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Alfonso Di Prospero

LA LOGICA DELLA SEMPLICITÀ.


COMUNICAZIONE E SIGNIFICATO NEL
TRACTATUS DI WITTGENSTEIN.

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Premessa (2006)

Lo scritto che presento, per quanto ampio, deve essere


considerato come solo preparatorio per una fase
ulteriore di approfondimento dei temi che tratto. La
logica interna al ragionamento che ho provato a
sviluppare, mi ha obbligato ad occuparmi di ambiti
tematici tenuti in genere tra loro distinti, e questo
naturalmente ha reso il mio lavoro molto più difficile.
Ho ritenuto lo stesso che fosse opportuno muovermi in
questo modo, perché il motivo maggiore di interesse che
mi sembrava di poter rintracciare nelle mie
considerazioni, stava proprio nei nessi teorici che in
questo modo venivo – perlomeno – a suggerire.
In parte questa decisione risente del fatto che i
risultati che presento sono il frutto di un percorso di
studio durato più di una decina d'anni, in cui ho
affrontato tematiche tra loro anche molto diverse, che
ora sono confluite in questo lavoro; ma i temi che di
volta in volta ho approfondito erano scelti in funzione di
un'ipotesi di lavoro abbastanza precisa che avevo in
mente dall'inizio e che quindi ha orientato man mano le
mie letture, in modo che ora, credo, il tutto può
presentare in effetti un certo grado di unitarietà.
Il modo più efficace per presentare sinteticamente le

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idee chiave, credo che sia facendo riferimento alla
nozione di “oggetti” semplici e immutabili, che nel
Tractatus logico-philosophicus sono detti essere la
“sostanza del mondo”. Più precisamente – e come si
vedrà meglio in seguito – proporrò un'interpretazione
che vede negli “oggetti” qualcosa che possiamo definire
come le unità elementari del significato. La domanda
quindi è: si può collegare intuitivamente la caratteristica
dell'immutabilità degli oggetti con un requisito che
possiamo definire di “stabilità del significato”? Se un
oggetto è il significato (Bedeutung) di un nome, e se i
nomi devono poter essere capiti, sembra legittimo
richiedere che a) il significato di un nome non cambi da
un contesto proposizionale all'altro (si badi: neppure
solo in parte), se non altro perché in un tale caso, per
capire che cosa si intende significare con il nuovo uso
del nome, sarebbe necessaria o una nuova ostensione
(quindi avremmo a tutti gli effetti un altro nome,
diverso dal primo) o una nuova proposizione (che
spieghi e determini le variazioni avvenute rispetto al
significato originario), che innescherebbe però subito un
regresso. Tutto questo poi significa asserire ipso facto b)
che gli “oggetti” sono, appunto, immutabili. Il senso di
questa tesi può essere riformulato dicendo
semplicemente che, coerentemente con il principio di
identità, il significato di una parola non può “cambiare”
da un contesto di utilizzo all'altro. (Ovviamente, se la
parola “albero” a seconda dei contesti viene a designare
una betulla piuttosto che un faggio, questo non significa
che il significato della parola è “cambiato”. Si tratta di
una questione molto difficile che implica riferimenti

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impegnativi, ad es. al problema degli universali, al
principio di contestualità e all'analisi del concetto di
relazione. Cercherò man mano di chiarire le tesi che
intendo sostenere).
Oltre a questo, mi troverò ad introdurre un
riferimento molto ampio 1) al dibattito sull'induzione, 2)
all'epistemologia genetica. Il collegamento che farò tra
queste questioni e il Tractatus è difficile da descrivere in
maniera sintetica. Mi limito qui ad anticipare che
intendo difendere una forma di induttivismo che
troverebbe il suo campo più specifico di applicazione
appunto nella psicologia evolutiva: l'individuo, dalla
nascita, inizierebbe a fare esperienze e a generalizzare
(induttivamente) su di esse, in modo da costruire
(seguendo Piaget) la rappresentazione del mondo che
conosciamo. Il presupposto sarà un confronto con
l'ontologia del Tractatus, che darà luogo a momenti
significativi di contatto, pur nel riconoscimento della
distanza che separa quest'opera da una filosofia della
conoscenza di orientamento induttivista.
L'interesse primario che mi muove non è di tipo
strettamente esegetico, ma riguarda piuttosto la
possibilità di attingere dal Tractatus alcune
argomentazioni (in particolare sugli “oggetti” e la
“sostanza del mondo”), che – andando ben oltre le
intenzioni dell'autore – possano servire a dare dei
suggerimenti su come affrontare il problema
dell'induzione.
Non c'è naturalmente la pretesa di attribuire a
Wittgenstein tesi di questo genere, ma solo il tentativo
di mostrare che un'ipotesi di lavoro di questo tipo

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(prescindendo dalle effettive intenzioni di Wittgenstein)
meriterebbe di essere approfondita. Il confronto che
propongo tra il mio percorso teorico e le tesi del
Tractatus è dovuto piuttosto ad alcuni parallelismi che
mi sembra li colleghino sul piano teorico in maniera
molto significativa.
Le linee di fondo lungo le quali si svilupperà il mio
ragionamento saranno le seguenti (l'esposizione
necessariamente sarà schematica e semplicistica: ho
preferito ugualmente riportarla perché, credo, sapere in
anticipo in quale direzione ci si muoverà, potrà fare
apparire meno contro-intuitivi alcuni passaggi teorici
che man mano dovrò fare) :
1) parto dal presupposto che il “significato” (qui nel
senso di rappresentazione – soggettiva – di una certa
realtà) sia tutto ciò che abbiamo per rappresentarci
quella realtà. Con un'argomentazione che tiene conto in
parte delle istanze di un idealismo di matrice
fenomenista, possiamo dire che se il soggetto
epistemico disponesse di qualcosa in più (rispetto alla
sua rappresentazione) per rappresentarsi la realtà,
questo qualcosa diverrebbe ipso facto una parte della
sua rappresentazione.
2) Se il significato – che è tutto ciò che abbiamo – è
immutabile, possiamo rappresentarci il divenire
dell'“oggetto” (in senso wittgensteiniano), o in genere il
suo variare da un contesto ontologico ad un altro?
3) Se si risponde che l'oggetto non può effettivamente
essere concepito come dotato di un'identità ontologica
variabile, e se le relazioni tra oggetti si “mostrano”, per
così dire, dall'interno degli oggetti stessi, senza

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intervenire a “collegarli” dall'esterno (come suggerisce
la lettura della proposizione 3.1432 del Tractatus), non
possiamo arrivare a sostenere che le relazioni tra oggetti
debbano essere esse stesse immutabili? In questo caso, è
possibile suggerire che le uniformità di natura affermate
dall'induttivismo, possano spiegarsi appunto come
relazioni tra “oggetti” nel senso indicato da
Wittgenstein. Se la “sostanza del mondo” è costituita da
unità ontologiche elementari semplici ed immutabili, e
se le relazioni tra queste unità sono ugualmente
immutabili, dovremmo avere un mondo in cui le
relazioni tra oggetti sono costanti, appunto come
afferma l'induttivismo.
4) Si deve considerare, al riguardo, che qui, per la logica
interna all'argomentazione, verrebbe data la priorità
(logica e cronologica) alla prospettiva del singolo
soggetto epistemico che – in accordo con le teorie di
Piaget – costruisce progressivamente la propria
rappresentazione del mondo. Il disaccordo tra i risultati
delle inferenze induttive di soggetti epistemici diversi,
andrebbe imputato non all'erroneità dell'epistemologia
induttivista, ma alla diversità delle informazioni di
partenza a disposizione dei diversi soggetti. Ogni
soggetto epistemico, poi, dovrà dirimere le controversie
che sorgono (osservate dalla sua prospettiva di
indagine) facendo riferimento alla propria informazione
di base: in questo senso, possiamo dire con Wittgenstein
che “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del
mio mondo”. Soggetti epistemici diversi danno un
diverso significato alle parole (e arrivano a diverse
conclusioni – pur applicando sempre lo stesso principio

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d'inferenza induttiva), nella misura in cui partono
ciascuno da una diversa evidenza iniziale riguardo alla
realtà descritta. Un altro problema importante, che qui
mi limito ad enunciare, è quello rappresentato da tutti i
casi in cui il soggetto epistemico non è comunque in
grado di fare previsioni (induttive o meno). L'idea di
base che propongo è che quando il soggetto epistemico
si rappresenta qualcosa, deve rappresentarselo in
accordo con una logica di tipo induttivo (a condizioni
iniziali uguali, dovranno essere fatte corrispondere
conseguenze uguali). Se invece non si rappresenta
qualcosa (i. e. se si dà un'indeterminatezza della
conoscenza disponibile), non avremo comunque di
fronte una realtà che non obbedisce ad una logica di tipo
induttivo, ma semmai ci troveremo ad avere, per così
dire, una assenza di qualsiasi rappresentazione: una
realtà non rappresentata, non può smentire la particolare
forma di induttivismo che qui propongo. (Passando dal
piano epistemologico a quello ontologico, cfr. anche la
proposizione 2.05: “La totalità degli stati di cose
sussistenti determina anche quali stati di cose non
sussistono”).
5) Il quadro teorico in cui mi muoverò apparirà,
perlomeno all'inizio, molto affine all'idealismo. È
auspicabile però evitare le conclusioni più contro-
intuitive che un tale orientamento comporterebbe. La
mia strategia, per affrontare questo problema, sarà di
tentare, prima, una giustificazione di un'epistemologia
induttivista; in seguito, servendoci proprio delle
uniformità di natura ottenibili mediante inferenza
induttiva, sarà possibile introdurre una forma di

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realismo che possiamo qualificare come “naturalizzato”,
dato che verrà definito come l'insieme delle uniformità
che possiamo stabilire (induttivamente) riguardo al
rapporto tra “persona” (o in genere organismo vivente) e
“ambiente” conosciuto.
La scansione del ragionamento che così ho
presentato, presta subito il fianco ad un gran numero di
attacchi. Non posso avanzare la pretesa di dar conto di
tutte le obiezioni che pure facilmente si profilano. Spero
però che le considerazioni che svilupperò riescano a far
apparire interessante il percorso teorico che propongo.

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1

Introduzione. I limiti del pensiero

1.1. Per dare una maggiore chiarezza al discorso che


farò, vorrei indicare subito in modo sintetico le linee
generali della mia interpretazione del Tractatus.
Wittgenstein stesso nella Prefazione1 scrive:

Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle


parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui
non si può parlare, si deve tacere.
Il libro vuole dunque tracciare al pensiero un limite, o
piuttosto – non al pensiero, ma all’espressione dei
pensieri: Ché, per tracciare al pensiero un limite,
dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite
(dovremmo dunque poter pensare quel che pensare non si
può).
Il limite potrà dunque esser tracciato solo nel linguaggio,
e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso.
(Tractatus, 1974, p. 3)

La mia ipotesi è che questo passo non esprima solo le


conclusioni dell’autore, né solo il convincimento (più o

1
Le opere di Wittgenstein e Frege saranno indicate direttamente
con il titolo, nel caso abbreviato in forma facilmente
riconoscibile. I Quaderni sono nell’edizione inclusa in
Tractatus (1974).

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meno pregiudiziale) che lo ispira. Sostengo invece che
esso indica il meccanismo logico che fa da base a tutta
l’argomentazione che verrà svolta nell’opera. In
particolare, può essere visto come una versione
(semantica) dell’argomento che è alla base
dell’idealismo di Hume (1978, p. 80):

Fissiamo pure, per quant’è possibile, la nostra attenzione


fuori di noi; spingiamo la nostra immaginazione sin al
cielo o agli estremi limiti dell’universo: non avanzeremo
d’un passo di là da noi stessi, né potremmo concepire altra
specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel
cerchio ristretto. Questo è l’universo dell’immaginazione,
né abbiamo nessun’idea se non di ciò che si presenta lì
dentro.

Non possiamo rappresentarci una realtà che esista


indipendentemente dal (nostro) pensiero, perché il fatto
stesso che ce la rappresentiamo proverebbe che non lo è.
Nei termini di Wittgenstein, “per tracciare al pensiero
un limite, dovremmo poter pensare ambo i lati di questo
limite (dovremmo dunque poter pensare quel che
pensare non si può)”, quindi, letteralmente, il pensiero
non ha un “limite” (concepibile), per cui dobbiamo
intenderlo come qualcosa che ricopre di sé ogni realtà
alla quale possiamo fare riferimento. È noto in effetti
come l’idealismo (attraverso Schopenhauer) ha
esercitato una notevole influenza sul pensatore
austriaco.

1.2. Il punto è che per opporci ad un’argomentazione


come quella dell’idealismo, dovremmo aderire ad una

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qualche versione di realismo filosofico, ma per farlo
(quale che sia la formulazione specifica che scegliamo),
dovremmo costruire una proposizione del tipo: “Quando
ci rappresentiamo qualcosa, la realtà che ci
rappresentiamo esiste all’esterno della nostra
rappresentazione (è una realtà che deve essere
identificata – almeno sotto qualche aspetto – in modo
diverso da come identifichiamo la rappresentazione che
noi ne diamo)”.
Anche prescindendo dalla verità o meno di questa
affermazione (e a maggior ragione dalla possibilità di
dimostrarne la verità), il problema sorge già nel
momento stesso in cui tentiamo di formularla. Che cosa
potrebbe mai valere infatti come spiegazione del
significato delle espressioni “esterno” o “diverso dalla
nostra rappresentazione”? Si potrebbe rispondere: con la
teoria delle descrizioni di Russell si può parlare di una
realtà non-data, oppure attraverso il principio di
composizione riduciamo il significato dell’espressione
complessiva a quello delle parti componenti (“esterno”,
“rappresentazione” etc.), che di certo ci è ben noto, e
possiamo quindi capire il significato dell’espressione
complessiva, allo stesso modo in cui riusciamo a
concepire tutta una quantità di situazioni sicuramente
inesistenti (un cavallo alato etc.). Ma la difficoltà così
non è stata ancora scansata: qualunque cosa
utilizzassimo per determinare il significato che ci
interessa, il risultato sarebbe sempre logicamente in
contraddizione con quello che ci proponevamo: sarebbe
sempre qualcosa che pensiamo (che è dato
nell’esperienza), quindi qualcosa che è interno alle

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nostre rappresentazioni. Ci troveremmo sempre a
identificare il fatto rappresentato in modo esattamente
identico a quello con cui identifichiamo la
rappresentazione di esso. Se attribuiamo alla
rappresentazione delle proprietà che non attribuiamo al
fatto rappresentato, accadrebbe che quella che stiamo
chiamando “rappresentazione” non è in realtà la nostra
rappresentazione del fatto. Infatti per riuscire a
distinguere rappresentazione e fatto, dovremmo appunto
rappresentarci anche il fatto, ma vedendolo come
diverso dalla rappresentazione. Ma allora il modo in cui
ora veniamo ad identificare il fatto sarebbe la nostra
vera ed effettiva rappresentazione del fatto: “il nostro
campo visivo è senza limiti” (6.4311), perché per
pensare il contrario, dovremmo immaginare qualcosa
che è al di là di esso, ma così il campo visivo che
avremmo delimitato non sarebbe più il nostro campo
visivo.
Naturalmente, se sostenessimo di poter distinguere
rappresentazione e fatto, senza far comparire, nel nostro
giudizio, il fatto “in carne e ossa”, verrebbe a mancare
proprio la parte più importante del giudizio: l’elemento
che deve fare da explicans della nozione di “mondo
esterno”.
Fino a quando un tale elemento non figura nel
giudizio, abbiamo parlato solo verbalmente di un
“mondo esterno”, ma tutto ciò che ne abbiamo detto,
continuava ad essere riferito solo a realtà interne alla
rappresentazione. Tutta questa traccia di
argomentazione naturalmente è solo accennata. Tra le
molte possibili obiezioni, sarebbe opportuno analizzare

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ad es. gli strumenti teorici elaborati da Russell e da
Schlick in opposizione all’idealismo. Non posso dare a
questo scritto un taglio così vasto e impegnativo. È
compito in ogni caso dell’esposizione successiva tentare
di dar conto almeno di una parte, per quanto piccola, dei
problemi.

1.3. Lo sviluppo del tema del “limite” del pensiero, è


contenuto in tutta la “teoria della raffigurazione”
(picture-theory) del Tractatus, per la quale:

4.022 ... La proposizione mostra come stan le cose, se


essa è vera. ...
4.016 Per comprendere l’assenza della proposizione
pensiamo alla grafia geroglifica, che raffigura i fatti che
descrive.
E da essa divenne la grafia alfabetica, senza perdere
l’essenziale della raffigurazione.

Vedendo la proposizione, dobbiamo vedere la realtà. In


sintesi, la logica della picture-theory è la seguente:

Da un punto di vista strettamente teorico, la


giustificazione della tesi secondo cui le proposizioni sono
– devono essere – immagini dei fatti che descrivono è la
seguente:
La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti, io
conosco la situazione da essa rappresentata se
comprendo la proposizione. E la proposizione la
comprendo senza che mi si sia spiegato il senso di
essa [4.021].
Noi comprendiamo una proposizione senza bisogno che ci
venga spiegata, alla sola condizione di conoscere il

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significato delle parole che la costituiscono [4.02, 4.026].
Ma comprendere una proposizione è sapere che cosa dice,
cioè di quale fatto asserisce la sussistenza. La
proposizione, quindi, dev’essere in grado di presentarci di
per sé sola (auf eigene Faust [“di proprio pugno”,
Quaderni, 5.11.14]) il fatto che descrive. Questo è ciò che
fanno le immagini: una fotografia, per esempio, rende
accessibile la situazione di cui è immagine senza bisogno
di ulteriori informazioni. (Marconi, 2002, pp. 19-20)

Ora, molte letture vedono il Tractatus come dedicato


essenzialmente a questioni (i) di logica, (ii) di
semantica, (iii) come basato su di una filosofia
comunque realista.
Riguardo a (i), non si può negare l’importanza che vi
viene data a temi come la natura della logica e della
matematica. Su (ii), si vede subito che, se questo modo
di intendere il Tractatus è corretto, è estremamente
difficile considerare plausibili le pretese della picture-
theory: quali proposizioni sono un’immagine della
realtà al modo dei geroglifici? Forse questo può valere
per fotografie e plastici, ma il testo di un libro non può
assimilarsi ad una fotografia o un plastico.
Su (iii), vorrei sostenere che la picture-theory viene
ad avere una plausibilità del tutto maggiore se
ammettiamo che il vero problema che il suo autore ha in
mente non è, in prima istanza, di spiegare la relazione –
descritta dalla semantica – tra segni linguistici e mondo,
quanto piuttosto di dare conto del rapporto tra
rappresentazione e fatto rappresentato, in un modo che
tenga conto delle obiezioni dell’idealismo: appunto
intendendo che la proposizione (o, meno

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equivocamente, il significato mentale della
proposizione, i. e. la rappresentazione del fatto), è
un’“immagine della realtà”, cioè ci presenta ora, come
in una foto, la scena del fatto raffigurato come se fosse
(già) reale. “La proposizione costruisce un mondo con
l’aiuto d’una armatura logica” (4.023)2.
La mia tesi è che l’opposizione “interno/esterno” che
è alla base della controversia tra idealismo e realismo,
viene risolta in quella tra i significati dei termini
semplici (i nomi) che mi sono dati ora (e rispettano
perciò i vincoli dell’idealismo), e la loro composizione
in nuove proposizioni (come quando “un incidente
d’automobile è rappresentato con pupazzi etc.”, si dice
nei Quaderni, al 29.9.14), che permettono di descrivere
situazioni anche inesistenti – secondo le intuizioni del
realismo – sfruttando il carattere essenziale della
proposizione, di essere “articolata”, cioè composta.
In questo modo si spiega plausibilmente il requisito
2
Frongia (1983, pp. 41 ss.) dà risalto a questo passo, mettendo
alla base della sua lettura, un’interpretazione del Tractatus
orientata verso il costruzionismo, ma ha in mente soprattutto un
suo possibile accostamento alle più tarde Ricerche filosofiche,
rilevando una comune “concezione unitaria e sistematica del
linguaggio, che spiega la funzione regolativa e costitutiva che
esso svolge al livello formale” (ivi, p. 10) – accostamento che
però finisce per svalutare le parti più caratteristiche dell’opera
giovanile di Wittgenstein. Se idealismo e costruzionismo sono
filosofie tra loro collegate, si può dire che mi sto muovendo
anch’io in una direzione prossima a quella di Frongia, ma
seguendo un movimento inverso, che piuttosto tende a
ricondurre il costruzionismo delle Ricerche ad una forma di
idealismo che sarebbe presente nella prima opera di
Wittgenstein.

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che la proposizione ci faccia “vedere” il fatto che
descrive, come se questo fosse presente: è necessario
ridurre l’altro-da-ora al presente immediato, secondo
quanto impone l’idealismo. Una volta che questa
riduzione è stata effettuata (in maniera rigorosa),
naturalmente non ha neppure più senso parlare di un
“presente immediato”, dato che esso “contiene” di fatto
tutta quanta la realtà.
L’immagine di cui ci possiamo servire per illustrare
questa concezione, è – in una parola – quella di uno
scambio: abbiamo a disposizione, per definizione, solo
evidenze immediate. Quando pensiamo a qualcosa di
più remoto, secondo quanto implica l’idealismo,
possiamo solo ridurne la comprensione a ciò che
attualmente ci si dà. La picture-theory vede nella
proposizione lo strumento per ottenere ciò: grazie alla
sua caratteristica di essere articolata – composta cioè di
elementi ricollocabili in contesti diversi –, ci permette di
rappresentare anche fatti non immediatamente dati. Ma
l’operazione è, in un certo senso, solo illusoria, dato che
comunque, infine, la proposizione può solo mostrare
(per così dire, in se stessa, nella propria realtà materiale)
il suo senso (4.022): si tratta solo di un particolare
schema di analisi, che permette però di conservare le
intuizioni del realismo, ma rispettando le imposizioni
dell’idealismo. In questo senso, possiamo dire che
scambiamo l’insieme delle evidenze immediate, per la
totalità del reale, ma è uno “scambio” che risulta così
perfetto, da non poter essere nemmeno riconosciuto
come tale, dato che per riuscirvi dovremmo “poter

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pensare ambo i lati di questo limite” del nostro
pensiero3.
La correttezza di una tale visione non può essere
detta, ma solo mostrata: si mostra appunto nella
circostanza che non arriviamo a vedere oltre ciò che
arriviamo a vedere. “Sentire il mondo quale tutto
limitato è il mistico” (6.45), dove le implicazioni del
“mistico” saranno da analizzare meglio nel seguito.
È bene osservare comunque che da questa lettura non
segue che Wittgenstein avesse in mente i problemi posti
da un idealismo di tipo “metafisico”: i. e. la domanda se
ci sia o meno una specie di “doppione” metafisico e “in
sé” in corrispondenza dei fatti che ci rappresentiamo
(“soggettivamente”). Piuttosto il problema era costituito
da quelle che sono tutte le linee evolutive non
pienamente note dell'esperienza: quindi dai fatti nuovi e
sconosciuti che potremo osservare solo in futuro, o che
comunque non rientrano nel campo di ciò che abbiamo
osservato o mai osserveremo, ma in ogni caso ricadono
dentro una dimensione di tipo empirico/fenomenista. In
questo senso si può pensare che fosse centrale,
nell'interesse di Wittgenstein, il problema di come una
proposizione possa “comunicare un senso nuovo”
(4.03).
3
In quest'ordine di idee si muovono autori come Luhmann,
Maturana e Varela. Leggiamo ad es. in Varela (1993, p. 20):
“Nell'esperienza in sé ... non siamo in grado di distinguere tra
un'illusione, un'allucinazione e una percezione: sono
indistinguibili dal punto di vista empirico”. Non potrò
sviluppare qui un confronto più sistematico con questi autori,
ma nella Parte Seconda tratterò in maniera più ampia questo
genere di problemi facendo riferimento a Piaget.

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Utilizzerò lo stesso un termine filosoficamente
impegnativo come quello di “idealismo” sia perché una
tale scelta è resa abbastanza legittima da proposizioni
del Tractatus come la 5.63 (“Io sono il mio mondo”) e
la 5.62, o dalle note dei Quaderni sul “solipsismo”
come quelle appuntate il 15.10.1916, sia perché
contestualmente farò valere in maniera esplicita la
richiesta di intendere questo termine in un senso
specificamente “debole”. La conclusione di
Wittgenstein è la tesi dell'“equivalenza”
solipsismo/realismo (5.64), quindi si può supporre
agevolmente che in ogni caso le due nozioni dovessero
svolgere una funzione euristica complementare e di
reciproca integrazione. Rimanendo all'interno delle
categorie concettuali tradizionali, il proposito di
dimostrare una tale tesi può apparire paradossale: nelle
pagine successive cercherò invece di mostrare come
questo possa avvenire.

18
PARTE PRIMA

I paradossi del Tractatus

2.1. Quello che ho presentato nelle righe precedenti,


voleva essere solo un primo sguardo d’insieme
estremamente rapido ed approssimativo: in realtà il
carattere di tutto questo mio scritto è da intendersi come
solo provvisorio e preparatorio per ulteriori
elaborazioni, ma qui, per dare subito un quadro un po’
globale, mi è stato necessario procedere con ancora
maggiore schematicità. Anche il presente paragrafo può
essere visto ancora come una sorta di introduzione: un
buon modo per iniziare a trattare di un’opera con le
caratteristiche del Tractatus credo infatti che sia di
indicare quelli che si considerano essere i principali
problemi che si oppongono alla comprensione del testo.
Problemi che, a mio avviso, possono essere individuati
nei due seguenti:
1) Leggiamo:

6.54 Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi


comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per
esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar
via la scala dopo che v’è salito.)

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Egli deve superare queste proposizioni; allora vede
rettamente il mondo.
7 Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

Come primo commento per questi passi possiamo rifarci


al noto giudizio di Russell:

“What causes hesitation is the fact that, after all, Mr


Wittgenstein manages to say a good deal about cannot be
said”. Dopo aver suggerito l’impiego di una gerarchia di
linguaggi, prosegue: “The whole subject of ethics, for
example, is placed by Mr Wittgenstein in the mystical,
inexpressible region. Neverthless he is capable of
conveying his ethical opinions. His defence would be that
what he calls the mystical can be shown although it
cannot be said. It may be that this defence is adequate,
but, for my part, I confess that it leaves me with a certain
sense of intellectual discomfort”. (Russell, 1954, p. 157)

Per ora vorrei solo notare come Russell, pur ponendo il


problema, presti una significativa attenzione alle
soluzioni che si possono intravvedere, mostrando di non
considerarlo il segno di una contraddizione
irrimediabile.
2) La base dell’ontologia del Tractatus è indicata
dall’autore in questi termini:

1.2 Il mondo si divide in fatti.


1.1 Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.
2 Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.
2.02 L’oggetto è semplice.
2.021 Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò
non possono essere composti.

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2.0272 La configurazione degli oggetti forma lo stato di
cose.
2.024 La sostanza è ciò che sussiste indipendentemente
da ciò che accade.
2.0271 L’oggetto è il fisso, il sussistente; la
configurazione è il vario, l’incostante.

Il problema è facile a vedersi: se gli oggetti sono definiti


come “il fisso, il sussistente”, e sono “ciò che sussiste
indipendentemente da ciò che accade”, come può una
combinazione di oggetti immutabili dare luogo a stati di
cose per definizione mutevoli e contingenti? In che
senso gli oggetti costituiscono lo stato di cose? “È
piuttosto strano immaginare degli 'oggetti' eterni che
'ineriscono l’uno all’altro'” (Black, 1967, p. 72). Frongia
(1983, p. 30), all’interno di un discorso più ampio, nota
la difficoltà, “che è stata spesso formulata in sede
metafisica, e della quale Wittgenstein sembra
consapevole: come fa un oggetto ad assumere varie
configurazioni e nonostante ciò a rimanere identico a se
stesso (essere quello e non un altro)?... Infatti come
farebbe un dato oggetto a «occorrere in tutte le relazioni
possibili» (2.0122) se, appunto, non avesse la possibilità
di rimanere anche se stesso?”. Sempre all’interno di
un’argomentazione più complessa, Hintikka-Hintikka
(1990, p. 249) pongono lo stesso problema: “Se infatti
tali oggetti sono atemporali, presumibilmente anche i
complessi che essi formano lo sono”, dove però la
proposizione 2.0271 poco sopra riportata, sembra
implicare che per Wittgenstein non fosse affatto così.
Difficoltà interpretative di questo genere hanno
portato ad intendere il rapporto tra oggetti e stati di cose

21
in modi molto diversi. Per autori come Griffin (1964) e
Favrholdt (1964), l’oggetto costituisce qualcosa di
simile ad un minimum temporale, inteso o come punto
materiale (Griffin) o come sense-datum (Favrholdt). Per
altri gli oggetti sono solo una condizione della
possibilità degli stati di cose. Ad es. per Weinberg
(1975, p. 53) “«oggetto» è una realtà formale che per
esistere richiede un completamento” mediante
l’inserimento in un fatto. Da qui segue un netto primato
logico e ontologico del “fatto” sugli “oggetti”
costituenti: “un oggetto può venire definito come tutto
ciò che risulta un elemento distinguibile di un fatto”,
dove invece “i fatti sono considerati come fondamentali,
e perciò indefinibili” (ivi, p. 50). Così per Stenius
(1988, p. 99): “Senza dubbio io penso sia corretto dire
che i «fatti» precedono sia gli «oggetti» che le qualità o
le relazioni, e ... in questo senso gli oggetti e i predicati
sono «complementari», cioè hanno bisogno gli uni degli
altri come completamento”. Per McGuinness (1988, p.
106) “Nel Tractatus un oggetto che è il referente di un
nome, o di un segno semplice, può essere
semplicemente considerato il potenziale di valore di
verità di una certa espressione”. Per Hidé Ishiguro
(1969) quello di oggetto è un concetto “finto” (dummy),
dato che il riferimento di un nome viene ricavato per
astrazione dal senso delle proposizioni in cui figura.
Ancora: gli “oggetti, vale a dire le proprietà strutturali
interne del mondo, sono «identificabili» solo attraverso
le combinazioni contingenti in cui entrano gli oggetti,
cioè le proprietà materiali da essi prodotte” 4
4
Le proprietà interne sono definite da Wittgenstein come

22
(Bouveresse, 1982, p. 43).
Max Black e gli Hintikka invece rovesciano
completamente questa impostazione: il primato logico
ontologico spetta decisamente agli oggetti e non ai fatti.
Infatti “Nel Tractatus l’oggetto viene dato mostrandolo,
con un atto simile all’ostensione; ed in tal modo non è
solo la sua esistenza ad essere data, ma anche la sua
forma logica” (Hintikka-Hintikka, 1990, p. 264), e
“tutte le forme logiche [delle proposizioni atomiche e
delle proposizioni complesse] possono essere ridotte
alle forme logiche degli oggetti semplici” (ivi, p. 89).
“La logica del Tractatus è una logica di oggetti semplici
e di nomi, non di fatti e proposizioni complesse” (ivi, p.
152). “Wittgenstein non dice che tutto il fatto-enunciato
rappresenta un’entità complessa: di fatto, questo modo
di concepire l’enunciato [e così per la corrispondente
possibilità di concepire i fatti come entità complesse] è
estraneo al suo punto di vista” (Black, 1967, p. 50).
Un’ulteriore possibilità è di intendere gli oggetti
come unità elementari di significato: “La conoscenza di
un oggetto coincide con la conoscenza del significato
del suo nome, ossia è parte della competenza
semantica” (Frascolla, 2000, p. 109). Gli oggetti sono
“«oggetti del pensiero» e, quindi, significati fissi dei
nomi” (ivi, pp. 107-108). Per Marconi (1971, p. 33)
“semplice è l’oggetto che è conosciuto semplice”;
“l’identificazione delle unità di descrizione (gli oggetti)
dipende dalle caratteristiche formali della descrizione”

necessarie (proposizione 4.123: “Una proprietà è interna se è


impensabile che il suo oggetto non la possieda” ), le proprietà
materiali come contingenti (2.0231).

