio sfondo di invisibilità» e che si offre solo
come «unione tra ciò che è dato e ciò che si perde» entro orizzonti che pos-
sono essere costantemente spostati, messi a fuoco diversamente, ma mai
esauriti e misurati definitivamente. Grazie a questo carattere d’inesattezza
la variazione è libera: poiché «non può estorcere il consenso e impedire al-
tre variazioni». Ed è perciò che, considerando il suo pensiero a partire da
questa prospettiva, Blumenberg si può concedere di seguire false piste, im-
boccare strade chiuse, soffermarsi sui vicoli ciechi, puntare su soluzioni
esagerate, senza che tutto ciò appaia smodato e fuori misura.52 E ciò a mag-
gior ragione nell’ottica di considerare il pensiero umano nel suo comples-
so come qualcosa di legato a «un preciso contesto», a un «terreno di coltu-
ra epocale», come un qualcosa, insomma, che ha «storia ed è incline a

51 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari 1966, pp. 303-308.
52 Cfr. M. Moxter, Die schönen Ungenauigkeiten. Hans Blumenbergs phänomenolo-
gische Variationen, in «Neue Rundschau», n°109, 1998, p. 84.
22 Dialettica della caverna

conclusioni precipitose, approssimazioni, errori, futilità».53 La sua insi-


stenza sull’inconcettuale e sul metaforico ha a che fare con l’applicazione
al «movimento della storia spirituale» della tecnica virtuosistica delle «om-
breggiature» (Abschattungen) che Husserl aveva concepito per «il dinami-
smo della coscienza intenzionale».54 Mediante un movimento di ricerca
atto a «stanare» ogni deviazione dall’aspettativa, a «soddisfare il poter-es-
sere-altro», la filosofia blumenberghiana opera fenomenologicamente sul-
la storia della ricezione per mostrare gli spazi di nuove indefinitezze aper-
ti da varianti di racconti o metafore, leggendo i testi attraverso variazioni di
contesto che consentono di sottoporli a domande poste altrove rispetto al
testo stesso.55
Secondo questa prospettiva, finalmente in grado di rendere conto filoso-
ficamente dello «strapotere dei mondi testuali di Blumenberg»56 e del loro
aspetto a un tempo fascinoso e terribile, l’articolazione diffusa e disorien-
tante del discorso rappresenta un aspetto non solo stilistico, né banalmente
contenutistico, ma metodologico, dunque costitutivo, che come tale può es-
sere in qualche modo messo da parte dalle letture che ritengono che esso
sia effettivamente pervenuto a quel quid invariante sul quale ora occorre-
rebbe soffermarsi, ma che al tempo stesso merita di essere ripercorso e ad-
dirittura proseguito, secondo il principio di una produttività potenzialmen-
te inarrestabile.

2. La riflessione antropologica come traccia esoterica dell’opera blu-


menberghiana

Come mi auguro emerga da questo primo passo esplorativo compiuto


nel tentativo di affacciarsi sulla «galassia Blumenberg», non abbiamo a che
fare con un autore sconosciuto, dimenticato, ignorato o fatalmente frainte-
so. Già dieci anni fa Andrea Borsari, curatore e coautore della più signifi-
cativa raccolta di studi su Blumenberg uscita in Italia, rilevava la notevole
fortuna di cui la sua opera ha goduto non solo in Germania, ma anche all’e-
stero: in primis, appunto, nel nostro Paese fin dagli anni Sessanta, grazie

53 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 13.


54 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Fenomenologia e storia in Hans Blu-
menberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità,
cit., p. 216.
55 Cfr. M. Moxter, Die schönen Ungenauigkeiten, cit., p. 85.
56 ivi, p. 86.
Introduzione 23

alle traduzioni della quasi totalità dei libri pubblicati in vita (mancano solo
i due saggi sulla rivoluzione copernicana) e ai lavori critici di autori come
Remo Bodei, Bruno Accarino, Enzo Melandri, Giovanni Leghissa, Marco
Belpoliti (oltre a Gianni Carchia, Carlo Gentili e lo stesso Borsari); in se-
guito, seppure in misura minore, dall’inizio degli anni Ottanta anche la ri-
cezione in lingua inglese ha avuto un notevole sviluppo e, a partire dai No-
vanta, le opere di Blumenberg (in particolare il saggio sulla Neuzeit e gli
studi su mito e metafora) hanno cominciato a essere tradotte e ampiamen-
te dibattute in Francia.57
Tuttavia, come accennato, dal 1997 – l’anno successivo alla morte del fi-
losofo – a oggi, con cadenza quasi annuale hanno visto la luce un numero
cospicuo di opere postume e, con ogni probabilità, i curatori del Nachlass
non hanno ancora portato a termine la loro impresa. Oltre al voluminoso
studio sulla «completezza» delle stelle e il mito dell’esplorazione spaziale
(Die Vollzäligkeit der Sterne, 1997), negli ultimi anni dagli archivi di Blu-
menberg sono usciti i contributi più disparati: brevi ritratti di autori lettera-
ri e filosofici (Gerade noch Klassiker. Glossen zu Fontane, 1998; Goethe
zum Beispiel, 1999; Die Verführbarkeit des Philosophen, 2000; Vor allem
Fontane. Glossen zu einem Klassiker, 2002; Der Mann von Mond, 2007;
Rigorismus der Wahrheit: „Moses der Ägypter“ und weitere Texte zu Freud
und Arendt, 2015), l’interessante carteggio con Carl Schmitt (Briefwechsel
1971-78, 2007), ulteriori studi di Begriffsgeschichte, metaforologia e mi-
toanalisi (Löwen, 2001; Quellen, Ströme, Eisberge, 2012; Präfiguration.
Arbeit am politischen Mythos, 2014; Schriften zur Techink, 2015), riedizio-
ni di saggi e articoli già parzialmente pubblicati in vita (Ein mögliches
Selbstverständnis, 1997; Lebensthemen, 1998; Begriffe in Geschichten,
1998; Ästhetische und metaphorologische Schriften, 2001; Geistgeschichte
der Technik, 2009; Theorie der Lebenswelt, 2010; Schriften zur Literatur
1945-1948, 2017), nonché alcuni testi dall’indiscutibile valore concettuale
(Zu den Sachen und zurück, 2002; Beschreibung des Menschen, 2006;
Theorie der Unbegrifflichkeit, 2007). Questi ultimi in particolare contribui-
scono non solo a restituire in maniera più completa la vastità e la ricchezza
del pensiero di Blumenberg, ma (assieme soprattutto a Ein möglisches Selb-
stverständnis e Theorie der Lebenswelt) a sviluppare ulteriormente quel fi-
lone fenomenologico-antropologico che era rimasto sottotraccia e ora appa-
re invece fondamentale, forse decisivo per comprendere appieno il suo
discorso filosofico. Quel capitolo-chiave, che già traspariva dalle opere edi-
te e che alcuni già riconoscevano come determinante, prende insomma for-

57 Cfr. A Borsari, Hans Blumenberg, cit., pp. 9-10, 15-17.


24 Dialettica della caverna

ma, assume una sua autonomia e può finalmente aspirare a una collocazio-
ne più precisa entro il panorama dei grandi temi blumenberghiani.
Alla luce di tutto ciò emerge come, anche nel caso di Blumenberg – si-
milmente a quel che spesso accade al pensiero dei grandi filosofi –, la rice-
zione sia stata soggetta a fasi, tendenze, nuove ondate, riflussi e scoperte
che ne hanno fatto una vicenda complessa e differenziata. La varietà e di-
versificazione delle strade interpretative è dunque in parte dipesa dalle di-
namiche secondo cui l’opera di Blumenberg è stata accolta a seconda dei
periodi e dei luoghi.
Inoltre, come si è tentato di mostrare nelle pagine precedenti, il ‘caso
Blumenberg’ presenta un’ulteriore difficoltà ermeneutica, dovuta alla ma-
niera peculiare con cui egli ha disposto temi e contenuti all’interno dei te-
sti. Non soltanto la maggior parte dei concetti-chiave si sviluppa lungo un
percorso che ‘taglia’ letteralmente tutto l’arco della produzione filosofica,
ma altresì, durante la lettura di un saggio, capita sovente di imbattersi in
una riflessione, in un’analisi determinante per la decifrazione di un altro te-
sto. L’oggetto al centro di ogni libro assume la forma del «frammento» e
funge come «una sorta di deposito che il movimento del pensiero ha lascia-
to dietro di sé: ne è al contempo la negazione e la traccia, una sorta di me-
moria concreta dalla quale, per via anamnestica […], è possibile risalire
alla complessità».58 Questa ‘tecnica disseminativa’, con cui Blumenberg
gioca a disperdere nei luoghi più inaspettati le tracce dei propri temi por-
tanti, rende in qualche modo la sua opera ‘inseparabile’, impossibile da
scomporre secondo i suoi ‘confini materiali’, ossia l’inizio e la fine di cia-
scun libro. Per questo entrare in possesso del Nachlass appare così impor-
tante. Non si tratta di una semplice integrazione, di un banale arricchimen-
to rispetto a ciò che già si sapeva, ma di pezzi fondamentali per ultimare un
quadro incompleto. Inoltre, nel caso di Blumenberg, gli scritti postumi non
vanno in alcun modo trattati alla stregua di ‘opere senili’, poiché egli era
solito lavorare a più testi contemporaneamente, il che offre un elemento in
più per comprendere quella stratificazione di temi e livelli di lettura che ca-
ratterizza i suoi saggi, giustificando ulteriormente la scelta di non accostar-
si al suo pensiero secondo una prospettiva diacronica o per grandi blocchi
tematici coincidenti con alcuni gruppi di libri.
Come si è detto, la progressiva pubblicazione del Nachlass ha posto in
primo piano una riflessione fenomenologico-antropologica che, interro-
gandosi sulla peculiarità delle prestazioni umane, sull’origine della co-

58 C. Gentili, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secon-


do Matteo, cit., p. 10.
Introduzione 25

scienza, sulle strategie che hanno permesso alla specie di sfruttare a suo
vantaggio i propri punti deboli, sembra poter rappresentare il terreno, l’hu-
mus filosofico su cui ogni altro approfondimento si è sviluppato. A tal pro-
posito, oltre ai testi già citati, sono altresì significativi due studi ‘giovanili’
di Blumenberg mai pubblicati, ovvero la dissertazione finale (Beiträge zum
Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontolo-
gie, 1947) e lo scritto di abilitazione sulla «distanza ontologica» (Die onto-
logische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie
Husserls, 1950). Il fatto che già in questa sede, soprattutto nel secondo te-
sto, la riflessione vertesse attorno alla definizione della posizione dell’uo-
mo a partire da un confronto critico con la fenomenologia husserliana, non
fa che confermare la presenza di una meditazione che ha accompagnato
Blumenberg costantemente, tanto che si potrebbe affermare che la «feno-
menologia antropologica» costituisca la «parte esoterica» della sua opera.59
Negli ultimi anni la ricezione in lingua tedesca è stata fortemente in-
fluenzata dalle recenti ‘scoperte’, come risulta evidente dall’impostazione
dichiaratamente antropologica di alcuni degli studi recentemente apparsi in
Germania.60 Tuttavia il dibattito italiano, grazie soprattutto ai contributi di

59 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein. Überlegung


zu einem Aspekt der phänomenologischen Anthropologie Hans Blumenbergs, in
R. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 101.
60 Si vedano in particolare, oltre al già citato saggio di Müller uscito nel 2005 e al
volume curato da Klein apparso nel 2009, la monografia di Felix Heidenreich (F.
Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, Fink, München 2005),
un articolo di Franz Josef Wetz (F.J. Wetz, Der Mensch ist das Unmögliche. Blu-
menbergs phänomenologische Anthropologie im Nachlass, in «Zeitschrift für phi-
losophische Forschung», n°62, 2008, pp. 274-293) e il volume collettaneo curato
da Michael Moxter (M. Moxter, a cura di, Erinnerung an das Humane. Beiträge
zur phänomenologischen Anthropologie Hans Blumenbergs, Mohr Siebeck,
Tübingen 2011). Significativo inoltre il fatto che Joachim Fischer abbia finalmen-
te dedicato uno spazio considerevole a Blumenberg nella sua recente «antropolo-
gia filosofica» (J. Fischer, Philosophische Anthropologie, Alber, Freiburg 2008).
In generale, per completare il quadro della ricezione offerto da Borsari, occorre
segnalare la monografie di Philipp Stoellger (P. Stoellger, Metapher und Le-
benswelt. Hans Blumenbergs Metaphorologie als Lebenswelthermeneutik und ihr
religionsphänomenologischer Horizont, Mohr Siebeck, Tübingen 2000), il saggio
di Stephanie Waldow su Blumenberg, Cassirer e Benjamin (S. Waldow, Der My-
thos der reinen Sprache. Walter Benjamin, Ernst Cassirer, Hans Blumenberg. Al-
legorische Intertextualität als Erinnerungsschreiben der Moderne, Wilhelm Fink,
München 2006), i volumi collettanei a cura di Almut Todorow (A. Todorow, a
cura di, Unbegrifflichkeit. Ein Paradigma der Moderne, Narr, Tübingen 2004),
Franz Josef Wetz e Hermann Timm (F.J. Wetz, H. Timm, a cura di, Die Kunst des
Überlebens, cit.); infine, in lingua inglese il saggio di Elizabeth Brient (E. Brient,
26 Dialettica della caverna

Accarino e Borsari, non ha ignorato questa direzione ermeneutica, intuen-


done l’importanza ancor prima di disporre del Nachlass. Ciò che dunque
questo lavoro si propone non consiste in una riconsiderazione totalmente
inedita e originale del percorso filosofico di Blumenberg; si tratta piuttosto
di connettere tra loro i numerosi spunti offerti dalle intuizioni degli inter-
preti più acuti e da un’attenta lettura del Nachlass e, sulla scia di coloro che
ne collocavano in ambito antropologico il Grundgedanke, tentare di offrire
una ricostruzione dell’«antropologia fenomenologica» di Blumenberg,
senza dimenticare il ruolo preponderante giocato dalla fenomenologia per
quanto riguarda l’elaborazione dei contenuti e l’applicazione del metodo.
Non solo: seppur in forma di abbozzo, s’intende naturalmente gettare uno
sguardo sull’intera opera dell’autore a partire da tale ‘riposizionamento’.
Il lavoro si apre con una parte più strettamente teorica, dal titolo Per
un’antropologia fenomenologica storica, ove si tenta di tracciare uno
schizzo sullo statuto disciplinare e filosofico delle riflessioni antropologi-
che di Blumenberg, di presentare in sostanza il ‘metodo’ che egli applica
alla materia viva esposta successivamente. Qui, nella consapevolezza che
quest’aspetto dell’indagine avrebbe meritato un ben maggiore approfondi-
mento, si tratteggia la costellazione di fenomenologia, antropologia e sto-
ria entro cui l’autore dispone la propria esplorazione dell’umano, nel tenta-
tivo di far luce anche sugli elementi epistemologici del discorso filosofico
blumenberghiano: che cosa possiamo sapere, in che modo lo possiamo
dire, che cosa resta al filosofo, quali sono i compromessi di cui la filosofia
non può fare a meno.
A partire dal secondo capitolo il testo segue una ‘linea narrativa’ che è
possibile ricostruire, ma di cui Blumenberg si è limitato a spargere le trac-
ce lungo le proprie opere, in cerca di un differente testo che percorra una
possibile direzione di «mobilità del significante» in senso metonimico e,
lavorando con associazioni, contiguità e rimandi,61 componga le principali
‘scene del divenire umani’, ossia le circostanze che hanno fatto dell’uomo
quello che è. Ciò nella convinzione, da un lato, che le ipotesi sulla genesi e

The Immanence of the Infinite: Hans Blumenberg and the Threshold to Moderni-
ty, Catholic University of America Press, Washington DC 2002); nonché il più
volte citato testo di Monod edito nel 2007, prima monografia in lingua francese
dedicata a Blumenberg. Anch’esso pervaso di riflessioni antropologiche è inoltre
il volume collettaneo, curato da Alberto Fragio e Diego Giordano, che raccoglie
contributi di studiosi di diverse nazionalità: A. Fragio, D. Giordano (a cura di),
Hans Blumenberg. Nuovi paradigmi d’analisi, Aracne, Roma 2010.
61 Per questi concetti e per la distinzione tra «opera» e «testo» si veda R. Barthes,
Saggi critici, IV. Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 57-64.
Introduzione 27

sull’evoluzione, e in generale la dimensione storica, svolgano un ruolo


centrale nella riflessione antropologica di Blumenberg, dall’altro che i con-
cetti fondamentali possano emergere con più forza e pregnanza attraverso
una sorta di ‘racconto filosofico’, coerentemente con quanto Blumenberg
stesso ha più volte messo in pratica. Questa parte del lavoro si svolgerà per-
tanto lungo quelle che ho individuato come le tre principali fasi del ‘risve-
glio’ umano e che, con una semplificazione (che qualsiasi paleoantropolo-
go disapproverebbe), si potrebbero far coincidere con la comparsa di Homo
habilis, di Homo erectus e di Homo sapiens (rispettivamente i tre paragra-
fi: Sassi, A piedi nella savana e Discesa nelle caverne). Ma, come si vedrà,
non è così semplice, poiché caratteristico di Blumenberg è sondare con lo
sguardo le profondità del tempo, tracciando per ogni facoltà e prestazione
umana una linea che corre dai primi passi compiuti a un possibile futuro
post-storico, attraversando tutta la storia. Perciò ogni paragrafo, dopo aver
scavato indietro, ci getterà avanti, verso esiti avvenuti e possibili. Non solo,
non è detto che Blumenberg concepisse le sue incursioni antropogenetiche
come ordinabili cronologicamente e non, invece, come sovrapponibili e in-
terscambiabili, in conformità con la pratica della libera variazione, o del
mito stesso, che ammette la coesistenza e la contemporaneità di versioni
differenti del medesimo racconto; in questo caso: la nascita del genere
umano.
Si potrebbe più semplicemente definire i tre paragrafi che compongono
il secondo capitolo in tal senso: tre prospettive sulla prestazione della di-
stanza e le sue condizioni di insorgenza, l’una secondo la prassi, l’altra se-
condo la visione e la teoria, l’ultima secondo la cultura e le istituzioni (al-
lora si potrebbe dire, da homo faber a homo theoreticus a homo symbolicus).
Ma anche questa suddivisione potrebbe apparire eccessivamente semplifi-
catrice, dato che Blumenberg contamina sempre ciascun aspetto con l’altro
e non concepisce mai le sfere dell’umano come compartimenti stagni.
Al capitolo segue un excursus (Sul concetto di cultura) che introduce un
possibile sentiero d’indagine ancora poco esplorato per quanto riguarda il
pensiero di Blumenberg: il confronto con l’evoluzionismo, la biologia e la
paleoantropologia. Le domande qui poste hanno l’ambizione di gettare uno
sguardo da Blumenberg oltre Blumenberg, verso nuove possibili strade
percorribili da una ricerca filosofico-antropologica. Credo che, se fin dall’i-
nizio l’antropologia filosofica ha dialogato con la scienza, oggi non possa
fare a meno di tener conto di teorie scientifiche che potrebbero modificar-
ne anche radicalmente alcuni assunti centrali.
D’altra parte, un’antropologia filosofica non dovrebbe mai sottrarsi alla
domanda sullo spazio che è disposta a cedere alle forze del cambiamento:
28 Dialettica della caverna

alla storia, alla politica. A un abbozzo di riflessione filosofico-politica è


perciò dedicato il capitolo conclusivo, How to do nothing with words, che
getta uno sguardo su un’ulteriore dimensione, quella di homo socialis, solo
in parte elaborata dall’autore in modo esplicito. Qui si mostra appunto la
‘dialettica della caverna’, la tensione fra costanti e variabili, fra staticità e
dinamismo, fra sedentarietà e nomadismo dell’essere umano, fra conserva-
zione e utopia, che vuole essere il punto di caduta dell’intero saggio.
Tutto ciò è soltanto un piccolo raggio di luce che penetra in un punto
possibile un’opera opulenta, sterminata, che resterà filosoficamente pro-
duttiva e feconda ancora per chissà quanto tempo. Abbracciarla tutta sareb-
be stato impossibile, ma quantomeno si è tentato di non cedere alla ‘tenta-
zione del farmacista’: indietreggiare di fronte alla grandezza dell’impresa
sistematica blumenberghiana per rifugiarsi nel piccolo e nel piccolissimo
dei saggi brevi e degli excursus, degli esercizi e degli aneddoti, che ingan-
nano sulla possibilità di lasciarsi trattare come episodi di letteratura filoso-
ficamente interessanti e stilisticamente rassicuranti, bastevoli a se stessi.
Lo smisurato e il minuscolo sono altrettanto illimitati nel pensiero di que-
sto autore.
CAPITOLO PRIMO
ANTROPOLOGIA FENOMENOLOGICA
E FILOSOFIA DELLA PREISTORIA

Al termine di questa introduzione, è ora di volgersi a una riflessione sul


metodo filosofico e sul campo disciplinare che si andrà delineando.1 Oc-
corre cioè comprendere a un tempo in che modo Blumenberg affianchi al
suo progetto «essoterico» di una «fenomenologia storica» un’«azione eso-
terica parallela» sotto forma di «antropologia fenomenologica»,2 che cosa
intenda con questa espressione, come in realtà i due piani – quello esplici-
to e quello ‘segreto’ – si compenetrino e completino vicendevolmente, qua-
le sia il ruolo svolto dalla teoria antropogenetica, come tutto ciò componga
una variante originale e inedita dell’antropologia filosofica.

1. Il divieto antropologico della fenomenologia

Nel ciclo di conferenze del 1931 sul tema «Fenomenologia e antropolo-


gia», Husserl stigmatizza la fascinazione delle giovani generazioni di filo-
sofi per l’antropologia, una seduzione che non ha risparmiato nemmeno la
corrente fenomenologica, stravolgendone il senso: è chiaro infatti che si-
tuare il fondamento della filosofia nell’esserci concreto dell’uomo rappre-
senta una riforma radicale della fenomenologia nei suoi intenti originari,
ossia nel suo carattere in ultimo trascendentale. Per combattere tale feno-
meno, come Husserl intende fare,

deve allora essere possibile una decisione di principio tra antropologismo e


trascendentalismo, superiore a tutte le forme storiche della filosofia e dell’an-
tropologia, cioè della psicologia.3

1 Tuttavia denuncio immediatamente quanto questa analisi sia svolta ancora in


modo troppo sbrigativo e superficiale, mentre meriterebbe uno studio ampio e ap-
profondito, soprattutto per quanto riguarda l’esegesi e la rielaborazione blu-
menberghiana delle opere e delle parole chiave della fenomenologia husserliana.
2 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 313.
3 E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie, in «Philosophy and Phenomeno-
logical Research», n°2, 1941, p. 2.
30 Dialettica della caverna

Occorre innanzitutto chiedersi se e in che misura una filosofia fenome-


nologica possa trovare la propria fondazione metodologica in un’antropo-
logia filosofica.
Husserl non intende insomma rinunciare a investire la fenomenologia
del mandato trascendentale che la svolta cartesiana ha assegnato alla
filosofia,4 e sono gli esiti di tale cammino di continuità e superamento a
condurre lontano dall’antropologia. È chiaro che, mettendo tra parentesi il
mondo nella naturalezza e nell’ovvietà del suo darsi, l’epoché investe al
contempo «il mio essere come uomo-tra-gli-uomini»:5 come ego trascen-
dentale, coscienza sottoposta a riduzione fenomenologica, non posso più
guardare a me stesso come all’essere umano situato nel mondo esistente e
dotato della sua consistenza fisica. Ciò che ora mi interessa, come fenome-
nologo, ciò che è oggetto del mio giudizio teoretico, sono le esperienze del-
la coscienza sottoposte a riduzione trascendentale nelle loro forme tipiche.
La riduzione fenomenologica è «l’unica porta d’accesso al nuovo regno»:6
se essa è abbandonata, tutto è perduto. Quando ci si considera come uomi-
ni concreti si sta già presupponendo la validità del mondo, si è insomma al
di qua del metodo fenomenologico-trascendentale, ancora nel campo
dell’atteggiamento naturale. Ma ciò significa – per Husserl – restare fuori
dal dominio della filosofia. Occorre invece tornare dall’epoché al mondo,
tematizzato ora entro una dimensione nuova e più profonda; è questa la
sola via possibile per riconoscere le lacune della naiveté e «fondare la
scienza nella sua vera radicalità», vale a dire: la sola via per una fondazio-
ne radicale della filosofia.7
Così Husserl, con chiaro riferimento polemico all’antropologia filosofi-
ca di Scheler e all’analitica esistenziale di Heidegger (entrambe figlie ille-
gittime della fenomenologia), formula il suo «divieto antropologico»,8 il
suo anatema nei confronti dell’antropologia come campo di sapere che non
raggiunge ancora il terreno filosofico.9 E tutto ciò – paradossalmente – non
solo per affermare la possibilità di una filosofia come scienza rigorosa, ma
anche per ripristinare il primato del mondo messo in dubbio da antropolo-
gismi e psicologismi: la filosofia, come scienza della totalità del reale, deve

4 Per un approfondimento rimando a E. Husserl, Meditazioni cartesiane con l’ag-


giunta dei discorsi parigini, Bompiani, Milano 2009; C. Sini, Introduzione alla
fenomenologia, Shake, Milano 2012.
5 E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie, cit., p. 7.
6 Ivi, p. 8.
7 Ivi, p. 13.
8 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 59.
9 Cfr. ivi, p. 25.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  31

necessariamente configurarsi quale metodo descrittivo che non fa differen-


za fra vicino e lontano, proprio e altro. Si tratta insomma di dimostrare, at-
traverso il bisogno assoluto di mondo della coscienza trascendentale, il di-
ritto di precedenza del capitolo «mondo» all’interno del sistema, senza
guardare indietro al fondo fattuale di quella coscienza, al «fatto
dell’uomo».10 Le leggi della coscienza che si possono descrivere fenome-
nologicamente sono applicabili anche all’uomo solo in quanto valide per
ogni coscienza.11
Per comprendere la «fobia antropologica»12 di Husserl, bisogna sempre
tenere a mente che la fenomenologia è sorta nel contesto del diciannovesi-
mo secolo al crepuscolo, quando la teoria della selezione naturale e i risul-
tati delle scienze positive ipotecavano fortemente l’autonomia della filoso-
fia, limitando il suo ambito di ricerca teoretica. La tensione di Husserl nei
confronti della «coscienza in generale», della coscienza pura, dell’«essere
della coscienza», porta con sé come compito necessario il fatto che l’uomo
come parte della natura si renda per sé «trasparente» e «transitorio», per
«liberare un altro aspetto più grande».13 Questo perché ciò che gli interes-
sa è rispondere alla domanda gnoseologica kantiana su quale sia il grado di
conoscenza raggiungibile dalla filosofia; anzi, intende radicalizzarla e ri-
formularla in questi termini: «che cosa possiamo ottenere in maniera evi-
dente, nella sua auto-datità, come fenomeno?».14 Non c’è filosofia se non
dove impariamo a lasciare da parte, rimuovere, il fatto che siamo noi a por-
re queste domande e trovare le risposte, se non siamo capaci di Selbstver-
gessenheit; è questa la condizione di successo della fenomenologia ed è
proprio così che comincia la riflessione fenomenologica: mediante la ridu-
zione, che mette «fuori azione» il fatto della contingenza del mondo e il no-

10 Ivi, p. 28.
11 Cfr. E. Husserl, Husserliana, XVIII. Logische Untersuchungen, I. Prolegomena
zur reinen Logik, Martinus Nijhoff, Haag 1975, p. XLVIII, nota 1; cit. in H. Blu-
menberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 496.
12 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002,
p. 98.
13 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 9-10. In queste pagine
Blumenberg si confronta parimenti con Heidegger, col quale ha un debito filoso-
fico di non poco conto, anche in relazione alle critiche mosse alla filosofia husser-
liana. Sarebbe di grande interesse svolgere questo confronto che, in una trattazio-
ne più ampia, meriterebbe uno spazio cospicuo, ma in questa sede precipuo è
comprendere il nesso tra antropologia e fenomenologia. Sull’intreccio Husserl-
Heidegger-Blumenberg si è comunque soffermato diffusamente O. Müller: cfr.
Id., Sorge um die Vernunft, cit., in particolare pp. 17-139.
14 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 10.
32 Dialettica della caverna

stro essere questi soggetti con questo apparato percettivo. Non ci si chiede
più «che cosa noi possiamo sapere?», poiché la domanda è: «che cosa e
come può essere pensato, cosa può diventare contenuto della coscienza?».15
Ma – così Blumenberg – la rinuncia all’interesse per l’uomo non è un
processo inevitabile per la filosofia, è però certamente il destino della fi-
losofia della coscienza, dell’idealismo, come conseguenza diretta dell’at-
teggiamento teoretico, che in ciò, in realtà, è vicino e non distante dalla
strada tracciata dalle scienze moderne. Qui la disposizione alla teoresi
nasce come funzione dell’uomo, «organo» della sua curiosità intellettua-
le, ma è costretta a soddisfare tale impulso oggettivando le sue stesse pre-
stazioni conoscitive e neutralizzando la prospettiva soggettiva e la di-
mensione organica. L’uomo diviene «funzionario» dello scopo che si era
posto e, nel lavoro scientifico, il soggetto individuale scompare e riappa-
re come generale.
Tutto ciò non ha ancora a che fare con l’idealismo o la riflessione tra-
scendentale, è semplicemente una «conseguenza copernicana dell’irrile-
vanza eccentrica [dell’uomo]»,16 della chiarificazione del fatto che l’uomo
non è il punto centrale del mondo. Ma – è lecito domandarsi – perché mai
dovremmo trarne la conseguenza che non debba esserlo neanche del pro-
prio stesso interesse?17 E ancora, se l’eliocentrismo ha precipitato la terra
e l’uomo in un’infinita lontananza, se l’esperienza del cosmo ha fatto sì
che l’essere umano si dileguasse in un’irraggiungibile distanza ai suoi
stessi occhi, che non comparisse più nella sua «fotografia (Bild) del
mondo»,18 se il successo della nuova scienza risiede nel livellamento del-
la soggettività, salvata solo per quanto riguarda il genere, il soggetto ge-
nerale (salvo poi rovesciarsi in un livellamento del genere stesso e diveni-
re – la scienza – pulsione di morte del genere),19 la filosofia può
comportarsi diversamente?

Nell’esecuzione dell’idea della scienza l’uomo esegue su se stesso, pren-


dendo sul serio le sue possibilità nel mondo, la legge dell’entropia: si perde
come evento improbabile nell’universo fisico. La domanda è se anche la filo-
sofia, realizzando la sua idea propria, non possa sfuggire a tale destino, e anzi
possa solo contribuire al suo compimento.20

15 Ivi, p. 12. Corsivo mio.


16 Ivi, p. 13.
17 Cfr. ivi, p. 14.
18 Ivi, p. 15.
19 Cfr. ivi, p. 16.
20 Ivi, p. 17.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  33

2. Paradossi fenomenologici: superamento del divieto e legittimità


dell’antropologia

Ma allora, se ci si domanda – legittimamente – in che forma la fenome-


nologia possa essere riattualizzata,21 bisognerà rispondere che ciò è possi-
bile proprio ricorrendo all’antropologia e che quest’esito è in qualche modo
inevitabile e preparato da Husserl stesso. Perciò si può dire che Blumenberg
si disponga a una critica della fenomenologia condotta «con i suoi stessi
mezzi», svelando, grazie al metodo della libera variazione, le conseguenze
e le implicazioni delle tesi husserliane rimaste inosservate e nascoste.22 La
sua confutatio diviene così una vera e propria revisione della fenomenolo-
gia in senso antropologico;23 la purezza della coscienza l’obiettivo polemi-
co a cui agganciare la svolta, nei termini di una «depurificazione
antropologica».24 Si tratta insomma di sviluppare un’antropologia a partire
dalla teoria fenomenologica della coscienza, per fare di quella una prw/th
filosofi/a25 e fortificare la fenomenologia stessa.
Questa, sulla carta la filosofia «meno metafisica del Novecento»,
nasconde al suo interno una «criptoteologia» proprio nella misura in cui
intende impedire ed escludere la possibilità di un’antropologia
fenomenologica. Il Dio del fenomenologo non è altro che la quintessenza
di quella soggettività pura cui anela il soggetto mondano impegnato nella
«meditazione» fenomenologica. Allora, una fenomenologia antropologica
si può dare solo e proprio in forma di «resistenza contro [questa] rivalità
criptoteologica» e per far ciò, e assumere così uno statuto filosofico, deve
declinarsi nei termini di un’«antropologia descrittiva»,26 il cui orizzonte di
applicazione non può tuttavia comprendere qualsiasi cosa rientri
potenzialmente nelle sue competenze.

21 Cfr. H. Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Kri-
sis der Phänomenologie Husserls, unveröffentlichte Habilitationsschrift, Kiel
1950; cit. in O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 315.
22 Ivi, p. 321.
23 Come sostiene e documenta Müller, probabilmente nei primi anni della propria
produzione filosofica Blumenberg è ancora fortemente influenzato dal veto hus-
serliano, che supererà solo in seguito, avvicinandosi progressivamente al pensie-
ro di Cassirer e Gehlen. Cfr. ivi, pp. 82-93.
24 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 260. Per un’analisi articolata
in punti chiave del confronto di Blumenberg con Husserl si veda O. Müller, Sor-
ge um die Vernunft, cit., pp. 313-324.
25 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 103.
26 H. Blumenberg, Der verborgene Gott der Phänomenologie, in Ein mögliches
Selbstverständnis, Reclam, Stuttgart 1997, p. 139.
34 Dialettica della caverna

Suo tema primario è la «descrivibilità stessa», le condizioni di descrivi-


bilità non più delle cose, ma dell’uomo e l’uomo – come si approfondirà in
seguito – può essere descritto a partire dal dato della sua visibilità (Sicht-
barkeit), il che non significa semplicemente che egli è visibile di fronte a
colui che si accinge alla Beschreibung, ma che la visibilità stessa lo defini-
sce fino a determinarne l’autorappresentazione. Soprattutto, l’uomo è visi-
bile in quanto «impenetrabile» (undurchsichtig), non trasparente e perciò
in nessun modo ‘attraversabile’ e ‘oltrepassabile’ per accedere alla coscien-
za nella sua forma assoluta. «Il complicarsi di visibilità e opacità» autoriz-
za invece un’antropologia fenomenologica: essa sola può comprendere
davvero ciò che le teologie – in tutte le loro varianti – comunque non san-
no smentire.27
Ma allora bisogna innanzitutto pensare alla coscienza come a una «co-
scienza incorporata», che sorge entro il rapporto «fenomenologico-corpo-
reo tra vedere ed essere visti»: l’uomo può sentirsi osservato e provare im-
barazzo e vergogna, la memoria dell’esperienza elementare della sua
esposizione è ciò che gli consente di difendersi e proteggersi; da questo
punto di vista la vita della coscienza è sempre osservazione di sé come co-
scienza incarnata ed essere-nel-mondo.28 Riprendendo la definizione di
Husserl secondo cui il corpo sarebbe il «punto zero del sistema dell’oriz-
zonte di un soggetto» inteso come polo di riferimento di datità e azioni,
Blumenberg nota come tale prospettiva resti completamente spostata sul
versante dell’ottica attiva di un Io considerato nella propria assenza di
estensione.29 Al contrario – stravolgendo Cartesio – la res cogitans in Blu-
menberg coincide con la res extensa nel contesto eminentemente antropo-
logico della Sichtbarkeit; il soggetto non è solo «polo di irradiazione» ma
altresì «entità oggettuale» (Betreffgröße), non solo «punto di attacco» (An-
griffspunkt) ma anche «area di precipitazione» (Niederschlagsareal), che si
dà nella propria vulnerabilità di corpo e costruisce la propria identità come
«storia» leggibile a partire dalle «cicatrici» che porta.30 In questa prospetti-
va, «il corpo è l’organo degli organi della passività: attraverso di esso si re-
alizza il poter-lasciarsi-vedere, la visione passiva».31 E benché si possa
obiettare che, nel regno animale, il fenomeno del vedere ed essere visti esi-

27 Ivi, p. 140.
28 O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 111.
29 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 831.
30 Ibidem.
31 H. Blumenberg, Visibilità, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della moder-
nità, Laterza, Bari 2011, p. 152.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  35

sta da molto prima della comparsa del genere umano e continui a esistere
al di là di esso, solo l’uomo conosce l’«incertezza» di fronte a individui
della stessa specie: non può predeterminare se si tratti di amici o nemici.
Questo ci avvicina alla questione fondamentale.
Il punto è che un’antropologia, o delle asserzioni biologiche sulla prove-
nienza della specifica struttura della coscienza umana dalle circostanze
dell’evoluzione, addirittura delle constatazioni di matrice darwinistica han-
no una funzione fenomenologica nel momento in cui mostrano che «questo
organismo da un lato e quella struttura di prestazioni integrate, con il pro-
dotto finale della cultura, dall’altro, non sono intrecciati tra loro in manie-
ra contingente». Altrimenti detto: il fenomenologo dovrebbe colmare l’as-
senza di relazione – entro la fenomenologia – tra l’«eidos io» e l’«eidos
Homo sapiens» e, pertanto, disporsi a uno sforzo antropologico.32 È pro-
prio la teoria della coscienza – già fulcro della fenomenologia husserliana
– a divenire cardine dell’antropologia fenomenologica di Blumenberg, che
si mantiene ancora nel solco della tradizione trascendentale.33
Uno sguardo alle forme della coscienza rilevate dalla fenomenologia
contribuisce dunque a compiere la svolta: intenzionalità e struttura tempora-
le conducono entrambe a un fondamento antropologico. Svolgendo tali ca-
tegorie fino alle loro estreme ma logiche conseguenze, Blumenberg procede
verso un «depotenziamento del timore (Entfürchtung) nei confronti dell’an-
tropologismo», passo preliminare per l’elaborazione di una vera e propria
antropologia fenomenologica, considerandolo come una «variante del prin-
cipio di economia»: infatti, da una prospettiva biologica e autoconservativa,
che cosa c’è di meno economico e inutile che «avere degli oggetti»? Molto
più funzionale è stabilire con le «cose» un contatto basato su un «minimo di
segnali»,34 ed è proprio così che l’intera natura organica generalmente si or-
ganizza, in base a un’economia bewusstseinfrei basata sulla «struttura della
pars pro toto».35 Per contro l’intenzionalità, benché in grado di sfruttare
anch’essa processi riduttivi ed economici, è «in linea di principio infinita»,
sempre potenzialmente aperta a un surplus di informazioni, in un cammino
in cui ogni tratto è continuamente sostituibile dal successivo.
La coscienza intenzionale soggiace al principium rationis insufficientis,
che è il vero e proprio «centro delle teorie antropologiche».36 L’intenziona-

32 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 475.


33 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 104.
34 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 132.
35 Ivi, p.133.
36 Ibidem.
36 Dialettica della caverna

lità, cui la fenomenologia non può rinunciare, è quintessenza di processi


che tentano di tener testa alla vaghezza e alla refrattarietà che caratterizza-
no il rapporto con l’ambiente dell’organismo-uomo; la distanza, presuppo-
sto di ogni «oggettività», un prodotto dell’inesattezza.37 La temporalità, in-
distrincabile dalla coscienza, il vantaggio che la distanza offre al netto di
una perdita di chiarezza. E il processo intenzionale non ammette alcuna
conclusione in un atto finale di raggiungimento dell’evidenza: la condizio-
ne di esistenza stessa della coscienza finita coincide con l’«infinità imma-
nente dei suoi oggetti».38
La riflessione medesima – quello sguardo riflesso del cogito sulle pro-
prie cogitationes su cui si fonda completamente il metodo fenomenologi-
co39 – ha uno «stadio preliminare antropologico nella funzione autoconser-
vativa elementare del riferimento riflesso (Rückbezug) dell’ottica
passiva».40 Perciò, secondo Blumenberg, una fenomenologia genetica non
può fare a meno di un’antropologia. Alla luce di questa, la riflessione è:

un disturbo della soggettività. Ciò significa da un lato, in termini genetici,


che è sorta da un disturbo del soggetto rettale-intenzionale. Dall’altro, che essa
mostra al soggetto il soggetto certamente nella sua evidenza, ma non nella sua
purezza.41

È legata all’«appariscenza» del soggetto per se stesso e dunque a qual-


cosa che lo rende insicuro, che gli impedisce di intrattenere relazioni natu-
rali e immediate con gli oggetti. Ogni qualvolta divengo spettatore delle
mie stesse azioni e delle mie stesse sensazioni, non posso che disturbarle,
interromperle, annullarle: non posso esperire le mie esperienze. La rifles-
sione ha dunque il proprio modello nel riferimento a sé, reso necessario
dall’autoconservazione, nella situazione dell’ottica passiva.42 Ciò significa
che un siffatto processo non solo non riguarda un ego puro trascendentale,
bensì un essere coinvolto in circostanze particolari, ma anche che non può
offrire le condizioni per la fondazione di una conoscenza assolutamente
evidente, poiché, non appena s’innesca, turba e allontana il suo oggetto, an-

37 Cfr. ivi, p. 134.


38 Ivi, p. 138.
39 Per un approfondimento sul tema della «riflessione» si veda il già citato C. Sini,
Introduzione alla fenomenologia, cit., pp. 178-195.
40 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 145.
41 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 331. L’espressione utilizzata è
proprio rektal-intentional.
42 Cfr. ivi, p. 335.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  37

che quando si tratta del soggetto medesimo. Cade dunque il presupposto


che ne fondava l’evidenza: quello della sua immediatezza e imperturbabi-
lità.43 Anche in questo caso l’antropologia corregge le pretese della feno-
menologia facendo leva sui suoi paradossi interni.
Veniamo a un altro tema: l’intersoggettività trascendentale, alla quale
non basta una «‘storia’ delle sue prestazioni», ma serve una «storia dei pre-
supposti organici del suo rendimento».44 La tridimensionalità corporea ot-
tenuta con l’ottica simmetrica frontale è ciò che costituisce il campo visi-
vo.45 Ciò significa che

la mondanizzazione (Verweltlichung) del soggetto trascendentale, la sua im-


mersione nel mondo e nel corpo, è il presupposto per la realizzazione dell’in-
tersoggettività trascendentale in una forma di prestazioni confederate. 46

Nuovamente occorre dunque volgersi alle premesse zoologiche, evolu-


tive che consentono di comprenderne la formazione e la sopravvivenza: a
partire da ciò potrebbe risultare che «lo sviluppo di modi di comportamen-
to e prestazioni intersoggettive faccia parte di ciò che ha reso possibile pro-
prio quella sopravvivenza».47
L’autoconservazione ha in primis a che fare con la «fatticità» di un esse-
re, il quale non potrebbe esistere senza quella prestazione della coscienza.
Con ciò Blumenberg intende mostrare come la fenomenologia non pos-
sa accostarsi in modo sufficientemente profondo al tema dell’intersoggetti-
vità come base evidente dell’oggettivazione, fintanto che si oppone a ogni
pretesa antropologica, nella fattispecie al tema dell’ottica riflessiva.48 La
presenza dell’uomo nel mondo non è pacifica, è – al contrario – strettamen-
te connessa con un alto grado di rischio. Perciò l’uomo non può essere con-
siderato alla stregua di un soggetto intenzionale ‘puro’, perché egli si trova
a dover imparare a compensare «l’ampliamento della sua apertura di fron-
te al manifestarsi dell’ambiente come mondo di oggetti attraverso l’acutiz-
zazione della sua presenza in esso»; il suo ergersi in tutta l’estensione del
corpo eretto e uscire dai propri dintorni ha un aspetto «provocatorio».49 È

43 Cfr. ivi, p. 335-339.


44 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 49.
45 Cfr. ivi, p. 59.
46 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 456.
47 Ibidem.
48 Cfr. ibidem.
49 Ivi, p. 144.
38 Dialettica della caverna

la correlazione reciproca di visibilità e autoconservazione a costituire l’u-


nità fenomenica che possiamo chiamare intersoggettività.50
In conclusione, «il divieto antropologico è l’atto apotropaico con cui la
posizione dello spettatore trascendentale viene difesa».51 Ma è corretto do-
mandarsi (e lo fa Husserl medesimo): i soggetti trascendentali sono gli
uomini?52
Poiché poco o nulla sappiamo degli abitanti di Sirio53 e delle divinità –
ironizza Blumenberg –, è bene che ci atteniamo alla «natura tellurica» che
conosciamo: qui il sovrappeso quantitativo e qualitativo del mondo vege-
tale e animale su quello umano confuta la priorità della ragione come solu-
zione centrale trovata dalla natura per risolvere i suoi problemi; essa si mo-
stra piuttosto quale «soluzione speciale ed eccentrica di uno dei suoi
problemi».54 E non potrebbe funzionare nel modo in cui la fenomenologia
l’immagina, se così non fosse. Ma appare allora anche chiaro che la critica
immanente alla fenomenologia, come «depurificazione» antropologica,
implica al contempo una riabilitazione delle scienze empiriche55 e questo,
infatti, è precisamente il programma attuato da Blumenberg nella seconda
parte di Beschrebung des Menschen. 56

3. Un’antropologia trascendentale e storica

Eppure la contaminazione di fenomenologia e antropologia costituisce


non solo un emendamento della fenomenologia in senso antropologico, ma
anche viceversa: una correzione dell’antropologia filosofica in termini fe-
nomenologici. Infatti, che cosa dovremmo intendere quando parliamo di
antropologia filosofica? Essa può essere definita a partire dal ricordo della
classica domanda filosofica «che cos’è l’uomo?», ma non per risvegliare la
speranza in una possibile risposta, piuttosto perché, in relazione a quella
domanda, si può chiedere: «che cos’era che volevamo sapere? E che cosa

50 Cfr. H. Blumenberg, Visibilità, cit., p. 153.


51 H. Blumenberg, Beschrebung des Menschen, cit., p. 91.
52 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il
Saggiatore, Milano 2008, p. 209.
53 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 36.
54 Ivi, p. 37.
55 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 30.
56 Su questi passaggi complessi si tornerà diffusamente nel prossimo capitolo.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  39

può essere ciò che potremmo esperire?».57 Come si vedrà, questa questio-
ne preliminare conduce a porsi un problema trascendentale.
Anche quando integra dati scientifici – cosa che Blumenberg fa genero-
samente – l’antropologia filosofica correttamente intesa non è una scienza
empirica, non coincide con uno studio psicologico o neurobiologico della
coscienza. Al contempo essa non andrebbe intesa alla stregua di una disci-
plina filosofica capace di «asserzioni essenziali», insomma di un’ontolo-
gia. Questo peraltro implicherebbe immediatamente la sua incompatibilità
con qualsiasi filosofia della storia, poiché è chiaro che tracciare le caratte-
ristiche e le possibilità di un oggetto significa anche segnare i limiti della
sua «capacità di modificazione»: l’antropologia filosofica così intesa coin-
ciderebbe con una «definizione di costanti», con la fissazione del-
l’«orizzonte delle possibilità» che l’uomo ha «di avere storia e di produrre
storia con se stesso». Il trionfo di una siffatta antropologia filosofica sareb-
be al contempo «una sconfitta della filosofia della storia in tutte le sue pos-
sibili differenziazioni».58 Come si vedrà, l’intenzione di Blumenberg è di
non parteggiare per nessuna delle due posizioni prese nella loro granitica
inossidabilità.
Notoriamente, le filosofie della storia, in particolare quelle che predili-
gono le «discontinuità» e descrivono gli eventi essenziali in termini di «ri-
voluzioni», sono propense ad attribuire all’uomo una massima capacità di
cambiamento e una minima costanza di disposizioni e possibilità;59 a con-
siderare le costanti antropologiche come «resistenze» e «momenti inerzia-
li» opposti al movimento trasformativo della storia. È altresì possibile che
il fiorire di antropologie filosofiche nel secolo scorso sia da attribuirsi an-
che a una certa saturazione nei confronti di forme particolarmente marcate
di filosofia della storia e dell’annessa retorica dell’«uomo nuovo».60 Tutta-
via entrambe, antropologia filosofica e filosofia della storia, sono «filoso-
fie del mondo della vita», laddove la seconda definisce l’uomo in rapporto
a una teoria della libertà come fine ultimo e la Lebenswelt in termini stori-
ci come medium e terreno di progressiva approssimazione allo scopo. Per-
tanto, le due discipline si contendono il primato entro confini condivisi e
l’antropologia filosofica riesce a emanciparsi dalla propria subalternità

57 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 483.


58 Ivi, p. 485.
59 Ivi, p. 486.
60 Ivi, p. 487.
40 Dialettica della caverna

solo ove la filosofia della storia, o meglio, la fiducia stessa nella storia, si
indebolisce ed entra in crisi.61
Tuttavia, è forse possibile e altresì auspicabile attenuare e problematiz-
zare quest’antitesi. Soprattutto perché, secondo una riflessione condotta da
Marquard a partire da Michael Landmann, se si guarda al polimorfismo
culturale dell’uomo come «creatura creatrix»,62 si comprendono le confi-
gurazioni della cultura umana all’interno di una «variabilità storica»63 che
apre alla possibilità di una «filosofia della storia» (Philosophie der
Geschichte)64 alternativa alla «filosofia della storia» in senso classico (Ge-
schichtsphilosophie), ma piuttosto declinata come «antropologia della cul-
tura e della storia».65
Tenendo a mente tutto ciò, se bisogna partire dalla problematica doman-
da sulla natura dell’uomo per disporsi a un’antropologia filosofica, occor-
re porsi una «metadomanda»: che cosa vogliamo sapere quando ci chiedia-
mo che cosa sia l’uomo?66 Quali risposte ci attendiamo da una domanda del
genere? Innanzitutto, l’essenza dell’uomo non è un contenuto immediato
della coscienza. È dunque definibile l’uomo? Ma, a monte ancora: è dav-
vero importante definirlo?67
La strada blumenberghiana sarà appunto la

sostituzione di questa formulazione del problema con un’altra formulazio-


ne, di tipo trascendentale, che modifica la prima: quella su come sia possibile
l’uomo,68

che conduce innanzitutto al tema della sua contingenza. Allora, inventa-


riare gli innumerevoli tentativi di accennare o parodiare una definizione

61 Cfr. O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp,


Frankfurt am Main 1973, pp. 124-129.
62 Cfr. M. Landmann, Creatura Creatrix. Ursprünge und Zielsetzung der philosophi-
schen Anthropologie: Erkenntnis und Glaube, Wichern, Berlin-Freidenau 1962;
cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139.
63 Cfr. M. Landmann, Der Mensch als Schöpfer und Geschöpf der Kultur. Ge-
schichts- und Sozialanthropologie, Reinhardt, München-Basel 1961, p. 26; cit. in
O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139.
64 Cfr. J.G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità,
Einaudi, Torino 1951; cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichts-
philosophie, cit., p. 139.
65 M. Landmann, Der Mensch als Schöpfer und Geschöpf der Kultur, cit., p. 62; cit.
in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139.
66 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 502.
67 Cfr. ivi, pp. 503-504.
68 Ivi, p. 511.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  41

dell’uomo, proliferati negli ultimi due secoli (da Poe a Dostojevski, da


Simmel a Freud, da Nietzsche a Heidegger, da Gehlen a Canetti),69 può va-
ler la pena più che altro nel senso di una «constatazione dell’imbarazzo di
definire che cosa l’uomo sia».70 E tuttavia Blumenberg non vi rinuncia,
però, significativamente, chiude il suo elenco sottolineando quell’afferma-
zione di Dilthey, che in effetti non contiene alcuna definizione dell’uomo,
ma segnala il luogo esatto in cui cercarla: «che cos’è l’uomo, glielo dice
solo la storia»,71 anche perché – come si è visto – non si dà un’immediatez-
za dell’esperienza di sé in senso antropologico.72 La storia, si badi, non la
filosofia della storia.
«Ma che cos’è dunque che essa dice [all’uomo] su ciò che egli è?».73 La
premessa è non rinunciare alla «dimensione genetica», disporsi a quella
«riformulazione genetica della domanda» che, in termini evoluzionistici,
potrebbe essere posta nel modo seguente: «come l’uomo è divenuto
tale?»;74 individuare così le caratteristiche che, nel corso del tempo, gli
hanno permesso di sopravvivere.
Questo rende evidente quanto sia importante «il contributo della preisto-
ria (Vorgeschichte) per l’antropologia». La «preistoria» (Prähistorie) – la
disciplina sorta due secoli orsono e cresciuta sotto l’impulso delle teorie di
Darwin,75 «ciò che sappiamo quando osserviamo il più remoto passato del
genere umano»76 – ha, secondo Blumenberg, certamente il merito di aver
posto delle domande antropologiche, benché la discussione antropologica
sulle scoperte paleoantropologiche sia insoddisfacente.77 Anzi, se ben os-
servata, nelle sue scoperte e nei suoi ritrovamenti, essa può realmente con-
durre alla comprensione di fenomeni antropologici decisivi, quali ad esem-
pio l’emersione del concetto.

69 Blumenberg redige infatti, in queste pagine, un breve elenco di «saggi definitori»


(Definitionsessays) in cui compaiono questi e altri autori. Cfr. pp. 512- 516.
70 Ivi, p. 512.
71 W. Dilthey, Gesammelte Schriften, VIII, Vandenhoeck & Ruprecht, Stuttgart
1960, p. 224; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 516.
72 Cfr. ivi, p. 528.
73 Ivi, p. 516.
74 Ivi, p. 523.
75 Cfr. C. Renfrew, Preistoria. L’alba della mente umana, Einaudi, Torino 2011.
Preistoria – scrive Leroi-Ghouran – è «un termine vago che designa globalmente
tutto quello che è avvenuto dalla comparsa del primo uomo a stazione eretta fino
al momento in cui la scrittura ha proiettato un fievole bagliore sul pensiero uma-
no». A. Leroi-Gouhran, Le religioni della preistoria, Adelphi, Milano 1993, p. 11.
76 C. Renfrew, Preistoria, cit., p. 6.
77 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 533.
42 Dialettica della caverna

La possibilità aperta di ‘fare preistoria’, di indagare «le cause prossime


e remote»78 dei fenomeni, addirittura di avvicinarsi all’ambiziosa meta di
una «scienza storica»79 dell’umanità, capace di attingere a sua volta alla ge-
ologia, alla climatologia, alla biologia evolutiva, alla paleontologia, all’a-
stronomia, rappresenta indubbiamente una risorsa per una filosofia che si
voglia genetica e trascendentale. La domanda su come l’uomo sia divenu-
to tale traccia un ponte ideale, ad esempio, verso un’«archeologia
cognitiva»,80 ovvero lo studio dei processi della mente umana e dei loro
cambiamenti a lungo termine, ricostruiti a partire dai reperti materiali rin-
venuti; ma anche, inevitabilmente, verso la «psicologia evolutiva».81 Tra-
endo profitto dalle altre scienze, la storia profonda può contribuire a ri-
spondere all’interrogativo che inaugura una rinnovata antropologia
filosofica, e ad altri che possono completarla e articolarla: ad esempio «in
che rapporto sta il regno dei fini [dell’uomo] con la sua propria esistenza?»,
o «che cosa può ancora diventare [l’uomo] sulla base del suo condiziona-
mento antropologico?».82 Lungo questi sentieri Blumenberg si incammina,
allorché si dispone alla «descrizione dell’uomo» e alla narrazione delle
scene della Menschenwerdung e, nonostante alcune reticenze, apre una
strada filosoficamente feconda.