23
(ivi, p. 35), “Se le caratteristiche strutturali del sistema
siano del tutto arbitrarie, o siano invece in qualche
modo suggerite dalla realtà stessa, è un problema che
Wittgenstein non si pone (anche se sembra inclinare
verso la prima alternativa)” (ivi, p. 36).
In maniera più radicale, per Gargani (1966)
“Wittgenstein è ricorso al motivo del «semplice»,
dell’«indecomponibile» mosso da un’esigenza non già
metafisica di determinare regioni ontiche del reale, ma
da quella logico-linguistica della determinatezza del
senso” (ivi, p. 77). Oggetti e simboli semplici, fatti
atomici e proposizioni elementari “non sono
identificabili né con gli elementi di un dominio popolato
di entità metafisiche, né con i dati dell’esperienza
percettiva, né con le cose del mondo quotidiano, ma ...
sono regole metodologiche universalmente valide per
qualsiasi tipo di significazione linguistica, e ... come tali
non sono dati o entità che entrino in alcuna effettiva
proposizione” (ivi, pp. 93-94).
In ognuno di questi casi, non sembra facile conciliare i
caratteri attribuiti da Wittgenstein rispettivamente a
oggetti e a fatti o stati di cose5.

2.2. Riguardo al punto (1) del paragrafo precedente (il


punto (2) sarà sviluppato nei capitoli 6-11), siamo andati
5
La distinzione tra “stato di cose” (Sachverhalt) e “fatto”
(Tatsache) ha dato luogo ad un ampio dibattito, che qui trascuro
perché non direttamente connesso con l’analisi che svilupperò.
Alcune implicazioni importanti riguardano la categoria di
possibilità (v. ad es. Black, 1967, pp. 47 ss.), che qui abbiamo
richiamato in una posizione di primo piano, ma il senso della
mia argomentazione può prescindere da tali riferimenti.

24
avanti a leggere diverse decine di pagine, e, per quanto
fossero spesso ostiche alla comprensione, avevamo
comunque tutta l’impressione che fossero effettivamente
scritte in un vero e proprio linguaggio significante. Il
senso di paradosso che abbiamo, leggendo nella
conclusione che “colui che mi comprende, infine ...
riconosce insensate” le proposizioni che, così
faticosamente, abbiamo cercato di intendere, può
portarci a dire con Ramsey, che, se accettiamo questa
conclusione, “we must then take seriously that it
[philosophy] is nonsense, and not pretend, as
Wittgenstein does, that it is important nonsense!” (1990,
p. 1).
In effetti la forza del paradosso può apparire evidente
e conclusiva, ma prima ci sono delle riserve da chiarire.
Mi sembra infatti che si facciano valere delle pre-
comprensioni riguardo alla natura e il funzionamento
complessivo del linguaggio che sono sì plausibili, ma
non scontate.
J. Habermas (1986) critica l’idea che si possa
descrivere il linguaggio nei termini del solo “agire
strategico” dei partecipanti alla comunicazione, e
difende un modello che opera sull’assunzione di
significati che devono essere condivisi in maniera
oggettiva (o forse più esattamente: intersoggettiva). Nel
primo caso si descrive il linguaggio generalizzando
situazioni in cui si parla avendo di mira gli effetti
“perlocutivi” della comunicazione (esterni alla sfera
propria del significato in senso stretto, concordabile e
concordato dai parlanti): un soldato che sia riuscito a
fuggire da un campo di prigionia, può tenere nascosta la

25
propria nazionalità se parla perfettamente la lingua della
popolazione che lo accoglie. Posto che il bambino
impari a parlare effettuando un gran numero di
generalizzazioni, che sono di fatto logicamente
omogenee a quelle che riguardano i fenomeni naturali
(per interagire con i quali non è richiesta una
“condivisione” di significati con i fenomeni stessi), è
abbastanza facile immaginare le linee generali lungo le
quali costruire una teoria del linguaggio che lo spieghi
riconducendolo più o meno nella sua totalità a casi che
sarebbero del tutto simili a quello esemplificato da
Wittgenstein: è possibile ad es. scrivere anche tutto un
libro proponendosi come scopo semplicemente quello di
far capire ad un’altra persona (per così dire, per
allusione indiretta) quale strada dovrà fare per arrivare
(formalmente in maniera autonoma) alla nostra stessa
destinazione – e questo non implica che il senso delle
proposizioni debba essere condiviso, e al limite che
esista (o perlomeno non saranno le proposizioni in
quanto tali a trasmetterlo, e quindi queste potrebbero
essere a buon diritto chiamate “insensate”).
Habermas contesta l’adeguatezza di questo
approccio: gli usi perlocutivi potrebbero darsi solo come
casi sporadici (“parassitari” – ad es. nelle menzogne)
rispetto ai casi in cui i messaggi emessi veicolano un
significato oggettivo e condiviso. Ma questa questione
qui non ci interessa: è sufficiente per i nostri scopi
attuali, ammettere la possibilità di un uso perlocutivo
legittimo del linguaggio da parte dell’autore del
Tractatus anche nella sola occasione della sua
composizione.

26
2.3. Nella letteratura sul Tractatus, una tale
giustificazione è stata difesa da Cora Diamond:
“Wittgenstein does not ask that his propositions be
understood, but that he be” (Diamond, 1991b, p. 19).
Donatelli (1998) riprende questa strategia, per la quale
Wittgenstein farebbe un uso obliquo del linguaggio: “vi
sono insensatezze – come quelle filosofiche (ed etiche)
– che sono intenzionalmente insensate” (ivi, p. 106). “Il
Tractatus infatti è un esempio di uso di espressioni
linguistiche non in virtù delle loro caratteristiche interne
ma per la capacità che l’autore ha di fare di esse un uso
che coinvolge immaginativamente il lettore” (ivi, p. 98).
Si tratta di un punto di vista che attutisce di molto i
problemi posti dalla lettura della 6.54, ma ci sono delle
difficoltà. Per Donatelli quello che Wittgenstein si
propone è un uso “rivolto al cambiamento personale nel
nostro interlocutore, in noi stessi – un cambiamento che
non concerne credenze o dottrine, ma inclinazioni e
interessi” (ivi, p. 124). Il punto però – vorrei osservare
– è che anche “inclinazioni e interessi” presuppongono
il realizzarsi di certi fatti oggettivi, e se stiamo pensando
a questi fatti, li stiamo descrivendo. Letteralmente
quindi le proposizioni del Tractatus non sarebbero
“insensate”, o perlomeno dovrebbero avere anche un
senso inteso nella maniera più tradizionale. Se facciamo
leva su una connessione regolare (che consenta
previsioni sui significati da attribuire) tra significante e
significato, già questa sembra essere una condizione
molto forte che dovrebbe autorizzare a dire che
utilizziamo un linguaggio (sensato) anche quando il

27
significato sia costituito da stati interiori di tipo non
cognitivo (in questa direzione va Marconi, 2002, p. 51).
Dobbiamo tornare quindi alla posizione di Russell e
Ramsey: l’obiezione che i due pensatori avevano in
mente non era di carattere strettamente logico
(“Wittgenstein si sarebbe contraddetto logicamente a
enunciare le sue tesi”: posto che Wittgenstein capisse le
cose che scriveva, l’azione di scrivere – sensatamente –
il Tractatus, è avvenuta, quindi non può essere
logicamente contraddittoria), ma è, formalmente, di
carattere empirico, e si basa sulla considerazione che da
uno che non creda nella possibilità di farsi capire, ci si
aspetta che se ne stia zitto (anche se, formalmente, egli
potrebbe spiegare la scelta di emettere certi suoni senza
ricorrere al concetto di “comunicazione” – nel senso
difeso da Habermas: per quanto il caso sia fantasioso,
potrebbe ad es. definirli esercizi di dizione per una
lingua che non conosce). Si potrebbe dire: non è
logicamente impossibile che Wittgenstein consideri
davvero insensate le sue affermazioni, ma è perlomeno
del tutto inverosimile (dovrebbe essere visto come un
caso fortuito che abbia messo in quell’ordine quella
sequenza di segni grafici) – e comunque ci si può
chiedere se non si finisca così solo per lavorare con un
diverso concetto di “significato” (si può pensare al
“pragmaticismo” di Peirce o al concetto di “condizioni
di asseribilità”): se nello scrivere un testo abbiamo in
mente solo i suoi effetti perlocutivi, non diventano
questi il reale significato del testo? E se il lettore riesce
effettivamente a ricostruirli, non è anche un significato
condiviso? Se poi pensiamo che non riuscirà a

28
ricostruirli, dovremmo proprio rinunciare a scriverlo.
Altrimenti o (i) il nostro lettore può accusarci di
incoerenza e, al limite, di ipocrisia: se dico che non
verrò capito, ma parlo ugualmente, nei fatti si penserà
che ho detto una cosa che non penso, oppure (ii) si
dovrà immaginare che il mio parlare o scrivere sia
guidato da una volontà espressiva di tipo artistico (si
può pensare al vocalizzo di una cantante d’opera).
La tesi che cercherò di difendere quindi può
sembrare particolarmente onerosa: (i) credo che
Wittgenstein faccia in effetti un uso “obliquo” del
linguaggio, ma (ii) riesce comunque a comporre un
contenuto la cui articolazione concettuale è
estremamente complessa e, soprattutto, coerente (in un
senso in cui non si può dire che un vocalizzo sia
“coerente”). Porto (ii) ad es. versus Janik-Toulmin
(1984), che sminuiscono vistosamente il livello di
coerenza concettuale che il Tractatus rivelerebbe,
riducendo il significato di tutta l’opera alla sua capacità
(per così dire, “letteraria”) di dare espressione al modo
di sentire proprio della Vienna di quel momento storico.
Inoltre il genere di sapere cui si perviene al termine del
percorso ideato da Wittgenstein, credo che si possa
considerare, almeno in un certo senso (che verrà
discusso in seguito), come dotato di un contenuto di tipo
sostanziale.
Per ora comunque è bene osservare che Wittgenstein
deve escludere il ricorso all’induzione (che io ho
presupposto invece come necessario, parlando
dell’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini
– e che è implicito, per motivi ovvi, anche in Diamond,

29
Donatelli e Janik-Toulmin), e la stessa teoria del
significato che elabora, vede il rapporto tra proposizione
e fatto raffigurato come puramente “interno” (logico),
quindi non avrebbe lo spazio per una difesa del tipo che
io sto provando a delineare.
A quest’ultima considerazione si può ribattere che il
problema diventa così più generale, e riguarda la
plausibilità complessiva di una teoria che rifiuta
l’induzione senza preoccuparsi di trovare alcun valido
sostituto, e che questa difficoltà presumibilmente era
nota a Wittgenstein, che però (oltre ad aver dato delle
indicazioni – in realtà molto approssimative – su come
tener conto delle “uniformità di natura”) riteneva
certamente, come logico6, di non essere tenuto ad
occuparsi della questione, anche se, nella vita di tutti i
giorni, naturalmente si comportava come se certe
uniformità di natura fossero più o meno costanti.

2.4. Il punto essenziale che vorrei sollevare in questa


sezione è che il problema posto da Russell si ripropone
in termini abbastanza analoghi, proprio per la teoria del
significato che costituisce il cuore del (contenuto del)
Tractatus, e non per il dato concreto che Wittgenstein
abbia di fatto deciso, invece che no, di comunicare i
6
Malcolm (1988, pp. 99-100) riferisce un celebre episodio, in
cui Wittgensten gli dichiarò che al tempo del Tractatus riteneva
che “non spettava a lui, come logico, di stabilire se questa o
quest’altra cosa fosse stata un oggetto semplice”, indicando
esempi di una tale nozione, “trattandosi d’una questione
puramente empirica”. Lo stesso spirito si applica evidentemente
per la presente questione: “La logica è prima d’ogni esperienza”
(5.552).

30
propri pensieri.
È proprio la teoria del significato del Tractatus (pur
definita in termini rigorosamente logici e non empirici)
che reintroduce – ora su un piano più esplicitamente
ontologico, e meno linguistico-ermeneutico – il
problema posto da Russell.
Cercherò qui di descrivere questa sua nuova versione
solo in maniera molto rapida. Buona parte del Tractatus
è dedicata all’edificazione di un’ingegnosissima “teoria
della raffigurazione”, la quale – a meno di non prendere
proprio nel senso letterale e più distruttivo la
conclusione di 6.54 – viene accettata (non costruita
come ipotesi da ridurre ad absurdum). Il motivo
ispiratore della “picture theory” è di spiegare come sia
possibile quanto descritto da:

4 Una proposizione deve comunicare con espressioni


vecchie un senso nuovo...

Eppure la conclusione di questa gigantesca costruzione


è così indicata:

5.62 ... Ciò che il solipsismo intende è in tutto corretto;


solo, non si può dire, ma mostra sé.
Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti
del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo)
significano i limiti del mio mondo.

Perché costruire (e conservare) una teoria della


raffigurazione che – sembra – non mi permetterà di
raffigurarmi nulla che non mi sia già noto7? I contenuti
7
Si può pensare a vari modi di intendere il “solipsismo”: quello

31
di significato che riesco ad elaborare senza picture
theory sarebbero del tutti uguali a quelli che ottengo
servendomi di essa. Se una contraddizione di questo
genere pervade tutto l’impianto del Tractatus, anche chi
vi fosse giunto “per suo proprio conto”, non potrebbe
comunque annettervi alcun contenuto di novità che non
gli fosse stato presente già prima dell’elaborazione della
teoria stessa.

2.5. Black (1967, pp. 364-372) cerca di sciogliere la


contraddizione della 6.54 sulla base di due diverse
considerazioni: (i) Wittgenstein distingue tra
“insensato” (cfr. l’esempio offerto alla 5.4733, “Socrate
è identico”, e la 4.003, “Il più delle proposizioni e
questioni che sono state scritte su cose filosofiche è non
falso, ma insensato...”) e “privo di senso”, ad es. le
tautologie e le equazioni della matematica: “privo di
senso” nel Tractatus ha un significato tecnico, e “non è
sempre usato come peggiorativo ... Certamente
Wittgenstein non intendeva gettare il discredito su
discipline che, come la logica e la matematica, egli
ammirava e rispettava”; “Asserzioni di questo tipo,
certo, ‘mostrano’, ma non dicono; eppure, quello
ch’esse mostrano può essere mostrato a chiunque
comprenda il loro uso. (Annunciare uno ‘scacco matto’
non è una mossa, ma non c’è in questa indicazione,
proprio di Wittgenstein è estremamente sottile e dovrà essere
discusso – per il punto specifico che ci interessa qui mi basta
però richiamare quanto scrive nei Quaderni al 2.9.16 “Che
m’interessa la storia? Il mio mondo è il primo ed unico!... Ciò
che altri al mondo m’abbia detto sul mondo è parte minima ed
infima della mia esperienza del mondo”.

32
nulla di misterioso o di assurdo, anche se essa pone fine
al gioco. Così, anche le tautologie possono essere
‘annunciate’)” (ivi, p. 366).
(ii) Questa difesa vale però solo per una parte delle
asserzioni del Tractatus: “La sintassi logica8 non può
comprendere asserzioni del tipo di ‘Il mondo è tutto ciò
che accade’, o ‘Il mondo è la totalità dei fatti, non delle
cose’. Infatti, espressioni come ‘il mondo’, ‘un fatto’,
‘un nome’, e molte altre, sono usate da Wittgenstein in
accezioni larghe o addirittura inventate. È perciò
impossibile accertare la correttezza delle asserzioni a
priori in cui esse figurano, ricorrendo ad una precedente
occasione in cui siano state usate” (ivi, pp. 367-8). Si
tratta quindi “di vedere come una data terminologia
possa avere un uso razionale, anche se il verdetto
definitivo vuole che di essa non si può fare null’altro
che scartarla” (ivi, p. 368). Si paragona questo a quei
casi di scoperte matematiche che hanno un carattere
“negativo”, ad es. la dimostrazione dell’“impossibilità
di trisecare un angolo” (ivi, p. 370) – pur essendo,
naturalmente, del tutto interessanti ed utili.
Se non rimaniamo fermi al testo della 6.54, e
guardiamo alla contraddizione lì espressa come una
semplice conseguenza della contraddizione che
pervaderebbe – almeno a quanto ci appare per ora –
tutta la struttura della picture-theory, mi sembra che
entrambe le strategie di soluzione avanzate da Black,
non siano sufficienti a trattare la questione: la prima, per
gli stessi motivi che porta Black a circoscriverne
8
La “sintassi logica” può essere vista come l’insieme di regole
che descrivono le possibili combinazioni dei segni.

33
l’applicabilità; la seconda, perché la picture-theory ha
come proprio oggetto tutto il linguaggio: si può
dimostrare ad es. l’impossibilità di trisecare l’angolo
perché, a monte, abbiamo accettato la possibilità di
dimostrare (in “positivo”) la validità di certi teoremi,
che anche al termine dell’indagine saranno conservati.
Se la reductio ad absurdum riguarda tutto l’insieme
delle pre-condizioni del linguaggio nella sua totalità,
ricompare la contraddizione, sia già nel testo della 6.54,
sia a fortiori nella formulazione più radicale –
“ontologica” – che ho cercato di dare al problema.

34
3

Segni, mondo, e raffigurazione: la picture-theory

3.1. Le considerazioni già fatte sul “limite del


pensiero”, possono darci una chiave di lettura generale
per intendere la logica che presiede alla costruzione
della picture theory. Credo che il problema di fondo
che ha dominato Wittgenstein sia espresso nei Quaderni
al 20.11.14:

La realtà che corrisponde al senso della proposizione certo


non può essere altro che le parti costitutive di essa, poiché
tutto l’altro non lo conosciamo.
Se la realtà consiste in qualcos’altro ancora, in ogni caso
questo non può essere né designato né espresso: infatti nel
primo caso ciò sarebbe un’ulteriore parte costitutiva; nel
secondo, l’espressione sarebbe una proposizione per la
quale si riproporrebbe lo stesso problema che per quella
originale.9

Il passo è assai difficile, e non è possibile pronunciarsi


9
Die Realität, die dem Sinne des Satzes entspricht, kann
doch nichts Anderes sein, als seine Bestandteile, da wir
doch alles Andere nicht wissen.
Wenn die Realität in noch etwas Anderem besteht, so kann
dies jedenfalls weder bezeichnet noch ausgedrückt werden,
denn im ersten Fall wäre es noch ein Bestandteil, im
zweiten wär der Ausdruck ein Satz für den wieder dasselbe
Problem bestünde, wie für den ursprünglichen. (Tagebücher,
20.11.14)

35
con sicurezza sulla sua interpretazione, ma scelgo di
partire da qui perché mi sembra che riesca a fornire un
quadro globale sintetico molto efficace. Ciò che
abbiamo sono “le parti costitutive” della proposizione:
si deve spiegare il rapporto tra esse e la realtà descritta.
Credo che si possa intendere che le due possibilità
(“designare” ed “esprimere”) che Wittgenstein
considera siano rispettivamente (i) l’impiego di un
ulteriore nome, (ii) l’impiego di un’ulteriore
proposizione. La distinzione designare/esprimere
(bezeichnen/ausdrücken) preparerebbe cioè quella che
sarà fondamentale nel Tractatus tra “significare”
(bedeuten, la relazione che lega nome e oggetto, v.
3.203) da un lato, e la coppia “descrivere” (beschreiben,
tra proposizione e stato di cose, v. 3.144 10) ed
“esprimere” (tra “proposizione” e “pensiero”: v. 3.2)
dall'altro. Wittgenstein infatti caratterizza i nomi come
espressioni semplici che “significano” gli “oggetti”, e il
cui significato (Bedeutung) ci deve essere già noto al
momento in cui intendiamo una proposizione. Le
proposizioni invece sono combinazioni nuove di nomi
già noti11.
10
La 3.13 indicherà che “Nella proposizione non è dunque ancora
contenuto il suo senso, ma la possibilità d’esprimerlo”.
Esamineremo meglio in seguito il punto. Al 24.10.14 nei
Quaderni Wittgenstein scrive: “la proposizione esprime ciò che
io non so” (corsivo dell'autore), confermando che qui la
contrapposizione “espressione/designazione” rimanda a quella
“proposizione/nome”. V. anche le note del 18 e del 22.6.15 sul
significato da dare a “designare” in relazione ad “oggetti”
11
In linea di principio si può supporre che la terminologia riveli
un’influenza di Frege, per il quale (Senso e denotazione, 1973,
pp. 14 ss.), come è noto, un’espressione designa

36
3.203 Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo
significato. ...
4.026 I significati dei segni semplici (parole) devono
esserci spiegati affinché li comprendiamo.
Con le proposizioni, tuttavia, ci intendiamo.
3.263 I significati di segni primitivi possono essere
spiegati mediante illustrazioni. Illustrazioni sono
proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse
dunque possono essere comprese solo se sono già noti i
significati di questi segni.

Invece

4.027 È nell’essenza della proposizione poterci


comunicare un nuovo senso.
4.03 Una proposizione deve comunicare con espressioni
vecchie un senso nuovo. ...
4.024 ... La si comprende se se ne comprendono le parti
costitutive.
(bezeichnet/bedeutet) la Bedeutung (termine tradotto con
“significato” in Frege, 1965 e 2001) ed esprime (drückt) un
senso: se l’espressione è una proposizione, allora esprime un
“pensiero” (dotato sempre di un “senso”) e designa un valore di
verità, ma anche se l’espressione consiste in un nome, abbiamo
comunque che viene “espresso” (ausdrücken) un senso. In
realtà al 20.11.14 Wittgenstein aveva già segnato il proprio
distacco da Frege (Note sulla logica, p. 201, in Tractatus,
1974), quindi è molto poco probabile che agisca in modo
decisivo una sua influenza, né il passo sembra suggerirlo: si
parla come se un “esprimere” debba per definizione metter capo
ad una proposizione. Sul significato di “Bedeutung” v. Nota del
traduttore di E. Picardi in Frege, 2001, pp. XXIX-XXXVI: qui
utilizzo la traduzione meno letterale (“denotazione”) per
ottenere una maggiore chiarezza e semplicità nell’esposizione.

37
... La proposizione esprime ciò che io non so [dal
contesto: ciò che la rende vera o falsa]; ma ciò, che io
devo sapere per poterla enunciare, lo mostro in essa. ...
(Quaderni, 24.10.14)

Il principio che Wittgenstein affermava nei Quaderni al


20.11.14 può quindi essere così riformulato. Accade che
noi “comprendiamo il senso del segno proposizionale
senza che ci sia stato spiegato quel senso” (4.02): basta
conoscere il significato delle parti costitutive (4.024,
4.025). Ma il segno proposizionale (“munito di senso”:
v. la proposizione 4) descrive per sua natura una
situazione che ancora non conosciamo (non sappiamo
infatti quale sia il valore di verità della proposizione che
lo descrive: è essenziale che “... La si può comprendere
senza saper se è vera...” – 4.024) – infatti

4 Il pensiero è la proposizione munita di senso.


3.05 Potremmo sapere a priori che un pensiero è vero
solo se dal pensiero stesso (senza termine di confronto)
se ne potesse conoscere la verità.

Ma questo è impossibile:

3.001 «Uno stato di cose è pensabile» vuol dire: Noi ce


ne possiamo fare un’immagine.
2.225 Un’immagine vera a priori non v’è.

Vale a dire: una immagine vera a priori non sarebbe


un’immagine (2.225), quindi il pensiero, per essere
immagine di qualcosa, deve dirci qualcosa che potrebbe

38
essere falso, cioè qualcosa che non conosciamo
(viceversa un nome, una volta che sia stata stabilita la
sua connessione con un “oggetto”, diventa espressione
di un sapere a priori, relativo alla “sostanza del mondo”
– anche se si tratta di un “sapere” che non può essere
falso).
Come è possibile che riusciamo a comprendere il
senso di una proposizione, se non abbiamo visto
effettivamente la situazione che alla proposizione
corrisponde? Se ipotizziamo di poter andare oltre ciò
che – per così dire – il “corpo materiale” della
proposizione mostra (in se stesso), dobbiamo servirci o
(i) di una designazione – ma allora dovremmo
introdurre dei nuovi nomi12, che possiamo capire solo se
ci è già noto il loro significato, quindi questa sarebbe
“un’ulteriore parte costitutiva della proposizione”,
oppure (ii) dovremmo “esprimerlo” mediante una nuova
“proposizione per la quale si riproporrebbe lo stesso
problema che per quella originale”.

Il fatto che la connessione tra i pensieri ed il mondo non


può essere rappresentata (in quanto tale rappresentazione
non dice affatto nulla) deve essere la risposta ai miei
problemi. (Manoscritti, 108, 28.06.1930, p. 196, cit. in
HINTIKKA-HINTIKKA, 1990, p. 269)
Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di
descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione (che

12
L’uso terminologico qui è ancora esitante: a volte
“designazione” è utilizzato anche in riferimento a proposizioni.
Ma anche se si avessero in mente “proposizioni”, la sostanza
dell’argomentazione non cambierebbe. D’altra parte ancora nel
Tractatus un complesso può essere “designato” (3.24).

39
è la sua traduzione) senza appunto ripetere la
proposizione.
(Abbiamo qui a che fare con la soluzione kantiana del
problema della filosofia). (Pensieri diversi, p. 30, appunti
del 1931)
... La possibilità della relazione di rappresentazione non
dev’essere data dalla proposizione stessa?
La proposizione stessa separa ciò che è congruente con
essa da ciò che non è congruente. ...
Ma come ci è data la congruenza o la non congruenza o
consimili?
Come può essermi comunicato come la proposizione
rappresenti? O ciò non mi può esser affatto detto? E, se sì,
lo posso io «sapere»? Se ciò mi dovesse esser detto,
questo dovrebbe avvenire mediante una proposizione; ma
una proposizione potrebbe solo mostrarlo... (Quaderni,
3.11.14)13

Possiamo concepire il nuovo, solo riducendolo al vecchio (il


già noto – che ci si “mostra”: la categoria del “noto” coincide
con la categoria di ciò che, ora, “vediamo”).

Devi dire qualcosa di nuovo, che però sia tutto vecchio.


Devi comunque dire soltanto qualcosa di vecchio – che
però sia nuovo! ... Devi senz’altro portarti dietro qualcosa
di vecchio. Ma per una costruzione. (Pensieri diversi, p.
13
Vorrei citare anche, tra diversi possibili, il seguente passo dai
Manoscritti (108, 16.7.1930, cit. in ROSSO, 1988, p. 56,
pubblicato nel 2000 nel Wittgenstein’s Nachlass):
(So che devo ingurgitare veleno logico per poterlo vincere.
Così, al presente, continuo in fondo a dirmi che il fatto
deve pur essere già presente nel comando, nella frase,
anche se so che non lo è; ma è questa apparenza che va
aggredita).

40
79, appunti del 1931)

3.2. In effetti è questo il nocciolo della picture-theory:

2.12 L’immagine è un modello della realtà. (Corsivo mio)


2.14 L’immagine consiste nell’essere i suoi elementi in
una determinata relazione l’uno all’altro.
2.15 Che gli elementi dell’immagine siano in una
determinata relazione l’uno all’altro mostra che le cose
sono in questa relazione l’una all’altra. ...
2.1511 L’immagine è così legata alla realtà; giunge ad
essa.
4.031 Nella proposizione una situazione è come composta
sperimentalmente. ...
4.0311 Un nome sta per una cosa, un altro per un’altra
cosa e sono connessi tra loro: così il tutto presenta –
come un quadro plastico – lo stato di cose.

Nei Quaderni al 29.9.14 Wittgenstein annotava la


famosa immagine: “...Come quando al tribunale di
Parigi un incidente d’automobile è rappresentato con
pupazzi etc. ...”.

3.1431 Chiarissima diviene l’essenza del segno


proposizionale se lo concepiamo composto, invece che di
grafemi, d’oggetti spaziali (come tavoli, sedie, libri).
La posizione spaziale reciproca di queste cose esprime
allora il senso della proposizione.

Dobbiamo considerare però che

“... Il nome non è un’immagine del denominato.

41
La proposizione enuncia qualcosa solo nella misura in
cui è un’immagine!...” e “La proposizione è un’immagine
d’uno stato di cose solo nella misura in cui è articolata
logicamente!” (Quaderni, 3.10.14; v. anche 4.03 e 4.032).

Questo dovrebbe significare che, nel plastico, i vari


singoli pezzi (le ruote, il parabrezza etc.) non hanno da
essere necessariamente immagini in senso iconico degli
oggetti reali che si connettono a costituire l’incidente
vero e proprio. Qui l’analogia non è del tutto calzante: i
periti del tribunale sanno quale immagine reale
corrisponde ai vari pezzi del plastico, perché hanno
visto anche delle automobili reali: per loro i nomi
effettivamente impiegati in realtà non sono i pezzi del
plastico, ma il significato mentale (riferito alle
automobili reali) associato ad ognuno di essi 14. Ma
questo per Wittgenstein non è importante, purché
abbiano tutti la stessa articolazione (molteplicità logica)
per ognuno dei vari livelli che vengono connessi:

4.014 Il disco fonografico, il pensiero musicale, la


notazione musicale, le onde sonore, tutti stan l’uno
all’altro in quella interna relazione di raffigurazione che
sussiste tra linguaggio e mondo.
A essi tutti è comune la struttura logica.
(Come, nella fiaba, i due adolescenti, i loro due cavalli e i
loro gigli. In un certo senso sono tutt’uno.)

14
Si noti, per ora solo in maniera incidentale, che i significati
mentali hanno, in effetti, un carattere iconico, ma nel senso che
siamo obbligati a immaginare l’aspetto delle “cose in sé”
secondo il modo che ci viene offerto dalle nostre immagini
mentali.

42
Questa sola condizione, il possesso di una identica
molteplicità logica, è cioè sufficiente a spiegare il
rapporto tra elementi del plastico, significati mentali e
oggetti reali. Almeno in misura approssimativa, il
plastico e la composizione delle immagini mentali
associate ai pezzi del plastico hanno la stessa
molteplicità logica (nella misura in cui questo non si
verifica, significa solo che l’immagine è imperfetta). Ma
ciò che davvero è interessante è il rapporto tra
significati mentali e oggetti che compongono la
situazione reale. Infatti (i) i nomi non sono immagini in
senso iconico, ma allora come può la combinazione dei
nomi “raffigurare” la situazione? Però contestualmente
(ii) ci viene detto:

4.016 Per comprendere l’essenza della proposizione


pensiamo alla grafia geroglifica, che raffigura i fatti che
descrive.
E da essa divenne la grafia alfabetica, senza perdere
l’essenziale della raffigurazione.
4.011 A prima vista la proposizione – quale, ad esempio,
è stampata sulla carta – non sembra sia un’immagine della
realtà della quale tratta. Ma neppure la notazione
musicale, a prima vista, sembra essere un’immagine della
musica, né la nuova grafia fonetica (l’alfabeto) sembra
l’immagine dei fonemi del nostro linguaggio.
Eppure questi linguaggi segnici si dimostrano immagini,
anche nel senso consueto di questo termine, di ciò che
rappresentano.

3.3. Come si può dire che dei segni d’inchiostro

43
raffigurino un fatto – ad es. un incidente stradale? Il
testo è tanto perentorio che la maggior parte degli
interpreti si sono sforzati di trovare nei segni stessi le
tracce di una somiglianza (di qualche tipo) con il
raffigurato. La difficoltà di soddisfare questo compito è
evidente: ad es., anche a considerare solo una
somiglianza di disposizione, “Le relazioni possibili fra
oggetti sono molte, ora nella disposizione grafica dei
nomi non abbiamo che una relazione di successione, che
potrà mostrare la relazione di successione fra gli oggetti
denotati dai nomi. Allora le altre relazioni come
potranno essere mostrate?” (RIVERSO, 1970, p. 114).
Riverso stesso ha quindi adottato una strategia
differente, che però piega l’impianto del Tractatus in
una direzione fortemente psicologistica. “I segni non
segnano attraverso la somiglianza dei loro aspetti, bensì
attraverso la regola mediante cui si può passare dalla
proiezione al proiettato” (RIVERSO, 1966, cit. in
BELOHRADSKY, 1971, p. 136). La proposizione 2.1 (“Noi
ci facciamo immagini dei fatti”) è interpretata come
un’“embrionale use theory” (Riverso, 1970, p. 135) dato
che l’immagine è “fatta” da noi mediante la nostra
stessa attività: “In un mondo che non fosse vissuto da
una coscienza, ogni fatto esprimerebbe soltanto se
stesso” (ivi, p. 132)15. “Se in una galleria vedo il ritratto
di un uomo, che non ha la fisionomia di Tizio, posso
dire che è falso, se non è proposto come ritratto di
Tizio?”. È necessario quindi che intervenga
15
Così per Kenny (1988, p. 121) “il significato viene conferito
dalla pura volontà, la pura volontà del sé metafisico solipsistico
ed extra-mondano”.

44
l’intenzionalità: “un segno, che entra in diversi simboli,
muta di valore semantico, essenzialmente perché è
pervaso da una intenzione diversa; il mero trovarsi in
una combinazione diversa, per sé non lo altera per
niente” (ivi, p. 147). Si tratta di un’idea che
permetterebbe un accostamento interessante alle
successive Ricerche filosofiche, ma mi sembra che
perda troppo delle intenzioni originarie di Wittgenstein,
come le abbiamo viste espresse nei passi già citati, ad
es. sulla grafia geroglifica. Wittgenstein insiste sul fatto
che il rapporto proposizione-fatto deve essere (almeno
in parte) “interno”, logico:

4.03 ... La proposizione ci comunica una situazione;


dunque deve inerirle essenzialmente.
5.1362 ... La connessione di conoscere e conosciuto è
quella della necessità logica. ...

... Il segno e la interna relazione al designato determinano


l’immagine primitiva di questo... (Quaderni, 8.5.15)
Par dunque che necessaria sia non l’identità logica di
segno e designato, ma solo una relazione interna, logica,
tra segno e designato. (Il sussistere d’una tale relazione
include, in un certo senso, il sussistere d’una specie
d’identità fondamentale – interna –.) ... (Quaderni,
26.10.14).

Frascolla (2000) mostra efficacemente come questa


relazione possa essere concepita senza l’intermediario di
un pensiero in senso psicologico – che innescherebbe
immediatamente un regresso. Inoltre l’intenzionalità
postulata da Riverso potrebbe essere riferita o (i) solo al

45
“corpo o l’anima umana della quale tratta la psicologia”
(5.641), ma allora dovrebbe essere un fatto contingente,
da descriversi mediante proposizioni (4.11), che
andrebbero spiegate a loro volta proprio con una teoria
della raffigurazione, (ii) oppure all’io metafisico, ma

5.631 Il soggetto che pensa, immagina, non v’è. ...


5.632 Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un
limite del mondo. ...
5.633 ... nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia
visto da un occhio.

La tesi di Riverso presuppone un certo scetticismo circa


la capacità del Tractatus di rispondere, nei suoi propri
termini, ai problemi che pone. Un diverso orientamento
– molto diffuso in letteratura – mira invece a indebolire
il requisito di somiglianza iconica in uno più plausibile
di identità strutturale (isomorfismo) tra proposizione e
raffigurato, che può a sua volta essere ancora inteso in
diversi modi. Questo percorso è stato descritto da
Frascolla (2000). Come punto di partenza, possiamo
dire che “Un plastico ... svolge una funzione simbolica
esibendo come realizzata, nella configurazione dei
propri elementi, una possibilità di configurazione degli
oggetti ad essi coordinati” (ivi, pp. 54-55). “Il
significato del modello sta, per così dire, proprio dinanzi
ai nostri occhi” (BLACK, 1967, p. 84). “Purtroppo, non ci
vuole molta fantasia per accorgersi che esistono svariati
tipi di immagini che non funzionano affatto in accordo
con quel principio: anche un semplice disegno di una
bottiglia in piedi su di un tavolo, posto che il disegno
della bottiglia faccia le veci di una certa bottiglia ed il

46
disegno del tavolo quelle di un certo tavolo, lo viola
clamorosamente. Infatti, la relazione tra quei due
disegni non coincide affatto con la relazione di stare in
piedi l’una sull’altro” (FRASCOLLA, 2000, p. 60). Quindi,
“L’idea generale è che, sugli oggetti di cui gli elementi
dell’immagine fanno le veci, venga proiettata la
relazione che corrisponde, in forza di qualche
convenzione, alla relazione in cui si trovano quegli
elementi” (ivi, p. 62). Come risultato, data “la palese
inadeguatezza della teoria dell’immagine ricavabile
direttamente dal testo ... si è largamente affermata una
strategia interpretativa che ha cercato di venire fuori
dall’impasse nell’unico modo che sembra praticabile: se
le relazioni tra gli elementi dell’immagine possono non
coincidere, e, di fatto, spesso non coincidono con quelle
tra le entità ad essi coordinate, se c’è solo una
corrispondenza, non un’identità, di relazioni, allora
l’elemento comune tra immagine e situazione
raffigurata potrebbe risiedere nel fatto che si tratta di
due distinte esemplificazioni di uno stesso tipo astratto
di ordinamento” (ivi, p. 64). Come esempio si può
portare il seguente (ivi, p. 62): stipuliamo che un
quadrato stia per la persona A, un cerchio stia per la
persona B, la relazione “essere a destra di” stia per la
relazione “essere padre di”. Un quadrato disegnato a
destra di un cerchio rappresenterebbe allora che A è
padre di B (rappresenterebbe la situazione come sarebbe
se la descrizione fosse vera). Così Black (1967, p. 95)
ad es. scrive: “La relazione di identità di disposizione
deve cedere il posto alla più generale nozione di
omologia di disposizione”: “La sequenza spaziale delle

47
note su uno spartito non è identica alla sequenza
temporale dei suoni rappresentati”.

3.4. Si noti come tutto il discorso ora riferito sia inteso


come rivolto ad indebolire le condizioni poste dalla
teoria di Wittgenstein. Dato poi che comunque esistono
diversi contesti (ad es. ritratti e fotografie) in cui una
buona misura di iconicità è comunque garantita, viene
ammessa ovviamente una pluralità di casi diversi (con
maggiore o minore iconicità), di cui la picture-theory
riuscirebbe a rendere conto ugualmente bene. Se però,
in conclusione, siamo messi in grado, appunto, di
spiegare adeguatamente anche i casi in cui l’iconicità è
minima, non è più chiaro perché Wittgenstein abbia dato
tanta importanza ai casi in cui l’iconicità è massima. In
linea di principio, avremmo potuto trattare questa
seconda tipologia di casi – ben più facile – anche solo
con gli stessi strumenti predisposti per l’altro tipo di
casi, più difficili: se un insieme di regole semantiche è
sufficiente per spiegare il rapporto tra segni linguistici e
realtà, quando questo rapporto non è di tipo iconico, a
maggior ragione un insieme di regole di quel tipo
basterebbe a spiegare anche i casi in cui il rapporto è di
tipo iconico. Questi ultimi casi avrebbero dei caratteri
specifici, ma questi caratteri risulterebbero in qualche
modo di poco interesse per spiegare il rapporto tra segni
e realtà, dato che la spiegazione funzionava anche
quando tali caratteri specifici non comparivano.
Leggendo (ad es.) Frascolla (2000, p. 62), Black
(1967, pp. 93-95) o Kenny (1984, p. 85) si trova
espressa l’idea che potremmo utilizzare in generale una

48
serie di convenzioni, che leghino le parti dell’enunciato,
e. g., “aRb”, con gli oggetti a, R, b. Per Black “La
unione dei tre elementi nel fatto-enunciato [si intende: i
due elementi in relazione e la relazione medesima]
significa che gli elementi fisici corrispondenti sono
uniti. Visto che la concatenazione degli elementi nel
fatto-enunciato significa la concatenazione degli
elementi coordinati nello stato di cose raffigurato, non è
esagerato scorgere anche nell’enunciato una certa
‘iconicità’ residua” (Black, 1967, p. 94): un livello di
iconicità che, per di più, risulterebbe poi ulteriormente
ridotto attraverso la nozione di “omologia di
disposizione”.
La “funzione di concatenazione” di Black (1967, pp.
129, 256) è assimilabile in effetti alla “forma logica” –
la forma più generale comune a tutti gli stati di cose:

2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa


sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla
raffigurare – correttamente o falsamente – è la forma
logica, cioè la forma della realtà.
2.182 Ogni immagine è anche un’immagine logica.
(Invece, ad esempio, non ogni immagine è un’immagine
spaziale.)

Se però l’“iconicità” che aveva in mente, era di una


misura così minima, così come sostiene Black, ciò che
rimane inspiegata è l’insistenza di Wittgenstein nel
rintracciare una “somiglianza” di qualche genere tra
segno proposizionale e fatto raffigurato. Sembrerebbe
che Wittgenstein abbia semplicemente preso ispirazione
da raffigurazioni come quella del plastico che sono

49
anche iconiche, e, nel tentativo di generalizzarne
l’applicabilità, ne abbia ridotto sempre di più l’effettiva
efficacia euristica. Nella versione definitiva della sua
opera, l’eventualità di un “segno proposizionale” che
raffiguri anche iconicamente un fatto, rimarrebbe solo
un’osservazione che avrebbe un interesse fine a se
stesso, ma sganciata dal resto del sistema.

3.5. La direzione che vorrei qui provare a seguire è


quindi molto diversa. Mi sembra che il percorso logico
ora descritto richieda come premessa che la picture-
theory sia una teoria (solo) semantica – che abbia cioè
come proprio explicandum soltanto il problema del
rapporto segni-mondo. È da qui infatti che deriverebbe
l’impossibilità di utilizzare come già chiaro e quindi
disponibile il rapporto (convenzionale) di designazione
tra nomi e oggetti. In realtà Wittgenstein chiaramente
considera questo rapporto (che pure deve far parte di
una teoria semantica) come non problematico16 – e mira
a spiegare invece la possibilità di comprendere
proposizioni nuove (mai ascoltate prima, e, soprattutto,
non ancora verificate), non, ad es., una proposizione che
posso pronunciare ora (anche se per la prima volta) per
descrivere uno stato di cose che verifico
immediatamente (“Il libro è sul tavolo” 17). È chiaro che
16
Ricorderà in seguito come, al tempo del Tractatus, la natura
delle definizioni ostensive non gli fosse chiara, mostrando
chiaramente che non considerava il rapporto tra i nomi e gli
oggetti designati come il problema più importante (W AISMANN,
1975, p. 198). Vedi anche la lettera a Russell del 19.8.19,
menzionata qui alla nota 21.
17
Mi riferisco qui naturalmente ad una proposizione che designi –

50
qualsiasi teoria semantica deve presupporre anche
un’ontologia – perlomeno assumendola come ovvia e
intuitiva –, quindi questa mia critica andrà presa in
termini relativi: intendo dire solo che l’interesse di
Wittgenstein è più sull’ontologia che non sulla
semantica (la semantica dei segni linguistici è al
servizio dell’ontologia, e non viceversa), ma
Wittgenstein non poteva interessarsi all’una
prescindendo dall’altra.
Senza un tale presupposto, che d’ora in poi per
brevità mi permetterò di chiamare “interpretazione
semantica”18, (i) cade l’interpretazione della 2.171 che
invece è necessaria per difendere quel percorso teorico
descritto da Frascolla.

2.171 L’immagine può raffigurare ogni realtà della quale


ha la forma.
L’immagine spaziale tutto la spaziale; la cromatica, tutto il
cromatico; etc.

Avendo in mente l’immagine del plastico, Frascolla


(2000, p. 57) commenta così il passo: “Se le relazioni
che si vogliono presentare come sussistenti hanno
essenzialmente a che fare con la natura di oggetti
colorati, propria di queste entità [che si vogliono
rappresentare], allora gli elementi dell’immagine, per
per intenderci – un insieme di macchie di colore di una certa
forma, in quanto mi si danno, ora, nello spazio visivo.
18
Con un’espressione a rigore scorretta, dato che è certo che
Wittgenstein fosse interessato anche alla semantica, e che
quindi chiamerò anche “solo-semantica” o “linguistico-
semantica”.

51
poter rappresentare tali relazioni esibendole come
realizzate [corsivo mio: l’espressione è la stessa che
abbiamo visto prima usata proprio per spiegare
l’immagine del plastico], devono condividerne la natura,
per quel tanto che essa determina le pertinenti
possibilità astratte di connessione cromatica, e così via
per gli altri casi”19.
Se il nostro explicandum è il rapporto segni-mondo,
dobbiamo intendere la 2.171 come se richieda che
oggetti spaziali sono necessari per raffigurare altri
oggetti spaziali, oggetti cromatici per i cromatici, e così
via – è questa in effetti un’interpretazione assai diffusa.
Se invece ammettiamo che le relazioni nomi-oggetti
designati siano già state introdotte, possiamo pensare
che una immagine sia “cromatica” semplicemente se si
serve di nomi la cui sintassi logica prescrive che
possono essere combinati secondo la stessa forma di
raffigurazione degli oggetti (realmente) “cromatici” (il
“verde” può essere “visto”, non “ascoltato” – secondo
quanto la stessa grammatica logica della parola “verde”
19
L’ultimo corsivo – dell’autore – è da intendersi così:
“Intuitivamente, la struttura dell’immagine è il modo in cui
sono combinati i suoi elementi, non considerati ciascuno nella
propria individualità ma come oggetti di un certo specifico tipo
(ad esempio, spaziali in tre dimensioni). ... Così, se l’immagine
è il plastico in cui il modellino rosso precede quello blu sulla
striscia di cartone, la sua struttura può essere descritta dicendo
che un oggetto spaziale tridimensionale ne precede un altro su
di una superficie orientata, mentre la forma di raffigurazione è
costituita dalla possibilità di questa combinazione: ed è chiaro
che è questa stessa possibilità, in relazione alle automobili ed
alla strada reale, ad essere presentata dall’immagine” (ivi, p.
55).

52
riproduce fedelmente). Possiamo difendere questa
concezione sulla base di:

3.326 Per riconoscere il simbolo nel segno se ne deve


considerare l’uso munito di senso.

Dove “simbolo” e “nome” sono strettamente collegati:

3.3411 ... Il nome vero e proprio è ciò che hanno in


comune tutti i simboli che designano l’oggetto. ...

Inoltre

3.334 Le regole della sintassi logica devono


comprendersi da sé, sol che si sappia come ogni singolo
segno designa.

Quindi se ho i segni (le parole “verde”, “vedere” etc.) e


so come essi designano, ho già la loro sintassi logica
(tra l’altro, per 3.33, “la sintassi logica deve stabilirsi
senza parlare del significato d’un segno”, cioè non è
necessario conoscere la designazione – ma su questo
sarà essenziale tornare nel seguito). Quindi
un’immagine cromatica in senso letterale (una tavolozza
di colori) e un’immagine “cromatica” solo in senso
semiologico (una lista di nomi di colore, data come
presupposta la conoscenza delle designazioni), sono
reciprocamente intercambiabili (in una tale direzione si
muove Pears [1988]). A conferma di questa lettura,
leggiamo nelle Osservazioni filosofiche (§ 78): “Ma i
simboli contengono sì la forma del colore e dello spazio,
e se ad esempio una lettera designa una volta un colore,

53
un’altra un suono, in ognuno dei due casi è un simbolo
diverso; e lo rivela il fatto che per essa valgano regole
sintattiche diverse”.
Credo che in realtà la 2.171 possa essere interpretata
anche in un modo vicino a quello consueto –
considerando quello che essa presenta come un caso tra
quelli che la picture-theory consente, caratterizzato nella
fattispecie da una maggiore iconicità del segno
proposizionale (ad es. un plastico)20. Non sarebbe
necessario, in effetti, alcun ritocco all’impianto generale
della mia interpretazione. Preferisco però adottare il
commento ora esposto, a) perché nel quadro
complessivo mi sembra dia la spiegazione più semplice
e lineare, b) perché mi sembra che permetta di mostrare
lo spazio che si apre alla mia interpretazione
(concentrata sulla gnoseologia più che sulla semantica),
in relazione ad un passo che crea in effetti difficoltà
intuitive notevoli per la linea invece linguistico-
semantica, dato che accentua con forza la richiesta che
l’iconicità del segno proposizionale debba essere presa
alla lettera. Nella mia lettura, viceversa, una tale
difficoltà non si dà, perché l’immagine mentale è
iconicamente fedele rispetto alla “cosa in sé”.
(ii) Più in generale, un’obiezione come quella di
Riverso, riguardo alla “povertà ricombinatoria” dei
segni grafici su di un foglio, trova una risposta molto
naturale invece se si suppone che la somiglianza che
viene postulata debba sussistere tra la “proposizione
[già] munita di senso” (il “pensiero” – proposizione 4,
20
Vedi infra il modo in cui intendo che possa essere formulata
questa versione.

54
corsivo mio) e il mondo. Allora diventa chiaro – in
termini intuitivi – perché all’ordine di composizione dei
significati mentali debba corrispondere uno stesso
ordine di composizione degli oggetti nel mondo: se le
possibilità di ricombinazione delle posizioni sul foglio
dei segni grafici sono troppo poche, basta pensare che le
diverse combinazioni possibili nella realtà, saranno da
rappresentarsi inserendo un numero adeguato di nuovi
nomi nella proposizione (per es.: “essere sul” tra
“bottiglia” e “tavolo”). Le fattezze del designato (e la
sua sintassi logica) devono essere conservate non nel
segno del nome, ma nel suo significato – che
Wittgenstein considera in effetti essere stato già
appreso; e che, come vedremo meglio in seguito, si può
dire sia il vero segno proposizionale, che fa riferimento
a qualcosa di non dato: in questo modo si può dar conto
del fatto che la sintassi logica deve essere nota senza
presupporre il designato. L’identità di “forma logica” si
riduce al requisito che proposizione e fatto abbiano la
stessa “molteplicità logica” – lo stesso numero di parti
costitutive semplici (nomi e oggetti). Viceversa è
significativo che Riverso, considerando essenziale nel
Tractatus solo la costruzione di una semantica, riduca il
valore della picture-theory alla costituzione di modelli
“per mettere in evidenza le strutture, per capire il reale”
(RIVERSO, 1970, p. 136) – realtà che, però, potremmo
accostare benissimo anche indipendentemente, anche se
forse non con la stessa finezza.
Ugualmente interessante è il fatto che Hintikka-
Hintikka (1990, p. 142), difensori di un’interpretazione
rigorosamente “solo-semantica”, concludano che “le

55
«immagini» di cui parla Wittgenstein nel Tractatus non
sono in realtà molto raffigurative”, andando però contro
affermazioni molto incisive come la 4.016 sulla grafia
geroglifica.

3.6. Che Wittgenstein abbia qui seguito uno schema


euristico di derivazione psicologica, è documentato da
una celebre lettera a Russell: un Gedanke “consta di
costituenti psichici che hanno alla realtà la stessa sorta
di relazione che le parole. Quali siano questi costituenti,
io non so”21.
La sua determinazione a non lasciarsi distogliere
nelle sue ricerche da questioni “empiriche” di
psicologia, lo porta però ad essere neutrale (almeno
“ufficialmente”), nel Tractatus, sulla natura del
“pensiero” (in senso proprio psicologico: mi sembra che
Frascolla [2000, pp. 70 ss.] mostri bene la natura non
psicologica di quello che Wittgenstein chiama, in un
senso tecnico, “pensiero”, i. e. il “metodo di proiezione”
della proposizione – proposizione 3.11). Devo
giustificare quindi il riferimento che ho fatto ai
“significati mentali” dei segni.
Per Wittgenstein il rapporto di rappresentazione è
una relazione interna (logica) che lega direttamente il
fatto che fa da proposizione e il fatto che viene
21
Lettera del 19.8.19 (in Tractatus, 1974, alle pp. 252-4). Nella
stessa lettera, prima nel testo: “Quanto poi al genere di
relazione intercorrente tra i costituenti del pensiero ed i
costituenti del fatto raffigurato, esso è irrilevante. Scoprirlo
sarebbe una questione di psicologia” (qui è da intendersi
certamente la relazione di tipo empirico, non logico: il processo
con cui ad es. vediamo un colore).

56
raffigurato: in linea di principio possiamo quindi
escludere (o considerare comunque del tutto superflua –
dal punto di vista del sistema) l’esistenza di pensieri
come intermediari che devono tenere connessi gli uni
con gli altri. È necessario però intendersi su che cosa
debba essere contato come “pensiero”: il contenuto di
coscienza (nel senso più lato possibile) che riscontriamo
in maniera immediata (fenomenalisticamente), oppure
qualcosa di cui abbia senso dire che può essere studiato
da una scienza (empirica) come la psicologia, qualcosa
cioè che è legata ad un sostrato neurobiologico e si situa
in un divenire temporale? Per provare a rispondere
vorrei cominciare con il considerare la tesi espressa da
Emiliani (2004, p. 44): nella picture-theory “There is no
difference between proposition and thought. What is
essential to them is that a propositional sign (which may
consist in a configuration of signs on paper as well as in
configuration of psychological elements) is in a relation
of agreement-disagreement with reality”. Il punto è
discusso – criticamente – anche da Frascolla (2000, p.
75): “se il pensiero è un’immagine mentale della
situazione e, come tale, un fatto che può essere indagato
da una scienza empirica come la psicologia, per quale
ragione si dovrebbe supporre che un’immagine del
genere, i cui costituenti abbiano natura psichica, non
potrebbe, per principio, avere una propria specifica
forma di raffigurazione in comune con la situazione
rappresentata, così come ce l’hanno, invece, le
immagini con costituenti di natura fisica?”. Per
Frascolla però questa conclusione (i) contraddirebbe la
caratterizzazione del “pensiero” che Wittgenstein dà nel

57
Tractatus, (ii) contrasterebbe con le prese di posizione
in senso esplicitamente anti-psicologistico di
Wittgenstein.
La versione che Frascolla ha in mente è quella di
Kenny (1984, 1988), che può essere sintetizzata così:
“In the Tractatus [Wittgenstein] regarded the thought as
a ghostly intermediary between sentence and fact,
where, in the ghostly medium of the mind, the
projection lines were drawn between the proposition
and what it represented (3.11)” (KENNY, 1986, p. 74,
anche in KENNY, 1984, p. 79). Si vede in effetti come il
richiamo al “pensiero” si collochi su di uno sfondo
sostanzialmente realista, in quanto la mente è comunque
concepita come entità empirica e situata, nel mondo, tra
altri oggetti (il pensiero è solo “a ghostly
intermediary”), creando con questo una serie di
difficoltà.
Il mio tentativo si muove però in una direzione
diversa da quella di Kenny, ed è congegnato in modo da
tener conto delle obiezioni di Frascolla. La proposta di
analisi che avanzo è di provare a immaginare quali
implicazioni avrebbe un caso come quello in esame:
quando il segno proposizionale fosse costituito
dall’immagine “mentale”, esso sarebbe rigorosamente
indistinguibile dal fatto reale, in quanto lo riesco a
concepire: per distinguerli dovrei pensare un tratto che
li differenzi – e allora quella precedente non sarebbe più
la mia immagine mentale.

3.7. Anche se non esattamente in questi termini, è


proprio un ragionamento di questo tipo che è implicito

58
nell’equivalenza stabilita tra realismo e solipsismo
(5.64): l’idea di qualcosa che vada oltre “il limite del
pensiero” è un’idea in contraddizione con la propria
stessa esistenza, quindi se formulo il realismo, posso
dargli solo quel tanto di significato che già il solipsismo
da solo (rimanendo fermo all’evidenza immediatamente
data) esprime – o meglio “mostra”. Significato mentale
e designato finiscono di fatto per coincidere.
Wittgenstein scrive:

5.63 Io sono il mio mondo. (Il microcosmo.)


5.631 Il soggetto che pensa, immagina, non v’è.
Se io scrivessi un libro «Il mondo, come io lo trovai», vi si
dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra
sottostiano alla mia volontà, e quali no, etc., e questo è un
metodo d’isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che,
in un senso importante, soggetto non v’è: D’esso soltanto,
infatti, non si potrebbe parlare in questo libro. –

Si deve prendere alla lettera quanto detto dalla 5.63:


mentre le mie membra etc. sono fatti tra altri fatti
(indagabili dalle scienze empiriche), io sono l’insieme
dei fatti – la raffigurazione perfettamente uguale
all’insieme-mondo. La proposizione 5.632, “Il soggetto
non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo”,
sembra contraddire vistosamente la 5.63: in realtà sta
solo riaffermando lo stesso concetto immaginando di
usare l’espressione “soggetto” con il significato
sostanziale che normalmente le viene attribuito,
immaginando cioè un soggetto che abbia una sua
propria esistenza ontologicamente autonoma. Sul piano
lessicale, se il soggetto è il “limite del mondo”, è

59
abbastanza intuitivo vederlo come l’insieme di tutto il
mondo – un po’ come una scatola di oggetti è l’insieme
anche degli oggetti contenuti. Quindi non c’è una
contraddizione sostanziale (almeno in termini intuitivi e
per intendere le oscillazioni terminologiche) tra
l’intendere il soggetto come solo limite del mondo e,
insieme, come mondo tout court.
Il “soggetto che pensa” non v’è: è il “limite” del
mondo. Il “pensiero” è il “metodo di proiezione”, i. e. la
condizione per rappresentare qualsiasi fatto. Quindi il
“pensiero” (l’io) è la condizione di ogni fatto. Ora, la
relazione di rappresentazione è sempre interna (logica):
quindi, una volta che si diano i fatti, il “pensiero”
esegue per una necessità logica la rappresentazione di
tutti i fatti (=io sono il mio mondo).
Se quest’analisi è giusta, il “pensiero” è sì solo il
“metodo di proiezione” (ha cioè una caratterizzazione
puramente astratta), ma, per sua natura, trascina con sé
il riferimento a tutto il “mondo” (non è possibile
definire un limite senza individuare ciò che viene
delimitato: abbiamo visto che è per una necessità logica
che il pensiero esegue tutta la rappresentazione del
“mondo”. Come vedremo in seguito, il pensiero inteso
come “metodo di proiezione”, può essere visto come
l’immagine più astratta e generica della realtà).
Le obiezioni di Frascolla sono dovute alla critica
insistente che Wittgenstein muove allo psicologismo (ad
es. 4.1121). È importante quindi osservare in che modo
scompaia ogni traccia di psicologismo dalla mia
concezione. Lo schema euristico implicito può
prevedere in effetti, un’idea di questo genere: ho visto in

60
passato i designati di alcuni nomi, utilizzo quindi il
ricordo (definito in termini mentali) di essi per
comporre ora nuove proposizioni-pensieri. Rimanendo
fermi a questa versione, l’eventualità teorica considerata
da Frascolla potrebbe portare effettivamente a dei
paradossi. Ma in realtà, la stessa rappresentazione che
posso avere dei fatti passati è mediata dalla teoria della
raffigurazione. Il significato “mentale” da associarsi
come designato dei nomi che utilizzo, è quindi da
intendersi come qualcosa che è presente (per qualche
via) ora, e se penso a fatti anche “passati”, devo
identificarli attraverso (e ridurli a) i significati che
posseggo ora. Posto che il rapporto di raffigurazione tra
i significati “mentali” – che sono presenti ora – e i fatti
raffigurati, è spiegato in termini puramente logici, viene
esclusa la possibilità che ipotesi empiriche di tipo
psicologistico giochino un ruolo in tutta la teoria.

3.8. Su questa base si può spiegare perché si sia stati


portati così spesso a pensare che il problema centrale
del Tractatus sia stato la costruzione di una semantica.
Per Anscombe (1966, p. 140) ad es., “Sia lui
[Wittgenstein] che Frege, per evitare di fare della teoria
della conoscenza la teoria cardine della filosofia, non
fecero altro che ignorarla; non ne costruirono alcuna, e
concentrarono la loro attenzione sulla filosofia della
logica”. “[N]el Tractatus non vi è una epistemologia
e ... evidentemente Wittgenstein non pensava che
l’epistemologia avesse alcun rapporto con l’argomento
della sua ricerca” (ivi, p. 24). “Quella che viene
erroneamente detta «teoria raffigurativa del linguaggio»

61
non è altro che l’anticipazione da parte di Wittgenstein
della prima clausola di una definizione di verità di tipo
tarskiano” (HINTIKKA-HINTIKKA, 1990, p. 145). In realtà il
problema gnoseologico ha trovato una risposta netta
nella sua stessa dissoluzione, e questa può essere infine
confusa per una ragione per minimizzarne l’importanza.
Mi sembra però che per Wittgenstein fosse
fondamentale proprio la parte della sua teoria che mira a
mostrare la possibilità di questa dissoluzione, che fa poi
da premessa per la costruzione anche di una semantica.
Durante tutta la prima fase della sua attività,
Wittgenstein credette che linguaggio e pensiero fossero
in un rapporto di sostanziale coincidenza (v. infra).
Questa premessa può portare a pensare ad una riduzione
del pensiero nel linguaggio, dando così ragione
all’interpretazione semantica del Tractatus. In realtà
però si può pensare anche sia ad una riduzione
esattamente inversa, del linguaggio nel pensiero, sia ad
una soluzione più equidistante, che cerchi, più
plausibilmente, di fare salve le esigenze di entrambi i
piani di analisi.

3.9. Possiamo individuare a questo punto quale tipo di


identità iconica sia considerata essenziale nel Tractatus:

2.161 In immagine e raffigurato qualcosa dev’essere


identico, affinché quella possa essere un’immagine di
questo.
2.17 Ciò che l’immagine deve avere in comune con la
realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente
– nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria
dell’immagine.

62
2.181 Se la forma di raffigurazione è la forma logica,
l’immagine si chiama l’immagine logica.
2.19 L’immagine logica può raffigurare il mondo.
2.2 L’immagine ha in comune con il raffigurato la forma
logica della raffigurazione.
2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa
sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla
raffigurare – correttamente o falsamente – è la forma
logica, cioè la forma della realtà.

È la forma logica (come avevamo anticipato) che deve


essere comune a raffigurazione e raffigurato. Ma la
forma logica di raffigurazione è solo la possibilità più
astratta possibile di connessione: la “possibilità di
connessione in generale dei suoi elementi, in quanto
oggetti in generale”22 (FRASCOLLA, 2000, p. 70) – da cui
non segue la necessità di una somiglianza iconica in
senso proprio. La 2.18 appena citata, parlando della
forma logica, dice: “di qualunque forma” sia
l’immagine. La 2.17 invece reca: “nel proprio modo”,
parlando di come “l’immagine” (qualunque immagine –
non necessariamente “logica”) può raffigurare la realtà.
Si ammette cioè che oltre al caso dell’“immagine
logica” (iconicamente vuota, anche se può “raffigurare
il mondo”), si dia il caso diverso di un’immagine (ad
es. un plastico) che “nel proprio modo” riesca a

22
È essenziale ricordare che dovrà comunque avere la stessa
molteplicità logica: 4.04, “Nella proposizione dev’esser da
distinguere esattamente tanto, quanto è da distinguere nella
situazione che essa rappresenta”. È in questo modo che può
essere introdotto un numero adeguato di convenzioni che legano
nomi e oggetti.