4. La fenomenologia della storia di Blumenberg

Alla dialettica oppositiva continuità/discontinuità, Blumenberg preferi-


sce il tertium genus della categoria di «rioccupazione»; a proposito della
teoria kuhniana del «cambio di paradigma» scrive:

I miei dubbi in merito si riferiscono al fatto che trascuri il ruolo della conti-
nuità come precondizione di ogni possibile discontinuità. Così preferisco l’idea
di «rioccupazione» di una struttura di posizioni che rimane intatta, che è pre-

78 J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredici-
mila anni, Einaudi, Torino 2000, p. 325.
79 Ivi, p. 324.
80 Cfr. C. Renfrew, Preistoria, cit., pp. 116-120.
81 Cfr. ad esempio J.H. Barkow, L., Cosmides, J., Tooby (a cura di), The Adapted
Mind. Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford Universi-
ty Press, Oxford–New York 1992; H. Plotkin, Evolution in Mind: An Introduction
to Evolutionary Psychology, Allen Lane, London 1997.
82 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 536.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  43

supposta da un punto di vista funzionale e che rende dei mutamenti parziali non
solo ‘tollerabili’, ma soprattutto ‘plausibili’.83

Ciò significa anche che, tra il ‘fatalismo’ delle costanti antropologiche e


l’utopia o la distopia dell’uomo forgiato ex novo dalla storia, si pone un
modo diverso e più articolato d’intendere il procedere storico, le sue accele-
razioni e i suoi punti inerziali. Fenomeni culturali sorgenti e mutamenti epo-
cali si trovano soggetti alla «pressione problematica» di questioni loro estra-
nee, poste in precedenza, «posizioni divenute vacanti da parte di risposte le
cui relative domande non poterono essere eliminate».84 A ogni soglia si trat-
ta di «rioccupare» tali posizioni rimaste vuote, ma al contempo si dispongo-
no «nuovi luoghi nel quadro delle asserzioni possibili e attese sul mondo e
sull’uomo», che a loro volta successivamente non potranno essere aboliti o
mantenuti inoccupati.85 Non si tratta più di risposte a precedenti domande,
ma di una sorta di «generazione spontanea» di risposte a partire da «grandi
affermazioni dotate di efficacia acuta»:86 solo una volta tramontate quelle af-
fermazioni ne sorgeranno le domande idealmente pregresse e si dovrà proce-
dere a formulare risposte diverse, poiché anche quando un nuovo sistema di
pensiero e di vita si oppone al precedente, è indissolubilmente legato «al qua-
dro di riferimenti di ciò che rifiuta».87 Pertanto, se da un lato è chiaro che allo
storico non interessa tanto rilevare le continuità, quanto comprendere le frat-
ture, le riconfigurazioni, le nuove occupazioni, dall’altro:

che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbi-
trario, ma sia soggetto a un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rap-
presenta la condizione grazie alla quale possiamo avere qualcosa come una co-
noscenza della storia. Il concetto di rioccupazione designa come implicazione
il minimo di identità che deve poter essere reperito, o per lo meno presupposto,
e ricercato anche nel movimento più movimentato della storia.88

Si può definire il metodo storico di Blumenberg come un’«ermeneutica


dello sfondo»89 (Hintergrund), alla cui base vi è una concezione della storia

83 H. Blumenberg, The Genesis of the Copernican World, MIT Press, Cambridge,


Massachusetts 1987, pp. 512-513.
84 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 71.
85 Ivi, p. 70.
86 Ivi, p. 72.
87 Ivi, p. 75.
88 Ivi, p. 502.
89 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne. Zur Konstitution neuzeitlicher Subjek-
tivität bei Hans Blumenberg und Wilhelm von Ockham, Karl Alber, Freiburg-
München 1998, p. 43.
44 Dialettica della caverna

come Problemgeschichte,90 orizzonte entro il quale la continuità nella suc-


cessione degli strati è soltanto illusoria e l’ideale irenico di una «storia del-
lo spirito» indubbiamente da rivedere: il dinamismo storico ruota attorno al
problema della Selbsterhaltung e, da questo punto di vista, la storia della te-
oria si svolge come succedersi di prestazioni autoconservative mediante
l’interpretazione della realtà,91 ma in un continuum che non si può dire né li-
neare-progressivo né dialettico. Piuttosto, procede in modo simile a una ‘tet-
tonica a zolle’, laddove ‘al di sotto’ del concetto si muove la metafora come
«struttura genetica»,92 sfondo della sua costruzione: la prima articolazione
dell’orizzonte di attesa indeterminato verso cui si rivolgono le strategie di
autoconservazione, emerso col distacco dalla Lebenswelt, è di tipo metafo-
rico.93 Lo sfondo storico è quindi «la possibilità che c’è stata di ciò che di
fatto è divenuto, la sua osservazione è la condizione della comprensione
genealogica»94 dei fenomeni, nonché delle soglie critiche in cui strategie ob-
solete cedono il passo ad altre, producendo nuovi concetti di realtà.
Attraverso fasi e costellazioni concettuali diverse, Blumenberg dà vita a
una complessa «teoria delle strutture della storia» che va evidentemente in-
tesa in senso ben più ampio di una semplice Begriffsgeschichte e che intro-
duce la metaforologia come tassello in grado di guardare oltre, rideclinan-
do la fenomenologia storica. Parallelamente elabora le categorie di
«immagine e modello del mondo»95 e, a partire dalle riflessioni sulla
Neuzeit, la struttura dialogica di domanda e risposta cui fa capo il concetto
di Umbesetzung. La fenomenologia storica si sviluppa nei termini di
un’«archeologia» delle «condizioni trascendentali» di formazione di
Weltbilder e Weltmodelle, ed è proprio la declinazione del metodo fenome-

90 H. Blumenberg, Epochenschwelle und Rezeption, in «Philosophische Rund-


schau», n°6, 1958, p. 102.
91 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 71.
92 H. Blumenberg, Beobachtungen an Metaphern, in «Archiv für Begriffsgeschich-
te», n°15, 1971, p. 163.
93 Cfr. ivi, p. 170.
94 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 43.
95 Cfr. H. Blumenberg, Weltbilder und Weltmodelle, in «Nachrichten der Gießener
Hochschulgesellschaft», n°30, 1961, pp. 67-75. Per «modello teorico del mondo»
Blumenberg intende una «concezione della realtà» dipendente dal livello corri-
spondente raggiunto dalle scienze naturali, che ne integra gli enunciati. Qualcosa
di analogo al paradigma kuhniano. Per «immagine del mondo» intende invece
quella «quintessenza della realtà» entro la quale l’uomo orienta i propri valori e la
meta delle sue azioni, comprende se stesso, le sue possibilità e i suoi bisogni. H.
Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 436-437, nota 310. Tradu-
zione lievemente modificata.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  45

nologico in termini storici a produrre quella moltiplicazione degli orizzonti


d’esperienza, quel pluralismo dei mondi della vita come «differenti avatar»
dell’unica Lebenswelt disseminati lungo la storia;96 e a leggere la storia del-
lo spirito europeo come il tentativo continuo di un lavoro sulla realtà a par-
tire dalla distruzione dei mondi della vita che sempre si riformano.97
Del concetto kuhniano di «paradigma» Blumenberg accoglie la dimen-
sione ‘strutturale-epistemica’ e il movimento conflittuale,98 ma compie dei
passi ulteriori. Lo fa perché, grazie alla rioccupazione e alla metacinetica
dello sfondo, è in grado di rendere conto non solo del crollo dei sistemi do-
minanti, cosa che la teoria delle «rivoluzioni scientifiche» fa efficacemen-
te, ma soprattutto degli «atti successivi di nuove fondazioni»99 come qual-
cosa di non arbitrario o soggetto a processi di tipo decisionistico, bensì
determinato da orizzonti di attesa precostituiti.
È chiaro che la focalizzazione delle «soglie epocali» a livello della Hin-
tergründigkeit comporta così anche un depotenziamento dell’enfasi sul
ruolo e sull’incisività dei soggetti, le cui azioni si pongono entro l’orizzon-
te delle proprie possibilità storiche, il che avvicina certamente Blumenberg
a Foucault e lo allontana da Kuhn. I mutamenti epocali avvengono a un li-
vello «strutturale» più profondo e inseriscono il nuovo in schemi ereditati,
per poi forzarli e trasformarli successivamente. Più che di paradigmi, Fou-
cault preferisce parlare di «regimi discorsivi» che «governano» gli
enunciati,100 o di «episteme» intesa non tanto come una visione del mondo
che impone ai soggetti postulati comuni, ma «l’insieme delle relazioni che
possono unire in una data epoca le pratiche discorsive che danno luogo a
delle figure epistemologiche, a delle scienze, eventualmente a dei sistemi
formalizzati».101 Né a Foucault né a Blumenberg interessa tanto stabilire
‘che cosa c’è sotto’ un rivolgimento epocale, nel senso delle sue condizio-

96 O. Feron, Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blu-


menberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 226.
97 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 56. Su questi concetti mi
soffermerò a lungo in seguito.
98 Cfr. H. Blumenberg, Paradigma, grammaticalmente, in Le realtà in cui viviamo,
Feltrinelli, Milano 1987, pp. 130-134.
99 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 502.
100 Cfr. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in Microfisica del potere, A. Fon-
tana, P. Pasquino (a cura di), Einaudi, Torino 1977, pp. 6-7; G. Agamben, Signa-
tura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 15-18. In questo te-
sto, Agamben traccia appunto un confronto fra Kuhn e Foucault attorno alla
nozione di «paradigma».
101 M. Foucault, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultu-
ra, Rizzoli, Milano 2009, p. 250.
46 Dialettica della caverna

ni sociali e materiali, quanto ‘che cosa c’è dietro’, ossia le sue condizioni
trascendentali preparate, nel linguaggio di Foucault dagli «a priori
storici»,102 in quello di Blumenberg dalle immagini del mondo e dai reper-
ti metaforici a cui il linguaggio e l’immaginazione restano ancorati: in al-
tre parole, il rapporto fra l’«archivio» e l’«attuale»,103 o il debito del pre-
sente nei confronti del vecchio mondo.104 Blumenberg chiama «metafore
assolute» i «geroglifici spirituali dell’esistenza storica» e «metaforologia»
il «luogo di costituzione dell’archivio trascendentale della memoria stori-
co-ideale»,105 ma la prossimità dei due autori è innegabile. Sebbene in Fou-
cault la dimensione antropologica sia completamente assente, anche nei
termini ‘funzionalistici’ in cui la intende Blumenberg.
Blumenberg, infatti, non pretende di interrogare l’essere dell’uomo né le
strutture eterne di una soggettività, o un’origine che sa inattingibile, ma
certamente i bisogni strutturali cui lungo la storia l’uomo tenta di risponde-
re e un’immagine del suo passato remoto, assieme ai bisogni circostanzia-
ti che la storia stessa produce entro questi tentativi, modificandoli ma non
eliminandoli.
Tali contaminazioni e affinità, nonostante le differenze segnalate, aiuta-
no a comprendere come, soprattutto, nel peculiare Historismus106 di Blu-
menberg vi sia una sensibile correzione della concezione husserliana della
storia dello spirito. Qui, il tramandarsi delle nozioni entro la temporalità in-
tersoggettiva, il costituirsi della «tradizione», si dà in forma di «sedimenta-
zioni», bagagli di esperienza trasmessi alla generazione successiva, «con la
quale si stabilisce così un fondamentale nesso associativo».107 La «comu-
nità intenzionale» si compone nella dimensione del tempo grazie al «con-
tributo operativo» di ciascuno che si somma a quello degli altri.108 Volendo
individuare la differenza decisiva tra la concezione della coscienza storica
husserliana e quella blumenberghiana, la si potrebbe rintracciare in ciò:

102 Cfr. ivi, pp. 169-176.


103 A proposito di questi concetti foucaultiani si veda G. Deleuze, Che cos’è un dispo-
sitivo?, Cronopio, Napoli, 2007, pp. 27-28.
104 Cfr. P. Ifergan, Blumenberg’s Version of History of Science: the Copernican Case,
in Atti del Convegno Hans Blumenberg – Geschichte(n) des Wissens, Lubecca 14-
17.10.2010, in corso di pubblicazione.
105 B. Maj, Il progetto di metaforologia e l’«Historismus» di Hans Blumenberg, in A.
Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 80.
106 Sulla via blumenberghiana allo storicismo attraverso la metaforologia si veda ivi,
pp. 65-96.
107 C. Sini, Introduzione alla fenomenologia, cit., p. 147.
108 Ivi, p. 103.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  47

Husserl fa discendere la continuità della storia intenzionale dalla dinamica


della coscienza come intenzionalità definita teleologicamente. Per contro Blu-
menberg de-teleologizza questo principio tramite un’antropologizzazione, che
descrive come costante del formarsi della storia unicamente la pressione pro-
blematica cui la coscienza deve reagire: l’autoconservazione è la sua richiesta
fondamentale. La storia dello spirito diviene così una serie di tentativi di auto-
conservazione, orientamento e di iniziative dell’uomo di fronte a una realtà non
definitivamente intellegibile.109

Qui è già in gioco un’«antropologia genetica» quale «inconclusa auto-


chiarificazione dell’uomo attraverso lo sguardo nella sua storia»,110 nella
misura in cui sono problemi di natura anche antropologica a determinare il
succedersi nel tempo del mondo di diversi realismi e concetti di realtà e
questi ultimi a far luce sui primi. O, altrimenti detto, emerge un’«antropologia
sperimentale» che giunge a considerazioni sulla condizione umana a parti-
re da situazioni concrete.111 Se la storia, nelle sue variazioni, svela qualco-
sa che possiede uno statuto antropologico, al contempo

ogni antropologia, anche quella che lo nega, è al suo cuore storica. Ammet-
terlo non esclude di vedere in ciò anche il suo limite e la sua intollerabilità. Re-
sta inconcepibile per il soggetto umano che l’esperienza immediata di sé, l’es-
sere assorto nella meditazione su di sé, l’estrema concentrazione su questo Sé
evidentemente non avvicinino di un passo alla risposta alla vecchia domanda
su che cosa sia l’uomo. L’indecenza sta nella contingenza delle digressioni e la
storia è la più grande, la più casuale, perciò anche la più scandalosa di queste.
Tuttavia proprio perciò è quantomeno più vicina delle insufficienze dell’intro-
spezione e della riflessione all’esaurimento dell’orizzonte delle possibilità. [La
consapevolezza] che però, nella fatticità delle situazioni e dei rapporti storici,
il singolo resti dipendente da un modello provvisorio di se stesso, poiché non
ottiene alcun appiglio per ciò che il frammento riservatogli da questa storia può
esigere dal suo potenziale di destino (Schicksalkapazität), rimane l’atteggia-
mento preventivo per mantenersi impassibili quanto necessario per essere
all’altezza della contingenza. È sempre grande la tentazione, specialmente nel-
le epoche più calme, di applicare l’allenamento alla vita a un orizzonte stretto
di possibilità, a una gamma di richieste meno esotica. Deve diventare visibile
come l’allenamento e la richiesta si relazionino l’uno all’altra, come l’uno ven-
ga legittimato dall’altra. Ma quanto più l’allenamento alla possibilità viene li-

109 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., pp. 76-77.


110 Ivi, p. 80; in generale cfr. ivi, pp. 77-83.
111 H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, Suhrkamp, Frankfurt am Main
1997, p. 264; cit. in E. Mazzi, I pensieri astronoetici come laboratorio per un’an-
tropologia sperimentale: la riflessione di Hans Blumenberg sull’impresa spazia-
le, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 286.
48 Dialettica della caverna

mitato, tanto più cresce dai limiti di quella disposizione la paura vitale di fron-
te all’orizzonte delle possibilità sconosciute e impensate. Già l’accenno di un
più forte spalancarsi di una realtà prevista e di una possibilità che si annuncia,
tra la statistica e l’immaginazione, incrementa l’incertezza elementare, risve-
glia il bisogno di prevenzione indeterminata, di approssimazione all’onnipo-
tenza.112

Solo le variazioni della fenomenologia della storia ci approssimano a


un’antropologia genetica, per quanto provvisoria possa essere. Sapere di
tale provvisorietà – questo dovremmo apprendere dal moderno – ci mette
in guardia dalla paralisi di fronte allo sconosciuto.
Tuttavia, al metodo così compreso Blumenberg aggiunge un momento
ulteriore: il tentativo di elaborazione di una vera e propria teoria antropo-
genetica, di una riflessione non solo a ritroso verso le dinamiche antropo-
logiche sottese al movimento della storia e rivelate da questo, ma un’ipote-
si sulle dinamiche storiche (o meglio preistoriche) che hanno reso
possibile la Menschenwerdung. Per quanto, anche in ciò, egli si guardi
bene dall’avanzare pretese di definitività.

5. Fenomenologia e preistoria

Volgiamoci allora alla ‘storia del mondo della vita’.


La trasformazione della Lebenswelt in un mondo d’oggetti, attraverso la
riflessione, in Husserl appare conseguenza di un atto volontaristico che ha
le sembianze di una specie di «peccato originale».113 La decostruzione (Ab-
bau) dell’atteggiamento naturale che caratterizza il regno dell’ovvio è in-
somma un intervento decisionistico che Husserl non solo si prefigge come
punto di partenza del progetto fenomenologico, ma applica alla stessa sto-
ria della filosofia nel momento in cui ne identifica il cominciamento nel-
l’«originaria fondazione greca» dell’atteggiamento teoretico.114 Ma allora,
come la «genealogia storica» ha permesso di contestualizzare il gesto car-
tesiano e vederlo alla stregua di «indice di una crisi» piuttosto che di «fon-
damento assoluto», si tratta di ripensare tutta la «storia speculativa del

112 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 890-891.


113 Cfr. H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fe-
nomenologia, in Le realtà in cui viviamo, cit., p. 30.
114 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 99; cfr. J. Goldstein, Nominali-
smus und Moderne, cit., pp. 50-51.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  49

soggetto»115 a partire da una corretta descrizione dell’uscita dalla Le-


benswelt. E, anche in questo caso, al termine della ricognizione genetica ri-
sulta inevitabile operare decostruzioni sulla stessa fenomenologia husser-
liana come progetto filosofico, innanzitutto a partire da una rinuncia al
rinnovato gesto teorico dell’auto-posizione della ragione.116 Non vi è alcu-
na necessità della ragione, poiché essa è un prodotto della contingenza.
Il fatto è che nella Lebenswelt di per sé non sussiste e non può sussiste-
re quella distanza dal fenomeno, quell’atteggiamento riflessivo in grado di
condurre alla teoresi, al concetto, al simbolo; essa è perciò un contesto che,
ignaro della contingenza e della negazione, non offre al suo interno lo stru-
mentario per la propria messa in discussione, pertanto per immaginarne la
destituzione occorre pensarne l’erosione, per «tratteggiare le condizioni
genetiche originarie della coscienza»117 tematizzare almeno per ipotesi le
ragioni della sua caducità. Allora, più che costituire un sovrano atto di epo-
ché, l’uscita dal mondo della vita è semmai qualcosa che si subisce e che
comincia con un «disturbo» o una «distruzione» vera e propria del prece-
dente rapporto non tematizzato e fino a quel momento immediato col mon-
do, col sorgere della realtà come «resistenza».118 Da qui l’impulso all’ela-
borazione teorica di ciò che ha cessato di essere ovvio assomiglia più a una
dura necessità inflitta che a una vivace e volitiva passione teoretica.
È proprio questa rivisitazione dei concetti husserliani ad avvicinare Blu-
menberg alle categorie di quell’antropologia filosofica che – come si espor-
rà diffusamente – descrive il suo eroe come homo inermis divenuto animal
rationale per necessità compensative.119 A sua volta, la teoria dell’uscita
dalla Lebenswelt serve a Blumenberg per problematizzare la tesi della ca-
renza costitutiva, per contestualizzarla in cerca delle condizioni ‘ambienta-
li’ che l’hanno generata, per passare da una tesi antropologica a una tesi an-
tropogenetica. Dobbiamo immaginare l’emersione della ragione e di tutte
le prestazioni che caratterizzano l’umano come risposta, avvenuta nel cor-
so della storia profonda, a una crisi ambientale, strutturale, biologica, evo-
lutiva, e alla relativa virulenza di una realtà percepita in termini di assolu-
tismo. Da un certo punto di vista bisognerebbe pensare alla ragione come a
un ‘parto indesiderato’, laddove l’abbandono della Lebenswelt è, prima e

115 Ivi, pp. 53-54.


116 Cfr. O. Feron, Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blu-
menberg, cit., pp. 231-232.
117 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 52.
118 Ivi, p. 54; cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, il Mulino, Bo-
logna 1996, p. 84. Anche questi passaggi verranno sviluppati in seguito.
119 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit.
50 Dialettica della caverna

più che l’inizio del filosofare, l’uscita nella contingenza: la ragione è in-
somma condizionata e sempre sottoposta alla pressione della realtà e, di
conseguenza, all’esigenza di autoconservazione; perciò non è libera di di-
spiegarsi completamente nel compito di trasformazione dell’atteggiamen-
to naturale in attitudine teoretica, perché deve dispiegare un quantum di
metaforicità allo scopo di sopravvivere.120
Declinando la riflessione sull’uscita dalla Lebenswelt alla stregua di
un’«ermeneutica del pericolo», che incombe sul soggetto dal momento del
suo abbandono, Blumenberg accede – come appena osservato – a una con-
cezione della storia in cui il continuum è rappresentato dallo sforzo di au-
toconservazione e il dinamismo dai differenti tentativi di soddisfarlo.121 Se
la Lebenswelt è – come vuole Husserl – non solo la posizione di partenza
storica dell’atteggiamento teoretico, ma un substrato sempre presente, un
grado di inesauribile contemporaneità, ciò va inteso in termini conflittuali
e antropologici: i mondi della vita si ripropongono contro o come esito
quasi-dialettico dello sforzo teoretico di destituirli, poiché inesausto è il bi-
sogno umano di ricostruirli e perché rappresentano una strategia di auto-
conservazione, di produzione di distanza, alternativa e spesso più funzio-
nale dell’Aufklärung come forma di «realismo».
In tal modo dunque, riflessione fenomenologico-trascendentale, antropo-
logia filosofica e fenomenologia della storia precipitano in una teoria con-
getturale sull’antropogenesi, sulle condizioni di possibilità dell’ominazione.
Fenomenologia e antropologia si correggono vicendevolmente, generando
così una domanda di tipo genetico-trascendentale che apre uno squarcio sul-
la storia profonda dell’umanità. La fenomenologia della storia sarà allora
ancora il metodo per gettare uno sguardo sulla preistoria e mostrare i rudi-
menti del funzionamento dei processi storici e dei propri stessi concetti.
L’Umbesetzung – come mostrerò – è riproponibile, assieme alla «meta-
fora speculativa» del «trauma da separazione», come categoria applicata
alla conservazione della vita attraverso le sue trasformazioni filogenetiche
e le incessanti espulsioni e rioccupazioni del proprio elemento.122 Negli
abissi del passato delle specie e nell’antropogenesi Blumenberg traccia
l’ultimo schizzo delle strutture della storia e della teoria dei concetti di re-

120 Cfr. Ivi, p. 73.


121 Ivi, p. 69.
122 A. Fragio, «Das Überleben der Übergänge». Nuevos paradigmas de análisis de
la obra de Hans Blumenberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blu-
menberg, cit., p. 63.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  51

altà.123 E la sua è un’antropologia della ‘crisi’, fortemente evenemenziale e,


in questo senso, trascendentale in senso storico: perché Homo sapiens?
Questa è la domanda. E come è giunto al concetto? Non basta appellarsi a
una vaga «capacità creatrice originaria», bisognerà mostrare la situazione
in cui il concetto ha consentito all’uomo di compiere «un passo essenziale
verso l’assicurazione della sua esistenza».124 L’originalità di Blumenberg –
se considerato anche alla stregua di propaggine dell’antropologia filosofi-
ca contemporanea – sta nell’aver, senza timore alcuno di affidare la presen-
za umana sulla terra a circostanze improbabili, delineato una vera e propria
teoria dell’antropogenesi e addirittura – come sostiene Accarino – della
«biogenesi».125
Allora, ‘il micro’ delle nostre vicende circoscritte in una parte esigua di
mondo – l’occidente – e in un frammento risibile di tempo – la Storia, ri-
propone il macro dei grandi processi evolutivi da cui veniamo e la fenome-
nologia della storia, che riguarda in ultima istanza le forme della Distanz e
della nostra capacità di stare al mondo, è applicabile alla biogenesi e all’an-
tropogenesi, alla ricerca delle prime risposte per le domande poste dall’am-
biente. La preistoria è il primo capitolo della fenomenologia della storia,
cominciata sulla soglia ove si decideva della nostra sopravvivenza o estin-
zione, l’antropogenesi una svolta epocale primordiale e la prima occupa-
zione e trasformazione dell’orizzonte in orizzonte di senso orientativo.

6. Archeologia e metaforologia

Scrive Leroi-Gourhan, probabilmente una fonte significativa per Blu-


menberg anche se poco documentata nei suoi testi,126 che gli studi preisto-
rici hanno l’aspetto di un colosso dalla testa d’argilla, sempre più fragile
man mano che si risale dalla terra verso l’alto:

123 Cfr. ivi, p. 66. La descrizione di quattro concetti di realtà definiti storicamente e in
ultimo legati alle implicazioni preformate che caratterizzano ciascuna epoca si
trova in H. Blumenberg, Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans, in
Nachahmung und Illusion, «Poetik und Hermeneutik», n°1, 1964, pp. 49-54.
124 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 535.
125 B. Accarino, Visibilità e modernità. Hans Blumenberg tra antropologia e filosofia
della storia, in Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, ciclo di conferenze
della Fondazione Collegio San Carlo di Modena, 23.03.1994.
126 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22; né in Beschreibung des
Menschen, né in Theorie der Lebenswelt, né in Zu den Sachen und zurück, né in
Theorie der Unbegrifflichkeit ci sono riferimenti all’autore.
52 Dialettica della caverna

I piedi, costituiti da testimonianze geologiche, botaniche o zoologiche, sono


abbastanza solidi; le mani sono già più friabili, perché lo studio delle tecniche
preistoriche si muove in un ambito prevalentemente congetturale. La testa, pur-
troppo, va in pezzi al minimo urto, e molto spesso ci si è accontentati di sosti-
tuire al pensiero del colosso decapitato quello dello studioso di preistoria.127

Non è intenzione di Blumenberg rubare il mestiere agli specialisti, il suo


resta lo sforzo di un filosofo per trovare uno spazio possibile alla filosofia.
Ma proprio sul terreno friabile che mette in imbarazzo le scienze, anche
quelle meno esatte, la filosofia può arrischiarsi con un linguaggio proprio, a
patto di sapere bene che esso è spurio, contaminato e imbevuto di storia. Di-
versamente, su quasi tutto quanto si è detto sin qui avrebbe dovuto tacere.

La filosofia è la quintessenza delle affermazioni indimostrabili e inconfuta-


bili, che sono state scelte a partire dalla loro efficacia. Oltretutto queste non
sono nient’altro che ipotesi, con la differenza che non contengono nessuna di-
sposizione che consenta di condurre alcun tipo di esperimento od osservazione,
ma si limitano a comprendere ciò che altrimenti ci starebbe davanti come qual-
cosa di assolutamente sconosciuto e inquietante.128

L’indagine genetica e antropogenetica è al contempo metaforologica,


perché conduce fino alle soglie della Lebenswelt e tenta, per via archeolo-
gica, di ricostruire in maniera congetturale – per quanto possa dotarsi di
fonti scientificamente attendibili – gli scenari della Menschenwerdung.
Tornando al problema della fondazione: se la ragione non basta a se stessa
per dar conto di se stessa, ciò è già sufficiente per mostrarne l’insufficien-
za, giustificando a un tempo l’inconcettuale come contrappeso e strategia
alternativa al concetto in circostanze antropologiche in cui comunque il
puro realismo sarebbe esiziale, e la metaforologia alla stregua di indagine
archeologica-fenomenologica-trascendentale a ritroso, alla scoperta di
quelle circostanze.
Senza dubbio non si può dire che Blumenberg pretenda di rintracciare ef-
fettivamente «l’inizio della storia»,129 di cogliere quell’Ursprung assoluta130
cui solo una ragione priva di insidie, ostacoli e difetti potrebbe pervenire.

127 A. Leroi-Gouhran, Le religioni della preistoria, cit., p. 12.


128 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 16.
129 Così J. Kirsch-Hänert, Zeitgeist – Die Vermittlung des Geistes mit der Zeit. Eine
wissenssoziologische Untersuchung zur Geschichtsphilosophie Hans Blumen-
bergs, Peter Lang, Frankfurt am Main 1989, p. 85.
130 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo, in A. Borsari (a
cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., pp. 289-291. Saggio
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  53

Certo, si spinge sempre più a fondo e, soprattutto in Beschreibung des Men-


schen, con strumenti sempre più affilati, nel nostro passato, alla ricerca del
tempo perduto, ma proprio perché s’immerge nella storia non pretende di in-
dividuarne l’origine o la fine. In fondo il soggettivismo trascendentale hus-
serliano evoca, con l’idea della fondazione originaria, una filosofia della sto-
ria che tradisce la refrattarietà a tematizzare il transitorio e la contingenza.131
Ma questo è, di fatto, un «‘arrestarsi nel pensiero’ dinnanzi al problema della
storia» che tradisce un uso equivoco del concetto di «genesi».132 Blumenberg,
per contro, sa che ogni antropologia, anche la sua, è storica, come lo sono le
ricerche scientifiche che prende in prestito. La ragione situata, lontana dall’i-
deale dello spettatore disinteressato, si serve dell’immaginazione o della rico-
struzione ipotetica per tutto ciò che non si può dare in forma intuitiva o con-
cettuale, e di ciò fanno parte anche «gli inizi immemorabili»133 su cui si
possono solo condurre ‘esperimenti suppositivi’, esercitare una memoria im-
maginativa nella forma della libera variazione, per condurre quel lavoro di
avvicinamento all’origine che sempre si sottrae.134 Per le domande ‘da dove
veniamo’ e ‘dove andiamo’ siamo nel «regno della metaforica assoluta».135
La libera variazione deve andare in cerca dell’essenziale della vita sen-
za dipendere «dal riferimento alla realtà di questa», non perché «si nutra ar-
bitrariamente di cose non vissute», ma perché attratta verso il tempo mai
posseduto come «immediatamente attuale».136 Allora potremo partire dalle
tracce e dai traumi che portiamo sul corpo, nella coscienza, nella cultura,
nella storia, trattarli come reperti che ci permettano di risalire – direbbe
Foucault – non all’Ursprung come «identità originaria» di fronte alla qua-
le tutte le peripezie sono avventizie,137 ma all’Herkunft, la «provenienza»,
o all’Entstehung, l’«emergenza»138 o «punto d’insorgenza»,139 senza timo-

già pubblicato precedentemente in B. Accarino, Daedalus. Le digressioni del male


da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milano 2002, pp. 67-108.
131 Cfr. H. Blumenberg, Die «Urstiftung». Über den Unwillen, Autor vom Vergängli-
chem zu sein, in «Neuer Zürcher Zeitung», 13.10.1984, p. 69; cit. in J. Goldstein,
Nominalismus und Moderne, cit., pp. 63-65.
132 H. Blumenberg, Die ontologische Distanz, cit., p. 10 b; cit. in J. Goldstein, Nomi-
nalismus und Moderne, cit., p. 65.
133 P. Stoellger, Imagination der Vernunft, cit., p. 151.
134 Cfr. ivi, pp. 151-159.
135 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 7.
136 Ivi, p. 12.
137 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, cit., pp.
31-32.
138 Cfr. ivi, pp. 34-41.
139 G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 84.
54 Dialettica della caverna

re però di guardare indietro fino ai primi passi dell’umanità e abbozzare


così un’antropologia come «storia dell’insorgenza»140 e di quel che accade
‘da subito dopo’: cioè come preistoria. La metaforologia si avvicinerebbe
così a un’archeologia intesa non solo kantianamente come «storia filosofi-
ca della filosofia»,141 ma altresì come indagine che cerca di raggiungere, di
figurarsi anche narrativamente, quel che Dumézil chiama la «storia più
vecchia» e «la frangia di ultra-storia»,142 non esclusivamente studiando –
come l’archeologia intesa in senso classico – i resti materiali traghettati dai
tempi arcaici fino a noi, ma guardando a tutte le nostre culture, i nostri sa-
peri, le nostre storie, le realtà in cui viviamo e abbiamo vissuto, come a
un’eredità di qualcosa di lontano e come a degli indizi, dei segni per imma-
ginare il passato.
In tal senso si comprende come il metodo blumenberghiano sia stato an-
che accostato a una «psicoanalisi della storia», come «ricostruzione di un
campo di possibilità datesi».143 Se è corretto parlare di archeologia a propo-
sito di Blumenberg, si può accogliere l’analogia teorizzata da Enzo Melan-
dri tra psicoanalisi e regressione archeologica: per entrambe la posta in gio-
co è l’accesso «a un passato che non è stato vissuto e che non può quindi
definirsi tecnicamente “passato”, ma è rimasto, in qualche modo,
presente»;144 l’archeologia lo rievoca in modo regressivo e «subliminare»,
muovendosi sulla soglia che discrimina conscio e inconscio, razionalizza-
to e irrazionale145 o, in altri termini, concettuale e metaforico. È vero allora
che in un certo senso l’archeologia è l’opposto complementare dell’indagi-
ne storica intesa in senso stretto: «dove la storia manca […], l’archeologia
è sovrana» (e viceversa);146 vale a dire, prende spazio un metodo di rico-

140 F. Overbeck, Kirchenlexicon Materialen. Christetum und Kultur, in Werke und


Nachlass, VI/I, Metzler, Stuttgart-Weimar 1996; cit. in G. Agamben, Signatura
rerum, cit., p. 86.
141 I. Kant, Lose Blätter zu den Fortschritten der Metaphysik, in Gesammelte Schrif-
ten. Akademie-Ausgabe, XXIX, De Gruyter, Berlin 1942; cit. in G. Agamben, Si-
gnatura rerum, cit., p. 82.
142 G. Dumézil, Myhte et epopée, III. Histoires romaines, Gallimard, Paris 1973, p.
14.
143 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 48.
144 G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 102.
145 E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, il Muli-
no, Bologna 1968, p. 86.
146 E. Melandri, Per una filosofia della metafora. Introduzione all’edizione italiana,
in H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, il Mulino, Bologna 1969, p.
XIII.
Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria  55

struzione congetturale, che non potrebbe né vuole raggiungere un grado di


«dimostrabilità paleontologica».147
Pur tuttavia, compreso ciò, non ci si libera dalla sensazione che questo
movimento speculativo abbia qualcosa del labirinto o di una sinistra circo-
larità: non possiamo che avanzare supposizioni su noi stessi poiché siamo
nati sotto il segno della mancanza, anzi, questa mancanza ci costringe a
supporre, ne abbiamo bisogno per vivere. Ma se la congettura fosse sba-
gliata? Si procede a tentoni per ipotesi che non possono soddisfare criteri
di esattezza per ragioni in ultima istanza antropologiche, se non che, anche
tutto ciò che diciamo sull’antropologia fa parte di queste ipotesi e sarà sog-
getto alla verifica della storia…

147 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 134.


CAPITOLO SECONDO
RISVEGLI
(Scene del divenire umani)

1. Sassi (Homo faber)

Uno dei tanti possibili incipit, dei «c’era una volta» con cui cominciare
a narrare la storia di come l’uomo è divenuto se stesso, parte da una pietra
raccolta da terra e gettata lontano. Se ci si domanda quando, perché e in
quali circostanze questo gesto sia balenato nella mente del ‘primo uomo’,
subito si affaccia l’ipotesi che – al contrario – sia stato piuttosto un prime-
vo barlume di mente a balenare in quel gesto. Blumenberg pensa a un vico-
lo cieco, un «cul-de-sac»: lo «scenario originario» della Menschenwerdung
è il teatro di una scena di fuga, o meglio, di «fuga negata» e di un recupero
tardivo, imprevisto e rocambolesco del «principio di lotta».1 L’antenato
dell’uomo, l’animale fuggiasco (Fluchttier) che ha progressivamente per-
duto l’equipaggiamento biologico indispensabile per affrontare con suc-
cesso uno scontro corpo a corpo col proprio predatore, potrebbe essersi tro-
vato in una situazione senza via d’uscita, un Sackgasse che lo costringe a
interrompere la corsa, voltarsi e fronteggiare l’inseguitore; una situazione
limite che lo induce a imboccare un sentiero inatteso, attingendo da una ri-
serva antica di prestazioni qualcosa che mai si era rivelato decisivo in un
frangente come questo: la capacità di ergersi per breve tempo sui soli arti
inferiori, liberando quelli superiori. È così che il preominide, guardando
dritto davanti a sé in direzione del pericolo, poté afferrare un sasso da terra
e scagliarlo con forza. Chissà quante volte prima di questo fortuito fran-
gente in cui una mano, tastando il terreno circostante, percepì sotto i polpa-
strelli un oggetto, una «produzione casuale della natura» potenzialmente
utile alla difesa, chissà quante volte la selezione naturale aveva svolto il
suo spietato mestiere, e a quanti aveva comminato l’«ordinaria punizione
biologica» di venire estromessi per sempre dall’albero genealogico degli
organismi viventi. Per questo l’Urszenario è qui da intendersi eminente-
mente come tale, una circostanza casuale così come – è convinto Blu-

1 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 577.


58 Dialettica della caverna

menberg – ciascuno degli snodi epocali nella storia dell’evoluzione, un


sasso, appunto, lanciato in un oceano di incalcolabili tiri mancati, e dunque
un successo che è tale in senso evoluzionistico «solo in virtù delle proprie
conseguenze».2
Nello Steinwurf incontriamo una prima forma di azione «preventiva»
nella dimensione dello spazio, che consente di sottrarsi al contatto fisico
con l’avversario, ricreando artificialmente il «campo d’azione», lo
Spielraum sottratto dall’impedimento materiale della fuga, della possibili-
tà di movimento del proprio corpo; ci troviamo di fronte all’«invenzione
della fuga stazionaria come creazione della distanza dall’inseguitore».3
Questo gesto non preordinato, né in alcun modo disposto dai meccanismi
evolutivi, riconduce in un balzo e involontariamente l’antenato dell’uomo,
l’animale fuggiasco, alla dimensione della lotta, trasformandolo nell’eroe
immaginario dell’antropogenesi. Solo in virtù di questo «evento originario
eccezionale» l’antenato naturale delle scimmie antropomorfe diviene scim-
mia «pitecantropogena»,4 progenitrice dell’uomo. Ma è al contempo la sua
natura di Fluchttier a garantirgli quella «libertà minima» che consente di
scegliere sul momento la propria strategia difensiva; una libertà dunque
che si esercita e raggiunge la sua massima efficacia paradossalmente pro-
prio nel caso in cui sia negato uno spazio sufficiente di agibilità come spo-
stamento, dislocazione di sé, messa in salvo in un altro luogo.
L’ipotesi sull’episodio antropogenetico del lancio della pietra ricalca
esplicitamente la tesi centrale attorno cui si sviluppa l’opera più significa-
tiva del medico, antropologo e «outsider della filosofia»5 Paul Alsberg, uno
degli astri che compongono la costellazione di autori di riferimento per

2 Ivi, p. 576.
3 Ibidem.
4 Blumenberg riprende tale dicitura da Paul Alsberg: cfr. P. Alsberg, Das Men-
schheitsrätsel, J. Paul (a cura di) 2010: http://www.vordenker.de/alsberg/p-alsberg_
menschheitsraetsel.pdf, p. 74; ed. orig. del 1922). Questa «scimmia che partorisce
l’uomo» (menschengebärend), denominata «metapiteco», al contempo progenitri-
ce dei pongidi, coinciderebbe a sua volta con l’«ancient member» ipotizzato da
Charles Darwin o con quel primate denominato Ramapithecus dal suo scopritore
Edward Lewis, che ne rinvenne alcuni resti in India nel 1932. Secondo gli studi
più recenti, non solo il Ramapithecus con ogni probabilità non è imparentato con
l’uomo, ma soprattutto l’evoluzione ominide non ha seguito un’unica strada, ben-
sì si è diramata in mille rivoli, molti dei quali conclusisi con l’estinzione della spe-
cie, secondo un modello «a cespuglio» (cfr. I. Tattersall, La scimmia allo spec-
chio: saggi sulla scienza di ciò che ci rende umani, Meltemi, Roma 2003).
5 J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit, p. 47.
Risvegli 59

l’antropologia filosofica blumenberghiana.6 Alsberg, alla ricerca di un


«principio umano» nuovo e irriducibile al motore dell’evoluzione animale,
ma al contempo immanente, privo di implicazioni metafisiche e trascen-
denti, lo rintraccia nella «messa fra parentesi del corpo» (Körperausschal-
tung), un processo di trasposizione verso l’esterno di funzioni corporee, in
grado di spiegare la dialettica tra involuzione biologica ed evoluzione cul-
turale che caratterizza l’umano. Questo «disimpegno organico»7 come
Menschheitsprinzip costituisce un’insorgenza che altera la linea di continu-
ità con l’evoluzione animale, ne modifica la rotta istituendo un rapporto
con la dimensione organica alternativo se non opposto a quello fino ad al-
lora dominante. È l’uso di strumenti tecnici a determinare questa deviazio-
ne, in germe nella forma grezza della pietra usata come corpo contundente
dal progenitore dell’uomo; dunque, a sua volta, il lancio del sasso rappre-
senta l’atto originario che inaugura quella Körperbefreiung come trasferi-
mento di funzioni corporee su mezzi extra-corporei la quale costituisce, se-
condo Alsberg, la cifra dell’umano. Osservato dalla prospettiva della sua
relazione con la vita e col principio evolutivo, l’atto dello scagliare una pie-
tra si mostra come un «metodo di lotta extra-corporeo» contraddistinto da
un’«incarnazione pura del principio di liberazione dal corpo»,8 ossia da un
processo di inversione del rapporto gerarchico tra l’organo e l’utensile.9
Quest’ultimo non è più al servizio del primo sotto forma di appendice che
potenzia il raggio e la capacità di azione dell’organo, al contrario: mette in
campo «una logica estranea a quella del corpo»,10 la sua autonomia dalla
biologia è il vettore che libererà l’uomo dal proprio adeguamento alle sfide
dell’ambiente in termini adattivi; con l’adesione alla dimensione del disim-
pegno mediante l’utensile, che da anomalia si fa autentico «principio vitale
dinamico»,11 l’uomo imboccherà la strada di quell’evoluzione extra-organi-
ca il cui contraltare è una parallela involuzione organica. Infatti, nel momen-

6 Sul debito di Blumenberg nei confronti di Alsberg si veda R. Savage, Aporias of


Origin. Hans Blumenberg’s Primal Scene of Hominization, in M. Moxter, a cura
di, Erinnerung an das Humane, cit., pp. 62-71.
7 L’espressione si trova in G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filoso-
fica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 143-147.
8 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 49.
9 Qualcosa che sembra addirittura anticipare e antropologizzare la celebre Antiquir-
theit des Menschen che Günther Anders interpreta come cifra del disagio della
modernità. Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima
nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino
2003.
10 G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 145.
11 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 51.
60 Dialettica della caverna

to in cui sostituisce «ontologicamente» la prestazione dell’organo, «l’utensi-


le non è, come si pensa generalmente, l’infermiera premurosa del corpo,
ma al contrario il killer del corpo»,12 la sua «neutralizzazione», Ausschal-
tung che può essere intesa come vero e proprio spegnimento, disattivazio-
ne. Dunque, più che di acquisizione di un agire strumentale tout court, sa-
rebbe lecito parlare di «virtualizzazione», intesa come «distacco
antropologico dal cerchio ambientale», emancipazione dalla necessità di
adattarsi all’ambiente.13
Tuttavia, il consolidamento e la possibilità di ripetizione del gesto origi-
nario hanno bisogno di condizioni ulteriori, che favoriscano la trasforma-
zione di una «misura occasionale» in principio di sviluppo: si tratta non
solo di quei presupposti morfologici, propri già delle scimmie antropomor-
fe, consistenti nel possesso delle mani e nella capacità di assumere una po-
sizione eretta, ma anche di circostanze ambientali molto particolari. Innan-
zitutto l’abbandono della foresta primordiale e il trasferimento in un
ambiente dotato di un suolo roccioso ricco di detriti, dove la possibilità di
ricorrere alle pietre per la propria protezione sia costantemente garantita.
Nella foresta l’uomo non sarebbe mai divenuto tale, «solo nelle pianura, in
una zona petrosa, era possibile il processo del divenire umani».14 Fattori
ambientali, geologici, climatici devono aver dunque svolto un ruolo deter-
minante nella Menschenwerdung.
Rispetto ad Alsberg, Blumenberg carica di un’enfasi decisamente mag-
giore il fattore ‘ecosistemico’ e immagina la scimmia pitecantropogena già
nell’atto di abbandonare il proprio habitat natale – la foresta pluviale del
terziario che comincia a ritrarsi – per muovere i primi passi nella savana.15
Il cambio di biotopo – di cui si parlerà diffusamente nel prossimo capitolo
– doveva essere, almeno in parte, già avvenuto; e, benché in quella fase il
nostro antenato fosse ancora uno knuckle walker, si muovesse cioè anche
nella fuga prevalentemente a quattro zampe, doveva aver già sperimentato
quella capacità di orientamento dipendente dalla necessità di ergersi sulle
gambe e guardare lontano, che diverrà cruciale in seguito. Ciò che ancora
gli resta da scoprire consiste prettamente nella difesa tramite il lancio, dun-
que nella creazione della distanza. Se così non fosse, ci si dovrebbe rappre-

12 G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 146.


13 B. Accarino, Quella maturità infantile nel governo delle cose, in «Materiali resi-
stenti», 3.2.2007: http://materialiresistenti.blog.dada.net/archivi/2007-02-03.
14 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 89.
15 Cfr. R. Savage, Aporias of Origin, cit., p. 68.
Risvegli 61

sentare il progenitore sovraccarico di un numero eccessivo di sforzi con-


centrati in un unico momento.16
In ogni caso, nell’ottica di Blumenberg e Alsberg, lo scatto in avanti è
sempre un ‘riscatto’, una scommessa ardita e azzardata che nasce da uno
stato di minorità, un atto di coraggio determinato da una minaccia incom-
bente. In tal senso, se la caccia era la cifra dell’esistenza dei nostri antena-
ti, essi ne furono in primo luogo le vittime e solo in un secondo momento
e in conseguenza di ciò ne divennero gli attori. L’uomo primigenio è sem-
pre «più cacciato che cacciatore».17
La creatura cui Blumenberg e Alsberg fanno riferimento, segnata dalla
vaghezza, da una forma di indeterminatezza biologica, ha origine da una li-
nea discendente lungo la quale il corredo anatomico e istintuale per il con-
trasto fisico è andato perduto, e che conduce a uno stadio in cui «il vantag-
gio del guadagno di spazio si combina con le necessità sopraggiunte in
seguito alla perdita di specializzazione».18 A partire da qui l’evoluzione
partorirà – anzi, più correttamente, ‘espellerà’ da sé – un «essere imperfet-
to», «inibito», addirittura «regredito» rispetto alle conquiste ordinarie del-
la natura, una creatura coatta all’azione in virtù dell’esigenza di corregge-
re «l’erratica inesattezza» dei suoi codici biologici.19 Infatti – occorre
ribadirlo – la vera e propria Entspezialisierung, ciò che Gehlen chiama
«carenza» (Mangel) e pone all’origine delle umane vicende,20 costituisce
nell’ottica di Alsberg piuttosto l’esito di un processo ancora in fieri.
Eppure una certa dose di ‘impreparazione’ doveva già essere presente
come precondizione di quell’Urereignis del «disimpegno organico» di cui
ci stiamo occupando. La vicenda della ‘messa in soffitta’ del corpo come
centro evolutivo ha come presupposto un’indisponibilità a fronteggiare le
nuove sfide ambientali. Più precisamente, la scimmia pitecantropogena, in
quanto Fluchttier, ha già compiuto una tappa verso la de-specializzazione,
è già «impostata a evitare l’immediatezza corporea» di fronte ai rischi
dell’esistenza, dunque in qualche modo instradata «sulla retta via» del di-
simpegno organico.21 Lo stratagemma adattivo della fuga, perfetto per so-

16 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 586.


17 Ivi, p. 579.
18 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main
2007, p. 13.
19 Cfr. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, in Le
realtà in cui vivamo, cit., pp. 87-89.
20 Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Mila-
no 1990.
21 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 589.
62 Dialettica della caverna

pravvivere in ambienti silvestri, a vegetazione fitta, dove l’abilità di arram-


picarsi sugli alberi costituisce la principale astuzia per assicurarsi la
salvezza, diviene «primitivismo organico» non appena ci si trovi ‘gettati’
altrove, in un luogo privo di appigli.
Ciò significa altresì che nulla nell’aspetto del nostro antenato, ai tempi
del «colpo» (Schlag) che inaugurò l’umanità, lasciava supporre quale sa-
rebbe stato il suo futuro. La Menschenwerdung consiste in un «atto» indi-
mostrabile dal punto di vista morfologico, per questo Blumenberg suggeri-
sce di definirla una «criptogenesi»: l’uomo era già nato benché fosse
ancora in tutto e per tutto identico a ciò che esisteva un momento prima.22
Il «principio dell’umanità» – inteso in questo caso anche come comincia-
mento – è già in campo quando ancora l’uomo non somiglia a se stesso.
Allora la scarsa specializzazione dell’uomo e la sua speculare «totipo-
tenza» – intesa quale possibilità di «declinare qualsiasi destino specifico e
qualunque ambiente determinato» – non deriveranno da un particolare fe-
nomeno evolutivo di «caparbio infantilismo», come vorrebbe la tesi della
cosiddetta «neotenia»,23 ma da una «regressione evolutiva». Il passaggio
dalla scimmia all’uomo è caratterizzato dalla compresenza di una «repen-
tinità del mutamento di principio» e di una «gradualità del mutamento di
forma».24 L’uomo «è nato d’un colpo», anzi, «di getto».25 L’antropogenesi
è riconducibile a un factum, un accadimento, ovvero qualcosa che può es-
sere ‘raccontato’.
L’ominazione è da intendersi come una «nascita», un’insorgenza gene-
ratrice di una cascata di prestazioni radicalmente nuove. E, come ogni na-
scita – anche questa – costituisce uno Zeitereignis «misterioso», così la sto-

22 Cfr. ivi, p. 581.


23 Cfr. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006. A propo-
sito della neotenia si vedano H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit.,
pp. 218, 571-573, 589, 636; ma anche G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli,
Milano 1985; E. Melandri, Zoon politikon. Bolk e l’antropogenesi, in «Che fare»,
n°3, 1968, pp. 48-54.
24 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 582.
25 Ibidem. Qui Blumenberg gioca sul doppio senso delle parole «colpo» (Schlag) e
«getto» (Wurf), che si riferiscono sia al carattere improvviso della svolta antropo-
genetica, sia al gesto che l’ha innescata, ossia il «colpo» (Schlag) inferto dal «lan-
cio» (Wurf). Inoltre c’è – a mio avviso – nell’uso presente del termine Wurf, un ri-
ferimento a Heidegger e al concetto di «getto» (Wurf) da cui scaturisce la
«gettatezza» (Geworfenheit) dell’esser-ci. Ciò sarebbe coerente con lo spirito, che
– come si vedrà – pervade l’impresa blumenberghiana, ovvero con il proposito di
ripensare in chiave antropogenetica non solo la fenomenologia, ma anche la lezio-
ne heideggeriana.
Risvegli 63

ria dell’origine dell’uomo ha i tratti di uno «spettacolo dalla portata


storico-universale».26 La «descrizione» della scena originaria del lancio
consente a Blumenberg di connettere la spiegazione della postura eretta
con la genesi della prerogativa fondamentale della «distanza» entro la me-
desima ‘narrazione’.27 La pietra scagliata contro l’inseguitore assume il ca-
rattere di un «atto costitutivo» che diviene al contempo
un’«Aktionsmetapher»,28 la figura arcaica, la metafora assoluta29 di una
prestazione vitale che l’uomo riproporrà da quel momento all’infinito sot-
to le vesti più disparate. Pertanto ciò che troviamo nell’opera di Blu-
menberg – e non solo in Beschreibung des Menschen, ma in altri testi cen-
trali – non è solamente un’antropologia filosofica, ossia una teoria
antropologica filosoficamente fondata, ma in primis – come già detto –
un’«antropogenesi filosofica»30 sotto forma di racconto che «illustra» la
tesi, la quale non può che arrestarsi a uno stadio puramente ipotetico, poi-
ché «la “verità” dell’antropogenesi filosofica è del tipo» – appunto – «del-
la “metafora assoluta”».31 Essa fornisce all’antropologia un «concetto sup-
plementare», uno «schizzo» in grado di integrare e donare volume,

26 Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 67.


27 Cfr. J. Bauer, Masse der Distanz zur Natur. Blumenbergs Aufnahme der ‚positi-
ven, Wissenschaften in seine Anthropologie am Beispiel seiner Rede vom ‚Frei-
zeitgehirn‘, in R. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 160.
28 Cfr. B. Recki, Distanz als Humanum: über die Rehabilitierung der instrumentel-
len Vernunft in der Anthropologie Hans Blumenbergs, in Atti del Convegno Hans
Blumenberg – Geschichte(n) des Wissens, cit.
29 Blumenberg chiama «metafore assolute» quei traslati né deducibili da altre meta-
fore o forme di pensiero, né «solubili» in concetti, che in virtù della loro forza im-
maginativa restano nell’«improprietà», definendo orizzonti di pensiero, insieme
ad «atteggiamenti ed orientamenti originari nei confronti della realtà». R. Bodei,
Distanza di sicurezza. Introduzione all’edizione italiana di H. Blumenberg, Nau-
fragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, il Mulino, Bolo-
gna 1985, p. 23, nota 24.
30 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 141-144. Müller definisce l’antro-
pogenesi blumenberghiana «una (rudimentale) storia della coscienza umana» dal
profilo singolare, insoddisfacente sul piano della descrizione delle modificazioni
concrete della «morfologia della coscienza» e dell’organizzazione cronologica e si-
stematica delle formazioni culturali, ma indubbiamente stimolante per quanto ri-
guarda la connessione delle considerazioni sull’origine dell’uomo con la questione
esistenziale delle condizioni di possibilità dell’essere umano (Menschseinkönnen),
dell’«autoconservazione dell’esserci» (Selbstwahrung des Daseins). Ivi, p. 157.
31 Ivi, p. 143. Per chiarire ulteriormente questo aspetto si veda E. Mazzi, I pensieri
astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale, cit., pp. 263-
299.
64 Dialettica della caverna

tridimensionalità alla linearità dell’argomentazione, animandola, dandole


movimento, rendendola «significativa».
Non solo. Il tratto ‘episodico’ dell’esordio dell’ominazione, così come
Blumenberg se l’immagina sulla scorta (critica) di Alsberg, rende conto
della casualità, dell’improbabilità di un processo che, anziché seguire una
catena causale preordinata, ha subìto una brusca «deviazione», venendo di-
rottato su una «via traversa»: lungi dal descriverne il culmine, l’uomo po-
trebbe assai più plausibilmente rappresentare «l’inconseguenza dell’evolu-
zione organica»,32 il suo sviluppo il «perpetuarsi di un’anomalia
(Abnormalität), come correzione ultracomplicata di un tentativo genetico
fallito».33
Lungi dall’indicare all’evoluzione la «strada maestra», l’uomo è «una
sorprendente e incongrua soluzione secondaria del problema generale
dell’autoaffermazione (Selbstbehauptung) della vita sulla terra»;34 «un es-
sere che vive nonostante tutto»35 e che avrebbe potuto plausibilmente non
fare mai la propria comparsa sul nostro pianeta. Nell’affermare la «contin-
genza dell’uomo», Blumenberg si discosta da qualsiasi forma di essenzia-
lismo antropologico, e tuttavia si spinge anche oltre il darwinismo. Egli af-
ferma cioè che l’uomo non si limita a costituire l’esito accidentale di
processi naturali e circostanze che, sebbene si sarebbero potute svolgere al-
trimenti, rispondono pur sempre a un’interazione tra regolarità e imprevi-
sto, bensì «è divenuto un sopravanzo contingente della natura»,36 sottraen-
dosi al suo gioco, configurandosi come irregolarità, difformità, dissonanza,
mettendo a punto un sistema in grado di garantirgli la permanenza sulla ter-
ra malgrado il suo corredo biologico.
E benché anche le scimmie possano occasionalmente disporsi al lancio
di pietre o altri oggetti, solo l’uomo è in grado di rendere tale comporta-
mento una «scoperta» e trasformarla in «istituzione», poiché egli instaura
un «rapporto interiore» col proprio Entwicklungsprinzip. Non è il corpo a
portare l’impronta di quella prima pietra scagliata per difesa, ma la memo-
ria: la difesa mediante il lancio non ha altri presupposti, per la propria ripe-

32 H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, Suhrkamp, Frankfurt am


Main 1975, p. 791.
33 H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, cit., pp. 408-409.
34 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 585.
35 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 108.
36 R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution? Blumenbergs Argumente gegen ei-
nen Erklärungsprimat von Darwins Evolutionstheorie, in R.A. Klein (a cura di),
Auf Distanz zur Natur, cit., p. 175.
Risvegli 65

tibilità, che il ricordo del primo successo.37 Perciò alla specie umana non
basta una memoria a breve termine, ma occorre una Lebenszeitgedächnis
che consenta lo sviluppo della facoltà di «astrarre» e trascenda il tempo
della vita di individui e generazioni come «capacità di avere una tradizio-
ne». È questa l’unica forma a noi conosciuta di «ereditarietà dei caratteri
acquisiti»: laddove nulla possono la complessa meccanica del genoma e le
mutazioni selettive, là giunge la nostra facoltà di ricordare oltre il tempo di
un’esistenza intera e addirittura al di là della durata di tutta una cultura. In
tal senso linguaggio e scrittura fungono da «stabilizzatori, portatori di
persistenza».38
Cionondimeno, col trascorrere del tempo, l’adesione interiore a quel
principio di sviluppo innescherà una potenza dinamica di progressivo adat-
tamento morfologico, «recupero» somatico di quanto anticipato sul piano
delle prestazioni, che avrà come risultato una crescente riduzione della
possibilità di volgersi indietro, finché il principio di sviluppo non condurrà
a un punto di non-ritorno. Mutamenti corporei, come la perdita graduale di
mobilità orizzontale per le zampe d’appoggio, renderanno sempre meno
agevole il ricorso al principio di fuga quale alternativa di sopravvivenza,
obbligando a tollerare il confronto. Fino a quando per l’uomo «l’eventuali-
tà di una ricaduta» non cesserà di esistere: poiché ciò che produce ed esco-
gita lo inchioda sempre più inesorabilmente alla strada un tempo imbocca-
ta. Il toolmaker celebrato da Benjamin Franklin è al contempo una creatura
toolmade (werkzeugschaffen): «attraverso ciò che fa, diviene in modo sem-
pre più preciso e stringente ciò che è».39
Eppure, al contempo, sarà il «privilegio dell’immaturità»40 così ottenuto
a suggerire all’uomo gli stratagemmi meravigliosi con cui incessantemen-
te tenterà di diventare adulto.

1.1. Distanza, prevenzione e aggressione: dalla pietra alla trappola e


oltre

Si potrebbe dire che nell’Urzsenario della fuga negata – molto tempo ad-
dietro rispetto al sorgere dei monumenti megalitici preistorici – abbia luogo
«la prima domesticazione del minerale»41 da parte dell’uomo e inizi la sto-

37 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 583.


38 Ibidem.
39 Ivi, p. 588.
40 B. Accarino, Quella maturità infantile nel governo delle cose, cit.
41 R. Caillois, L’écriture des pierres, in Oeuvres, Gallimard, Parigi 2008, p. 1096.
66 Dialettica della caverna

ria dell’entrata «nel mondo diverso» in cui i linguaggi degli uomini e delle
pietre si intrecciano.42 A partire da questo momento esse divengono multi-
formi e multifunzionali in un modo completamente nuovo e, a sua volta,
l’uomo apprende da loro la propria prestazione fondamentale: se è lecito
chiamare sineddoticamente «linguaggio delle pietre» il linguaggio della di-
stanza, è questo il codice che lo Steinwurf mette per la prima volta a dispo-
sizione del nostro antenato. Più correttamente, la nuova prestazione ‘fa’
l’uomo, il quale altro non è che «l’essere dell’actio per distans»,43 dell’azio-
ne compiuta grazie all’interposizione di un medium spaziale e temporale.
Tramite la schematica radicale della rappresentazione della situazione
genetica umana, Blumenberg suggerisce una «risposta alla domanda su
come l’uomo sia possibile», che potrebbe così suonare: «mediante la di-
stanza». In tal modo individua un’«unità sitematico-funzionale» nella mol-
teplicità differenziata delle nostre facoltà,44 il «radicale specifico del com-
plesso delle prestazioni umane».45 La produzione della distanza costituisce
il Menschheitsprinzip che guida l’umanità dal suo «primo atto di resisten-
za» fino alle più sofisticate costruzioni concettuali. Tutto, nel nostro agire,
risponde ancora all’arcaica esigenza di «tenere la realtà alla larga dal
corpo».46 L’originario distanziamento in senso spaziale, come creazione di
una barriera fisica che trattiene il nemico lontano da sé, assume via via ar-
ticolazioni sempre più complesse e annuncia già l’acquisizione della di-
mensione temporale, nella forma della «prevenzione». Agire prima che
una presenza estranea potenzialmente pericolosa varchi la soglia oltre la
quale siamo fisicamente vulnerabili è l’imperativo che regola le strategie
resistenziali dell’umanità fin dai primordi, trasformando mediante
l’«anticipazione», la «previsione», infine la negazione preventiva delle
mosse dell’avversario, la difesa in attacco. A causa dell’«incostanza dell’o-
rizzonte» che contraddistingueva il suo «remoto mondo della vita», l’uomo
ha acquisito la propria «costituzione preventiva» come «arte del non-avvi-
cinarsi-troppo, del non-essere-troppo-aperti»47 e al contempo penetrare in

42 F. Jesi, Il linguaggio delle pietre. Alla scoperta dell’Italia megalitica, Rizzoli, Mi-
lano 1978, p. 21. Per un’ampia trattazione di questo affascinante testo di Jesi si
veda E. Manera, Furio Jesi. Mito, violenza e memoria, Carocci, Roma 2012, pp.
96-105.
43 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 10.
44 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 570.
45 Ivi, p. 575.
46 Ivi, p. 578.
47 H. Plessner, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, La-
terza, Bari 2001, p. 98.
Risvegli 67

anticipo «la zona d’origine dello sconosciuto» in modo da impedirne l’in-


sorgenza improvvisa.48 Così, tuttavia, la caratteristica che la preistoria por-
ta in dote a quest’anomala creatura è un’ambigua forma di «prudenza»:49 la
diffidenza, poiché il «vantaggio delle distanze» consiste nella possibilità
«di far dipendere le proprie decisioni dalle cose che accadranno e non da
quelle presenti. Solo che in questo modo [l’uomo] non è diventato un esse-
re che nutra fiducia».50
Dal sasso scagliato contro l’aggressore alla trappola posizionata per ten-
dere un agguato alla preda il passo è breve. La bestia braccata impara a pro-
teggersi dalle conseguenze di un evento collocato nel futuro preparandosi
al suo avvento, e si trasforma finalmente in cacciatore.51 La trappola, co-
struita in assenza della preda ma messa in moto in assenza del cacciatore, è
vera e propria «attesa divenuta materiale».52 L’uomo cessa di reagire al
dato e al riconoscibile e comincia ad affrontare «il mero possibile», ad agi-
re «in riferimento all’assente, al non percepibile; “reagisce” al semplice so-
spetto. In questo senso è l’unico animale che diffida».53
Allontanando fino all’annullamento il momento dell’interazione, il cam-
po d’azione fisico e temporale si dilata al punto da divenire di fatto illimita-
to: poiché anche il rivale, se umano, sarà sempre in grado di prevenire le
mosse di colui che lo attende, non esiste di fatto un confine che la preven-
zione non possa superare: non appena la tecnica lo consentirà, al nemico non
sarà dato nemmeno il tempo di palesarsi all’orizzonte, egli potrà essere
‘congelato’ nell’immagine rarefatta dell’«avversario continuamente atteso»:

La reazione ai segnali di amicizia o inimicizia si muta tendenzialmente in


una prevenzione che non è assolutamente più in rapporto col riconoscimento di
una persona che ci sta dinnanzi, ma trasforma lo spazio e il tempo stessi in un
intervallo di influssi minacciosi e inibenti ‘estesi a tutta la zona’.54

Il progresso tecnico consente una diminuzione dei tempi di intervento


direttamente proporzionale all’allargamento dello spazio.