63
raffigurare in modo iconicamente più fedele il fatto23.
La 2.171 che abbiamo prima esaminato (“l’immagine
spaziale può raffigurare lo spaziale, etc.”) viene subito
dopo la 2.17, e questo suggerisce in effetti che lì si
intenda: l’“immagine spaziale”, “nel proprio modo” più
specifico (mediante oggetti realmente spaziali), riesce a
raffigurare in modo iconicamente più fedele il fatto. Ma
la 2.18 ci fa capire che questo requisito non vale per
ottenere in genere una raffigurazione, ma solo per
ottenere una raffigurazione iconicamente fedele (in
questa direzione si muove Pears [1988]).
Verosimilmente è per questo che supra è sembrata
facilmente disponibile un’interpretazione della 2.171
23
Incidentalmente, vorrei richiamare in che modo Kenny (1984,
pp. 76-77) commenta le proposizioni 2.173, 2.174, distinguendo
“forma di raffigurazione” (Form der Abbildung) e “forma di
rappresentazione” (Form der Darstellung): si suggerisce che la
prima potrebbe essere ciò che accomuna immagine e fatto
raffigurato (ad es. il carattere tridimensionale, condiviso da un
plastico e dalla situazione da esso raffigurata), la seconda
invece sarebbe ciò che li differenzia (la diversa grandezza etc.).
Contemporaneamente si considera, in modo molto rapido,
l’eventualità che i due concetti siano utilizzati in realtà come
sinonimi (ivi, nota 1 a pag. 76). Senza scendere in dettagli, nella
mia lettura la difficoltà può essere risolta notando che le due
nozioni, pur essendo caratterizzate concettualmente in maniera
diversa (nel modo indicato da Kenny), sono però del tutto
sovrapponibili e quindi intercambiabili, perché ciò che
abbiamo è solo la forma di raffigurazione: ciò che differenzia
immagine e fatto ci sfugge per definizione, dato che è oltre il
limite del nostro pensiero. In una prospettiva incentrata sulla
semantica, viceversa, una tale soluzione non è disponibile,
perché si dovrebbe intendere che abbiamo accesso anche a ciò
che differenzia immagine (segno linguistico) e fatto.

64
che rinunciasse ad ogni forma di iconicità.
Il risultato più importante di questa analisi è che
possiamo spiegare l’importanza data da Wittgenstein al
caso della raffigurazione iconicamente fedele: è questo
infatti il caso che ci permette di render conto della
raffigurazione “mentale” dei fatti, la quale è tanto
“fedele” da consistere di immagini di fatto
indistinguibili dal raffigurato (v. supra nota 16). Che
Wittgenstein si ponga il problema di come il pensiero
umano può raffigurarsi il mondo, non significa
naturalmente che stia peccando di psicologismo. Infatti
la stessa relazione fatto mentale-mondo è rigorosamente
interna – quindi Wittgenstein evita ciò che più teme:
immischiarsi in questioni “empiriche”. È in realtà
proprio questa preoccupazione il motivo più corretto per
criticare lo psicologismo – nel senso che l’osservazione
empirica, anche ripetuta, di un atto mentale non può
essere scambiata con la giustificazione delle conclusioni
cui esso porta (si pensi alle rispettive posizioni come
esemplificate da J. S. Mill e Frege), e più in generale
secondo quel modulo di pensiero che critica ad es.
Piaget per la “circolarità epistemologica” del suo
metodo. Le ragioni che portano Wittgenstein a criticare
lo psicologismo sono di carattere strettamente
metodologico: non si può descrivere e spiegare la
conoscenza umana assumendo come presupposte delle
descrizioni di carattere empirico (appartenenti alla
psicologia), che, di fatto, presuppongono un sapere che
è proprio l’oggetto della nostra indagine e che dobbiamo
ancora legittimare. Ma, al di là del metodo
argomentativo, l’interesse di Wittgenstein, nel merito, è

65
concentrato proprio sulla costruzione di una teoria della
conoscenza.

3.10. In realtà c’è una ricca evidenza testuale che può


essere portata a difesa di un’interpretazione
“semantica”. Ad es.:

... La difficoltà della mia teoria della raffigurazione logica


era quella di trovare una connessione tra i segni sulla
carta ed uno stato di cose fuori nel mondo. ... (Quaderni,
27.10.14)
Su che cosa si fonda la nostra fiducia – sicuramente ben
fondata – che potremo esprimere qualsiasi senso nella
nostra scrittura a due dimensioni? (Quaderni, 26.9.14)

Ma non dobbiamo essere tratti in inganno: primo,


perché Wittgenstein ha sempre mostrato di considerare
le parole il veicolo ovvio e naturale del pensiero:

Adesso diviene chiaro perché io pensassi che pensare e


parlare fossero lo stesso. Il pensare infatti è una specie di
linguaggio. Ché il pensiero è naturalmente anche
un’immagine logica della proposizione e pertanto una
specie di proposizione. (Quaderni, 12.9.16)
3.1 Nella proposizione il pensiero si esprime
sensibilmente.

Anche passi come quelli citati si possono spiegare


quindi come l’indicazione di un problema (semantico)
che contiene implicitamente al suo interno un problema
gnoseologico. Il fatto è che, animato da un’ambizione
fondazionale come quella che pervade il Tractatus, è
impossibile che Wittgenstein abbia pensato di poter

66
tenere dissociati i due problemi.
Secondo, Wittgenstein voleva poter costruire anche
una semantica, che però non era il problema
fondamentale – ed era semmai implicito in quello a lui
più a cuore. La chiave di lettura per intendere il
Tractatus va cercata, a mio avviso, nel classico
“problema gnoseologico” (come poteva derivare a
Wittgenstein dalla conoscenza di Schopenhauer – da lui
indicato come uno degli autori che più influirono sulla
sua formazione24). Come possiamo esplicare in maniera
analiticamente precisa e coerente, le nostre intuizioni sul
rapporto tra mente e mondo? Se vogliamo esplicare
questa relazione, dobbiamo spiegare
(indipendentemente da essa) i termini che vi figurano.
Ma, se pensiamo al termine “mondo”, abbiamo
presupposto la relazione che costituisce l’explicandum;
se non pensiamo al termine “mondo”, non si vede come
si possa davvero esplicare la relazione. La risposta che
dà Wittgenstein va in direzione di un radicale monismo:
“io sono il mio mondo”.
L’immagine del plastico può essere così intesa:
immaginiamo un bambino che non abbia mai visto delle
automobili reali – vedendo il modellino vedrebbe di
fatto (pur senza sapere niente delle automobili vere e
proprie) qualcosa che è comune anche all’incidente
reale. Ma la realtà che lui riconosce è solo quella del
plastico. Si può dire: scambia il plastico per l’incidente
vero e proprio (per quel tanto di comprensione che, per
ipotesi, il bambino può possedere dell’incidente reale),
24
VON WRIGHT, in MALCOLM (1988, p. 13), Pensieri diversi (p. 45,
appunti del 1931).

67
ma l’“equivoco” è così perfetto che non può nemmeno
concepire un evento come l’incidente reale che sia
diverso in qualcosa dalla pura osservazione del plastico.
Per lui tutta la realtà in questione è il plastico.

3.11. Se si generalizza il modello della picture-theory a


tutti i contenuti di conoscenza del bambino (come è
nella logica della teoria stessa), il risultato è lo stesso
che dire che il bambino (e poi l’adulto) opera
interamente con modellini. Anche se, via via, questi
sono sempre più articolati e sofisticati, accade sempre
che scambiamo i fatti che fanno da immagine, per i fatti
che costituirebbero la realtà “esterna” – che a questo
punto ha i caratteri del noumeno kantiano. Da qui
seguono le tesi wittgensteiniane – che vedremo meglio
in seguito – sul solipsismo.
Se introduciamo delle convenzioni per stipulare il
significato dei nomi, vediamo nel significato di questi
(debitamente composti) la scena reale – senza uscire
dalla nostra conoscenza pregressa. La riflessione che si
trova alla base dell’idealismo25 e del solipsismo26, viene
controbattuta da Wittgenstein con la picture-theory, che

25
Come ad es. formulata in Hume. Lo stesso fastidio che
Wittgenstein dichiarò di provare leggendo l’autore scozzese,
può essere spiegato con la relativa superficialità con cui questi
passa sopra i problemi che più tormentano Wittgenstein.
26
“La strada che ho percorso è questa: l’idealismo separa dal
mondo, come unici, gli uomini, il solipsismo separa me solo, ed
alla fine io vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da
una parte resta dunque nulla; dall’altra, unico, il mondo. Così
l’idealismo, pensato con rigore sino in fondo, porta al realismo”
(Quaderni, 15.10.16).

68
esplica le nostre intuizioni su ciò che è “esterno”,
rigorosamente in termini di ciò che è “interno”.
Scrive Wittgenstein nel brano già riportato della
Prefazione al Tractatus (1974, p. 3):

Il libro vuole dunque tracciare al pensiero un limite, o


piuttosto – non al pensiero, ma all’espressione dei
pensieri: Ché, per tracciare al pensiero un limite,
dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite
(dovremmo dunque poter pensare quel che pensare non si
può).
Il limite potrà dunque esser tracciato solo nel linguaggio,
e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso.

Si vede come il limite vero e proprio, quello che non


possiamo valicare, sia quello del pensiero. Un limite del
linguaggio viene ammesso solo perché imposto dal
limite del pensiero – che non possiamo pensare, ma
comunque si “mostra”.

6.45 ... Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico.


6.522 V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il
mistico.

Nel “mistico” noi vediamo la sostanza del mondo, gli


oggetti, e capiamo che con le proposizioni vorremmo
parlare di fatti non immediatamente dati, ma, per una
vera e propria necessità logica, siamo obbligati a
“tradurli” (ridurli) in ciò che invece ci è dato. In questo
senso vediamo il mondo “quale tutto limitato”:
diventiamo coscienti che il limite del pensiero non è
valicabile. Le espressioni più semplici, i nomi,

69
presuppongono la nostra conoscenza di ciò che viene da
essi designato: ci lasciano quindi rigorosamente
all’interno dell’evidenza immediata. Le proposizioni
sono invece lo strumento con cui cerchiamo di
“comunicare con espressioni vecchie un senso nuovo”
(4.03). Il limite di questa operazione è indicato dal
solipsismo: per comprendere compiutamente un “senso
nuovo”, senza ridurlo con ciò stesso alla nostra
comprensione pregressa dei nomi che costituiscono la
proposizione, dovremmo pensare ciò che, per
definizione, non è pensabile.
Questo stesso meccanismo logico è alla base delle
sezioni:

2.012 Nella logica nulla è accidentale: Se la cosa può


occorrer nello stato di cose, la possibilità dello stato di
cose dev’essere già pregiudicata nella cosa.
2.0121 Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che
potesse sussister per sé sola, successivamente potesse
convenire una situazione.
Se le cose possono occorrere in stati di cose, ciò deve già
essere in esse. ...
2.0123 Se conosco l’oggetto, conosco anche tutte le
possibilità del suo occorrere in stati di cose.
(Ognuna di tali possibilità dev’essere nella natura
dell’oggetto.)
Non può trovarsi successivamente una nuova possibilità.

Non possiamo aspettarci che una nuova possibilità


compaia in futuro, perché dovremmo pensarlo ora, e
così riconosceremmo quel tale evento come possibile
già ora: la possibilità di quell’evento farebbe la propria

70
comparsa già ora, nel momento in cui la concepiamo.
Questo significa che la nostra comprensione delle cose
(quanto di esse riusciamo a concepire) è ristretta
rigorosamente a quanto concepiamo ora. Quindi il
contenuto cui si applica la nostra capacità di
immaginare un evento non immediatamente dato, si
riduce logicamente al materiale di cui è fatta
l’immagine con cui (ora) ce lo raffiguriamo.
Il modo preciso in cui Wittgenstein presenta
l’argomentazione fa riferimento alla categoria di
“possibilità”: è questo che gli permette di sfuggire al
rischio del solipsismo. Quella che ora viene concepita
come una possibilità, potrà in futuro verificarsi oppure
no, quindi una realtà esterna al soggetto viene concepita.
Vedremo più avanti l’articolazione precisa di questa
idea.
Possiamo pensare alla picture-theory in questi
termini: abbiamo a disposizione solo un certo insieme di
“dati” (oggetti – il significato dei nomi) – possiamo
quindi concepire la possibilità di raffigurare ciò che va
al di là di essi solo escogitando un modo per ridurre la
comprensione del non-dato all’immagine del dato
stesso.
Per assurdo, possiamo immaginare qualcuno che non
abbia mai visto il (nostro) mondo, tranne la parte di esso
che è costituita (esclusivamente) dai segni grafici che
corrispondono alle parole dell’italiano, e conosca però
(in qualche modo) le possibilità grammaticali di
combinazione dei segni: per costui i segni di inchiostro
sarebbero immagini del (suo) mondo (forse potrebbe
cercare a sua volta di utilizzare alcune parti di questi

71
segni per riferirsi, con una semantica, alle parti
rimanenti).
L’obiettivo di Wittgenstein era una teoria generale
della raffigurazione, che risultasse applicabile sia ai casi
dove questa sia iconicamente più informativa, sia a
quelli in cui ogni traccia di iconicità scompare. Il
motivo è che così può includere nello stesso schema
concettuale (i) il pensiero umano, in cui la
raffigurazione è iconicamente indistinguibile dal
raffigurato (da parte almeno degli esseri umani che la
stanno componendo), (ii) le rappresentazioni attraverso
segni, che, come le prime, sono costituite da “fatti”, ma
del tutto meno attendibili dal punto di vista iconico.
L’unica misura di iconicità che viene sempre
conservata è quella espressa dalla molteplicità logica,
che dipende solo da quanti oggetti vengono combinati.
La forma logica invece è il fatto, in generale, che degli
elementi vengano combinati:

... Si può dire: noi non abbiamo, è vero, la certezza di


poter mettere sulla carta tutti gli stati di cose in immagini;
ma certo abbiamo la certezza di poter raffigurare in una
scrittura a due dimensioni tutte le proprietà logiche degli
stati di cose. ... (Quaderni, 29.9.14, corsivo mio)
È chiaro che l’indagine più precisa del segno
proposizionale non può rendere ciò che esso enuncia –
però può certo rendere ciò che esso può enunciare.
(Quaderni, 18.3.15)

Una tale “iconicità” (ammesso che così possa essere


considerata) non serve a spiegare la semantica dei segni
linguistici: serve solo a mostrare che la semantica

72
obbedisce ad un modello più generale che spiega anche
la raffigurazione “completa” (di fatto: mentale) che una
persona si fa di una situazione.
Attraverso i segni linguistici (e pensando il loro
significato), l’essere umano riesce a raffigurarsi un fatto,
pur non avendolo mai visto prima, riducendolo a quanto
già sa, ma è, per così dire, il suo pensiero – e non altro –
che spiega il suo pensiero. Una tale terminologia
psicologistica (che qui adotto per una maggiore efficacia
euristica) scompare giustamente dal Tractatus, (i)
perché altrimenti potrebbe sembrare che spieghiamo la
relazione tra segni linguistici e mondo mediante il
“pensiero”, ma questo innescherebbe immediatamente
un regresso (come spiegare il rapporto pensiero-segni
etc.?); (ii) nel Tractatus pensiero e mondo si
identificano in una forma di monismo rigoroso né
idealista né materialista (“neutro”), e, posto che la
nostra caratterizzazione intuitiva di “pensiero” è intrisa
di nozioni psicologiche in senso stretto (che qui
sarebbero del tutto fuori luogo: anche la relazione tra
immagini mentali e realtà è interna, logica, dato che è
una semplice identità), sarebbe molto più fuorviante far
scomparire il “mondo” nel “pensiero”, invece che
viceversa.

73
4

Idealismo e dogmatismo

4.1. La situazione in cui Wittgenstein si trova


sembrerebbe essere riconducibile al cosiddetto
“paradosso dell’analisi”, come è stato formulato da
Moore, Russell o Ramsey (v. ad es. Russell, 1986, pp.
160-162): data una nozione intuitiva e pre-analitica di
qualcosa, possiamo sentire l’esigenza di chiarirla – ad
es. per evitare paradossi, contraddizioni o evidenti
aporie, o per semplice desiderio di chiarezza.
Procediamo quindi a sostituirla con un’altra
formulazione della stessa questione (come ad es. Russell
con la teoria delle descrizioni definite), che ottenga di
eliminare i limiti che avevamo riscontrato nella
formulazione intuitiva precedente. Ma come facciamo a
questo punto a dire che non ci troviamo semplicemente
di fronte ad una nuova questione – semplicemente
diversa dalla prima? Come facciamo a sapere che la
nuova formulazione continua a descrivere le stesse
realtà alle quali facevamo riferimento prima? Ammesso
che nella nuova situazione, non sorgano paradossi etc.,
come facciamo a sapere che questo non sia
semplicemente perché abbiamo in pratica spostato la
nostra attenzione, in modo da non vedere più i vecchi
problemi? (i. e. la nuova formulazione non coglie alcun
ambito tematico interessante).
Il problema da cui Wittgenstein parte è dato

74
dall’idealismo e da quello che costituisce il suo
sviluppo coerente: il solipsismo.

5.62 ... Ciò che il solipsismo intende è in tutto corretto;


solo, non si può dire, ma mostra sé. ...

... Che m’interessa la storia? Il mio mondo è il primo ed


unico!
Io voglio riferire come io trovai il mondo.
Ciò che altri al mondo m’abbia detto sul mondo è parte
minima ed infima della mia esperienza del mondo.
Io ho da giudicare il mondo, da misurare le cose. ...
(Quaderni, 2.9.16)

La tematica del limite che non può essere valicato,


esposta in posizione centrale nella Prefazione, sta a
ribadire le ragioni di ordine rigorosamente logico alla
base del solipsismo. Lo stesso schema argomentativo
impiegato nella già ricordata 2.0121 (e ripreso
sinteticamente in 5.61c, subito prima delle affermazioni
sul solipsismo in 5.62), è ugualmente dello stesso tipo
(cercherò di mostrare come sia questa proposizione che
fa da premessa logica essenziale all’introduzione degli
“oggetti” – e quindi da base, di fatto, per tutto il
Tractatus).
Comprensibilmente Wittgenstein giudica
l’eventualità di un tale esito del tutto distruttiva e
paradossale. Vuole quindi mostrare come “... il
solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il
realismo puro...” (5.64). La riformulazione del realismo
che nel Tractatus viene presentata, è quindi congegnata
in modo da far salve tutte le affermazioni del realismo,

75
senza contravvenire alle condizioni di coerenza logica
imposte dal solipsismo. Ogni affermazione fatta nel
realismo, grazie alla teoria della raffigurazione, può
essere “tradotta” in una corrispondente proposizione che
rispetta i vincoli logici imposti dal solipsismo. Ogni
proposizione che descrive un fatto – nel senso del
realismo –, si serve delle stesse espressioni che
mostrano il senso della proposizione – nel senso del
solipsismo – , ma (con un leggero scarto terminologico
che non tradisce le intenzioni sostanziali e l'intuizione di
fondo di Wittgenstein) possiamo citare:

5.53 Eguaglianza d’oggetto esprimo mediante


eguaglianza di segno, e non mediante un segno
d’eguaglianza; diversità d’oggetti, mediante diversità di
segni.

Ora, è una stessa entità, la medesima proposizione, che


descrive un fatto e, insieme, mostra il proprio senso. Si
può dire correttamente quindi che lo stesso contenuto
che il realista dice, il solipsista mostra. Le due analisi –
realista e solipsista – sono equivalenti perché si servono
di un medesimo mezzo espressivo, e perché finiscono
quindi per riferirsi ad uno stesso identico contenuto.

4.2. Naturalmente il problema è quanto questa


“riformulazione” del realismo sia fedele a quella che era
la nostra idea intuitiva originaria di esso, ma non è detto
che Wittgenstein volesse che fosse del tutto fedele a
quel modello iniziale: gli importava di far salve certe
esigenze di plausibilità immediata che accoglieva in
maniera intuitiva, ad es. che esistano fatti che possono

76
rendere vere o false le nostre proposizioni (abbiamo
visto come le proposizioni 2.0123, 2.012 e 2.0121
facciano a tal fine un uso essenziale della categoria di
possibilità). In particolare tutto questo modo di
impostare la questione apre un margine piuttosto ampio
ad una valutazione di tipo soggettivo, che dica se
l’analisi che abbiamo predisposto rende conto delle
nostre intuizioni iniziali. Nelle parole di Ramsey (1990,
p. 6) “we cannot get clear about these terms and
sentences without getting clear about meaning, and we
seem to get into the situation that we cannot understand
e.g. what we say about time and the external world
without first understanding meaning and yet we cannot
understand meaning without first understanding
certainly time and probably the external world which
are involved in it. So we cannot make our philosophy
into an ordered progress to a goal, but have to take our
problems as a whole and jump to a simultaneous
solution”.
Questo può contribuire a spiegare perché
Wittgenstein, dopo essersi convinto “d’aver
definitivamente risolto nell’essenziale i problemi”,
come scrive nella Prefazione al Tractatus, abbia potuto
in seguito abbandonare la sua opera giovanile.
“Confronta la soluzione di problemi filosofici con il
dono nella fiaba, dono che appare magico nel castello
incantato, ma quando da lì si esce, di giorno, e lo si
guarda, non è nient’altro che un qualsiasi pezzo di ferro
(o qualcosa del genere)” (Pensieri diversi, p. 33, appunti
del 1931).
Vorrei anticipare però, che è mia intenzione, nel

77
seguito, svincolarmi da questa parte del Tractatus (e
quindi da buona parte di esso): se mi è possibile
introdurre una forma di induttivismo, sulla base di
alcune sue tesi, riuscirò anche, ipso facto, a giustificare
una forma di realismo, che può definirsi “naturalizzata”:
il rapporto tra la mente delle persone (conosciute
nell’esperienza) e il mondo può essere infatti descritto
mediante semplici uniformità empiriche – ad es. una
stella emette luce che arriva ad impressionare la nostra
retina etc. etc. L’insieme di queste uniformità (a noi
note) è sufficiente a definire in modo del tutto semplice
e chiaro un concetto di “realtà” esterna e indipendente
dall’esistenza fisica della persona che pronuncia i
giudizi in questione (ciò che dovrà esistere, ovviamente,
è l’io metafisico – il limite del mondo). È assai intuitivo
sostenere che quando parliamo di una “realtà”
indipendente da noi non pensiamo ad altro che a questa
serie di rapporti causali. Per quanto riguarda poi la
nozione di io metafisico, essa potrà essere identificata
ugualmente bene sia con l’esistenza della “realtà”
oggettiva in quanto tale, sia – se si preferisce – con
l’idea di un io trascendentale, che però risulta di fatto
indistinguibile dalla realtà oggettiva in quanto tale.
Infatti deve essere senz’altro accolta la tesi che non
possiamo avere un’immagine della realtà che
consideriamo oggettiva, e contemporaneamente
postulare che la nostra sia però un’altra immagine (solo
“soggettiva”) più o meno imperfetta. Dato questo
quadro, possiamo quindi ancora riconoscerci nella tesi
di Wittgenstein, che solipsismo/soggettivismo e
realismo/oggettivismo si equivalgono.

78
Vorrei notare inoltre come l’equivalenza stabilita tra
realismo e solipsismo pone già in una luce più chiara il
punto prima lasciato in sospeso: il segno proposizionale
è la nostra immagine del designato – in alcuni casi meno
iconica (quando è solo quello che in genere chiamiamo
segno linguistico), in altri di più (quando associamo al
“nome” un significato relativamente più fedele nella
riproduzione del designato). È in questo senso che la
sintassi logica non può presupporre il riferimento al
designato in se stesso: semplicemente perché
quest’ultimo è a rigore inaccessibile. In seguito tornerò
ancora sulla questione, impiegando anche i principi di
composizione e contestualità.

4.3. Gli autori che maggiormente hanno difeso quella


che ho chiamato “interpretazione semantica” del
Tractatus, sono Merrill e Jaakko Hintikka (1990). La
loro tesi fondamentale è che Wittgenstein faccia “un uso
obliquo del linguaggio” per comunicare una visione
della semantica che sarebbe, a rigore, “ineffabile” (ivi,
pp. 18-19): non si può formulare la semantica “perché si
può usare il linguaggio per parlare di qualcosa solo a
condizione di poter contare su di un’interpretazione
determinata, su di una rete di relazioni di significati
sussistenti tra linguaggio e mondo. Per questo motivo,
nel linguaggio non si può dire in maniera significante e
sensata quali siano queste relazioni di significato,
poiché ogni tentativo di dirlo le deve già presupporre”
(ivi, p. 18). La tematica dell’“inesprimibile” che si
“mostra” (“a prima vista un po’ misticheggiante” [ivi, p.
105]) sarebbe quindi da riferirsi appunto alle relazioni

79
semantiche che spiegano il significato dei segni
linguistici nel loro rapporto con il mondo. Ciò che si
“mostra” sono semplicemente gli oggetti. “Si scopre
così che l’essenza dell’apparentemente sibillino tema
del mostrare non è altro che il sobrio corollario di una
semantica basata sulla conoscenza diretta” (ivi, p. 105).
In particolare il solipsismo è considerato da
Wittgenstein corretto nel senso che “il mondo è
costituito da oggetti elementari che di fatto hanno una
certa relazione con me, cioè quella di essere dati a me”
(ivi, p. 109); “il realismo, d’altronde, è corretto quando
sostiene che questa «riduzione alla conoscenza diretta»
non riflette la realtà metafisica del resto del mondo”
(ivi, p. 108). “Wittgenstein vuol dire che anche se il
mondo è costituito da oggetti elementari che di fatto
hanno una certa relazione con me, cioè quella di essere
dati a me, questa relazione non appartiene all’essenza
degli oggetti”. Tutto questo spiegherebbe la 5.64. Mi
sembra però che se “I limiti del mio linguaggio
significano i limiti del mio mondo” (5.6), non possiamo
pensare di poterci riferire ad una “realtà metafisica del
resto del mondo” – non possiamo significarla.
Si può ribattere: possiamo descrivere, mediante
proposizioni, questa realtà, nel modo che ci insegna la
picture-theory. Ma (i) la picture-theory può riuscire in
ciò solo se è concepita come riguardante tutta la
gnoseologia, non solo la semantica, (ii) riesce in ciò
comunque portando ad identificare la realtà esterna con
quella interna, quindi l’essere in relazione con me
apparterrebbe “all’essenza degli oggetti”: si ricordi che
il rapporto di raffigurazione è spiegato come una

80
relazione interna tra proposizione e raffigurato, quindi,
se parlo di un carattere soggettivo/oggettivo degli
oggetti, devo comunque ammettere che posso dedurre
reciprocamente l’uno dall’altro in maniera sistematica.
Se poi si intende la coincidenza di realismo e
solipsismo in senso più debole, a dire che gli oggetti che
a me sono dati, sono anche oggetti nel senso del
realismo – fermo restando che di altre realtà (“nuove”)
non posso parlare –, verrebbe a cadere ab origine la
ragione per dover costruire una semantica, dato che
questa non avrebbe nemmeno più alcun campo di
applicazione.
Inoltre la stessa immagine del “microcosmo” (5.63)
invita a pensare ad una forma di corrispondenza
speculare tra le parti del micro- e le parti del macro-
cosmo: corrispondenza che non sarebbe riflessa da una
spiegazione come quella degli Hintikka.
Fatte valere queste importanti riserve, è però
ugualmente importante sottolineare come gli Hintikka
(1990) e Pears (1988)27 utilizzino come formula
fondamentale alla base della loro lettura quella che dà
“gli oggetti del Tractatus come oggetti di conoscenza
diretta” (Hintikka-Hintikka, 1990, pp. 77 ss.),
accentuando così la vicinanza tra Russell e Wittgenstein.
“Alla base delle sue idee [di Wittgenstein] sembra
esservi un progetto simile a quello di Russell, di
costruire il mondo fisico (esterno) a partire dai miei dati

27
Pears accentua piuttosto gli elementi che differenziano i due
autori, ma il presupposto di tutta la sua ricostruzione è che
Wittgenstein deriva la propria impostazione dal suo maestro
Russell (Hintikka-Hintikka, 1990, p. 91).

81
sensoriali ed altri oggetti di conoscenza diretta” (ivi, p.
108). Il mio schema di analisi ne riceve così una
conferma assai rilevante.

4.4. Oltre a queste obiezioni, vorrei fare le seguenti


osservazioni.

2.151 La forma di raffigurazione è la possibilità che che


le cose siano l’una all’altra nella stessa relazione che gli
elementi dell’immagine.

In maniera molto intuitiva, da parte di vari interpreti, tra


cui Frascolla (2000, p. 56), si intende che: “Ampliando
in modo del tutto naturale la portata dell’originaria
nozione di forma di raffigurazione di un’immagine, si
può sostenere che le possibilità di connessione,
identiche per gli elementi delle immagini costruite con
un dato sistema e per i costituenti delle situazioni da
raffigurare, costituiscono, nel loro insieme, la forma di
raffigurazione di quel genere. La condizione che
dev’essere comunque mantenuta, se non si vuol perdere
la capacità rappresentativa, è che gli elementi del
sistema di rappresentazione possano intrattenere le
stesse relazioni che si vogliono presentare come
sussistenti tra le entità ad essi coordinate” (da qui segue
il commento fornito alla 2.171). È proprio per questo
motivo che gli Hintikka (1990, p. 180), Black (1967, pp.
102-3, 108-9)28 e altri sono portati ad affermare che la
28
Contestualmente Black (1967, pp. 125-126) trova insostenibile
la visione complessiva che ne risulta: “La forma logica di un
oggetto è una possibilità di trasformazione e ricombinazione, e
non una struttura che sia direttamente percepibile nel fatto-

82
scelta degli oggetti che faranno da nomi non può essere
del tutto arbitraria, perché vige la pre-condizione che
debbano potersi combinare nella proposizione in un
numero di possibili combinazioni alternative, che sia
pari a quelle possibili per gli oggetti della situazione
raffigurata.
Ma questo ha una conseguenza fondamentale: la
forma di raffigurazione che abbiamo adottato (o più
esattamente la scelta degli oggetti che abbiamo
effettuato allo scopo) può essere contraddetta
dall’esperienza: se abbiamo scelto “male” gli oggetti
che devono costituire la proposizione, potrebbe
accadere (per assurdo) che ci sembra di capire la
proposizione, ma pure questa non raffigura di fatto la
situazione che intendiamo.
Sarebbe questo un caso in cui un linguaggio
malaccortamente congegnato, finisca per “travestire i
pensieri” (4.002), perché non possiede la stessa
molteplicità logica della realtà (KENNY, 1988, p. 118)29.

enunciato ... cogliere la forma non significa percepire


intuitivamente qualcosa di direttamente percepibile, ma essere
pronti ad eseguire delle procedure discorsive di trasformazione,
inferenza logica e così via. Se dal punto di vista del Tractatus,
un’interpretazione di questo tipo va scartata in quanto
‘puramente psicologica’, è difficile vedere che cosa potrebbe
prendere il suo posto ... Alla fine dei conti, lo sforzo di
visualizzare l’essenza della raffigurazione in generale
ricorrendo ad un tipo privilegiato di raffigurazione, finisce per
smentirsi da solo”.
29
Sosterrò in seguito che un tale “travestimento” avviene non per
una diversa molteplicità logica di linguaggio e realtà: non
possiamo “uscire” dalla molteplicità del linguaggio, quindi non
potremmo mai accorgerci di un tale travisamento, né avrebbe

83
Ora però, finché siamo interessati alla sola semantica,
noi possiamo avere un termine di confronto per
confermare o meno la correttezza della nostra scelta: al
di là del segno grafico, vediamo una realtà – quindi
questa scelta può essere anche smentita. Per accorgerci
che la “sintassi logica” (3.325) che stiamo utilizzando è
scorretta, abbiamo bisogno di un termine di confronto
oggettivo: per valutare la correttezza della sintassi
logica dei nostri pensieri, come dovremmo fare?

4.12 ... Per poter rappresentare la forma logica dovremmo


poter situare noi stessi con la proposizione fuori della
logica, vale a dire, fuori del mondo.

4.5. Dato che l’interpretazione semantica del Tractatus


porta a pensare che la sintassi logica possa essere
smentita (come è – solo – per la semantica), possiamo
mostrare ora, come una seria obiezione a quella
interpretazione sia rappresentata dai passi seguenti.

3.33 Nella sintassi logica il significato d’un segno non


deve mai assolvere una funzione; la sintassi logica deve
stabilirsi senza parlare del significato d’un segno, essa
può presupporre solo la descrizione delle espressioni.
3.334 Le regole della sintassi logica devono
senso parlarne. La confusione nasce perché le proposizioni in
quanto tali sono indeterminate, e il linguaggio, che consiste
appunto in proposizioni, ci porta a vedere come indeterminata
anche la realtà. È vero però anche che possiamo intendere: mi
accorgo, in quanto io metafisico, che il soggetto epistemico
costituito da un’altra persona (diverso dall’io metafisico)
utilizza un linguaggio “fuorviante”.