48 H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2010, p.


136.
49 Cfr. anche H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 171.
50 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, il Mulino, Bologna 1989, p. 32.
51 Cfr. R. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166.
52 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 13-14.
53 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 31. Corsivo mio.
54 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 592.
68 Dialettica della caverna

Tuttavia nessuna delle pratiche di difesa-attacco è riconducibile a un


presunto «istinto aggressivo»55, l’arcaismo dell’atteggiamento feroce non
ha a che vedere con la natura dell’uomo, ma con il suo «passato remoto»,56
con la sua «storia profonda»:57 l’aggressione fa la sua comparsa «in un pa-
norama in cui prevenire è tutto»58 e lo è al punto tale che la stessa vista del
nemico avviene post factum, solo dopo averlo colpito o addirittura ucciso.
Si fa la conoscenza del proprio simile previa assicurazione di averlo reso
inerme a ogni costo.59 Tutto ciò risponde sempre al medesimo principio del
disimpegno organico: si ‘spengono’ i corpi ancor prima che siano abba-
stanza vicini da poterli vedere. Combattere le azioni precedendo il loro pa-
lesarsi, rendere la distanza «assoluta» è la motivazione recondita che sta
alla base della progettazione di quelle «armi da guerra che devono rendere
la guerra impossibile».60 La morte altrui è «il concetto limite di ogni pre-
venzione», l’«assicurazione assoluta» contro il rischio che l’altro violi i
confini del nostro incerto orizzonte. Per questo, non certo a causa di un’es-
senza oscura, di una rapace «bestia dentro di lui»,61 l’uomo «è l’animale
che uccide i propri simili»: egli si limita a «pensare fino in fondo», a por-
tare a termine «il pensiero della prevenzione».62 La coscienza che l’altrui

55 Sarebbero d’accordo anche alcuni filosofi cognitivi, che tuttavia si mantengono


saldamente ancorati a una prospettiva biologico-evolutiva. Daniel Dennett fa ad
esempio risalire le prestazioni preventive alla «tendenza iperattiva ad andare in
cerca di agenti» (D.C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come feno-
meno naturale, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 129), che è conseguenza dello
sviluppo ipertrofico di un vantaggio evolutivo: la capacità di ritrarsi dal pericolo
discernendo se i movimenti rilevati siano banali e innocui o potenzialmente vita-
li, ovvero se si tratti del «movimento animato» di un altro «agente» animale ap-
partenente alla propria o a una diversa specie (ivi, p. 117). Nell’uomo (e non solo)
questa funzione economica è connessa a un’altra conquista: l’atteggiamento in-
tenzionale, qui inteso alla stregua di un impulso innato a trattare alcune cose pre-
senti nell’ambiente come agenti dotati di credenze, desideri, conoscenze e scopi
(ivi, p. 119). È a partire da ciò che prende piede quella «corsa agli armamenti» con
tanto di «mosse e contromosse, trucchi ingannevoli e capacità di riconoscerli».
Ivi, p. 118.
56 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna 1991, p. 45.
57 Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globa-
lizzazione, Meltemi, Roma 2006.
58 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 593.
59 «Il risparmio di tempo è la categoria autentica della prevenzione. Prevenzione si-
gnifica sferrare il colpo decisivo prima che sopraggiunga il contatto». Ivi, p. 616.
60 Ibidem; cfr. anche H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., pp. 209-210.
61 Cfr. J. Klama, L’aggressività. Realtà e mito, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp.
29-54.
62 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 610.
Risvegli 69

decesso possa garantire una «prevenzione totale» conduce alla rivelazione


che ciò vale specularmente anche per la controparte nei propri confronti.
Tale scoperta avviene tramite una «generalizzazione del principio» che at-
tualizza una contraddizione, senza che essa si sia verificata effettivamente,
per semplice deduzione, figurandosi una situazione spazio-temporale si-
tuata in un altrove più o meno lontano. Insomma, null’altro che un’actio
per distans.63
Qui Blumenberg mostra però come il medesimo agire preventivo, tal-
volta capace di dispensare morte per scongiurarla, si trovi all’origine delle
operazioni intellettuali umane più sofisticate e meno ‘tangibili’. Ed è su
quest’ultimo aspetto che la sua riflessione preferisce insistere. I dispositivi
di difesa-aggressione messi a punto da preominidi e sapiens preistorici co-
stituiscono «il primo trionfo del concetto» (Begriff):64 nella trappola che
letteralmente ‘cattura (greift) l’assente’ si manifesta l’«attitudine teoretica»
dell’uomo,65 la capacità di lavorare con dei materiali che non si trovano fi-
sicamente qui ora. D’altra parte «precedere tutto ciò con cui potrebbe suc-
cedere di venire alle mani significa soprattutto localizzare la propria azio-
ne nell’orizzonte della possibilità. Ma ciò vuol dire che la visione viene
sostituita dal pensiero».66

1.2 Sul concetto di tecnica: un approfondimento

Prima di approfondire il rapporto fra pensiero e actio per distans, credo


sia importante soffermarsi brevemente sugli sviluppi che, lungo il percor-
so intellettuale di Blumenberg, hanno interessato il concetto di «tecnica»,
balzato – come si è visto – sul proscenio della rappresentazione alsberghia-
na.67 I primi saggi dedicati da Blumenberg al tema risalgono all’inizio de-
gli anni ’50, allorché, all’indomani delle devastazioni della seconda guerra
mondiale e in balia della minaccia atomica, tra i grandi filosofi molte voci
critiche si levano contro la potenza distruttrice della tecnicizzazione scate-

63 Cfr. Ivi, p. 612.


64 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 14.
65 Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166.
66 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 593.
67 Per la stesura di questo paragrafo devo molto agli studi di Oliver Müller: si veda,
oltre al già citato Sorge um die Vernunft (in particolare pp. 63-82, 182-188), O.
Müller, Natur und Technik als falsche Antithese. Die Technikphilosophie Hans
Blumenberg und die Struktur der Technisierung, in «Philosophisches Jahrbuch»,
n°115/I, 2008, pp. 99-124; Id., Zwischen Mensch und Maschine. Vom Glück und
Unglück des homo faber, Suhrkamp, Berlin 2010.
70 Dialettica della caverna

nata.68 Ma il «problema» della tecnica continuerà a impegnare Blumenberg


fino all’importante testo del 1963 sul rapporto tra mondo della vita e
tecnicizzazione,69 per poi depositarsi nella grande opera sulla legittimità
del moderno e subire, come si vedrà, una significativa torsione prospettica
con l’accentuarsi dell’attenzione verso le tematiche antropologiche. Fin
dall’inizio la tecnica viene infatti inquadrata nell’ambito di una dialettica
tra la definizione antropologica e quella storica del fenomeno, anzi, proprio
nel saggio del 1951 che inaugura questo percorso filosofico si trova un’am-
pia riflessione di carattere antropologico, straordinariamente coerente con
i motivi che Blumenberg porrà al centro del proprio pensiero in materia.
L’uomo – scrive Blumenberg – è, secondo la sua origine, quel principio su

68 Cfr. O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 101. Per il dibatti-
to di quegli anni bisogna nominare, naturalmente, in primis Heidegger, con la sua
Frage nach der Technik (1954), ma già con la definizione della tecnica come
«produzione incondizionata» in Brief über den Humanismus (1947), che infatti
Blumenberg cita fin dal saggio del 1951 (cfr. H. Blumenberg, Das Verhältnis von
Natur und Technik als philosophisches Problem, in Ästhetische und metaphorolo-
gische Schriften, A. Haverkamp, a cura di, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, p.
265); ma anche, per menzionare solo alcuni nomi celebri, Anders (cfr. G. Anders,
L’uomo è antiquato cit.; edito per la prima volta nel 1956) e Horkheimer (cfr. M.
Horkheimer, Eclisse della ragione. Per la critica della ragione strumentale, Ei-
naudi, Torino 1969; edito per la prima volta negli U.S.A. come Eclipse of Reason
nel 1947 e poi, nel 1967, in Germania come Zur Kritik der instrumentellen Ver-
nunft). Estremamente influenti per quella stagione filosofica e per Blumenberg
stesso sono però anche le meditazioni sulla tecnica di Ortega y Gasset del 1939 (J.
Ortega Y Gasset, Meditación de la técnica, in Obras completas, V. 1933-1941,
Revista de Occidente, Madrid 1964, pp. 317-375), cui si fa riferimento sempre nel
primo saggio (cfr. H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als phi-
losophisches Problem, cit., p. 264) e, certamente, le riflessioni husserliane sulla
crisi delle scienze europee del 1936 (cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze euro-
pee, cit., ad esempio pp. 188-192), anch’esse ampiamente analizzate (cfr. H. Blu-
menberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenolo-
gia, cit., pp. 19-49).
69 Cfr. H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fe-
nomenologia, cit., pp. 11-49. I testi precedenti sono Das Verhältnis von Natur und
Technik als philosophisches Problem, la cui prima pubblicazione si trova in «Stu-
dium Generale», n°4, 1951, pp. 461-467; Technik und Wahrheit, in «Zeitschrift für
Kulturphilosophie», n° 2/I, 2008, pp. 137-143 (ed. orig. del 1953); „Mimesi della
natura“. Sulla preistoria dell’idea dell’uomo creativo, in Le realtà in cui viviamo,
cit., pp. 50-84 (ed. orig. del 1957); Ordnungsschwund und Selbstbehauptung.
Über Weltverstehen und Weltverhalten im Werden der technischen Epoche, in
Geistesgeschichte der Technik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, pp. 101-136
(ed. orig. del 1962).
Risvegli 71

cui si fonda il complesso rapporto tra natura e tecnica nei termini di una
«posizione intenzionale» (willentliche Setzung):70

In quanto animale la cui esistenza non è garantita dall’adattamento organico


all’ambiente naturale, che pertanto si trova costretto dalle sue condizioni di vita
nel modo d’esserci dell’autoaffermazione (Selbstbehauptung) e dell’autopro-
duzione (Selbstproduktion), l’uomo crea la tecnica come risposta alla specifica
problematica del suo essere. L’uomo è un animale tecnico; la realtà tecnica è
l’equivalente di una mancanza nella sua dotazione naturale. Perciò la tecnica
moderna non è una manifestazione unica della storia umana, ma solo il compi-
mento, spostato nella coscienza e assunto intenzionalmente, di una necessità
radicata nell’essenza dell’uomo.71

E tuttavia, in questa fase, Blumenberg è assolutamente convinto che la


spiegazione antropologica, benché corretta, non sia sufficiente a rendere
conto del fenomeno osservato nelle sue espressioni più recenti e che occor-
ra dunque accostarsi alla questione della tecnica secondo la sua valenza
epocale, lo «stile» peculiare che acquisisce nel contesto storico inedito del-
la modernità. La tecnica moderna ha infatti conquistato una dimensione au-
tonoma, una cifra qualitativa che né l’essenza dell’uomo, né la sua situa-
zione di partenza sono in grado di spiegare. Per comprendere come il
fenomeno abbia assunto i propri caratteri unici, bisogna interpretare la
«cornice ontologica» entro cui è sorto, il «mutamento nella comprensione
dell’essere»72 che ne costituisce il fondamento. Così, negli scritti di quegli
anni, Blumenberg ripercorre a più riprese la vicenda dei quadri cognitivi,
culturali, filosofici e teologici entro i quali si è inscritta la determinazione
della relazione tra natura e tecnica lungo la storia dell’Occidente. La tecni-
ca moderna, intesa come «applicazione» (Anwendung) della scienza natu-
rale del tempo, va indagata sullo sfondo storico dell’esprit che l’ha origina-
ta, così come si è fatto per lo spirito del capitalismo.73 È già ben visibile il
«metodo storico-spirituale» (geistesgeschichtlich)74 che diverrà la cifra fi-
losofica di Blumenberg, il tentativo incessantemente iterato di costruire
una «fenomenologia della storia».75

70 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Pro-
blem, cit., p. 254.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 257.
73 Cfr. ivi, p. 259.
74 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 104.
75 H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 10.
72 Dialettica della caverna

Innanzitutto una definizione preliminare. La tecnica – scrive Blu-


menberg:

non è primariamente un regno di oggetti determinati scaturirti dall’attività


dell’uomo; essa è originariamente uno stato del rapporto stesso che l’uomo ha
con il mondo.76

Questo rapporto si declina differentemente ed evolve lungo la storia.


Sullo sfondo di una perdita d’orientamento come sopraggiunta «assenza di
terreno (Bodenlosigkiet) per l’uomo»,77 vera e propria «crisi di fiducia
ontologica»,78 il moderno introduce la necessità di una «costituzione tecni-
ca del mondo».79 L’uomo viene «rigettato nella mera economia della sua
autoaffermazione (Selbstbehauptung) e la ‘verità’ è compresa come funzio-
ne di questa economia»,80 ossia posta al servizio di un’‘assimilazione’ e tra-
sformazione (Bewältigung) della realtà e convertita in «lavoro».81 La tecni-
ca diviene, marxianamente, strumento di emancipazione dalle barriere
organiche82 e autentica «attualizzazione della verità scientifica»,83 assu-
mendo un tratto demiurgico totalmente assente nell’armonica visione della
classicità, e acquisendo la sua impronta peculiare ed epocale: tra un com-
portamento tecnico indotto dalla pressione autoconservativa e la percezio-
ne e comprensione della propria tecnicità quale «contenuto e segno della
propria autointerpretazione (Selbstdeutung) e autorealizzazione
(Selbstverwirklichung)»84 passa tutta intera la storia dell’occidente. Nel
rapporto tra uomo moderno e mondo l’antitesi tra natura e tecnica si diver-
sifica in base a un presupposto del tutto inedito: «il piglio risoluto con cui
l’epoca moderna agisce».85

76 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 32.
77 Cfr. H. Blumenberg, Die ontologische Distanz, cit., p. 88; cit. in O. Müller, Natur
und Technik als falsche Antithese, cit., p. 102.
78 Ibidem.
79 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Pro-
blem, cit., p. 264.
80 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 138.
81 Ibidem.
82 Cfr. K. Marx, Il capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1997, ad esempio p. 127.
83 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 107.
84 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102.
85 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 11.
Risvegli 73

La tecnica finisce per assumere i contorni della «tecnicizzazione», di un


«pathos della prestazione tecnica»86 che si slega dai bisogni immediati e
semmai ne produce di secondari. La Technisierung mostra il proprio volto
peculiare nel momento in cui occulta «con il manto dell’ovvietà» i proces-
si da cui sono scaturiti i dispositivi artificiali di cui ci serviamo: «la realtà
artificiale, estranea alle cose già presenti in natura, a un determinato punto
risprofonda nell’“universo delle ovvietà”, nel mondo della vita».87 La natu-
ra si converte in «quintessenza dei possibili prodotti della tecnica»88 e l’o-
pera umana indossa a sua volta le vesti di una naturalità che si autoregola
in base alle proprie leggi immanenti.89 Tutto ciò – come si evince – non è
privo di rischi: nei saggi degli anni ’50 l’«ontologia della tecnica» è defini-
ta «seconda natura»,90 formula che rimanda a uno scenario insidioso in cui
l’uomo, un tempo guardingo nei confronti della natura, si trova nella con-
dizione di doversi proteggere dall’universo tecnico e macchinico che egli
stesso ha creato.91 Un motivo, quello della zweite Natur, che ricorre spesso
in antropologia filosofica – il che mostra ancora una volta quanto Blu-
menberg già all’epoca ne sia incuriosito –, ma che nei primi scritti presen-
ta ancora – sulla scorta di Heidegger e sotto l’influenza della critica alla
tecnica tipica di quegli anni – accenti problematici, che andranno via via
stemperandosi nel corso degli anni.92 Blumenberg traccerà il proprio perso-
nale percorso come «filosofo della tecnica» contrapponendosi sempre più
decisamente al discorso heideggeriano, e polemizzando altresì con l’Hus-
serl della Krisis e la sua stigmatizzazione dei processi di Technisierung che
investono la scienza moderna.93 La tecnica è un alleggerimento vitale e la
sfera degli apparati non ha realizzato la propria supremazia sull’uomo,

86 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102.


87 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 37.
88 H. Blumenberg, „Mimesi della natura“, cit., p. 82. Traduzione lievemente modi-
ficata.
89 Cfr. U. Dierse, Hans Blumenberg. Die Zweideutigkeit des Menschen, in «Reports
on Philosophy», n°15, 1995, p. 122.
90 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 143; cfr. Id., Das Verhältnis von
Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., pp. 264-265.
91 Cfr. U. Dierse, Hans Blumenberg. Die Zweideutigkeit des Menschen, cit., pp. 122-
123.
92 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 67-68.
93 Cfr. O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., pp. 100-101; cfr. an-
che Id., Sorge um die Vernunft, cit., pp. 63-64.
74 Dialettica della caverna

come le più fosche distopie avevano vaticinato:94 i celeberrimi Modern ti-


mes rappresentati da Chaplin

oggi [fanno] l’effetto del documento storico di un’utopia mancata, poiché la


visione spaventosa del povero automa alla catena di montaggio non è divenuta
realtà […]. In Chaplin non si vede l’entelechia della tecnica, ma la caricatura
del primo stadio di una nuova formazione.95

Asserire ciò significa naturalmente – secondo l’intenzione di Blu-


menberg – operare una sostanziale riabilitazione della tanto vituperata mo-
dernità.96
In ogni caso, il gioco dialettico tra «perdita d’ordine» e «autoaffermazio-
ne» dà luogo alla tecnica moderna quale fenomeno dotato di «una propria
dinamica»97 e conferma il primato della spiegazione storica su quella antropo-
logica: in Legitimität der Neuzeit Blumenberg afferma chiaramente che lo
«stadio moderno della tecnicità» non può più essere semplicemente inteso
come «sindrome della struttura antropologica della carenza» e «accelerazione
di un processo che abbraccia l’intero arco della storia dell’umanità»; esso mo-
stra piuttosto una «nuova qualità della coscienza»,98 una «svolta coscienziale»99
che inaugura l’emergere di una «volontà che affronta consapevolmente la re-
altà estraniata»100 sotto forma di Selbstbehauptung, di «autocomprensione
prometeica»,101 per «estorcere a quella realtà una nuova umanità».102
E tuttavia, nonostante la radicale peculiarità del moderno e della Techni-
sierung, Blumenberg stesso – nel testo del ’62 – suggeriva la possibilità di
un confronto tra l’alba della Neuzeit e il momento antropogenetico:

Può inizialmente rimanere aperta la questione se l’autocomprensione (Selb-


stauffassung) dell’uomo realizzata nella tecnicizzazione sia stata qualcosa di

94 Cfr. ivi, pp. 67-68.


95 H. Blumenberg, Mythos und Ethos Amerikas in Werk William Faulkners, in
«Hochland», n°50, 1957/58, p. 245. Una diagnosi opinabile, a mio avviso… Po-
che righe sopra Blumenberg si domanda se il «demone della tecnica» non operi
sempre più come artificio retorico contro un’esperienza che parla piuttosto di una
confidenza crescente con i processi e le strutture meccaniche. Cfr. ibidem.
96 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 64.
97 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 112.
98 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 144-145.
99 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 113.
100 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 145.
101 O. Müller, Zwischen Mensch und Maschine, cit., p. 80.
102 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 145. Traduzione lieve-
mente modificata.
Risvegli 75

originale e radicalmente fondante, dunque un progetto spontaneo e storico, o se


anche in questo caso sia venuta prima una necessità, questa volta spirituale, pa-
ragonabile alla situazione di partenza biologica, alla quale si è dovuta dare una
risposta la cui espressione più pregnante si è realizzata nel fenomeno della tec-
nica.103

Il fatto che solo un anno dopo – nel saggio su Lebenswelt und Technisie-
rung – Blumenberg affermi che occorra comprendere la tecnicizzazione
come «processo», e dunque evitare di accogliere in modo «aproblematico»
l’assunto dell’antropologia filosofica e biologica che vorrebbe l’uomo qua-
le «essere naturale definibile proprio a partire dai suoi prodotti»,104 non
deve – a mio avviso – fuorviare. Ciò che qui si mette in discussione non è
la prospettiva antropologica in sé, ma una forma di antropologia essenzia-
listica, che definisce a priori l’uomo come «già un homo faber»105 senza
problematizzare l’origine di tale identità. Il che verrà ribadito ancora in Be-
schreibung des Menschen, quando la costruzione di un’antropologia diver-
rà un progetto esplicito, ma sempre nel quadro di un’impostazione storico-
fenomenologica, o genetica.
Sta di fatto che in quel passo del ’51 affiora già un’«antropologia della
tecnica»106. E non manca – in Technik und Wahrheit – un accenno fugace
alla Menschenwerdung, allorché si descrive la tecnicità umana non solo
come capacità di produrre oggetti, ma soprattutto come realizzazione tec-
nica di sé:107 nella catena organica l’uomo comincia laddove

la meccanica del processo di sviluppo viene “afferrata” (ergriffen) come


tale, il che significa: dove i primati cominciano a sviluppare “se stessi” – nel
vero senso del riflessivo. L’uomo è essenzialmente debitore per sé a se stesso,
è auto-tecnico.108

In questa fase la riflessione antropologica blumenberghiana ha ancora


tratti esistenzialistici, sartriani e heideggeriani,109 ma saranno proprio que-
sti motivi – la dimensione auto-tecnica come sinonimo del «progetto»

103 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102.


104 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 19.
105 Ibidem.
106 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 66.
107 Cfr. H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 142.
108 Ivi, p. 143.
109 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 72-73.
76 Dialettica della caverna

(Entwurf) e prodromo della Selbstbehauptung,110 la contingenza e la cura,


la libertà come «principio dell’esserci»111 – a condurlo, da un lato, all’ana-
lisi della razionalità moderna, dall’altro, all’antropologia.112
L’autoaffermazione, descritta nei primi saggi quale atteggiamento stori-
camente determinato che ripropone un «modo d’esserci» (Daseinsmodus)113
già generato dalla situazione di partenza dell’umanità, uno stadio in cui
l’uomo viene «ricacciato» (zurückgeworfen),114 a partire dal 1962 viene di-
stinta sempre più nettamente dal contesto biologico dell’assicurazione
dell’esistenza.115 Sebbene contrassegnare l’età moderna mediante il feno-
meno della tecnicizzazione rinvii necessariamente alla «tecnicità» quale
«caratteristica antropologica originaria» e «struttura umana onnipresente»,116
questa non basta per dedurre quella: la tecnicizzazione è un

processo spontaneo della storia, […] che non sembra stare in alcun com-
prensibile rapporto con la natura dell’uomo, ma che al contrario lo costringe ad
adeguarsi spietatamente a una natura che risponde in maniera inadeguata alle
sue richieste.117

La tecnicità – scrive Blumenberg – «si radica nella natura dell’uomo»,


meglio: «è vecchia quanto l’uomo»118 e sarebbe opportuno che un’antropo-
logia filosofica indagasse e stabilisse come si sia originato tale legame,
come «la peculiarità della dotazione organica dell’uomo renda comprensi-
bile il complesso delle sue prestazioni quale condizione di possibilità del

110 Cfr. ivi, p. 73.


111 H. Blumenberg, Ist eine philosophische Ethik gegenwärtig möglich?, in «Studium
Generale», n°9, 1954, p. 183; cit. in O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 74.
112 Cfr. ivi, p. 75.
113 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Pro-
blem, cit., p. 254.
114 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 139.
115 In Legitimität der Neuzeit Blumenberg scrive chiaramente: «con autoaffermazio-
ne non si intende qui la pura conservazione biologica ed economica dell’essere vi-
vente uomo con i mezzi disponibili alla sua natura. Essa significa un programma
di vita, al quale l’uomo sottopone la propria esistenza in una situazione storica e
nel quale egli traccia il modo in cui intende affrontare la realtà che lo circonda e
cogliere le proprie possibilità». H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna,
cit., p. 144.
116 Ivi, p. 247.
117 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 19.
118 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 101.
Risvegli 77

suo esserci».119 Tuttavia, per vedere la situazione di «crisi esistenziale»120


dell’uomo sottratta al primato del contesto moderno e osservata non solo
attraverso la lente di «una vaga forma di antropologia»,121 ma di una vera e
propria indagine antropogenetica articolata, come un fenomeno a tutti gli
effetti già antropologicamente fondato, bisognerà attendere le opere degli
anni ’70 (in particolare, fintanto che Beschreibung des Menschen rimane
custodita nell’archivio, il grande saggio sul mito).
Le pagine di Beschreibung des Menschen dedicate ad Alsberg – la cui
elaborazione comincia significativamente nel 1976 – rappresentano, a mio
avviso, lo sforzo portato a compimento di indagare a fondo la dimensione
antropogenetica della tecnica. Vi è chi – proprio per avere analizzato la ri-
lettura blumenberghiana di Alsberg – è convinto che si possa a tutti gli ef-
fetti parlare di una «riabilitazione della ragione strumentale»122 e che Blu-
menberg condivida con Cassirer l’assoluta rilevanza antropologica del
«principio della tecnica».123 Contrassegnando la pietra gettata dal preomi-
nide quale «mezzo strumentale di autoaffermazione»,124 Blumenberg asse-
gna alla tecnica un ruolo tutt’altro che occasionale nella Menschenwer-
dung, confermato dalla definizione dell’uomo come werkzeuggeschaffenes
Wesen, che lo fa letteralmente derivare dall’utensile, qualificando la tecni-
ca come «radicale antropologico».125 Si tratterebbe sostanzialmente di una
riedizione articolata della definizione dell’uomo come creatura «auto-
tecnica».126
Non solo: benché effettivamente il ritratto antropologico che emerge
da Arbeit am Mythos sia contrassegnato soprattutto dalle prestazioni sim-
boliche, narrative, comunicative, concettuali, al tempo stesso il mito sul-
la cui ricezione l’intera «elaborazione» s’interroga è – non a caso – quel-
lo di Prometeo. La ragione dell’immutata fascinazione, lungo le epoche
della storia dell’occidente, per questo topos, risiede proprio nel fatto che
Prometeo rappresenta un «modello antropologico»:127 tramite la sua sto-

119 Ibidem.
120 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 75.
121 Ivi, p. 73.
122 Cfr. B. Recki, Auch eine Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft. Blumen-
berg über Technik und die kulturelle Natur des Menschen, in M. Moxter (a cura
di) Erinnerung an das Humane, cit., in particolare pp. 48-61.
123 Ivi, p. 48.
124 Ivi, p. 50.
125 Ivi, p. 51.
126 Ibidem.
127 Ivi, p. 53.
78 Dialettica della caverna

ria «l’autocomprensione dell’animale culturale uomo»128 si articola in


senso eminentemente tecnico. Alla luce di ciò, la scena alsberghiana del-
la Menschenwerdung assume l’aspetto di una «naturalizzazione di
Prometeo»,129 o meglio, forse il mito prometeico appare come «mito
fondamentale»130 che affonda le proprie radici nell’antropogenesi. Lo
stratagemma tecnico, ritratto in Beschreibung des Menschen nell’imma-
gine plastica dello Steinwurf, in Arbeit am Mythos viene raffigurato nel
motivo del dono del fuoco. 131 Indubbiamente sussiste un «primato
genealogico»132 della prassi sulla teoria, nella misura in cui la prestazio-
ne della distanza precipita dal gesto al concetto, assume forma compiuta
nello sviluppo delle facoltà intellettuali, ma «si mostra già in modo pro-
nunciato nel primo uso dell’utensile».133
Eppure: l’urgenza iniziale di agire, la spinta primordiale alla prassi, pro-
duce il pensiero anche come sua negazione.

1.3 Esitazione e pensosità

In un articolo del 1980 – pressoché coevo quindi alle riflessioni conte-


nute in Beschreibung des Menschen – Blumenberg afferma che, a dispetto
della tendenza di ogni forma di vita a organizzarsi attorno allo schema do-
manda-risposta immediata, stimolo-reazione, «solo l’uomo si permette la
tendenza opposta. È l’essere che esita».134
L’Umwegigkeit, come capacità di seguire delle deviazioni, perdersi lun-
go vie traverse, ha direttamente a che fare con la tendenza a temporeggiare
di fronte a uno stimolo, letteralmente a ‘prendere tempo’, creare la dimen-
sione dell’attesa che si frappone tra azione e reazione e dunque aprire lo
spazio della scelta vera e propria.

L’indecisione rischiosa di fronte all’alternativa: fuga o attacco può essere


stato il primo passo verso la civiltà […], come rinuncia, cioè, alle soluzioni ra-
pide, alle vie più brevi.135

128 Ibidem.
129 Ivi, p. 54.
130 Per una definizione di «mito fondamentale» si veda H. Blumenberg, Elaborazio-
ne del mito, cit., p. 219.
131 Cfr. B. Recki, Auch eine Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft, cit., p. 55.
132 Ivi, p. 58.
133 Ibidem.
134 H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 5.
135 Ivi, p. 6.
Risvegli 79

Ciò che l’uomo biologicamente insufficiente (poiché esita solo chi «non
dispone di un bagaglio istintuale univoco»136) guadagna ricusando lo sche-
ma stimolo-reazione, consiste nell’«esperienza» (Erfahrung) come risulta-
to della percezione non di semplici «segnali», ma di «cose» passibili di es-
sere richiamate alla mente, capacità acquisita di aspettarsi «quello che di
volta in volta si manifesterà ancora».137 La stessa Ich-Identität, come cen-
tro di immagazzinamento e rielaborazione di vissuti d’ora in avanti sempre
disponibili, rivela il proprio carattere funzionale-protettivo:138 «imparare
dall’esperienza» significa, ben più che analizzare esperimenti andati a
buon fine, soprattutto registrare nella propria memoria le «precipitose in-
terpretazioni errate delle prime impressioni», in modo da non abbandonar-
si senza condizioni all’impulso e «porre il ritardo al proprio servizio».139 In
altri termini, l’uomo può sopperire alla propria inadeguatezza organica
esclusivamente «non concedendosi senza mediazioni a questa realtà», isti-
tuendo con essa un rapporto «indiretto, circostanziato, differito, selettivo e
soprattutto “metaforico”».140 Scrive Blumenberg in un passo di Die Sorge
geht über den Fluss:

Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la


via più breve, arriverebbe uno soltanto. Da un punto di partenza a un punto di
arrivo c’è una sola via più breve, mentre moltissime sono le vie indirette. La ci-
viltà consiste nello scoprire e nell’aprire, nel descrivere e nel raccomandare,
nel valorizzare e nel premiare le deviazioni. Perciò da un lato essa sembra ca-
ratterizzata da un’insufficiente razionalità, poiché nel senso più rigoroso solo la
via più breve ottiene il marchio di qualità della ragione, e tutto quello che si di-
rama e passa accanto a destra e a sinistra è, a rigore, il superfluo, che con tanta
difficoltà può affrontare la questione della propria ragion d’essere. Ma d’altro
lato sono le digressioni che danno alla civiltà la funzione di umanizzare la vita.
La pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nella consequenzialità delle
sue esclusioni, barbarie.141

La ragione è «lenta», perché la sopravvivenza della specie non ha mai


poggiato sul suo successo, al contrario: il suo trionfo potrebbe essere l’ul-

136 B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 298.


137 Ibidem.
138 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 40.
139 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 557.
140 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 95.
141 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., pp. 130-131.
80 Dialettica della caverna

tima tappa della storia del genere umano.142 Il «superfluo», nell’orizzonte


dell’esistenza umana, è tale solo in apparenza, in realtà coincide con ciò di
cui l’uomo non può fare a meno per sopravvivere,143 poiché gli consente di
conservare quella distanza per lui vitale da ciò che provoca il suo agire, di
indugiare, ovvero di «riflettere». La possibilità concreta dell’actio per di-
stans che il preominide sperimenta nell’Ursituation dà luogo allo sviluppo
«epigenetico»144 di ulteriori prestazioni distanzianti, sicché, dalla capacità
di uccidere a distanza discende direttamente il lusso dell’esitazione, che
costituisce a sua volta la vera scaturigine del pensiero:

Afferenza ed efferenza, impressione sensibile e reazione fisica non devono


[…] stare più in rapporto diretto l’una con l’altra, bensì possono essere interrot-
te dal momento della riflessione. Dalla capacità di tenere a distanza l’avversa-
rio biologico o la preda (Opfertier) deriva di conseguenza la possibilità di una
presa di distanza da sé.145

E ne deriva anche lo sviluppo di quell’attitudine pensosa che poco ha a


che fare con l’ottimizzazione dei passaggi necessari a giungere a una solu-
zione, tipica della ragione calcolatrice. È dunque tale catena di eventi a ge-
nerare la peculiare intelligenza umana e non il contrario: «l’uomo esita e
tentenna non perché possiede la ragione, bensì possiede la ragione perché
ha imparato a concedersi l’esitazione e il tentennamento».146 La ragione,
intesa come principale «struttura di rendimento» umana,147 rappresenta
esattamente questo «superamento dell’immediatezza del rapporto dei sen-
si con la realtà».148
La percezione stessa comincia nel momento in cui si rompe la «bella im-
mediatezza» dell’arco riflesso (Reflexbogen) che risponde a segnali am-
bientali chiari e precisi, e il recettore, bombardato da una molteplicità di

142 Cfr. H. Blumenberg, Die Langsamkeit der Vernunft. Über die Verwechselbarkeit
anthropologischer und politischer Kategorien, in Ein mögliches Selbstverständ-
nis, cit., p. 153.
143 Ortega y Gasset ha scritto che «l’uomo è un animale per il quale solo il superfluo
è necessario». J. Ortega y Gasset, Meditación de la técnica, cit., p. 329; cit. in O.
Müller, Zwischen Mensch und Maschine, cit., p. 56.
144 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 37; sul
concetto di epigenetica si veda ad esempio R.C. Francis, L’ultimo mistero dell’e-
reditarietà, La biblioteca delle scienze, Roma 2011.
145 F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 37.
146 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 559.
147 Così Marco Russo traduce l’espressione blumenberghiana Leistungsstruktur. Cfr.
M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 265.
148 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 554.
Risvegli 81

stimoli, rinuncia a respingere quelli indistinti e confusi e li accoglie.149 La


percezione emerge così come «processo di elaborazione di stimoli impre-
cisi. Sensazione e innesco dell’azione sono dissociati»150 e dunque il siste-
ma organico è libero di incamerare lo stimolo sotto forma di sensazione te-
nendolo ‘in stand by’, svincolandosi dalla coazione all’azione. La
coscienza «intenzionale» nasce come capacità di «lasciare in sospeso» gli
input recepiti interrompendo l’arco riflesso, come organo della «latenza
della reazione»,151 «disturbo dell’immediatezza»,152 e proprio nell’elusione
«della fretta e della precipitazione, della rapidità e della leggerezza,
dell’immediatezza come perdita di sensi (Besinnungslosigkeit)» consiste la
«pesante dignità dell’uomo».153 In altri termini, nell’intervallo esitante tra
domanda e risposta l’uomo conquista la libertà:

La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienza della liber-
tà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Già nelle sue manifestazioni più
primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d’uso, è conte-
nuto il gesto dell’acquisto della liberà dallo scopo, della sospensione dell’eco-
nomia. Dall’esitazione come momentanea perplessità, come pura utilizzazione
di un rinvio, può nascere la condizione che ha un valore di vita diverso di quel-
lo dell’esame delle scelte.154

La filosofia medesima, nella sua versione rigorosa di «pensiero regola-


to» e severo disciplinamento della digressione, scaturisce in realtà dalla
«pura pensosità» contenente un’autentica esperienza di «libertà del divaga-
re»; in altri termini, occorre ricondurre il «pensiero» all’«esser pensosi»,
rintracciandone l’origine nella dimensione sfuggente ma ineludibile della

149 Si ha qui a che fare con il teorema gehleniano del «profluvio di stimoli», che Blu-
menberg riprende letteralmente: in virtù della propria «apertura al mondo» come
«disancoraggio da un ambiente preciso» dai significati «istintualmente ovvi»,
l’uomo, scrive Gehlen nella sua opera capitale, «è soggetto a una profusione di sti-
moli assolutamente estranea alla natura animale, […] alla piena “senza scopo” di
impressioni che lo raggiungono e che egli deve in qualche modo padroneggiare»,
le quali pertengono a un mondo inteso come «campo di sorprese, dalla struttura
imprevedibile, che va elaborato, cioè esperito, con circospezione e prendendo
ogni volta misure e provvedimenti». A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 63.
150 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 554.
151 Ivi, p. 555.
152 Ivi, p. 560.
153 Ivi, p. 559.
154 H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 7.
82 Dialettica della caverna

Lebenswelt,155 laddove la Nachdenklichkeit come «perdita di tempo» si fa


strada come viatico per la sopravvivenza del genere umano, poiché «gli uo-
mini non sopportano l’assoluto [e] pertanto “esitano” a reagire in maniera
assoluta e proprio attraverso ciò divengono “pensosi”».156 Nonostante i
suoi molteplici camuffamenti, la filosofia è ancora al servizio di quella
pensosità;157 malgrado le diffidenze che suscita in coloro che legittimano il
pensare solo nella misura in cui realizza «il collegamento più breve tra due
punti, tra un problema e la sua soluzione, fra un bisogno e la sua soddisfa-
zione, fra gli interessi e il consenso ad essi»,158 anche la teoria «schietta e
senza riserve» – quella, per intendersi, del Talete deriso dalla servetta tra-
cia o del Socrate condannato a morte – si rivela figlia di «un’astuzia della
pragmatica»,159 vitale proprio in quanto totalmente avulsa dal crudo reali-
smo dell’immediato.160 Quando accetta la propria dimensione pensosa, si
potrebbe dire, la filosofia si scopre «fatta della stessa materia di cui è fatto
il riso»,161 intimamente affine al comico – come mostra proprio l’episodio
del protofilosofo caduto nel pozzo a furia del troppo contemplare il cielo
delle idee –, luogo protetto di «esilio della serenità»: infatti, nel suo

stare a guardare restando con un palmo di naso», essa «ha un effetto liberatorio,
alleggerente perché, cercando di accettare tutto, costituisce un risparmio di rimo-
zione, sospensione del dispendio della disciplina necessaria all’istupidimento.162

Come si è visto nel paragrafo precedente, nell’opera di Blumenberg è


sempre presente una tensione tra la diagnosi epocale e l’attenzione alle co-

155 Per altre ipotesi eziologiche sull’atteggiamento teoretico si veda P. Sloterdijk, Sta-
to di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina, Mi-
lano 2011, pp. 73-106.
156 O. Marquard, Lebenszeit und Lesezeit, cit. p. 269.
157 Cfr. H. Blumenberg, «Pensosità», cit., pp. 10-12.
158 Ivi, p. 8.
159 H. Blumenberg, La caduta del protofilosofo o la comicità della teoria pura (sto-
ria di una ricezione), Pratiche, Parma 1983, p. 15.
160 Esiste e regola l’esistenza umana, secondo Blumenberg, qualcosa come
l’«opportunità dell’inopportuno» (eine Zweckmäßigkeit des Unzweckmäßigen),
che Bruno Accarino chiama a sua volta «la funzionalità del disfunzionale» che ani-
ma ogni dilazionamento, ogni digressione: qualcosa di rigoglioso e metastatico,
una «fantasia procedurale» che consente di prendere respiro di fronte alla rapidità
dei processi cui si è esposti. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità
della retorica, cit., pp. 101-102; B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 304.
161 O. Marquard, Esilî della serenità, in Estetica e anestetica, il Mulino, Bologna
1994, p. 117.
162 Ivi, p. 118.
Risvegli 83

stanti dell’agire umano, che non può essere risolta a vantaggio dell’uno o
dell’altro polo dell’indagine. Benché il moderno sapere scientifico abbia
assunto l’aspetto di un perpetuum mobile (secondo una definizione di Vic-
tor Hugo) autosufficiente ed estraneo a motivazioni provenienti dalla sfera
del mondo della vita,163 è forse plausibile assumere seriamente «la questio-
ne antropologica» sulla spinta che ha originato l’impulso al sapere. Acco-
gliendo la distinzione proposta da J. Mittelstrass tra «curiosità ingenua» e
«curiosità riflessa» – ove quest’ultima costituirebbe il proprium della mo-
dernità –, Blumenberg accenna a una possibile risposta:

Come chiunque voglia caratterizzare l’età moderna quale epoca contrasse-


gnata dalla tecnicizzazione, oppure sfociante in essa, si vede rinviato costante-
mente alla tecnicità in quanto caratteristica antropologica originaria e quindi
struttura umana onnipresente che tra la pietra scheggiata e il razzo lunare am-
mette solo una differenza quantitativa nell’aumento della complicazione, così
accade anche per l’evidenziazione del fattore della curiosità. Essa è una carat-
teristica della giovinezza già negli animali, e più che mai una caratteristica
dell’uomo in quanto animale rimasto giovane. La curiosità ingenua sarebbe
dunque la costante; ma al tempo stesso essa è il substrato sul quale poggiano
l’articolazione e la centratura storiche.164

Il processo inaugurato con la Neuzeit e tematizzato nella Legitimität è


proprio quello qui accennato: il passaggio, tramite la distinzione, dal-
l’«elemento naturale-evidente» a una sua comprensione cosciente, dall’au-
toconservazione (Selbstheraltung) all’«autoaffermazione»
(Selbstbehauptung).165 E tuttavia, benché l’esistenza di tale processo esclu-
da di accettare la visione naturalistica che nella curiositas moderna non rav-
visa altro che l’eterno e fatale ritorno dell’identico, è pur vero che la curio-
sità autocosciente diviene tale non in virtù dell’assunzione di un
atteggiamento qualitativamente nuovo, ma perché «continua a possedere
l’ubiquità ingenua di sbirciare sotto ogni pietra e sopra ogni siepe, e quindi
anche nei propri atti».166
Ma ora, appunto, occorre tornare indietro, alle pietre e alle siepi.

163 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 245.


164 Ivi, p. 247. Corsivo mio. È un’evocazione della tesi neotenica, poi discussa e mes-
sa a confronto con l’ipotesi alsberghiana in Beschreibung des Menschen? Va det-
to che anche qui l’ipotesi della neotenia non viene scartata, ma semplicemente
sottoposta a critica alla luce di un altro paradigma.
165 Ivi, p. 248.
166 Ivi, p. 250.
84 Dialettica della caverna

2. A piedi nella savana (Homo theoreticus)

Affinché da quello spaurito antenato descritto da Alsberg potesse scatu-


rire l’ingegno della Distanzierung come qualcosa «che si può apprendere»
(erlernbar),167 ricordare, trasmettere, il cambio di scenario era indispensa-
bile. Rispetto all’interrogativo se sia dipeso dalla migrazione ‘volontaria’
di una specie de-specilizzatasi per altre ragioni o, viceversa, da mutamenti
climatici e geologici dell’ambiente stesso, che avrebbe perso così i segni
caratteristici sui quali l’adattamento del recettore era sintonizzato, Blu-
menberg opta decisamente per la seconda ipotesi.168 Ma soprattutto, affin-
ché si potesse giungere all’uomo così come lo conosciamo, occorreva un
cambio di scenario definitivo e irreversibile: l’assenza di appigli dovette
diventare quotidianità, le fronde ombrose degli alberi qualcosa di raro, i ri-
fugi d’occasione una risorsa scarsa, il suolo viceversa una riserva di pietre
e detriti. L’«esitazione», come conquista specificamente umana durevole,
sarebbe allora in primo luogo il risultato di un «turbamento» ambientale:

un cambiamento del biotopo o un mutamento di flora e di fauna causato dal-


le oscillazioni climatiche potrebbe aver turbato, deformato, modificato l’univo-
cità e la sicurezza dei dati del mondo ambientale per il comportamento. La fa-
mosa sintesi teorico‑conoscitiva della molteplicità delle sensazioni sarebbe
sorta dalla mancanza di chiarezza, dalla estraneità del mondo ambientale.169

Per la genesi della storia umana, la riduzione della foresta pluviale del
Terziario e la conseguente migrazione delle specie che l’abitavano verso la
steppa170 assumono pertanto un ruolo capitale. Lasciate le zone boschive, il
nostro antenato si trova dinnanzi un habitat inesplorato, caratterizzato da
«vastità e apertura ottica»:171 ciò che avviene in sostanza è una dilatazione

167 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 576.


168 Cfr. ivi, p. 557.
169 H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 6.
170 Soffermandosi sui riferimenti bibliografici da cui traggo il discorso sul cambio di
biotopo e sulla postura eretta, apparirà evidente quanto sostenuto da Manfred
Sommer nella sua postfazione a Beschreibung des Menschen, ossia che i testi con-
tenuti nella seconda parte del saggio, la cui elaborazione prende le mosse già nel
biennio 1976-77, possono essere letti come «Paradigmi di un’antropologia feno-
menologica» che prosegue senza soluzione di continuità con la grande opera sul
mito del 1979 e con il saggio sulle uscite dalla caverna del 1989. Cfr. M. Sommer,
Nachwort des Herausgegebers in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen,
cit., pp. 901-902.
171 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 557.
Risvegli 85

spaziale che provoca nel progenitore dell’uomo uno «schock della


visibilità»172 e genera al contempo una nuova «ottica a distanza».173 L’espe-
rienza preistorica della «perdita della vecchia sicurezza nel segreto della
foresta primordiale»174 ha un carattere traumatico, poiché inaugura una
«forma della visibilità» fino a quel momento sconosciuta e ingenera
nell’antenato la coscienza di essere una creatura «con ‘molto dorso’»,175
sovraesposta alle insidie. In termini ‘antropo-fenomenologici’, egli speri-
menta la «situazione pura della prevenzione indeterminata» nella forma
dell’«angoscia» (Angst), come «intenzionalità della coscienza senza un og-
getto», e s’imbatte nell’«orizzonte» come soglia indifferenziata di perico-
lo, «totalità delle direzioni dalle quali “qualcosa può sopraggiungere”».176
D’altro canto, accedendo a un biotopo che ha perduto quel carattere di
naturalezza (Selbstverständlichkeitscharakter) tipico della Lebenswelt,177
l’ominide fa il suo ingresso nello «spazio della percezione autentica quale
quintessenza di reazioni indifferenziate (unspezifisch) e per lo più
latenti»;178 ossia in un luogo che, in virtù della sua stessa conformazione
geomorfologica, favorisce la comparsa di sensazioni le quali non necessi-
tano di un’immediata traduzione in «istruzioni per l’azione» e, solo connet-
tendosi e componendo costellazioni percettive, assumono il carattere com-
plesso di «oggetti». Il che – come spiegato – genera ritardo nelle risposte e
dilazione fino all’ottenimento di un grado sufficiente di chiarezza. Il van-
taggio della steppa – «articolata in base alle distanze e perciò calcolando i
tempi di preavviso»179 – rispetto alla foresta primordiale, che offre rifugio
ma al contempo approssima il minaccioso, consiste dunque nel guadagno
di tempo e nel potenziamento di quell’atteggiamento esitante e riflessivo
che farà l’ambigua fortuna dell’uomo.

172 Ivi, p. 785.


173 Ivi, p. 560.
174 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 26.
175 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 785. La medesima definizio-
ne si trova anche in Arbeit am Mythos, a proposito del «divieto di voltarsi indie-
tro», topos fondamentale attorno a cui ruota il mito di Orfeo e Lot: H. Blu-
menberg, Elaborazione del mito, cit., p. 220. In Zu den Sachen und zurück
Blumenberg parla a tal proposito di «deficit dorsale»: H. Blumenberg, Zu den Sa-
chen und zurück, cit., p. 299.
176 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 26.
177 Su questo concetto husserliano e sulla sua rilettura blumenberghiana tornerò in se-
guito, in un sottoparagrafo specifico.
178 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 558.
179 Ivi, p. 559.
86 Dialettica della caverna

L’abbandono del biotopo originario segna tuttavia una transizione pro-


blematica anche dal punto di vista della ‘biografia interiore’ della specie:
vero e proprio «trauma filogenetico», che a suo modo ricalca quell’antichis-
sima «apertura di un campo di gioco evolutivo»180 consistita nell’emersione
dal mare alla terra delle prime forme di vita181 e conferma quanto – esatta-
mente al pari dell’ontogenesi182 – anche la filogenesi si dipani come storia
violenta, dominata da separazioni dolorose.183 La prospettiva di Sándor Fe-
renczi – cui Blumenberg si rifà in queste riflessioni – affascina e seduce il fi-
losofo, tra le altre cose, per la sua impostazione ‘eretica’ nei confronti del
darwinismo: non un semplice adattamento tramite selezione naturale può
dar conto, secondo Ferenczi, delle profonde trasformazioni che scandiscono
l’evoluzione; bensì – più ‘lamarkianamente’ – «non c’è evoluzione senza
motivazione interna»184 e non vi è «catastrofe» di cui il bíos non serbi me-
moria e cui non tenti incessantemente di porre rimedio. Dopo il ripristino
della «tridimensionalità» motoria – perduta nel transito dall’elemento liqui-
do alla piatta solidità del suolo terrestre – in quel «mondo di arrampicamen-
ti» guadagnato grazie alla successiva salita sugli alberi,185 la foresta primor-
diale si ritrae o viene abbandonata in seguito a spostamenti: così il
‘ramapiteco’,186 lasciando il suo iniziale luogo protetto e avventurandosi

180 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 15.


181 Qui Blumenberg, citando un verso di Gottfried Benn («Oh fossimo i nostri proto-
antenati./ Un grumetto di muco in una calda palude; tutto è riva. Il mare chiama in
eterno»), osserva come talvolta la poesia riesca a esprimere qualcosa di inafferra-
bile come «la memoria delle crisi della separazione, di quei traumi dell’espulsio-
ne o della fuoriuscita, le soglie di dolore nell’evoluzione organica», che hanno a
che fare con le soglie della capacità di esperienza e verità. H. Blumenberg, Uscite
dalla caverna, cit., p. 17.
182 Rifacendosi alle teorie dello psicanalista, allievo di Freud, Sándor Ferenczi, Blu-
menberg ritiene che la migrazione dalla foresta alla savana ripeta non solo il trau-
ma filogenetico del passaggio dal mare alla terra, ma altresì quello ontogenetico
della nascita, la quale a sua volta si configura come «catastrofe anfibia», laddove
la «piccola tragedia dell’infanzia» diviene il «ricordo della patria perduta della
vita». Il grembo materno svolge allora la funzione di surrogato della sicurezza pri-
mordiale nelle profondità marine: H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, p. 51;
cfr. anche Id. Elaborazione del mito, cit., p. 27; cfr. S. Ferenczi, Thalassa. Saggio
sulla teoria della genitalità, Raffaello Cortina, Milano 1993.
183 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 14.
184 S. Ferenzi, Thalassa, cit., p. 87.
185 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 16.
186 Quello che Blumenberg identifica erroneamente col Ramapithecus si potrebbe a
grandi linee far coincidere, in base alle più recenti classificazioni paleoantropolo-
giche, con l’Australopithecus anamensis o l’Australopithecus afarensis (Lucy, per
intendersi), ossia con le più antiche specie ominidi rinvenute (risalenti a un perio-
Risvegli 87

nella savana, varca una soglia simile a quella tra mare e terra, servendosi di
una peculiarità prima non necessaria: l’andatura eretta.187
Già Darwin, all’epoca di The Descent of Man (1871), era convinto che
«qualche antico membro della serie dei primati» avesse modificato il pro-
prio modo di camminare dopo aver cominciato «a vivere un po’ meno su-
gli alberi», a causa dell’insorgere di un nuovo modo di procurarsi il cibo o
«per qualche cambiamento di condizioni ambientali»,188 e che l’acquisizio-
ne del bipedismo fosse stata il motore primo (e immediato) del perfeziona-
mento della manualità e delle facoltà intellettuali umane.189 E il collega e
co-inventore dell’evoluzionismo Alfred Russel Wallace concordava con
tale assunto darwiniano, secondo cui «la perfezione della struttura corpo-
rea», raggiunta dall’uomo per selezione naturale, aveva comportato paral-
lelamente l’aumento di volume e lo sviluppo del cervello.190
Blumenberg (benché del parere che la teoria della selezione naturale e
dell’adattamento ambientale non colga la peculiarità dello sviluppo uma-
no) è ancora persuaso che il carattere morfologico distintivo più certo che
separa l’uomo dal resto del regno animale – seppur prerogativa saltuaria
anche di altri esseri viventi – consista senz’ombra di dubbio nel bipedismo,
che ha dato il nome all’antenato più prossimo del sapiens: Homo erectus,
comparso un milione e mezzo circa di anni fa ed evolutosi nella specie
‘biologicamente moderna’ cinquecentomila anni fa.191 Da un lato dunque,
in accordo con la tesi ormai più accreditata in ambito scientifico, egli so-
stiene e rafforza il primato della rivoluzione posturale rispetto alla compar-
sa delle prestazioni razionali più complesse, legate alla categoria fonda-

do compreso tra 4 e 3 milioni di anni fa circa) di cui si sa che adottavano una po-
stura eretta, quantomeno sul terreno. Il genere Homo e la specie Homo erectus ap-
pariranno molto dopo. Cfr. I. Tattersall, Il mondo prima della storia. Dagli inizi al
4000 a.C., Cortina, Milano 2009.
187 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18.
188 C. Darwin, L’origine dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 66.
189 Cfr. ivi, pp. 66-72.
190 Cfr. A.R. Wallace, Darwinism. An Exposition of the Theory of Natural Selection
with some of its Applications, Macmilland and co., London 1889, p. 461. Wallace
credeva tuttavia che le capacità superiori dell’uomo, morali, intellettuali e spiri-
tuali, non fossero il prodotto dell’evoluzione per selezione naturale da altre specie
animali, ma il risultato dell’intervento di una potenza superiore. Cfr. ivi, pp. 461-
478; cfr. anche S.J. Gould, Il pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale,
Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 39-50.
191 Blumenberg sa bene, e in ciò mostra l’attualità del suo pensiero, che l’evoluzione
umana è stata un cammino incerto, dagli esiti assolutamente imprevedibili, e che
anche il passaggio da erectus a sapiens non era affatto garantito.
88 Dialettica della caverna

mentale dell’Auffälligkeit, della vistosità del corpo che solo con la


stabilizzazione dell’aufrechter Gang si dà nella forma più acuta. «L’uomo
è l’animale dotato di un’andatura eretta»,192 poiché solo per lo sviluppo e le
caratteristiche dell’uomo questa ha assunto un ruolo decisivo.
Facendo propria una convinzione espressa da Herder già nel 1784, a sua
volta ripresa da Gehlen, Blumenberg ne tenta una riedizione scevra dai de-
biti che la formulazione herderiana ancora contraeva nei confronti della
tradizione: se il precursore dell’antropologia filosofica considerava la for-
ma umana costitutivamente «eretta» in quanto rivolta all’oltre da sé,193in
sostanza al cielo, egli faceva però al contempo riferimento al «guardare
lontano da sé» tipico dell’uomo. È su tale terreno che Blumenberg svilup-
pa la propria riflessione. Tuttavia con Herder, anche Blumenberg è convin-
to che la postura eretta abbia potuto imporsi e stabilizzarsi – come abbiamo
visto a proposito dello Steinwurf – solo come risultato di sforzi e tensioni
da un certo punto di vista estremamente artificiosi e contrari all’andamen-
to regolare della natura; per questo non si può parlare di evoluzione in sen-
so darwinistico, ossia adattivo.194 Siamo insomma di fronte a un attributo
che, tra gli altri, fornisce l’immagine di una creatura «a rischio» e «biolo-
gicamente straordinaria», una qualità che tradisce «un’estrema fatica con-
tro tutti i vantaggi e le agevolazioni di un confortevole quadrupedismo».195

Qualunque aspetto possa avere avuto l’essere preumano che, abbandonato


per necessità o per caso l’ambiente in cui viveva, fu indotto da questo muta-
mento ad approfittare del vantaggio sensoriale del rizzarsi per correre a due
gambe, e a stabilizzare questo vantaggio nonostante tutti gli svantaggi interni
nel funzionamento degli organi – quest’essere in ogni caso aveva abbandonato
la protezione di una forma di vita più nascosta, adattata, per esporsi ai rischi
dell’orizzonte allargato della sua percezione: i rischi della sua percepibilità.
Non fu ancora un balzo in avanti della curiosità, un godere dell’orizzonte allar-
gato, un senso di esaltazione per la conquista della verticalità, ma semplice-
mente lo sfruttamento di una possibilità di sopravvivenza eludendo la pressio-
ne selettiva, che lo avrebbe spinto verso una specializzazione irreversibile. Fu

192 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 518.