84
comprendersi da sé, sol che si sappia come ogni singolo
segno designa.

Se il confronto con l’esperienza può contraddire la


nostra scelta, il “significato d’un segno” non viene ad
“assolvere una funzione”? Inoltre:

5.5542 ... Ci è possibile stabilire una forma segnica e non


sapere se le possa corrispondere qualcosa?...

Da cui seguirebbe che la scelta di una certa “forma


segnica” non possa assolutamente, in seguito, essere
smentita, perché questo equivarrebbe a scoprire che
dall’inizio non le era corrisposto nulla. Leggiamo
inoltre:

3.311 L’espressione presuppone le forme di tutte le


proposizioni nelle quali può occorrere. Essa è il carattere
comune d’una classe di proposizioni.
3.3411 Si potrebbe dunque dire: Il nome vero e proprio è
ciò che hanno in comune tutti i simboli che designano
l’oggetto. Risulterebbe così gradualmente che nessuna
sorta di composizione è essenziale per il nome.

Quindi, se “nessuna forma di composizione è essenziale


per il nome”, con l’atto con cui l’afferriamo,
necessariamente lo afferriamo nella sua interezza.
Ricordiamo inoltre le già citate proposizioni:

2.0123 Se conosco l’oggetto, conosco anche tutte le


possibilità del suo occorrere in stati di cose.
(Ognuna di tali possibilità dev’essere nella natura
dell’oggetto.)

85
Non può trovarsi successivamente una nuova possibilità.
2.012 Nella logica nulla è accidentale: Se la cosa può
occorrer nello stato di cose, la possibilità dello stato di
cose dev’essere già pregiudicata nella cosa.
2.0121 Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che
potesse sussister per sé sola, successivamente potesse
convenire una situazione.
Se le cose possono occorrere in stati di cose, ciò deve già
essere in esse.
(Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La
logica tratta di ogni possibilità e tutte le possibilità sono i
suoi fatti.) ...

Il senso di queste osservazioni è abbastanza chiaro: se


pensiamo ora che in futuro possa presentarsi una nuova
possibilità – ora non preventivata –, lo staremmo
appunto pensando, quindi quella possibilità (in quanto
possibilità) ha fatto la sua comparsa già ora.
Vediamo quindi che le possibilità logiche di
combinazione degli oggetti (i nomi tra di loro e i
designati tra di loro) ci devono essere note tutte subito,
per così dire tutte d’un colpo: non possiamo quindi
sbagliare la scelta della forma di raffigurazione delle
nostre proposizioni. A meno che non stiamo utilizzando
intenzionalmente una forma di raffigurazione che
sappiamo essere scorretta – non possiamo concepire il
caso che essa sia tale: la condizione infatti sarebbe di
pensare che possano comparire in futuro possibilità ora
non previste (che la smentiscano), ma “Non può trovarsi
successivamente una nuova possibilità”.
Questo mostra – mi sembra – che quando
Wittgenstein parla di sintassi logica, ha in mente in

86
primis la sua applicazione alle nostre rappresentazioni
mentali (oltre le quali non possiamo andare) – e solo in
seconda istanza pensa alla semantica dei segni
linguistici.
Un secondo grave problema è creato dal fatto che è
stato supposto che scegliamo la forma di raffigurazione
avendo un’aspettativa adesso di quelle che potranno
essere nel seguito ad es. le possibili diverse
ricombinazioni del plastico. Ma questo significa che già
ci stiamo raffigurando delle situazioni non
immediatamente date: non sarebbe necessaria allora una
precedente applicazione della picture-theory? Per
descrivere ad es. la possibilità di scambiare l’ordine
delle automobili nel modellino, dovremmo impiegare
una descrizione che raffiguri come il modellino sarebbe,
se fosse vero il diverso ordine delle automobili. Ma così
non si crea un regresso infinito? Non saprei mai, in
definitiva, se la forma di raffigurazione che ho scelto è
adeguata ( = se quello che dico ha senso) – e ogni
descrizione che compio, dovrebbe presupporne un
numero infinito di altre.
Wittgenstein ammette certamente la possibilità che
l’immagine che costruiamo possegga una grammatica
logica inadeguata al fatto da descrivere, ma si riferisce
alla semantica dei segni linguistici (anche in senso lato:
pure un modellino a rigore può aver bisogno di
convenzioni per essere “interpretato”). La 4.0411 porta
degli esempi di notazione inappropriata:

4.0411 Se volessimo ad esempio esprimere, preponendo


un indice a «fx» (ad esempio così: «Gen.fx»), ciò che

87
esprimiamo mediante «(x) . fx», ciò non basterebbe; noi
non sapremmo che cosa fu generalizzato. ...
Tutti questi modi di designazione non bastano, poiché non
hanno la necessaria molteplicità matematica.

È vero quindi che dobbiamo fare attenzione, come


dicono gli Hintikka, a non scegliere una notazione
sbagliata – ma il contesto mostra che ci si riferisce solo
al momento in cui si sta elaborando una semantica dei
segni linguistici. La proposizione 4.0411 è destinata a
portare un “esempio” – come è detto in apertura di
citazione – che deve illustrare quanto espresso nella
4.04 e la 4.041 subito precedenti:

4.04 Nella proposizione deve essere da distinguere


esattamente tanto, quanto è da distinguere nella situazione
che essa rappresenta.
Ambedue devono possedere la medesima molteplicità
logica (matematica). ...
4.041 Questa stessa molteplicità matematica non si può,
naturalmente, raffigurare a sua volta. Da essa non si può
uscire mentre si raffigura.

Quindi (i) se utilizziamo un’immagine con una certa


molteplicità logica, non possiamo “uscire” da essa, per
raffigurarla a sua volta, e controllare che abbia la
molteplicità giusta.
(ii) Gli esempi di notazione errata sono portati appunto
come tentativi, per principio irrealizzabili, di “uscire”
dalla forma di raffigurazione che si usa, la quale sta
facendo di fatto da termine di confronto per giudicare
della adeguatezza delle altre notazioni (quelle con la sua

88
stessa molteplicità saranno “giuste”). Dato che le
notazioni presentate erano errate, non hanno a monte la
capacità di simbolizzare nulla30.
Se utilizziamo la “lente” di una certa molteplicità
matematica, essa filtra tutta la realtà cui ci riferiamo
attraverso di essa. Ma, ciò posto, Wittgenstein si rende
conto che, se adottassimo una forma piena di idealismo,
non potremmo più concepire la possibilità di giudizi
falsi31. Quindi:

4.0412 Per la stessa ragione non basta la spiegazione


idealista, la quale imputa la visione delle relazioni spaziali
agli «occhiali spaziali», poiché essa non può spiegare la
molteplicità di queste relazioni.

L’idealismo non ammette la possibilità di proposizioni


false – eventualità che Wittgenstein, fedele in questo al
realismo, considera assurda. Il concetto di forma logica
consente invece la possibilità di una pluralità di

30
5.4733 Frege dice: Ogni proposizione legittimamente
formata non può non avere un senso; ed io dico: Ogni
possibile proposizione è formata legittimamente, e, se non
ha un senso, è solo perché noi non abbiamo dato un
significato ad alcune delle sue parti costitutive.
(Anche se crediamo d’aver fatto ciò.)
Una proposizione può essere tale solo se è “formata
legittimamente”, altrimenti non è neppure una proposizione.
31
Si pensi alle conseguenze del ragionamento di Hume, per il
quale è “evidente che l’idea dell’esistenza non è affatto
differente dall’idea di un oggetto, sì che, se dopo aver concepita
una cosa, la vogliamo concepire anche come esistente, non
facciamo in realtà nessun’aggiunta o alterazione alla nostra
prossima idea” (1978, p. 107).

89
combinazioni:

4.121 La proposizione non può rappresentare la forma


logica; questa si specchia in quella. ...
La proposizione mostra la forma logica della realtà.
L’esibisce.
4.1211 Così una proposizione «fa» mostra che, nel suo
senso, occorre l’oggetto a; due proposizioni «fa» e «ga»,
che, in loro due, si parla dello stesso oggetto. ...
4.032 La proposizione è un’immagine d’una situazione
solo nella misura in cui è articolata logicamente.

La proposizione è composta, in quanto che le sue parti


costitutive possono essere spostate in diversi contesti
proposizionali conservando ognuna lo stesso significato:
“Se esistesse soltanto la proposizione «φa» e non «φb»,
la menzione di «a» sarebbe superflua. Basterebbe
scrivere «φ» – la proposizione non sarebbe composta”
(WAISMANN, 1975, p. 78). “Contrassegno del simbolo
composto: Esso ha qualcosa in comune con altri
simboli” (5.5261).
In quanto è composta si dà la possibilità che ad es.
“a” compaia sia in “fa” sia in “ga”: si può quindi (i)
“spiegare la molteplicità di queste relazioni”; (ii)
conseguentemente, si possono ammettere come
logicamente possibili giudizi falsi. Un nome, in quanto
tale, non è né “smembrabile” (3.26), né quindi
suscettibile di essere “falso”: per capire il nome
dobbiamo conoscere ciò per cui esso sta (4.026). In una
proposizione invece i costituenti elementari possono
essere ricomposti in forme nuove e incompatibili tra
loro, quindi alcune dovranno necessariamente essere

90
false.

4.6. Se questa analisi è giusta, vediamo come


Wittgenstein qui abbia conservato un ragionamento fatto
proprio da Frege: è l’enunciato, non il nome, che può
essere vero o falso – quindi è solo l’enunciato che può
garantire il riferimento al dato oggettivo (esterno alla
mente di chi giudica), in modo da evitare lo scoglio
dello psicologismo. “Solo così sarà possibile separare i
«pensieri accessori» (Nebengedanken) semplicemente
suggeriti dalle parole e dalle costruzioni sintattiche da
quelli effettivamente espressi, distinguere i pensieri
presupposti da quelli asseriti, scindere gli elementi
stilistici che colorano l’espressione del pensiero da
quelli che ne determinano il contenuto” (P ICARDI, 1994,
p. 24: viene fatto riferimento in modo più specifico a
Benno Erdmann). Viceversa, gli autori di orientamento
psicologistico sono portati dalle loro teorie ad “un
appiattimento del ruolo semantico svolto da nomi
propri, aggettivi, connettivi logici nella frase. Il
giudicare viene concepito alla stregua di una
comparazione di rappresentazioni di eguale rango, che
si svolge nella mente del singolo; viene così persa di
vista la differenza che intercorre sia sul piano
dell’espressione linguistica, sia sul piano del senso e
della Bedeutung fra entità sature e entità insature. Anche
per queste ragioni Frege aveva sostenuto fin dal 1879
che la distinzione fra soggetto e predicato deve cedere il
posto a quella fra funzione e argomento” (ivi, pp. 21-
22). È per questa via che viene introdotto il noto

91
principio di contestualità32 – accettato anche nel
Tractatus. (Il punto è nella mia prospettiva
doppiamente significativo perché questa stessa mossa
vale anche a disinnescare il “regresso di Bradley” – che,
come vedremo, ha un’importanza fondamentale nella
mia argomentazione.)
L’obiezione che Wittgenstein nella 4.0411 muove
all’idealismo, ricalca l’obiezione di Frege allo
psicologismo – e, come quella, utilizza come propria
arma principale il concetto di una compagine
complessa, articolata, quale la proposizione. Il nome,
che ha una molteplicità logica pari a 1 (= è semplice),
può essere capito solo da chi conosce già la realtà che
designa – quindi non basta a veicolare un contenuto
nuovo. Rimanendo fermi alla comprensione dei soli
nomi, rimarremmo chiusi al di qua, per così dire, della
relazione conoscitiva – cioè entro il suo lato
“psicologico”, o comunque soggettivo33. La
proposizione, se fosse un semplice insieme di nomi, ci
lascerebbe nella stessa impossibilità. Ma

3.141 La proposizione non è un miscuglio di parole. ...


32
Ad es. nei Fondamenti dell’aritmetica (in FREGE, 1965, p. 219):
“cercare il significato delle parole, considerandole non
isolatamente ma nei loro nessi reciproci”.
33
“Secondo Frege, la scomposizione del giudizio in costituenti
identificabili indipendentemente dal contributo che essi
arrecano al giudizio stesso non è un autentico processo di
analisi logica, ma di scomposizione psicologica. L’unico modo
di garantire l’oggettività dell’analisi è quello di riconoscere che
il contenuto – nei termini dei Fondamenti [dell’aritmetica] – di
un costituente del giudizio è identificabile solo attraverso il
giudizio” (DONATELLI, 1998, p. 13).

92
3.142 Solo i fatti possono esprimere un senso; non una
classe di nomi. ...

È così che la proposizione, come “una freccia” (3.144),


permette invece di indicare qualcosa nel mondo – che
non conosciamo (non ne conosciamo il valore di verità).
In questo modo vengono saldate le intuizioni del
realismo e del solipsismo: le proposizioni, pur essendo
costituite solo di nomi, sfruttando la forma logica di
essi, riescono ad “indicare” la realtà – i. e., il lato
“interno” della rappresentazione34, pur essendo tutto ciò
che abbiamo realmente a disposizione (solipsismo),
comunque riesce a rendere conto delle nostre
convinzioni, di ispirazione realista, sull’esistenza di un
lato “esterno” alla rappresentazione, vale a dire l’idea
che ci sia una realtà che non conosciamo: le
proposizioni (i) devono poter dare un’informazione
nuova, (ii) possono essere false.
Si vede quindi l’importanza che le espressioni
linguistiche abbiano un livello pur minimo di iconicità
(la stessa “forma logica” – molteplicità) rispetto al
raffigurato – altrimenti il rapporto di raffigurazione non
partirebbe, e potremmo costruire immagini solo di ciò
34
Si può dire “soggettivo”, dato che è l’insieme delle nostre
conoscenze sul mondo – e siamo così ad un passo dal dire
“psicologico” – ma è comunque formalmente più preciso dire,
appunto: “l’insieme di ciò che già sappiamo”,
indipendentemente dalla natura dei costituenti che veicolano
questa conoscenza. Ciò che raffigura è la proposizione “munita
di senso”: abbiamo visto come sia impossibile distinguere tra i
designati in quanto oggetti mentali, e i designati in quanto
oggetti reali, dato che dovrei oltrepassare il “limite” del
pensiero per rappresentarmi il designato senza pensarlo.

93
che già sappiamo essere vero, così come capiamo il
significato di un nome solo se già conosciamo la sua
designazione.

4.7. L’interpretazione che ho cercato di dare della


picture-theory, la vede non come una teoria portatrice di
un suo proprio contenuto dottrinario, ma come un
processo di analisi che volge le nostre intuizioni sul
realismo in una forma d’espressione diversa, che
permetta di evitare le contraddizioni logiche temute dal
solipsismo. La picture-theory mostra infatti in che modo
si possa escludere – coerentemente – la possibilità di
pensare una realtà che venga qualificata come esterna al
“limite” del nostro pensiero, ma contemporaneamente si
possa accettare che le nostre proposizioni possano
essere sia vere che false, ed esprimano (dicano) un
contenuto che è nuovo e non immediatamente tangibile,
consentendoci di immaginare una “molteplicità di
relazioni” diverse tra gli oggetti che vediamo
dall’esperienza.
Questo quadro mi sembra che sia calzante per
spiegare la celebre tesi di Wittgenstein che

4.112 ... La filosofia non è una dottrina, ma un’attività. ...


Risultato della filosofia non sono «proposizioni
filosofiche», ma il chiarirsi di proposizioni. ...

Sappiamo già che le proposizioni del Tractatus sono


“senza senso”, e non sono quindi vere “proposizioni”:
nella 4.112 troviamo l’indicazione più chiara su come
esse debbano essere quindi intese.
Questo principio ha avuto un’influenza fondamentale

94
su tutta la filosofia analitica, anche se ha ricevuto,
rispetto al Tractatus, una declinazione assai meno
portata alla sistematicità dell’elaborazione. Se la
filosofia è un’“attività”, possiamo concepirla come
un’attività per così dire sistematica e coordinata più o
meno completamente secondo un piano unitario? Credo
che la risposta di Wittgenstein, almeno al tempo del
Tractatus, sarebbe stata positiva: l’“attività” in
questione è sostanzialmente, infatti, proprio il processo
con cui si porta il realismo ad essere “analizzabile”
logicamente in termini compatibili con il solipsismo.
Per questo motivo, credo che la ricostruzione di Janik-
Toulmin debba essere vista come assai riduttiva
dell’effettivo potere esplicativo dell’opera. L’“attività”
che Wittgenstein aveva in mente era un processo di
analisi che, per sua natura, non portava a risultati nuovi
riguardo a specifici contenuti di sapere, ma permetteva
la ridefinizione dei vecchi assetti teorici in una forma
nuova logicamente non aporetica. Tutto questo processo
avviene però in conformità con i modi di procedere del
pensiero “razionale” in senso stretto.

4.8. Ammessa questa come nostra ipotesi di lavoro, ci


sono dei problemi essenziali che devono essere
considerati. Wittgenstein contesta all’idealismo di non
poter tener conto della molteplicità di relazioni possibili
tra gli oggetti. A questa critica è associata l’altra per cui
non potrebbe rendere conto dei giudizi falsi. La logica
interna dell’idealismo porta con forza a dover prendere
posizione su questi problemi. Se ciò che esiste è solo lo
spazio visivo che afferriamo, e non gli oggetti in quanto

95
tali che solo accidentalmente vi compaiono (e, più in
generale, solo lo spazio delle nostre rappresentazioni),
che significato potrebbe avere l’affermazione “Il libro è
sul tavolo”, se non quello che si dà un mero fascio di
unità percettive semplici ed indecomponibili35? La loro
organizzazione secondo certi ordini di connessione
invece che altri, finirebbe con l’apparire del tutto
arbitraria. Sarebbe in breve la stessa situazione che si
avrebbe, nel Tractatus, se si accettasse solo l’esistenza
degli oggetti, e non quella delle proposizioni e degli
stati di cose: accadrebbe, in un caso del genere, che non
potremmo a priori capire l’eventualità di un giudizio
falso, dato che la Bedeutung dei nomi è
necessariamente esistente.
La versione di solipsismo che Wittgenstein pure pare
che accetti, è in grado davvero di risolvere questi
problemi? Le nozioni che dovrebbero servire a questo
scopo sono quelle di “proposizione” e di “stato di cose”.
Ma lo stato di cose è solo “un nesso d’oggetti” (2.01), e
abbiamo visto come Black (1967, pp. 129, 256) riduca
quella che chiama “funzione di concatenazione” (che
esprime lo “stato dell’essere connessi” della 2.01) alla
semplice affermazione della coesistenza degli oggetti.
Ma, se due oggetti esistono, ne segue immediatamente
che coesistono, quindi la funzione di concatenazione
non aggiunge nulla al riconoscimento dell’esistenza dei
singoli oggetti. Quindi lo stato di cose è semplicemente
“sopravveniente” rispetto al solo darsi degli oggetti che
lo costituiscono. Quindi anche la proposizione è da
intendersi sopravveniente sui semplici nomi. E se si può
35
Si pensi al concetto di “io” in Hume.

96
affermare che non è un “miscuglio di nomi”, è solo
perché si deve sempre considerare anche la loro sintassi
logica e le loro possibilità di connessione reciproca, ma
tutto ciò è già dato ipso facto, quando siano dati solo gli
oggetti di per se stessi36. Sembra in definitiva che le
proposizioni elementari debbano essere pensate sempre
come necessariamente vere, appunto come
nell’idealismo di Hume.
Un insieme di problemi nell’esegesi
wittgensteiniana, sembra confermare questa chiave di
lettura: “La proposizione non rappresenta una situazione
possibile, ma la realtà di una situazione possibile: in ciò
può aver torto, ed essere falsa” (M ARCONI, 1971, p. 25).
Vale a dire che, in quanto penso una proposizione,
immagino la realtà come sarebbe se la proposizione
fosse vera.
Il fatto è che la picture-theory, basandosi sul
principio che la proposizione raffigura il fatto, porta per
sua logica interna a pensare che si possa raffigurare il
non sussistere di uno stato di cose (un fatto negativo),
soltanto attraverso una non-immagine. Dobbiamo fare
attenzione comunque a rispettare la terminologia del
Tractatus: il concetto di “immagine” non è lo stesso che
di “proposizione”. Una proposizione può rivelarsi falsa
– di un’immagine invece non ha senso dire che possa
essere negata: Black (1967, p. 86) definisce l’immagine
il veicolo (per così dire materiale) della proposizione.
L’immagine si limita a mostrare sé, e può essere usata
36
“Non: «Il segno complesso <aRb> dice che a sta nella relazione
R a b», ma: Che «a» stia in una certa relazione a «b», dice che
aRb” (3.1432).

97
per esprimere una proposizione37.
Rimane comunque il fatto che l’immagine è, per così
dire, qualcosa di precedente alle nozioni stesse di vero e
falso, mentre “Naturalmente nessuna proposizione
elementare è negativa” (lettera a Russell del 19.8.19, in
Tractatus, 1974, p. 253). “La caratteristica essenziale
delle proposizioni elementari è quella di essere positive.
Possiamo inferire ciò dalla 4.25: 'Se la proposizione
elementare è vera, il fatto atomico c’è; se è falsa, il fatto
atomico non c’è', insieme con la 2.06: 'L’esistenza dei
fatti atomici può anche dirsi un fatto positivo, la non
esistenza un fatto negativo': quindi la proposizione
elementare è tale da esprimere qualcosa di positivo, e
cioè il sussistere di una situazione elementare”
(ANSCOMBE, 1966, p. 30).

4.062 Non ci si può intendere con proposizioni false –


come, sinora, con proposizioni vere – purché si sappia
d’intenderle false? No! Vera, infatti, una proposizione è se
le cose stan così come noi diciamo mediante essa; e, se
con «p» intendiamo ~p, e le cose stan così come
intendiamo noi, allora «p» è, nella nuova concezione,
vera, e non falsa.

Se le proposizioni che intendiamo, alla base, devono


essere intese come vere, perché affaticarsi tanto intorno
37
“Si può negare un’immagine? No. E in ciò risiede la distinzione
tra immagine e proposizione. L’immagine può servire da
proposizione. Ma allora all’immagine viene ad aggiungersi
qualcosa che le fa dire qualcosa. In breve: Io posso negare solo
che l’immagine sia giusta, ma l’immagine stessa non la posso
negare” (Quaderni, 26.11.14).

98
ad una teoria della proposizione che ammetta il caso di
proposizioni elementari false? Le proposizioni
complesse possono esprimere facilmente il caso che una
proposizione elementare sia falsa, semplicemente con
l’uso del segno di negazione. Se dobbiamo descrivere il
mondo mediante proposizioni che, di fatto, intendiamo
come vere, e se si dà inoltre il caso che (logicamente)
possiamo farlo38, tutto ciò che abbiamo da chiedere ad
una teoria della negazione, può esserci fornito da quello
che è il suo trattamento vero-funzionale.
Mi sembra che per trovare la traccia di una risposta,
sia da chiamare in causa la distinzione tra io metafisico
e persone concrete: è l’io metafisico che è condotto in
maniera logicamente necessaria all’idealismo nel suo
sviluppo più radicale e coerente, i. e. il solipsismo. È
l’io metafisico che è il “pensiero”, il “limite del mondo”
– che non possiamo oltrepassare.
In realtà è del tutto accettabile, anche dal realista,
l’idea che l’io metafisico non possa a priori concepire il
proprio errore: la traduzione in termini intuitivi di
questo principio è infatti, semplicemente, che, mentre
esprimo una certa credenza, non posso
contemporaneamente considerarla falsa (antinomia del
mentitore). Ma questo non significa che non mi possa
rappresentare un mio io-futuro che pensa in modo
diverso: l’io metafisico si raffigura queste altre credenze
considerandole false. È una circostanza empirica quella
per cui siamo in genere preoccupati che le nostre
credenze vengano confermate anche dai nostri io-futuri
38
“L’indicazione di tutte le proposizioni elementari vere descrive
il mondo completamente. ...” (4.26).

99
(alla base c’è solo una selezione di tipo darwiniano che
favorisce gli individui che alimentano in sé queste
preoccupazioni – questo stesso processo di evoluzione
della specie può essere legittimamente rappresentato da
parte dell’io metafisico), ma la questione formalmente è
irrilevante.
La picture-theory è congegnata in modo da tener
conto anche di proposizioni elementari false, perché il
desiderio di Wittgenstein è di avere una struttura teorica
unitaria, applicabile sia all’io metafisico, sia alle
persone concrete. Quando viene applicata all’io
metafisico, il concetto di negazione si comporta come
una “ruota che gira a vuoto” – ma l’essenziale è che
possiamo trattare negli stessi termini di fondo nozioni
diverse come quella di io metafisico (ma anche quella
del mio io personale attuale – almeno in un senso ovvio,
coincidente con la prima) e quella dei vari io personali.
È solo a questa condizione che la picture-theory può
aspirare seriamente a rendere conto delle intuizioni del
realismo – rendendo di fatto comprensibile (senza
ricorrere all’induzione) la capacità che le persone
(compreso il mio io personale attuale) certamente hanno
– almeno per una buona misura – di capirsi
reciprocamente.

4.9. Una delle critiche che più di frequente sono state


mosse a Wittgenstein è che il suo principio di vero-
funzionalità ha applicabilità solo limitata, dato che nelle
attribuzioni di credenza, sembra chiaro che ci sia una
composizione di proposizioni che non rispettano tale
principio: il valore di verità di “Gianni crede che p”

100
non dipende da quello di “Gianni crede che - ” e “p”.
Mi sembra che Wittgenstein mostri di avere ben
presente questa obiezione, ma intenda
programmaticamente seguire una direzione diversa. Il
principio di vero-funzionalità è così enunciato:

5 La proposizione è una funzione di verità delle


proposizioni elementari. ...
5.54 Nella forma proposizionale generale la proposizione
occorre nella proposizione solo quale base delle
operazioni di verità.

Ma

5.541 A prima vista pare che una proposizione possa


occorrere in un’altra anche altrimenti.
Particolarmente in certe forme proposizionali della
psicologia, come «A crede che p», o «A pensa p», etc.
Qui, infatti, superficialmente sembra che la proposizione
p stia in una specie di relazione ad un oggetto A.
(Ed è così che, nella gnoseologia moderna (Russell,
Moore, etc.), sono state concepite quelle proposizioni.)
5.542 Ma è chiaro che «A crede che p», «A pensa p»
sono della forma «<p> dice p»: E qui si tratta non d’una
coordinazione d’un fatto e d’un oggetto, ma della
coordinazione di fatti per coordinazione dei loro oggetti .

Pare di potersi intendere agevolmente che Wittgenstein


non ponga il requisito che le attribuzioni di credenza
siano vero-funzionali, o, perlomeno, ritiene che le loro
parti componenti non siano del tipo “A crede che -” e
“p”. C’è solo una relazione interna – esattamente del
tipo di quelle previste dalla picture-theory a base della

101
relazione di raffigurazione – tra la mia immagine del
fatto che p e la mia immagine di A che crede p.
Un’identità parziale tra le due immagini mi permette di
valutare in che misura l’immagine che A ha del fatto che
p coincida con la mia, i. e. – in virtù di quanto detto alla
4.062 – in che misura la credenza di A sia vera
(coincidente con la mia).
L’identità deve essere solo parziale perché
naturalmente posso distinguere tra un pensiero in quanto
è espresso da me, e lo “stesso” pensiero in quanto
espresso da una certa altra persona. Anche Anscombe
(1966, p. 81) precisa che “Forse non è del tutto esatto
dire che 'A giudica p' è della forma '«p» dice che p'; egli
avrebbe dovuto dire piuttosto che la parte essenziale di
'A giudica p', la parte che si riferisce all’avere qualcosa
come proprio contenuto una rappresentazione
potenziale del fatto che p, è della forma '«p» dice che p':
'A crede p' o 'pensa p' o 'dice p' devono significare 'si
trova in A o è presentato da A qualcosa che è (capace di
essere) una raffigurazione di p'”. Si tratta di un
enunciato che contiene una parte di tipo fattuale: si dice
che A usa un segno proposizionale con la stessa
molteplicità che p. Ma anche una componente di tipo
logico: «p» ha la stessa molteplicità che p.
Che a Wittgenstein non interessi sviluppare un
trattamento vero-funzionale delle attribuzioni di
credenza, rivela che ha ben chiara in mente l’asimmetria
di fondo tra i giudizi dell’io metafisico (ma anche di
me-ora), per i quali non ha senso supporre che siano
falsi, perché non posso concepirlo (antinomia del
mentitore: chi dice “Quello che sto dicendo è falso”,

102
obbliga chi lo ascolta a considerare intrinsecamente
contraddittorio il contenuto della sua frase, dato che ciò
che dice, se si assume che sia vero, si deve concludere
che è falso, e se si assume che sia falso, si deve
concludere che è vero), e i giudizi delle persone che
vengo a conoscere empiricamente, per i quali una tale
eventualità è del tutto ammissibile. L’analisi vero-
funzionale per definizione è applicabile sensatamente
solo a questi ultimi: il soggetto metafisico può intendere
che le premesse da cui parte una persona S siano false,
quindi l'analisi vero-funzionale si applica di fatto solo a
proposizioni-oggetto, che sono solo “citate” dall'io
metafisico.

4.10. Wittgenstein prosegue:

5.5421 Questo mostra che l’anima – il soggetto, etc. –


come è concepita nella superficiale psicologia odierna, è
un assurdo.
Un’anima composta, infatti, non sarebbe più un’anima.

Ciò di cui Wittgenstein ritiene si possa dire che è


un’“anima”, è il soggetto metafisico – che è il “limite”
del mondo, quindi è semplice. Viceversa un’“anima”
come fascio o comunque insieme di percezioni etc. –
quale è studiata dalla “psicologia odierna” – è
perlomeno una nozione poco rilevante per i fini del
Tractatus, dato che l’“anima” dell’io metafisico è vista
tout court come “uno spirito ... comune al mondo
intiero” (Quaderni, 15.10.16). La citazione è tratta da un
periodo in forma interrogativa, ma il contesto rende
chiaro che è proprio questa l’opzione che Wittgenstein

103
preferisce, visto che ad es. già poche righe dopo
prosegue:

E in questo senso posso anche parlare d’una volontà


comune al mondo intiero.
Ma questa volontà è in un senso più alto la mia volontà.
Come la mia rappresentazione è il mondo, così la mia
volontà è la volontà del mondo.
(Quaderni, 17.10.16)
...Una pietra, il corpo d’un animale, il corpo d’un uomo, il
mio corpo, stanno tutti sullo stesso livello... (Quaderni,
12.10.16)

4.11. Abbiamo visto come gli Hintikka avanzino la tesi


dell’“ineffabilità della semantica”, basata sulla
considerazione che i segni linguistici non possono
essere spiegati, senza ricorrere necessariamente ad altri
segni linguistici. Dato però che ad es. i segni impiegati
nelle lingue nazionali possono essere spiegati e descritti
in un’altra lingua nazionale, il presupposto di questa
tesi viene individuato in una concezione del “linguaggio
come mezzo universale”, quindi unico: solo a questa
condizione è plausibile sostenere che non se ne possa
“uscire” (o più esattamente: si “mostra” di fatto
l’impossibilità di uscirne).
Mi sembra però che questo presupposto conduca
inevitabilmente a dover cercare una giustificazione per
la pretesa di questo linguaggio “unico”, e questo può
avvenire, certamente, ma solo uscendo dai confini della
semantica pura (sia essa vista come ineffabile o meno).
Gli Hintikka in effetti ricostruiscono il percorso di

104
Wittgenstein spiegando una tale pretesa con la tesi del
“linguaggio come mezzo universale” (HINTIKKA-
HINTIKKA, 1990, p. 18), ma parlano di “dogma
dell’universalità del linguaggio” (ivi, p. 73) ed
esprimono forti dubbi sulla sua “radicale convinzione
dell’inesprimibilità di tutto ciò che è semantico” (ivi, p.
8).
In generale, l’introduzione di un tale linguaggio
unico può essere in linea di principio giustificata
mostrando che la sua semantica ha una base “naturale”
nelle conoscenze e credenze di chi lo utilizza. Se
guardiamo agli stati mentali delle persone, possiamo
pensare ad es. ad una nozione come quella di
“mentalese”. Ma sarebbe possibile pure, in linea di
principio, fare delle affermazioni direttamente sul
mondo e l’ontologia, che stiano alla base della
giustificazione della semantica delineata.
In realtà con questo percorso logico, arriviamo a
trattare un punto che è centrale per la comprensione del
Tractatus e che è stato, io credo, alla base di moltissimi
fraintendimenti. Una delle accuse che si rivolge più
volentieri a Wittgenstein, lo giudica un pensatore
“dogmatico” perché si limiterebbe a postulare che il
mondo abbia certi caratteri, solo sulla base
dell’assunzione che essi sono necessari perché il nostro
linguaggio sia capace di descriverlo. “[S]e l’avessero
sfidato a spiegare perché dobbiamo supporre che
linguaggio e mondo siano connessi in quel particolare
modo, per sua stessa ammissione non sarebbe stato in
grado di dare una risposta letterale” (J ANIK-TOULMIN,
1975, p. 192). Wittgenstein “non definisce il reale che

105
secondo le esigenze del linguaggio” (RIVERSO, 1970, p.
52). Il Tractatus “impone a priori al mondo l’ordine
richiesto [“affinché un linguaggio, vale a dire
proposizioni dotate di senso, siano possibili in
generale”], ma non fa niente di più. Questo è
semplicemente postulato, e caratterizzato in termini tali
da non fornirci nessuna direttiva precisa per un’analisi
della realtà suscettibile di farlo apparire realmente ... il
Tractatus in fondo ... è un’opera di metafisica
dogmatica” (BOUVERESSE, 1982, p. 41). G. C. M.
Colombo descrive tutto il “trascendentalismo logico”
del Tractatus come introdotto mediante “un semplice
presupposto. Non si vede infatti perché ... se nella realtà
si dà, ad es., una relazione fra due oggetti, questa stessa
relazione debba intercorrere fra i simboli di quegli
oggetti” (COLOMBO, 1954, p. 99).
Se accettiamo l’interpretazione semantica, c’è un
forte rischio che dovremo trovarci a dare ragione a
questa critica – e considerare quindi la teoria esposta nel
Tractatus come sostanzialmente priva di un fondamento
argomentativo. Gli oggetti, la sostanza del mondo, sono
il significato dei nomi. Gli oggetti sono introdotti perché
altrimenti

2.0212 Sarebbe allora impossibile progettare


un’immagine del mondo (vera o falsa).