193 Cfr. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, III/6, Jo-
seph Melzer, Darmstadt 1966, pp. 98-101. «L’uomo», scrive Herder, «è a“nqrwpoj,
una creatura che guarda al di sopra di sé, che guarda lontano attorno a sé». Ivi, p.
99.
194 E tuttavia Blumenberg naturalmente accoglie proprio ciò che Herder considerava
un paradosso inaccettabile: l’ipotesi della provenienza dell’uomo da animali ‘in-
feriori’ e dunque del bipedismo dal quadrupedismo; cfr. J.G. Herder, Ideen zur
Philosophie der Geschichte der Menschheit, cit., pp. 100-101.
195 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 520.
Risvegli 89

un salto situazionale, che trasformò l’orizzonte lontano, non occupato, nel per-
manente stare-in-attesa di cose fino a quel momento sconosciute.196

Da un punto di vista morfologico, il «salto evolutivo» provoca esiti con-


tradditori di ‘perdita e acquisto’. La verticalizzazione del corpo durante il pro-
cesso di ominazione produce una sorta di «effetto-periscopio»: l’avvicina-
mento e lo spostamento degli occhi sulla parte anteriore del cranio favoriscono
una coordinazione della vista e del tatto e l’acquisizione di funzioni prospetti-
che rivolte all’ambiente circostante, il che consente il rapido controllo dell’o-
rizzonte visivo accresciuto dalla nuova postura.197 Il mutamento situazionale
procura all’antenato dell’uomo uno spostamento sensoriale, un miglioramen-
to e un ampliamento della visuale anteriore a scapito di altre ‘rotte dello sguar-
do’ e di altri sensi. Nella «zona di transizione dall’uomo all’animale» (Tier-
Mensch-Übergangsfeld; transizione in parte già cominciata con l’acquisizione
da parte dei primati della «visuale stereoscopica» dalle cime degli alberi), lo
spazio e gli oggetti che lo occupano si aprono alla vista dell’uomo, ma con-
temporaneamente il campo visivo si restringe alla prospettiva frontale, ren-
dendo l’ominide diffidente e aggressivo; inoltre, l’indebolimento del fiuto sot-
trae «all’ampliamento dell’angolo morto la sua possibilità di compensazione».198
La mano – indubbiamente anche per Blumenberg «un salto quantico per
l’abilità tecnica dell’uomo»199 – solo all’inizio, ma non a lungo, resterà vuota,
per poi subito produrre e riempirsi di quell’eccedenza chiamata «cultura» che
rappresenta la dignità – ma anche la sola possibilità – dell’umano.200
A sua volta, la storia della postura eretta – ormai è chiaro – è indissolu-
bilmente intrecciata a quella dello sviluppo del cervello. Quand’anche non
dipendessero entrambe esclusivamente dal Menschheitsprinzip che si af-
ferma nella scena alsberghiana come «salto evolutivo», è certo che a parti-
re dal cambio di biotopo si assiste a un’«auto-regolazione autonoma ed en-
dogena della vita umana» come fuoriuscita dai meccanismi selettivi, che il
definitivo congedo dall’ambito ‘naturale’ e il consolidamento della dimen-
sione culturale non faranno che portare a compimento.201 A tal proposito è
centrale l’attenzione prestata agli studi neurologici di Hugo Spatz,202 se-

196 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-26. Corsivo mio.
197 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 764.
198 Ivi, p. 870.
199 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 148.
200 Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 323.
201 R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 173.
202 Cfr. H. Spatz, Vergangenheit und Zukunft des Menschenhirns, in «Jahrbuch der
Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 1964, pp. 228-242.
90 Dialettica della caverna

condo cui zone diverse del cervello si sviluppano in tempi diversi e, nella
fattispecie, nei primati le funzioni non automatiche e le rispettive parti di
materia grigia si accrescono in un secondo momento, ma tendono in segui-
to a prevalere e accelerare la propria crescita rispetto alle zone più antiche,
il cui cammino si ferma o addirittura recede.203 Introducendo i principi del-
l’«introversione» e della «prominazione», Spatz formula l’ipotesi secondo
cui, durante la filogenesi e l’ontogenesi, si sarebbero ritirate quelle regioni
nervose deputate a mansioni vitali e istintive, mentre si sarebbe ampliato
l’areale della neo-corteccia, legato a prestazioni più elevate, culturali.204 La
storia del cervello – sostiene Spatz – è «una storia endogena»,205 storia del-
lo straordinario sviluppo di un organo che non segue processi evolutivi
classici di interazione esogena con l’ambiente, per la quale dunque sareb-
be meglio non parlare più di evoluzione in senso selettivo. Se la teoria di
Spatz è vera, la recessione della funzione olfattiva seguita allo sviluppo ce-
rebrale della neo-corteccia sarebbe una delle premesse per l’assunzione
della postura eretta e, a sua volta, dipenderebbe dallo spostamento in avan-
ti degli occhi richiesto dalla visione prospettica; il che significa, secondo
Blumenberg, che «l’ottica deve avere già avuto un ‘vantaggio’, prima che
cominciasse il processo che ha condotto al bipedismo (Aufrichtung)».206 La
teoria di Spatz207 è perciò evidentemente capace di conciliarsi con quella di

203 Per la trattazione delle ricerche di Spatz cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des
Menschen, cit., pp. 541-549.
204 Cfr. J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 154.
205 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 540.
206 Ivi, p. 542.
207 Hugo Spatz non è l’unico autore citato da Blumenberg per quanto riguarda gli stu-
di neurologici. Grande attenzione è riservata ad esempio alle ricerche del gineco-
logo olandese Klaas De Snoo, cominciate già a partire dal 1932, sui rapporti tra
andatura eretta, gestazione umana e sviluppo cerebrale (cfr. K. De Snoo, Das Pro-
blem der Menschenwerdung im Lichte der vergleichenden Geburtshilfe, Fischer,
Jena 1942; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 580-581);
o al principio della «cerebrazione progressiva» formulato nel 1929 dal neuro-ana-
tomista Constantin von Economo (cfr. C. von Economo, Der Zellaufbau der
Großhirnrinde und die Progressive Cerebration, in «Ergrebnisse der Physiolo-
gie», n°29, 1929, pp. 82-128; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Mesnchen,
cit., p. 541); o al concetto di «internazione» con cui Adolf Remane anticipava già
nel 1952 l’idea di Spatz dell’eterocronia dello sviluppo delle regioni nervose (cit.
in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 542). Vari interpreti di
Blumenberg hanno posto l’attenzione sul suo uso poco ortodosso della letteratura
scientifica. Le fonti paleoantropologiche cui attinge risalgono in gran parte agli
anni ’20 e per la descrizione del cervello – come riporta Bauer – non recepisce
solo i risultati più attuali (ossia le scoperte neuro-anatomiche degli anni ’70), ma
Risvegli 91

Alsberg per spiegare la postura eretta, anzi, la seconda completa la prima,


mostrando come i meccanismi di inversione evolutiva nel sistema nervoso
dipendenti da processi endogeni debbano essere arricchiti da una prospet-
tiva che individui la «situazione acuta»208 in cui quelle capacità acquisite
poterono essere giocate per compiere il salto evolutivo decisivo. Gli studi
sullo sviluppo del cervello vanno perciò integrati da una prospettiva capa-
ce di collegare il bipedismo a un evento particolare occorso nella storia
evolutiva dell’uomo. L’acquisizione definitiva della postura eretta ha infat-
ti portato a compimento il processo, cominciato col lancio della pietra, di
sviluppo della capacità di actio per distans.

cita testi che hanno tra i dieci e gli ottant’anni. «L’attualità dei risultati», sostiene
Bauer, «non può perciò essere stata per Blumenberg l’interesse dominante», come
dimostra il fatto che non vi sia traccia della «svolta cognitiva» che negli anni ’60-
’70 investì la psicologia e di conseguenza l’interpretazione delle scoperte neuro-
anatomiche (J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 156). Inoltre, sebbene
la letteratura su cui Blumenberg si concentra non sia irrilevante per la storia della
ricerca neurologica, non è quella che oggi si ritiene ‘scolastica’ (a tal proposito
Bauer riporta la notizia secondo cui, per la propria ricerca, Hugo Spatz avrebbe
approfittato dell’Aktion T4 del Reich e utilizzato consapevolmente cervelli di per-
sone uccise dal ’37 fino a dopo la fine della guerra). Secondo Bauer, scopo di Blu-
menberg non é intraprendere una ricerca aggiornata né rappresentare l’ampia cor-
rente degli studi sul cervello; le fonti di cui si serve sono valide e stimolanti per
lui per un altro motivo: «con documenti empirici di diverse epoche e contesti,
Blumenberg può mettere in risalto proprio il carattere storico di ciascuna antropo-
logia e con ciò anche quello delle scienze empiriche che si occupano dell’uomo»
e dei loro risultati. Così «l’antropologia stessa di Blumenberg, attraverso l’anco-
raggio a precise interpretazioni storiche delle scoperte empiriche, si comporta in
modo storico-contingente: è una descrizione dell’uomo in un preciso momento e
contesto e non intende assolutamente dissimularlo» (ivi, p. 157). Secondo Sava-
ge, l’ausilio della «più datata ricerca scientifica» è una conferma del carattere mi-
tico e fantascientifico del «proto-dramma» antropogenetico che Blumenberg met-
te in scena (cfr. R. Savage, Aporias of Origin, cit., p. 63). Diversamente, Sommer
offre una lettura molto meno liquidatoria del perché il senso e il valore della rico-
struzione narrativa di Blumenberg non rispondano al criterio dell’attuale stato
dell’arte della ricerca empirica: «ciò che la filosofia fenomenologica fa proprio
dei risultati [degli studi biologici, paleontologici, anatomici e neurologici dell’e-
poca] non diventa semplicemente obsoleto con loro. Poiché utilizza il sapere del-
le scienze positive non solo come contributi finiti per le proprie teorie, ma soprat-
tutto come occasioni e stimoli, come esortazione e incoraggiamento per ciò di cui
è capace con le sue sole forze: essa opera con finzioni e tipizzazioni, valori limite
ed esperimenti mentali, variazioni e trasformazioni dell’immaginazione». M.
Sommer, Nachwort des Herausgegebers, cit., pp. 904-905.
208 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 575.
92 Dialettica della caverna

2.1. Distanza, visibilità e attenzione

L’uomo ‘gettato’ negli spazi aperti della savana è preda di un insopprimi-


bile «desiderio di invisibilità» radicato nella condizione stessa del suo gene-
re. Per questo, fin dalle origini, ogni forma di chiarificazione – nel senso più
elementare di un processo che illumina per distinguere, dunque vedere me-
glio – esercita su di lui un effetto ambiguo poiché, rendendo visibile ciò che
è, «consegna però anche l’uomo a un aumento di visibilità realistica per sé e
per gli altri, gli impone la coscienza della sua nudità e della sua incapacità di
difendersi».209 La Sichtbarkeit vistosa della creatura nuda che cammina su
due gambe produce un incremento della diffidenza ed è alla base della gene-
si dello «straniero» che – suggerisce Blumenberg – andrebbe inteso, à la
Simmel,210 come categoria non solo sociologica, ma antropologica.
Dalla scoperta della visibilità «nella sua consistenza spaziale» ha origi-
ne l’autocoscienza:211 la possibilità di essere visti ha come conseguenza il
fatto che siamo in grado di rappresentarci a noi stessi. Tuttavia, un atteggia-
mento esplicitamente volto al nascondimento presuppone la consapevolez-
za della propria visibilità: «solo chi sa di poter essere visto può mirare a
non essere visto».212 Entro la vicenda antropogenetica, il cambio di bioto-
po segna dunque quel «momento cosmico di un’autocoscienza che si è co-
stituita a partire dall’essere-visti, si prepara al poter-essere-visti e infine si
rivolge al voler-essere-visti».213 L’assunzione dell’aufrechter Gang è in tal
senso l’«atto originario del confronto con se stessi (Selbstvergleich)».214
A partire da allora, l’autoconservazione ha a che fare con la fatticità di un es-
sere che deve preoccuparsi di risultare visibile e rintracciabile dagli altri anche
quando la sua attenzione si interrompe, o mentre dorme. Egli scopre così il pro-
prio corpo come «localizzazione del punto d’incontro di minacce». Ma è pro-
prio tale facoltà di vedere se stesso «dall’esterno», come un corpo in un mon-

209 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 40.


210 Cfr. G. Simmel, Lo straniero, Il Segnalibro, Torino 2006; cfr. A. Borsari, Il Sim-
mel antropologo della Beschreibung: una noterella, in A. Fragio, D. Giordano, a
cura di, Hans Blumenberg, cit., pp. 349-353.
211 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 803.
212 Ibidem.
213 Ivi, p. 786. Quest’ultimo passaggio caratterizza quello stadio della civiltà in cui il
vedere e l’essere visti, nella loro versione «tarda», si sono ormai esonerati da quel-
la componente di rischio che ne aveva segnato la genesi, rovesciandosi in piacere,
in godimento, in desiderio, esemplificati in un certo senso dalla figura del «fla-
neur». Cfr. ivi, pp. 777-778.
214 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, in
Theorie der Lebenswelt, cit., p. 141.
Risvegli 93

do corporeo, e di separare il proprio soggettivo sentimento di presenza dalla


circostanza oggettiva della sua percepibilità indipendente dalla coscienza, a
conferire all’uomo un vantaggio vitale decisivo nella biosfera.215
Tutto ciò significa, paradossalmente, che l’antropogenesi contiene
un’«antinomia elementare», poiché, se da un lato si fonda sul principio
alsberghiano del «disimpegno organico» come vera e propria neutralizza-
zione del corpo, dall’altro la fisicità dell’organismo, esposto come nudo
Leib, viene accentuata e resa manifesta.216 L’allargamento dell’orizzonte
percettivo significa innanzitutto questa «opacità», questa vulnerabilità del
corpo allo sguardo altrui. Il nesso fra la visibilità e la nudità dell’uomo pri-
mitivo è lampante, così come lo è – di conseguenza – la funzione autocon-
servativa, preventiva e protettiva, all’origine dell’abbigliamento.217 Il cor-
po nudo e indifeso di Adamo al cospetto di Dio racconta di una condizione
d’esistenza esposta, la quale si declina non solo come vulnerabilità fisica
nei confronti dei potenziali nemici, ma anche come verifica della propria
identità grazie allo sguardo altrui e possibilità di essere riconosciuto come
soggetto morale responsabile, imputabile, colpevole.218

La creatura visibile ‘uomo’ deve pertanto preoccuparsi della propria vita,


della propria peculiarità individuale e della propria integrità morale, da quan-
do, in posizione eretta, ha fatto il suo ingresso nella vistosità (Auffälligkeit) del-
la pianura.219

La visibilità, come consapevolezza del proprio apparire, è ben più del


mero dato di fatto della propria ‘appariscenza’ di corpo situato nello spazio
su cui si riflette la luce solare: essa significa essere costantemente penetrati e
definiti dal poter-vedere dell’altro, fare «esperienza dell’altro» in qualità di
«vedente» inserito nel contesto del calcolo della durata e dello svolgimento
della propria vita. La visibilità presuppone la Fremderfahrung come espe-
rienza del fatto «che l’altro mi vede come io lo vedo», che «mi identifica con
e attraverso la mia manifestazione fenomenica (Erscheinung)»; esperienza
che possono momentaneamente interrompere solo la maschera – «esonero

215 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 52-53.


216 Ivi, p. 777.
217 Cfr. ivi, pp. 778-779.
218 Cfr. H. Langbein, Sichtbarkeit und Ebenbildlichkeit. Zur Theorie der Visibilität
des Menschen bei Hans Blumenberg, in R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur
Natur, cit., pp. 89-90. Sulla figura di Adamo e sulla responsabilità morale cfr. H.
Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 779-790.
219 H. Langbein, Sichtbarkeit und Ebenbildlichkeit, cit., p. 90.
94 Dialettica della caverna

episodico dall’identificabilità» – e i suoi derivati,220 già in germe nel gesto in-


fantile di chiudere gli occhi nel desiderio di essere ignorati.221
Tuttavia, dallo shock della visibilità e dall’ottica passiva del-
l’«esposizione all’essere-visti» (exponiertes Gesehenwerden) ha origine
l’ottica attiva dell’«esplosione del poter vedere» (explodiertes
Sehenkönnen),222 la possibilità di visione da lontano come capacità di atten-
zione-previsione (Vor-sicht) e pregiudizio (Vor-Urteil). In tal modo, l’uo-
mo compensa con un rovesciamento attivo la propria condizione di ‘crea-
tura in balia’ e «si conserva […] guardando il proprio mondo a distanza»:
l’occhio diviene garante della «Distanz zur Natur», nella misura in cui ve-
dere significa al contempo tenere lontano dal corpo. Rettificando la propria
precedente definizione, Blumenberg precisa come la coscienza, più che un
«disturbo dell’immediatezza», sia già un «arrangiamento» di quel disturbo,
che sfrutta il tempo guadagnato dall’allargamento dello spazio per elabora-
re comportamenti anticipatori, azioni preventive di fuga, nascondimento e
armamento; la ragione, anche quella scientifica, è ancora quest’«organo di
attese» e di «formazione di un orizzonte di attesa».223 La visione prospetti-
ca, come capacità di discernere diverse impressioni ottiche nello spazio,
prelude alla ragione concettuale come facoltà di integrare stimoli dislocati
nel tempo.224

220 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 778.


221 Cfr. ivi, p. 781.
222 Cfr. ivi, p. 777.
223 Cfr. ivi, pp. 560-561. Sia nel saggio sulla genesi del mondo copernicano, sia in Le-
gitimität der Neuzeit e nel già citato articolo su curiosità e istinto di sapere, è ri-
portata una definizione feuerbachiana della ragione, i cui echi nella riflessione fi-
losofico-antropologica di Blumenberg appaiono evidenti. A proposito del fatto
che Copernico non ebbe modo di vedere Mercurio, che pure era inserito nel suo
sistema astronomico, Feuerbach osserva come in tale vicenda si definisca la rela-
zione tra ragione e sensi su un piano antropologico, epistemologico e storico: «la
ragione è sempre un’anticipazione dell’intuizione; visione e tatto non costituisco-
no il materiale grezzo, il substrato del pensiero, ma piuttosto l’essenza della rela-
zione con la realtà pienamente realizzata. […] La ragione non è la perfezione del-
la sensualità, ma la sua anticipazione», il che, nella misura in cui
l’insoddisfazione per le conoscenze non acquisite nel presente mostra ciò che po-
trà essere in futuro, rivela anche la «dimensione temporale del sapere». H. Blu-
menberg, The Genesis of the Copernican World, cit., p. 633; cfr. anche H. Blu-
menberg, Neugierde und Wissenstrieb. Supplemente zu Curiositas, in «Archiv für
Begriffsgeschichte», n°14, 1970, p. 25 e H. Blumenberg, La legittimità dell’età
moderna, pp. 474-483.
224 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 563. Quanto Blumenberg
consideri cruciali le ‘vicende ottiche’ dell’uomo risulta evidente da moltissimi pas-
Risvegli 95

L’uomo non è divenuto l’essere del pregiudizio a causa di un’aberrazione del-


la storia, di cui si sarebbe liberato grazie al rischiaramento (Vernünftigung) moder-
no. Egli è un essere del pregiudizio poiché è un essere della prevenzione.225

Nelle considerazioni di Blumenberg sull’allargamento del campo visivo


echeggiano alcune riflessioni di Erich Rothacker, suo maestro, la cui in-
fluenza sull’antropologia fenomenologica blumenberghiana è indubbia. Se-
condo Rothacker «distare» nel senso di «sporgere» (Abständigkeit), «stare
di fronte, allargamento, ampiezza, campo visivo» sono i concetti che descri-
vono lo specifico dell’uomo in opposizione alla «ristrettezza» del raggio
d’azione di cui dispone l’animale. «L’uomo ha una visuale del suo di-fron-
te» – dunque può ottenere una visione d’insieme della situazione – e un di-
fronte si dà solo se non è troppo aderente a noi.226 E la «coscienza distan-
ziante» (distanzierende), che Blumenberg attribuisce all’uomo, si configura
al contempo come «coscienza preventiva» e «coscienza attenta» non solo in
quanto vigile, ma anche – in termini fenomenologici – in quanto «intenzio-
nale», ovvero propria di un essere capace di adattarsi alla propria finitezza,
poiché cerca ciò che è dotato di senso nel proprio «essere orientato» verso il
mondo. Attenzione, in tale prospettiva, equivale a delimitazione, facoltà di
operare un «intervento deciso nella sovra-offerta di possibili nessi coscien-
ziali (Bewusstseinsbindungen)»,227 «economizzando» le prestazioni allo

saggi delle sue opere (oltre che – ovviamente – dal capitolo conclusivo di Beschrei-
bung des Menschen, dedicato alle Variazioni della visibilità (cfr. H. Blumenberg,
Beschreibung des Menschn, cit., pp. 777-895). Basti in questa sede citare – ancora
una volta – il capitolo che chiude Die Genesis der kopernikanischen Welt, dedica-
to proprio alla «visione» nel mondo copernicano. Il rapporto dell’uomo con la vi-
suale, con l’orizzonte, ha una sua storia e continua a evolvere e modificarsi nel cor-
so del tempo, ben oltre quel primo rovesciamento dell’ottica passiva in ottica attiva.
L’invenzione moderna del telescopio rappresenta un esempio unico di «come un
orizzonte ottico rimasto costante attraverso i millenni venga trasformato in un con-
fine continuamente dislocabile» (H. Blumenberg, The Genesis of the Copernican
World, cit., p. 640) e, allo stesso tempo, l’affermarsi del copernicanesimo ‘ristabi-
lisce una verità antropologica’ obliata dal «postulato della visibilità», ossia dal pre-
supposto della coincidenza perfetta tra uomo e cosmo, tra dotazione organica uma-
na ed elementi costitutivi della realtà: l’insufficienza biologica dell’uomo e la
limitatezza del suo campo visivo. Rompendo il postulato della visibilità, «il coper-
nicanesimo ha fatto a pezzi la coincidenza (che era già allentata, antropologicamen-
te) tra il mondo e gli organi umani: la congruenza tra realtà e visibilità» (ivi, p.
642). Per l’«uomo post-paradisiaco» la scienza «può basarsi su ciò che può essere
realizzato con mezzi indiretti», artificiali. Ivi, p. 638.
225 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 871.
226 Cfr. E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, Bouvier, Bonn 1964, p. 123.
227 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 182.
96 Dialettica della caverna

scopo di sfruttare al meglio le conoscenze acquisite.228 E rivela un rapporto


intrinseco con un altro concetto cardine del pensiero di Blumenberg: quello
di «significatività» (Bedeutsamkeit), intesa – secondo il «principio di signi-
ficatività» formulato sempre da Rothacker – come attribuzione di valenze
alle cose filtrata dall’attenzione e dalla distanza vitale da esse:229

Una volta uscito dalla regolarità di una condizione in cui il suo comportamen-
to era determinato dall’ambiente, l’animale ominide ha a che fare con l’ineffica-
cia degli indicatori e delle determinanti del suo comportamento, con l’indetermi-
natezza di ciò che le componenti della sua realtà “significano” per lui. Egli
reagisce alla scomparsa di significati rigorosi definendo delle significatività.230

L’attenzione – definita da Husserl «il tendere dell’io verso l’oggetto in-


tenzionale, dunque un «tendere al compimento» del processo cominciato
col volgersi dell’io verso l’oggetto231 – viene qui indagata secondo le parti-
colari circostanze genetiche che la impongono quale necessità. Il «mondo»
sul quale il «soggetto» umano si affaccia gli ‘impone’ l’attenzione e l’attri-
buzione di valori nella misura in cui «sovraccarica e inonda» il suo «fabbi-
sogno di informazioni», introducendo una «mancanza di precisione» sco-
nosciuta nell’universo binario e auto-regolato del meccanismo
stimolo-reazione.232 Invero, il fenomeno dell’attenzione ha il carattere di
una «ridondanza» che può sorgere solo in presenza di una coscienza capa-
ce di uno «spazio di tolleranza» situato tra «l’apertura delle impressioni
(impressionistiche Öffnung) dinnanzi a un universo di affezione diffusa» e
«la logica immanente della propria intenzionalità», il che non potrebbe mai

228 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., pp.


108-110.
229 «Nel mondo storico e culturale dell’uomo le cose possiedono valenze diverse per
l’attenzione e la distanza vitale da quelle che possiedono nel mondo oggettivo di
ciò che viene studiato dalle scienze esatte, nelle quali l’investimento soggettivo di
valore nei fenomeni tematizzati tende di norma a zero» (H. Blumenberg, Elabo-
razione del mito, cit., p. 96). «Anzitutto, quando ciò che è pertinente è divenuto in
un certo senso significativo e rilevante per una comunità umana e perciò può es-
sere accolto nel lessico vivo (lebendig) di quella comunità, le “impressioni” di una
coscienza umana possono trasformarsi nel contenuto di un mondo dotato di sen-
so, grazie al quale le conosciamo e comprendiamo. Dapprima dunque esse si co-
stituiscono come occasioni sensibili che “toccano le nostre corde” per creare la
“melodia di un mondo definito”». E. Rothacker, Zur Genealogie des menschli-
chen Bewusstseins, Bouvier, Bonn 1966, p. 44.
230 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 213.
231 E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, p. 73.
232 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 188.
Risvegli 97

darsi in un sistema istintivo – per così dire ‘automatico’ – di autoconserva-


zione. L’attenzione opera tra questi due estremi tracciando «contorni» e
producendo «strutture»233 e in tal modo, grazie alla sua azione ‘formatrice’,
alla sua capacità di «disporre della facoltà percettiva per quanto riguarda la
sua intensità, la sua offerta mirata di energia», si attesta come forma di li-
bertà, di autonomia234 – rispetto alla coercizione del comportamento istin-
tuale – di un soggetto che si relaziona al flusso dei dati sensibili «prestan-
dovi attenzione in maniera differenziata».235
Allo stesso tempo essa scaturisce dall’angustia, dalla ristrettezza: l’at-
tenzione, scrive Blumenberg, si trova in fondamentale connessione con la
costituzione temporale della coscienza, la quale ne «costringe i contenuti
[…] a passare tutti in una volta attraverso il punto presente (Jetztpunkt)
dell’affezione», poiché entrambe sorgono da una qualità elementare della
coscienza: la sua «limitatezza».236 L’attenzione rappresenta in sostanza
«l’aspetto funzionale del fatto che la coscienza non conosce tutto in una
volta, non conosce in una volta più di una cosa», essa è «organo» di «ripar-
tizione spaziale di momenti affettivi» e anche in uno spazio pensato di og-
getti compresenti può afferrarne e soffermarsi intenzionalmente su di uno
soltanto, allontanando tutto il resto sullo sfondo (Hintergrund), applicando
l’arte del «circoscrivere» (Umschreibung).237

2.2. L’uomo come Angstwesen e l’orizzonte come soglia dell’indetermi-


nato

Horizont e Angst sono i due concetti – rispettivamente di matrice husser-


liana238 e heideggeriana239 – che Blumenberg accosta al fine di compiere,

233 Cfr. ivi, p. 182.


234 Cfr. ivi, p. 183.
235 Ivi, p. 185.
236 Ivi, p. 198.
237 Ibidem.
238 Si vedano E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno-
menologica, I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino
2002, pp. 61-62; Id., Meditazioni cartesiane, cit., pp. 73-75; Id., La crisi delle
scienze europee, cit., ad esempio pp. 188-192; Id., Esperienza e giudizio, cit., in
particolare pp. 29-37.
239 Si vedano M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2006, paragrafi 39,
40 e 68b; Id., Einführung in die phänomenologische Forschung, in Gesamtausga-
be, II. Vorlesungen 1919-1944, XVII. Marburger Vorlesung Wintersemester
1923/24, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1994, par. 50 c, pp. 288-290;
98 Dialettica della caverna

ancora una volta, quella traduzione antropologica della fenomenologia che


anima il progetto filosofico di Beschreibung des Menschen. Abbandonate
le selve ed espostosi ai «rischi della sua percepibilità»,240 l’ominide cessa
di «avere un ambiente» e si trova ad «avere un orizzonte», laddove la fore-
sta pluviale era «un ambiente privo di orizzonte».241 Prima di trasformare
l’orizzonte remoto, «non occupato» nel «permanente stare-in-attesa di cose
fino a quel momento sconosciute», la «situazione pura della prevenzione
indeterminata» è l’«angoscia»,242 la vuota intenzionalità il cui «davanti-a-
che» è «completamente indeterminato»,243 che per questo omologa l’intero
orizzonte come spazio indifferenziato di ciò che può manifestarsi.

La non-oggettivabilità dell’angoscia è effettivamente un rapporto col mon-


do, nella misura in cui essa è ciò che circonda e trascende l’orizzonte del mon-
do della vita, ciò che si trova dietro quell’orizzonte, ciò che è presente al di là
di quei confini come incessante possibilità della loro instabilità.244

Heidegger, sulla scorta di Kierkegaard,245 considera la «situazione emo-


tiva fondamentale dell’angoscia» affine e tuttavia sostanzialmente distinta
dalla paura, sempre rivolta a «un ente intramondano proveniente da una de-
terminata direzione, avvicinantesi nella prossimità, nocivo e tale da poter
essere evitato».246 Tuttavia l’angoscia – e qui Blumenberg segue Heidegger
e lo costringe a fermarsi – che teme «l’essere-nel-mondo stesso»,247 indu-
cendo alla fuga verso la deiezione, verso la «diversione» e il rifugio nella
dimensione degli enti intramondani, rende originariamente possibile la
paura, come opportunità di temere gli enti dai quali si è circondati. E que-
sta è per Blumenberg una conquista fondamentale dell’umanità. La paura
non è per lui «un’angoscia deietta nel “mondo”, inautentica e dissimulata»,248

Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, in Gesamtausgabe, II. Vor-


lesungen 1919-1944, XVIII. Marburger Vorlesung Sommersemester 1924, Vit-
torio Klostermann, Frankfurt am Main 2002, par. 17 b e ss., pp. 176-179 e ss.; Id.,
Che cos’è la metafisica?, Adephi, Milano 2001, pp. 49-51.
240 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 25.
241 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 564.
242 Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-27.
243 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 227-228.
244 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.
136.
245 Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Il concetto dell’angoscia e La
malattia mortale, Sansoni, Firenze 1991, pp. 1-102.
246 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 227.
247 Ivi, p. 229.
248 Ivi, p. 231.
Risvegli 99

ma una forma vitale di trasformazione dell’ignoto in qualcosa di familiare


e nominabile: «qualcosa viene “messo avanti” per fare di ciò che non è pre-
sente l’oggetto dell’azione diretta ad allontanare, a scongiurare, a mitigare
o a depotenziare».249 Prima del Biotopwechsel, l’animale fuggiasco cono-
sceva la paura come «carattere compulsivo» che, dinnanzi a precisi segna-
li scatenava un’immediata reazione di fuga. Non aveva ancora raggiunto
«una condizione dominante di angoscia».250 Ora la semplicità della vecchia
situazione emotiva non è più possibile: si tratta di ricrearla artificialmente
in condizioni radicalmente mutate. Innanzitutto conquistando una disposi-
zione «permanente di massima tensione del sistema organico in stato di al-
larme» e sviluppando la capacità di «assumere un atteggiamento di attesa,
di esplorativa anticipazione che si riferisce all’intero orizzonte»; ma, in un
secondo momento, riducendo lo stato di tensione tramite espedienti che
consentano di razionalizzare costantemente l’angoscia in paura, ovvero il
non familiare nel familiare.251
La tensione dinamica verso il «sentirsi-a-casa-propria» non è più intesa,
heideggerianamente, come momento transitorio da superare nell’apertura
all’Eigentlichkeit, ma come Leitmotiv antropogeneticamente fondato, le-
gittimo e irrinunciabile dell’esistenza umana, terreno di coltura altresì del-
le espressioni più sublimi e più alte dell’umanità. Lo «spaesamento» di cui
Heidegger parla è – a mio avviso – un concetto centrale per la riflessione
blumenberghiana, in gran parte volta a descrivere fenomenologicamente e
comprendere le strategie con cui, nella storia, l’uomo ha tentato di «essere
familiare con…».252
Allorché, nel «processo antropogenetico», il subominide subisce la «di-
sgrazia biologica» di perdere i fattori di «ovvietà» della propria condotta,
la gehleniana esposizione alla «profusione di stimoli», l’«essere consegna-
ti inermi al mondo privo di segnali», tutto ciò ingenera l’Angst.253 Perdute
la sicurezza e la precisione proprie dell’«arco riflesso», a vantaggio di una
nuova «elasticità»254 della coscienza, come facoltà di offrire riposte diver-
se a situazioni analoghe in base all’esperienza accumulata, l’orizzonte –
che non viene semplicemente allargato, ma realmente posto per la prima
volta – appare, da un lato, come «una soglia meramente apparente», dall’al-

249 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 28.


250 Ivi, p. 27.
251 Ibidem.
252 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 230-231.
253 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 621.
254 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 563.
100 Dialettica della caverna

tro come qualcosa di decisivo per la formazione della coscienza di un esse-


re la cui ottica si è ridotta alla prospettiva frontale. Ora che il progenitore
dell’uomo può vedere «solo in una direzione» ma «può essere visto da tut-
te», ora che l’angoscia, come «segnale del vicolo cieco» ha preso il
sopravvento,255 egli ha il compito di convertire l’orizzonte da «totalità del-
le direzioni dalle quali si deve essere pronti a veder comparire cose indeter-
minate» a «totalità delle direzioni verso le quali sono orientate anticipazio-
ni di possibilità e avvicinamenti verso di esse»;256 di assegnare
all’orizzonte «una sorta di determinatezza morfologica».257
L’uomo, «essere dell’angoscia in senso estremo», fa esperienza dell’o-
rizzonte nudo come dell’

antagonista primordiale della coscienza umana e della sua familiarità al


mondo (Weltvertrautheit), in tal senso controparte anche della ragione, in quan-
to essa è legata al concetto come anticipazione dell’ancora assente, ma defini-
to e reso possibile dall’attesa.258

È in tale contesto che la prevenzione si afferma come «quintessenza del-


la razionalità», superando l’angoscia quale «indice dell’incapacità di pre-
venzione». Da questo punto di vista, angoscia e razionalità sono «valori li-
mite antitetici», e tuttavia la seconda sarebbe impossibile senza la prima:
l’Angst, «stato d’allarme» della prevenzione a venire, ne prepara il terre-
no.259 Qui Blumenberg, ponendo l’Angst a momento intermedio che condu-
ce dal profluvio di stimoli alla dotazione razionale di forma al mondo, si di-
stanzia tanto da Gehlen quanto da Cassirer: infatti né «il “non-adattamento”
come tale» né «la “facoltà simbolica”» costituiscono l’uomo, ma «l’effetto
del non-adattamento e la causa della creazione simbolica, l’angoscia».260
L’emozione perciò, guidando verso il raggiungimento di scopi lontani, è
una delle premesse dell’actio per distans, nella misura in cui permette di su-
perare distanze spaziali mediante sequenze di azioni disposte nel tempo,
«avvicinamenti» progressivi, tenendo ferma un’identica finalità.261 E, prima
che l’emozione assuma le forme varie e moderne della passione, del deside-

255 Ivi, p. 564.


256 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29.
257 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 21.
258 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 565.
259 Ibidem.
260 F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 38.
261 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 566.
Risvegli 101

rio sessuale, della smania di possesso, della pretesa di felicità, essa, nel con-
testo della «nuda autoconservazione», si manifesta nella forma non elabora-
ta e grezza dell’«angoscia panica» ed è strettamente dipendente dall’essere
gettati nella vastità degli spazi aperti circondati dall’orizzonte, allorché la
«simbiosi originaria» con l’ambiente di provenienza è stata spezzata.262
In tal senso, orizzonte aperto e Angst sono all’origine di un altro feno-
meno, la cui trattazione è al centro di Arbeit am Mythos: l’«assolutismo
della realtà». Il salto situazionale umano è accompagnato da un insieme di
effetti definibili come manifestazioni di questa forma primaria ed elemen-
tare di assolutismo, ossia di uno stato in cui l’uomo non controlla le condi-
zioni della propria esistenza e, ancora più importante, semplicemente cre-
de di non controllarle; percepisce se stesso alla mercé del «potere
soverchiante» di ciò che è «per lui, di volta in volta, l’Altro».263 Parafrasan-
do Hobbes:

Se la stessa antropogenesi è già stata la crisi di tutte le crisi, in quanto ha


reso la non-estinzione dell’uomo un’incoerenza biologica, genera allo stesso
tempo condizioni di vita che meritano la qualifica di assolutismo, inteso nel
senso più generale possibile […], quello cioè di un assolutismo della realtà
stessa.264

Dall’angoscia originaria scaturisce il processo di attribuzione dei signi-


ficati, come occultamento e oblio di quell’angoscia stessa. Senza la consa-
pevolezza di tale processo generativo, non sarebbe possibile comprendere
la reale funzione (pratica) del significato. La significatività (Bedeutsamkeit)
ha il carattere di un «bisogno», radicato «nel fatto che noi siamo consci di
non esserci mai liberati definitivamente dall’inquietudine».265 Anche in
questo caso Blumenberg si confronta con Heidegger, elevando il piano che
questi intende oltrepassare: nel contesto di una significatività come esigen-
za vitale derivata da una condizione intollerabile, l’ideale di autenticità
proposto da Heidegger risulta inaccessibile; esso coincide con quei terrifi-
canti abissi da cui la vita tenta di allontanarsi proprio stabilendo una con-
gruenza tra ambiente e significato. «La “nuda verità” non è qualcosa con
cui la vita possa vivere»,266 per questo la dimensione della significatività

262 Ivi, p. 567.


263 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 25.
264 H. Blumenberg, Teologia politica III, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma
della modernità, cit., p. 116. Corsivo mio.
265 H. Blumenbreg, Elaborazione del mito, cit., p. 146.
266 Ibidem.
102 Dialettica della caverna

non può essere identificata con uno stadio teoretico preliminare a cui deb-
ba seguire un rapporto più autentico con ciò che si intende conoscere, ma è
una strategia volta a padroneggiare la precarietà dell’esistenza umana, una
«qualità apotropaica rispetto allo stordimento consegnato all’“assolutismo
della realtà”».267
Ai primordi dell’uomo si situa l’origine di tutte le prestazioni – non solo
tecnico-manuali – volte a «rendere conosciuto un mondo sconosciuto, deci-
frabile un’area inarticolata di dati di fatto». Questa è, nella sua prima mani-
festazione, la linea dell’orizzonte al di là del quale si stende il campo di ciò
che non è accessibile all’esperienza. «Riempire l’ultimo orizzonte, nel senso
del mitico “margine del mondo”, significa semplicemente anticipare le origi-
ni e le degenerazioni di ciò che non è familiare»,268 opporsi alla mancanza di
affidabilità del proprio mondo, all’assolutismo della realtà, approntando
«pratiche apotropaiche» basate sulla Leistung fondamentale della distanza.
E se – scrive ancora Blumenberg nel 1989, all’inizio di Matthäuspassion
– riempire «realmente» l’ultimo orizzonte, «percorrerlo» fisicamente, a
piedi, «misurarlo» attraversandolo, altro non è che un paradosso, una «me-
tafora dell’irrealizzabile», una fatica di Sisifo, poiché a ogni orizzonte illu-
soriamente raggiunto con i propri passi se ne apre uno nuovo «ugualmente
irraggiungibile»; se esiste in sostanza una «logica aperta dell’orizzonte»
che assume le sembianze di un «gioco semantico tra il conosciuto e lo sco-
nosciuto, nel quale nessuno dei due elementi è riducibile all’altro»,269 è al-
trettanto vero che l’occhio umano è l’organo che dispiega la propria indi-
spensabilità vitale proprio nella funzione di «ispezionare» l’orizzonte,
seguirlo in una delle sue direzioni possibili.270 Nell’antropogenesi l’occhio
diviene «organo dell’allungamento del passo (Ausgriff) delle funzioni or-
ganiche nell’ampiezza dello spazio».271 E ancora, a sua volta, il pensiero
supera lo sguardo, permettendo di esplorare l’orizzonte al di là del visibile:
l’intelligenza giunge laddove l’allargamento del raggio ottico non si può
spingere, il concetto offre prestazioni migliori della vista nella misura in
cui consente di superare l’orizzonte visivo.272 La declinazione dell’Angst in
Furcht, il depotenziamento dell’assolutismo della realtà, sono al contempo
processi di trasformazione dell’orizzonte in qualcosa di penetrabile quan-

267 Ivi, p. 147.


268 Ivi, p. 30.
269 A. Koschorke, Die Geschichte des Horizonts. Grenze und Grenzüberschreitung in
literarischen Landschaftsbildern, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1990, p. 81.
270 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 43.
271 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 866.
272 Cfr. ivi, p. 591.
Risvegli 103

tomeno nello spazio del pensiero. In questi termini, è vero, solo l’uomo
possiede un orizzonte in senso proprio, nella misura in cui può riferirsi
all’assente, ampliando il visibile nella direzione del pensabile273.
Con questo rivolgimento attivo, l’uomo trasforma l’orizzonte in «oriz-
zonte oggettuale» e costruisce per sé l’idea di «mondo», come il «più com-
prensivo degli orizzonti», «polidea regolativa di tutte le possibili
esperienze»,274 sullo sfondo del quale può operare l’«accentuazione» (Poin-
tierung), l’isolamento dell’oggettuale su cui si focalizzano l’attenzione e
l’intenzione.275 Il mondo, scrive Husserl nella Krisis, rappresenta per la co-
scienza l’«orizzonte universale, l’universo unitario di tutti gli oggetti»;276
Ed è l’idea di mondo – prosegue Blumenberg – che permette all’uomo di
affrontare il proprio paradossale desiderio di misurare l’orizzonte: il con-
cetto di orizzonte racchiude in sé l’ambivalenza di circoscrivere entro
un’unità visibile la molteplicità di ciò che è raggiungibile a livello senso-
riale, «indicando» così la pericolosità di un confine oltre il quale si estende
l’«eccetera» (das Und-so-weiter).277 Per «fuggire questo limite» l’uomo
cerca «nell’“orizzonte di tutti gli orizzonti” un mondo definito».278
E d’altra parte, poiché il concetto di orizzonte ha una relazione col tem-
po, nella misura in cui vicinanza e lontananza possono essere entrambe as-
sunte come metafore di passato e futuro, lo «schema ottico-spaziale» si ri-
vela efficace per la «comprensione della “realtà” che si dà nella
conoscenza e nell’esperienza vissuta»279 e l’orizzonte si configura poi nel-
la dimensione temporale universale come «storia». Poiché percorrere l’o-
rizzonte significa anche «abbracciare» tutto ciò che rientra nella posizione
che si occupa, in cui ci si intende «trasferire» con la propria comprensione,
ciò implica considerare quel che accade, che «ha luogo», ha avuto luogo o
avrà luogo, come qualcosa che sta «in primo piano» sullo sfondo di un
orizzonte temporale: a seconda di ciò che si mette a fuoco, un «orizzonte di
attesa» o un orizzonte «della memoria».280
Ogni Erlebnis ha un orizzonte intenzionale variabile a seconda delle sue
connessioni nella coscienza, sia nel momento stesso della percezione ester-

273 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., pp. 37-38.
274 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 21.
275 Ivi, p. 22.
276 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 138.
277 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., pp. 22-23.
278 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 43.
279 Ibidem.
280 Cfr. ivi, pp. 43-44.
104 Dialettica della caverna

na, sia nel ricordo corrispondente.281 A partire da ciò, l’intenzionalità e il


suo legame con la temporalità possono estendersi dalla coscienza alla sto-
ria, dotando la struttura dell’orizzonte del suo vero senso:

Ciò che è attuale in ogni esperienza può adesso essere il ricordo di un’in-
tera comunità culturale, il suo patrimonio di tradizioni, ma anche l’aspetta-
tiva rivolta al futuro che dipende da una peculiare e ben radicata coscienza
della possibilità.282

Infatti, benché la coscienza in ogni momento abbia a disposizione solo


un campo percettivo limitato, una piccola porzione di mondo e di tempo, fa
altresì parte del percepito un orizzonte dischiuso di esperienze possibili che
lo completano: «ogni campo visivo e veduta dispongono di un orizzonte
esterno aperto, che non può essere separato dall’esperienza»,283 il che fa sì
che ciò che di volta in volta è attuale si connetta in un’unità d’esperienza,
e garantisce che il mondo esperito resti sempre il medesimo.284 A Blu-
menberg – a quanto sembra – interessa appunto soprattutto l’Husserl che
estende dal piano della coscienza a quello della storia ‘universale’ quella
«costante presunzione di orizzonte».285
Blumenberg intende ripercorrere la formazione di queste strutture e del-
la stessa idea di mondo, per mostrare che la coscienza, così come la feno-
menologia la descrive, è il risultato di frangenti ed effetti legati alla Men-
schenwerdung. Grazie all’orizzonte lo sguardo umano è in grado di
intenzionare gli aspetti che non si trovano immediatamente sotto la sua vi-
suale diretta, salvo dover cedere all’indeterminatezza ciò che Merleau-
Ponty286 chiama «il contesto lontano», quella zona fatta di oggetti e ricordi
non più distinguibili, che il soggetto non può più «tenere in pugno».287 Que-

281 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 73-74.


282 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della feno-
menologia, cit., p. 22.
283 E. Husserl, Husserliana, IX. Phänomenologische Psychologie: Vorlesungen Som-
mersemester 1925, Martinus Nijhoff, Haag 1962, p. 62.
284 A tal proposito si veda E. Mazzi, I pensieri astronoetici come laboratorio per
un’antropologia sperimentale, cit., pp. 271-272.
285 E. Husserl, Phänomenologische Psychologie, cit., p. 63.
286 Sulle affinità tra le due strade rispettivamente imboccate da Blumenberg e Merle-
au-Ponty a partire dalla fenomenologia husserliana si veda O. Müller, Antrhopoli-
gische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 111; cfr. inoltre H. Blumenberg,
Beschreibung des Menschen, cit., p. 88.
287 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p.
116.
Risvegli 105

sto è esattamente il contesto che Blumenberg ‘prende alla lettera’ e proble-


matizza, situandone l’origine nella storia profonda dell’uomo.
Dal punto di vista husserliano, si tratta di «mettere tra parentesi» l’atteg-
giamento naturale ingenuo e non riflessivo tramite la riduzione fenomenolo-
gica, per accedere alla sfera della «soggettività fenomenologica trascenden-
tale» pura, non più ‘contaminata’ dal proprio essere situata nella mondanità,
per indagarne gli atti e le prestazioni;288 diversamente, per Blumenberg, la
dogmatizzazione della purezza della coscienza è uno dei problemi principa-
li della fenomenologia e ha a che fare con l’«oblio sistematico»289 della con-
dizione di esistenza e della storia dell’origine di coloro che si pongono tali
questioni e propongono determinate risposte.290 Così anche il concetto feno-
menologico husserliano di orizzonte, contestualizzato entro lo scenario an-
tropogenetico, diviene un «concetto cultural-antropologico» che definisce la
«prima cornice di orientamento» per l’uomo nonché, come «confine del
percepibile», uno dei criteri della coscienza. Con l’emergere dell’orizzonte,
la coscienza acquisisce una qualità inedita e si forma proprio come Hori-
zontbewusstsein, il che costituisce la precondizione stessa del formarsi
dell’intenzionalità.291 Infatti, «da un punto di vista antropologico/biologico
la statura eretta e l’ottica frontale sono indici sia della naturale proiezione
dell’uomo oltre i limiti spaziali, che della sua protensione oltre quelli
temporali».292 La struttura temporale della coscienza intenzionale, che rende
intellegibili gli oggetti senza permettere una totale aderenza e identità con
essi, fa sì che l’oggetto sia sempre di più, al di là e diverso rispetto alla co-
scienza, e dunque di fatto che sussista un mondo.293
Allo stesso tempo, il concetto di orizzonte così inteso rimanda alla di-
mensione dell’«intersoggettività», ulteriore elemento chiave del pensiero
husserliano e della sua rivisitazione blumenberghiana:

Un orizzonte che non posso mai raggiungere davvero, poiché si sposta insie-
me al movimento del mio corpo, ha il proprio significato precisamente per ciò
che mi nasconde, per ciò che non si è ancora mostrato come grandezza valuta-
bile; ma allora [ha il proprio significato] in termini soprattutto intersoggettivi,

288 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., pp.


104-105. Ho consultato anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenolo-
gia, Einaudi, Torino 2002, pp. 118-122.
289 O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 105
290 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 11.
291 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 148-149.
292 D. Giordano, Decentramento antropologico e neutralizzazione simbolica, in A.
Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 22.
293 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 125.
106 Dialettica della caverna

nella misura in cui altri al mio posto possono attraversare quest’orizzonte in en-
trambe le direzioni, ricavare notizie da me, trasmettermene altre.294

L’orizzonte, nella propria consistenza paradossale, si fa «soglia delle


funzioni delegate» e dunque zona di interazione intersoggettiva, laddove
per intersoggettività non si intende solo, husserlianamente, identità dell’at-
tenzione che io e altri rivolgiamo a identici oggetti, ma soprattutto «occu-
pabilità (Besetzbarkeit) di un mondo anche al di là dell’orizzonte dello spa-
zio vicino e lontano che mi circonda, dello spazio del mio tatto e della mia
visuale».295 Con l’«oltrepassabilità» dell’orizzonte l’uomo non guadagna
solo il pensiero, ma anche la condivisione dell’esperienza, nella forma non
della simultaneità, ma della delega, ossia in una dimensione in cui gli oriz-
zonti si integrano in una «realtà omogenea di fusione intersoggettiva».296
L’intersoggettività si dipana lungo linee diacroniche, nella dimensione del
tempo, come estensione della «protensione» intenzionale della coscienza
attraverso gli altri, permettendo la comunicazione e la parziale conciliazio-
ne di Lebenszeit e Weltzeit: «tra il tempo soggettivo e il tempo oggettivo,
tra il tempo della vita vissuta e il tempo del mondo» si pone il «livello di
costituzione rappresentato dalla temporalità intersoggettiva».297 L’altro è
«colui che mi sostituisce per il mio mondo», colui che poteva esserci prima
che lo percepissi e che forse «mi sopravviverà»:298 questo lo so non appena
i nostri tempi cessano di convergere e ci allontaniamo l’uno dall’altro.
Come so che il mondo, dove gli altri si muovono, mi è estraneo e indiffe-
rente, sussiste indipendentemente da me, ma al contempo che gli altri che
ne partecipano mi garantiscono proprio perciò una certa dose di obiettivi-
tà, sicurezza, memoria e, talora, speranza.
Grazie al pensiero e all’immaginazione, l’uomo ha imparato a dominare
l’orizzonte, nella relazione con l’altro è riuscito a percorrerlo, anche qualo-
ra – come i sette messaggeri di Buzzati299 – non si faccia ritorno nell’arco
del tempo della nostra vita, il messaggio andrà a depositarsi lungo il cam-
mino del tempo del mondo, e tutto questo è ciò che fin qui ci ha permesso
– entro certi limiti – di vivere e sfidare l’angoscia.

294 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 672.


295 Ibidem.
296 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 544.
297 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 331.
298 Ivi, p. 332.
299 Cfr. D. Buzzati, I sette messaggeri, in Sessanta racconti, Mondadori, Milano
1958, pp. 3-7.
Risvegli 107

2.3. Umwelt, Welt, Lebenswelt. Uomini e no

Jakob von Uexküll – riferimento ineludibile per l’antropologia filosofi-


ca novecentesca, le cui ricerche furono definite da Heidegger «una delle
cose più fruttuose che oggi la filosofia possa far propria dalla biologia»300
– descriveva l’ambiente in termini di «totalità chiusa» comprendente il
«mondo percettivo» e il «mondo operativo» di un animale:301 attraverso or-
gani percettivi e operativi il soggetto animale imprime delle «marche» al
contesto circostante, in modo tale che soltanto alcuni fattori si traducono in
«stimoli» cui seguono risposte precise e immediate da parte dell’organi-
smo. Questo significa che, rispetto alla ricchezza di ciò che sta intorno
all’animale, l’ambiente si struttura in termini di depauperamento, barattan-
do l’opulenza in cambio della sicurezza del comportamento. I «dintorni»
vengono così tradotti in un ambiente «ottimale» che se ne distingue quan-
titativamente e qualitativamente e che si interseca e sovrappone ad altri
ambienti coesistenti e differenti.302 Questi passaggi mostrano già chiara-
mente quanto feconde potessero essere le teorie di Uexküll per un’antropo-
logia filosofica che avrebbe fatto della sicurezza insita nel meccanismo sti-
molo-risposta la cifra della superiorità organica dell’animale. I «dintorni»
cui Uexküll allude altro non sono che «il nostro stesso ambiente, l’ambien-
te umano»,303 ossia il più sofisticato di quei «mondi percettivi superiori»304
in cui forma e movimento si articolano in una connessione strutturale; il
solo dominio in cui gli «obiettivi» si sostituiscono ai «piani naturali».305
Tuttavia c’era ancora bisogno di Heidegger per sancire che il contesto
umano non è solo un ambiente estremamente complesso, ma un «mondo»
dominato da regole radicalmente altre; se da un lato il mondo perde la rigi-
da sicurezza dell’ambiente, d’altro canto esso è una «struttura pervasiva»
che esclude e sostituisce completamente la possibilità umana di avere-am-
biente: «non siamo animali che hanno un po’ di mondo e un po’ di ambien-

300 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudi-


ne, Il melangolo, Genova 1002, p. 337. Per un profilo teorico essenziale del baro-
ne biologo von Uexküll e per un accenno alla ricezione filosofica della sua opera
rimando al saggio introduttivo di M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti. Uexküll,
il cane guida e la crisi dello Stato, in J. von Uexküll, Ambienti animali e ambien-
ti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata
2010, pp. 7-33.
301 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 39.
302 Cfr. ivi, p. 52.
303 Ivi, p. 55.
304 Ivi, p. 88.
305 Ivi, p. 96.
108 Dialettica della caverna

te, che in parte devono costruire i loro dintorni e in parte no, ma una forma
di vita radicalmente e totalmente mondana».306 Già Scheler, nel 1928, era
partito dagli studi di Uexküll per giungere alla celebre definizione dell’uo-
mo come «essere spirituale», «persona», tale proprio in virtù della capacità
di emanciparsi dalla pressione e dalla dipendenza dall’organico, dalla
«vita»; dunque di essere «libero dall’ambiente-proprio» e «aperto al
mondo»,307 laddove l’animale fluttua «in un’indifferenza esistenziale con
l’ambiente e il suo gruppo, in una fusione emotiva col principio vitale».308
Mentre la «struttura dell’ambiente-proprio» si trova in perfetta sintonia con
la «struttura pulsionale» e la «struttura di rilevanza significativa»
dell’animale,309 «estaticamente immerso nell’ambiente-proprio», la forma
dell’«apertura al mondo» coincide con un comportamento «capace di un
ampliamento illimitato, vasto quanto l’estensione del “mondo” delle cose
esistenti»,310 che delinea lo spazio come campo occupato da oggetti verso
cui indirizzare azioni libere. «Ovunque vada, l’animale si porta dietro l’am-
biente-proprio come una struttura di rilevanza, alla guisa di una lumaca che
si porta in giro il proprio guscio», diversamente la mondanità umana è lega-
ta a un doppio movimento di «estraniazione» e «sostanzializzazione»:311
l’uomo, sfuggito alla prigione ambientale e alla supremazia della ‘simbio-
si’, è ‘a piede libero’ nel mondo.
Un anno dopo – appunto – col corso tenuto a Friburgo nel semestre inver-
nale 1929-30,312 Heidegger ripercorre e scava più in profondità lo iato traccia-
to da Scheler tra Umwelt e Welt.313 Nella celebre definizione dell’animale «po-

306 M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti, cit., p. 20.


307 M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, FrancoAngeli, Milano 2004, p.
121.
308 Ivi, nota p. 121.
309 Ivi, p. 122.
310 Ivi, p. 124.
311 Ibidem.
312 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit.
313 Certamente non è intenzione di Heidegger aderire alla nascente antropologia filo-
sofica, la cui funzione all’interno dell’ambito filosofico reputa «oscura e indeci-
sa» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981,
p. 183). E d’altra parte anche gli autori della nuova corrente – in particolare
Plessner – rimarcano le nette divergenze dell’antropologia filosofica dalla rifles-
sione heideggeriana (cfr. B. Accarino, Tra libertà e decisione. Alle origini dell’an-
tropologia filosofica, in B. Accarino, a cura di, Ratio imaginis. Uomo e mondo
nell’antropologia filosofica, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, pp. 12-17). Tuttavia,
nonostante le dichiarazioni di estraneità, la contiguità cronologica e ‘ambientale’
ha dato indubbiamente luogo a significative contaminazioni. Anzi, a metà degli
anni ’20, la riforma scheleriana della fenomenologia aveva avuto per Heidegger
Risvegli 109

vero di mondo» allude a un «fare a meno»314 del mondo, inteso quale


«accessibilità dell’ente in quanto tale» fondata su una «manifestatività
dell’ente in quanto tale […] nella sua totalità».315 Certo, «all’animale è acces-
sibile qualcosa», il suo «modo di essere, che noi chiamiamo “vita”» entra in
relazione con il contesto in cui è immerso secondo quella forma di connessio-
ne che Uexküll chiamava appunto «mondo-ambiente». Tuttavia l’animale è
inserito nel proprio mondo-ambiente nella forma di un imprigionamento e
solo in tal senso l’ente gli è accessibile. La sua vita, il suo «specifico essere-
presso-di-sé» ha la forma di uno «stordimento»,316 di un «esser-assorbito
da…» nei cui riguardi l’ente «non è dischiuso»,317 non è fruibile nella forma
dell’apprendimento, e tuttavia non si presenta neppure come ermeticamente
chiuso: è «sospinto-verso» dagli istinti e assorbito in un «cerchio ambientale»
che ne rende possibile il comportamento. In tal senso la disposizione animale
nei confronti dell’altro è un’«apertura» nella forma della «disinibizione».318
Ma se il modo d’essere dell’animale è il «comportamento» che scaturi-
sce dalla possibilità di un «disinibente» di essere colpito da «stimoli»319
molto precisi, allora appare quantomeno dubbio che sia lecito «parlare di
un mondo dell’animale».320 In effetti l’animale non può avere un mondo, in
lui c’è «un non-avere mondo nell’avere l’apertura del disinibente».321
Diversamente, l’uomo «è posto di fronte al mondo», lo «ha» come «ciò
in cui si muove, con il quale si confronta, che domina e al tempo stesso ser-
ve e al quale è assegnato».322 E questo mondo non è solo più ricco, più este-
so e più ampio quanto a penetrazione rispetto a qualunque ambiente anima-
le, ma «costantemente ampliabile», sempre potenzialmente in espansione
in termini di vastità e decifrabilità; perciò tale «continuo accrescimento» si
può intendere come «formazione di mondo».323 L’uomo è «formatore di
mondo»,324 è il suo esser-ci a produrre, rappresentare, costituire la «totalità

grande importanza, tanto che tra i due si era instaurato un intenso dialogo filoso-
fico (cfr. J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit., pp. 55-57).
314 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 253.
315 Ivi, p. 363.
316 Ivi, p. 305.
317 Ivi, pp. 316-317.
318 Ivi, pp. 324-325.
319 Ivi, p. 327.
320 Ivi, p. 337.
321 Ivi, p. 344.
322 Ivi, p. 231.
323 Ivi, p. 251.
324 Ivi, p. 232.
110 Dialettica della caverna

unitaria»325 dell’ente accessibile «in quanto tale», dell’ente «con cui si ha


commercio».326 Al comportamento animale come «esser-capace» istintua-
le, l’uomo oppone una «condotta» che indica un «fare e agire» tuttavia fon-
dato su una disponibilità nei confronti del manifestarsi dell’ente, del-
l’«esser-sospinti», del «lasciar-essere» l’ente manifesto.327 Infatti, al di qua
di ogni eventuale asserzione e predicazione, dev’essere possibile per l’uo-
mo un’apertura pre-predicativa e pre-logica nei confronti dell’ente.328

Questo porgersi che, fondandola, accade in ogni condotta asserente – por-


gersi incontro a un ente vincolante – lo definiamo un rapporto fondamentale:
l’esser-libero in senso originario.329

Il carattere dell’«apertura-di-mondo» propria dell’uomo è dunque


l’«esser-portato-incontro»330 nella dimensione del «progetto» quale «strut-
tura fondamentale della formazione di mondo».331
Se il superamento di un antropocentrismo antropomorfico nei confronti di
tutto il vivente e la «radicale disumanizzazione della natura»332 compiuti da
Uexküll costituivano probabilmente un passaggio obbligato per un’antropo-
logia filosofica moderna profondamente contaminata dai saperi scientifici,
d’altra parte la sterzata data dal «filosofo del Novecento che si è maggior-
mente sforzato di separare l’uomo dal vivente»333 doveva essere più confor-
me a una disciplina che ha ragionato sempre attorno all’‘anomalia’ umana.334

325 Ivi, p. 363.


326 Ivi, p. 255.
327 Cfr. ivi, pp. 350-351.
328 Cfr. ivi, p. 436.
329 Ivi, pp. 437-438.
330 Ivi, p. 439.
331 Ivi, p. 464. L’interesse di Heidegger nei confronti del concetto di «aperto» si deve
all’ottava delle Elegie duinesi di Rilke: cfr. R.M. Rilke, Poesie. Nuove Poesie,
Elegie duinesi, Sonetti a Orfeo, Poesie sparse e ultime, EDIPEM, Novara 1973,
pp. 114-116.
332 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 44.
333 Ibidem. Agamben ha trattato diffusamente le tesi di Uexküll, Rilke e Heidegger su cui
anche in questa sede ci si è soffermati. Cfr. G. Agamben, L’aperto, cit., pp. 44-65.
334 In tal senso ritengo corretta la lettura di Derrida: quantomeno all’epoca del semi-
nario su Mondo, finitezza e solitudine, «il discorso heideggeriano è ancora carte-
siano» (J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, p. 205);
ossia si muove ancora nel solco di una forma di umanesimo. E la frattura profon-
da fra l’animalità dell’animale – tutto l’animale – e l’umanità dell’uomo ruota at-
torno a quella struttura dell’«in quanto tale» che Heidegger nega all’animale e
concede all’uomo (cfr. ivi, pp. 199-222). Se la successiva Brief über den «Huma-
Risvegli 111

Solo un mondo estraneo alla «stretta unità funzionale»335 della Umwelt pote-
va tradursi nello spazio di conversione della mancanza in distanza, della mi-
norità in vantaggio. L’umana arte di vivere che rende l’uomo «formatore di
mondo» non potrebbe mai prodursi nella «bolla»336 ambientale di Uexküll.
Al contempo, da quella Kunst/Künstlichkeit la vita umana dipende completa-
mente: per gli umani, almeno ab origine, «creare una struttura storico-cultu-
rale […] non è un’opzione ma una necessità biologica».337
La tesi dell’uomo formatore di mondo è stata dunque sostanzialmente
fatta propria e rielaborata dall’intera tradizione antropologico-filosofica.338
Pur senza un esplicito riferimento a Heidegger, riallacciandosi direttamen-
te alle tesi di Uexküll, Gehlen ribadisce che «il mondo dell’animale non è
il nostro».339 Anziché seguire la via heideggeriana della frattura ontologica,
introduce il concetto di «istinto» – lasciato da parte da Uexküll che prefe-
riva parlare di «arco riflesso»340 – assegnandogli un ruolo centrale nel su-
peramento di una «concezione ecologica soggettivistica»341 che ha finito
per trascurare e cancellare, nel brulicare delle differenze individuali, la di-
stinzione primaria: «si prendono le figure comportamentali originarie, au-
tenticamente istintive, degli animali, che si rapportano ad ambienti natura-
li e a loro coordinati, per le specializzazioni acquisite del comportamento»
– Heidegger direbbe della «condotta» – «che nell’uomo corrispondono a
una ricca e articolata sfera culturale».342 L’uomo è contrassegnato da «aper-
tura al mondo» e «riduzione degli istinti», cui corrisponde un grado molto
alto di «plasticità» e «instabilità».343 Appurata l’inapplicabilità del concet-
to di Umwelt all’uomo,344 Gehlen vi oppone una nozione di «mondo» de-
clinata in senso fortemente cultural-antropologico, come il «grande tutto»
che per ogni essere umano contiene «la sua società, il suo milieu culturale,

nismus» rappresenti davvero un’uscita definitiva dall’umanismo rimane per me


fonte di dubbio.
335 G. Agamben, L’aperto, cit., p. 46.
336 Cfr. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 39. A tal proposi-
to si veda anche P. Sloterdijk, Sphères, III. Écumes, Hachette, Paris 2006, pp. 52-
56.
337 M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti, cit., p. 20.
338 Cfr. ivi, p. 22.
339 A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 106. La prima edizione di Der Mensch è del 1940.
340 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., nota p. 44.
341 A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 106-107.
342 Ivi, p. 107.
343 Ibidem.
344 Ivi, p. 108.
112 Dialettica della caverna

il paesaggio che gli fa da sfondo»,345 ma rimarcando altresì come l’idea di


un mondo si dia solo e soltanto per un essere in grado di concepire il visi-
bile come «parte di un mondo non dato», di vedere «nel percepito il
percepibile»;346 vale a dire di inscrivere «ogni tipica particolare» in una «ti-
pica della totalità».347 Infine, intendendo l’apertura al mondo nei termini di
una «situazione pulsionale», come esposizione a una molteplicità di espe-
rienze, impressioni e intuizioni e «“orientabilità” delle pulsioni»348 verso
«valori lontani»,349 «verso ciò che è assente».350 Ci si avvicina sempre più
alle sfumature semantiche blumenberghiane.
Ancora un passaggio prima di approdarvi: Rothacker, con cui Blu-
menberg collabora dagli anni ’50, ai tempi dell’«Archiv für
Begriffsgeschichte»,351 fino alla morte del primo sopraggiunta nel 1965,
pubblica nel ’64 la sue lezioni sull’antropologia filosofica. Il concetto di
«distanza», come già accennato, vi occupa una posizione centrale. È nel sa-
per porre una distanza rispetto al mondo esterno e al proprio mondo inte-
riore che risiede la specificità umana. L’animale è «vincolato all’istinto»
(dranggebunden), ciò che l’attrae resta sempre nelle sue vicinanze, poiché
il vincolo istintuale è sinonimo di «vincolo al presente», «al momento»,
«alla situazione», al questo-qui-e-ora: l’orizzonte esperienziale animale è
«circoscritto» (eingeengt)352 a ciò che lo attrae praticamente, a ciò che lo
minaccia, al pericolo che incombe, e tutto questo sempre nella situazione
presente e immediata. Esso «vive solo in modo simbiotico, immediato con
le cose e i fenomeni» e non dispone di alcuno «spazio di azione (Spielraum)
per agire così o colà». Al polo opposto, l’uomo è in grado di guadagnare
una «distanza materiale» dai fenomeni, di muoversi in una dimensione

345 Ivi, p. 110.


346 Ibidem.
347 E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 34.
348 A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 384.
349 Ivi, pp. 385-386.
350 Ivi, p. 386.
351 Assieme a Gadamer e a Joachim Ritter, Rothacker è uno degli animatori del-
l’«Archiv für Begriffsgeschichte», cui Blumenberg collabora e nel cui ambito
s’inserisce anche la sua proposta metaforologica. Per alcuni cenni sulle vicende
della rivista e i rapporti fra Rothacker e Blumenberg si vedano A. Fragio, «Das
Überleben der Übergänge», cit., pp. 34-40; J. Fischer, Philosophische Anthropo-
logie, cit., pp. 134-152, 339-340, 435-438; H. Blumenberg, Nachruf auf Erich Ro-
thacker, in «Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur im
Mainz», 1966, pp. 70-76.
352 E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, cit., p. 121.
Risvegli 113

«prospettica».353 Può ritagliarsi un «intervallo» (Zwischenraum), uno spa-


zio d’azione che si dà come «apertura, libertà di movimento, distacco, alie-
nazione […], visione d’insieme, espansione»354 rispetto alla limitatezza del
mondo situato degli animali, così aderente al corpo. Solo mediante il gua-
dagno di questo «spazio di movimento», che proietta l’azione nelle molte-
plici dimensioni dello spazio e del tempo, il contesto umano diviene un
«mondo spazio-temporal-oggettivo-relazionale», un «orizzonte
relazionale».355 Il mondo, d’altra parte, si dà solo per chi è capace di guar-
dare e pensare «al di là dell’orizzonte esperito spazialmente e temporal-
mente»: esso in effetti «non è esperibile. Esperibili sono solo ambienti»,
ma è aperto per il continuamente domandante e per la coscienza continua-
mente esperente.356
Posto che, rifiutando il gesto classificatore dell’antropologia filosofica,
Blumenberg è estraneo anche alla tipica tendenza a «inventariare le diffe-
renze tra uomo e animale»,357 egli contrappone esplicitamente, nella scena
antropogenetica, l’orizzonte da cui preme tutto ciò che «può costituire il
mondo dell’uomo»358 all’«ambiente (Umwelt) fatto di segni (Merkmale)
chiaramente determinati e determinabili», descrive l’uomo come «non le-
gato a un particolare ambiente» (Umwelt),359 definisce l’ambiente (Biotop)
silvano «Umwelt ohne Horizont».360
Blumenberg utilizza ambiguamente il termine Umwelt, ora nel senso
soggettivo-trascendentale di Uexküll,361 ossia nei termini del rapporto per-
cettivo e operativo che si instaura tra un vivente e una porzione precisa di
esteriorità (l’unica alla quale ha accesso), dominato da meccanismi di sti-
molo e risposta, ora nel senso darwinistico e naturalistico di environment,
habitat naturale, Biotop, ossia come zona terrestre caratterizzata da una
specifica flora e fauna a cui determinate specie animali si rapportano in ter-
mini di adattamento.362 Per effetto – forse – della sovrapposizione tra feno-

353 Ivi, p. 111.


354 Ivi, pp. 124-125.
355 Ivi, pp. 126-127.
356 Ivi, pp. 136-137. Corsivo mio.
357 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 504.
358 Ivi, p. 564.
359 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 85.
360 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 564.
361 L’espressione «mondo subiettivo», utilizzata da Uexküll come sinonimo di
Umwelt (cfr. J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin
1909), può apparire in tal senso ancora più evocativa.
362 Anche Scheler, citando Uexküll, sostiene che il processo di adattamento non sia
riconducibile, come vorrebbero Darwin e Spencer, «a un unico ambiente uguale
114 Dialettica della caverna

menologia e antropologia, sovrappone il «mondo subiettivo»,


l’«abitazione», alla «patria».363 L’uomo abbandona l’ambiente in entrambi
i sensi: lasciando fattivamente l’ambiente-habitat foresta per la savana, che
non sarebbe il suo ecosistema di riferimento, è costretto a sostituire l’adat-
tamento con le prestazioni della distanza, il che comporta automaticamen-
te che egli non viva il suo rapporto con l’esteriorità nella forma dello stor-
dimento ambientale, ma nell’apertura percettiva dell’avere-un-mondo, che
solo le distanze della pianura e le facoltà sorte di conseguenza potevano
consentire; e ancora, geograficamente, tutto ciò fa sì che habitat peculiare
dell’umanità diventi il mondo intero, tutta la superficie terrestre, insomma
che Homo sapiens assuma le sembianze della creatura globale par excel-
lence.364
Ma tra Umwelt e Welt, benché non in senso propriamente cronologico,
Blumenberg frappone un altro concetto, quasi inafferrabile e ineffabile: il
concetto di Lebenswelt.365

La costituzione preventiva dell’uomo sta in rapporto con l’incostanza dell’o-


rizzonte del suo mondo della vita, in particolare del suo mondo della vita più
remoto, che va sempre visto come di passaggio tra un ambiente biologico che
funziona automaticamente e un mondo della vita premodale, contrassegnato
dall’ovvietà ma non universalmente protetto.366

Venire a capo di queste sottili distinzioni è tutt’altro che semplice.