Sembrerebbe quindi che una tesi ontologica


impegnativa come quella sulla sostanza del mondo,
venga giustificata sulla sola base che altrimenti la nostra
immagine del mondo non sarebbe capace di descriverlo.

106
È chiaro però che la nostra immagine del mondo può
essere benissimo, anche per principio, incapace di
descrivere il mondo. Ma di questo lo stesso Wittgenstein
era ben consapevole:

... E se i nostri segni fossero così indeterminati come il


mondo che rispecchiano? ... (Quaderni, 23.10.14)

Mi sembra quindi che si diano due casi:


(i) o rimaniamo fermi all’idea che Wittgenstein spiega il
processo di proiezione come relativo direttamente al
segno proposizionale e al fatto raffigurato, senza
richiedere l’intermediazione del pensiero (in senso
psichico) – come in un certo senso è comunque vero; e
quindi non darebbe importanza in generale al pensiero,
che rimarrebbe sostanzialmente fuori dai suoi interessi.
In questo caso il significato del nome, di cui si
afferma che è “il fisso, il sussistente”, dovrebbero essere
i designati esistenti nel mondo.

... Onde viene questo sentimento: «A tutto ciò che vedo, a


questo paesaggio, al volare dei semi nell’aria, a tutto ciò
posso coordinare un nome; che cosa infatti, se non questo,
dovremmo chiamare nome»?! ... (Quaderni, 30.05.15)

Ciò vorrebbe dire che si è individuata una sostanza


immutabile, che contiene gli elementi costitutivi ultimi
del mondo che tutti conosciamo. Ma questa
postulazione avrebbe un carattere empirico: sia perché,
come abbiamo visto, la sintassi logica che abbiamo
scelto può essere smentita dall’esperienza, sia perché,
più in generale, non abbiamo motivi in realtà per

107
pensare che il designato ad es. della parola “foglia”
debba risultare immodificabile. Una postulazione di
questo genere, intesa in senso empirico, è del tutto
inverosimile: sarebbe come richiedere, ad es., che i
mobili in una stanza non debbano essere mai spostati,
estendendo poi questa richiesta ad ogni oggetto esistente
ed ogni suo aspetto. Ma l’esegesi linguistico-semantica,
unita all’accusa di dogmatismo, porta proprio in questa
direzione: partendo, più o meno dogmaticamente, dalla
(pretesa) constatazione che il linguaggio viene di fatto
usato e capito, Wittgenstein risalirebbe, per abduzione, a
certi caratteri che la realtà in quanto tale, dovrebbe
possedere per poter essere descritta dal linguaggio. In
particolare, questi caratteri includerebbero l’esistenza di
una sostanza del mondo: oggetti semplici, fissi e
immutabili. A questo punto però diventa estremamente
paradossale immaginare che un’assunzione di questo
genere possa essere intesa in senso fattuale – in modo da
prestarsi a previsioni e smentite –, come
l’interpretazione semantica implica: se il problema che
Wittgenstein ha più a cuore è quello del rapporto tra
segni linguistici e realtà (empirica) descritta dal
linguaggio, sarà questa realtà a dover essere costituita di
oggetti immutabili. Se il designato di un termine
semplice mutasse, avremmo una confutazione
(empirica) della teoria39.
39
Gli Hintikka sostengono in effetti che l’inalterabilità è in senso
logico (da un mondo possibile ad un altro) e non temporale, ma
contemporaneamente intendono che la sostanza del mondo è
l’insieme degli oggetti di conoscenza immediata, in particolare
esperienze sensibili, che hanno il carattere di “un essere
momentaneo, o più esattamente atemporale”: “il carattere

108
Anche se si sceglie un esempio più favorevole
(poniamo: una certa sfumatura di rosso, considerata in
quanto tale), la sua (supposta) semplicità non ne
garantisce affatto l’inalterabilità: se intendiamo che a
designare sia un segno linguistico (la parola “rosso”),
abbiamo accesso indipendente alla conoscenza del
designato, quindi nulla si oppone a pensare che, in
effimero dei dati sensoriali e di molti altri oggetti di conoscenza
diretta non impedisce loro minimamente di essere sostanziali
nel senso di Wittgenstein. Wittgenstein non parla di variazioni
nel tempo, ma di variazioni da un’intera storia del mondo ad
un’altra” (HINTIKKA-HINTIKKA, 1990, p. 114). Se accettiamo
questa versione, vorrebbe dire però solo che nel migliore dei
casi il sistema di Wittgenstein funziona, nel senso che è
coerente con l’esperienza, ma rimarrebbe aperta la questione
(sollevata dagli stessi Hintikka) del suo dogmatismo. Inoltre mi
sembra che le due istanze fatte valere non siano facilmente
conciliabili (perlomeno se si rimane in un quadro solo-
semantico): (a) se i designati dei termini semplici sono
atemporali, come facciamo a collocarli in una “storia del
mondo”, e quale posto può avere allora una semantica? I segni
linguistici servono a parlare di fatti ora non presenti: in
un’interpretazione semantica è essenziale che ci sia – anche
formalmente – un procedere della storia, altrimenti tutta la
picture-theory non avrebbe ragione e possibilità d’esistere.
Inoltre (b) se i dati sensoriali sono “effimeri”, ma costituiscono
il materiale con cui immaginiamo ogni mondo possibile, e se il
processo dell’immaginare è costituito da un meccanismo che si
basa interamente su relazioni di tipo logico, allora il mondo
“esterno” è ridotto logicamente a quello “interno” dei dati
sensoriali e degli “altri oggetti di conoscenza diretta”. Come
possono essere allora l’uno costituito da entità effimere, l’altro
da entità indistruttibili? In base a 2.022, ciascun oggetto che
ricorre nei vari mondi immaginati dovrebbe ricorrervi sempre
come lo stesso oggetto, unico anche numericamente; ma così
sarebbe un unico materiale a costituire sia il mondo attuale, sia i

109
futuro, possa cambiare aspetto (ad es. diventare verde).
Più in generale siamo del tutto liberi di interpretare i
cambiamenti cui assistiamo in natura (una foglia verde
che diventa gialla) mediante una metafisica che non
postuli l’immutabilità dei costituenti ultimi. Il nostro
linguaggio possiederebbe, allora, solo una certa misura
(del tutto plausibile) di indeterminazione.
Intuitivamente possiamo avere dei dubbi a muovere
questa critica a Wittgenstein: può il verde diventare
giallo? È ben noto ad es. il dibattito creato dal paradosso
di Goodman. Ma se questi dubbi sono giusti, credo che
possano essere coerentemente formulati solo ricorrendo
ad un altro ordine di considerazioni, che cercherò ora di
presentare al punto seguente. Ciò che è più importante,
in questa discussione, è che vedere la picture-theory
come una descrizione del rapporto tra segni linguistici e
mondo, ha la conseguenza di far apparire il Tractatus
come un’opera estremamente dogmatica. Una tale
convinzione è diffusa in buona parte della letteratura, e
mostrare che essa può essere messa in dubbio è
l’obiettivo di tutto quanto questo mio scritto. Nelle righe
che seguono qui subito, mi limito a delineare in modo
sintetico un modo particolare di intendere la mia
argomentazione complessiva.
(ii) Le cose sono molto diverse infatti se intendiamo che
il rapporto di designazione (o almeno quello tra i
possibili rapporti di designazione che più ci interessa)
sia tra l’“immagine” più ampia che siamo riusciti a

diversi mondi possibili. In generale, si dovrebbe pensare che il


carattere dell’inalterabilità, proprio delle entità di partenza,
venga riconosciuto “a cascata” a tutte le entità derivate.

110
comporre (l’immagine “mentale” – quella che tocca il
“limite” del pensiero), e il designato (la “cosa in sé”): in
questo caso (per un ragionamento molto simile a quello
di Kant) a priori non possiamo immaginare che il
designato contraddica o sopravanzi la designazione,
mostrandosi “mutevole” rispetto ad essa. La
trasformazione di una foglia da verde in gialla dovrà
essere interpretata mediante un’ontologia come quella
wittgensteiniana: il fatto è che l’interpretazione
semantica vede la picture-theory come volta a
descrivere il rapporto tra i segni linguistici e una realtà,
esterna al linguaggio, ma da noi comunque conoscibile
attraverso l’esperienza, che quindi potrebbe dimostrarci
la falsità dell’assunzione di una sostanza del mondo
(assunzione che, in un tale quadro, a questo punto
verosimilmente dovrebbe essere considerata dogmatica
e implausibile – dato che una tale confutazione avviene,
in un certo senso, ad ogni momento). Invece secondo la
mia chiave di lettura, Wittgenstein: (a) si preoccupa
soprattutto di spiegare il rapporto tra rappresentazione
mentale e mondo: in questo diverso quadro, non ha
senso porre l’eventualità che dall’esperienza possa
venire una confutazione della rappresentazione che
impieghiamo. L’evento che confuta la nostra
rappresentazione dobbiamo comunque essere noi a
rappresentarcelo (altrimenti non staremmo neppure
afferrando la confutazione). Non potremmo nemmeno
concepire un mutamento nella sostanza del mondo: nel
momento in cui immaginassimo che un oggetto si
trasformi, staremmo semmai immaginando un altro
oggetto, diverso dal primo.

111
2.02 L’oggetto è semplice.
2.021 Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò
non possono essere composti.

Vedremo meglio più avanti la questione, ma è chiaro


che per concepire il cambiamento di qualcosa,
dobbiamo porla nel contesto di una proposizione,
abbandonando così il piano degli oggetti – semplici – e
della sostanza del mondo. (b) La soluzione che
Wittgenstein prospetta per spiegare il rapporto mente-
mondo è, formalmente, di tipo idealista-solipsista, anche
se il concetto di proposizione gli permette di fare salve
le intuizioni del realismo. In questo quadro, che non ci
possa essere una confutazione del senso con cui
individuiamo ogni singolo oggetto, diventa una vera e
propria verità logica, che non è esposta alla possibilità
di confutazione empirica implicata dall’interpretazione
semantica. (La possibilità di giudizi falsi, connessa con
il realismo, è giustificata, come abbiamo visto, mediante
il concetto di proposizione).

112
5

Sostanza del mondo e induzione (1)

5.1. Vorrei trarre quindi alcune conseguenze importanti


per la mia teoria dell’induzione.
Se la teoria della raffigurazione spiega la nostra
capacità di immaginare una scena alla quale non
abbiamo mai assistito, analizzando la proposizione che
la descrive nei suoi elementi costitutivi, e questi devono
essere tutti già noti – o perché ci sono stati spiegati (i
nomi), o perché sono immediatamente visibili (secondo
alcune interpretazioni, tali sarebbero appunto la forma o
la relazione tra gli oggetti), tutto ciò che è riferito da un
nome in quanto tale all’oggetto designato, deve
comparire necessariamente in ogni contesto in cui il
nome compaia. Se il nome “sole” viene riferito ad un
oggetto che è circolare ed è luminoso, ogni volta che
utilizzeremo la parola, dovremo includere entrambe le
proprietà – e questo mi sembra un buon inizio per
spiegare ragionevolmente l’induzione.
Si vede come si siano fatte valere assunzioni che
sembrano del tutto diverse da quelle del Tractatus: il
“sole”, definito come “disco luminoso”, non sembra
possa essere considerato un oggetto semplice, proprio
per la presenza di queste due proprietà insieme.
La forza di questa obiezione viene in parte smorzata
se andiamo a guardare l’euristica seguita da
Wittgenstein:

... Se dò a questo libro un nome «N» e ora parlo di N, non

113
è il rapporto di N a quell’<oggetto composto>, a quelle
forme e contenuti, essenzialmente lo stesso che io
pensavo solo tra nome e oggetto semplice?
Infatti n.b.: anche se il nome «N» scompare col proseguir
dell’analisi, tuttavia esso índica un’unica essenza comune
... (Quaderni, 14.6.15)
La complessità d’un oggetto, se è determinante per il
senso d’una proposizione, dev’essere raffigurata nella
proposizione nella misura in cui determina il senso della
proposizione. E, nella misura nella quale la composizione
non è determinante per questo senso, in questa misura gli
oggetti di questa proposizione sono semplici. ESSI non
possono essere scomposti ulteriormente ... (Quaderni,
18.6.15)
... Questo oggetto è semplice per me! ... Il nome riduce ad
unità tutto il suo significato complesso. (Quaderni,
22.6.15)

L’importanza di questi passi è stata giustamente


enfatizzata da Gargani (1966, pp. 35-36) e Marconi
(1971, pp. 32 ss., 1987, pp. 27 ss.), che li hanno visti
come il segno di un’inclinazione verso una forma di
relativismo linguistico già presente nel Tractatus
(d’altra parte relativismo e solipsismo possono essere
agevolmente visti come due espressioni diverse di una
idea molto simile: si vede come, in certo senso, sempre
l’uno conduca all’altro40).
Su questa base, possiamo pensare che la
“complessità” (relativa) dell’oggetto che abbiamo scelto
di lasciare inanalizzata, dovrà poi contenere a sua volta
40
“Sembra che il solipsismo di Wittgenstein nel Tractatus sia in
parte un modo di illustrare un tale relativismo linguistico”
(HINTIKKA-HINTIKKA, 1990, p. 47).

114
proprietà più semplici (come “avere forma circolare” ed
“essere luminoso”) che dovranno essere sempre
applicate insieme.
La mia impressione è che Wittgenstein nel Tractatus
adotti una terminologia che, per convenzione, esclude
che l’espressione “oggetto” possa essere riferita ad un
oggetto non semplice. In ciò è coerente con la
proposizione 5.6: se un oggetto è semplice per me, non
posso uscire dal (mio) linguaggio ed immaginarlo come
composto (per un altro); quindi, in un senso
fondamentale, l’oggetto è semplice – in assoluto. Ma
pure, su aspetti essenziali, mantiene lo schema euristico
del Quaderni:

3.23 Il requisito della possibilità dei segni semplici è il


requisito della determinatezza del senso.

Ma ad es. la 3.24 ammette una qualche forma di


indeterminatezza della proposizione – che vedremo
meglio in seguito. Quindi, finché il senso non sia
interamente determinato (e non è necessario che lo sia
da subito, prima di un’analisi che, peraltro, è forse
impossibile) potremmo ammettere oggetti solo
relativamente semplici.

5.2. Indipendentemente da queste considerazioni, però,


è tutta la logica compositiva della picture-theory che
(prevedibilmente) ci obbliga ad essere prudenti nel
valutare la possibilità di un suo re-impiego al servizio
dell’induzione. Secondo la mia interpretazione infatti
c’è in essa sì (i) una componente di induttivismo: gli

115
oggetti, per garantire la costanza e l’univocità del
significato, devono essere inalterabili, cioè comparire
sempre uguali a se stessi in ogni stato di cose in cui
figurano.
Se ammettiamo che una relazione R che intercorre tra
gli oggetti A e B, sussista interamente in dipendenza
dalla natura particolare di A, B, e forse R (se non
riduciamo R a qualcosa che dipende ontologicamente
essa stessa da A e B medesimi41), e se immaginiamo che
“smeraldo”, “verde”, e forse “...è...”, siano esempi di
oggetti (per i quali vale il principio che non sono
suscettibili di alcuna alterazione), dobbiamo quindi pure
ammettere che questa relazione sia affermata ipso facto
per ogni fatto in cui compaiono A, R e B. In altre parole
dovremmo ammettere che “Gli smeraldi sono verdi” sia
un’uniformità di natura.
Si vedrà più in dettaglio in seguito che il problema –
centrale nel dibattito sul Tractatus – su come
individuare degli esempi di oggetti realmente semplici,
perderebbe per questa via di rilevanza: se “smeraldo”
fosse composto a sua volta (poniamo) di una “forma” e
di una “consistenza al tatto”, la relazione tra questi due
oggetti costituenti dovrebbe a sua volta essere sempre
confermata. Possiamo quindi considerare esempi
persuasivi di oggetti – senza dover temere alcuna
complicazione – proprio i candidati più naturali a
ricoprire questo ruolo: le unità elementari di significato
con cui operiamo.
41
Il dibattito al riguardo è molto acceso. Per Copi (1958) la
3.1432 indica che in “A-R-B” , “R” non indica qualcosa che
esista indipendentemente da A e B.

116
Ma insieme è evidente (ii) una fortissima
componente di anti-induttivismo: tutta la picture-theory
è destinata a mostrare come oggetti (noti) possano
ricomporsi in combinazioni nuove (un po’ come nelle
teorie del giudizio di Locke e Hume). Questo risultato lo
si cerca di guadagnare mediante la nozione di “fatto”,
descrivibile solo da “proposizioni”:

2.0231 La sostanza del mondo può determinare solo una


forma, non già proprietà materiali. Infatti queste sono
rappresentate solo dalle proposizioni – sono formate solo
dalla configurazione degli oggetti.

Le proprietà interne – le proprietà che vanno a costituire


la “forma”, la “sostanza del mondo” – si “mostrano”. Le
proprietà empiriche (contingenti), devono essere “dette”
attraverso proposizioni42. Le proprietà esterne non
possono ritrovarsi negli oggetti in quanto tali, ma
derivano essenzialmente dal loro essere composti in
fatti:

2.01231 Per conoscere l’oggetto non ne devo conoscere,


è vero, le proprietà esterne – ma tutte le sue proprietà
interne le devo conoscere.

Le stesse proposizioni, a loro volta, possono


rappresentare la configurazione degli oggetti solo

42
Il peso del passo è accresciuto da come Wittgenstein spiegherà
la proposizione 1.1 nelle Lezioni 1930-1932 (p. 144): “Ciò che
il mondo è, è dato da una descrizione e non da una lista di
oggetti. Così le parole non hanno senso se non nelle
proposizioni”.

117
perché devono essere esse stesse obbligatoriamente
“fatti”:

3.142 Solo i fatti possono esprimere un senso; non una


classe di nomi.

Le difficoltà ontologiche che tutto questo quadro pone


sono evidenti, e andranno viste con la massima cura, ma
è bene soffermarsi subito su un'importante obiezione,
che senza dubbio verrà sollevata. La mia ipotesi è che si
possano utilizzare alcune argomentazioni del Tractatus
per elaborare una teoria di tipo induttivista, ma, anche
se ovviamente si riconosce che tutta questa operazione
va in ogni caso ben oltre le intenzioni di Wittgenstein,
non è azzardato e paradossale voler utilizzare un'opera
così chiaramente anti-induttivista per scopi che sono
estremamente lontani da quelli per cui il suo autore l'ha
prodotta? La risposta è che, come si vedrà meglio in
seguito, la definizione del problema dell'induzione può
avvenire in due modi tra loro differenti: 1) il soggetto
epistemico fa una serie di osservazioni, e congettura che
le uniformità riscontrate saranno confermate
dall'osservazione futura: è giustificato a farlo? Si noti
che in questo quadro gli altri soggetti epistemici sono
essi stessi “oggetto” di conoscenza da parte del soggetto
di riferimento, che con sue proprie operazioni logico-
cognitive (che si possono supporre esse stesse di forma
induttiva) osserva delle (altre) persone ricostruendo –
nella misura in cui ne è capace – le loro credenze.
Oppure 2) ci si serve di una teoria che considera
originario (i. e. descrive attraverso i propri postulati, e

118
non attraverso i propri teoremi) il dato di una pluralità di
soggetti epistemici, qualificati tutti in base ad un ruolo
epistemologico formalmente identico (sono tutti
“soggetti epistemici”): si potrà considerare accettabile
allora una posizione induttivista solo se sarà in grado di
dar conto delle osservazioni, delle aspettative e dei
risultati dei controlli eseguiti da ciascuno di questi
soggetti. Chi parte da una posizione realista, si troverà
ad accentuare le esigenze espresse in (2), chi si muove
in un quadro più orientato all'idealismo o al
soggettivismo, considererà preferibile la prospettiva (1).
Wittgenstein si trova in una condizione ambigua, perché
parte in effetti da una cornice formale di tipo idealista,
ma vuole trovare il modo di dar conto – rimanendo
all'interno dei vincoli di coerenza logica che essa pone –
di tutte le intuizioni del realismo. È comprensibile
quindi che Wittgenstein concluda con una posizione
anti-induttivista: in una situazione teorica di tipo (2) è
molto difficile dar conto di un'inferenza di forma
induttiva: persone diverse (o la stessa persona in
momenti diversi) partono necessariamente da
un'informazione iniziale che almeno in parte è
differente, ma 1) (anche se solo per approssimazione) si
può supporre comunque vera, 2) conduce sullo stesso
oggetto di indagine a conclusioni (induttive)
contraddittorie rispetto a quelle di chi parte da una
diversa informazione iniziale (a limite conclusioni che
assegnano diversi gradi di probabilità ad una stessa
legge).
La strategia che qui cercherò di sviluppare sarà
quindi, più o meno, la seguente: a) l'argomentazione che

119
porto in difesa dell'induzione per sua logica interna può
essere efficace solo in una situazione teorica di tipo (1),
b) una volta messa a punto questa argomentazione, però,
possiamo far valere un'assunzione empirica del tutto
ragionevole, per la quale persone diverse saranno in
possesso di informazioni iniziali solo in parte diverse:
per la parte restante, quindi in un buon numero di casi,
ci si potranno attendere uniformità di natura
riconoscibili come tali anche in una prospettiva
interpretata nei termini del realismo. c) Si noti che
Wittgenstein non poteva arrivare a questa conclusione,
perché si sarebbe trattato di far valere un'assunzione di
tipo empirico, non dimostrabile logicamente, all'interno
di una teoria che si proponeva di essere costruita
esclusivamente con strumenti di tipo logico. d) Per
Wittgenstein la risposta che cerco di elaborare al
problema dell'induzione, sarebbe stata in realtà
inappropriata, dato che in effetti dovrò limitarmi a dire
una cosa del tipo: il soggetto epistemico, raccogliendo
un certo insieme di informazioni (utilizzando un certo
numero di “oggetti”), è portato per una necessità a
priori a generalizzare (induttivamente) i rapporti che gli
si mostrano tra gli oggetti considerati, ma i suoi risultati
non saranno vincolanti per altri soggetti epistemici
(quindi neppure per la “stessa” persona in un istante
successivo della sua vita). (Il fatto che questi “soggetti
epistemici” vengano analizzati teoricamente dal
soggetto di riferimento come “oggetti” di conoscenza,
non comporta naturalmente che il loro punto di vista –
per quanto compaia formalmente solo a livello di
linguaggio-oggetto – risulti “in concreto” ai suoi occhi

120
meno fondamentale e rilevante, o dotato di un minore
potere orientativo: semplicemente questi caratteri
verranno “dedotti” – più esattamente verranno inferiti
induttivamente a partire da quella che, formalmente, è
“esperienza” – e non solo “postulati”). In un senso
“concreto” e sostanziale, non potrei cioè mai
considerare queste riflessioni come uno strumento che,
adeguatamente sviluppato, possa permettere di
dimostrare che l'inferenza induttiva è valida in generale
e a priori come metodo di “previsione”. Mi sembra però
che ci sia un certo spazio per metterlo al servizio di una
giustificazione meta-induttiva dell'induzione: sul piano
meta-logico (quello dell'io metafisico) questa
dimostrazione può essere sostenuta; sul piano delle
teorie-oggetto (quelle delle persone che l'io metafisico
“conosce”) dobbiamo sì far valere un'assunzione
empirica, ma che, in genere, risulta confermata –
almeno in una misura che possiamo supporre molto
considerevole.
Il risultato sarebbe a questo punto che le procedure di
previsione induttiva ricevono una giustificazione non
superiore – né inferiore – a quella che sembra essere
resa legittima dall'esperienza quotidiana. Ma anche solo
per dare a queste considerazioni un certo aspetto di
plausibilità, è necessario ancora procedere in un lavoro
di analisi e approfondimento di dimensioni
estremamente ampie.

121
6

La natura della semplicità

6.1. Sembra che le vie per cui Wittgenstein introduce la


nozione di “oggetti” come entità semplici e
indistruttibili, siano essenzialmente due.
1) Sono necessari per garantire un senso determinato
alle proposizioni:

3.23 Il requisito della possibilità dei segni semplici è il


requisito della determinatezza del senso.

2) Sono necessari per evitare un regresso infinito


nell’analisi della proposizione:

2.021 Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò


non possono essere composti.
2.0211 Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una
proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere
un’altra proposizione vera.
2.0212 Sarebbe allora impossibile progettare
un’immagine del mondo (vera o falsa).
2.022 È manifesto che un mondo, per quanto diverso sia
pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il
mondo reale qualcosa – una forma –.
2.023 Questa forma fissa consta appunto degli oggetti.

Le argomentazioni riportate in (1) e (2) sono accettate


nella maggior parte delle letture come essenziali per
intendere il Tractatus. Come base iniziale per una loro
prima problematizzazione, vorrei citare:

122
4.2211 Anche se il mondo è infinitamente complesso,
così che ogni fatto consta d’infiniti stati di cose ed ogni
stato di cose è composto d’infiniti oggetti, anche allora vi
devono essere oggetti e stati di cose.

Wittgenstein non sembra quindi escludere la possibilità


di un regresso infinito nell’analisi, semplicemente
perché ammette l’eventualità di uno stato di cose
“composto d’infiniti oggetti” – e in ogni caso si parla
come se un limite che riguardi la nostra capacità
d’analisi, non sia sufficiente da solo per concludere che
gli oggetti sono di per se stessi semplici.
Contro (1) poi, si può legittimamente pensare che
delle difficoltà sorgano da:

3.24 ... Che un elemento proposizionale designa un


complesso si può vedere da un’indeterminatezza nelle
proposizioni ove l’elemento occorre. Noi sappiamo che
da questa proposizione non ancora tutto è determinato. ...

Wittgenstein sembra quindi ammettere la possibilità di


comprendere una proposizione il cui senso non sia del
tutto determinato – i. e., se l’analisi della proposizione
non è ancora giunta a compimento, comunque qualcosa
da essa capiamo. Inoltre viene detto con chiarezza:

4.002 L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi,


con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare
come e che cosa ogni parola significhi. ...

Si aggiunga poi che, come abbiamo già ricordato, per

123
Wittgenstein non era necessario poter fornire esempi di
oggetti, ma, se la comprensione del senso richiedesse
l’analisi completa della proposizione, ne seguirebbe
implicitamente che possiamo fare esempi di oggetti –
perlomeno se capiamo almeno una proposizione.
La 2.021 stabilisce espressamente la connessione tra
i requisiti dell’assoluta semplicità e dell’indistruttibilità
degli oggetti. Dobbiamo però notare che:

2.0271 L’oggetto è il fisso, il sussistente; la


configurazione è il vario, l’incostante.
2.0272 La configurazione degli oggetti forma lo stato di
cose.

In 2.021 cioè, Wittgenstein sta definendo la contingenza


in termini di costituenti elementari non contingenti. Ma
non rende esplicita alcuna argomentazione in difesa di
questa concezione (Frascolla [2000, p. 82] lo chiama
“postulato atomistico”).
Quanto sarebbe stato opportuno elaborare una difesa
meno sbrigativa lo si vede dal fatto che quella proposta
è un’idea assai antica e rispettabile, risalente perlomeno
a Democrito – con l’antico atomismo quindi non ci
sarebbe solo un’assonanza generica, ma anche
importanti tesi in comune. Ma, secondo Aristotele, il
presupposto di questa visione era in Parmenide. Fu dal
suo principio: l’essere è e non può non essere, quindi il
divenire e la molteplicità sono illusori – che nacque il
tentativo di definire gli stati contingenti del mondo in
termini di combinazioni di elementi più semplici che
avessero la natura dell’“essere” immutabile parmenideo.
Si tratta di una strategia di pensiero del tutto

124
legittima, e anzi di estremo interesse, ma per nulla
scontata: si consideri ad es. la diversità delle soluzioni
proposte da Platone ed Aristotele. Se accettiamo di
ricostruire il pensiero di Wittgenstein su questa falsariga
dovremo considerare il suo modo di procedere in effetti
sbrigativo e “dogmatico”.
In ogni caso la lettura più diffusa mette in relazione
da vicino (1) e (2). Ad es. Black (1967, p. 66): “se non
esistessero degli oggetti ultimi in connessione diretta
con i nomi che li rappresentano, nessuna proposizione
potrebbe dire nulla di definito, cioè nessuna
proposizione potrebbe dire nulla del tutto ... Il senso di
[un enunciato] S1 dipenderebbe dalla verità di un altro
enunciato, S2 (in cui si affermerebbe l’esistenza di un
complesso apparentemente menzionato in S1), ed il
senso di S2 dipenderebbe dalla verità di un altro
enunciato, S3 e così via all’infinito. Questo sarebbe un
regresso vizioso: non potremmo conoscere mai il senso
preciso di un dato S1, senza conoscere preliminarmente,
per impossibile, che un’infinità di altre proposizioni è
vera”. Black sottolinea che, in questa interpretazione,
possiamo spiegare anche la 4.2211: una serie infinita di
oggetti è possibile, ma è il senso della proposizione che
rimarrebbe così indeterminato. Mi sembra però che,
posto che “il nostro linguaggio è in ordine così com’è”
(5.5563), ne segue che nel linguaggio ordinario noi
usiamo proposizioni, l’analisi delle quali abbiamo
(almeno implicitamente) completata. A questo punto
però dovremmo essere immediatamente in grado di fare
esempi di oggetti, mentre lo stesso Wittgenstein dirà in
seguito che, al tempo della composizione del Tractatus,

125
non riteneva questo un suo compito (v. M ALCOLM, 1988,
pp. 99-100, cit. qui in nota 26).
Sembra inoltre, come vedremo meglio in seguito, che
per una proposizione, avere un senso determinato,
significhi solo che ciò che dice, lo dice con esattezza,
mentre quello che non può dire “chiaramente”,
semplicemente non lo dice. Ci sarebbe quindi, in linea
di principio, spazio sufficiente per immaginare che una
proposizione abbia un senso determinato, nella misura
in cui l’analisi è stata portata avanti – per la misura
restante, non sapremmo specificare i caratteri propri del
fatto che appunto, non sono stati descritti, ma questo
non significa che questi caratteri non esistano: a meno
di non ammettere una forte torsione verso un radicale
idealismo (“ciò che non pensiamo, non esiste – o
perlomeno non possiamo pensarlo esistente”), che,
come abbiamo visto, sarebbe incompatibile con il
desiderio di Wittgenstein di ammettere la possibilità di
giudizi falsi salvando con ciò stesso le intuizioni
fondamentali del realismo.