«In termini fenomenologici», scrive Blumenberg, «mondo-della-vita» è
«il concetto contrario al mondo “della scienza obiettiva”».367 E, per Hus-
serl, ha un duplice significato, «storico» in quanto stadio germinale del
«mutamento dell’atteggiamento teoretico» e «astorico» come strato fonda-

per tutti gli esseri viventi» (M. Scheler, Gesammelte Werke, X. Schriften aus dem
Nachlaß, I. Zur Ethik und Erkenntnislehre, Bouvier, Bonn 1957, p. 312).
363 Cfr. A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 104-105.
364 Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit.
365 «Centauro concettuale» ben più ostico di quanto possa apparire, a detta dello stes-
so Blumenberg (H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 32),
che coniuga in sé la già discussa componente del «mondo» quale «integrazione di
totalità ed evidenza rispetto all’atteggiamento teoretico» e della «vita» intesa in
termini di «esistenza» piuttosto che di flusso vitale (ivi, p. 33), ma riferita in ogni
caso non alla dimensione soggettiva bensì alla «realtà come essa è innanzitutto e
per lo più». Ivi, p. 35.
366 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.
136. Corsivo mio.
367 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 656.
Risvegli 115

mentale della vita sempre compresente alla teoresi.368 Blumenberg mantie-


ne la duplicità del concetto, distinguendo tra la Lebenswelt originaria, po-
sta al principio della vicenda umana, e le Lebenswelten che
incessantemente si danno nel corso di questa storia. Tuttavia – come appa-
re chiaro già da questi passaggi – lo scarto dalla formulazione husserliana
è consistente e motivato dalla convinzione che si tratti di un’impostazione
teorica insufficiente, poiché lascia aperta l’ineludibile domanda su «quali
siano i presupposti per poter avere un mondo della vita», ovvero un mondo
«dotato di grande stabilità», di una «costanza fissa»369 nonostante le diffe-
renze di contenuto che sussistono tra mondi-della-vita. È perciò lecito, anzi
doveroso, chiedersi: si tratta di una categoria antropologica?370 Lo è, ri-
sponde Blumenberg, nel caso in cui la utilizziamo «a partire dal fatto che è
un essere dagli “adattamenti perduti” quello a cui viene attribuita».371 L’uo-
mo è «l’essere circondato dall’ovvietà (Selbstverständlichkeit). Non po-
trebbe vivere se dovesse studiare a fondo tutto ciò su cui si basa la possibi-
lità della sua esistenza. Egli proviene», deriva, trae origine (herkommt)

dalla lontana naturalezza (Selbstverständlichkeit) che nel linguaggio biolo-


gico si chiama “adattamento” e, dopo che ha dovuto completamente perdere

368 A. Borsari, L’«antinomia antropologica». Realtà, mondo e cultura in Hans Blu-


menberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 386. Blumenberg
parla a tal proposito di un’oscillazione di Husserl tra una Lebenswelt intesa in sen-
so «protologico», come «preistoria della coscienza», e una Lebenswelt «ipologi-
ca» come sottostruttura quotidiana di familiarità non tematizzate, che accompa-
gna e a cui attinge ogni processo esplicito (cfr. H. Blumenberg, Beschrebung des
Menschen, cit., pp. 814-815).
369 Ivi, p. 656.
370 Anzi – scrive Blumenberg in Beschreibung des Menschen – proprio il tema della
Lebenswelt sarebbe il punto d’applicazione di un’antropologia fenomenologica,
poiché è impossibile apprestarsi a una descrizione del mondo della vita prescin-
dendo dall’essere vivente che si suppone abiti quel mondo. Husserl tuttavia non
ha saputo procedere in questa direzione, proprio perché il suo concetto di Le-
benswelt è rimasto a tutti gli effetti «formale» (ivi, p. 814), dal momento che egli
non intendeva veder altro se non la sua «chiusura», per volgere il proprio interes-
se tematico verso «le fasi della sua rottura» (ivi, p. 816). Ma allora, sostiene Blu-
menberg, una Lebenswelt siffatta «non avrebbe mai potuto diventare tema di una
fenomenologia» (ibidem), poiché fungeva unicamente da «formazione ipotetica
di un cominciamento» a partire dal quale la fenomenologia appare come stadio
conclusivo conseguente, senza che i concetti di vita e mondo siano in alcun modo
relati all’«essere vivente uomo» (ibidem).
371 Ivi, p. 656.
116 Dialettica della caverna

quella, se ne costruisce continuamente una nuova nelle regolamentazioni e nel-


le forme di affidabilità fatte ad arte della sua cultura.372

Partiamo dunque con l’analisi del primo corno del concetto, quello che
lo intende in senso storico-genetico. In realtà, l’uomo deriva dalla natura-
lezza dell’adattamento, ma come tale non è mai stato là. Dal primo germi-
nare del Menschheitsprinzip si trova già fuori di essa. La stessa Lebenswelt
remota non è propriamente da confondersi con un’Umwelt, perché – scrive
Blumenberg parafrasando Wittgenstein – un mondo della vita non è «tutto
ciò che accade (was der Fall ist)»373 e nemmeno «una parte definita o defi-
nibile di ciò che accade».374 Soprattutto, la Lebenswelt non è un ambiente
poiché non ne conserva il carattere esiziale:

In un ambiente i rapporti tra segnali e reazioni, tra fattori scatenanti e modi


di comportamento sono rigidamente determinati. Un ambiente è un complesso
costante all’interno del quale, quando i rapporti tra segnali e reazioni non fun-
zionano, non ci può essere delusione o mancanza, ma solo la morte. Per contro,
il mondo della vita è una regione definita dal fatto che in essa le delusioni non
hanno bisogno di essere mortali.375

Il preominide è in transito tra la forma di vita animale e quella compiu-


tamente umana. Quali sono dunque le caratteristiche della Lebenswelt?
I mondi della vita antepredicativi sono anzitutto «mondi estranei», «pre-
dicativamente chiusi», mondi «nei quali su di essi nulla si può dire»376 e
fuori dai quali ogni predicazione è insufficiente e congetturale. Tra questi,
il mondo della vita preistorico, «primario», è più correttamente da inten-

372 Ibidem.
373 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.
135. Il riferimento è alla prima tesi del Tractatus di Wittgenstein, che – come noto
– recita esattamente: «il mondo è tutto ciò che accade» (cfr. L. Wittgenstein, Trac-
tatus logico-philosophicus, cit., p. 5). Non un mondo della vita abitato da eviden-
ze premodali, ma solo un «mondo» accessibile a forme di rischiaramento e mec-
canismi di delega è concepibile come «tutto ciò che accade» (cfr. H. Blumenberg,
Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., pp. 138-139). Per
quanto riguarda il confronto di Blumenberg con Wittgenstein si vedano, tra l’al-
tro, H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 579-605; Id., Außer dem, was
der Fall ist. Beobachtungen an Wittgenstein, in «Neue Zürcher Zeitung»,
21.4.1989, pp. 65-66; Id., Lebensthemen, Reclam, Stuttgart 1998, pp. 120-121.
374 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.
135.
375 Ibidem.
376 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 39.
Risvegli 117

dersi come «prestorico»,377 avendo con ciò in mente più che un preciso mo-
mento della nostra storia profonda, quella dimensione posta «al di sotto
della soglia di percezione di una vita individuale e di una generazione
intersoggettiva»378 e al di qua della storia come «separazione di aspettativa
ed esperienza».379 Una dimensione priva del carattere fatale dell’ambiente,
ma che non sa ancora nulla del rivolgimento attivo e preventivo con cui
l’uomo costruisce l’idea di mondo come orizzonte di tutti gli orizzonti e
sfondo di un’attenzione oggettivante. «Non c’è stata […] una “storia del
mondo nell’età della pietra”»,380 ma possiamo servirci del concetto di Le-
benswelt per comprendere come «ciò che è» sia divenuto «ciò per cui esso
si dà»;381 in termini antropogenetici: che cosa l’uomo abbia dovuto perde-
re e acquisire per divenire tale. Poiché qui ci figuriamo esattamente «l’uo-
mo nel suo mondo nel punto in cui compare il suo bisogno di teoria, come
compensazione dell’inevitabile perdita del mondo della vita».382
Si può immaginare il primo mondo della vita come «una sfera di perma-
nenti presenze»383 al di qua di ogni mezzo approntato per cogliere l’assen-
te (concetti e simboli, giudizi e inferenze), una «fase iniziale in cui per
l’uomo l’assente non era soltanto indifferente, non era soltanto per lo più
sconosciuto, ma nemmeno rappresentabile».384 In altri termini, se l’intrec-
cio dello spettatore col mondo ha il carattere della «distanza dal mondo»
(Weltdistanz), il mondo della vita è un «mondo che non ha nessuno
spettatore».385 Rispetto alle Umwelten delle altre forme di vita organiche, il
mondo della vita umano è sì anch’esso «definito dalla propria capacità fun-
zionale», ma

ha sempre contorni indistinti alle sue periferie, è sempre leggermente mute-


vole, per così dire sfilacciato tra la sua ovvietà (Selbstverständlichkeit) costan-

377 Così infatti Bruno Argenton traduce il termine «vorgeschichtlich» nell’edizione


italiana di Tempo della vita e tempo del mondo.
378 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 82.
379 Ivi, p. 83.
380 Ibidem. Il riferimento è a O. Menghin, Weltgeschichte der Steinzeit, Schroll &
Co., Wien 1931; citato anche da Husserl nella Krisis.
381 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 46.
382 Ivi, p. 47.
383 Ivi, p. 49.
384 Ivi, pp. 49-50. Traduzione lievemente modificata.
385 H. Blumenberg, Wie man Zuschauer wird, in Ein mögliches Selbstverständnis,
cit., p. 104.
118 Dialettica della caverna

te e le invasioni dello sconosciuto – dunque di ciò che accade (was der Fall ist),
ma non era ovvio.386

Si potrebbe dire che, se nella chiusura degli ambienti animali il mondo


rimane sempre inaccessibile, nell’instabilità della Lebenswelt il mondo ul-
teriore preme e si fa avanti continuamente. Il processo con cui si entra nel
mondo equivale a «far sorgere il mondo» e «uscire da ciò che esso non è o
non è ancora».387 Il mondo «non esiste da sempre»,388 bensì «diventa tale,
nella misura in cui l’entrata/uscita verso di esso si apre, si raggiunge, si
rende praticabile».389 L’ambiente non può mai tradursi in un mondo, il
mondo della vita deve sempre, inesorabilmente, esaurirsi per lasciare spa-
zio a un mondo. Dunque tra «patrie»390 animali e umane sussistono diffe-
renze specifiche.
Se l’adattamento ambientale consiste nella «precisione dell’interdipen-
denza di informazione e comportamento», volgersi verso di esso per sugge-
rire un’analogia con la Lebenswelt originaria aiuta a comprendere come gli
strumenti logici di cui l’uomo dispone non costituiscano per lui nulla di
dato, non siano insomma «l’idealistico appannaggio dell’essere razionale
“uomo”».391 Al contrario si trattò, una volta perduto il mondo della vita, di
«riparare o evitare interruzioni di coerenza»392 dovute alla cancellazione del
«parco dei vissuti».393 E si tratta, per una fenomenologia antropo-genetica,
di indagare come abbia avuto luogo tale trasformazione, tale cancellazione.
Lo sconosciuto che «insorge alla periferia» della Lebenswelt viene con-
tinuamente captato/intercettato/neutralizzato (aufgefangen) tramite «azioni
di superamento» che significano già un abbandono della Selbstverständli-
chkeit: attribuzione di nomi, integrazione metaforica, infine subordinazione
e classificazione concettuale, insomma appunto Umwegigkeit.394 L’univer-
so emozionale composto dai processi di stupore, spavento, orrore, paura oc-
cupa il «margine del mondo della vita» da cui si dipartono tutte le strategie

386 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.


135.
387 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 9.
388 B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 336.
389 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 9.
390 Cfr. B. Waldenfels, In den Netzen der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt am Main
1985, p. 194.
391 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 64.
392 Ibidem.
393 Ivi, p. 65.
394 Cfr. M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 267.
Risvegli 119

di superamento come «possibilità di influenzare attraverso azioni».395 L’an-


goscia si situa sulla linea dell’orizzonte della Lebenswelt come «ciò che sta
al di là dei suoi confini».396 Il mondo della vita è «un mondo dell’incipien-
te dividersi (Auseinander), della dissociazione nascente: l’istante (Au-
genblick) del passaggio dall’unità al dualismo».397 Il mondo inteso come re-
altà coriacea, ‘capricciosa’ e ostinata, contrapposta al soggetto costretto a
farvi fronte, sorge dalla dissoluzione del mondo della vita.

La storia [dell’] assolutismo [della realtà] comincia quando ci rendiamo


conto di esso: quando viene in “vita” ai margini del “mondo della vita”. Ad un
certo punto questa “mancanza di riguardi” del mondo verso ognuno, non solo
verso le vittime del suo speciale sfavore, fu scoperta e sopportata – un primo
giorno del realismo.398

Il mondo che l’umanità ai suoi albori guadagna sarebbe quindi un mon-


do-della-vita. Detto ciò,

l’uomo lascia il mondo-della-vita, l’“universo delle ovvietà pre-date”, die-


tro di sé, da quando riempie di senso, interroga in cerca del senso ciò che sen-
za dubbio esiste, ciò in cui si confida, ciò che è conosciuto – e proprio per que-
sto anche ciò che è sconosciuto. Dal tempo dei greci l’ovvietà si tramuta in
comprensibilità nel processo della curiosità teoretica.399

Ma allora c’è stato un tempo della Lebenswelt remota? Dove e quando


è questa Lebenswelt? Ha una durata? Coincide con uno stadio della no-
stra preistoria? Si vede che queste domande non sono oziose, dato che in
effetti Blumenberg stesso propone tre alternative in merito all’esegesi del
mondo della vita come ipotesi sull’origine: «può essere stato l’istante più
fugace della storia dell’umanità: l’innocenza – già in pericolo nel mo-
mento in cui viene all’esistenza – di una modestia che si accontenta di ciò
che è dato, forse congiunta con la prima angoscia di fronte al non dato».400
Transizione quasi impercettibile dall’ambiente animale al mondo. Oppu-

395 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.


135.
396 Ivi, p. 136.
397 M. Sommer, Lebenswelt und Zeitbewusstsein, Suhrkamp, Frankfurt am Main
1990, p. 7.
398 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 82.
399 M. Meyer, Figuren der Lebenswelt. Bücher von Hans Blumenberg, in «Merkur»,
n°36/11, 1982, p. 1115.
400 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 50.
120 Dialettica della caverna

re potrebbe aver rappresentato «la condizione normale di questa umanità


per lunghi spazi di tempo, nei quali le sue forme di vita restarono
immutate».401 Forse il tempo degli knuckle walker, delle forme pre-uma-
ne che cominciavano le proprie escursioni dalla foresta in via di erosione
verso la savana? Infine, ci si potrebbe accontentare di introdurre il con-
cetto di Lebenswelt «semplicemente a titolo di ipotesi», pensare «un
mondo caratterizzato da un adattamento ottimale della coscienza alle si-
tuazioni e alle esigenze determinate da fattori reali» come postulato, mo-
dello su cui studiare «tanto le possibilità che esso contiene, quanto l’im-
possibilità della sua conservazione». 402 Dunque un dispositivo
concettuale – o meglio, metaforico – per illustrare «i dintorni
(Umgebung)403 di un soggetto nel quale poteva sorgere, per opera di vis-
suti descrivibili, qualcosa che poi, a partire dalla sua originaria funzione,
si trasformava in una attrezzatura di strumenti predicativi per chiarire
“situazioni”».404 Cioè per dar conto della processualità del soggetto,
dell’emergere della coscienza come «frattura» e dunque episodio di una
storia; per mostrarla non come qualcosa di dato, ma come l’esito di una
situazione profondamente instabile. Anche grazie all’introduzione di mo-
tivi vitalistici legati a una «metaforica della fonte»,405 il concetto di Le-
benswelt è in grado di condurre la fenomenologia a una feconda
«autoriparazione»: 406 da un’«eidetica statica» a una «genetica
dinamica»407. Così, improvvisamente, da un lato «la teoria del mondo-
della-vita è anche già un pezzo di filosofia della storia»,408 dall’altro

401 Ibidem.
402 Ibidem. Anche Barbara Merker – commentando questo passo – rileva come Blu-
menberg «non voglia escludere che una vita priva di delusione sia stata una volta
in passato possibile» (B. Merker, Bedürfnis nach Bedeutsamkeit. Zwischen Le-
benswelt und Absolutismus der Wirklichkeit, in F.J. Wetz, H. Timm, a cura di, Die
Kunst des Überlebens, cit., p. 74).
403 Qui Argenton traduce «ambiente», ma io ritengo più corretto – proprio ai fini del
presente tentativo di orientarsi in questa complessa e fluida costellazione concet-
tuale e terminologica – attenersi alla distinzione lessicale e semantica introdotta
da Uexküll tra «ambiente» (Umwelt) e «dintorni» (Umgebungen).
404 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 53.
405 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 71. A proposito della «meta-
forica della fonte» si veda in particolare H. Blumenberg, Quellen, U. von Bülow,
D. Krusche (a cura di), Deutschen Literaturarchiv Marbach, Deutsche Schillerge-
sellschaft, Marbach am Neckar 2009.
406 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 51.
407 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 71.
408 Ivi, p. 72.
Risvegli 121

«l’autocoscienza della fenomenologia» s’inscrive «entro la storia della


filosofia».409
Ma allo stesso tempo, una fenomenologia così intesa offre lo spunto per
un’ulteriore antropologizzazione. Infatti, per dar conto delle «transizioni
pre-predicative verso forme originarie della negazione e della moralizzazio-
ne» bisogna presupporre una «fragilità della relazione immediata con l’am-
biente (Umweltbeziehung)»410 della soggettività a esse predisposta. Occorre
aver spezzato la sicura circolarità dell’ambiente. Poiché tale fragilità è
tutt’altro che ovvia, essendo tutt’altro che ovvio il fatto che la conformità di
ambiente e prestazione organica sia stato «disturbato», sorge legittimamen-
te la domanda su come un simile essere organico si sia prodotto entro il con-
testo dell’evoluzione e sia mutato in modo da potersi esporre a tali vissuti
(Erlebnisse) prepredicativi, ovvero vissuti dotati di un campo di esperienza
(Erfahrungsfeld) variabile sottoposto a continue interruzioni di familiarità.
I vissuti del mondo della vita che preludono e conducono alla qualità ne-
gativa del giudizio e alla modalizzazione sono già

disturbi nello stato di normalità dell’adattamento, acutizzazioni della dipen-


denza da un’elaborazione costante di esperienza per mezzo dello strumentario
logico.411

La coscienza è dovuta venire a capo del «crollo del mondo-della-vita


quale universo originario (o primitivo) delle ovvietà»412 segnato da una vo-
lubilità che l’ambiente non conosce. Questa sembra essere la strada erme-
neutica che Blumenberg predilige. La Lebenswelt come «regno di eviden-
ze originarie» è proprio perciò «un regno di grande predisposizione verso
ciò che porta discrepanza tra le evidenze» e dunque «ha una struttura di au-
to-decadimento».413 Improbabile allora che prima della sua storia, esatta-
mente quanto nella «quotidianità» durante la sua storia, sia stata concessa
all’uomo la «continuità del soggiorno»414 nel mondo della vita.

409 H. Blumenberg, The Life-World and the Concept of Reality, in L.E. Embree (a
cura di), Life-World and Consciousness. Essays for Aaron Gurwitsch, Evanston
1972, p. 430. L’articolo è stato ripubblicato in lingua tedesca in H. Blumenberg,
Theorie der Lebenswelt, cit., pp. 157-180.
410 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 73.
411 Ibidem.
412 Ibidem.
413 Ivi, p. 83.
414 Ibidem.
122 Dialettica della caverna

Insomma, indescrivibile, di difficile collocazione nello spazio e nel tem-


po, di incerta durata che sia, Blumenberg non rinuncia del tutto a situare,
storicizzare e naturalizzare la Lebenswelt (soprattutto in quei testi più di-
chiaratamente interessati a una dimensione antropologica): anche in Selb-
stverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, in riferimento all’as-
sunzione della postura eretta, afferma che «prima che il mondo della vita
potesse mai essere abbandonato, è stato abbandonato, trasceso l’ambiente
(Umwelt)».415
D’altra parte Blumenberg è «pienamente consapevole della refrattarietà
del concetto di “mondo della vita” a lasciarsi maneggiare in modo filosofi-
camente univoco» e – secondo Accarino – lo tratta infatti per lo più come
un «concetto limite»,416 dunque incollocabile per definizione. Perciò, an-
che qualora s’intenda il concetto di mondo della vita ‘in salsa blumenber-
ghiana’ come sostanzialmente aderente al «mondo naturale, primitivo, qua-
le è esistito precedentemente alla prima assunzione dell’atteggiamento
teoretico specialmente grazie ai Greci»,417 resta sostanzialmente impossibi-
le fissarlo in un punto preciso della storia. Anche nella sua torsione storico-
antropologica, resta soprattutto «un concetto trascendentale».418 In effetti il
mondo della vita blumenberghiano sembra di fatto un «non luogo», una di-
mensione in cui non ci veniamo mai a trovare perché ci espelle incessante-
mente da sé. Ciò in quanto l’«“atteggiamento” descrittivo» stesso sorge
solo laddove la Lebenswelt tramonta, cosicché «non si danno “storie del
mondo della vita”» ma al limite congetture postume intorno al «ricordo» di
qualcosa che dev’esser già sempre stato abbandonato per diventare ogget-
to di teoresi.419 Il mondo della vita «“desunto” fenomenologicamente»420 è
– secondo Blumenberg – una deduzione, un’ipotesi sullo stato iniziale del-
la storia immanente della logica. Presupposto ipotetico di cui una fenome-
nologia genetica non può fare a meno, esso è «una condizione da sempre
abbandonata», nei confronti della quale «in gioco è sempre anche una fuga
o una cacciata da una familiarità col mondo probabilmente insostenibile»,

415 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p.


142.
416 B. Accarino, La ragione insufficiente. Al confine tra autorità e razionalità, Mani-
festolibri, Roma 1995, p. 144.
417 G. Brand, Die Lebenswelt. Eine Philosophie des konkreten Apriori, de Gruyter,
Berlin 1971, p. 17.
418 H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 79.
419 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 37.
420 Cfr. ivi, pp. 69-70. Sulla Lebenswelt come concetto limite si veda l’introduzione
all’edizione italiana di Gianni Carchia, pp. 9-15.
Risvegli 123

all’inseguimento di una familiarità del mondo che ci si attende sostenibi-


le.421 Al termine della ‘ruminazione’ blumenberghiana, il concetto husser-
liano di Lebenswelt mostra contorni mutati in cui sembra echeggiare una
dialettica impossibile tra «vita» e «forma».422 Perciò più che un mondo –
anteriore, compresente o ulteriore che sia – la Lebenswelt così intesa è
«l’“idea” di un mondo», dotata di una «sua quasi trascendenza»: chi vi fos-
se immerso, non ne saprebbe nulla, chi ne sa qualcosa, non può farvi in-
gresso o ritorno.423 La domanda che dà il titolo al paragrafo della prima par-
te di Beschreibung des Menschen, dedicato al concetto di Lebenswelt: «il
mondo della vita: un tema per chi ci vive?»424 sembra a tutti gli effetti reto-
rica.
Secondo Stoellger, il concetto blumenberghiano di Lebenswelt è stretta-
mente connesso alla costruzione di una metaforologia e non è formulato né
propriamente – à la Husserl – in termini trascendental-teoretici, né – à la
Schütz425 – cultural-sociologici, né – habermasianamente – secondo i crite-
ri di una teoria della comunicazione.426 Tuttavia, nella distinzione tra mon-
do-della-vita inteso al singolare e «mondi-della-vita» al plurale,427 così
come essa è delineata in Lebenszeit und Weltzeit, il primo termine denomi-
na «un ipotetico terminus a quo della storia quasi-trascendentale»,428 men-
tre il secondo fa riferimento ai mondi della vita culturali e storici.429
In Blumenberg, proprio la tonalità ‘traumatica’ del distacco dalla ‘prima
Lebenswelt’ – assente in Husserl – determina lo statuto dei mondi della vita
che sempre ci accompagnano. Si potrebbe dire che la ‘compresenza’ hus-
serliana diviene qui ritorno del rimosso in forma conflittuale e plurale. La

421 Ivi, cit., p. 70. A tal proposito si veda anche J. Kirsch-Hänert, Zeitgeist, cit., pp.
114-121.
422 Cfr. G. Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Edizioni Scien-
tifiche Italiane, Napoli 1997.
423 Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 76.
424 Cfr. H. Blumenberg, Die Lebenswelt: ein Thema für den, der in ihr lebt?, in Be-
schreibung des Menschen, cit., pp. 70- 92.
425 Cfr. A. Schütz, T. Luckmann, The Structures of the Life-World, I-II, Northwestern
University Press, Evanston 1973-1989.
426 Cfr. P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 257.
427 Come anticipato, al di qua del concetto genetico di cui si è discusso fin qui, vi
sono – come ora si vedrà – pseudo-mondi-della-vita «substorici» che corrispondo-
no ad altrettanti tentativi di ricostruire sfere di familiarità e ovvietà.
428 P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 257.
429 E in tal senso i mondi-della-vita possono essere intesi effettivamente – in accordo
con Husserl, ma insistendo sulla molteplicità, nonché su una loro compromissio-
ne con la dimensione tecnica e culturale dell’esistenza umana – come «le realtà in
cui viviamo». Cfr. Ibidem.
124 Dialettica della caverna

Lebenswelt originaria, comunque intesa, doveva essere abbandonata già


con l’incarnazione della struttura dell’esserci umano nell’«antagonismo
del ‘preominide’ tra vita e mondo».430 Ce la siamo dunque lasciata per sem-
pre alle spalle? Non è così: da quel momento l’intenzionalità doveva dive-
nire il «germe del mondo della vita»431 e della sua «strada lungo la storia»,432
poiché «la genesi [dei] mondi della vita culturali sostituisce la perdita del-
la (mai ‘avuta’ [secondo Stoellger]) origine»,433 a partire dalla situazione di
carenza immediatamente successiva. Il mondo della vita originario si situa
al di qua della dinamica antagonistica dell’intenzionalità che dà vita alle
Lebenswelten «quotidiane-substoriche» di tipo «secondario»434 e che, a
loro volta, testimoniano di quella «tendenza verso un mondo con la qualità
definitiva di mondo della vita»435 (Tendenz auf finale Lebensweltlichkeit)
che è il «movente genetico»436 stesso della cultura. Anche il «realismo»
sorge come effetto della «lesione» e della distruzione del mondo della
vita,437 dalla sua precipitazione nel «substorico» (e dalla sua persistenza
«spettrale» nel desiderio incessante di restaurarlo),438 in seguito alla quale
il mondo assume quella specie di «senso proprio» e si impone come «real-
tà effettiva» priva di «riguardo» per le aspettative del soggetto.439 E tutta-
via, proprio per l’insostenibilità di un realismo senza sconti, la storia che
comincia con l’abbandono della Lebenswelt non è una storia di emancipa-
zione compiuta e definitiva. Essa si dipana anzi come vicenda incessante di
«distruzione» e «ristruzione» del mondo della vita, laddove le «costanze
substoriche», questi «mondi parziali» che ‘somigliano’ a un mondo della
vita («mondi del lavoro e della festa, della domesticazione e
dell’urbanità»),440 svolgono esattamente la funzione di rimediare alla «no-
stra solitudine nell’intervallo tra i mondi della vita», quello ipotetico degli
inizi e quello utopico della fine, tra la distruzione mai completamente com-

430 Ivi, p. 258.


431 M. Sommer, Lebenswelt und Zeitbewusstsein, cit., p. 64.
432 P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 258.
433 Ivi, p. 259.
434 Ivi, p. 260.
435 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 81.
436 P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 261.
437 Per un approfondimento di questo passaggio si veda B. Merker, Bedürfnis nach
Bedeutsamkeit, cit., pp. 81-82, nota 24.
438 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 83.
439 Ivi, p. 84.
440 Ivi, p. 80.
Risvegli 125

piuta e la ristruzione sempre in corso. La «quotidianità» non è che «una


specie di prosecuzione del mondo della vita».441
Ricapitolando, e tornando a Beschreibung des Menschen e alle sue
nuances antropologiche:

In un senso più che storico-economico, l’uomo è un essere nomade, le cui


origini risalgono alla scomparsa delle foreste pluviali del terziario e le cui pe-
regrinazioni in tutto il mondo stavano sotto la pressione selettiva delle ere gla-
ciali. Nessun mondo-della-vita emergente si può conservare, e ciò rende neces-
sari mezzi più astratti per affrontare l’esperienza. Ma ciascuno di questi mezzi
mira all’elusione del tipo di imbarazzo dalla cui evasione esso proviene. Au-
mentando la tolleranza di ciò che è sopportabile, esso conserva la tipica di ciò
che è ammesso. Al posto delle familiarità costanti sorgono orizzonti di attendi-
bilità, all’interno dei quali anche il cambiamento è avvertito come ovvio. La
scienza è perciò in gran parte volta a ristabilire mondi-della-vita, poiché confe-
risce alla realtà lo status dell’attendibile. Ci si può immaginare uno stadio limi-
te dell’applicazione della scienza, nel quale l’uso della negazione e della mo-
dalità diverrebbe nuovamente superfluo: il definitivo ritorno al
mondo-della-vita e dunque anche all’impossibilità definitiva del fenomenolo-
go. Questa riflessione rende chiaro come egli non possa affidare la scienza po-
sitiva al suo compimento immanente, ma naturalmente solo all’approssimazio-
ne a esso, addirittura solo a quella pensata.442

Il primo mondo della vita culturale ‘postlapsario’443 è la caverna.

3. Discesa nelle caverne (Homo symbolicus)

Strappato alla foresta pluviale del terziario, raggiunte le steppe in espan-


sione, appreso il vantaggio ‘obbligato’ dell’andatura eretta, per innescare il
«progresso nell’aperto delle savane», l’uomo aveva altresì bisogno di un
«ritiro»; per tener fede al «precetto dell’autoconservazione», doveva porsi
in un «duplice atteggiamento nei confronti della realtà»444 e garantire al suo
«essere esposto» un riparo. Fu così che, in cerca di nuovi rifugi per il ripo-
so e per la prole che sostituissero il guscio protettivo della foresta, l’uomo

441 Ivi, p. 81.


442 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 84.
443 Blumenberg dedica pagine bellissime di Lebenszeit und Weltzeit al mito della cac-
ciata dal Paradiso terrestre, come rappresentazione dell’uscita dal mondo della
vita e della divaricazione tra tempo della vita e tempo del mondo: cfr. H. Blu-
menberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., pp. 91-95.
444 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 615.
126 Dialettica della caverna

incontrò la caverna, divenne cavernicolo. «Nella formula “cacciatori e ma-


dri” è compreso il superamento della perdita della vecchia sicurezza nel se-
greto della foresta primordiale».445
Perciò, immaginare una «preistoria “senza caverne”» sarebbe illogico e
inaudito: mai una creatura nuda e indifesa come l’uomo avrebbe potuto so-
pravvivere dormendo liberamente ai piedi degli alberi.446
E in effetti, in un certo senso, è andata così: nel Vecchio Continente, scos-
so dalle glaciazioni, Homo neanderthalensis – apparso 300-250.000 anni or-
sono – allestiva notoriamente i propri accampamenti all’ingresso delle grot-
te, abitudine che gli valse il titolo di ‘uomo delle caverne’ per antonomasia.
Ma anche l’uomo anatomicamente e intellettualmente moderno – meglio
noto come Cro-Magnon –, giunto in Europa circa 40.000 anni fa, viveva
spesso presso l’entrata di caverne, le cui profondità utilizzava – come si ve-
drà – per altri scopi.447 Come si può ben notare, Blumenberg comprime nel-
la narrazione momenti straordinariamente distanti della «storia profonda»
dell’antropogenesi. In ogni caso, anche all’epoca delle caverne (se di una tal
cosa si vuol parlare, includendo un arco temporale di centinaia di migliaia di
anni), queste ultime non furono mai dimore stabili, bensì rifugi abitati in
modo sporadico e fugace da popoli di cacciatori e raccoglitori448 ‘in transito’
non solo in senso letterale-spaziale, ma evolutivo: creature ancora in cam-
mino verso una forma di vita più sedentaria, in cui le sistemazioni non sa-
rebbero state più cercate nell’‘offerta abitativa’ della natura, ma costruite se-
condo le proprie necessità. ‘Cavernicolo’, dunque, è un «costrutto», la
figura estremamente semplificata di una storia cominciata ben prima e pro-
seguita, anche ai tempi delle caverne, nella forma della «transumanza».449
Rispetto al celebre mito platonico e alla credenza – riportata sempre da
Platone nel Protagora450 – in un’origine ctonia del genere umano, forgiato
dagli dèi nel grembo sotterraneo e tratto alla luce dalle viscere della terra, le
caverne si pongono semmai come una tappa intermedia preceduta da una

445 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-26.


446 Cfr. Uscite dalla caverna, cit., pp. 399-400. Il riferimento è, rispettivamente, a
H.S. Reimarus, Die vornehmsten Wahrheiten der natürlichen Religion, VII, par. 3,
in H.S. Reimarus, Gesammelte Schriften, II, Vanderhoeck & Ruprecht, Göttingen
1985, p. 566; e naturalmente J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti
dell’ineguaglianza tra gli uomini, Editori riuniti, Roma 2002 e Id., Il contratto so-
ciale, Einaudi, Torino 2005.
447 Cfr. I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp. 11-30.
448 Cfr. B. Accarino, La caverna di Blumenberg. Il lungo apprendistato alla moder-
nità, in «Il Manifesto», 2.7.2009, p. 11.
449 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 608.
450 Cfr. Platone, Prot. 320d.
Risvegli 127

«profondità temporale antropologica».451 Con la rivoluzione posturale, la di-


scendenza di quel «subominide che [aveva] perduto il suo spazio vitale»452
non era in condizione di tollerare – direbbe Kafka – l’«eccessivo soggiorno
nell’assurda libertà»,453 e dovette compiere la propria discesa nelle «caverne
culturali», per assicurarsi l’«esonero dal “realismo” del campo aperto».454
La caverna soddisfa il desiderio di invisibilità radicato nella condizione
umana, nella sovraesposizione alla luce cui l’uomo è destinato.455
L’uomo ‘preistorico’ non sarebbe sopravvissuto senza l’espediente della
discesa nelle caverne, eppure allo stesso tempo egli non poteva rimanervi.
Indugiare nella caverna rappresentava un pericolo per la specie, ciò perché
la caverna – ma si potrebbe dire «la cultura» – ha bisogno di instaurare un
rapporto «parassitario» nei confronti della natura per innescare una dina-
mica virtuosa.456 Deve intrattenere una relazione con l’esterno in cui i due
domini possano comunicare, contaminarsi, eventualmente confliggere, ma
di fatto garantire l’uno la sussistenza dell’altro.
L’uomo di Cro-Magnon seppe sfruttare la caverna nei termini di
un’«intermittenza dell’estrema tensione di tutti i sensi nello spazio vitale
dei cacciatori», da un lato, e, dall’altro, del «sonno profondo libero da pre-
occupazioni, la conquista simmetricamente corrispondente di una specie
che si dirigeva verso una sedentarietà circondata da quattro mura».457 Ossia
fu in grado di instaurare quell’equilibrio tra «estasi» e produzione di
indoors,458 che riproporrà da lì in avanti nelle forme più disparate. La logi-
ca dell’alternanza di «avanzata e ritirata, lotta per la vita e sogno»459 rispec-
chia un duplice atteggiamento verso la realtà che traccia ‘la via peculiare
dell’uomo all’autoconservazione’.
Nella caverna si può vivere, ma non trovare in loco il sostentamento per
la vita: occorre lasciare la caverna ed esporsi al rischio della caccia, al fine
di consentire la prosecuzione della vita nella caverna. Ed è così che per l’a-
nimale uomo il tempo si scinde in Mußzeit e Kannzeit: tempo dedicato a
soddisfare le esigenze di autoconservazione e «libero margine di compi-

451 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18.


452 Ibidem.
453 F. Kafka, La tana, in Racconti, Mondadori, Milano 1970, p. 522.
454 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18.
455 Cfr. ivi, p. 40.
456 Cfr. ibidem.
457 Ivi, p. 615.
458 Cfr. B. Accarino, Peter Sloterdijk filosofo dell’estasi, in P. Sloterdijk, Sfere, I. Bol-
le, Meltemi, Roma 2009, p. 48.
459 Ibidem.
128 Dialettica della caverna

menti indeterminati»,460 laddove il primo – il tempo speso per permettere la


vita – garantisce l’aprirsi dello spazio per il secondo, per la produzione di
quell’eccedenza che, a sua volta, farà sì che gli sforzi umani per sopravvi-
vere non si rivelino vani. Nella dialettica tra la veglia e l’attenzione diffusa
del cacciatore e il sonno di chi resta al sicuro, scaturigine dell’immagina-
zione, sorge per la prima volta quella tensione, tipica dell’umano, tra la ten-
tazione all’autosufficienza degli spazi protetti ove prolifera il ‘virtuale’, il
regno dei desideri e delle rappresentazioni, e la spinta alla soddisfazione
dei bisogni primari e della curiosità che trascina fuori, lasciando maturare
nell’uomo «di necessità» una «specie di “realismo” subìto» sotto forma di
«disintossicazione dallo spazio chiuso degli appagamenti immaginari».461
Eppure, se un eccessivo ritiro può diventare tossico, il realismo passivo
divenuto attiva brama, che trova la propria «“figura” assoluta» nella «can-
nibalesca fame di realtà», nell’incorporazione della realtà come metaboli-
smo, deve essere bilanciato dalla «controtendenza verso la simbolizzazio-
ne», come risposta culturale fondata sull’emergere della coscienza,
«cardine della conservabilità della civiltà nel senso più crudo».462
Gli avversari della realtà reale rifugiati nella caverne sono da sempre in
contrasto coi fuggitivi che alla realtà reale tentano di resistere;463 ma da
sempre devono convivere e cooperare con loro. Nei primordi cavernicoli si
radica la congiunzione – fondamentale per la sopravvivenza umana – tra il
guadagnare e il dissipare il tempo e, nel processo chimico e alchemico di
trasformazione di porzioni sempre maggiori di Mußzeit in Kannzeit, consi-
ste – dovrebbe consistere – ciò che chiamiamo «il progresso dell’umanità».464
È qui, all’interno della caverna, che l’uomo «definisce il proprio oriz-
zonte del mondo, prima di entrarvi», che trova le condizioni per trasforma-
re l’orizzonte in spazio della progettualità.465 La caverna, che «invita a re-
stare e fornisce i mezzi per andarsene», non poteva essere che un
«episodio».466 Nella storia umana, nella dialettica della Menschenwerdung,
non esiste Heimkehr, «ritorno a casa», e giunge il momento di approntare
un guscio nuovo con ciò che si è raccolto e messo a punto nel precedente,
o – detto altrimenti – di «farsi una nave con i resti del naufragio».467

460 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 323.
461 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 615. Corsivo mio.
462 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 35.
463 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 612.
464 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 324.
465 Ibidem.
466 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 612.
467 Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, cit., pp. 105-111.
Risvegli 129

Nel rapporto ambivalente con la caverna si delinea per l’uomo, spiega bene
Accarino, l’alternativa vitale e filosofica fra «nomadismo» e «stanzialità».468
Sostiene Blumenberg sulla scia di Ferenczi: è il «fatto fondamentale del-
la vita», in ognuna delle sue forme, che essa non possa «rimanere dove e
come è»469 ed è questo fatto, in ultimo, a risuonare nelle profondità più
abissali del mito della caverna. Per mutuare categorie deleuziane, «deterri-
torializzazione» e «riterritorializzazione» sono i due movimenti che scan-
discono le vicende del vivente.470 La vita

consuma le sue condizioni di possibilità, dà fondo al suo substrato, esauri-


sce i fondi e riempie gli spazi che la ospitano con i rifiuti e le macerie del suo
esito, con gli escrementi del suo metabolismo. Lo sviluppo non è misteriosa
nostalgia per mete sempre più alte; è il superamento di difficoltà che il livello
inferiore si pone da sé e che non può risolvere con i propri soli mezzi. Il dina-
mismo nasce dall’esautorazione: su questo paradosso si fonda la fiducia della
vita in se stessa, in prossimità della sua apocalisse.471

E, tra gli altri, un aspetto in particolare rende questi riferimenti psicoa-


nalitici di Blumenberg estremamente rilevanti: la «metafora speculativa»
di ispirazione freudiana dei «traumi da separazione», come cesure che
scandiscono la vita e ne spiegano la persistenza attraverso innumerevoli
trasformazioni filogenetiche, rappresenta anche la cifra della maniera blu-
menberghiana di intendere i processi storici. Il concetto di «soglia» va in-
teso pertanto come categoria di una «teoria generale della storia» e anche
la nozione di «rioccupazione» si radica nel tempo arcaico della filogene-
si.472 Le «transizioni» (Übergänge), le Höhlenausgänge, sono il Leitmotiv
che attraversa la narrazione blumenberghiana dai ‘traslochi’ filogenetici,
all’abbandono della ‘caverna-madre’ fino a ciò che chiamiamo, con una
metafora, «svolte epocali».473

468 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 329.


469 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 47.
470 Si veda per esempio G. Deleuze, lettera «A» di «Animal», in Abecedario, video-
intervista a cura di Claire Parnet, regia di Pierre-André Boutang, DeriveApprodi,
Roma 2005.
471 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 47.
472 Cfr. A. Fragio, «Das Überleben der Übergänge», cit., pp. 63-66.
473 Cfr. B. Merker, Was ist der Mensch? Zum Verhältnis von (historischer) Anthropo-
logie, Phänomenologie, Metaphorologie und Epistemologie, in M. Moxter (a cura
di), Erinnerung an das Humane, cit., p. 3.
130 Dialettica della caverna

Blumenberg è interessato al «parassitismo umano-culturale».474 Per que-


sto rifiuta di applicare all’uomo i meccanismi della selezione naturale, poi-
ché ritiene che l’organismo umano si conservi, a differenza di quanto acca-
de per le altre specie, non attraverso un incremento del proprio
«adattamento» (Anpassung) organico all’ambiente, bensì – come già spie-
gato – proprio grazie alla sua capacità di prendere «distanza» dall’ambien-
te, trascendendo le proprie funzioni corporee, che da sole lo condannereb-
bero all’insuccesso.475 Se la vita intrauterina è per i mammiferi
riproduzione ‘incarnata’ dell’esistenza nell’originario elemento acquatico
e dunque forma biologica di «regressione talassale», la caverna di Blu-
menberg e le sue rivisitazioni sono una forma tutta umana di regressione
talassale culturale, o – ancor meglio – la cultura, come dimensione propria
dell’umano, altro non è se non regressione talassale.
Tornare a una caverna che non sia un surrogato e inabissarsi per sempre
in essa è, per la vita, un desiderio impossibile a realizzarsi; perciò intrattie-
ne un legame sinistro con la pulsione di morte. O con la follia di una «fanta-
sia che non escludeva nulla»,476 quella dell’Hitler inabissato nel suo bunker,
dove realizzò la propria «Untergang» come abbandono della «superficie
della visibilità, del vedere e del visionare».477 O con gli scenari post-atomici
evocati da Chernobyl,478 in cui il mondo come superficie e orizzonte cesse-
rebbe di fatto di esistere. O col raggiungimento futuribile di tecniche di si-
mulazione tanto avanzate da far letteralmente «“sparire” il mondo» al di sot-
to di una dimensione a esso sovrapposta di pura illusione.479 Insomma, «il
ritorno nella caverna – della foresta, della terra, del corpo – è la nostalgia re-
condita (heimlich) della quale tutti sanno che nessuno se la può permettere».480

3.1. Distanza, simbolo e immagine

Descrivendo la sua visita alle grotte affrescate di Les Combarelles I, nel-


la Francia sudoccidentale, Ian Tattersall racconta di un percorso impervio,
attraverso cunicoli bui e stretti, lungo i quali ci si addentra nella roccia per
circa centocinquanta metri prima di giungere dinnanzi a una parete che, il-
luminata alla luce della torcia, mostra all’improvviso uno spettacolo im-

474 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 48.


475 Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166.
476 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 613.
477 Ibidem.
478 Cfr. ivi, p. 570.
479 Cfr. ivi, p. 615.
480 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 567-568.
Risvegli 131

pressionante: centinaia di incisioni raffiguranti animali (cavalli, mammut,


bisonti, leoni), eseguite con estrema grazia e scaturite certamente da un’os-
servazione attenta di ciascuna specie, probabilmente risalenti a 13.000 anni
fa, opera di popolazioni vissute durante l’Era glaciale. Ma, ciò che ancor
più sorprende, gli artisti cui si deve questo autentico tesoro poterono rag-
giungere il punto prescelto solo strisciando sdraiati sul ventre, poiché all’e-
poca il pavimento era più alto, a circa sessanta centimetri dal suolo.481 Gli
spettatori contemporanei di tale meraviglia, prosegue Tattersall, una volta
usciti dalla grotta vengono immancabilmente «divorati dai “perché”»:

Perché infilarsi in un cunicolo stretto, senz’aria, buio, scomodo e potenzial-


mente pericoloso, che si addentra nella roccia terminando in un antro cieco
dove c’è a malapena lo spazio per rigirarsi? Perché creare un’arte che può es-
sere vista solo affrontando grandi difficoltà? Perché ignorare la parte più ester-
na della grotta, per eseguire le incisioni solo nei suoi recessi più profondi? Per-
ché sovrapporle e perché disseminare immagini così vive di disegni geometrici
e di una profusione di segni dall’oscuro significato e apparentemente
superflui?482

Non solo noi esseri umani siamo gli unici ad avere creato arte, ma «sia-
mo anche le uniche creature capaci di comportamenti misteriosi e imper-
scrutabili come questo».483 Nelle pitture di Les Combarelles

nasce probabilmente l’enigma, il mistero, l’immaginazione artistica, la pro-


iezione simbolica, la capacità di astrazione, la sacra mistura di sapienza e de-
menza, di logica e imperscrutabile irrazionalità che Homo sapiens porta con
sé.484

Anche Blumenberg menziona Altamira e Lascaux e riporta alcuni dati


tratti dall’inventario di Herbert Kühn, relativi al numero delle caverne di-
pinte risalenti all’Era glaciale, alla quantità di immagini riprodotte, alle
ipotesi sulla loro antichità.485 Salvo affermare, appena una riga sotto, che
«la correlazione di spazio interno e immaginazione non ha bisogno di
inventari».486 Ed è tale correlazione, la «nascita della fantasia nelle caver-

481 Cfr. I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp. 7-8.


482 Ivi, p. 8.
483 Ivi, p. 9.
484 T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., p. 248.
485 Il riferimento dovrebbe essere a H. Kühn, Die Felsbilder Europas, Kohlhammer,
Stuttgart 1971.
486 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22.
132 Dialettica della caverna

ne» (come recita il titolo del III capitolo di Höhlenausgänge) l’evento fon-
damentale inscritto nel cammino della Menschenwerdung cui ora Blu-
menberg presta attenzione. Facendo riferimento agli studi statistici di
André Leroi-Gourhan sulla presenza di «schemi omogenei» nelle pitture
rupestri,487 riscontrabili ad esempio nella diversa distribuzione delle varie
specie animali in zone determinate della grotta, Blumenberg ipotizza la
presenza di «programmi» disposti da «quelli che sapevano come fare e
come ordinare, e sui quali tutti gli altri facevano affidamento seguendo la
loro opera», e costoro, suppone, «dovevano essere comparsi abbastanza
presto nella preistoria».488
Il primo fenomeno legato all’‘ecosistema parassitario caverna-steppa’ è
di natura sociale e coincide con una distinzione di ruoli. Il «gioco» di inter-
dipendenza tra lo spazio protetto e tuttavia non autosufficiente della caver-
na e le distese aperte in cui i cacciatori si avventurano ha un’immediata ri-
caduta sul piano dell’organizzazione della collettività. Se «destrezza e
prontezza» sono i requisiti fondamentali di coloro che cacciano nella sava-
na e misura del loro «diritto all’esistenza», le immagini lasciate sulle pare-
ti delle caverne provano che almeno lì, nello spazio chiuso, «deve essere
stata infranta, o per lo meno limitata, la legge del più forte».489 Protetti dal-
le madri, che avevano dalla loro la riconoscenza dei forti ai quali offrivano
nutrimento, ossia dei loro stessi figli, i deboli e i cagionevoli si candidava-
no a trasformarsi in «antieroi del superfluo»490 o, per usare una categoria
moderna, in «intellettuali».491

I figli della caverna […] inventarono il meccanismo della compensazione.


Non contribuivano ad assicurare la vita, ma imparavano a darle tutto ciò che
l’avrebbe resa degna di essere vissuta. […] Sotto la protezione delle caverne, e
della legge delle madri, quelli che restavano dentro fecero sorgere la loro rispo-
sta al libero vagare all’aria aperta: nasceva la fantasia.492

Non solo, dacché la caverna aveva fatto dono all’uomo del privilegio di
un’«attenzione circoscritta» e di un «sonno profondo», esso divenne «l’ani-

487 Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I-II, Eianudi, Torino 1977.