6.2. Un approccio diffuso, che qui esemplifico con


Riverso (1970, p. 60), trova in effetti un ampio spazio
per sostenere che la 2.0211 – logicamente alla base di
tutto il Tractatus – esprime in realtà una petitio
principii: “Se il mondo non possedesse una sostanza, le
proposizioni non potrebbero avere un significato grazie
ad essa, allora dovrebbero avere significato in
dipendenza da altre proposizioni”. L’accusa è la stessa
che abbiamo già visto in precedenza, formulata da molti
interpreti – che Wittgenstein sostanzialmente postuli in

126
maniera arbitraria che il mondo abbia, per una sorta di
caso fortunato, una struttura tale da rendere possibile il
linguaggio. Così per Weinberg (1975, pp. 70-71)
“l’argomento riesce a dimostrare che vi sono degli
indecomponibili, in quanto parte dall’ipotesi che
esistono raffigurazioni di fatti. Ma, in quest’uso, il
termine «raffigurazioni» significa «rappresentazioni
dirette e assolutamente non ambigue» [v. la 3.23]; e tali
raffigurazioni possono esistere, soltanto se vi sono degli
indecomponibili. Dunque, l’esistenza degli
indecomponibili è già implicitamente ammessa
nell’argomentazione che dovrebbe provare che essi
esistono. Così, essa fa di tutto ciò, inequivocabilmente,
una questione di principio”.
Bouveresse (1982, p. 29), tra gli altri, mette in
relazione l’argomentazione di Wittgenstein con un
“pregiudizio razionalista” che lo porta a rifiutare a
priori l’ipotesi di entità “irriducibilmente complesse”,
perché dovrebbero essere descritte da proposizioni
contingenti ma pure necessariamente vere. Sarebbe
esclusa cioè – senza alcuna argomentazione – la
possibilità di giudizi sintetici a priori, semplicemente
perché allora ci sarebbero verità necessarie non
deducibili razionalmente. Si tratterebbe quindi di una
mossa del tutto arbitraria, perché un conto è dire: (i)
potrebbero esserci entità irriducibilmente complesse, ma
noi non potremmo mai essere sicuri di averle
individuate, quindi non possiamo fare appello ad esse.
Un altro invece è sostenere: (ii) non possiamo (noi)
individuare come tali eventuali entità irriducibilmente
complesse, quindi dobbiamo escludere la loro

127
possibilità.

6.3. La mia scelta è stata di distinguere i punti (1) e (2)


perché, sul piano logico, mi sembrano difendibili su basi
autonome. Leggiamo ad es. Kenny (1984, pp. 98-99):

La considerazione che è alla base della teoria delle


descrizioni di Russell e dell’atomismo del Tractatus è la
seguente. Che un enunciato abbia o no significato è una
questione di logica. Che delle cose particolari esistano o
no è invece una questione empirica. La logica, però, viene
prima di ogni esperienza [5.552]. Che un enunciato abbia
o no significato, dunque, è una questione che in nessun
caso può dipendere dall’esistenza di cose particolari. Le
tre premesse di questo ragionamento sono plausibili, e
sono state, e sono tuttora, ampiamente condivise. ...
Se si accetta il precedente ragionamento, allora la
conclusione stabilisce una condizione che ogni sistema di
logica deve soddisfare. A questo fine, la teoria russelliana
ci fornisce un metodo per parlare di ogni oggetto
descrivibile tale che, sia che l’oggetto in questione esista
sia che non esista, avrà comunque senso. Ma la teoria
delle descrizioni comporta l’uso di quantificatori, e gli
enunciati quantificati presuppongono enunciati più
semplici che contengono nomi al posto di
quantificatori. ... sono necessarie alcune precauzioni che
garantiscano che i nomi che devono occupare i posti di
argomento nelle proposizioni quantificate abbiano in ogni
caso un significato. Russell cercò questa garanzia
stabilendo che i nomi denotino elementi
epistemologicamente garantiti (dati nella conoscenza
immediata, come ad esempio i dati dei sensi);
Wittgenstein stabilendo che denotino oggetti garantiti

128
metafisicamente, oggetti semplici indistruttibili.

Solo ciò che noi stessi costruiamo possiamo prevedere!


Ma allora ove rimane il concetto dell’oggetto semplice?
Questo concetto qui non viene ancora in causa per nulla.
Noi dovremmo poter costruire le funzioni semplici poiché
dobbiamo poter dare un significato ad ogni segno.
Infatti l’unico segno che garantisce il suo significato è
funzione e argomento (Quaderni, 15.4.16)
5.525 ... Quel precedente, cui ci si vorrebbe sempre
appellare, deve essere già nel simbolo stesso.

Se l’esistenza degli oggetti è garanzia dell’esistenza di


un significato dei nomi, si vede come la necessità di
determinatezza del senso possa essere vista, anche
considerata da sola, come un motivo per introdurre
oggetti inalterabili – e questo è un punto indipendente
dalla possibilità di proseguire o meno nel regresso:
anche se si ammette la possibilità di un regresso infinito,
comunque si può difendere l’idea che gli oggetti
debbano essere inalterabili, intemporali e semplici (se
saranno riconosciuti semplici, la serie infinita che si
dovrebbe percorrere non verrà ottenuta attraverso
l’analisi di oggetti man mano meno complessi, che sono
per così dire all’interno del complesso iniziale, ma
comunque avremo una catena infinita di oggetti – quindi
la possibilità di dover procedere ad una serie infinita di
passaggi nella definizione del senso si dà ugualmente).
Ciò che è scritto nel Tractatus su tali questioni è
molto sintetico ed oscuro. I Quaderni contengono
indicazioni più ampie ma estremamente sottili e
complesse. Al 17.6.15 troviamo:

129
... E nulla sembra parlare contro un’infinita divisibilità.
E sempre torna a imporsi in noi l’idea che v’è qualcosa di
semplice, d’indivisibile, un elemento dell’essere, in breve
una cosa. ...

La seconda affermazione, alla lettera, non è in


contraddizione con la prima (l’infinita divisibilità può
dipendere dalla circostanza che lo stato di cose sia
infinitamente “grande” – infinitamente complesso), ma
al 23.5.15 è scritto:

... E tuttavia lo stato di cose infinitamente complesso mi


sembra sia un assurdo!...

Inoltre si deve considerare l’affermazione che

... il significato delle nostre proposizioni non è


infinitamente complicato. ... (Quaderni, 9.5.15)

ma in linea di principio non è scontato che i fatti che


vogliamo descrivere non possano esserlo, quindi torna a
far sentire il proprio peso la questione se Wittgenstein
chieda o no a priori alla realtà di essere configurata in
modo da essere rispecchiabile nel linguaggio.

... Non va, è vero, contro il nostro sentimento, il non poter


noi scomporre le PROPOSIZIONI tanto da menzionare
per nome gli elementi, ma noi sentiamo che il MONDO
deve constare d’elementi. ... o, con altre parole, ciò che
oscilla sono le nostre determinazioni, non il mondo.
Sembra che contestare le cose equivalga a dire: Il mondo
può, per così dire, essere indeterminato all’incirca nel

130
senso in cui è incerto e indeterminato il nostro sapere. ...
(Quaderni, 17.6.15)
... La difficoltà è propriamente questa: anche se noi
vogliamo esprimere un senso affatto determinato, sussiste
la possibilità di non riuscire allo scopo. Dunque sembra,
per così dire, che non abbiamo alcuna garanzia che la
nostra proposizione sia realmente un’immagine della
realtà. ... (Quaderni, 20.6.15)

Ad es. Kenny (1984, p. 105) scrive: “Che cosa


[Wittgenstein] intenda con la nozione di analisi
completa di un complesso sembra restare
fondamentalmente ambiguo. Forse un’analisi in cui la
proposizione verrebbe a contenere tanti elementi quanti
sono quelli dello stato di cose che essa raffigura (come
suggeriscono i passi datati 12 ottobre 1914, 20 ottobre
1914, 18 dicembre 1914 ecc.)? Oppure si intende
un’analisi in cui la proposizione verrebbe a contenere
tanti elementi quanti io so che ce ne sono nello stato di
cose (come suggerito in Quaderni, al 18.6.15)? Se si
intende la prima, non si potrebbe pronunciare la più
semplice delle proposizioni senza possedere
un’incredibile quantità di informazioni sulla
composizione dell’universo; se si intende la seconda,
allora non sembrerebbe pertinente discutere, come
Wittgenstein fa, se gli oggetti spaziali siano divisibili
all’infinito”.

6.4. Delle indicazioni vengono dal passo datato 18.6.15:

Se v’è un senso finito ed una proposizione che esprime


completamente questo senso, vi sono anche nomi per

131
oggetti semplici.
E se un nome semplice designa un oggetto infinitamente
complesso?
[... Posto che io descriva una macchia che osservo, che
contiene infiniti punti] Ma questa possibile complessità
infinita del senso viene a pregiudicare la determinatezza
del senso?

Una proposizione (finita) su un tale oggetto


(infinitamente complesso) sarebbe semplicemente
indeterminata:

... Che un nome designa un oggetto complesso si vede da


una indeterminatezza, nelle proposizioni ove esso
occorre, la quale proviene dalla generalità di tali
proposizioni. Noi sappiamo che da questa proposizione
non ancora tutto è determinato. La designazione di
generalità contiene, infatti, un archetipo. ... 43 (Quaderni,
22.6.15)

Ma questo non significa naturalmente che io non


capisco il senso della proposizione. Semmai:

5.516 ... (Una proposizione può sì essere un’immagine


incompleta d’una certa situazione, ma è pur sempre una
43
Cfr. anche 3.24. Il primo corsivo è mio: qui, a differenza di 3.24
– per il resto quasi identica – Wittgenstein scrive “nome”,
mostrando di intendere la semplicità dei nomi in maniera solo
relativa rispetto ad un livello di analisi prescelto. La
“designazione di generalità” è l’utilizzo di variabili vincolate da
quantificatori. I quantificatori universale ed esistenziale
contengono infatti il riferimento ad un oggetto di cui non sono
specificate ulteriori proprietà oltre a quelle dichiarate, anche se
di tali ulteriori proprietà si ammette comunque la possibilità.

132
immagine completa.)...

... Se una proposizione ci dice qualcosa essa dev’essere,


così com’è, un’immagine – e completa – della realtà. –
Naturalmente vi sarà anche qualcosa che essa non dice –
ma ciò che essa dice lo dice completamente, e deve
potersi circoscrivere NETTAMENTE. ... (Quaderni,
16.6.15)
... Il senso dev’essere pur chiaro, poiché con la
proposizione intendiamo pur qualcosa, e, nella misura in
cui intendiamo sicuramente, dev’essere pur chiaro. ...
Sembra chiaro che ciò che INTENDIAMO debba essere
sempre «netto». ... (Quaderni, 20.6.15)
... È chiaro: Io so che cosa io intendo con la proposizione
vaga. ...
Io dico a qualcuno «l’orologio è posto sul tavolo» e quello
dice «sì, ma, se l’orologio fosse posto in quest’altro
modo, diresti ancora <esso è posto sul tavolo>?» Ed io
diverrei incerto. Ciò mostra che io non sapevo che cosa
intendessi per «essere posto» in generale. ... (Quaderni,
22.6.15)

Una tale manchevolezza significherebbe un errore –


almeno nel senso che il nostro linguaggio sarebbe
congegnato confusamente. Invece

... L’esigenza della determinatezza si potrebbe formulare


anche così: Se una proposizione deve avere senso,
l’impiego sintattico d’ogni sua parte dev’essere stabilito
prima. - Ad esempio, non può venire in mento solo in
séguito che da essa segue una proposizione. 44...
(Quaderni, 18.6.15)

44
Cfr. 2.0121.

133
3.317 La determinazione dei valori delle variabili
proposizionali è l’indicazione delle proposizioni il cui
carattere comune è la variabile.
La determinazione è una descrizione di queste
proposizioni.
La determinazione tratterà dunque solo di simboli, non
del loro significato. ...
3.313 L’espressione è dunque rappresentata da una
variabile, i cui valori sono le proposizioni che contengono
l’espressione.

Se 3.314: “L’espressione ha significato solo nella


proposizione”, ne segue che il significato
dell’espressione cambia se cambia la determinazione
delle proposizioni in cui può comparire – se cambia cioè
la sua sintassi logica (3.334).
Da 3.24 (e Quaderni, 30.5.15) sappiamo che ogni
complesso è descritto da una proposizione (né
tautologica né contraddittoria), e che la proposizione è
sempre formulata secondo la teoria delle descrizioni di
Russell (“... La proposizione ove si parla di un
complesso, se questo non esiste, non è insensata, ma
semplicemente falsa...”), quindi contiene sempre
(almeno) un quantificatore.
Già sappiamo che la presenza di un quantificatore
significa indeterminatezza: se poi tutte le proposizioni
ne fanno essenzialmente uso, allora tutte le proposizioni
sono essenzialmente indeterminate.
Sappiamo anche che la “determinazione” viene
ottenuta indicando i valori delle variabili, cioè quali
sono le proposizioni in cui esse possono comparire.

134
Sembrano darsi quindi due possibilità45:
1) La determinazione del senso viene ottenuta
specificando (solo) la sintassi logica completa delle
espressioni impiegate:

2.01231 Per conoscere l’oggetto non ne devo conoscere,


è vero, le proprietà esterne – ma tutte le sue proprietà
interne le devo conoscere.
3.311 L’espressione presuppone le forme di tutte le
proposizioni nelle quali può occorrere. ...
3.334 Le regole della sintassi logica devono
comprendersi da sé, sol che si sappia come ogni singolo
segno designa.

Le “illustrazioni” di cui si parla alla

3.263 I significati dei segni primitivi possono essere


spiegati mediante illustrazioni. ...

possono essere viste come un campione degli usi


consentiti dalla sintassi logica. Per far capire ad un’altra
persona quale significato dò ai miei segni, utilizzerò un
tale campione più o meno ampio, che riguardi almeno i
casi più significativi – per comprendere io il senso
preciso delle proposizioni che enuncio, devo avere
presenti invece tutte le “illustrazioni” che possono
essere (da me) considerate, per una qualunque misura,
rilevanti.
2) Oppure la determinazione del senso viene ottenuta
specificando il valore di verità che corrisponde – nella
45
Tali due possibilità sono accennate molto rapidamente da Black
(1967, p. 116).

135
realtà – a tutte le proposizioni in cui compare
l’espressione. Un punto d’appoggio potrebbe essere:

5.5262 La verità o falsità d’ogni proposizione àltera


qualcosa della struttura generale del mondo. ...

Sembra esserci però una chiara evidenza testuale contro


questa eventualità. Uno dei principi più fondamentali
del Tractatus è espresso da:

4.024 Comprendere una proposizione vuol dire saper che


accada se essa è vera.
(La si può dunque comprendere senza saper se è vera.) ...

... Il metodo di raffigurazione dev’essere perfettamente


determinato prima che si possa confrontare la realtà con la
proposizione per vedere se questa è vera o falsa. Il metodo
di comparazione dev’essermi già dato, prima che io possa
confrontare ... (Quaderni, 1.11.14)

Il senso di una proposizione sappiamo che ci è dato


anche se non conosciamo il valore di verità della
proposizione stessa. So come sarebbe il fatto (come
sarebbe se la proposizione è vera), anche senza sapere
se la proposizione è vera o falsa. Il problema è che, data
ad es. la proposizione “Socrate parla”, l’espressione
“Socrate” designa un complesso, il quale deve essere
considerato tale perché potrebbe riconfigurarsi in forme
diverse: Socrate-anziano, Socrate-giovane etc. (un
complesso è descritto da una proposizione [3.24], e le
proposizioni sono essenzialmente “articolate” [4.032]).
Ciò che la proposizione “Socrate parla” afferma è

136
quindi espresso nettamente, ma il significato designato
dall’espressione “Socrate” sarà poi diverso a seconda
che siano vere “Socrate è giovane”, “Socrate è anziano”,
etc. Se non conosciamo il valore di verità di queste
ultime proposizioni, il fatto reale descritto da “Socrate
parla” ci è reso chiaro solo parzialmente. Quindi,
potremmo dire, in un senso formale il senso della
proposizione è determinato, ma, in un senso sostanziale,
no – dato che ci obbliga ad immaginare il designato
prescindendo dal riferimento ad alcuni tratti che
sicuramente esso ha (riusciamo ad immaginare Socrate
senza figurarcelo di una qualche età?).
Mentre nell’ipotesi (1) sopra formulata, la
determinatezza del senso è attuale, completa e
istantanea (la sintassi logica – le possibilità di
combinazione – sono date subito in modo immediato),
nell’ipotesi (2) il senso è determinato progressivamente
nella misura in cui conosco i fatti raffigurati.
Credo però che in realtà, ad un esame più attento, le
ipotesi (1) e (2) possono essere mostrate equivalenti.
Infatti:

2.15 Che gli elementi dell’immagine siano in una


determinata relazione l’uno all’altro mostra che le cose
sono in questa relazione l’una all’altra. ...

Mentre

2.201 L’immagine raffigura la realtà rappresentando una


possibilità del sussistere e non sussistere di stati di cose.
(Corsivi miei)

137
Il punto è che una connessione data come realizzata
nell’immagine, ottiene di raffigurare una possibilità che
è solo consentita (non imposta) allo stato di cose
raffigurato. Come potremmo mai, allora, considerare
contemporaneamente tutta la sintassi logica – tutte le
possibilità di connessione consentite agli oggetti?
Sarebbe come chiedere che le automobiline nel plastico
siano ad es. in fila l’una prima e allo stesso tempo dopo
l’altra. Posso raffigurarmi una diversa disposizione del
plastico mediante un secondo modellino, ma così ci
sarebbe subito un regresso.
Credo quindi sia da intendere che Wittgenstein
considerava (1) e (2) complementari. Sia che partiamo
dall’una o dall’altra, dobbiamo comunque concludere
che il senso della proposizione sia – da un punto di vista
sostanziale – indeterminato. Possiamo immaginare
come sarebbe se fosse vero che Socrate-giovane parla,
ma non possiamo immaginare contemporaneamente
come sarebbe se fosse vero anche che Socrate-vecchio
parla. Quindi, se commisuriamo il senso della
proposizione a quello che dovrebbe essere il fatto
raffigurato reale (secondo una concezione realista: in
questo senso parlo di “punto di vista sostanziale”),
dobbiamo ammettere che esso è indeterminato
(parliamo di Socrate senza sapere, ad es., se è giovane o
anziano). D’altra parte, ciò (solo) che la proposizione si
incarica di dire, viene detto in maniera perfettamente
precisa. Come si conciliano queste due tesi?
Ripercorriamo l’argomentazione leggendo:

3.311 L’espressione presuppone le forme di tutte le

138
proposizioni nelle quali può occorrere. Essa è il carattere
comune d’una classe di proposizioni.
3.312 Essa è dunque rappresentata dalla forma generale
delle proposizioni che caratterizza.
E, in questa forma, l’espressione sarà costante; tutto il
resto, variabile.
3.313 L’espressione è dunque rappresentata da una
variabile, i cui valori sono le proposizioni che contengono
l’espressione. ...

Per Black (1967, pp. 126-127) “La novità principale qui


introdotta è costituita dal fatto che la forma di
un’espressione viene simbolizzata mediante una
variabile (3.313 [capoverso a]). Si è tentati di
immaginare la forma di un’espressione data come
cristallizzata in qualche modo in un simbolo
appositamente scelto (sicché la forma di ‘Russell’ in
‘Russell ammira Frege’ potrebbe venir ‘presentata’ nella
‘variabile proposizionale’: ‘Russell R y’). Naturalmente
però, questa è solo un’illusione. Come il significato di
un simbolo definito, ad esempio un nome, è in parte
determinato dalle regole di combinazione che
costituiscono uno degli aspetti della sua ‘applicazione’,
allo stesso modo anche i significati delle lettere che
chiamiamo ‘variabili’ sono determinati dalle loro regole
d’uso. La notazione indicata, ‘Russell R y’, vale come
promemoria, nei casi particolari, delle proposizioni
‘Russell ammira Frege’, ‘Russell ammira Peano’,
‘Russell disprezza Hegel’, e via dicendo. Probabilmente
questo intendeva dire Wittgenstein in 3.316 b, dove
afferma che la determinazione dei valori di una variabile
è questa variabile” (per i passi citati cfr. supra).

139
Nel nostro esempio quindi, la tendenza a pensare che
“Socrate -” designa qualcosa di costante in “Socrate
parla”, “Socrate corre” etc., è radicalmente sbagliata. In
“Socrate corre”, “Socrate” designa qualcosa di diverso
che in “Socrate sta seduto”. La vera variabile (in senso
ontologico) è proprio “Socrate”, che designa ogni volta
un’entità che è in qualcosa diversa a seconda che
Socrate parli o corra etc. A loro volta “- corre”, “- parla”
etc. saranno pure variabili, ma solo in quanto possono
esse stesse comparire in alte proposizioni diverse
(applicate a Platone, Aristotele etc.). In questo modo
diventa chiaro perché il significato del nome è sempre
in qualche misura indeterminato – a meno che il nome
non designi qualcosa le cui possibilità di connessione
siano state completamente sottoposte a verifica o
falsificazione. Dato che la proposizione è costituita da
nomi, l’indeterminatezza si ripercuote sulla nostra
capacità effettiva di capire la proposizione e di
“afferrare” la realtà nella sua oggettività. Vediamo
quindi che il problema che Wittgenstein aveva in mente
era probabilmente quello che abbiamo visto in relazione
all’anti-psicologismo di Frege e al suo principio del
contesto.

6.5. La teoria ora esposta corrisponde, nei termini del


Tractatus, all’idea di Frege che “Il senso di un nome è
qualcosa che viene subito afferrato da chi conosca
sufficientemente la lingua (o, in genere, il complesso di
segni) a cui quel nome appartiene. Esso però non riesce
a chiarire, se non da un unico lato, il significato
[Bedeutung] – posto che ve ne sia uno – del nome

140
proprio cui si riferisce. Per conoscere appieno tale
significato, bisognerebbe essere in grado di decidere,
dato un qualunque senso, se esso si addica o no al
significato anzidetto. A ciò tuttavia non perverremo
mai” (Senso e significato, in FREGE, 1965, p. 377,
corsivo mio). La versione di Frege ci mostra quanto sia
naturale la stessa posizione di Wittgenstein, al di là delle
oscurità del testo: il senso di un nome è di per se stesso
certamente già del tutto determinato, ma è
necessariamente incompleto. In questo senso possiamo
procedere ad una sua sempre migliore “determinazione”
(=completamento) acquisendo informazioni sul
designato.
Il senso della proposizione è interamente determinato
– dal significato dei nomi che ci è effettivamente
disponibile, i. e. già noto. Questo vale a far salve le
esigenze imposte dall’argomentazione del solipsista
(“non possiamo oltrepassare il limite del pensiero”).
Contemporaneamente però si è trovato un modo per
dare espressione alla nostra intuizione – alla base del
realismo filosofico – che esistano aspetti del mondo che
non conosciamo:

4.113 La filosofia limita il campo disputabile della


scienza naturale.

Vale a dire l’insieme delle proposizioni che hanno


contenuto empirico, i. e. le proposizioni tout court.

4.114 Essa deve delimitare l’impensabile dal di dentro


attraverso il pensabile.
4.115 Essa significherà l’indicibile rappresentando chiaro

141
il dicibile.
4.116 Tutto ciò che possa esser pensato può essere
pensato chiaramente. Tutto ciò che può formularsi può
formularsi chiaramente.

... Ogni proposizione, che ha un senso, ha un senso


COMPLETO, ed è un’immagine della realtà in modo tale
che ciò, che in essa non è ancora detto, semplicemente
non può appartenere al suo senso ... (Quaderni, 16.6.15)

Sul piano ontologico:

2.05 La totalità degli stati di cose sussistenti determina


anche quali stati di cose non sussistono.

La proposizione ci dice (“chiaramente”) ciò che


sappiamo (e nulla di più): che ci siano cose che non
sappiamo (e non concepiamo), non possiamo dirlo, ma
– indirettamente – possiamo significare “l’indicibile
rappresentando chiaro il dicibile”. Ciò che pensiamo,
pensiamo, ciò che non pensiamo, per ciò stesso che
manca di rispondere – per così dire – al nostro appello,
condiziona in qualche modo implicitamente la nostra
immagine del mondo. Il modo formalmente corretto di
parlare di questo suo “condizionarci” è naturalmente
non dire (né pensarne – attraverso proposizioni)
alcunché: la parte del senso della proposizione che è
rimasta indeterminata, “agisce” infatti sulla nostra
immagine del mondo proprio rimanendo all’esterno di
essa. Ma l’importante è che il contenuto intuitivo del
realismo, che tende invece ad ipostatizzare ciò che
invece sarebbe indeterminato, venga comunque salvato

142
in quanto ha di valido. La picture-theory ci ha già
mostrato come ottenere questo risultato.
Si vede facilmente come lo schema euristico di base
adottato da Wittgenstein sia su questo punto
sostanzialmente di derivazione russelliana: “When one
person uses a word, he does not mean by it the same
thing as another person means by it. I have often heard
it said that that is a misfortune. That is a mistake. It
would be absolutely fatal if people meant the same
things by their words. It would make all intercourse
impossible ... take, for example, the word ‘Piccadilly’.
We, who are acquainted with Piccadilly, attach quite a
different meaning to that word from any which could be
attached to it by a person who had never been in
London. ... If you were to insist on language which was
unambiguous, you would be unable to tell people at
home what you had seen in foreign parts ...” (RUSSELL,
1986, p. 174).
In Russell l’impianto di fondo è quello
dell’empirismo – è noto che lo stesso Locke aveva posto
problemi del genere46. Wittgenstein sceglie di imporsi
una disciplina formale più rigorosa, proibendosi di
parlare della natura empirica o meno degli oggetti, ma
ha in mente una concezione del linguaggio per la quale
ci sono ostensioni che ci mostrano il significato dei
nomi. Il problema è per lui quindi di rendere
logicamente coerente la possibilità di immaginare nuovi
contenuti di pensiero.
L’indeterminatezza di cui parla Wittgenstein
corrisponde all’“ambiguità” teorizzata da Russell. Ma è
46
Saggio sull’intelligenza umana, III, 2, § 8.

143
interessante osservare come già gli stessi esempi di
Russell presuppongano anche, per una via ovvia, una
forte misura di induttivismo: ogni volta che usiamo la
parola “Piccadilly” immaginiamo la scena che
corrisponde alla conoscenza che abbiamo di Piccadilly.
Osserviamo inoltre che per Russell “A logically
perfect language, if it could be constructed, would not
only be intolerably prolix, but, as regards its vocabulary,
would be very largely private to one speaker” (ivi, p.
198). Wittgenstein trae le conseguenze più radicali di
questa visione, concependo un linguaggio ideale che
vale (solo) in quanto proprio del soggetto metafisico: in
base alla picture-theory, come abbiamo visto, le
persone concrete possono effettivamente comprendersi a
vicenda, ma, data la tesi dell’indeterminatezza –
maggiore o minore – del senso, si comprenderanno in
una misura variabile a seconda che dispongano – in
maggiore o minore misura – delle stesse informazioni.
Se utilizzano la sintassi logica47 assegnando valori di
verità diversi alle varie possibilità di combinazione
previste, faranno riferimento di fatto a realtà diverse –
ma anche questa è una eventualità che una forma non
ingenua di realismo intuitivamente dovrebbe accettare.
È significativo che, parlando della “legge della
proiezione, la legge che proietta la sinfonia nel
linguaggio delle note” e che si serve a tale scopo
dell’“interiore somiglianza di queste conformazioni,
apparentemente tanto diverse” (4.0141), Wittgenstein
47
Si consideri che la sintassi logica può essere concepita solo
come condivisa, dato che è stabilita da un unico soggetto
metafisico.

144
scriva:

4.015 La possibilità di tutte le similitudini, di tutta la


figuratività del nostro modo d’espressione, risiede nella
logica della raffigurazione [legge della proiezione].

Tutto l’uso del linguaggio viene ad essere paragonato a


quello delle similitudini, che svolgono la propria
funzione appunto mediante l’ambiguità e una certa
misura di diversità da quello che devono significare –
per quanto chi avesse a disposizione a rigore solo una
similitudine, eguaglierebbe necessariamente il designato
all’immagine impiegata nella similitudine stessa (non
sarebbe cioè in grado di considerarla solo una
similitudine). “Se mi aspetto che il signor Smith entri, la
mia aspettativa contiene qualcosa di simile al signor
Smith ... Ma aspettarsi qualcosa di «simile» è già
aspettarsi qualcosa di differente. L’elemento «simile»,
l’ombra, nell’aspettativa è differente dal
soddisfacimento: non siamo più vicini al
soddisfacimento” (Lezioni 1930-1932, p. 49).