488 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22.
489 Ivi, p. 20.
490 B. Accarino, La caverna di Blumenberg, cit.
491 Ibidem.
492 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 20. Corsivo mio.
Risvegli 133

male sognante»,493 ma soprattutto, dalla discendenza degli inetti all’azione


giunsero coloro che per primi seppero andare ben oltre le storie «terribil-
mente noiose»494 narrate dai cacciatori di ritorno dalle loro spedizioni, rag-
giungendo il livello della vera immaginazione, dell’invenzione, del mito.
Costoro impararono a rappresentare il non visto e narrare il non vissuto e
fondarono così sul «raccontare storie» un inedito privilegio. Grazie a esso,
dapprincipio si limitavano a compensare la propria minorità fisica, ma gra-
dualmente si resero conto che quell’arte era apprezzata dai garanti del loro
sostentamento, e da qui al rovesciamento dei ruoli il passo fu breve:

Il superfluo giunse come il prodotto più strano del mondo e seppe farsi ne-
cessità. L’alleanza tra fantasia e magia non si sarebbe fatta attendere; chi riu-
sciva ad ammaliare con l’immaginazione ebbe ben presto dalla sua parte gli
spiriti e gli dèi. Dove nascevano le immagini, potevano nascere i culti. Perfino
i più forti alla fine sarebbero usciti dalla caverna grazie al potere del rituale
compiuto alle loro spalle. I deboli sarebbero diventati i custodi del tempio.495

In effetti, anche tra gli specialisti, vi è chi sostiene non solo la natura
sciamanica e magica dell’arte paleolitica,496 ma anche che essa fosse prero-
gativa di una «classe elitaria di “stregoni” che detenevano le chiavi del suc-
cesso economico del gruppo e godevano di uno status separato da quello di
coloro che li mantenevano», sicché «il successo nella caccia, basato […]
sulle capacità e sull’impegno dei cacciatori, visto in retrospettiva doveva
apparire come la prova dell’efficacia [dei] riti».497
Si tratta – a leggere il testo blumenberghiano – di una forma di divisio-
ne del lavoro e sovvertimento delle gerarchie che ha qualcosa dell’astuzia
della nietzscheana «morale degli schiavi», benché in Blumenberg la rival-
sa dei deboli sui forti, degli «impotenti» sui «sovraccarichi di forza»,498 in
tutta evidenza non coincida con un fenomeno relativamente recente di ma-
trice ebraico-cristiana, bensì con l’origine stessa della cultura in quanto

493 Ivi, p. 20. Sull’«implicazione antropologica» del sogno si veda anche H. Blu-
menberg, Ausgeträumte Träume. Über den ursprünglichen Realismus des Erwa-
chens, in «Neue Zürcher Zeitung», 22/23.12.1990, p. 54.
494 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21.
495 Ibidem. Corsivo mio.
496 A tal proposito Pievani menziona gli studi di David Lewis-Williams e Thomas
Dowson. Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., p. 251.
497 I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 27.
498 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, uno scritto polemico. Prima disserta-
zione. «Buono e malvagio», «buono e cattivo», in Opere di Friedrich Nietzsche,
VI/II, Adelphi, Milano 1968, pp. 223-254.
134 Dialettica della caverna

tale, che affonda le proprie radici nel tempo arcaico dell’umanità e che
dunque deve il suo carattere di mascheramento e congettura non a
un’Umwertung tardiva e falsificatrice, ma semmai – se così si può dire – al-
l’‘Umwertung strutturale’ della condizione umana, radicata nel complesso
rapporto dell’uomo con la realtà. I «deboli» delle Höhlenausgänge somi-
gliano di più a coloro che in Benjamin oppongono da sempre la «favola» al
«mito», ossia si schierano dalla parte della narrazione come contestazione
umana nei confronti dell’elemento spaventoso e ostile, per depotenziarlo e
minimizzarlo.499 Comunque sia, è in questo punto del tempo profondo che
i deboli apprendono una forma di actio in absentia et per distans ben più
raffinata dell’ancestrale e fortuita pietra scagliata contro l’aggressore.
Se, come sostiene Jonas, Homo è per sua essenza pictor, in quanto esse-
re «simbolico», dedito a rappresentazioni e immagini la cui ricaduta biolo-
gica immediata è nulla, e dunque sembra di fatto indulgere «alla produzio-
ne di cose inutili»,500 tuttavia la «finzione» – scrive Blumenberg – proviene
dalla stessa sorgente della «compensazione».501 Qui il riferimento a
Nietzsche pare particolarmente opportuno e, più della Genealogie, il breve
saggio Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873) sem-
bra aver decisamente influenzato Blumenberg, laddove Nietzsche afferma
che «l’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue for-
ze principali nella finzione»502 e la finzione, a sua volta, altro non è se non

il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in
quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con
gli aspri morsi degli animali feroci.503

L’uomo vive e si forma immergendosi nell’illusione e nelle immagini


oniriche, è per genesi e condizione «soggetto artisticamente creativo»504
che tratteggia attorno a sé un mondo compiutamente antropomorfico, piut-
tosto che creatura in contatto con la verità pura delle cose. Il linguaggio

499 Cfr. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in


Angelus Novus R. Solmi (a cura di), Einaudi, Torino 1995, pp. 247-274.
500 H. Jonas, Homo pictor: della libertà del raffigurare, in Organismo e libertà. Ver-
so una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, p. 206.
501 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 23.
502 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epo-
ca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873. Opere di Friedrich Nietzsche, III/
II, Adelphi, Milano 1973, p. 356.
503 Ibidem.
504 Ibidem.
Risvegli 135

stesso, che «ricorre all’aiuto delle più ardite metafore»,505 è figlio della
«menzogna» più che della «verità». Solo gli uomini, i più deboli fra gli ani-
mali e, fra di loro, i più deboli fra gli uomini, sono «maestri di finzione» e,
viceversa, dotati di «un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare».506 Blu-
menberg va oltre, definendo la «cultura» stessa una «“congiura” contro la
standardizzazione esclusiva dell’umano in virtù dei più dotati».507 Chi resta
indietro, sono loro i custodi della compensazione, «figura collaterale
dell’autoaffermazione». In tal modo i deboli (e tramite loro l’uomo in sen-
so specifico) si fanno strada «passando attraverso le smagliature della sele-
zione naturale», finché ciò che inizialmente si presentava come
un’«infiltrazione» non diverrà «istituzionalizzazione della debolezza».508

Chiamiamo “cultura” quell’esercizio, l’opporre alla pressione della violenta


legge evolutiva, il “corpo fantasma”, il “Phantomleib” delle istituzioni (miti,
riti, idee, teorie, ed altri ‘trasportatori’ e ‘reggitori’ di senso). Ivi la pressione,
l’immediatezza, la coazione ad agire, vengono dilazionate, differite, attraverso
procedure simboliche, che ne attutiscono l’urgenza, ne dilatano spazi e tempi;
il tumulto si rende eco, la presenza viene scorporata, l’assedio del reale passa
nei riflessi della rappresentazione. Il mito della caverna, oltre la ricezione pla-
tonica, è indizio di una situazione originaria: la necessità del distacco, di una
sospensione del puro scaturire.509

Sarà già balzato agli occhi il grande debito di Blumenberg, sottolineato


in numerosi studi, nei confronti dell’antropologia filosofica cassireriana e
della descrizione dell’uomo come «animal symbolicum».510 È indubbio
che, come Cassirer, egli ritenga le forme simboliche parte essenziale della
vita culturale dell’uomo. E con ciò intende riferirsi, prima ancora che all’u-
niverso variegato del linguaggio, del mito, dell’arte e della religione, all’e-
lemento che accomuna ciascuna di queste modalità di espressione umana,

505 Ivi, p. 359.


506 Ivi, p. 370.
507 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 23.
508 Ivi, p. 23.
509 M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 267.
510 Cfr. E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Ar-
mando, Roma 1972. Per un confronto tra Cassirer e Blumenberg si vedano in par-
ticolare: B. Recki, Der praktische Sinn der Metapher. Eine systematische Überle-
gung mit Blick auf Ernst Cassirer, in F.J. Wetz, H. Timm, H. (a cura di), Die Kunst
des Überlebens, cit., pp. 142-163; C. Polke, Symbol, Metapher, Kultur. Besch-
reibungen des Menschen bei Ernst Cassirer und Hans Blumenberg, in R.A. Klein
(a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., pp. 42-57; B. Recki, Auch eine Rehabili-
tierung der instrumentellen Vernunft, cit., pp. 39-61.
136 Dialettica della caverna

ossia il fatto che «l’uomo non si trova più direttamente di fronte alla real-
tà», che «egli non può più vederla faccia a faccia».511 In altre parole, l’atti-
tudine umana alla distanza, all’Entlastung, alla mediazione.
Per usare le parole di Jonas, all’origine del processo che ha portato la
«funzione rappresentativa» molto lontano dalla somiglianza figurale con
l’oggetto, verso una sempre maggiore «emancipazione dalla “letteralità”
della riproduzione», un graduale avvicendamento della «rappresentazione
riproduttiva» con quella «sostitutiva», vi è la medesima facoltà raffigurati-
va che guidava i ritratti animali di Altamira e che era già dotata di un buon
grado di «astrazione» e «stilizzazione».512 E, nel suo essere «inattiva e fer-
ma», l’immagine depotenzia e neutralizza la realtà poiché, rappresentando
movimento e azione, li relega «in una presenza statica», taglia il rappresen-
tato fuori dal nesso causale delle cose, e in tal modo «può rappresentare il
pericolo senza mettere in pericolo, il dannoso senza danneggiare, il deside-
rato senza appagare».513 Il dato «specificamente umano» che entra in gioco
nella produzione di immagini è la facoltà del soggetto di separare intenzio-
nalmente materia e forma, eidos ed esistenza, consentendo «la presenza fi-
gurativa del fisicamente assente insieme all’autonegazione del fisicamente
presente»,514 il che coincide in ultima istanza con un’acquisizione di liber-
tà come «libertà della distanza e del dominio».515
Non solo: tornando al Blumenberg di Beschreibung des Menschen, a ri-
prova dell’assoluta unicità della dimensione simbolica come sfera precipua
dell’umano, vi è il nesso strettissimo che essa intrattiene col principio del-
la «messa fra parentesi del corpo» rilevato da Alsberg: decostruendo anco-
ra una volta un assunto darwiniano, ossia la teoria biologica ed evolutiva
dei moti espressivi come obsolescenza e residuo di precedenti azioni istin-
tive orientate a uno scopo, Blumenberg avanza l’ipotesi che espressioni,
segni e simboli siano al contrario più frequentemente forme di revoca e ne-
gazione della pratica corporea originaria da cui tuttavia discendono, come
l’abbraccio lo è dello strangolamento.516 «Quanto meno il corpo è esso
stesso strumento, organo esecutivo di azioni, tanto più può diventare puro
veicolo espressivo (Ausdrucksträger), in grado di sostituire, evitare, rifiu-
tare o suscitare azioni tramite il repertorio delle sue informazioni mimiche

511 E. Cassirer, Saggio sull’uomo, cit., p. 80.


512 H. Jonas, Homo pictor, cit., p. 209.
513 Ivi, p. 210.
514 Ivi, p. 214.
515 Ivi, p. 219.
516 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 595.
Risvegli 137

e gestuali».517 Da questo punto di vista la sfera delle «esternazioni estetiche


e razionali dell’uomo» si configura come culmine del processo della Kör-
perausschaltung, ove si compie quella «libertà dallo scopo» in cui «si ma-
nifesta in maniera unica il ‘successo’ dell’antropogenesi».518

La facoltà di raffigurazione riproduttiva o anche di rappresentazione simbo-


lica è parte della capacità di evitare di venire alle mani con la realtà, malgrado
una perdita minima della sua presentificazione (Vergegenwärtigung).519

Già il gesto dell’indicare, prima ricusazione dell’assolutezza del posses-


so corporeo, si configura come precursore elementare dell’actio per di-
stans, «gradino intermedio capitale tra la presa (Ergriff) e il concetto (Be-
griff)», che ha fatto dell’uomo «un essere indicante» e ha reso possibile
denominazione e delega.520 Analogamente il simbolo consente di «provo-
care effetti senza compiere azioni reali in senso fisico».521 «L’uomo, come
animal symbolicum, è un essere che mira al risparmio di confronti con la
realtà» e

solo in quanto tale è divenuto capace di un incredibile spreco di energia, al-


lorché l’ha riversata sull’apparentemente superfluo, sul lusso delle sue sublima-
zioni, sulla ridondanza della sua cultura.522

Il lato «creativo» dell’uomo non è in effetti, più prosaicamente, altro che


«potenza liberata nel suo bilancio energetico».523 L’«esplosione creativa»524
verificatasi alla fine dell’Era Glaciale, circa 40.000 anni fa, il «grande bal-
zo in avanti» del Paleolitico superiore,525 a partire dal quale l’uomo anato-

517 Ivi, p. 596.


518 Ivi, p. 597.
519 Ibidem.
520 Ivi, p. 598.
521 Ivi, p. 614.
522 Ibidem.
523 Ivi, p. 615.
524 Cfr. J.E. Pfeiffer, The Creative Explosion: An Inquiry Into the Origins of Art and
Religion, Harper & Row, New York 1982; I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit.,
pp. 11-30.
525 Cfr. ad esempio J. Diamond, Il terzo scimpanzé: ascesa e caduta del primate
Homo sapiens, Bollati Boringhieri, 2006; Id., Armi, acciaio e malattie, cit., pp.
24-25; M. Barenghi, Homo sapiens. Intervista a Telmo Pievani, in «Doppiozero»,
25.1.2012:
http://www.doppiozero.com/materiali/interviste/homo-sapiens-intervista-telmo-
pievani.
138 Dialettica della caverna

micamente moderno ha cominciato a manifestare la propria intelligenza


simbolica e artistica, dovrebbe dunque la sua origine – stando a Blu-
menberg – innanzitutto a uno scatenamento della crescita del superfluo
come eccedenza di «una natura che si ritira e si tiene lontana dal contatto
con la realtà, nel suo parassitismo culturale».526

3.2. Inconcettualità e concettualità: mito, metafora, retorica, concetto

3.2.1 Mito

Attorno ai fuochi accesi nelle caverne si cominciano a raccontare storie,


ha inizio la mitopoiesi. Ai frutti della vera e propria invenzione si accom-
pagna, nel corso del tempo, una sorta di «memoria professionale»527 che
coltiva, assieme alle storie, il ricordo di famiglie, orde, insediamenti le cui
gesta si siano mostrate altrettanto degne di trasmissione quanto i racconti
fantastici. Ma, al di là delle congetture, quel che più conta è comprendere
in che cosa consista la «prima perfezione»,528 ancora ineguagliata, di ciò
che ci è pervenuto attraverso miti, culti, religioni e pratiche magiche; e
dove si celi, tutt’ora, l’efficacia inesauribile del mito per la specie umana.
In sostanza, occorre porsi la questione del terminus a quo del mito, ossia
del problema che esso tenta di risolvere,529 il che costituisce anche il primo
passo per superare la tendenza – ancora presente ad esempio in Cassirer –
a considerare il mito come una forma simbolica resa obsolescente nel mo-
mento in cui sorge la scienza moderna,530 ad associarlo a una qualche sorta

526 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 615.


527 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 24.
528 Ibidem.
529 Cfr. R.M. Wallace, Translator’s Introduction, in H. Blumenberg, Work on Myth,
MIT Press, Cambridge-London 1985, p. IX.
530 Secondo Cassirer, che sviluppa questi temi nella Philosophie der symbolischen
Formen, la spiritualità mitica è, insieme al linguaggio e all’arte, una delle forme
trascendentali attraverso cui il soggetto ordina e filtra il caos delle impressioni. Si
tratta perciò di uno stadio necessario allo sviluppo della conoscenza, in cui viene
già avviato il processo di elaborazione del materiale sensibile. Cassirer invita dun-
que a non sottovalutarne la funzione, ma ritiene altresì – e questo è l’aspetto della
sua teoria che Blumenberg non può condividere – che il mito costituisca uno sta-
dio in cui non si è ancora raggiunta la piena oggettività, accessibile invece al sa-
pere teoretico logico-matematico. Il mito è ancora troppo prossimo all’individua-
lità del dato sensibile, che soltanto il logos potrà spiritualizzare compiutamente.
«Invece del movimento dialettico del pensiero, per cui ogni dato particolare di-
Risvegli 139

di «mentalità primitiva».531 Tale sorgente problematica, la fonte della reale


e persistente importanza del mito «indifferentemente da ciò (se c’è qualco-
sa) che viene ‘dopo’ di lui»,532 altro non è che il fenomeno, già precedente-
mente introdotto e inserito nel contesto antropogenetico, che Blumenberg
chiama «assolutismo della realtà». Pertanto, ancora una volta, egli mostra
di andare oltre la mera constatazione delle forme simboliche come espres-
sione spontanea della natura umana, per affrontarle in termini
«funzionalistici»,533 quali rimedio alle peripezie biologiche dell’uomo, mo-
strando così al contempo la ‘legittimità del mito’ e la necessità – anche per
i moderni – di prenderlo sul serio.
Il mito agisce come dispositivo di razionalizzazione dell’angoscia in
paura, indirizzata ora verso specifici agenti nominati, poteri personalizzati
e soprattutto plurali. La Furcht, come forma intenzionata dell’Angst, e il
suo scongiuro provengono dalla medesima fonte: il timore si fa «figura» in
modo tale da convertirsi in qualcosa che possa essere «cacciato, represso,
contenuto e sconfitto», reso ripetibile e trasportabile.534
Il mito come «corpo fantasmatico», «istanza immaginaria di
interposizione»535 che scongiura la collisione con la realtà, opera innanzi-
tutto assegnando nomi: nominare è l’atto in cui si cristallizza la mediazio-
ne del confronto col reale attraverso la costruzione di una «tradizione». Ciò
che serve alla continua razionalizzazione dell’angoscia in paura non consi-
ste in primo luogo nell’esperienza o nella conoscenza, ma in espedienti in
grado di operare sostituzioni536 tra il familiare e il non familiare, di offrire
«spiegazioni per l’inesplicabile» e soprattutto «nomi per il non

venta solo l’occasione per collegare un singolo fatto ad un altro, per riunirlo in se-
rie con altri e inserirlo così finalmente in una legge, vi è [nel mito] il semplice ab-
bandono all’impressione stessa e alla sua particolare e momentanea “presenza”».
E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II. Il pensiero mitico, La Nuova Ita-
lia, Firenze 1964, p. 53.
531 Cfr. L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966.
532 R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. IX.
533 Sul «funzionalismo» blumenberghiano si vedano J.C. Monod, Hans Blumenberg,
cit., pp. 33; R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. XVII.
534 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21.
535 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29.
536 La «sostituzione» è figura ricorrente nei racconti mitici, tanto che Blumenberg af-
ferma che «il docetismo è l’ontologia adeguata al mito». H. Blumenberg, Elabo-
razione del mito, cit., p. 176.
140 Dialettica della caverna

nominabile»,537 per la definizione dell’«indefinito numinoso»,538 del caos


anonimo.539 In altri termini, occorre che qualcosa come un simulacro sia
«messo avanti» in vece di ciò che terrorizza, per operare su di esso e trami-
te esso e consentire azioni che scongiurino, mitighino, allontanino o depo-
tenzino, insomma realizzino nelle sue varie forme la prestazione della di-
stanza nei confronti dell’assolutismo della realtà. L’interminabile lavoro
del mito comincia con un’«invocabilità» (Appellationsfähigkeit)540 che
aprirà la strada all’influenza del magico, del culto e del rito, ove si manife-
sta compiutamente l’efficacia del meccanismo sostitutivo: grazie allo
«“scambio” magico e cultuale»541 l’incommensurabile s’informa in gran-
dezze calcolabili con le quali è possibile quantomeno trattare.
In primo luogo si tratta dunque, prima ancora del proliferare delle narra-
zioni, di far proliferare i nomi finché sembri che non siano rimaste lacune
alla raggiunta padronanza del mondo. Con la transizione dall’Altro a un al-
tro hanno inizio «il lavoro della comprensione fisiognomica»,542 le varie
forme di tipizzazione, dai teriomorfismi al «bell’antropomorfismo delle di-
vinità dell’Olimpo»,543 e il pluralismo che vuole sempre, ovunque si dà un
altro, che esso abbia i suoi altri.
Così comincia la «fiducia nel mondo»544 e si apre la strada al racconto.
«Ogni storia procura alla nuda potenza un tallone d’Achille»,545 umanizza
il non umano in senso letterale e figurato, lo sottopone ad antropomorfosi
rendendolo fallibile e procede, con ciò, alla «domesticazione del tutto».546
Il mito è anche una parola che riempie gli spazi vuoti, un racconto che si
sovrappone all’ineffabile e smentisce così – in un certo senso – l’assunto
wittgensteiniano secondo cui si dovrebbe tacere su ciò di cui nulla si può
dire. In questo mostra tutta la sua distanza dalla teologie negative che ac-
compagnano i monoteismi (salvo poi dotarsi nel tempo di «elementi della

537 Ivi, pp. 27-28.


538 O. Müller, Von der Theorie zur Praxis der Unbegrifflichkeit: Hans Blumenbergs
anthropologische Paraethik, in A. Haverkampf, D. Mende (a cura di), Metapho-
rologie. Zur Praxis von Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, p. 272; cfr.
R. Otto, Il sacro, SE, Milano 2009.
539 L’espressione precisa utilizzata da Blumenberg è appunto «irruzione del nome nel
caos del senza nome». H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 59.
540 Ivi, p. 39.
541 Ivi, p. 28.
542 Ivi, pp. 46-47.
543 Ivi, p. 54.
544 Ivi, p. 60.
545 Ivi, p. 39.
546 Ivi, p. 38.
Risvegli 141

visibilità e della narrabilità»547 che sopperiscano a un inesausto bisogno di


immagini), ove il «nome di Dio» non ha più nulla a che fare con quell’in-
vocazione che prelude alla figurazione e alla personificazione, ma viene at-
tribuito solo e soltanto a quell’entità «che non si lascia abbordare, accosta-
re, designare se non in modo indiretto e negativo».548
L’estinzione dei mostri, creature poste ai margini del mondo in cui si com-
pendiano in figura «l’inavvicinabilità e l’insopportabilità»549 del terrore pri-
migenio, rappresenta un topos fondamentale nell’economia del mito: la rei-
terazione, tradotta in immagine, del gesto con cui gli uomini si appropriano
del mondo trasformandolo in una dimora sicura, invertendo definitivamente
il rapporto di sottomissione nei confronti della natura.550 Ciò che importa al
mito è il conseguimento di un’«amabilità del mondo»551 intesa non tanto in
senso etico quanto in senso morfologico. E nel mito sono innanzitutto gli dèi
a condurre l’eliminazione dei mostri quando la posta in gioco è il riscatto del
mondo nel suo insieme; il «mondo dei mostri e del caos»552 è lo stadio che
precede l’avvento del nome, la nascita stessa delle divinità olimpiche: la di-
vina Afrodite che sorge dal seme di Urano, il dio che generava mostri, è già
l’immagine del lavoro compiuto dal mito, di una raggiunta mitezza, di un av-
venuto depotenziamento (e in ciò si vede anche come ogni mito parli del
mito stesso). E così tutti i più antichi mitologemi giunti fino a noi.
La «divisione dei poteri», uno dei dispositivi più caratteristici di cui il
mito si serve, raggiunge nel politeismo olimpico dei greci la massima gra-
zia ed efficacia.553 Lungo il succedersi delle generazioni divine, «a misura
che il potere si consolida, il suo esercizio diviene più sopportabile».554 L’at-
to di divisione dei poteri e ‘spartizione del territorio’ tra i Cronidi lascia tra-
pelare quanto imprevedibile sarebbe stato il comportamento di ognuno di
loro in caso di mantenimento del monopolio nell’uso della forza. Il Panthe-
on pagano è insomma il luogo di una salutare «dissipazione dell’assoluto».555
Alla limitazione dell’assolutismo fa da complemento il consolidamento

547 Ivi, p. 181.


548 J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol.
2, Jaca Book, Milano 2009, p. 174.
549 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 38.
550 Si veda E. Manera, Elementi per una teoria del mito in Hans Blumenberg, in
«L’Ombra», n°7-8, 1999-2000, pp. 95-123.
551 H.L. Ollig, Blumenberg, in difesa del mito, in «Il nuovo Areopago», n°3, 1984, p.
126.
552 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1999, p. 72.
553 Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 163.
554 Ivi, p. 149.
555 H. Blumenberg, Teologia politica III, cit., p. 115.
142 Dialettica della caverna

della raggiunta identificazione del mondo con un «cosmo», ma ciò signifi-


ca per l’appunto che l’ordine non richiede un potere incondizionato per es-
sere difeso, ma semmai una «costituzionalizzazione del potere».556 L’auto-
rità di Zeus resta potenzialmente minacciabile, il che impedisce che egli si
riconverta in istanza «assolutamente minacciosa»;557 l’epoca del suo regno
vede addirittura l’introduzione di elementi giuridici nella regolazione delle
controversie fra dèi. Le potenze del mito – e con ciò non s’intende certo so-
lamente le antiche divinità greche558 – hanno successo solo in quanto limi-
tate nella soddisfazione dei propri desideri, assoggettate a «procedure»,559
insomma inscritte entro un regime di tipo ‘liberale’.
Nel momento stesso in cui sorge, il mito allontana dallo sguardo gli in-
terrogativi dai quali prende le mosse; la realtà che narra è già «rioccupazio-
ne di una dimensione antropologica in cui la presa di distanza dall’origine
si è compiuta e sedimentata».560 Poiché il simbolo sa essere «generoso»,
grazie a ciò può fare in modo di «non dover essere interrogato».561 I miti
narrano il «tempo dell’origine», ma con una leggerezza, testimoniata dalla
libertà delle molteplici variazioni sul tema della Urzeit, concessa solo a
«un’umanità che da tempo si è liberata del suo peso»,562 testimoniano dun-
que un superamento avvenuto, una distanza conquistata. Sono tecnologie
dell’«oblio» nei confronti «dell’assolutezza delle origini e della realtà, e al
limite, della verità stessa».563 D’altra parte le caverne, prima dimora del
mito, sono anche questo: «luoghi dell’oblio» del mondo che si agita fuori.
In tal senso è già chiaro come caverna e mito affrontino il problema – pa-
rafrasando Nietzsche – di quanta coscienza (e di quanta scienza) ha biso-
gno l’uomo:564 poiché questa è una soluzione ‘clamorosa’ al problema ele-

556 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 158.


557 Ivi, p. 159.
558 Blumenberg mostra ad esempio come, nella trasformazione della situazione emo-
tiva dei primi cristiani dall’attesa impaziente della parousia alla sua dilazione, en-
tri in gioco nuovamente l’inesauribile necessità di «venire a patti col mondo» e la
tecnica mitica della complicatezza sotto forma di un costituzionalismo concesso
dalla stessa potenza assoluta. Cfr. ivi, pp. 183-184.
559 Ivi, p. 184.
560 G. Leghissa, Mito, dogma e genesi del moderno in Hans Blumenberg, in H. Blu-
menberg, Il futuro del mito, Medusa, Milano 2002, p. 25.
561 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 76.
562 G. Leghissa, Mito, dogma e genesi del moderno in Hans Blumenberg, cit., p. 25.
563 M. Cometa, Mitologie dell’oblio, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg.
Mito, metafora, modernità, cit., p.157.
564 Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni
inattuali, Einaudi, Torino 1981, pp. 79-161.
Risvegli 143

mentare umano, «quando quel clamore si approssima all’intollerabilità, ci


si deve sempre ricordare che esiste la possibilità di dimenticare».565 Il mito
si offre come una dimora sicura, «un piccolo rifugio contro la luce
implacabile»566 e questa è la precondizione di ogni agire che non resti irre-
tito dall’assolutismo della realtà; anche se, celando le proprie ragioni, il
mito non può evitare il riemergere di tensioni regressive e così non assicu-
ra mai all’uomo la certezza di trovarsi definitivamente al di là della ricadu-
ta nel soggiogamento allo strapotere di forze indomabili, qualsiasi sia la
forma che esse assumono.
Tuttavia il suo potere di ‘distrazione’ è innegabile. Il mito non argomen-
ta, offre una tecnica di «differimento» della risposta tramite la proliferazio-
ne e la complicazione delle domande. È un procedimento di «produzione
di inquestionabilità» (Unbefragbarmachung),567 che si serve di un «allon-
tanamento» in senso non figurato: i fatti con cui il mito rappresenta la pro-
pria origine non sono ordinati secondo una cronologia, anzi, vengono riso-
spinti in «uno sfondo temporale indeterminato» 568 che li rende
ininterrogabili. Trattando il caos piuttosto come «metafora» di un abisso, di
una notte che può rigurgitare ogni sorta di cose terribili, il mito ‘scherma’
la visione dell’inizio del mondo, non ne parla, lo lascia nell’oscurità e anzi
«genera questa oscurità, la infittisce».569 Rievocando con le armi della fan-
tasia, della libera immaginazione, o del gioco, il «mondo orrorifico» gene-
rato dal caos originario e dominato dall’insicurezza, ne destituisce la serie-
tà e ne depotenzia i caratteri spaventosi. Fluidità e incostanza, dilazione,
esitazione e digressione trovano nel mito un’espressione razionale estre-
mamente performativa, sotto forma di «complicatezza» come «grazia di
ciò che non accade o che ci viene risparmiato».570
Si tratta già, in altri termini, di una variazione sul tema della distanza, di
un avvicinamento alla condizione dello Zuschauer, dell’homo theoreticus,
del fenomenologo intento a fare – direbbe Sloterdijk – dei dati di coscien-
za «nature morte» da esporre in una «collezione permanente»,571 come si
mostra esplicitamente nella trasposizione mitica da parte della tragedia

565 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 33. Corsivo mio.


566 Ivi, p. 41.
567 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 168. Il riferimento è a Schopen-
hauer. Cfr. A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlass, I, Kramer, Frankfurt
am Main 1966, in particolare p. 151.
568 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 165.
569 Ivi, p. 167.
570 B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 299.
571 P. Sloterdijk, Stato di morte apparente, cit., p. 52.
144 Dialettica della caverna

classica: lo spettatore ‘aristotelico’ era il destinatario del dramma messo in


scena e la sua catarsi «ciò che la materia mitica lasciava dietro di sé» in for-
ma di «respiro di sollievo», allorché «il mondo non era più così come il
mito lo aveva trovato».572
Ciò significa che, sebbene Blumenberg sia concorde col romanticismo
nell’individuare nel mito una manifestazione di libertà, ha in mente una
«libertà secondaria»,573 molto al di qua di un presunto legame con un Ter-
ror o, in alternativa, uno Spiel originari;574 dunque «il risultato di un pro-
cesso, un prodotto, una conquista anzi proprio del rischiaramento».575 In
questo senso l’autonomizzazione della sfera mitica costituisce un momen-
to dell’Aufklärung.
Blumenberg sa, con Freud, che l’apparato psichico umano, così come
esso si è formato lungo la Menschenwerdung, è sostanzialmente
«mitomorfo».576 Il mito trova il proprio spazio nella dimensione del «razio-
nale inconcettuale», come forma storicamente determinata di produzione
funzionale d’inconcettualità. Ciò basta a rendere la sua liquidazione una
faccenda quantomeno problematica. Quello che lo rende interessante e
vernünftig è la sua performatività.

572 H. Blumenberg, Wie man Zuschauer wird [«come si diventa spettatori»], cit., p.
96.
573 H. Blumenberg, Il futuro del mito, cit., p. 47.
574 Terror und Spiel è precisamente il titolo del quarto volume di «Poetik und Herme-
neutik» su cui viene per la prima volta pubblicato nel 1968 Wirklichkeitsbegriff
und Wirkungspotential des Mythos, il saggio (tradotto in italiano col titolo Il futu-
ro del mito) che inaugura gli studi sul mito di Blumenberg e contemporaneamen-
te apre quella riflessione interdisciplinare avviata in Germania alla fine degli anni
‘60 e proseguita fino agli anni ‘80, meglio conosciuta come Mythosdebatte. Blu-
menberg intende appunto ridiscutere le due «categorie metaforiche antitetiche»
che generalmente rappresentano l’origine e l’originarietà del mito: «terrore» e
«poesia», ovverossia da un lato la «pura espressione della passività prodotta
dall’incantesimo demonico», dall’altro l’«eccesso immaginativo dell’appropria-
zione antropomorfica del mondo e dell’innalzamento teomorfico dell’uomo» (H.
Blumenberg, Il futuro del mito, cit., p. 44).
575 G. Carchia, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Elaborazione
del mito, cit., p. 8.
576 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 530. Il riferimento è a una lettera di
Freud a Fließ del 12 dicembre 1897: «La confusa interna percezione del proprio
apparato psichico stimola le illusioni del pensiero che vengono naturalmente pro-
iettate verso l’esterno e in modo particolarmente caratteristico nel futuro e nell’al-
dilà. L’immortalità, la retribuzione, il mondo dopo la morte: sono tutte rappresen-
tazioni del nostro interno psichico. Psicomitologia». S. Freud, Le origini della
psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fließ, abbozzi e appunti 1887-1902, Boringhieri,
Torino 1961, p. 146.
Risvegli 145

Il sapere è sempre solo parziale; l’assolutismo della realtà era (o è, o sarà)


totale, e richiede qualcos’altro oltre al solo sapere per essere superato, per es-
sere lasciato alle nostre spalle. E se qualcuno dicesse che “non è più un proble-
ma” per noi – ossia, che la nostra mancanza di una nicchia biologica, il nostro
deficit istintuale, non è più un problema per noi (dunque che non abbiamo più
alcun bisogno del mito) – ciò equivarrebbe ad asserire che siamo definitiva-
mente liberi dalle nostre origini biologiche, proposizione che difficilmente pos-
siamo credere di poter dimostrare.577

In altre parole, credenze e conoscenze sono frutto dello stesso processo


adattivo e, dagli albori dell’umanità fino alle più mirabili conquiste scienti-
fiche della modernità e della contemporaneità, il nostro rapporto col mondo
si configura come alternanza, articolazione e contaminazione tra saperi ef-
fettivi e assunzioni taken for granted,578 senza le quali non saremmo in gra-
do di integrare ciò che sappiamo, di orientarci e di organizzarci in gruppi
umani.579 In tal senso «la linea di confine tra mito e logos è immaginaria»,580
anzi, la classica formula «dal mito al logos» non veicola che
«disinformazione»,581 poiché eternizza e ipostatizza una separazione tarda.
È una «tarda e cattiva invenzione»582 sorta dal rifiuto di riconoscere nella
creazione di distanza dallo status naturalis un «logos del mito».583
Ogni qualvolta «la distruzione filosofica» si è indirizzata contro i conte-
nuti mitici, prendendoli ‘alla lettera’,584 essa ha «misconosciuto i bisogni
intellettuali ed emotivi che questi contenuti avevano il compito di soddisfa-
re», non accorgendosi di fare una mitologia di se stessa.585 Per questo il
mito filosofico della caverna, che racconta «l’espulsione dei miti»,586 non

577 R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. XI.


578 Per l’uso di questa espressione in relazione ai concetti di habitus e doxa si veda
Pierre Bourdieu, ad esempio P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, con Tre
studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003, in particolare p. 190; e
Id., Il senso pratico, Armando, Roma 2005.
579 Ringrazio Giovanni Leghissa per queste suggestioni e – in generale – per gli spun-
ti offertimi per la stesura del presente paragrafo.
580 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 35.
581 Ivi, p. 51.
582 Ivi, p. 75.
583 Ivi, p. 163.
584 Ivi, p. 29. Chi non sa capire le metafore e, in generale, le tecniche inconcettuali di
«trasferimento» è vittima di un «rigido realismo dell’immediatezza» che non am-
mette sostituzioni, sgravi, deleghe, e può compiere azioni solo nella forma del-
l’«iper-reazione». Ibidem.
585 Ivi, p. 75.
586 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 83.
146 Dialettica della caverna

può fare a meno di rivelare una buona dose di coercizione nell’impresa del
filosofo che tenta di trarre i compagni alla luce: tutto sommato, grazie alle
ombre, nella caverna si era sviluppato un sapere in grado di rimuovere «il
timore di sorprese da parte della natura»;587 perché mai, allora, bisognereb-
be abbandonare tutto ciò, acconsentire alla «rinuncia del dato»588 e rivol-
gersi alla «paradossale teoria dell’invisibile»589 senza alcuna garanzia di
una contropartita? È un fatto che il ritornato giunga «a mani vuote»;590 per
contro, le ombre, per quanto insignificanti se prese come oggetti di un sa-
pere, come simboli restano funzionali alla costruzione di una datità autono-
ma, a prescindere dal loro statuto di realtà o irrealtà.591
Benché privo degli argomenti stringenti della scienza, nonché della for-
za cogente del dogma religioso, il mito è espressione e manifestazione di
«significatività»,592 ovvero di un principio di rilevanza dotato di uno status
di realtà non sorretto da verifica empirica, ma basato sulla riconosciuta
«ovvietà» e «familiarità» dei contenuti, sul fatto che essi sono «parte del
mondo fin dagli inizi» e non necessitano di essere sorretti da ulteriori argo-
mentazioni. Il mito si serve dunque di ‘dispositivi di produzione di signifi-
catività’, «figure di senso» (Sinnfiguren) ricorrenti in grado di opporre for-
me di coerenza alla «minacciosa indifferenza di spazio e tempo».593
Blumenberg ne elenca sei: la simultaneità come «coincidenza», categoria
mitica poiché «non spiega nulla»594 ma si fonda sui nessi del perturbante,
laddove l’improbabile sotto forma di sincronicità genera stupore e induce
a escludere il caso in favore del senso. L’identità latente come legame ipo-
tetico istituito tra valori dando l’impressione di un ordine basato su com-
pensazioni e risarcimenti.595 La ripetizione come garanzia del «rigore del
ritorno dell’eguale», intensificazione delle «resistenze contro l’arbitrio del-
le variazioni»,596 sottrazione dell’ordinario ai casi del mondo esterno, vero
e proprio «principio strutturale»597 del mito. Poi, la reciprocità di resisten-

587 Ivi, p. 122.


588 Ivi, p. 124.
589 Ivi, p. 122.
590 Ivi, p. 124.
591 Ivi, p. 127.
592 Cfr., oltre a Rothacker, W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino
1954, p. 347.
593 H.U. Lessing, Osservazioni sul concetto di significatività in Hans Blumenberg, in
«Discipline Filosofiche», n°1, 1992, p. 58.
594 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 438.
595 Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 100-104.
596 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21.
597 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 238.
Risvegli 147

za e intensificazione dell’esistenza e la circolarità, che trovano nel viaggio


di Odisseo la loro rappresentazione somma, laddove il nostos si riempie di
significatività grazie al superamento di avversità esterne e sviamenti inte-
riori e a una chiusura del cerchio che è al contempo «restituzione del sen-
so», immagine di un ritrovato «ordine del mondo e della vita contro ogni
apparenza di arbitrio e caso».598 Infine, l’isolamento del grado di realtà di
una cosa fino all’esclusione di ogni realtà concorrente, come avviene nel
caso del masso di Sisifo. Si trovano «figure dalla qualità mitica», come
Odisseo, Prometeo, Sisifo, o il figliol prodigo, ovunque vi sia una storia
che dà «pregnanza immaginativa» a dei fenomeni elementari e quotidiana-
mente presenti nel «mondo della vita».599
Certo, la pregnanza del mito trascina con sé la propria patologia caratte-
ristica: poiché «la suggestione che con esso e in esso non resti nulla di non
detto»600 non equivale all’esaurimento degli interrogativi grazie al raggiun-
gimento di certezze fondate, ma a un’impressione di compiutezza e totali-
tà tale da far cessare l’ossessiva ricerca di risposte alle domande, il rischio
è che la Fraglosigkeitsgeneration spenga la curiosità teoretica, che la pre-
gnanza sia così pregnante da sfociare in un sonno senza sogni, un «sonno
della ragione» che alla lunga non può che produrre mostri.601 Qual è l’anti-
doto? Risiede, probabilmente, nella «labilità» che sempre accompagna la
«stabilità» del mito, nella sua capacità di variazione come principio dina-
mico della stessa Arbeit am Mythos, nella «licenza di immaginazione»602
che non solo il mito, ma la ragione come mescolanza di concettuale e in-
concettuale si concede.
In altri termini, la generazione continua di zone nuove di significatività
in un mito603 è direttamente proporzionale alla sua capacità di esemplifica-
re una relazione o una condizione esistenziale considerata essenziale, no-
nostante i mutamenti di prospettiva storicamente determinati che su questa
possono incidere. Il «mito artificiale» (Kunstmythos), che sembra sempli-
cemente utilizzare la tradizione come tecnica narrativa cui ispirarsi al fine
della pura invenzione di miti inediti, si sviluppa in realtà sempre come ela-
borazione di «elementari modelli di base», la cui configurazione è sogget-

598 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 106.


599 Ibidem.
600 Ivi, p. 220.
601 Cfr. P. Stoellger, Imagination der Vernunft, cit., p. 159-161.
602 Ivi, p. 160.
603 Inteso come «sistema altamente complesso di simbolizzazioni, il quale si trasfor-
ma insieme alla situazione socio-culturale»: V. Cesarone, Mito e razionalità. Blu-
menberg, Hübner, Jamme, in «Idee», n°31-32, 1996, p. 219.
148 Dialettica della caverna

ta a processi di svuotamento e soprattutto di «rioccupazione» (Umbe-


setzung) delle forme date. Non si impone nella memoria il testo che
irrompe come l’«impensato-sconvolgente», ma quello che «riferisce qual-
cosa che completi il pensato-in-anticipo» e che invoca un’«evidenza
iconologica».604 E resistono al potere corrosivo del tempo quelle narrazio-
ni che tradiscono una «vicinanza associativa a rappresentazioni dell’origi-
ne e del destino umani».605 L’elaborazione del mito sottopone certo tutti i
materiali al proprio «darwinismo delle parole», ma tiene sempre in conto e
tende a salvare quelle familiarità con determinate immagini, radicate nella
storia profonda e dunque affidabili; sa che non si possono infrangere alla
leggera. Per questo una ricezione, come riscrittura o interpretazione, è sem-
pre «tanto opposizione e distanza, quanto dipendenza e prossimità».606
Essa si dà come un’ermeneutica «irrisolvibile nell’univocità», che accom-
pagna l’assimilazione della tradizione testuale con una dose indispensabile
di ignoranza, di dimenticanza.607 Così funziona il «gioco» della ricezione,
come un ‘telefono senza fili’, impedendole, qualora abbandonasse ogni
equivocità, di trasformarsi in scienza.608

3.2.2 Retorica

Il meglio del mito risiede allora nel suo carattere retorico, inteso come
criterio di tolleranza che oppone al dogmatismo una riduzione della serie-
tà.609 Ma questo sarebbe il criterio della ragione tutta, una volta ammessa la
propria insufficienza e l’imbricazione dei suoi concetti con le forme dell’in-
concettuale. La retorica è una prassi costitutivamente umana non solo in
quanto forma di ciò che rende unico l’uomo: il linguaggio, ma perché in
essa il linguaggio si mostra quale «funzione della specifica inibizione
dell’uomo»,610 e tale inibizione è da intendersi in un duplice senso: come
deficit istintuale e ‘divieto di immediatezza’ nei confronti della realtà e
come deficit cognitivo, dipendenza da un principium rationis insufficientis,
dall’impossibilità di accedere all’essenziale. Il che però non significa – ed

604 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 31.


605 Ivi, p. 618.
606 Ivi, p. 178. Corsivo mio.
607 Ivi, p. 562.
608 Cfr. ivi, p. 560.
609 Cfr. A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo:
retórica y mito en Blumenberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blu-
menberg, cit., pp. 163-164.
610 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 88.
Risvegli 149

è qui che entra in gioco la retorica – che l’uomo possa permettersi di rinun-
ciare al fondamento; solo, deve sapere che «nella sfera della fondazione
della prassi vitale l’insufficiente può essere più razionale dell’insistere su
una procedura “scientiforme”»;611 che anche il moderno metodo scientifico
procede storicamente – secondo «la struttura delle rivoluzioni scientifiche»
– sul terreno di ipotesi precarie basate in ultima istanza su un consensus
che potrebbe stabilizzarsi oppure no. La retorica interviene nella misura in
cui non si ha piena corrispondenza tra la realtà e i concetti, tra le parole e le
cose. Sarebbe anzi lecito domandarsi se la significazione non possa essere
intesa come una «retorica generalizzata, vale a dire che la “retoricità” po-
trebbe essere vista, non come un abuso, ma come costitutiva (in senso tra-
scendentale) della significazione».612
Ma allora la ‘doppia compensazione’ cui la retorica è chiamata ne evi-
denzia un uso duplice e apparentemente contradditorio: da un lato, come
medium, ossia strumento linguistico che si frappone tra l’uomo e la realtà,
essa opera – come ben si mostra nei meccanismi di funzionamento del mito
– con sostituzioni, filtri, forme di Umwegigkeit, esitazione e circostanziali-
tà che differiscono o impediscono l’azione. In tal senso essa è «arte della
dilazione»613 e «dell’illusionismo»,614 usa il linguaggio come un «de-
realizzatore»615 che, creando un mondo di apparenze, ci tiene occupati per
evitare la coazione all’azione. In quanto «strumento di messa fra parentesi
del corpo»,616 la retorica è «originariamente legittima difesa. E la sua figu-
ra fondamentale è quindi l’apotropaion: la fuga dietro un’immagine».617
In tal senso la retorica ha a che fare con la «struttura temporale» delle
azioni618 nel senso dell’esitazione e della pensosità e in modo inversamen-
te proporzionale rispetto all’aggressione e alla «tecnicizzazione», il cui in-
tento è precisamente il risparmio di tempo.
D’altro canto, spesso dinnanzi alla coazione all’azione e alla decisione è
proprio la retorica a farsi veicolo di automatizzazione del comportamento

611 Ivi, p. 104.


612 E. Laclau, L’articulation du sens et les limites de la métaphore, in Interpréter la
métaphore, in «Archives de philosophie», n°70/4, 2007, p. 603.
613 C.G. Cantón, Absolutism: Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept, in A.
Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 128.
614 Ivi, p. 129.
615 Ivi, p. 128.
616 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 614.
617 N. Bolz, Das Gesicht der Welt. Hans Blumenbergs Aufhebung der Philosophie in
Rhetorik, in J. Kopperschmidt (a cura di), Rhetorische Anthropologie. Studien
zum homo rhetoricus, Wilhelm Fink, München 2000, p. 95.
618 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 100.
150 Dialettica della caverna

umano, interrompendo il «lavoro infinito» della ragione (Husserl), favo-


rendo il conseguimento di quel consenso che solo può garantire l’azione e
il vivere associato, stabilendo forme di «morale provvisoria».619 Da questo
punto di vista sembra che essa, mostrando all’interno dei propri meccani-
smi «la temporalità double face dell’essere umano», si configuri al contem-
po come arte della dilazione e soluzione per la costitutiva mancanza di
tempo umana.620 Dunque, se per un verso è vero che tecnica e retorica sono
due «modulatori temporali» che funzionano antiteticamente, la prima me-
diante accelerazione entro lo spazio dell’agire umano storico sotto forma di
«progresso»,621 la seconda tramite rallentamento, sovrapponendo l’agire
comunicativo all’azione tout court,622 al contempo entrambe sono soggette
a rovesciamenti e contaminazioni, laddove la tecnica libera il campo per
una «nuova lentezza» e la retorica sovente opera per «rendere più conciso
il corso naturale della comunicazione o sfuggire a un’impasse».623 E inol-
tre non va dimenticato che la retorica stessa è una tecnica, come a sua vol-
ta la tecnica è una forma di rapporto ‘retorico’, ossia indiretto con la realtà.
Anche qui Blumenberg mette in guardia dallo snobismo che oppone a
un’eloquenza presunta come gratuita e fallace la purezza del concetto, in-
troducendo un bisogno antropologico e facendo luce sulle ibridazioni di
cui anche i saperi che si vogliono più incontaminati non possono fare a me-
no.624 Se sul piano antropologico il principio di ragion sufficiente non può
essere soddisfatto, ciò significa che la natura ha posto all’azione e al vole-
re dell’uomo confini invalicabili, di cui l’etica e la filosofia della società
devono entrambe tenere conto: «sono i confini oltre i quali solo la consola-
zione è ancora possibile».625 L’uomo è, tra le altre cose, un «essere bisogno-
so di consolazione» e i mezzi in grado di procurargliela sono «preferibil-

619 Cfr. C.G. Cantón, Absolutism, cit., pp. 135-142.


620 Ivi, p. 142.
621 R. Campe, Von der Theorie der Technik zur Technik der Metapher. Blumenbergs
systematische Eröffnung, in A. Haverkamp, D. Mende (a cura di), Metaphorolo-
gie, cit., p. 291.
622 Su questa ‘Zeitdialektik’ si tornerà nel prossimo paragrafo.
623 R. Campe, Von der Theorie der Technik zur Technik der Metapher, cit., p. 292.
624 Ciò tuttavia non giustifica – come già discusso nell’introduzione – le posizioni di
chi sostiene che «via metaforologia Blumenberg ponga la retorica come sostituto
della filosofia», per quanto certamente si possa affermare che egli ne supera le
pretese fondative di tipo metafisico via «antropologia retorica». J. Haefliger, Ima-
ginationssysteme. Erkenntnistheoretische, anthropologische und mentalitäthisto-
rische Aspekte der Metaphorologie Hans Blumenbergs, Peter Lang, Bern 1996, p.
106.
625 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 651. Corsivo mio.
Risvegli 151

mente e forse esclusivamente di natura retorica».626 Perciò la retorica non


va disprezzata, poiché più che un’«arte della seduzione demagogica» va
compresa soprattutto come una «forma della cura dell’anima», come un fe-
lice artificio in grado di restituire all’uomo la giusta dose di buona Stim-
mung e gioia di vivere, certo, spesso attraverso una dissimulazione delle
cause, vere sì ma irrimediabili, dell’umana miseria. Credere che la «nuda
verità» possa bastare alla vita sarebbe un abbaglio di cui anche la filosofia
dovrebbe avere timore.627 «Bisogno di consolazione e inconsolabilità
dell’uomo»628 sono i due poli di un’humana condicio che legittima l’assun-
to, scomodo per le ambizioni veritative della filosofia, secondo cui – con
esplicito riferimento a Boezio – anche quest’ultima si presta e si mostra
spesso più adatta a soddisfare un bisogno di consolazione che una pretesa
di verità. Per quanto la consolazione possa apparire l’appendice spregevo-
le di un realismo in partenza refrattario a modificare la realtà, essa è soprat-
tutto una categoria antropologica centrale e ineludibile. A tal proposito,
scrive Blumenberg in un passo di Die Sorge geht über den Fluss, «Sigmund
Freud ha completamente ragione quando afferma che chi cerca il senso del-
la vita è malato. Pertanto lo si deve guarire, non accontentare; e se non lo
si può guarire, consolare».629
In ultimo il principium rationis insufficientis da cui la retorica scaturisce
investe proprio il nostro stare al mondo: l’uomo deve pur sempre tollerare
«la non-ovvietà del suo esserci, come specie e come individuo»,630 la sua
contingenza. In fondo la questione fondamentale dell’essere si può così ri-
formulare in termini antropologici: «l’uomo è un essere razionale perché la
sua esistenza è irragionevole, ovvero: priva di una ragione adducibile».631
Perciò sbarazzarsi di retori, sofisti e dispensatori di consolazione risulta
quantomeno complesso.
Non solo: la retorica porta con sé una «radicalità paleontologica»632 an-
che perché trova le sue fondamenta nelle profondità della questione vitale
della visibilità (Sichktbarkeit) e dell’opacità (Undurchsichtigkeit) dell’es-

626 Ivi, p. 655.


627 Cfr. ibidem.
628 Questo – significativamente – il titolo del capitolo IX di Beschreibung des Men-
schen. Cfr. ivi, pp. 623-655.
629 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 65.
630 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 634.
631 Ivi, p. 638.
632 N. Bolz, Das Gesicht der Welt, cit., p. 90.
152 Dialettica della caverna

sere umano: l’uomo è visibile agli altri in qualità di corpo impenetrabile,


«corpo oscuro» (Dunkelkörper).633
Diversamente, al di fuori del contesto intersoggettivo, «per l’io il pro-
prio corpo, al livello della normalità, è per eccellenza penetrabile (dur-
chsichtig); così penetrabile che si trova sempre al di fuori di sé».634 Tutta-
via la riflessione non può sorgere nello stato della normalità, ossia della
«trasparenza del corpo per l’io corporeo»,635 poiché nel benessere e nell’as-
senza di pericolo il corpo semplicemente non c’è, non viene percepito, non
è luogo di «esperienza».636 Solo nel dolore esso diviene reale, quando non
soddisfa più l’esigenza di non farsi notare. Similmente «la visibilità non si-
gnifica nulla senza la circostanza, la situazione, la qualità del terreno in cui
è diventata percettibile».637 Ma allora è chiara la natura mediata della rifles-
sione. La riflessività

è la partecipazione all’ottica passiva, all’attenzione che già sempre altri han-


no rivolto alla visibilità, del tutto irrilevante per il soggetto in sé, del suo corpo,
e che volge la propria “intentio recta” dall’esterno – e non tramite il fattore in-
terno “anima”: la piega all’indietro verso il dato di fatto fino a quel momento
non tematizzato che quest’io rappresenta nell’ambito della propria visibilità.638

Nella situazione acuta dell’appariscenza, della visibilità e della scoperta


della propria opacità per gli altri, si ottiene anche un’«inevitabile
autopresentazione».639 Paradossalmente, mentre il nostro corpo resta inav-
vertito, trasparente, al contempo nella dinamica innescata dallo «sguardo
estraneo»640 l’interiorità si mostra come mito,641 si palesa l’«impenetrabilità
dell’uomo per se stesso»:642 anche «l’autoconoscenza dell’uomo procede
per vie traverse (sei umwegig)».643 L’io – secondo un’espressione goethia-

633 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 658.


634 Ibidem.
635 Ivi, p. 669.
636 Ivi, p. 676.
637 Ivi, p. 679.
638 Ivi, p. 699.
639 Ivi, p. 770; cfr. anche H. Blumenberg, Der verborgene Gott der Phänomenologie,
in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 140.
640 Cfr. H. Müller, Lo sguardo estraneo. Ovvero, la vita è una scoreggia in un lam-
pione, Sellerio, Palermo 2009.
641 Faccio riferimento al titolo di un libro del celebre psichiatra Giovanni Jervis: «il
mito dell’interiorità». Cfr. G. Jervis, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filo-
sofia, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
642 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 882.
643 Ivi, p. 886.
Risvegli 153

na – è la «zona cieca della retina», una «regione di inettitudine percettiva»:644


nessuno può guardare se stesso negli occhi e in ciò sta anche l’impasse
dell’impresa fenomenologica che, giungendo alla soluzione trascendenta-
le, ‘scopre’ che la riflessione non conduce all’esperienza di sé, all’autoco-
noscenza, ma a una coscienza assoluta, mentre attraverso lo sguardo degli
altri otteniamo un’esperienza di noi stessi nella forma della deviazione.
L’uomo diviene spettatore del suo stesso osservare, avendo preso coscien-
za della propria visibilità. Ma ciò significa prendere davvero alla lettera
quel reflexiv: la coscienza è riflessa, la riflessione non si dà semplicemen-
te; si apprende artificiosamente a partire dalle auto-relazioni che divengo-
no necessarie per la sopravvivenza nell’ottica passiva. Per questo non può
riguardare un io trascendentale puro: essa è un «dato antropologico esisten-
ziale ancorato all’esserci dell’uomo» e al suo coinvolgimento nel mon-
do.645
Tutto ciò conduce a una comprensione dell’essere umano, prima e più
che come homo sociologicus, come fenomeno, come qualcosa che «si
mostra».646 Un’autorappresentazione efficace presuppone una «retorica
interna»,647 che Blumenberg chiama appunto la «schermatura retorica
dell’autopresentazione»648 e che è originariamente una forma di autocon-
servazione. Dunque, si potrebbe dire, per poter vivere è necessario che vi
sia consensus anche tra sé e sé.

3.2.3 Metafora versus concetto

Si potrebbe descrivere la metafora come «il relitto di un mito», la forma er-


metica, ultracondensata, di «una storia con grandezze chiamate per nome, alla
quale non c’è bisogno di richiedere una completezza degli eventi»,649 poiché si
tratta di una parzialità in grado di produrre un senso di totalità e insostituibili-
tà. Ma allora una corretta metaforologia non funge solo da rettifica e comple-
mento per la storia dei concetti, essa fa anche luce sul nesso che ogni formazio-
ne linguistica conserva col «retroterra del mondo della vita in quanto sostegno
motivazionale costante di ogni teoria».650 Le metafore alludono al luogo in cui

644 Ivi, p. 880.


645 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 112.
646 N. Bolz, Das Gesicht der Welt, cit., p. 91.
647 Ibidem.
648 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 99.
649 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 64.
650 H. Blumenberg, Verso una teoria dell’inconcettualità, in Naufragio con spettato-
re, cit., p. 115.
154 Dialettica della caverna

sono sorti interrogativi che le risposte scientifiche hanno finito per scansare e
negare, spesso barattando significatività in cambio di certezze; sono «fossili
guida di uno strato arcaico del processo della curiosità teoretica».651
Restituire cittadinanza alla metafora dentro e fuori la Begriffsgeschichte
significa innanzitutto svincolarla dalla dimensione estetica per ricondurla
all’orizzonte dell’antropologia. Infatti, se da un lato – soprattutto nel primo
programma metaforologico enunciato in Paradigmen zu einer Metaphoro-
logie (1960) – si tratta di ripercorrere la storia dell’uso e delle concezioni
della metafora entro il discorso filosofico e scientifico, svelando così come
alcune metafore e i loro slittamenti di senso partecipino alle svolte epocali
che segnano la storia delle idee e delle concezioni del mondo, generando,
preparando, nutrendo come un fertile humus il cammino del concetto; d’al-
tro canto esistono metafore refrattarie a qualsiasi forma di traduzione con-
cettuale, «metafore assolute»652 in grado di tracciare vie immaginarie d’ac-
cesso a una totalità «che resterebbe, altrimenti, irrappresentabile, ma che
non possiamo fare a meno d’interrogare fin tanto che “ne” siamo presi».653
Sono proprio queste ultime a svolgere un’eminente funzione pratica e
teorica di orientamento (la dimensione estetica è loro propria solo in
seconda battuta, come esito della riuscita delle loro performances), a
rispondere a un inesausto bisogno metafisico654 quantomeno su un piano
operativo: insomma la metaforica assoluta «si apre al posto del non
sapere».655 Se anche filosofia e metodo scientifico hanno inteso tracciare

651 Ivi, p. 116.


652 Si ricordi che ci si riferisce, con questa espressione, a traslati indeducibili e irridu-
cibili ad altre forme di pensiero, capaci tuttavia di definire orizzonti di senso e
orientare in virtù della propria potenza immaginativa. Si veda ad esempio H. Blu-
menberg, Paradigmi per una metaforologia, cit., p. 21.
653 J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 46. Mi permetto di accelerare un po’ su
questi passaggi che riguardano opere già ampiamente trattate anche dalla ricezio-
ne italiana. In ogni caso, si conviene generalmente sul fatto che vi sia uno slitta-
mento prospettico tra i Paradigmen del 1960 e il breve saggio Ausblick auf eine
Theorie der Unbegrifflichkeit, pubblicato nel 1979 in chiusura di Schiffbruch mit
Zuschauer: cfr. M. Macciantelli, Verso una teoria dell’inconcettuale: Hans Blu-
menberg e la metaforologia, in «Studi di estetica», n°13, 1985, pp 154-169; A.
Comincini, Hans Blumenberg. L’ansia si specchia sul fondo, in «aut aut», n°231,
1989, pp. 145-147; F. Desideri, Una filosofia in contro-luce. Glosse su teoria e
metafora in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg, cit.,
pp. 47-63; E. Melandri, Per una filosofia della metafora, cit., pp. VII-XIV.
654 Cfr. B. Merker, Phänomenologische Reflexion und pragmatische Expression.
Zwei Metaphern und Methoden der Philosophie, in A. Haverkampf, D. Mende (a
cura di), Metaphorologie, cit., p. 159.
655 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 494.
Risvegli 155

confini netti tra ciò che può e non può essere detto, occorre non confondere
l’indicibile (Unsagbare) con l’«indescrivibile» (Unbeschreibbare) o
l’«inappellabile» (Unverweisbare) linguisticamente, poiché esso coincide
soltanto «con l’irraggiungibile mediante il concetto come correlato della
sostanza».656 Se davvero ci si dovesse attenere a una piena aderenza
definitoria, a un ideale severo di chiarezza e distinzione, si vedrebbe come
il campo di ciò di cui non si può parlare si estenderebbe tanto da impedire
di pronunciarsi su quasi tutto quello che riteniamo importante. Il punto è
che «anche qualora si riuscisse a rispondere a tutte le domande scientifiche,
i nostri problemi vitali non sarebbero ancora nemmeno toccati».657 Per
questo la filosofia non si può permettere di lasciare l’ineffabile «senza
patria»;658 per questo deve accogliere la metafora, perché le metafore – le
metafore assolute – non mostrano solo il cammino del concetto ma
conducono, a ritroso, verso il mondo della vita.
Se anche si ammette che il concetto rappresenti il «trionfo» della ragio-
ne, tra ragione e concetto non sussiste identità. Se la ragione è quintessen-
za delle «prestazioni a distanza», il concetto declina questa funzione nei
termini di una «sostituzione dell’attualità», di una relazione con un ogget-
to fortuitamente o costitutivamente assente.659 Esso sorge dall’actio per di-
stans, ha il suo prototipo nelle trappole dei cacciatori semi-nomadi, la sua
chiarezza e distinzione sono prefigurate nella situazione ottica di partenza.
Anch’esso, come mezzo di prevenzione, prefigurazione e progettualità, ha
un’origine nettamente performativa; l’oggettività che il concetto conquista
«non è ancora un fine, è in prima istanza un mezzo per essere in grado di
trattare gli uni con gli altri»,660 dato che anche la costruzione della trappo-
la presuppone una rappresentazione condivisa della preda che si attende.
Ma nemmeno la scienza è completamente guidata da un principio di eco-
nomia, anche teorie stabili hanno bisogno di operazioni superflue.661 Come
il mito, scacciando la paura, libera inesausta e inutile bellezza, così il con-
cetto, adempiendo alla propria prestazione intesa come «distacco dalla
contemplazione», relazione con l’invisibile, permette proprio perciò un

656 H. Blumenberg, Bruchstücke des «Ausblicks auf eine Theorie der Unbegrifflich-
keit», in Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 102.
657 H. Blumenberg, Bruchstücke, cit., p. 103.
658 Ivi, p. 104.
659 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 9; cfr. anche H. Blu-
menberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 313.
660 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 15.
661 Cfr. in particolare H. Blumenberg, Exkurs über Ökonomie und Luxus, in Theorie
der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 19-25.
156 Dialettica della caverna

«ritorno alla contemplazione (Anschauung)»;662 l’Entlastung che realizza


apre le porte all’«aspirazione a un nuovo presente» sotto forma di godi-
mento e consumo.663 Ma allora è già visibile come nella «sfera originaria
del concetto» e tutto intorno ad esso dimori la metafora, come l’estetico
emerga dal mitico e dal metaforico nel loro rapporto genetico, funzionale e
ausiliario con il concetto.664
Talvolta, come nel caso delle ‘idee della ragione’, ci si trova di fronte a
formazioni la cui identità concettuale o metaforica è indecidibile: l’idea di
mondo è uno «spazio indeterminato» in cui si cela una metaforica.665 Si
tratta insomma di «determinazioni deboli»666 attraverso le quali può farsi
strada la metafora; vale a dire che emergono metafore post-concettuali, che
attendono di comparire laddove i concetti si svuotano: ovunque si dia una
«vacanza del concetto»667 lo «rioccupano» con nuove significatività come
i pesci fanno dei relitti la loro dimora.
Ancora: da una frase che comincia con il soggetto «l’Essere» ci si devo-
no attendere metafore e metafore assolute.668 Vale la pena arrischiarsi su
questo terreno? L’Essere è «un MacGuffin»,669 quel «vuoto», quel «niente»
che muove l’azione, uno «zero efficiente» – per usare un’espressione
jesiana:670 qualcosa che avvia e alimenta la conversazione, perché svelarne
il nome non fa che aumentare la suspense sulla sua identità. Anche i filoso-
fi – scrive Blumenberg – «hanno avuto e devono avere i loro MacGuffin

662 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 27.


663 Ibidem.
664 Ivi, p. 28.
665 Ivi, p. 57.
666 Ivi, p. 62.
667 Ivi, p. 74.
668 Cfr. ivi, p. 65.
669 H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, in Ein mögliches Selbstverständnis,
cit., pp. 157-160 (ed. orig. del 1987). Su questo bellissimo brano blumenberghia-
no, sul suo significato e sull’esercizio del pensiero in rapporto a ciò che manca si
veda L. Boella, Come preservare il desiderio di pensare. Introduzione, in H. Blu-
menberg, Concetti in storie, cit., pp. 7-20. Blumenberg fa riferimento a F. Truf-
faut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma 1989, pp. 111-114.
670 Jesi definisce così il mito, «un “ciò che non c’è”», o «il meno quid che si possa
immaginare», che tuttavia appare come qualcosa e ha un potere dinamico, mobi-
litante (F. Jesi, Esoterismo e linguaggio. Studi su R.M. Rilke, D’Anna, Firenze
1976, pp. 36-38). Ma potrebbe venire in mente anche il nesso derridiano tra «let-
teratura» e «segreto», laddove la prima si origina dal secondo, meglio, dal suo ine-
sorabile tradimento e smarrimento. Cfr. J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book,
Milano 2002.
Risvegli 157

per mantenere il lavoro del pensiero così come il piacere dei suoi risultati».671
«I mezzi giustificano il fine e i segreti svelati lungo la via giustificano ciò
che resta insvelato».672 La grande, imponente impresa della scienza è stata
avviata, rendendo disponibile per noi tutto ciò che serve «per mantenere in
vita il nostro mondo»;673 certo, ci ha detto tutt’altro rispetto a «ciò che vo-
levamo veramente sapere», ma ciò non significa che possiamo acconten-
tarci dei risultati sbarazzandoci del resto, poiché spegneremmo il motore
della ricerca. Lungo la via c’era la pensosità, l’indugio – e «l’indugio si è
dimostrato il senso della via».674 Per chi non si lascia tentare dalla tensione,
per coloro che considerano la domanda sul senso dell’essere priva di sen-
so, tutti gli allestimenti per la spedizione nella terra incognita della com-
prensione dell’essere consistono in una noia profonda.
La curiosità muore, e con essa la filosofia, se non si ammette la metafo-
ra: «il concetto sopravvive grazie al refrigerio dei bagni che prende in nuo-
ve metafore».675
Come distinguere dunque concetto e metafora? Le loro «possibilità ope-
rative» – scrive Blumenberg – sono entrambe «iperboliche», ma l’una sfo-
cia nella mistica, l’altra nel mito; questo perché – per ragioni ancora una
volta antropogenetiche – intrattengono un diverso rapporto con la negazio-
ne. Nella situazione preventiva originaria, in presenza di un orizzonte mai
così vasto, il concetto funge da «organo della perceptio per distans»676 non
solo introducendo nella previsione la «possibilità» di ciò che non è imme-
diatamente colto, dunque tramite «presunzioni positive», ma anche se-
gnando la «differenza tra possibilità e realtà», riducendo nuovamente l’o-
rizzonte, operando «esclusioni negative».677 L’«esplorazione delle
possibilità» conduce alla «produzione della negazione».678 La negazione
produce «la scelta della realtà sulla coscienza delle possibilità».679 Ora,
come la vita onirica secondo Freud, la metaforica non conosce negazione
né esclusione, a meno che non sia sottoposta a verifica concettuale. Le me-

671 H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, cit., p. 159. Ad esempio – prosegue
Blumenberg - la seconda parte di Sein und Zeit non fu scritta perché non poteva
essere scritta e Heidegger sapeva che avrebbe messo in pericolo tutta la significa-
tività se non l’avesse lasciata in forma di frammento.
672 Ivi, p. 160.
673 H. Blumenberg, Sguardo su una teoria dell’inconcettualità, cit., p. 122.
674 H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, cit., p. 160.
675 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 60.
676 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 75.
677 Ibidem.
678 Ibidem.
679 Ivi, p. 76.
158 Dialettica della caverna

tafore non sono attraversate da conflitti, sono in linea di massima sovrap-


ponibili, purché alludano a qualcosa evocandone la significatività e ren-
dendolo disponibile a discorsi; dalla metafora è sempre possibile creare un
mito,680 essa forza la povertà del linguaggio spingendolo in direzione di un
«rapporto espansivo col mondo», di una «dinamica centrifuga».681 Al con-
trario, l’extrema ratio del concetto è la teologia negativa, il punto in cui,
nella sua prestazione per eccellenza di presentificazione dell’assente, esso
semplicemente lascia che l’assente rimanga tale, si volge in negazione, in
estrema povertà. Il fatto è che, nella massima rarefazione del concetto, lad-
dove questo dovrebbe disfarsi della metafora, della rappresentazione, pro-
prio qui entra in gioco la mistica e ha luogo (Blumenberg fa l’esempio del-
la gnosi, o dell’idea heideggeriana di Nulla) un’audace connessione
funzionale di concetto e metafora: l’«aumento debordante della negazione
si rovescia in metafora».682 Allora, nel campo della produzione di distanza,
metafora e concetto, inconcettualità e concettualità lavorano gomito a go-
mito e, pur azionando meccanismi differenti, talvolta non possono evitare
di prendere in prestito il rispettivo strumentario e intervenire l’una sul pro-
dotto dell’altra. La ragione filosofica, se non vuol fare germogliare in sé
miti e metafore come rigogliose metastasi, non deve spingere il concetto
alle sue estreme conseguenze, ma procedere nella consapevolezza critica
dei propri limiti, intesi non solo in termini spaziali, ma anche temporali. Si
tratta per l’appunto di condurre una critica antropologica della ragione, di
tracciarne una genealogia, o meglio di tentare un’«archeologia»683 delle
condizioni di bisogno che ne hanno determinato genesi, facoltà, funzioni e
confini. La postura filosofica stessa di Blumenberg, che è quella ‘orfica’
del fenomenologo che predilige la descrizione alla definizione e la metafo-
rologia all’ideale di una storia dei concetti puri, lo conduce alla domanda
antropologica684.

680 Cfr. ivi, p. 73.


681 Ibidem.
682 Ivi, p. 79.
683 Cfr. O. Müller, Von der Theorie zur Praxis der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 267-268.
684 Cfr. J. Goldstein, Arbeit an der Bedeutsamkeit. Humane Selbstbehauptung bei
Hans Blumenberg, in M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane, cit., p.
88.
EXCURSUS
Sul concetto di cultura: carenza, lusso, compensazione
e domesticazione

La caverna in Blumenberg è la «fondamentale metafora esistenziale


(Daseinsmetapher) della costituzione culturale dell’uomo».1
Difesa e abbondanza sono in effetti i termini chiave di una concezione
originale e ambivalente della cultura, che tenta di trovare una propria col-
locazione, ma anche per certi versi di posizionarsi in maniera eccentrica, ri-
spetto all’annoso dibattito antropologico su «lusso» e «carenza» dell’esse-
re umano. Le Anthropologische Annäherung an die Aktualität der Rhetorik
si aprono proprio con la riproposizione di tale questione, e vale la pena ri-
portarne l’incipit per intero:

I modi di ciò che oggi si chiama antropologia filosofica si possono ridurre a


una alternativa: l’uomo quale essere “ricco” o “povero”. Che l’uomo, da un
punto di vista biologico, non sia legato a un determinato ambiente, lo si può in-
tendere come una deficienza fondamentale dell’ordinario equipaggiamento per
l’autoconservazione, oppure come apertura alla pienezza di un mondo non più
esclusivamente vitale. Lo rende creativo l’emergenza dei suoi bisogni, oppure
il rapporto giocoso con il sovrappiù delle sue qualità? Egli è l’essere incapace
di far qualcosa senza scopo, oppure è l’animale capace solo di un acte gratuit?
L’uomo viene definito in base a ciò che gli manca, oppure in virtù di quella
simbolica creativa con la quale si appaesa in mondi propri? Egli è lo spettatore
dell’universo, posto al centro del mondo, oppure è l’eccentrico scacciato dal
paradiso su quel granellino insignificante che è la terra? L’uomo custodisce in
sé il prodotto ben stratificato di tutta la realtà fisica, oppure è un essere imper-
fetto abbandonato alla natura, travagliato da residui istintuali divenuti incom-
prensibili e privi di funzione?2

Si potrebbe attribuire al «paradigma dell’incompletezza» una storia as-


sai lunga, cominciata col mito di Prometeo così come esso è narrato da
Esiodo nelle Opere e i giorni e nel Protagora di Platone, proseguita col te-
omorfismo di Pico della Mirandola fino a giungere, passando per Tomma-

1 C. Polke, Symbol, Metapher, Kultur, cit., p. 51.


2 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 85.
160 Dialettica della caverna

so D’Acquino, alla nostalgia di Montaigne per la natura autentica dell’ani-


male, alle cui leggi l’uomo avrebbe deciso scelleratamente di sottrarsi, e al
rigido dualismo cartesiano fra natura e cultura, in cui l’assenza di vincoli di
specializzazione diviene attestato di superiorità come libertà dalle leggi de-
terministiche che regolano la materia.3 Con Herder si ha la formulazione
canonica del teorema,4 ma sarà Gehlen a offrirne la versione più interessan-
te e sofisticata.5
Ricorrendo giocoforza al «principio dell’esonero», che gli permette di
consolidare abitudini e comportamenti, risparmiare energia evitando di ripe-
tere ogni volta delle scelte in risposta al flusso copioso di stimoli esterni e
pulsioni interne, l’uomo può destinare l’energia salvata a prestazioni supe-
riori e creare il proprio «ambiente culturale», l’unico che gli consente di co-
struirsi un nido nel mondo.6 La sfera culturale, che sorge come «surrogato»
di ciò che per l’animale è rappresentato dall’ambiente, si configura come

l’insieme delle condizioni naturali padroneggiate, modificate e utilizzate


dall’uomo con la sua attività, il suo lavoro, incluse le abilità e le arti più condi-
zionate, esonerate, che divengono possibili solo su quella base.7

È chiaro che Blumenberg si pone sulla scia di Gehlen, il cui pensiero è a


sua volta radicalizzato dalla prospettiva alsberghiana,8 che intende l’Entla-
stung come Körperausschaltung in grado non solo di trasformare la caren-
za biologica in serbatoio per la produzione di lusso culturale, ma di inne-
scare una progressiva e inesorabile atrofia ulteriore delle funzioni corporee.
Pertanto le affermazioni di Blumenberg sull’uomo ora come Mängelwe-
sen ora come «legato al principio del lusso»9 sono i due lati inseparabili
della stessa medaglia. Se segue Cassirer nel definire l’uomo animal symbo-
licum, tuttavia sente il bisogno di ‘correggerlo’ con Alsberg e Gehlen nel
momento in cui l’antropologia cassireriana «rinuncia a chiarire perché si

3 Cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Borin-


ghieri, Torino 2002, pp. 15-17.
4 Cfr. J.G. Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, Pratiche, Parma 1995.
5 Cfr. ade esempio A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 60.
6 Cfr. M.T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano 2001, 58-
66.
7 A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 65.
8 Naturalmente – come mostra Fischer – Gehlen in primis era profondamente in-
fluenzato dall’opera pionieristica di Paul Alsberg: cfr. J. Fischer, Philosophische
Anthropologie, cit., p. 176.
9 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 17.
Excursus 161

impongano tali “forme simboliche”»10 e comprendere a partire da ciò come


abbia potuto sopravvivere «nonostante la sua inadeguatezza biologica».11
Solo ponendo la questione in questi termini è possibile vedere il rapporto
metaforico e simbolico dell’uomo con la realtà come risposta all’imperati-
vo di sopravvivere. La storia dell’uomo insegna che i meccanismi sostitu-
tivi e compensativi sono ciò che ha scongiurato l’eventualità della sua
estinzione. Per questo demonizzare il bisogno umano di «surrogati» è un
atteggiamento che in un certo senso ‘offende la memoria dell’umanità’.12
L’uomo abita e si muove in un universo supererogatorio e non potrebbe es-
sere altrimenti.
La cultura è – a conti fatti – eminentemente una «possibilità seconda».
La predilezione di Blumenberg per il paradigma dell’incompletezza non
dipende tanto da considerazioni valutative né da un’analisi esaustiva di
materiali empirici, quanto dall’intenzione di razionalizzare l’indagine an-
tropologica liberandola dai suoi presupposti sostanzialistici,13 affidandosi
piuttosto al motto di Dilthey secondo cui «ciò che l’uomo è, glielo dice
solo la storia».14 E, visto da questa prospettiva, «l’uomo è l’essere che
avrebbe potuto fallire e può ancora fallire».15 La cultura umana è «un pro-
gramma di emergenza per la compensazione di mancanza di equipaggia-
mento biologico».16
Ma le strategie compensative conducono l’uomo quasi subito dal regno
della sopravvivenza a quello del kultiviert Leben: «ciò che all’inizio era ef-
ficace solo come compensazione, può essersi reso successivamente com-
pletamente indipendente per le più sublimi prestazioni culturali».17 Lo Zeit-
gewinn attraverso la distanza è la categoria genuina della prevenzione e
della Selbsterhaltung, ma la tecnica messa in campo per guadagnare tempo
su alcune attività ne libera altrettanto per altre.
Ciò in cui la proposta filosofica blumenberghiana si distingue, soprattut-
to in virtù del forte influsso di Alsberg, consiste da un lato in un’indagine
genetica, a ritroso, della carenza, dall’altro in una concezione retroattiva
della «cultura» nei confronti della «natura» (e i due aspetti sono stretta-
mente connessi l’uno all’altro). Non solo l’attività simbolica ha una storia:

10 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 94.


11 Ivi, p. 95.
12 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 599-600.
13 Cfr. ivi, p. 523.
14 Ivi, p. 528.
15 Ivi, p. 524.
16 Ivi, p. 552.
17 Ivi, p. 490.
162 Dialettica della caverna

anche l’inadeguatezza biologica ne ha una, ovvero è l’effetto di una serie


di ‘eventi’ filogenetici che prendono l’avvio dallo scacco del Fluchttier. In
quanto gesto non previsto all’interno delle risposte comportamentali roda-
te del pre-ominide, né in alcun modo disposto dai meccanismi evolutivi, lo
Steinwurf è già un’azione ‘culturale’ in senso lato; dunque, da questo pun-
to di vista, il paradigma dell’incompletezza viene rovesciato, in quanto la
cultura determina la carenza e non viceversa. Da questa prospettiva l’ecce-
denza, non la mancanza, è il principio dell’umano. Per meglio dire: se il
lusso – ossia le facoltà superiori dell’uomo – non è un attributo innato del-
la natura umana ma un prodotto della carenza di equipaggiamento organi-
co, questa a sua volta discende da risposte ‘lussureggianti’ e anti-adattive
date a sfide ambientali che altrimenti si sarebbero perse. Dunque – ciò che
più importa – entrambi i principi dipendono in ultima istanza da una circo-
stanza storica: l’intervenuta mutazione ambientale.
Ma ciò significa al contempo che la cultura rispetto alla natura si pone
non come «compensazione che segue (nachkommend)», ma come «com-
pensazione anticipata» (vorweggenommen)18 e foriera perciò di sensibili
modifiche per quanto riguarda l’utilizzo e la percezione del soma umano.
Rispetto alle potenzialità acquisite evolutivamente,19 l’introduzione delle
prestazioni culturali inaugura una «danza del cervello»20 che ‘balza fuori’
dai meccanismi selettivi, e nulla esclude che le parti del cervello tendenti
alla prominazione, legate alle facoltà superiori dell’uomo, si possano anco-
ra estendere.21 Insomma, a quanto pare la cultura degli strumenti avrebbe
consentito allo strumento di tutti gli strumenti (il cervello) di alleggerirsi,
non dovendo più destare prestazioni acute, e diventare un Freizeitgehirn
che si tiene in funzione in maniera lussureggiante.22
Anche la postura eretta è una risposta ‘eccessiva’ – benché biologica e
non culturale – a un problema di autoconservazione. La rischiosa spedizio-
ne da Homo erectus a Homo sapiens dovrà chiamare in soccorso ragione e
cultura come

correlati di un aumento di problematicità dell’esistenza, che non può essere


consistita solo nella lotta per l’esistenza con forme di vita rivali e nelle condi-

18 Ivi, p. 863.
19 Il riferimento a queste si trova alle pp. 571-577 di Beschreibung des Menschen.
20 Cfr. D. Falk, Braindance, Holt & C., New York 1992.
21 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 524-549.
22 Cfr. ivi, p. 540.
Excursus 163

zioni ambientali ostili, ma nella complicazione di tenere in vita il sistema orga-


nico dell’essere divenuto bipede.23

Così, di lì a un po’ (alcune centinaia di migliaia di anni) avremo quell’Ho-


mo sapiens dall’aspetto inerme, sguarnito, fragile, che non potrà più fare a
meno della cultura (ora intesa nel senso pieno del termine) e vi si abbando-
nerà fino a smarrirsi completamente in essa:

Nei confronti della cultura che egli stesso ha creato e del nidificare negli in-
volucri che si è costruito e cucito, l’uomo è divenuto un parassita sui generis e
dotato di una peculiare grazia. La sua nudità è quella di un resto di organismo,
il residuo dell’“annullamento del corpo” nell’ominizzazione. Da nudo egli di-
mostra il suo bisogno di cultura come il suo essere disarmato. […] La cultura è
la quintessenza di ciò che ci permette di essere così deboli e nudi sotto i suoi in-
volucri.24

Lo sviluppo umano appare strutturalmente caratterizzato da un principio


di «riflessività auto-innervante» che fa sì che l’uomo non solo produca la
propria «sfera cosale e culturale» come un involucro che si cristallizza, ma
venga costretto, da quanto proviene da lui, sempre più fortemente sul cam-
mino intrapreso.25 I gusci tecnico-culturali operano una sostanziale ridu-
zione della «resistenza» tramite delle soluzioni sostitutive, ossia dotandosi
di «dispositivi artificiali per il suo «auto-collaudo».26 Il che ha come con-
seguenza che, nel dominio della cultura, ciò che l’uomo è in grado di sop-
portare diventa irriconoscibile (e il fatto che egli si metta alla prova con im-
prese estreme fa parte di un interesse del tutto culturale volto alla scoperta
di quel residuo di possibilità naturali di cui non sa più nulla).
La cultura non si limita a proteggere il corpo, essa modifica il rapporto
dell’uomo col proprio corpo per far fronte alla sua appariscenza rischiosa.
In termini fenomenologici, «la cultura è intensità dell’intenzionalità, non
solo come riferimento teorico a oggetti in senso stretto, ma come il non-ab-
bandonarsi a sé del soggetto»:27 essa trasforma la Selbsterfahrung in «eso-
nero del soggetto da sé», ponendolo al di sopra e al di là del corpo, delle
sue sensazioni, del suo essere condizionato, del suo essere mortale.

23 Ivi, p. 522.
24 Ivi, pp. 862-863.
25 Cfr. ivi, p. 588.
26 Ivi, p. 591.
27 Ivi, pp. 723-724.
164 Dialettica della caverna

La definizione della natura umana da un punto di vista filosofico-antro-


pologico si inscrive nel quadro dei mutati rapporti tra l’indagine filosofica
e le diverse scienze particolari, e di una forma di ‘attenzione diffidente’ nei
confronti di queste. L’interesse dell’antropologia filosofica verso i contri-
buti delle scienze empiriche dell’uomo è in realtà una sorta di reazione del-
la filosofia all’avvento di forme di sapere che le contendono l’oggetto.
Così – benché intenda superare il dualismo radicale e incomunicante di
matrice cartesiana – la «svolta verso l’uomo» è pur sempre un tentativo di
spiegare la deviazione dell’uomo dalla natura, ovvero la cultura come do-
minio a sé; in particolare, il paradigma dell’incompletezza difeso da Gehlen
resta «la sponda dualistica che cerca di salvaguardare l’uomo come qualco-
sa di speciale e sostanzialmente differente da tutto il resto».28
Se si crede che un’antropologia (anche un’antropologia filosofica) ag-
giornata non possa invece fare a meno di lasciarsi contaminare coraggiosa-
mente dai risultati della biologia, della paleoantropologia, della zoologia,
della geologia, della climatologia, qual è l’atteggiamento di Blumenberg in
merito a ciò? Quanto – è forse giunto il momento di porsi questa domanda
– è attuale la sua impostazione?
Dal punto di vista dell’uso delle fonti non c’è dubbio che vi sia un auten-
tico sforzo di comunicazione interdisciplinare con i settori dell’antropolo-
gia storica, della paleontologia, dell’anatomia, della neuropsicologia e del-
la biologia, poiché «è la descrizione dell’uomo nella vastità delle discipline
ciò che a Blumenberg interessa».29 Egli ritiene legittima non solo l’antro-
pologia come disciplina filosofica, ma anche l’assunzione di risultati empi-
rici tratti delle scienze umane e comportamentali.
Certamente la posizione di Blumenberg interpreta la dialettica natura/
cultura in termini più ibridativi rispetto a una visione rigidamente dicoto-
mica e separatista. Le considerazioni blumenberghiane sul cervello come
«strumento biologico universale che precede tutti gli altri strumenti
culturali»30 dimostrano l’intenzione di confondere e mescolare la descri-
zione delle caratteristiche fisiologiche dell’uomo con quella delle sue fa-
coltà spirituali, così da restituire l’immagine di una «zona culturale» che
«non comincia semplicemente attorno al corpo» ma «nel corpo dell’uo-
mo», sfruttando la preesistente «potenza delle funzioni cerebrali» per in-
formarla tramite un’attualizzazione culturale.31 A sua volta, la cultura in

28 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 12.


29 J. Bauer, Masse der Distanz zur Natur, cit., p. 152.
30 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 540.
31 Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., pp. 166-167.
Excursus 165

Blumenberg letteralmente produce l’uomo, incide sul suo corpo, lo ridi-


mensiona. Ma ciò significa che quell’intervenuta attualizzazione si confi-
gura di fatto come un’inversione e come una fuoriuscita dal dominio della
natura. Pur contestando l’antropocentrismo che innalza l’uomo a signore
del creato e sottolineando a più riprese l’assoluta contingenza e improbabi-
lità della Menschenwerdung, la posizione ‘antropo-eccentrica’ di Blu-
menberbg proprio perciò radicalizza ulteriormente il punto di vista di chi
ascrive l’uomo a una dimensione quasi esclusivamente culturale, separan-
dolo da tutto il resto. È vero, solo a partire da alcuni eventi naturali (le mu-
tazioni climatiche e ambientali, lo sviluppo del cervello dei primati) è pos-
sibile comprendere l’antropogenesi, ma essa si caratterizza fin dal principio
come un salto vertiginoso al di fuori delle cosiddette ‘leggi di natura’.
Innanzitutto perché la sfera culturale – in Blumenberg – non ha la fun-
zione di indicare la peculiare via dell’umano all’adattamento e alla selezio-
ne naturale, ma di interrompere la regola spenceriana della «survival of the
fittest» e invertire per sé la rotta dell’evoluzione.
L’organismo umano – come si è già visto – cessa di rapportarsi all’am-
biente in termini di «adattamento» sostituendo al principio dell’Anpassung
quello opposto della Distanz (tanto da poter affermare che la sua sopravvi-
venza si fonda proprio sulla Nicht-Anpassung).32 L’uomo abita a tutti gli ef-
fetti un «mondo-non-darwinista» (Nicht-Darwin-Welt).33
Eppure forse, per comprendere l’umano e apprezzare le mirabili vette
del suo sviluppo culturale, non c’è bisogno di appellarsi al paradigma
dell’incompletezza, né a una concezione della cultura come ‘svalutazione
organica’.
Rinunciare a pensare l’uomo come «un tentativo di scarso successo del-
la natura»34 e cominciare a trattarlo come un vero e proprio «miracolo
biologico»35 non vuol dire necessariamente aderire a una forma di riduzio-
nismo naturalistico. Forse la realizzazione di quel «complesso epigenetico
che chiamiamo cultura»36 presuppone non una carenza, quanto un’eccel-
lenza organica di cui la «ridondanza» cerebrale è un elemento coerente. È
possibile intendere la cultura umana come «un evento rivoluzionario nel
panorama evolutivo»,37 senza che ciò implichi un allontanamento dai mo-

32 Cfr. ivi, pp. 165-170; cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p.
551.
33 Ivi, p. 552.
34 Ivi, p. 521.
35 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 14.
36 Ibidem.
37 Ivi, p. 83.
166 Dialettica della caverna

delli naturali, senza che debba sempre sussistere tra i due domini la legge
dell’inversione proporzionale, spiegando invece quest’ultima come
«espressione della complessità biologica», liberazione di un repertorio di
«virtualità».38 Poiché poter attingere a un maggior contenuto di «virtualità
cognitiva» vuol dire, superando un’altra dicotomia – quella fra istinto e ap-
prendimento che anche Blumenberg fa sua –, essere «più ricchi di innato»39
dal punto di vista della propria istruzione genetica, disporre di strutture
neurali complesse che possono essere organizzate tramite l’apprendimento
nelle maniere più variegate e creative. Inoltre, il carattere lussureggiante
che Blumenberg attribuisce alle prestazioni culturali, capaci, nel momento
stesso in cui creano involucri protettivi, di dissolvere equilibri preesistenti
per produrne di nuovi, insomma di fungere da fattore di instabilità, si con-
fà molto di più a una concezione della cultura come «non-equilibrio
creativo»40 consentito da un corredo organico ridondante e aperto a una
moltitudine di possibilità, che a un paradigma compensativo. E, d’altra par-
te, non si vede perché la capacità della cultura – rivendicata da Blumenberg
– di «retroagire sul sistema uomo» e comportarsi come «motore della natu-
ra» debba essere intesa come progressiva Verminderung del corpo, e non
piuttosto in termini di «espansione» e «ibridazione».41 Se uno strumento
viene acquisito fino a incarnarsi nel sistema-uomo, metamorfizzando la
performatività e le caratteristiche del corpo,42 ciò non equivale a emendare
una carenza né a produrne una, ma ad «aumentare il potenziale virtuale del
corpo stesso»43 attraverso contaminazioni con il non-umano.
E ancora: che tutto ciò produca uno slittamento della pressione selettiva
non significa che la cultura sia «un fattore di involuzione né un elemento di
reversione»: potrebbe essere semmai l’apertura di «un nuovo percorso
evolutivo».44 Se la cultura fa parte delle possibilità presenti in natura –
come dimostra peraltro il fatto che non siamo gli unici esemplari del mon-
do animale a saper fare uso di trasmissioni educative e tradizioni culturali45
– non c’è ragione di ritenere che il suo insorgere abbia svincolato l’essere
umano dai meccanismi evolutivi. Eppure Blumenberg – e, gli va dato atto,

38 Ivi, p. 22.
39 Ivi, p. 17.
40 Ivi, p. 25.
41 Ivi, p. 28.
42 Cfr. ivi, p. 64.
43 Ivi, p. 65.
44 Ivi, p. 31.
45 Cfr. J.T. Bonner, La cultura degli animali, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
Excursus 167

non è il solo a formulare quest’ipotesi46 – è convinto che lo sviluppo del


lato fisico-biologico dell’uomo sia terminato e «solo il ‘dispiegamento del-
le prestazioni (Leistungsentfaltung) in senso culturale [sia] modificabile,
ossia ottimizzabile»,47 il che significa che si può parlare a tutti gli effetti di
«evoluzione sospesa»48 nell’uomo e attraverso l’uomo.49 E non si tratta di
un processo localizzato né reversibile.
Tuttavia, la contingenza umana può essere salvata anche in un quadro
evoluzionista, se è vero ciò che un post-darwinista come Stephen J. Gould
ha scritto, ossia che migliaia di volte la specie umana è stata vicina all’e-
stinzione e che la sua comparsa era così improbabile che verosimilmente
non si ripresenterebbe nemmeno riavvolgendo un milione di volte il film
della vita.50
Una concezione della storia naturale e umana non più basata sul cosid-
detto «gradualismo filetico» caro alla sintesi moderna51 e in fin dei conti
prediletto anche da Darwin,52 ma su «speciazioni allopatriche» ed «equili-
bri punteggiati»;53 l’interpretazione della selezione naturale in termini non
solo adattivi, ma «ex-attivi»,54 potrebbero dar conto della contingenza
dell’uomo e – in un orizzonte completamente laico e libero da ogni forma
di creazionismo – del grado di miracolosità della comparsa di questa crea-
tura, senza il bisogno di sbarazzarsi dell’evoluzionismo. Inoltre, l’influen-
za della cultura sui processi evolutivi umani potrebbe essere interpretata
come slittamento della pressione selettiva in seguito a mediazioni da parte
di partner non-umani, dunque non interruzione dei processi evolutivi, ma

46 Cfr. S. Jones, Darwin’s Ghost. The Origin of Species Updated, Ballantine Books,
New York 2001; U. Kutschera, Tatsache Evolution. Was Darwin nicht wissen
konnte, Dt. Tanschenbuch, München 2009.
47 J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 154.
48 H. Blumenberg, Ein Futurum, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 194; cfr.
ivi, pp. 185-196.
49 Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 168.
50 Cfr. S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia,
Feltrinelli, Milano 2007, ad esempio p. 297.
51 Cfr. J. Huxley, Evolution. The Modern Synthesis, Harper & Brothers, New York-
London 1942; T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., pp. 40-43; N.
Eldredge, S.J., Gould, Gli equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo fi-
letico, in N. Eldredge, N., Strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze 1991, pp.
252-253.
52 Cfr. N. Eldredge, S.J. Gould, Gli equilibri punteggiati, cit., p. 225-228.
53 Cfr. E. Mayr, L’evoluzione delle specie animali, Torino, Einaudi 1970; N.
Eldredge, S.J. Gould, Gli equilibri punteggiati, cit.
54 Cfr. S.J. Gould, E. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, T. Pievani (a
cura di) Bollati Boringhieri, Torino 2008.
168 Dialettica della caverna

loro trasformazione in processi «coevolutivi».55 Ciò implica che la peculia-


rità dell’umano non ha nulla a che fare con una forma di separatezza dal re-
sto del vivente, che la cultura non è da intendersi come un regno autarchi-
co, un «affare privato di specie» che sancisce la «solitudine» di Homo
sapiens sul pianeta.56 Al contrario, secondo tale prospettiva la cultura vive
di prestiti, ibridazioni e contaminazioni anche da parte del mondo animale,
si accresce alleandosi e non distanziandosi dalla biosfera, attingendo «vo-
racemente dal mondo esterno»,57 facendosi alterare e istruire da esso.

1. Blumenberg tra umanesimo e post-umanesimo

È, quella di Blumenberg, un’antropologia filosofica pienamente nove-


centesca e dunque classica, oppure affaccia già su un orizzonte post-uma-
no? Ma dov’è situato e che cos’è il post-umano?
Secondo una buona definizione, se ne può individuare l’espressione sin-
tetica nel concetto di «ibridazione», come «volontà di rottura della chiusu-
ra individualistica del soggetto umanistico-liberale»,58 e l’elemento carat-
terizzante in una

concezione ‘aperta’ della soggettività umana, i cui confini di separazione ri-


spetto all’alterità, sia animale (a livello di ecosistema naturale) sia meccanica
(a livello di sistemi ‘artificiali’), divengono delle vere e proprie ‘soglie’ di reci-
proco scambio, le quali rendono possibili delle pratiche di coniugazione.59

Il riferimento da cui il postumanesimo a un tempo discende e prende le di-


stanze è dunque l’antropologia filosofica. Nello specifico, l’elemento proble-
matico risiede nell’umanesimo implicito che questa disciplina, così ansiosa
di mostrare l’unicità della specie umana rispetto al resto del Bìos, porta con
sé. Per usare le parole di Peter Sloterdijk se l’umanismo è un’«antropodicea»,60
facilmente un’antropologia rischierà di essere umanista.
Il post-umanesimo conduce la riflessione sull’uomo a oltrepassare e vio-
lare i confini dell’umano, attraverso un «incremento di coniugazione-conta-

55 Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 32.


56 Ivi, p. 43.
57 Ivi, p. 62.
58 M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Mi-
lano 2011, p. XV.
59 Ivi, p. 3.
60 P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers
Brief über den Humanismus, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999, p. 19.
Excursus 169

minazione» con il non-umano, verso una forma di «antropodecentrismo»;61


in tal senso supera una riflessione filosofica che, per quanto incalzata dallo
sviluppo inarrestabile delle scienze contemporanee e tesa a comprendere
l’uomo al di là della dicotomia di naturale e spirituale, di res cogitans e res
extensa, per recuperarne l’«unità vitale»,62 tenta pur sempre di spiegare la
deviazione dell’uomo dalla natura, ossia la cultura come un dominio a sé.63
Si tratta allora di capire dove si collochi l’antropologia fenomenologica
di Blumenberg lungo la linea che dalla Neue Anthropologie conduce alle
più recenti teorie postumaniste. Perché ci interessa? Fondamentalmente
per una ragione: che si aderisca o meno al pensiero postumanista, a questo
va riconosciuto uno sforzo nuovo verso la contaminazione interdisciplina-
re e il confronto con le scienze della vita, che pare un presupposto inelimi-
nabile per pensare in termini di antropologia filosofica oggi. Di conseguen-
za, scoprire «quanto post-human» ci sia in Blumenberg è un modo per
capire quanto sia attivo e vivo il suo pensiero, quanto ‘ci parli’ ancora.
Nonostante la forte tensione verso sentieri inesplorati e fecondi per la ri-
flessione filosofico-antropologica, Blumenberg – con la sua insistenza
sull’Umwegigkeit dell’uomo, sul suo accesso metaforico, mediato, retorico
alla realtà che lo distingue dalle altre creature – mostra di muoversi ancora
nel solco dell’«umanismo»,64 di servirsi di una «macchina antropologica»65
di tipo umanistico. Altre prospettive filosofiche suggeriscono invece di ab-
bandonare un sentiero che conduce pur sempre alla «continua battaglia per
l’uomo, che si compie come lotta tra tendenze alla bestializzazione e alla
domesticazione».66 Chissà che non occorra «rendere inoperosa» la macchi-
na antropologica e sospendere ogni articolazione in uno «shabbat tanto
dell’animale che dell’uomo»?67 Oppure: chissà che la domesticazione uma-

61 Cfr. R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo,


Bari 2009, p. 5.
62 Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia fi-
losofica, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 45.
63 Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 12.
64 Cfr. M. Höfner, Leben als Reden. Rhetorik, Ethik und die Frage nach dem Men-
schen bei Hans Blumenberg und Martin Heidegger, in R.A. Klein (a cura di), Auf
Distanz zur Natur, cit., p. 28. Ma si vedano soprattutto le riflessioni di Müller sul-
l’«umanismo scettico» di Blumenberg: cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit.,
pp. 326-336.
65 Cfr. F. Jesi, La festa. Antropologia, etnografia, folklore, Rosenberg & Sellier, To-
rino, 1977, p. 15; G. Agamben, L’aperto, cit. pp. 80-82.
66 P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark, cit., p. 17.
67 G. Agamben, L’aperto, cit., p. 94.
170 Dialettica della caverna

na non avvenga spesso per tramite dell’animalità? Chissà che non avvicini
l’uomo all’animale, anziché allontanarli entrambi dalla bestia?
La giusta esigenza di conferire profondità storica alle prestazioni umane
conduce a una domanda: viene prima la natura o la cultura, o forse fin dai
tempi più remoti ciò che appare è un composto inscindibile delle due? Se
definiamo la cultura come «il primo sistema comportamentale complesso»
costruito da conoscenze sui materiali, abilità manuali, capacità di coordina-
mento senso-motorio, competenze nella trasmissione del sapere,68 com-
prendiamo come essa intervenga molto prima che l’evoluzione organica
conduca all’uomo quale esso è attualmente; la cultura stessa è un «ambien-
te» in cui il cervello umano si sviluppa e si specializza.69 Ciò può voler dire
che l’uomo è da sempre post-umano, ibridato e potenziato da componenti
extracorporee; d’altra parte, nella spinta a utilizzare la tecnica per modifi-
care la propria morfologia e migliorare la propria condizione «il post-uma-
no si rivela molto umano».70
Ciò che Blumenberg non riesce a dire è che la cultura precede l’uomo
perché è una possibilità dell’evoluzione, non una prerogativa della sola
specie umana, ma una strada percorsa da molti altri animali.71
Se invece si suppone che l’uomo si sia differenziato e continui a diffe-
renziarsi dalle altre specie «proprio perché ha saputo costruire eterorefe-
renze che lo hanno avvicinato, non allontanato rispetto al mondo non-
umano»;72 se si ritiene altresì la cultura una «dimensione zoologica»73 che
nell’umano raggiunge il più alto grado di articolazione in virtù di un pro-
gramma genetico più elastico, ma non più carente; se – ad esempio – si ri-
prende la tesi neotenica, ossia l’idea di un prolungamento nell’uomo del
periodo ontogenetico e del mantenimento di «una sorta di incompletezza
giovanile»,74 che è cosa in effetti diversa da un’inadeguatezza adattiva o da
una regressione organica; se si pensa l’umano nei termini di un’«apertura»,
ossia di un’identità magmatica e disponibile a molteplici interazioni con

68 Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit.


69 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-
Bari 2011.
70 I.R. Marino, Scienza e cambiamenti socio-culturali, in L. Marini, A. Carlino (a
cura di), Il corpo post-umano. Scienze, diritto, società, Carocci, Roma 2012, p.
104.
71 Cfr. J.T. Bonner, La cultura degli animali, cit..
72 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 83.
73 F. Remotti, Cultura, cit., p. VII.
74 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 60.
Excursus 171

l’esterno,75 è forse possibile superare la declinazione immunitaria della re-


lazione dell’uomo col mondo, che la tesi di un’incompletezza prerequisiti-
va o acquisita necessariamente porta con sé. Leggere l’uomo come un si-
stema aperto può – con uno spostamento d’accento quasi impercettibile
– contribuire a cogliere nel suo In-der-Welt-Sein qualcosa di diverso dall’e-
sonero e dalla dialettica tra protezione ed espansione verso l’esterno, qual-
cosa come uno spirito ‘cooperativo’.
Tuttavia la posizione di Blumenberg è mobile, liminare. Non solo per lo
sforzo di comunicazione interdisciplinare e perché interpreta la dialettica
natura/cultura in termini più ibridativi rispetto alla tradizione; ma soprat-
tutto perché – come si è visto –, attraverso l’antropologizzazione della fe-
nomenologia, giunge a un’antropologia fenomenologica e trascendentale
che si spoglia di ogni residuo di essenzialismo per interrogarsi sulla genesi
e le condizioni di possibilità della vicenda umana, per concepirsi come sto-
ria e nella storia, assegnando un ruolo chiave all’indagine preistorica inte-
sa come ricerca archeologica metaforlogica e congetturale sulle cause re-
mote di insorgenza del fenomeno umano. Quest’attenzione genetica
consente a Blumenberg un’apertura verso una domanda eminentemente
post-umana: «che cosa può ancora diventare [l’uomo] sulla base del suo
condizionamento antropologico?».76
Non solo, proprio il metodo metaforologico potrebbe ridimensionare
l’umanesimo blumenberghiano: Blumenberg è un ponte tra umanesimo e
post-umanesimo anche perché conosce la transitorietà e la caducità dei lin-
guaggi e delle categorie. Insomma, si può parlare di carenza o virtualità, di
«cattiva strada» dell’evoluzione o apertura di un peculiare sentiero evolu-
tivo, probabilmente si fa riferimento a modelli descrittivi diversi per dire la
medesima cosa. Blumenberg lo sa, per questo utilizza i concetti in maniera
sempre libera, dinamica, non ideologica. Comprende alla perfezione di es-
sere, come tutti i pensatori di ogni tempo, vittima dei meccanismi di iner-
zia della coscienza e miseria del linguaggio che giustificano la metaforolo-
gia come ermeneutica degli sfondi, degli orizzonti di senso, delle strutture
epistemiche e dei reperti linguistici e immaginativi che stanno dietro alla
produzione di discorsi, linguaggi, concetti di realtà e teorie. Può darsi che
Blumenberg sia già entrato nei territori brulli del post-umanesimo, gli man-
cano solo «le parole per dirlo».

75 Cfr. ivi, p. 20.


76 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 536.
CAPITOLO TERZO
HOW TO DO NOTHING WITH WORDS1
Indizi per una filosofia politica

1. Il biotopo sociale

Al termine di questo viaggio attraverso l’antropologia fenomenologica


blumenberghiana, è interessante domandarsi quali siano o potrebbero esse-
re le configurazioni del politico all’interno di questa prospettiva antropolo-
gica. Quanto sono segnate e limitate, e non invece rese aperte e plasmabi-
li, dalla complessa dinamica di lusso e carenza?
Blumenberg viene generalmente considerato un autore prima facie «im-
politico». In effetti si è sempre mantenuto al di qua di una riflessione espli-
citamente filosofico-politica, o sembra averne relegato gli sparuti accenni
in una posizione satellitare rispetto al suo «sistema filosofico». Bisogna
dunque semplicemente considerare la teoria politica un ambito negletto e
periferico per un autore che ha in realtà preferito parlare d’altro, o si tratta
di un aspetto meritevole di maggiore attenzione? Forse è possibile andare
in cerca delle tracce di una meditazione portata avanti «in sordina»;2 oppu-

1 Questo capitolo è già apparso, con lievi differenze, in forma di articolo: F. Grup-
pi, «How to do nothing with words». Considerazioni sul politico in Hans Blu-
menberg, in «Storia del pensiero politico», n° 2, 2015, pp. 277-306.
2 Come non vi sono opere di Blumenberg esplicitamente dedicate ai temi tipici di
una filosofia politica, così la letteratura secondaria raramente cerca di ‘dedurli’ dal
suo pensiero. Per un tentativo in tal senso si vedano in particolare: R. Faber, Der
Prometheus-Komplex. Zur Kritik der Polytheologie Eric Voegelins und Hans Blu-
menbergs, Königshausen-Neumann, Würzburg 1984, pp. 75-87; P. Behrenberg,
The Explorations of the relation between Politics and Myth: Vico, Cassirer, and
Blumenberg, in «New Vico Studies», n° 9, 1991, pp. 17-28; sempre nel segno di
una considerazione politica della teoria blumenberghiana del mito il recente C.
Bottici, Filosofia del mito politico, Bollati Boringhieri, Torino 2012, in particola-
re pp. 114-144; poi B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., in particolare pp.
49-92, 127-172; di particolare interesse J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., pp.
205-221. Nelle ultime raccolte di saggi su Blumenberg vi sono alcuni tentativi di
‘politicizzare’ certi aspetti del discorso blumenberghiano: si vedano in particolare
174 Dialettica della caverna

re lasciarne emergere i contorni ideali «giocando» con alcune categorie


della filosofia blumenberghiana, e ottenere così i lineamenti di una rifles-
sione politica tutt’altro che banale o estemporanea.
Il campo della politica – e la riflessione sul moderno – prende forma e
acquisisce nuovo spessore alla luce della speculazione sull’uomo e sulle
circostanze della sua genesi. D’altra parte, come ha scritto Carl Schmitt ri-
portando un’osservazione di Helmut Plessner, non esiste filosofia o antro-
pologia che non sia politicamente rilevante3 e non potrebbe essere altri-
menti, nella misura in cui le teorie politiche si costruiscono
tradizionalmente a partire da ipotesi sulle condizioni di partenza germinali
della sfera politica stessa. Nel caso di Blumenberg non siamo di fronte a
una semplice astrazione funzionale sullo stato naturale ma, al contrario, a
una teoria antropologica integrata, seppur erratica e sotterranea, che meri-
ta di essere esplorata anche perché capace di offrire un quadro più com-
prensibile e completo della fenomenologia della storia di Blumenberg e
delle sue posizioni, cariche di significato politico, in merito al moderno.
Come si è visto, proprio talune categorie classiche della teoria politica
(istituzione, delega, conservazione, assolutismo, divisione dei poteri) sono
prese a prestito da Blumenberg per descrivere il contesto antropologico e
antropogenetico. L’effetto rovesciato di tale operazione consiste in un’an-
tropologizzazione della dimensione politica a un tempo problematica e in-
teressante. La cultura comprende in senso lato anche la costruzione del
«biotopo sociale», che avrà dunque a sua volta una funzione in primis «im-
munitaria». Salvo accennare ai prodromi della divisione del lavoro nell’op-
posizione forti/deboli e al riscatto di questi ultimi nel regno cavernicolo
dell’immaginazione,4 a differenza di altri autori Blumenberg non si soffer-
ma tanto sulle fasi germinali del politico, sul vivere associato degli uomini
preistorici.5 Tuttavia, nell’opera sulle uscite dalla caverna troviamo una ri-
flessione su una forma più tarda del «corpo di gruppo» come «serra antro-

A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutimso, V. Pa-


vesich, Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror and the Faces of
Absolutism, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., pp. 143-
165, 167-203 e J.C. Monod, Politische Theologie. Blumenberg als ein Leser von
Schmitt und Benjamin, in M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane, cit.,
pp. 210-225.
3 Cfr. H. Plessner, Potere e natura umana, Manifestolibri, Roma 2006, cit. in C.
Schmitt, Le categorie del «politico», il Mulino, Bologna 1972, p. 144.
4 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 20-27.
5 Cfr. P. Sloterdijk, Sphères, III, cit., pp. 316-319.
How to do nothing with words 175

pica primaria»:6 la città7 che, nonostante l’ellissi temporale, lo esemplifica


alla stregua di una metafora che illumina anche il passato. Si può forse al-
lora tracciare il profilo della riflessione politica blumenberghiana a partire
dall’unità costitutiva del politico, la polis, tenendo sempre a mente la ca-
verna come suo prototipo.
Comincerò da qui per muovere verso successivi snodi tematici: il nesso
«istituzioni “erette”»-visibilità,8 il carattere immunitario della sfera politi-
ca e il vantaggio della delega, la declinazione politeistica e «costituziona-
le» di questo dispositivo e il correlativo anti-assolutismo, i motivi antropo-
genetici che spiegano l’emergere di queste dinamiche e la
problematizzazione del binomio amico/nemico, la critica alla teologia po-
litica, la teoria della retorica come mitigazione del potere, la dialettica tra
conservazione e utopia.

2. L’unità minima del politico: la polis tra immunità e visibilità

La città è «ripetizione della caverna con altri mezzi»9 e come tale è lega-
ta ab origine a un bisogno bio-psicologico regressivo: isola, insonorizza le
proprie pareti da tutto ciò che pullula fuori e che non ha prodotto essa stes-
sa. In ciò dissimula la propria natura parassitaria nei confronti dei «dintor-
ni» da cui dipende, fungendo da calamita per tutti i prodotti di cui necessi-
ta e che non contiene in sé, da centro propulsore di scambi, da
«acceleratore del processo economico»10 e polo produttivo per eccellenza
del mezzo primario di tale accelerazione: il denaro. Così, la città sussiste
grazie a una forma sofisticata di presa di distanza dalla realtà, come capa-
cità di disporre dell’assente come del presente, e può ripresentificare l’e-
sterno al proprio interno senza il bisogno della magia, poiché le basta il cal-
colo in termini di economia monetaria; per ottenere o scongiurare qualcosa
non è più necessario dipingere su delle pareti, è sufficiente astrarre in ter-
mini di valore di scambio, una forma «più illuministica» di mediazione con
il fuori.

6 Cfr. Ivi, p. 319.


7 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 56-60.
8 Cfr. B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., p. 139.
9 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 56.
10 Ibidem. Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma
2005.
176 Dialettica della caverna

Tuttavia, se l’astrazione è «surrogato della magia»,11 deve pur sempre


conservare qualcosa di essa. In tempi di capitalismo avanzato l’esplosione
delle grandi metropoli moderne si fa allora autarchia illusionistica: la città
impedisce il ricordo del mondo esterno e lo rimpiazza col proprio mondo
interno, accoglie un quantum di natura solo sotto forma di parco, giardino
botanico o fioriera, ove essa diviene innocua e indisturbata a un tempo;
promette fortuna in luogo di vita e realtà, incatena con la propria «attrazio-
ne artificiale» eppure, al sommo della sua «umbratilità sbiadita», si rivela
luogo del massimo «bombardamento di stimoli» e al contempo di estremo
isolamento.12 E tuttavia Blumenberg osserva, con il sottile sarcasmo che gli
è proprio, che prima di ogni critica alla civilizzazione e ai suoi effetti alie-
nanti occorrerebbe accertarsi che le persone abbiano qualcosa da dirsi,13
che insomma sia questa la loro prioritaria esigenza.
In fondo la funzione primaria della città è quella di schermare, difendere,
con una propensione di cavernicola memoria all’autosufficienza: per so-
pravvivere come luogo che catalizza flussi14 deve «chiudere le porte, presi-
diare le mura»15 in senso reale o figurato. Talvolta lo fa talmente bene che
incorre in una forma avanzata di quella stessa dialettica della visibilità in cui
si dibatteva il nostro antenato: involucri sempre più imponenti eretti attorno
alla corporeità producono un «incremento della visibilità», rendendo gli uo-
mini più vulnerabili e accessibili all’intromissione dell’estraneo, oltre a ma-
nifestare, nel «comparativo di grandezza»,16 un implicito segnale di sfida.
La morfologia dello spazio urbano – unità minima della sfera politica –
dipende dall’«ineluttabilità del farsi visibili» e altrettanto ne dipende la di-
visione del mondo coabitato dall’uomo in amici e nemici potenziali; di
questa materia «fisica» e antropologica è fatto il «realismo» (come dispo-
sizione a considerare prioritariamente i bisogni legati all’autoconservazio-
ne): entro il suo dominio, all’uscita della caverna, l’immaginazione ha do-
vuto cercare «nuovi spazi protetti, istituzionali più che fisici» per
dispiegarsi, il che significa «costruire le condizioni d’esistenza dell’imma-
ginazione con lo strumento dell’immaginazione»,17 escogitare altre forme

11 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 57.


12 Ivi, p. 59.
13 Cfr. ibidem.
14 Traggo questa dicotomia di matrice sociologica da Aldo Bonomi, in particolare Il
capitalismo molecolare. La società del lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino
1997.
15 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 56.
16 Ivi, p. 44.
17 Ibidem; cfr. B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., p. 139.
How to do nothing with words 177

di schermatura. Così luoghi di culto sono stati posti sotto la protezione di


dèi, città e Stati santificati, monumenti eretti, «distinti e segnati già per i re-
alismi delle prossime guerre».18

3. Il meccanismo della delega e il vantaggio delle istituzioni

A partire dalla città come prototipo della sfera politica è lecito doman-
darsi: è questo il senso ultimo delle «istituzioni»? Proteggere la stabilità di
una comunità dalle minacce che provengono dall’esterno (o dall’interno)?
Insomma, secondo il lessico del pensiero politico classico, produrre un or-
dine che conservi la pace e consenta così ai singoli l’esercizio della propria
libertà? Bisogna, con Arnold Gehlen, considerare le «istituzioni», grazie
all’«esonero» di cui sono portatrici, antropologicamente essenziali in quan-
to mezzo principale che consente all’uomo – povero d’istinto ed eccessiva-
mente plasmabile – di difendersi dalle minacce esterne come da se stesso,
di controllare la propria «diposizione […] alla degenerazione»?19 Da que-
sto punto di vista, se consumano ed erodono porzioni di libertà, ciò che
conta è che in cambio le istituzioni «conservano» e stabilizzano.20 Nella si-
curezza, e dunque nel nesso protezione-obbedienza, risiede «l’estrema le-
gittimazione della facoltà di impartire disposizioni da parte del potere».21
Oppure, con Adorno, si deve sollevare la legittima obiezione secondo cui i
processi di adattamento cui le istituzioni costringono l’uomo contempora-
neo conducono a forme non solo di sottomissione, ma di vera e propria de-
formazione, a fenomeni di atrofizzazione e repressione delle potenzialità, a
rapporti nevrotici, di soggezione e subalternità nei confronti della sfera
tecnica?22
Come Gehlen, Blumenberg è sensibile alle difficoltà che inducono gli
uomini a desiderare esoneri. Un punto che Adorno nuovamente problema-
tizza, suggerendo che proprio le istituzioni e il loro «strapotere» inducano
negli uomini il bisogno di essere esonerati: in una sorta di «identificazione
con l’aggressore», essi si rifugiano e cercano riparo proprio presso quella

18 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 45.


19 A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore 2004, p.
30.
20 Cfr. T.W. Adorno, A. Gehlen, La sociologia è una scienza dell’uomo? Una dispu-
ta, in T.W. Adorno, E. Canetti, A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle
metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano 1995, p. 102.
21 A. Gehlen, Le origini dell’uomo, cit., p. 78.
22 T.W. Adorno, A. Gehlen, La sociologia, cit., pp. 102-103.
178 Dialettica della caverna

società, quel potere, che li ha oppressi e scacciati.23 Blumenberg è per mol-


ti versi distante da Adorno, ma nonostante ciò, si potrebbe dire, entrambi si
mantengono nel solco dell’illuminismo; tenere a mente il monito adornia-
no nei confronti dello strapotere delle istituzioni può essere utile per com-
prendere come Blumenberg si distanzi da Gehlen, pur condividendone al-
cuni assunti importanti (oltre a – come si è visto – numerose premesse
antropologiche).
Al termine di Höhlenausgänge egli si sofferma sulle tesi gehleniane, tra-
endone una definizione ampia di «istituzione» come concetto che designa
«ogni abitacolo che si possa stabilire e fondare, di tipo materiale o di tipo
spirituale». Istituzione è tutto ciò che riduce il «bisogno di elaborare la re-
altà», che offre «nuovi dispositivi di sicurezza» alla vita esposta, dunque
un dispositivo di matrice antropologica prima che politica, grazie al quale
soltanto si aprono spazi eccedenti disponibili per l’evasione, l’avventura,
l’ascesa, si potrebbe dire la libertà. Se si interpretano queste tesi come
un’ultima possibile variante dell’allegoria platonica della caverna, i fabbri-
canti di ombre (alias: le istituzioni), benché certamente sospetti di sfruttare
la stupidità e la fragilità umana, soddisfano prima di tutto il «bisogno di im-
magini» dei prigionieri. Al proprio pubblico di incatenati-incantati non of-
frono solo intrattenimento e varietà, ma soprattutto orientamento, affidabi-
lità, fiducia.24
Blumenberg ammette dunque che il «vantaggio delle istituzioni» consi-
ste nel fatto che consentono «di non dover intervenire personalmente in
ogni cosa». Su questo occorre essere onesti prima di disporsi spensierata-
mente alla loro delegittimazione o dissoluzione. Il rifiuto nei confronti dei
meccanismi di delega e di rappresentanza risponde a un «rigido realismo
dell’immediatezza» che pretende di partecipare a tutte le decisioni, rimuo-
vendo il fatto inaggirabile che queste forme d’«arte di vivere»25 hanno a che
fare innanzitutto con l’«esilio ambientale» dell’uomo. La delega, prima che
un meccanismo utilizzato da alcuni sistemi politici, è un bisogno antropo-
geneticamente fondato, apparso fin dal momento in cui divenne di vitale
importanza ispezionare l’orizzonte con la massima copertura possibile. Fin-
tanto che si accetta di essere-nel-mondo, piuttosto che rinunciare a esso, la
«funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza mondana» non
può venire interrotta. Ma la prestazione più efficace dell’intersoggettività
risiede, più ancora che nell’accordo simultaneo, nella delega che ne consen-

23 Ivi, p. 106.
24 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 621.
25 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29.
How to do nothing with words 179

te la profondità temporale. Essa origina – come mostrato in precedenza –


dal «gesto dell’indicare» come «ritrarsi primario dall’esclusività del pos-
sesso corporeo», fondamentale passaggio intermedio dalla «presa» (Ergiff)
al «concetto» (Begriff). Indicare il punto da cui l’assente potrebbe giunge-
re, prevenire il pericolo senza il bisogno di toccare, «venire alle mani»; ma
anche indicare a qualcun altro la direzione in cui avventurarsi per ispezio-
nare l’orizzonte e allargarne la prospettiva. Da qui la delega come atto del-
l’«indicare una persona» per cederle e trasmetterle qualcosa di cui non ci si
fa più carico. La delega si mostra come una «sottofunzione dell’actio per
distans», del fatto che per vivere non sempre occorre «trovarsi sul luogo del
delitto».26 Non serve all’uomo, fin dai primordi della sua uscita dal «mon-
do-della-vita» silvestre, che tutto il gruppo, l’orda o la famiglia siano impie-
gati nella funzione sociale di far fronte all’ignoto.27
Al contempo, la visibilità ci rende collocabili, fa sì che possano esserci
attribuite responsabilità e fonda il mandato che assegniamo all’altro nel
meccanismo di riconoscimento. Responsabilità e delega, le più importanti
istituzioni umane, hanno la medesima origine nella visibilità e, se paiono
contraddirsi, ciò dipende dal paradosso costitutivo per cui «l’uomo è
quell’animale che vuole fare tutto da sé, ma per farlo deve delegare tutto
ciò che può – per poi subito rammaricarsi di non poterlo più fare da solo.
La quintessenza di questa delega» – prosegue Blumenberg – «è lo Stato, il
rammarico dei cittadini nei suoi confronti è il potenziale delle utopie».28
Addirittura – ironizza Blumenberg – sul principio di delega s’infrange il
tabù della critica alla divisione del lavoro e del riferimento – carico di colo-
riture rousseauiane e romantiche – a un’ipotetica dimensione ideale (un
«mondo-della-vita») in cui ciascuno sarebbe in relazione con tutti e con la
totalità dei compiti e dei prodotti.29 A quanto pare il concetto di Lebenswelt
è entrato a far parte del «gergo esclusivo degli amici del proletariato»,30 as-
sumendo i tratti da Fata Morgana di un mondo perduto sotto la coercizione
della costruzione d’identità, che avrebbe alienato la vita a se stessa usurpan-
done la pienezza. Blumenberg individua qui una forma di recupero del mar-
xismo, probabilmente proprio di matrice francofortese, che mischia Hegel
con Kierkegaard e riflette usando «la logica della lotta di classe».31 Al con-

26 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 598.


27 Cfr. H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., pp. 151-153.
28 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 508.
29 Cfr. H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 153.
30 Ivi, p. 227.
31 Ivi, p. 230.
180 Dialettica della caverna

trario, anche la divisione del lavoro è antropologicamente fondata sul prin-


cipio di delega e sulla possibilità di non impiegare in ogni attività la totalità
della persona. Se dover vendere la propria forza lavoro non è certamente «la
fortuna della vita»,32 è pur sempre meglio che vendere se stessi per vivere,
oppure offrire se stessi per risarcire un danno, o pagare una multa. E il dena-
ro, a sua volta, è un’istituzione che sta in stretto rapporto con la capacità
umana di delegare e assumere prestazioni. In generale si tratta di guadagna-
re tempo, di far fronte alla propria finitezza, il che spiega anche come mai i
rappresentati spesso accettino le azioni dei rappresentanti anche qualora si
discostino palesemente dal loro volere: la fiducia e l’identificazione non ba-
stano a spiegare il fenomeno, bisogna presupporre che esso conservi la pro-
pria legittimazione nella misura in cui consente di guadagnare tempo rinun-
ciando a certe competenze ed espressioni della volontà.
L’impossibilità della delega scaraventerebbe nuovamente l’uomo nelle
caverne quanto il suo abuso.

Il principio secondo cui ciascuno è sostituibile deriva di certo dall’idea di


uguaglianza, la sua applicazione è però anche motivo di scandalo per chiunque
sia in grado di azzardare l’idea di divenire insostituibile. […] Non si sarebbe
arrivati al pieno sviluppo di questa specie a rischio, l’Homo sapiens, se le sue
necessità non avessero potuto essere sempre sostituibili. […] Se ciascuno deve
essere sostituibile, è pur vero che ognuno vuole essere insostituibile. In questa
scissione dell’esserci si sviluppa una terza idea: quella della rappresentanza.
L’insostituibile non deve fare da sé ciò a cui è preposto: può ricorrere al man-
dato e in virtù della delega lasciare che sia come se fosse lui ad agire e ad agi-
re per gli interessi altrui.33

Il binomio eguaglianza e libertà, una delle opposizioni chiave della mo-


derna filosofia politica, è qui risolto semplicemente mediante la sintesi
operata dalla rappresentanza.
Al di là dell’imbarazzo di fronte a una soluzione così sbrigativa, qui
emerge un problema che si potrebbe definire servendosi delle categorie
proposte da Roberto Esposito per una critica all’antropologia filosofica.
Questa, applicando il concetto di compensatio all’originaria carenza
dell’essere umano, conduce all’assunto secondo cui, per la propria conser-
vazione, la vita umana ha bisogno di «oggettivarsi», «esteriorizzarsi» in
forme che trascendono il suo semplice darsi, di costruire «un ordine artifi-

32 Ivi, p. 153.
33 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 49; anche in Id., Ein mögliches Selbst-
verständnis, cit., p. 173.
How to do nothing with words 181

ciale che la scarta rispetto a se stessa». Ma in tal modo l’«immunizzazione


antropologica» perviene a un «esito anticomunitario»:34 la comunità in
quanto tale è insostenibile;35 per resistere al rischio entropico che la minac-
cia, va sterilizzata nei confronti del suo stesso contenuto relazionale attra-
verso il consolidamento di forme (ruoli, norme, istituzioni), producendo un
«eccesso di mediazione istituzionale».36 Insomma, la «semantica della
compensazione» slitta in quella dell’immunizzazione.37 Nel caso di Gehlen,
il paradigma immunitario non procede semplicemente per chiusura difen-
siva, come nell’immagine della città fortificata, ma si impone soprattutto
tramite il principio dell’esonero,38 laddove per esonerarsi compiutamente
l’individuo deve esonerarsi da se stesso, scaricando le decisioni sul «dispo-
sitivo sociale» di cui è parte e liberare energia per prestazioni superiori.39
Ciò significa che l’espansione della libertà è direttamente proporzionale
alla crescita dell’apparato istituzionale e di un codice di abitudini e auto-
matismi: la libertà «scaturisce dalla stessa necessità che la trattiene», trova
il proprio spazio entro una «tendenziale eteronomia».40 Di sicuro, così in-
tesa, libertà non è autonomia in senso kantiano, né partecipazione.
Benché a proposito di Gehlen affermi che il suo «assolutismo delle “isti-
tuzioni”» riporta l’antropologia al proprio punto di partenza (il modello del
contratto pubblico, in cui si presuppone che lo stato «naturale» sia in con-
traddizione con la possibilità stessa dell’esistenza umana); benché ammet-
ta che il dibattito su tale antropologia non ha chiarito se «questo fatale ri-
torno sia inevitabile»;41 benché scriva che, in generale, la retorica
dell’«“insicurezza” universale» testimoni come «la mera insaziabilità nel
bisogno di nido invada le aspettative della scienza e della politica»;42 ben-
ché sia convinto che un’eccesso di delega rischi di rovesciarsi nella liqui-

34 R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002,


p. 16.
35 Cfr. R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 2006, in particolare pp. VII-
XXXII. In verità, il negativo dell’immunitas, la communitas, ne costituisce l’og-
getto e il motore: l’immunizzazione è l’ingranaggio interno della comunità (Id.,
Bíos, Einaudi, Torino 2004, p. 48), che per sopravvivere ha bisogno di introietta-
re il proprio opposto. Questo meccanismo nascosto altro non è che la sovranità.
36 R. Esposito, Immunitas, cit., p. 17.
37 Ivi, p. 99.
38 Cfr. ivi, p. 125.
39 Ivi, p. 127.
40 Ivi, p. 128.
41 H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 95.
42 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 43. Corsivo mio.
182 Dialettica della caverna

dazione di ogni «resto di diritto del privato»;43 nonostante tutto ciò, anche
a Blumenberg interessa soprattutto garantire uno spazio di agibilità per l’e-
sercizio di quel diritto. Il punto è allora una modulazione dell’intensità
d’intervento delle istituzioni, una limitazione e costituzionalizzazione dei
poteri che consenta ai singoli di disinteressarsi di molte questioni con una
certa dose di spensieratezza e dedicarsi a ciò che può arricchire la loro esi-
stenza nel breve tempo che hanno a disposizione prima di morire. Tuttavia
quest’esito apparentemente banale va osservato lungo le sue articolazioni e
i momenti che vi conducono, per mostrarne le nuances e gli elementi di ori-
ginalità.

4. Antiassolutismo e antitotalitarismo

Per Blumenberg non si tratta di sposare l’«assolutismo perfetto»44 deli-


neato da Hobbes, basato su un «atto di sottomissione volontaria»45 e di de-
lega allo Stato sovrano di tutto ciò che il singolo non ritiene di poter fare da
solo, in cambio di una garanzia di sopravvivenza. Se non altro perché ciò
implicherebbe – paradossalmente – la cessione del «potere definitorio»,
della sovranità nell’uso della ragione e nella decisione (gravida di conse-
guenze biopolitiche) su che cosa e chi sia o non sia un uomo, su dove co-
minci e dove debba terminare una vita.46 Se la vita si difende e si sviluppa
solo allargando progressivamente il cerchio della morte, il biopotere può
giungere fino al punto (come nel caso della «tanatopolitica» nazista) di se-
parare coloro che devono restare in vita da coloro che vanno respinti nella
morte, instaurando un nesso causale tra le due condizioni, in virtù di un
confine intraspecifico posto all’interno della dimensione umana: si indivi-
dua «il non-uomo nell’uomo», con uno «scambio incontrollato tra norma
biologica e norma giuridico-politica.47
Tornando alla terminologia blumenberghiana, il punto è che il delegan-
te non dispone affatto della facoltà di rispondere alla «questione di fondo
dell’antropologia»,48 cioè chi e che cosa sia un uomo, dunque non si vede

43 H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 155.


44 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 506.
45 Ivi, p. 505.
46 Sul potere biopolitico di «far vivere o respingere nella morte» cfr. M. Foucault,
Storia della sessualità, vol. 1, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2001.
47 R. Esposito, Bíos, cit., p. 126. Esposito rielabora qui le riflessioni di M. Foucault,
Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 206-227.
48 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 506.
How to do nothing with words 183

perché dovrebbe delegare qualcosa che non è nemmeno potenzialmente di


sua competenza. Checché ne pensasse Hobbes, il potere definitorio non è
mai delegabile, e «per ciò che non si può delegare nessuno ha la
competenza».49 Quando ciò accade si entra precisamente in una variante
della «dialettica della visibilità» che potrei definire «dialettica dell’auto-
conservazione» e che comporta la trasformazione della difesa in assoluti-
smo, dell’istituzione in istituzione totale, che decide arbitrariamente chi
sarà sommerso e chi salvato, senza odio né banalmente in ragione del pre-
giudizio, bensì per la più alta necessità dell’autoconservazione.50 Qui, lo
sterminio stesso diviene forma perversa della Selbsterhaltung, si fa «zoo-
politica», nel senso della «disinfezione sociale».51 Nel sovvertimento tota-
litario, l’assolutismo si accosta alla «prevenzione assoluta»:52 la psicosi
preventiva si rivela – a conti fatti – il rovescio della sicurezza.
Alla luce di tutto ciò la «limitazione della possibilità di delegare» auspi-
cata da Blumenberg ha una fondamentale «funzione di difesa» contro ogni
tentazione totalitaria e assolutistica, ossia contro «il presunto diritto ad ap-
profittare o far approfittare della funzione delegata».53 In altre parole, se il
potere condivide col mito la facoltà di definire, «dare nomi alle cose», del
mito dovrà condividere anche il carattere dubitativo, relativo, parziale, po-
liteistico, plurale, che rimanda alla divisione dei poteri.54 Resta il fatto
inaggirabile che «tutta l’antropogenesi si basa sul principio della delega» e
che ciò costituisce «la radice antropologica dello Stato»,55 fonda il suo po-
tere e rende meno inaudito il fatto che questo, spesso e volentieri, si disco-
sti assai dalla mera funzione della rappresentanza.

5. Il binomio amico/nemico

Se la barbarie non è giustificabile a partire da sentimenti innati, ma si


compie grazie alla mediazione di diagnosi, ideologie, teorie e decisioni,
dobbiamo tornare criticamente ai «concetti del politico» schmittianamente
intesi, ossia ipotizzare che essi siano insufficienti o addirittura fuorvianti

49 Ivi, p. 508.
50 Cfr. H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., pp. 150-151.
51 R. Esposito, Bíos, cit., p. 123; cfr. H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 243;
Id., Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 145.
52 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 171.
53 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 509.
54 Cfr. C. Bottici, Filosofia del mito politico, cit., p. 131.
55 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 508.
184 Dialettica della caverna

nel definire la sfera politica. L’«inimicizia» infatti – esplicita e chiarisce


Blumenberg – è sì una categoria politica,56 ma in primis l’antonimo,
l’«amicizia», è una categoria antropologica, ossia definisce un rapporto tra
esseri umani pre-politico, o meglio impolitico;57 in secondo luogo l’inimi-
cizia stessa e con essa il ‘politico’ hanno radici antropogenetiche che van-
no osservate attentamente.
Il binomio amico/nemico descrive una polarizzazione sorta dalla fretta
che connota tutti i pregiudizi. Essa coincide con una «prima occupazione»
del «terreno antistante lo strumentario concettuale»58: la creatura mortale
gettata negli spazi aperti della savana, sottoposta a severe esigenze tempo-
rali, non può permettersi la perizia di un’attenta e approfondita valutazione
di ciascuno a partire da un atteggiamento di indifferente neutralità; è inve-
ce costretta a «decidere rapidamente per l’inimicizia», mentre solo conce-
dendosi un arco temporale più lungo può verificare e stabilire l’amicizia.
«La totalità delle conseguenze della decisione immediata, con tutti gli
aspetti preventivi e gli aggravi successivi, costituisce il “politico”» schmit-
tianamente inteso.59 Se nemico è «presuntivamente chiunque si avvicina»,
la scena originaria è «assolutamente politica»,60 in quanto priva di passato:
solo in virtù di un passato rammemorato, ossia in seguito al riconoscimen-
to di qualcuno che già si conosce, la categoria antropologica dell’amicizia
può intervenire a emendare il verdetto precedente.
Ma tutto ciò riguarda una situazione che coincide col cominciamento o,
in alternativa, con una patologica perdita di fiducia in un’«adeguata econo-
mia» della razionalità.61 Detto più brutalmente: la civiltà consiste nel pre-
miare e valorizzare le deviazioni – per quanto ciò possa apparire il segno di
una ragione insufficiente –, poiché solo queste le consentono di «umaniz-
zare la vita», mentre «la pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nel-
la consequenzialità delle sue esclusioni, barbarie».62
Le dinamiche della politica moderna sono estranee alla logica dell’ami-
cizia e conservano un legame debole e mediato con quella dell’inimicizia.

56 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 87-165.


57 Cfr. C. Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico,
in Le categorie del «politico», cit., in particolare pp. 195-96 (dove Schmitt propo-
ne la sua ricostruzione dell’origine dei termini Freund e Feind).
58 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 565-566.
59 H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 153 (già pubblica-
to in H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, cit., pp. 345-348).
60 H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 153.
61 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 566.
62 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 131.
How to do nothing with words 185

Che si parli di «amicizia tra i popoli», ignorando che solo in sua assenza i
malumori «diplomatici» promettono di restare tali e non degenerare, deri-
va solo da un riflesso condizionato a basare le proprie interpretazioni su
qualcosa che «ciascuno conosce “per propria intuizione”»63 e a immagina-
re le azioni politiche fondate su un fattore che a sua volta non ha alcuna
consistenza politica: la fiducia. Dall’altro lato, se non occorre simpatia per
conservare la pace, per stipulare trattati, non c’è alcun passaggio graduale
e obbligato dall’ostilità all’omicidio e alla persecuzione e, se è vero che
l’Ursituation ha insegnato all’uomo a diagnosticare e agire preventiva-
mente, gli ha mostrato anche come molto più fruttuoso, allo scopo dell’au-
toconservazione, sia esitare e sostituire. «Tutta la sfera politica è una real-
tà derivata, e altrettanto lo sono le sue categorie»,64 le quali non portano
necessariamente con sé tutto della loro origine. Perciò risalire all’antropo-
genesi serve anche a far luce sull’emergenza di quella «realtà derivata», sul
delinearsi, sull’evolversi e sull’eventuale pervertirsi dei suoi compiti. E –
implicitamente – a confutare la derivazione teologica del moderno alla
base del paradigma schmittiano della secolarizzazione: il binomio amico/
nemico descrive una condizione di partenza in cui è sempre possibile rica-
dere, ma non è il perno immutabile di traslazioni che si succedono l’una
all’altra fino al dislocamento che, riconoscendolo o neutralizzandolo, ha
animato il percorso dell’umanità europea dalla teologia cinquecentesca,
alla metafisica del 1600, fino alla morale umanitaria dell’età dei Lumi e
all’economia dell’‘800.65

6. Autoaffermazione vs. teologia politica: volontarismo vs. decisionismo

Se è vero che l’operazione di legittimazione del moderno è compiuta su


un piano storico-fenomenologico, quando scrive Die Legitimität der

63 H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 146 (questo brano è sta-


to ripubblicato sulla base della versione manoscritta, lievemente diversa, e col ti-
tolo originario, Si deve anche poter non amare, in H. Blumenberg, C. Schmitt,
L’enigma della modernità, cit., pp. 134-142).
64 H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 146.
65 Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le ca-
tegorie del «politico», cit., pp. 167-183; M. Revault D’Allonnes, Sommes-nous
vraiment «déthéologisés»? Carl Schmitt, Hans Blumenberg et la sécularisation
des temps modernes, in «Les Études philosophiques», n° 68, 2004, p. 27.
186 Dialettica della caverna

Neuzeit,66 inserendosi polemicamente nel dibattito sulla secolarizzazione,


la posta in gioco per Blumenberg non è solo dirimere una controversia ter-
minologica e metodologica per meglio comprendere un’epoca, ma soprat-
tutto confutare le tesi di colui che considera un oppositore non solo filoso-
fico, ma anche politico, forse, addirittura un nemico:67 contestare la teologia
politica di Carl Schmitt – nella quale Blumenberg ravvisa una dose speci-
fica di «pericolosità» – e, con essa, la legittimazione dell’assolutismo poli-
tico compiuta attraverso un uso improprio e letterale di quelle che a tutti gli
effetti sono e devono restare metafore. Grazie alla teoria della secolarizza-
zione, la teologia politica si mostra come strategia attiva di giustificazione
del politico tramite traslazione e attribuzione a esso del carattere fatale e in-
discutibile dell’assolutismo teologico, rendendo così «invisibile l’arbitrio
dei suoi provvedimenti».68
La dinamica della «rioccupazione» (Umbesetzung) è legata a una situa-
zione costitutiva di miseria del linguaggio e inerzia della coscienza, che
produce «metastasi terminologiche»,69 fenomeni di residualità e sopravvi-
venza delle espressioni linguistiche ben al di là del tempo in cui aveva sen-
so «prenderle alla lettera». Perciò accade che «la causa dell’assolutismo
politico» divenga nota e sanzionata grazie alla familiarità dei contempora-
nei con il linguaggio dell’assolutismo teologico e che, appunto, «si possa
di nuovo prendere alla lettera ciò che era già divenuto metaforico», con esi-
ti «storicamente produttivi».70 In tal senso si ha non la secolarizzazione che
vorrebbe Schmitt,71 ma il processo inverso: la «fenomenalità teologica dei

66 Dopo la prima edizione del 1966 ne esce, nel 1974, una seconda, aggiornata alla
luce della reazione di Carl Schmitt e al suo testo del 1970: Politische Theologie II.
67 Cfr. J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 210.
68 A. Schmitz, M. Lepper, Logica delle divergenze e tracce di comunanze. Hans Blu-
menberg e Carl Schmitt, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della moder-
nità, cit., p. 210. Per una chiara comprensione della posizione di Schmitt si veda
C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico
moderno, il Mulino, Bologna 1996, pp. 333-459; in particolare sul confronto con
Blumenberg cfr. pp. 412-414.
69 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 69.
70 Ivi, p. 96.
71 Così come definita dalla celebre formula di Politische Theologie (1922): «Tutti i
concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici
secolarizzati» (C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della
sovranità, in Le categorie del «politico», cit., p. 61). Molto più condivisibile – se-
condo Blumenberg –, ma sostanzialmente diversa, la nuova formulazione del
principio in Politische Theologie II (1970) nei termini di una «parentela struttura-
le» tra concetti teologici e giuridici (cfr. C. Schmitt, Teologia politica II. La leg-
genda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992, p. 83,
How to do nothing with words 187

concetti politici» è «conseguenza della qualità assoluta delle realtà


politiche»72 e l’uso che esse fanno del linguaggio teologico sanzionato è al
servizio della comprensibilità di esigenze, familiari a quel vocabolario e al
suo orizzonte di riferimento, ma rifiutate e negate dal razionalismo illumi-
nista.
Accusando la razionalità moderna di «plagio» nei confronti della stessa
teologia che apertamente aggredisce, i sostenitori della secolarizzazione –
Schmitt nella fattispecie – ritengono, con un gesto che ha molto di platoni-
co, di operare una sorta di «anamnesi», una «restituzione attraverso il rico-
noscimento [di un] rapporto di indebitamento»:73 essi ostentano di
conferire al moderno la sua «identità storica», il cui carattere precipuo ri-
posa proprio nel fatto che è acquisita «con altri mezzi»74 rispetto a quelli
dell’auto-affermazione. Da tale operazione traggono perciò una teologia
politica, che tuttavia cela piuttosto una «teologia come politica»,75 una for-
ma di giuspositivismo che si serve di tale presunta profondità storica per
sottrarre allo sguardo la «contingenza delle disposizioni positive»,76 cer-
cando per esse «un aggancio al fondo dell’indiscutibile».77
In realtà, il volontarismo moderno applicato alla fondazione del vero è
legato a un contesto di Selbstbehauptung e al postulato dell’«autoproprietà
della verità tramite l’autogenerazione»:78 in tal senso esso incarna «l’insta-
bilità istituzionalizzata del potere assoluto»79 e si pone al polo opposto ri-
spetto al decisionismo, ove tutte le decisioni sono «sempre già state
prese».80 Il Führer, che aspirava alla «definitività politica», voleva decide-
re della storia una volta per tutte. In ciò ha mostrato il punto più estremo
del decisionismo, che è però anche il punto in cui la politica è messa sotto
scacco: per Hitler «la politica non era destino», ma solo un surrogato del

nota 1; cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 100). Per


un’interpretazione diversa da quella blumenberghiana di questa evoluzione teori-
ca rimando a M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl
Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 624-637; cfr. anche C. Galli, Genealogia
della politica, cit., p. 13.
72 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 98. Corsivo mio.
73 Ivi, p. 78.
74 Ivi, p. 103.
75 Ibidem.
76 Ibidem.
77 Ivi, p. 104.
78 Ivi, p. 79.
79 Ivi, p. 104.
80 Ibidem.
188 Dialettica della caverna

destino e di una vita che si dà esclusivamente come unica vita che reclama
per sé la totalità incondizionata.81

7. How to do nothing with words: mitigazione del potere attraverso la


retorica

La celebrazione schmittiana della decisione, del sovrano e dello Stato in


quanto katechon, ossia forza che trattiene il caos, va dunque decostruita. E
con essa – afferma Blumenberg in un articolo del 1968, Wirklichkeitsbe-
griff und Staatstheorie – il marchio d’infamia che grava sulla politica quan-
do sembra coincidere con la «pura retoricità». Non è forse meglio una po-
litica di sole parole, che sappia «congelare» i conflitti e trasformarli in
mera intimidazione, sostituendo i «proclami» alle «decisioni»? Piuttosto
che sopravvalutare «il repertorio tradizionale della “realtà” politica», la sua
– spesso funesta – «gioia di decidere»,82 converrebbe spesso apprezzarne la
mera simulazione.83 In mancanza di una «pace perpetua», frutto di un gran-
de e consapevole sforzo dell’umanità, alla guerra è pur sempre preferibile
la «pace cattiva» (ma «non la peggiore»)84 scaturita dalla certezza della de-
lusione e della catastrofe che discenderebbero dalla sua violazione, difesa
col mantenimento degli eserciti e della leva militare, protetta dalla costan-
te minaccia di una guerra «possibile» (tutti dispositivi che però meritereb-
bero di esser sciolti all’istante se dovesse fallire la loro finalità).
Bisogna insomma pensare a fondo e saper sopportare il paradosso del
«potere impotente»,85 ossia la circostanza per cui – scrive Blumenberg – il
potere oggi è efficace non in senso classico, coercitivo, in termini di forza,
ma come capacità di disporre delle «teste» che «liberamente» acconsento-
no alla volontà politica, ovvero si sostiene proprio su ciò che in effetti «non
si può né ottenere né dominare con il potere»,86 sull’intelligenza spontanea
e la facoltà inventiva, come capacità di produrre ideologia e padroneggiare
la sfera intellettuale. L’immagine della statualità che trapela alla luce di ciò
è allora quella di uno «Stato suggeritore», che deve la sua sussistenza alla

81 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., pp. 103-104.
82 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, in B. Accarino, Daedalus,
cit., p. 132.
83 Cfr. anche H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 97; A. Rivera García,
Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo, cit., pp. 143-165.
84 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 132.
85 Ivi, p. 133.
86 Ivi, p. 134.
How to do nothing with words 189

«retorica istituzionalizzata» e vacillerebbe se l’abbandonasse per presen-


tarsi come incarnazione dello zoon politikón o come nudo esercizio di po-
tenza.87
Questa «politica delle parole» è una «politica impolitica», se con politi-
ca s’intende appunto l’esercizio materiale del potere.88 D’altra parte la tra-
sformazione di conflitti, minacce e aggressioni in «discussione infinita» è
un meccanismo antropologicamente fondato cui dovremmo essere avvez-
zi.89 La retorica è infatti, secondo Blumenberg, quel medium linguistico che
si frappone tra l’uomo e la realtà, operando con sostituzioni, filtri, forme di
digressione (Umwegigkeit), esitazione e circostanzialità che differiscono o
impediscono l’azione90. In tal senso essa nasce, nella perplessità e nell’in-
certezza causate dalla carenza istintuale e sotto la pressione della sovrab-
bondanza di stimoli, come «arte della dilazione» e «dell’illusionismo», uti-
lizzando il linguaggio come un «de-realizzatore» che, creando un mondo di
apparenze, ci tiene occupati per evitare la coazione all’azione.91
Allora, nella sfera politica, «non è né il potere che risiede nella verità, né
la verità che risiede nel potere. Potere significa potentia – e tale deve rima-
nere: la sua realtà è possibilità». La realizzazione, la decisione, l’atto non è
destinazione naturale della potenza, ma al contrario il suo snaturamento, il
suo tradimento e la sua fine. Separare etica e politica significa anche desa-
cralizzare le azioni di quest’ultima e ammettere che possano essere «rioc-
cupate» da «quasi-azioni».92 How to do nothing with words:93 questa è di-
venuta la missione dell’agire politico. Innescare preventivamente discorsi
in luogo di azioni e interventi, combattere i concorrenti entro un agone di-
scorsivo e razionale non è – habermasianamente – la quintessenza di una
politica fondata sulla ratio comunicativa, orientata dall’intenzione di inten-
dersi, di raggiungere, sullo sfondo di un mondo vitale condiviso, il consen-
so mediante un uso non strumentale del linguaggio, messo al servizio del-
la comprensione come effetto di un riconoscimento intersoggettivo delle
rispettive pretese di validità, basate su ragioni e passibili di critica.94 Al

87 Ivi, p. 135.
88 Ivi, p. 137.
89 Ivi, p. 138.
90 Cfr. H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., pp. 85-112.
91 Cfr. C.G. Cantón, Absolutism, cit., pp. 128-129.
92 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 139.
93 Blumenberg fa la parodia di un noto testo: J.L. Austin, How to do things with
words: the William James lectures delivered at Harvard University in 1955, Lon-
dra, Oxford University Press, 1976.
94 Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 v., il Mulino, Bologna 1986.
190 Dialettica della caverna

contrario, la sostituzione retorica è per Blumenberg la strategia vincente di


una politica che sa di dipendere completamente dalla conservazione e dal-
la tutela dell’efficacia e della credibilità della parola, a prescindere dalla
sua veridicità consensuale equamente condivisa, come meccanismo perfor-
mativo che «depotenzia l’atto». C’è un tratto di realismo pessimista in que-
sta posizione di Blumenberg; per questo, si potrebbe aggiungere, mentre
Habermas è un convinto sostenitore delle istituzioni internazionali, egli
sembra, in Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie, difendere una politica di
equilibrio tra blocchi contrapposti.
In ogni caso bisogna porsi come obiettivo il «depotenziamento ontolo-
gico dello Stato» inteso in senso forte come «realizzazione dell’idea etica»,
decostruirlo ri-costruendo e mantenendo «l’aporia del depotenziamento
del potere» contro la «falsa delusione» che si accompagna alla sostituzio-
ne delle parole ai fatti.95 In altri termini, sarebbe totalmente paradossale im-
maginare di superare l’assolutismo della realtà, la violenza dello status na-
turalis riproponendo nuove forme di assolutismo.96
Se dev’esserci passaggio dal caos al cosmo, non deve incarnarsi nello
Stato che rivendica la propria «dignità cosmica», ma – come insegna il po-
liteismo olimpico – nella forma costituzionale della divisione dei poteri,
che sola garantisce la conservazione dell’ordine e la sua accettazione. Non
si può, hobbesianamente, «rinunciare a se stessi per conservarsi».97 An-
drebbe invece riletto l’Ésprit des lois, e non come una teoria sulla possibi-
lità dell’emersione dello Stato dalle sue condizioni pre-statuali, ma sulla
necessità di «portare lo Stato storico, quale è già dato, alla misura della
sopportabilità umana», di «neutralizzare e frenare la dinamica autentica del
potere».98 Se la politica nasce come ulteriore sfera protettiva opposta alla
precarietà dell’esistenza umana, non può mai mimare la catastrofe natura-
le, mai assumere i tratti della fatalità, mai soggiogare gli uomini a un pote-
re assoluto, poiché il potere assoluto della realtà è proprio ciò contro cui è
sorto come mitigazione.
Qui sta, a mio giudizio, il nucleo teorico forte della posizione filosofico-
antropologico-politica di Blumenberg, definibile come una «lode del
politeismo»,99 applicato – anche attraverso la «fenomenologia della ragio-
ne narrativa» sviluppata negli studi sul mito e nella teoria dell’inconcettua-

95 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 138.


96 Cfr. H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., pp. 116-117.
97 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 143.
98 Ibidem.
99 Cfr. O. Marquard, Apologia del caso, cit., pp. 37-62.
How to do nothing with words 191

lità – al gesto di autoaffermazione della ragione moderna, al fine di scon-


giurarne il pervertimento in «delirio di onnipotenza».100 La «politeologia»101
che Blumenberg oppone alla teologia politica parrebbe implicitamente far-
si carico di una religione civile dei moderni, adeguata alle esigenze di una
democrazia pluralista, capace pertanto di immunizzarsi rispetto al rischio –
additato dalle teorie della secolarizzazione – che i miti fondatori del mo-
derno divengano più virulenti del dogma di cui intendono sbarazzarsi. In-
somma, sembra emergere la questione di una «religione dei moderni non in
quanto mitologia della ragione, ma in quanto creazione di uno spazio di
convivenza tra ragione e mito, a cui affidare la possibilità di nuove creazio-
ni mitologiche».102 E certamente tale questione non può che essere posta
sul terreno della politica e della prassi. Ma tutto ciò rimane in Blumenberg
solo abbozzato e suggerito, tocca dunque ai suoi interpreti intraprendere un
cammino che conduca, a partire dalle sue indicazioni, a sviluppi e applica-
zioni ulteriori ma coerenti con esse.

8. Conservazione e utopia

Sul terreno della politica, dove a quanto pare si mostrano i nessi più ri-
levanti tra l’ipotesi antropogenetica, la teoria del mito e della retorica e la
questione della legittimità del moderno, Blumenberg mette in scacco Hob-
bes, Schmitt e Gehlen coi loro stessi mezzi, pensa «con» e «contro» di
loro:103 dal bellum omnium contra omnes e dalla precarietà della situazione
di partenza giunge al politeismo e alla divisione dei poteri; dalla polarizza-
zione amico/nemico trae non la confutazione del liberalismo, ma la sua
giustificazione; dalla necessità dell’esonero la negazione dell’assolutismo;
dall’insicurezza il sospetto sulla decisione e uno smaliziato elogio della re-
torica. Eppure sembra pervenire alla fondazione antropologica di una certa
forma di governo liberal-costituzionale non priva di problematicità. Questo
perché sussiste una sorta di rapporto analogico tra modernità e antropoge-
nesi, tra strutture del moderno e strutture antropologiche, certamente pro-
blematico benché in ultima istanza consapevole, dato che – come abbiamo

100 G. Leghissa, Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna, Medusa, Milano
2004, p. 280.
101 Ivi, p. 281.
102 Ivi, p. 282.
103 Cfr. P. Bourdieu, Choses dites, De Minuit, Paris 1987, pp. 63-65.
192 Dialettica della caverna

visto – Blumenberg sa e dichiara frequentemente che ogni antropologia è


figlia del suo tempo.
C’è un’ulteriore questione: il «soddisfacimento di sfondo»104 (ossia l’ap-
pagamento dei bisogni primari assicurato dalle istituzioni fondamentali)
che garantisce stabilità e percezione diffusa di sicurezza, può essere «reale
o virtuale».105 Blumenberg intende questa «virtualità» in tal senso: bisogna
sempre tenere a mente che il principio della delega è legato a un’«economia
della coscienza», a una dose necessaria di fuga dal realismo che discende
dalla costitutiva inconsolabilità umana. Anche la consolazione, quale ne-
cessaria «istituzione per l’elusione della coscienza», fa parte delle presta-
zioni della delega. Entrambe intrattengono un nesso forte con la retorica, la
forma di espressione istituzionale che Blumenberg predilige. E, anche nel
caso della sete di consolazione, «lo spettro dei bisogni di un organismo è al
contempo misura del suo grado di libertà e individualità»,106 libertà che
consiste soprattutto nella possibilità di conservarsi in vita «nonostante la
sussistenza della realtà, dunque infine di poterlo fare anche attraverso la
finzione (fiktiv)»:107 tramite la compensazione di un’eccedente disponibili-
tà dell’immaginario.108
Blumenberg afferma la necessità e la positività della simulazione anche
come forma surrogata di democrazia: va tenuto in considerazione che, in
un «mondo sovraffollato», il contatto autentico con la realtà non è più pos-
sibile per tutti nella medesima misura ed è il caso di chiedersi, seppur cau-
tamente, se la fruizione dei surrogati non sia comunque meglio del sempli-
ce accesso negato alla realtà. Se non ci fosse il teatro lirico col suo
pubblico elitario, non esisterebbero nemmeno i dischi e la televisione!109
Questa la sua rassegnata risposta allo scandalo dei rematori sordi che ac-
compagnano Ulisse al di là dello scoglio delle Sirene.110
E tuttavia la tendenza verso l’indistinguibilità di realtà e illusione non
può essere sottovalutata111. È sempre in agguato il rischio di scivolare dal-
la «funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza mondana»,

104 A. Gehlen, Le origini dell’uomo, cit., p. 57.


105 Ivi, pp. 58-59.
106 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 631. Il passo è tratto da H.
Jonas, Philosophical Essays, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1974, p. 196.
107 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 631.
108 Cfr. ivi, p. 632.
109 Ivi, p. 600.
110 Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino
1997, in particolare p. 42.
111 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 601.
How to do nothing with words 193

come «fondo di garanzia per il mondo», alla «rinuncia al mondo» tout


court112, agevolata da un dispiegamento degli arsenali della simulazione,
dalla sovrabbondanza di informazioni e immagini che fanno sorgere «un
“mondo” dei non vedenti perché onniscienti», un mondo di soli esoneri dal
reale.113
Le questioni mi sembrano allora le seguenti: fino a che punto possiamo
aspirare a trasformare il reale e sbarazzarci di questa compensazione vir-
tuale, di questi «appagamenti immaginari»?114 Non sono anch’essi una for-
ma di quello «strapotere delle istituzioni» additato da Adorno?115 Come vi-
gilare sul potere mistificatorio della retorica, operando smascheramenti? In
che modo si può scongiurare la degenerazione della rappresentanza in
mera autoreferenzialità, nell’invito a ‘non disturbare il manovratore’?
Quanto possiamo emanciparci? Si può denunciare lo stato di cose presente
senza ricadere in nuovi realismi e assolutismi? Dove corre il confine tra la
minaccia della pace e una giusta esigenza di cambiamento? E se i cittadini,
anziché esercitare la propria libertà nella dimensione privata, ambissero a
occupare in qualche forma lo spazio pubblico, revocando almeno in parte
la delega alle istituzioni? C’è il margine per una critica sociale? Nel testo
del ’68-’69, Blumenberg afferma che la pace mondiale, raggiungibile per
via «tecnica», è solo il primo passo per poter sperare nella felicità dell’u-
manità, la precondizione dell’utopia: «a entusiasmare e scatenare le forze
costruttive può essere solo quel che potrebbe venire dopo l’acquisizione
della pace».116 Rinfacciando al reale le possibilità che ha rifiutato, l’utopia
ne confuta la «sussistenza cogente»,117 funziona come istanza di manteni-
mento dello Stato entro i confini della propria contingenza e mostra che le
cose possono essere diverse da come sono, che si può «contestare la co-
scienza della loro ovvietà».118
Tuttavia, va tenuto presente che, se la trascendenza dell’utopia viene «re-
cuperata nell’immanenza del tempo unico», ovvero di fatto rimossa nel mo-
mento in cui è posta al servizio del progresso come «realizzazione perma-
nente di possibilità», essa incorre in un’«atrofia funzionale». La provincia
utopica deve restare al di fuori del contesto della realtà. Diversamente, se si

112 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 614.


113 Ivi, p. 615.
114 Ibidem.
115 Per un’analisi di alcuni aspetti del tema cfr. V. Pavesich, Hans Blumenberg, cit.,
pp. 167-203.
116 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 141.
117 Ivi, p. 142.
118 Ivi, p. 143.
194 Dialettica della caverna

trasforma in «utopia del futuro» nei termini di «ciò che deve comunque ac-
cadere», non può che produrre ottimismo o rassegnazione, atteggiamenti in-
clini ad «abbandonare la storia a se stessa».119 Detto altrimenti, se l’utopia
cede il proprio esotismo per assumere tratti profetici, perde a un tempo tutto
il suo potenziale critico: perciò non può dare «insegnamenti su come dev’es-
sere il mondo o lo Stato», ma soltanto su come non devono essere.120
Purtuttavia bisogna prendere sul serio in senso sperimentale l’intenzio-
ne dell’immagine della caverna; fatta la tara della qualità mitica che le de-
riva dalla prossimità con l’origine, occorre – dice Blumenberg nelle ultime
pagine di Höhlenausgänge – pensarne ancora l’intento in relazione al no-
stro tempo: se la situazione data si giustifica in base a un bisogno di auto-
conservazione, ciò non impedisce di mettere in discussione gli strumenti e
le funzioni della retorica, quand’anche questo non dovesse condurre a un
grado maggiore di possesso della realtà.121 Un’allegoria della caverna capa-
ce di «cogliere la problematicità del presente» dovrebbe, oltre a compren-
dere in termini antropologici, e non più metafisici, gli oppositori delle ve-
rità superiori,122 i fautori della «conservazione», e riconoscere il bisogno di
affidabilità che induce a rifugiarsi nelle istituzioni, altresì pensarne il cul-
mine non più nel mondo delle idee, ma nella «fantasia».123 Essa è «lo stru-
mento delle sorprese che l’uomo riesce a farsi»,124 qualcosa che intrattiene
un legame segreto con la giovinezza. E se, in quest’allegoria finale, dall’ac-
me della fantasia liberata si tornasse alla caverna dell’abitudine, ciò signi-
ficherebbe solo «il declivio della perdita di giovinezza, fino alla morte». La
fantasia è autistica, è un «organo per altri mondi» e perciò è «incapace di
generare vincoli», nei confronti di ciò che si lascia alle spalle come verso
quel che è a venire, nel futuro. Per questo, come la sua traduzione coatta in
meta del movimento reale della storia, anche il suo volgersi all’indietro è
sempre forzato, è un anelito a ritirarsi là dove regna la certezza del ritorno
dell’eguale, non ha a che fare con alcuna saggezza o esperienza, coincide
soltanto con «la perdita di organizzazione che si ha con l’invecchiare».125

119 Ivi, p. 142.


120 Ivi, p. 143.
121 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 619.
122 Ivi, p. 620.
123 Qui Blumenberg usa come sottotesto ancora gli scritti di Gehlen, in questo caso il
saggio giovanile del 1927: Reflexionen über Gewohnheit, in Gesamtausgabe, v. 1,
Philosophische Schriften, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978, pp. 97-
111.
124 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 624.
125 Ivi, p. 625.
How to do nothing with words 195

L’adultità è un’altra cosa ancora: si conquista «non rinunciando alle sfe-


re, ma imparando ad abitare in modo corretto al loro interno»;126 uscendo
dallo stato di minorità senza credere di poter fare a meno delle caverne, ma
sapendo che nell’orizzonte del moderno si tratta piuttosto di una «reinte-
grazione della sfericità […] entro contesti più complessi»127, di demitolo-
gizzare senza negare il mito, ma liberando «la perla dalla sua conchiglia
teologica».128 Essere adulti significa tener sempre a mente che un anda-
mento virtuoso dell’agon, in equilibrio tra affidabilità e stimolo dell’inu-
suale, sarebbe il punto d’intersezione desiderabile, il «riferimento della re-
altà» in grado di fare della caverna l’«istituzione delle istituzioni»,129 e che
proprio i riusciti esoneri aprono gli spazi per le promesse, le esperienze
esotiche, le sfide sconosciute.

9. Brevi conclusioni

La dialettica inesausta tra il binomio ripiegamento-vecchiaia e quello


antitetico slancio estatico-giovinezza e il loro appartenere alle forme dell’a-
bitare nel mondo mostrano quel gesto blumenberghiano di antropologizza-
zione della sfera politica di cui si è parlato in apertura al capitolo. Blu-
menberg sembra dire che la politica è antinomica perché l’antropologia lo
è: la prima eredita dalla seconda l’oscillare di aggressione ed esitazione, ri-
paro e uscita, tecnica e retorica, bisogno di mito e illuminismo, conserva-
zione e utopia. Quelle che noi chiamiamo nel linguaggio del pensiero poli-
tico «destra» e «sinistra» sono dimensioni legate da un lato alla Stimmung
delle diverse età della vita, dall’altro ai meccanismi di sopravvivenza, in
ultima istanza all’opposizione antropologica di «nomadismo» e «sedenta-
rietà». Gli uomini sono per Blumenberg esseri «nomadi» ed «entropici»
nella misura in cui devono la loro sussistenza a un gioco complesso di de-
viazioni «anestetiche», peregrinazioni rese possibili da ricoveri sparsi lun-
go il tragitto, perciò al contempo è coessenziale all’Umwegigkeit, al diva-
gare e al vagare, la creazione degli spazi interni, di istituzioni dalla
funzione protettiva.130

126 G. Leghissa, Sulla sferologia di Peter Sloterdijk, in «Iride», n° 63, 2011, p. 440.
127 Ivi, p. 442.
128 P. Sloterdijk, Sfere, I, cit., p. 103.
129 H. Blumeneberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 624.
130 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no, cit.
196 Dialettica della caverna

Il riferimento alla caverna come allegoria antropologicamente fondata


del politico, dove i fautori della conservazione delle istituzioni sono anche
coloro che permettono la liberazione della fantasia, si potrebbe tradurre in
questi termini: la «cultura di destra»131 è per definizione conservazione del-
lo status quo, o addirittura reazione, è naturalizzazione dell’esistente trami-
te lo strumento della falsa coscienza, ossia della retorica, del linguaggio
mitico che eternizza e depoliticizza il presente.132 Tuttavia, allo stesso tem-
po, è grazie ai suoi solidi puntelli, alla sussistenza di questo mondo istitu-
zionalizzato, che può liberarsi la critica, la fantasia, l’utopia ed è questa
tensione la cifra del nostro essere-nel-mondo.
La posizione di Blumenberg rispetto a questa dialettica è definibile
come un invito alla maturità, alla sobrietà, per utilizzare una formula di
Remo Bodei, e alla rinuncia non solo a «utopie di dominio», ma anche «di
miglioramento globale della realtà».133 E tuttavia mi piace pensare che
anch’egli si considerasse mobile rispetto a questo centro, membro esem-
plare di quella specie indocile a cui ha dedicato la propria «antropologia di-
namica». Non è casuale che chiuda Höhlenausgänge con un’apertura, do-
mandandosi se, forse, non saranno nuovi rapporti di legittimità tra le età
della vita a plasmare l’inizio del secondo millennio,134 ossia – credo – se il
futuro non riservi una diversa sintesi tra vecchiaia, maturità e giovinezza,
tra conservazione, equilibrio e trasformazione …

131 Cfr. F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979.


132 Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, Eianudi, Torino 1994.
133 R. Bodei, Introduzione all’edizione italiana di H. Blumenberg, La leggibilità del
mondo, cit., p. XIX.
134 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 626. Sulla base di una traduzio-
ne modificata rispetto alla versione italiana di Martino Doni.
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FILOSOFIE
Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio

200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento
201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione
202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura
203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme
204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un
discorso in frammenti
205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch
206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia
207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero
208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e
religione
209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura
210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia
contemporanea
211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900.
Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath
212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione
213. Luca Mori, Tra la materia e la mente
214. Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno
215. Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica
216. Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere
217. Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana
218. Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico
219. Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger
220. Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza
221. Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in
epistemologia e nelle scienze naturali
222. Liliana Nobile, Democrazie senza futuro
223. Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con
unʼintervista inedita
224. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero
occidentale
225. Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica
226. Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in
Walter Benjamin
227. Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka
228. Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia
229. Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine
230. Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco
Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento
231. Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze
232. Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo
233. Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso
234. Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume
235. Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in
Wittgenstein e Wollheim
236. Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi
delle identità
237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in
Giovanni Gentile
238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte
239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed
epistemologico
240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia
241. Erasmo Storace, Genografie
242. Erasmo Storace, Tanotagrafie
243. Erasmo Storace, Poietografie
244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte
245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti
246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale
247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e
teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin
248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra
Oriente e Occidente
249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e
politica. Saggi in onore di Mario Reale
250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche
filosofiche in movimento
251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il
“verdetto” di Adorno e la risposta di Celan
252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere
253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore
254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità
255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura
256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia
257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali
258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale
259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento
dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta
260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo
261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte
262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano
263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volon-
taria e società depressa
264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi
dell’esistenza
265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male
266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio
267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio
dell’analogia
268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica
269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia
270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang
271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia
nella filosofia di Severino Elias Ngoenha
272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità
273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale
(1970-2010)
274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’er-
meneutica
275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri
276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio
introduttivo attorno all’ermeneutica mitica
277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di
F.W.J. Schelling
278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il
caso, il silenzio, la natura
279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico
280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras
281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl
282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf
283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter
284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto
moderno
285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi.
Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas
286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici
287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth
Plessner
288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire
289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione,
traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore
290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso
storico
291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e
l’apologia dell’apparire
292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi
293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere
294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della
ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger
295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale
296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti
297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger
298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella
299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana.
Dottrine, testi, contesti e lessico
300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e
Schleiermacher 
301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte
302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità
303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere
304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia
305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica
306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello
Zarathustra di Nietzsche
307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia»
308. Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe
309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi
310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive
filosofiche sulle scienze della vita
311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della
conoscenza
312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in
Friedrich Nietzsche
313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica
314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico
315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e
narrazione della sua trasmutazione
316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario
317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto
318. Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco
319. Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione
di Heidegger a partire dal Kantbuch
320. Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in
Denis de Rougemont
321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804)
322. Leonardo V. Distaso - Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín:
un’indagine storica ed estetica 1933-1945
323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e
nellʼebraismo
324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone
325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014,
326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore
di Giovanni Invitto
327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni
328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione
329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo
Michelstaedter
330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc
Marion
331. Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio,
etica, estetica
332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La
Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena
333. Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di
Emanuele Severino
334. Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio
Ernesto Marasco, postfazione di Gian Giacomo Rovera
335. Laura Gherlone, Dopo la semiosfera. Con saggi inediti di Jurij M. Lotman
336. Marco de Paoli, La Tragica Armonia. Indagine filosofico-scientifica sulla genesi
e l’evoluzione del vivente
337. Chiara Paladini, Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart
338. Roberto Lasagna, Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia
339. Pietro Piro, I frutti non colti marciscono. Temi weberiani e altre inquietudini
sociologiche
340. Domenico Felice, Montesquieu e i suoi lettori
341. Emanuele Quinz, Il cerchio invisibile. Ambienti, sistemi, dispositivi
342. Tiziana Pangrazi, Adorata Forma. Saggio sull’estetica di Ferruccio Busoni
343. Leonardo V. Distaso, Estetica e differenza in Wittgenstein. Studi per un’estetica
wittgensteiniana
344. Pietro Barbetta, La follia rivisitata
345. F.W.J. Schelling, L’anima del mondo. Un’ipotesi di fisica superiore per la
spiegazione dell’organismo universale, a cura di Alessandro Medri
346. Antonio De Simone, L’arte del conflitto. Politica e potere da Machiavelli a
Canetti. Una storia filosofica
347. Emilano La Licata, Il terreno scabro. Wittgenstein su regole e forme di vita
348. Anna Valeria Borsari, Franco Farinelli, Eleonora Fiorani, Raffaele Milani, Gian
Battista Vai, Naturale e/o artefatto
349. Pietro Abelardo, Etica, a cura di Mariateresa Fumagalli e Beonio Brocchieri
350. Susan Petrilli, Nella vita dei segni. Percorsi della semiotica
351. Lucia Vantini, L’ateismo mistico di Julia Kristeva, prefazione di Wanda Tommasi
352. Ragionamenti percettivi. Saggi in onore di Alberto Argenton, a cura di Carlo
Maria Fossaluzza e Ian Verstegen
353. Stefano Rivara, Verità: Pluralismo e teoria funzionalista
354. Ivan Dimitrijević - Paulina Orłowska, Come la teoria finì per diventare realtà.
Sulla politica come geometria della socializzazione
355. Julius Evola, Il rientro in Italia 1948-1951, a cura di Marco Iacona
356. Anna Rita Gabellone, Una società di pace. Il progetto politico-utopico di Sylvia
Pankhurst
357. Petronio Petrone, Fior da fiore dai Carmina Burana. Morali e di protesta,
d’amore e spirituali, di donne e d’osteria. 40 canti dei Clerici Vagantes medievali
tradotti nella lingua del nostro tempo con testo latino a fronte
358. Enzo Cocco, Il giardino e l’isola. Due figure della felicità in Rousseau
359. Vergílio Ferreira, Lettera al Futuro, a cura di Marianna Scaramucci e Vincenzo
Russo
360. Giorgia Carluccio (a cura di), Laicità dello stato. Ambiti tematici
361. Alfred Adler, Psicodinamica dell’eros. Motivazioni inconsce della rinuncia alla
sessualità, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione Gian Giacomo Rovera,
Edizione integrale
362. Beatrice Balsamo e Alberto Destro (a cura di), Della fiaba. Jacob e Wilhelm
Grimm e il pensiero poetante per i 200 anni di Fiabe del focolare
363. Luciano Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte diavolo analità,
364 Paolo Vidali, Federico Neresini, Il valore dell’incertezza. Filosofia e sociologia
dell’informazione
365. Marco Castagna, Il desiderio della lettura. Esercizi. Pratiche. Discorsi
366. Jan Spurk, E se le rane richiedessero un re?
367. Petre Solomon, Paul Celan. La dimensione romena, a cura di Giovanni Rotiroti,
traduzione di Irma Carannante, postfazione di Mircea Ţuglea
368. Luisa Della Morte, Margherita Tosi, Nascere umani. Continuare Reich per i
bambini del futuro
369. Riccardo Roni, La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite
370. Emanuele Iula, Carlo Maria Martini. La Parola che rigenera il mondo
371. Cecilia Ricci, Leggere Babele: George Steiner e la “vera presenza” del senso
372. Giuseppe Schiavone (a cura di), L’utopia: alla ricerca del senso della storia
373. Matteo Canevari, Lo specchio infedele. Prospettive per il paradigma teatrale in
antropologia
374. Franco Ricordi, L’essere per l’amore
375. Roland Barthes. Il discorso amoroso. Seminario all’Ecole pratique des hautes
études 1974-1976 seguito da Frammenti di un discorso amoroso (inediti),
Introduzione di Éric Marty, Presentazione e cura di Claude Coste, Introduzione
all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio
376. Giovanni Botta, La struttura dell’eterno. Le Mélodies di Gabriel Marcel,
Prefazione di Pierangelo Sequeri. Contiene un CD con le trascrizioni e le
registrazioni sonore delle Mélodies
377. Francesco Panaro, Contro la cultura. Esseri e universi ben invisibili
378. Riccardo Fedriga, La sesta prosa. Discussioni medievali su prescienza, libertà e
contingenza
379. Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, a cura di Massimo Filippi
e Marco Reggio, Con un’intervista a Judith Butler e saggi di Massimo Filippi,
Richard Iveson, Marco Reggio, James Stanescu e Federico Zappino
380. Paolo Pecere, Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario
381. Nazzareno Mazzini, La nebbia non c’è più. Passeggiata lungo i film di Milano
382. Aldo Marroni (a cura di), Laure. La sovrana dell’erotismo
383. Voltaire, Premio della giustizia e dell’umanità, a cura di Domenico Felice.
Traduzione di Stefania Stefani
384. S. Facioni, S. Labate, M. Vergani (a cura di), Levinas inedito. Studi critici
385. Luciano Ponzio, Roman Jakobson e i fondamenti della semiotica
386. Julia Ponzio, L’altro corpo del testo . Modello sintattico e interpretazione in
Jacques Derrida
387. Romeo D’Emilio, Sub-limis e sub-limo. Al limite estremo: fra Goya e Malevič
388. Marco Piazza, L’antagonista necessario. La filosofia francese dell’abitudine da
Montaigne a Deleuze
389. Gian Mario Anselmi, Riccardo Caporali, Carlo Galli (a cura di), Machiavelli
Cinquecento. Mezzo millennio del Principe
390. Bethania Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, Introduzione
di Simona Forti, Traduzione e cura di Enrico Valtellina
391. M. Hess, L. Feuerbach, M. Stirner, K. Fischer, Szeliga, La questione Stirner, a
cura di Marcello Montalto
392. Rosario Diana, La forma-reading. Un possibile veicolo per la disseminazione dei
saperi filosofici. Resoconto ragionato, programma e strumenti di lavoro
393. Giovanni U. Cavallera, Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come
fondamento nell’Impero Romano d’Oriente
394. Luigi Fraschini, Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto. Percorsi
antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale «pre-greca»,
prefazione di Giulio Giorello
395. Fabio Farotti, Et in Arcadia ego. L’incantesimo del nichilismo in pittura,
Prefazione di Emanuele Severino
396. Andrea dal Sasso, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino
tra attualismo e metafisica, prefazione di Emanuele Severino
397. Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della
temporalità nella produzione occidentale
398. Marco de Paoli, Il soggetto eroico e il suo sguardo da lontano. Sul possesso e
sull’oblio di sé
399. Günter Figal, Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia, edizione
italiana a cura di Antonio Cimino, postfazione di Luca Crescenzi
400. Onorato Grassi e Massimo Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento.
Interpretazioni, bilanci, prospettive
401. Luca Casadio, L’arte della psicoterapia e la psicologia dell’arte. Per una
psicologia narrativa
402. Sergio Sorrentino, Oltre la ragione strumentale
403. Thomas Percival, Etica medica. Ovvero un Codice di istituzioni e precetti adattati
alla condotta professionale dei medici e dei chirurghi, a cura di Sara Patuzzo,
traduzione italiana di Giada Goracci, con la collaborazione di Sebastiano Castellano
404. Pierpaolo Lauria, Leopardi Filosofo maledetto, prefazione di Alberto Folin
405. Virgilio Melchiorre (a cura di), Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per
Adriano Manesco, con la partecipazione di Sibilla Cuoghi, Anna Ferruta, Elio
Franzini, Gabriele Scaramuzza
406. Mario Augusto Maieron e Giuseppe Armocida, Storia, cronaca e personaggi
della psichiatria varesina
407. Georg Simmel, Cultura femminile
408. Francesco Allegri, Gli animali e l’etica
409. Gustav Gustavovič Špet, La forma interna della parola. Studi e variazioni su
temi humboldtiani (1927), traduzione e cura di Michela Venditti
410. Maurizio Balistreri, La clonazione umana prima di Dolly. Una fantasia che
diventa realtà?
411. Monique Jutrin, Lo zibaldone di Ulisse. Con Benjamin Fondane al di là della
storia (1924-1944), traduzione e cura di Anna Carmen Sorrenti
412. Antonio De Simone, L’io reciproco. Lo sguardo di Simmel
413. Mattia Geretto, L’essere e le sue determinazioni. Sulla monadologia di
Bernardino Varisco
414. Luigi Ferrari e Luca Vecchio (a cura di), La psicologia critica e i rapporti tra
economia, storia e psicologia
415. Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il
discorso pubblico, prefazione di Angelo Panebianco
416. Sergio Solombrino, Intenzionalità ed esperienza nel Wittgenstein intermedio
417. Alice Gonzi, Monique Jutrin (a cura di), Benjamin Fondane: una voce singolare
418. Vinicio Busacchi, La via della creazione. di valore. Nuovi interventi buddisti
419. Rainer Matthias Holm-Hadulla, Passione. Il cammino di Goethe verso la
creatività. Una psicobiografia, traduzione dal tedesco e cura di Antonio Staude
420. Enrico Valtellina, Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger
come oggetto culturale
421. Sarah Songhorian, Sentire e agire. L’etica della simpatia tra sentimentalismo e
razionalismo. Prefazione di Massimo Reichlin
422. Giacomo Leopardi, “Lo stato libero e democratico”. La fondazione della politica
nello Zibaldone, selezione dei testi, introduzione e commento a cura di Fabio
Vander
423. Sergio Scalia, Quale futuro. Potenzialità e rischi delle nuove tecnologie
424. Felice Accame, Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui
è evoluto
425. A. Berriedale Keith, D.C.L., D.litt., Il sistema . Storia della filosofia

426. Paolo Calegari, La comprensione del sociale. Strategie cognitive e prospettiva


sul futuro
427. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità
428. David Baumgardt, Il problema della possibilità nella Critica della ragion pura,
nella moderna fenomenologia e nella teoria dell’oggetto, edizione italiana a cura
di Luigi Azzariti-Fumaroli
429. Giuseppe Polistena, Diacronia. Appunti per una ontologia del tempo
430. Giuseppe Zuccarino, Prospezioni. Foucault e Derrida
431. Silvia Casini, Il ritratto-scansione. Immaginare il cervello tra neuroscienza e arte
432. Simone Furlani, L’immagine e la scrittura. Le logiche del vedere tra segno e
riflessione
433. Carmelo Alessio Meli, Kant e la Possibilità dell’Etica. Lettura critico-sistematica
dei Primi Principi Metafisici della Dottrina della Virtù
434. Luca Marchetti (a cura di), L’estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di
Giacomo
435. Teresa Tonchia (a cura di), Lo spettro della fine. Pensare l’Apocalisse tra filosofia
e cinema
436. Jean Soldini, Alberto Giacometti. Lo spazio e la forza
437. Paolo Piccari (a cura di), Forme di realtà e modi del pensiero. Studi in onore di
Mariano Bianca
438. Gianfranco Longo, Empireo. Dio, i cori angelici e il fondamento blu della
creazione
439. Domenico Gallo, Il ribelle del pensiero. Albert Einstein e la nascita della fisica
quantistica
440. Martino Feyles, Margini dell’estetica
441. Francesco Gregorio, Giuseppe D’Anna, Alessandra Anna Sanna (a cura di),
Filosofia e pratiche dei saperi
442. Tiziana Pangrazi, Ritorno al cielo. L’estetica musicale in Italia dal Trecento al
primo Novecento
443. Leo Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima,
traduzione e cura di Luciano Arcella
444. Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale
445. Roberto Bertoldo, La profondità della letteratura. Saggio di estetica estesiologica
446. Giorgio Tettamanti, L’eone della cosa. Saggio filosofico da Aristotele a Carl
Schmitt
447. Markus Ophälders, Dialettica dell’ironia romantica
448. Luciano Ponzio, Icona e raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall
449. Viola Carofalo, Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro
450. Elisa Cecconi, Ontogenesi molecolare e cellule staminali pluripotenti indotte.
Indagini epistemologichce e implicazioni bioetiche
451. Marcello Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’altrove, Festschrift per Giangiorgio
Pasqualotto
452. Marco Gigante, Il dovere di non essere sé stessi. La filosofia dell’il y a nell’opera
di Emmanuel Levinas
453. Enrico Arduin, Il sottosuolo del presente
454. Giuseppe Craparo (a cura di), Elogio dell’incertezza. Saggi psicoanalitici,
prefazione di Franco De Masi
455. Giovanni Gurisatti, L’animale che dunque non sono. Filosofia pratica e pratica
della filosofia come est-etica dell’esistenza
456. Ferruccio Rossi-Landi, Linguistica ed economia
457. Lucia Maria Grazia Parente (a cura di), La scuola di Madrid. Filosofia spagnola
del XX secolo, prologo di Lane Kauffmann, epilogo di Javier San Martín
458. Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti
della trasformazione, introduzione di Remo Bodei
459. Susanna Fresko e Chiara Mirabelli (a cura di), Qual è il tuo mito? Mappe per il
mestiere di vivere
460. Volker Halbach, Manuale di logica, a cura di Carlo Nicolai
461. Giovanni Valente, Causalità relativistica. Problemi filosofici all’incontro di
teoria dei quanti e relatività ristretta
462. Emilio Mazza, Gazze, whist e verità. David Hume e le immagini della filosofia
463. Simona Alagia, Jan Patočka: la responsabilità del pensiero in pratica
464. Danilo Soscia, Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana
465. Paolo Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia
466. Giuseppe Goisis, Dioniso e l’ebbrezza della modernità. Sei saggi su politica e
società, prefazione di Luigi Perissinotto
467. Giuliana Mannu, Aldo Capitini filosofo dell’azione e della libertà. Con un
carteggio inedito con Augusto Del Noce
468. Massimo Dell’Utri e Antonio Rainone (a cura di), I modi della razionalità
469. Maria Giuseppina Di Monte, Giuliana Pieri, Simona Storchi (a cura di), Visualiz-
zare la guerra. L’iconografia del conflitto e l’Italia
470. Giuseppe Morello, La parola e il Leviatano. Segni, linguaggio e retorica nel
pensiero politico di Hobbes
471. Fulvio Palmieri, Troppo umano. Sociologia della genetica
472. Marco Ferrari, Libertà va cercando. Percorsi di filosofia medievale
473. Calogero Caltagirone, Ri-pensare l’uomo “tra” empirico e trascendentale
474. Paolo Calandruccio, Alessio Tommasoli, Guido Traversa (a cura di), Storia della
filosofia per consulenti filosofici
475. Claudio Corradetti, Kant e la costituzione cosmopolitica. Tre saggi
476. Francesco Cerrato, Stili di vita. Fonti, forme e governo nella filosofia spinoziana
degli affetti
Finito di stampare
nel mese di xxxx 2017
da Digital Team - Fano (PU)

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