6.6. I lettori del Tractatus si sono sempre divisi su come


nell’opera vengano visti i rapporti tra linguaggio
formalizzato (ideale) e linguaggio naturale. Secondo la
mia interpretazione l’ambiguità è associata ad ogni
linguaggio (sia formale sia naturale), per il solo fatto di
essere costituito di proposizioni. Una determinazione
non ambigua del significato si ha solo quando mi limito
a considerare gli oggetti – in quanto tali – che mi si
mostrano (il mondo visto sub specie aeterni). Il termine
che ho usato, “considerare”, è necessariamente vago,

145
perché si tratta di una forma di apprensione intuitiva e,
per definizione, non esprimibile in proposizioni. Ma
questo non significa che sia una conoscenza malcerta:
nessuna proposizione potrà mai spiegare a chi sia cieco
dalla nascita quale è la risposta alla domanda “che cosa
è il verde”, ma da ciò non segue che chi vede una
macchia verde non sappia che cosa sia. Anni dopo,
Wittgenstein esprimerà questo punto dicendo: “Se dite:
«Mi sembra che B. abbia una cravatta rossa», questo
non può essere messo in discussione. «Mi sembra» è
un’espressione definitiva ed è una proposizione. Ma «B.
ha una cravatta rossa» può essere messo in discussione.
Essere certo di una proposizione significa
semplicemente: «Mi sembra»” (Lezioni 1930-1932, p.
106).
La posizione espressa ad es. da Popper (1970) o
Hanson (1978), che non esistono termini di
osservazione e che ogni termine che usiamo è sempre
“carico di teoria”, va collocata nel contesto in cui si
muovono questi autori: la loro esigenza è ancora quella
del Neoempirismo di descrivere i caratteri di un
linguaggio scientifico ed intersoggettivo, che garantisca
la possibilità di replicare in maniera fedele gli usi
linguistici praticati. In questo quadro la loro critica è
corretta: vedo che cosa è il verde-che-mi-appare-ora, ma
non posso dire (né pensare) nulla (di formalmente
garantito) su altre macchie di verde (o sulla “stessa”
macchia tra un minuto). Popper ad es. scrive (1970, p.
87): “L’asserzione: «Questo è un bicchier d’acqua» non
può essere verificata da nessun’esperienza basata
sull’osservazione. La ragione è che gli universali che

146
compaiono in essa non possono essere messi in
relazione con nessun’esperienza sensibile specifica.
(Un’«esperienza immediata» è «immediatamente data»
soltanto una volta: è unica). Con la parola «bicchiere»,
per esempio, denotiamo corpi chimici che esibiscono un
certo comportamento regolare, e lo stesso vale per la
parola «acqua»”. Viene dato per scontato insomma che
esista un’“esperienza immediata”, che però “è unica” e
non soddisfa il requisito di esibire “un certo
comportamento regolare”: “gli accadimenti singoli, non
riproducibili, non hanno alcun significato per la
scienza” (ivi, p. 76). “Di una teoria, purché sia
falsificabile, possiamo dire che esclude, o vieta, non
soltanto un accadimento, ma almeno un evento”, dove il
termine “evento” serve a “denotare ciò che vi è di
tipico, o di universale, in un accadimento” (ivi, p. 80).
Ma la picture-theory nasce con lo scopo diverso di
spiegare la comprensione del non-dato riducendola –
attraverso le proposizioni – a ciò che mi è
immediatamente dato. È in realtà uno strumento per
rendere conto (anche) della comprensibilità
intersoggettiva del linguaggio, ma i problemi e
l’impostazione di fondo sono del tutto differenti da
quelli di Popper, Hanson e del Circolo di Vienna, vale a
dire non una descrizione dei metodi della scienza, ma
una descrizione della conoscenza in quanto sapere
individuale, che fa da sfondo e da premessa per una
(eventuale) scelta di fornire ad altri una prova
(“scientifica”) di evidenze che – per nostro conto e a
nostro uso – abbiamo già raccolto. I problemi della
filosofia della scienza potranno essere posti dopo,

147
tenendo conto, nel caso, dei risultati di questa indagine
preliminare, e allora dovremo tornare a interrogarci
sulla possibilità di giustificare di fronte ad altre persone
le nostre credenze ed ipotesi. Verosimilmente è solo da
questo punto di partenza che si può intendere la pretesa
di Wittgenstein che le proposizioni del Tractatus non
significhino nulla, ma pure sia importante la materia che
trattano: il processo con cui ci si appropria di questa
materia è infatti, a rigore, del tutto individuale, e le
proposizioni del libro, in quanto tali, non sono un
veicolo di informazione, ma solo la circostanza che dà
l’avvio ad un’attività autonoma di riflessione, o, se si
vuole, una “guida” che viene offerta implicitamente
dall’osservazione di uno che sia in avanti rispetto a noi
sulla strada, ma percorrendo ciascuno di noi per suo
conto il proprio cammino (anche se poi, di fatto, i due
percorsi finiscono per seguire lo stesso tragitto).
Secondo il Tractatus, il vantaggio ad usare un
linguaggio formale (analizzato secondo la picture-
theory) è solo di essere resi più pronti a riconoscere le
confusioni prodotte dal linguaggio, ma anche un
linguaggio formale non può mai trovare procedure che
eliminino alla base i motivi dell’ambiguità, dato che
dovrebbe a tal fine rinunciare a servirsi di proposizioni
(che sono necessarie a trasmettere informazione nuova),
e non sarebbe quindi più un linguaggio. La pratica della
comunicazione, anche se si servisse di un linguaggio
formalizzato, ha sempre la capacità di far perdere di
vista che “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso”
(6.41), dove “mondo” è appunto l’insieme degli stati di
cose, in quanto descritti da proposizioni.

148
Possiamo sostenere che per Wittgenstein la
distinzione tra lingue naturali e formali non fosse
essenziale, dato che ogni linguaggio può funzionare solo
prendendo a propria base un elemento di ambiguità e
indeterminatezza: se dessi alle parole che uso un
significato esatto perfettamente coincidente con
l’informazione che posseggo sui designati, potrebbe
afferrare questo significato solo chi possedesse tutta e
soltanto l’informazione che io stesso posseggo sui
designati in questione. Ma in un caso del genere la
comunicazione sarebbe, per definizione, inutile. L’utilità
del linguaggio sta essenzialmente nel suo essere per una
certa misura ambiguo – anche se naturalmente
oltrepassare una certa soglia comporta che gli stessi
parlanti non lo considereranno più attendibile. È facile
vedere in questa posizione la premessa delle successive
Ricerche filosofiche.
È particolarmente significativo inoltre come alla
4.002, dove discute di come “Il linguaggio traveste i
pensieri”, Wittgenstein utilizzi cinque volte il termine
“linguaggio”, e due di queste venga precisato che si
parla di “linguaggio comune”: sembra che l’autore
abbia in mente prima di tutto il linguaggio comune, ma
consideri facilmente generalizzabili le sue conclusioni
ad ogni tipo di linguaggio, dato che le affermazioni più
incisive sono fatte proprio utilizzando l’espressione più
generica.

4.002 L’uomo possiede la capacità di costruire


linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza
sospettare come e che cosa ogni parola significhi. – Così
come si parla senza sapere come i singoli suoni siano

149
emessi.
Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano,
né è meno complicato di questo.
È umanamente impossibile desumerne immediatamente la
logica del linguaggio.
Il linguaggio traveste i pensieri. È precisamente così che
dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla
forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far
riconoscere la forma del corpo.
Le tacite intese per la comprensione del linguaggio
comune sono enormemente complicate.

Si può osservare anche che si parla di “linguaggio


comune” quando si vuole insistere sulla sua
caratteristica di essere “enormemente complicato”:
sembrerebbe quindi che sia questa la differenza
fondamentale tra i due tipi di linguaggio. Ma vengono
visti come diversi i due problemi: (i) di “desumerne
immediatamente la logica del linguaggio”, (ii) delle
“tacite intese per la comprensione del linguaggio
comune”: la seconda cosa avviene in modo naturale,
“senza sospettare come e che cosa ogni parola
significhi”, ma questo non basta a rendere più facile la
soluzione del problema (i). Quindi il problema vero e
proprio, espresso da (i), è (almeno formalmente)
indipendente da (ii), e deve riguardare ogni linguaggio
in quanto tale.

150
7

Conoscenza indeterminata

151
7.1. Un risultato molto importante di questa analisi
sarebbe che ogni proposizione, in quanto tale, implica
un elemento di indeterminatezza. L'ipotesi che vorrei
proporre – per quanto sia sicuramente da prendersi con
estrema prudenza, per una serie di implicazioni che
comporta per l'ontologia – è che questa tesi sia da
collocarsi nel seguente quadro:

4.464 La verità della tautologia è certa; della


proposizione, possibile; della contradizione, impossibile.
(Certo, possibile, impossibile: Ecco l’indizio di quella
gradazione che ci serve nella teoria della probabilità.)
5.525 ... Certezza, possibilità o impossibilità d'una
situazione sono espresse non da una proposizione, ma
dall'essere un'espressione una tautologia, una
proposizione munita di senso, o una contraddizione...

Viene data quindi una definizione di probabilità come


rapporto tra due proposizioni, diciamo p e q. Se p e q
sono elementari, sono necessariamente indipendenti
(2.061), quindi si daranno reciprocamente una misura di
probabilità pari a ½ (5.152), i. e., ciascuna rimane, pur
in presenza dell’altra, semplicemente o vera o falsa. Se
sono complesse, dobbiamo costruire una tavola di
verità, che preveda tutte le possibili combinazioni delle
proposizioni elementari che costituiscono p e q, e
indichi il valore di verità di p e di q corrispondente ad
ognuna delle combinazioni. La probabilità che p dà a q
è quindi definita (5.15, 5.151) come un rapporto tale
che: al denominatore avremo il numero delle righe
della tavola di verità che rendono p vera; al numeratore,

152
il numero delle righe che danno p come vera ed insieme
danno come vera q. Nel caso che p e q non abbiano
alcuna proposizione elementare in comune, saranno esse
stesse indipendenti; nel caso che ogni volta che l’una è
vera l’altra risulti falsa, saranno contraddittorie. Dal
punto di vista dell’ontologia, quindi:

5.1511 Non v’è un oggetto particolare che sia proprio alle


proposizioni di probabilità.
5.153 Una proposizione, in sé, è né probabile né
improbabile. Un evento avviene, o non avviene; una via di
mezzo non c’è.
5.155 L’unità della proposizione di probabilità è: Le
circostanze – che quanto al resto non conosco oltre –
dànno all’avvenire di un determinato evento questo e
questo grado di probabilità.
5.156 Così la probabilità è una generalizzazione.
Essa involge una descrizione generale d’una forma
proposizionale.
Solo in mancanza della certezza usiamo la probabilità. –
Cioè se conosciamo un fatto non perfettamente, eppure
sappiamo qualcosa sopra la sua forma. ...
La proposizione di probabilità è, direi, un estratto da altre
proposizioni.

Vediamo quindi che una proposizione sembra essere


affermata come contingente (e quindi essere una
proposizione tout court, dato che tautologie e
contraddizioni non sono, propriamente parlando,
proposizioni) solo quando non sappiamo qualcosa su
ciò che essa descrive. Questa tesi è in linea con quanto
abbiamo detto sull’indeterminatezza del senso – che
dipende dal non conoscere il valore di verità delle

153
proposizioni in cui, data la sintassi logica, le espressioni
usate possono comparire; ed è in linea anche con l’idea
che sia nella natura delle proposizioni farci immaginare
qualcosa che in realtà non conosciamo.

4.03 Una proposizione deve comunicare con espressioni


vecchie un senso nuovo. ...

Per ora però vorrei piuttosto sottolineare un’apparente


paradossalità di questa tesi: in genere giudichiamo che
una proposizione come “Il libro è sul tavolo” sia
contingente anche se già sappiamo che essa è vera (o
falsa): il libro avrebbe potuto essere in un altro posto.
Le tesi del Tractatus implicano che una proposizione già
verificata debba, solo per questo, essere necessaria? Se
la mia ricostruzione è giusta, in effetti non è questo che
deriverebbe dalla teoria di Wittgenstein: una
proposizione continuerebbe invece ad essere
contingente finché non avessimo stabilito il valore di
verità di tutte le proposizioni in cui possono comparire
le sue espressioni componenti48. Se possiamo concepire
48
Si osservi però che se il designato è inteso essere una cosa del
tipo di una macchia di colore nel campo visivo in quanto data
ora (quello che, nelle parole di Wittgenstein sopra citate,
sarebbe espresso dalla formula “mi sembra che...”),
intuitivamente sembrerebbe plausibile in effetti parlare di
“necessità”: il punto è che per portare a termine l’operazione, la
sintassi logica del designato dovrebbe essere per definizione
tale da vietare (logicamente) una collocazione in altri contesti,
non ancora verificati, esattamente dello stesso designato, ma
non è affatto detto che la sintassi logica possa essere stabilita
con una decisione convenzionale, presa a nostro piacimento. In
ogni caso, in presenza di una tale sintassi, sarebbe tautologico

154
che il libro all’istante t entri in un processo di
autocombustione, dovremmo aver controllato anche
questa eventualità prima di poter dichiarare la
tautologicità della proposizione. Si può però
legittimamente continuare a pensare che – per quanto
una tale condizione sia molto disagevole da soddisfare,
per t fissato arbitrariamente, e quindi i rischi che stiamo
considerando sono del tutto teorici – comunque tutta la
tesi rimanga, in linea di principio, implausibile, dato che
ugualmente il libro avrebbe potuto essere in un’altra
condizione. Dovremo tornare però su questo punto nel
seguito.
A tale questione è associato un altro problema: (i) le
tautologie non dicono nulla, mostrano solo la struttura
interna del nostro linguaggio (e del mondo). Quindi (ii)
abbiamo visto che se p non è contingente e non è
contraddittoria, deve essere una tautologia; perciò se il
carattere contingente della proposizione “Il libro è sul
tavolo” può essere eliminato, a quel punto dovremmo
dire che una tale proposizione è una verità logica, ma
solo rispetto alla struttura (temporalmente data) del
nostro linguaggio? Un tale sviluppo sarebbe implicito
ad es. nell’affermazione – letteralmente ineccepibile –
di Kenny (1984, p. 64): “Per Wittgenstein qualcosa può
essere detto solo se può essere trasmesso a qualcuno
sotto forma di nuova informazione” (ultimo corsivo
mio), altrimenti già gli si mostrerebbe.

affermare la “necessità” di ciò che, a questo punto, “si mostra”.


(Il quadro può essere meglio chiarito solo considerando altri
elementi che saranno discussi in seguito, in particolare sulla
natura degli “oggetti”).

155
L’idea può sembrare del tutto implausibile (o
comunque lontana dal modo più comune di leggere il
Tractatus). In realtà trova un sostegno significativo in
Waismann (1975, pp. 42-43), che così ha appuntato le
considerazioni di Wittgenstein: si può parlare di
relazione esterna solo se abbiamo “un’immagine
incompleta della situazione: se descriviamo
compiutamente lo stato di cose, la relazione esterna
scompare. Ma non dobbiamo credere che in tal caso ci
rimanga ancora una qualche relazione: non è necessario
che la descrizione contenga relazioni oltre a quella
interna fra le forme, che esiste sempre; e questo mostra
che la forma della relazione in verità non è essenziale:
essa non raffigura”. Non ci rimane “ancora una qualche
relazione”, perché le relazioni interne non sono in senso
proprio vere “relazioni”, ma il carattere contingente
della relazione esterna è destinato a scomparire, nel
momento in cui “descriviamo compiutamente lo stato di
cose”. D’altra parte viene ribadito che la relazione
interna, “fra le forme”, “esiste sempre”.
Il senso di paradosso viene sciolto se ci ricordiamo
che formalmente (i. e. dalla prospettiva dell’io
metafisico) non ha senso parlare di un’evoluzione delle
conoscenze: una tale trasformazione nel tempo può
riguardare solo le credenze attribuite alle persone in
carne e ossa. Da questo punto di vista, “i limiti del mio
linguaggio significano i limiti del mio mondo”, quindi
neppure è possibile concepire che una tautologia smetta
o inizi a essere tale.
Di una persona concreta, invece, è intuitivo dire che,
se osserva ad es. una sfumatura di colore per lei

156
totalmente nuova, inizia a considerare esistente un
nuovo “oggetto”, e quindi è solo ora che può iniziare a
far valere certe “nuove” tautologie: le si mostra in modo
nuovo la sostanza del mondo – anche se tutta questa
formulazione è, a rigore, formalmente impropria e
contraddittoria, perché non possiamo affatto concepire
la comparsa in futuro di “una nuova possibilità”.

7.2. Vorrei ora tornare a vedere le implicazioni che il


discorso sull’indeterminatezza delle proposizioni ha per
l’analisi della 2.0211.
1) Il senso risulterebbe pienamente determinato solo se
fossimo in grado di specificare il valore di verità di tutti
i possibili valori delle variabili impiegate.
2) Nella vita concreta posso non sapere se l’orologio, ad
es., contenga delle rotelle – e posso non essermi proprio
posto l’idea: nella vita per le persone concrete si danno
con il passare del tempo “nuove possibilità”. Per 4.116
(“Tutto ciò che può esser pensato può essere pensato
chiaramente”) questa possibilità dovrebbe implicare
l’insensatezza delle proposizioni della vita quotidiana,
eppure:

... Ma questo è pur chiaro: le proposizioni che l’umanità


usa esclusivamente avranno un senso così come sono e
non aspettano una analisi futura per acquistare un
senso. ... (Quaderni, 17.6.15)

3) Nella vita concreta le persone possono trovarsi ad


utilizzare significati indeterminati. La consapevolezza
filosofica comporta invece che ci rendiamo conto di non

157
poter andare oltre il “limite del pensiero” – non
possiamo concepire la comparsa di nuove possibilità.
L’io vero quindi, “non l’uomo, non il corpo umano o
l’anima umana della quale tratta la psicologia” (5.641)
descrive il mondo solo con proposizioni che
determinano interamente il proprio senso.
4) La 3.23 dà: “Il requisito della possibilità dei segni
semplici è il requisito della determinatezza del senso”
(corsivo mio). Dobbiamo intendere quindi che (nella
vita concreta) la determinatezza del senso viene ottenuta
man mano con un processo graduale di scoperta.
In questo modo Wittgenstein mostra di essere riuscito
a costruire una teoria della proposizione che tenga conto
sia delle intuizioni della vita concreta (le quali possono
così continuare a essere rappresentate come oggetto di
conoscenza dall’io metafisico – che non sarà quindi
costretto a contraddire in modo inverosimile le
intuizioni del senso comune), sia dei vincoli logici che
la consapevolezza filosofica pone con la riflessione sul
“limite del pensiero” che non possiamo valicare.
5) Il problema è però che il punto di partenza della
riflessione di noi tutti è naturalmente quello
dell’esistenza di persone concrete: la nozione che invece
deve essere ancora fondata e chiarita è semmai quella di
io metafisico e della sua propria prospettiva sul mondo.
Si può pensare quindi (i) che Wittgenstein è partito dalla
nozione di io metafisico, ma, nel modo in cui egli la
intende, questa presuppone la nozione di oggetto, e
quindi, in buona sostanza, tutto l’impianto del Tractatus
sarebbe completamente dogmatico. Oppure (ii)
Wittgenstein è partito prendendo naturalmente per

158
buona una nozione di persona e di mondo concreti (per
quanto fossero ancora da sottoporre ad analisi – nel
senso di Moore e Russell). In questo quadro però non si
può assolutamente far scattare un’assunzione
preliminare di rispecchiabilità del mondo nel linguaggio
come questo è usato da una persona in carne e ossa – o,
per farlo, si dovrebbe fare del tutto violenza alle nostre
intuizioni: si tratterebbe di pensare che, affinché i
significati delle parole che uso siano stabili, anche le
entità da esse indicate debbano essere eterne e
indistruttibili. È questa un’idea che può funzionare per
il soggetto metafisico, non per le persone in carne ed
ossa.
Ma, se un’assunzione di questo genere viene –
comprensibilmente – respinta, e se si interpreta la
2.0211 nella maniera più consueta (come tesa ad
eliminare il rischio di un regresso infinito nell’analisi
delle proposizioni), la base logica della 2.0211 diventa
incomprensibile.

2.0211 Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una


proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere
un’altra proposizione vera. (Corsivi miei)

Un carattere così inatteso del mondo, come quello di


avere una sostanza intesa in quel modo, verrebbe
dedotto dalla presunta necessità che il nostro linguaggio
(le nostre proposizioni) abbiano senso. Ma sarebbe assai
più ragionevole pensare che al limite “ciò che oscilla
sono le nostre determinazioni, non il mondo”.
Per evitare di attribuire a Wittgenstein una posizione
così facilmente criticabile e dogmatica, possiamo

159
pensare piuttosto che egli (1) sia partito da una visione
complessiva ispirata al senso comune, (2) riflettendo sul
“limite del pensiero” abbia introdotto la nozione di
oggetto indistruttibile – dal momento che i dati di
esperienza che ora colgo da un lato sono tutto quello che
(ora) ho, e in questo senso si situano in un presente
intemporale (devono parermi “indistruttibili”), e
dall’altro sono necessariamente il materiale di base che
devo utilizzare per elaborare una qualsivoglia immagine
del mondo (2.022, 2.023), quindi fanno ricadere su
ciascuna di queste immagini il proprio carattere
fondamentale di “indistruttibilità”, infine (3) abbia
cercato di congegnare la picture-theory in modo da
tener ancora conto comunque dei requisiti di
verosomiglianza imposti dal senso comune, servendosi
a questo scopo del concetto di proposizione.

7.3. Rimane comunque il fatto che non possiamo più


interpretare la 2.0211 seguendo la via più comune. (a)
Perché, se la ricostruzione che ho fatto è giusta, il senso
di una proposizione deve venir determinato non
procedendo nell’analisi interna dei vari costituenti della
proposizione. Il senso della proposizione dipende dal
significato delle parti costitutive (principio di
composizione), e questo dipende a sua volta dalle
proposizioni in cui ciascuna parte può figurare come
variabile (principio di contestualità). Anche per
neutralizzare l’evidente circolarità che così sembrerebbe
nascere tra i due principi, è quindi necessario che per
determinare il senso si proceda a verificare (o
falsificare) le possibilità previste dalla sintassi logica:

160
devo guardare cioè fuori dalla proposizione. È molto
difficile considerare un paradosso che esista un numero
infinito di proposizioni in cui un’espressione può
comparire. Si noti in particolare che Black considerava
vizioso il regresso perché la condizione per capire una
proposizione p sarebbe di aver individuato la serie
infinita delle proposizioni sue costituenti, e una tale
condizione non potrebbe essere soddisfatta. Se lo
sviluppo di p è invece verso l’“esterno” di p,
l’introduzione man mano di nuove proposizioni non è
affatto la pre-condizione per capire p stessa. In ogni
caso il senso, anche se incompleto, viene comunque
capito – in ciò che di fatto dice.
Il problema vero e proprio sarebbe non quello di
dover procedere ad un’analisi che non vede mai la fine
(nei termini in cui si esprime ad es. Black), ma piuttosto
che, per compiere questa analisi, si deve sapere in quali
altre proposizioni possa figurare ognuna delle variabili
ottenute nel corso dell’analisi stessa. Ma questo non è
un problema, dato che comunque capiamo la
proposizione anche così com’è.
In questo quadro, la circolarità tra principio di
composizione e di contestualità è solo apparente. Si
suppone infatti che ho una conoscenza iniziale di alcuni
oggetti; i significati così determinati sono quindi
composti (in accordo con il principio di composizione) a
costituire il senso di una proposizione; il valore di verità
di questa proposizione (e quindi l’immagine del fatto)
può essere però stabilito solo guardando ad essa come
ad un intero unitario (principio di contestualità), dato
che un’espressione semplice o una “classe di nomi” non

161
possono essere vere/false; quando abbiamo
verificato/falsificato la proposizione, i nomi iniziali
vengono a possedere ormai una designazione diversa
(abbiamo scoperto nuove proprietà che rettificano la
nostra immagine iniziale del designato: prima potevamo
solo immaginare lo stato di cose descritto dalla
proposizione – immaginarlo come sarebbe apparso se la
proposizione fosse stata vera, ma di fatto senza sapere
se era tale o no); a questo punto possiamo comporre una
nuova proposizione, e così via: l’ulteriore e più precisa
determinazione del significato può essere ottenuta
richiamando sempre nuove proposizioni per
perfezionare la conoscenza del designato. Si intende
ovviamente che questa analisi vale per i processi di
trasformazione delle conoscenze (o comunque dei
significati) propri delle persone concrete, e non del
soggetto metafisico (per tutto questo vedi infra). Come
si esprimerà Wittgenstein nei Colloqui annotati da
Waismann (1975, p. 30): “Forse è così: tutte le
descrizioni incomplete – tutte le proposizioni
incomplete con lacune – formano insieme una
proposizione elementare completa” (i. e. completamente
analizzata).
La teoria viene espressa anche nelle Osservazioni
filosofiche (§ 87):

La proposizione generale 'Vedo un cerchio su uno sfondo


rosso' sembra essere semplicemente una proposizione che
lascia aperte delle possibilità. ...
Ma una tale generalità cosa avrebbe a che fare con una
totalità di oggetti?
Devono esistere proposizioni elementari incompiute, dalla

162
cui applicazione proviene il concetto di generalità.

Le possibilità che vengono lasciate aperte sono le


diverse posizioni che il cerchio può avere. La “totalità di
oggetti” sarebbe l’insieme dei cerchi così ottenuti. La
proposizione generale è una proposizione “incompiuta”
perché è indeterminata: non specifica quale dei possibili
cerchi sia quello reale. Per questo è soddisfatta da un
numero più o meno elevato di situazioni.
È molto interessante il modo in cui prosegue il
passo:
(i) “La teoria della probabilità è connessa col fatto che
una descrizione più generale, cioè più incompleta, è più
probabilmente adeguata di una più completa” (§ 87): il
caso limite sarebbe quello in cui l’immagine fosse
interamente indeterminata. Avremmo allora una
tautologia, che ha una misura di probabilità pari a 1.
Questo significherebbe che abbiamo sostituito tutte le
variabili con delle costanti (nomi, che designano oggetti
in quanto già pienamente afferrati attualmente). Il
solipsismo afferma proprio questo: “È manifesto che un
mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale,
pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa
– una forma –” (2.2022). Vale a dire che ogni volta che
concepiamo un mondo “diverso da quello reale” (e
quindi lo concepiamo in modo indeterminato), ci
serviamo di fatti-proposizioni costituite solo di oggetti
dati attualmente ( = dobbiamo ridurre il non-noto al
noto). Il problema è poi che gli oggetti dati,
necessariamente, dovranno ben essere determinati.
Possiamo quindi rappresentare l’indeterminazione delle

163
nostre conoscenze, solo attraverso proposizioni che
sono, invece, pienamente determinate.
(ii) Questa idea è ripresa appunto nel seguente § 88: “Se
descrivo il campo visivo non al completo, ma solo in
parte [... e se] dipingessi un quadro di quel quadro
visivo, in qualche punto lascerei trasparire la tela. Ma la
tela ha ben anch’essa un colore. ... Il che significa che
[la mia descrizione] è pur costretta a dire che in ciascun
luogo un colore c’è”.
(b) Come abbiamo visto in precedenza, la strategia che
sto criticando implica che Wittgenstein sia partito con
una petitio principii dalle nozioni di io metafisico e di
oggetto, e non da quelle di persona e mondo del senso
comune, definendo in anticipo gli oggetti in modo tale
da ottenere le conclusioni desiderate. Se mi dichiaro
incapace di procedere in un regresso infinito
dell’analisi, e se stabilisco che semplicità e
indistruttibilità siano l’una condizione dell’altra,
significa che, primo, faccio dipendere una caratteristica
del mondo da una mia (peraltro non dimostrata)
incapacità, secondo, faccio valere una definizione
ontologicamente assai impegnativa del divenire e della
contingenza senza argomentarla. Se ricostruiamo in
questo modo l’argomentazione di Wittgenstein, siamo
obbligati a vedervi una circolarità evidente, così come
abbiamo visto sostenere da Weinberg (1975, pp. 70-71).

7.4. Per fare chiarezza sulla questione del regresso,


dobbiamo però introdurre una quantità di altre
considerazioni estremamente importanti.
1) Ricordiamo prima di tutto:

164
6.1233 Può pensarsi un mondo, nel quale l’assioma di
riducibilità non vale. Ma è chiaro che la logica nulla ha
da fare con la questione, se il nostro mondo sia realmente
così o no.

Wittgenstein respinge l’assioma di riducibilità di


Russell, e quindi il riferimento che questo implica al
concetto di infinito, ma non perché consideri assurda in
sé l’idea di infinito. Piuttosto, in un ordine di idee del
tutto diverso, considera una circostanza solo eventuale il
darsi o meno di un’infinità di oggetti. La logica non
può quindi assumerne a priori l’esistenza (cfr. anche
5.551).
La possibilità di un regresso infinito nell’analisi di
una proposizione complessa, non può quindi essere
respinta come assurda: dovremmo al riguardo disporre
di un’informazione di tipo empirico per escludere che
non esista una serie infinita di oggetti, ma questo è
tutt’altro che scontato. Piuttosto si riconosce
espressamente tale possibilità:

5.535 ... Ciò che l’assioma dell’infinito intende dire


sarebbe espresso nel linguaggio dall’esservi infiniti nomi
con significato diverso.

2) Si consideri anche che per il principio di vero-


funzionalità (proposizione 5), una proposizione
complessa può ridursi completamente all’insieme delle
proposizioni elementari costituenti. Quindi, ipso facto,
uno stato di cose infinitamente complesso (ma
sviluppato, per così dire, verso l’esterno) dovrebbe

165
essere descritto da una proposizione infinitamente
complessa, la cui analisi pure non potrebbe mai avere
termine. Per escludere l’esistenza di un tale stato di
cose, dovremmo escludere a priori l’esistenza di oggetti
in numero infinito. È legittimo introdurre un postulato
così impegnativo su di una base così esile?
3) Si potrebbe dire che la nostra rappresentazione della
realtà non può essere costituita – per nostra incapacità –
da un numero infinito di elementi. Ma abbiamo visto
come Wittgenstein ritenga che ciò non basti per
escludere l’infinitezza degli oggetti nel mondo. Anzi,
posto che una macchia ha infiniti punti:

... se io noto che una macchia è tonda non noto allora una
proprietà strutturale infinitamente complessa? Oppure io
noto solo che la macchia ha un’estensione finita, il che par
già a sua volta presupporre una struttura infinitamente
complessa. ...
Una proposizione, tuttavia, può ben trattare d’infiniti
punti senza essere in un certo senso infinitamente
complessa ... (Quaderni, 18.6.15)
... È pensabile che noi – ad esempio – vediamo che tutti i
punti d’una superficie sono gialli senza vedere qualche
singolo punto di questa superficie? Pare quasi di sì ...
(Quaderni, 24.5.15)

Si vede quindi come venga ammesso già nei Quaderni


un modo per parlare di un numero infinito di punti,
senza necessariamente usare un numero infinito di
nomi. Viene vista con favore infatti la possibilità di
ridurre il nostro concetto di infinito alla nozione (non
infinitamente complessa) di una procedura di tipo

166
ricorsivo, che ci faccia ottenere un numero alto a piacere
di nuove proposizioni. Anche il nostro concetto di un
regresso infinito nell’analisi potrebbe essere sviluppato
sulla stessa falsariga.
4) Inoltre:

2.0131 L’oggetto spaziale dev’essere nello spazio


infinito. (Il punto dello spazio è un posto d’argomento.)

Da cui segue che vengono ammessi infiniti posti


d’argomento, quindi anche l’eventualità di un numero
infinito di oggetti.
In prospettiva abbiamo quindi buone ragioni per
negare che Wittgenstein pensasse all’isomorfismo
linguaggio-mondo come derivabile solo dall’assunto
inspiegabile che il mondo sia fatto proprio nel modo che
permette al linguaggio di funzionare.
In effetti Beloharsky (1971, p. 37) impiega la 4.2211
per introdurre una distinzione tra pensiero e realtà, tra
logica e ontologia: quella proposizione mostrerebbe che
la semplicità degli oggetti “non è metafisica, ma
puramente logica, escludente ogni ulteriore analisi del
pensiero sulla realtà”. In questa formulazione però la
tesi non tiene conto della premessa di tutto quanto il
Tractatus: noi non possiamo andare oltre il limite del
nostro pensiero, quindi una tale distinzione è,
letteralmente, inconcepibile. È necessario quindi
integrarla con la distinzione tra le due prospettive:
dell’io metafisico e delle persone concrete. Per queste
ultime il punto che viene sollevato è del tutto
ammissibile. Abbiamo visto come, da questa

167
prospettiva, un oggetto possa essere “semplice” in
termini non assoluti, ma solo in relazione ad un livello
prescelto di analisi. Se invece un oggetto è semplice per
il soggetto metafisico, potremmo anche supporre, per
assurdo, che la sua semplicità sia meramente logica, ma
– posto che non possiamo “metterci fuori dalla logica”
(5.61) – diventa per ciò stesso anche ontologica.
Marconi (1971, 1987), rifacendosi anche a Gargani
(1966), sostiene che l’ontologia del Tractatus è
compatibile con una lettura relativistica, anche se alcune
tensioni teoriche che si producono porteranno
Wittgenstein a preferire direttamente un paradigma
come quello delle Ricerche filosofiche. Una tale analisi
(anche se diversa dalla mia) mi sembra che confermi
che Wittgenstein si sforzava di tener conto anche di un
punto di vista “relativizzato” alle singole persone in
carne e ossa.
Mi sembra che queste osservazioni possano
suggerire forse anche quali motivi hanno portato
Wittgenstein, in alcuni momenti, a pensare che l’idea di
una serie infinita di oggetti sia un assurdo: (i) sulla base
del presupposto che non abbiamo la capacità di
formulare proposizioni infinitamente complesse (ipotesi
di per sé almeno in parte plausibile), insieme a: (ii) se
non possiamo oltrepassare il limite del nostro pensiero,
e questo ha capacità finite, non possiamo pensare un
numero infinito di oggetti. Ma un tale ragionamento
avrebbe il difetto di spingere eccessivamente, come
abbiamo visto, in direzione dell’idealismo.

7.5. Dobbiamo vedere altre difficoltà essenziali che

168
rendono controversa l’idea che in 2.0211 Wittgenstein
identifichi la proposizione originaria, diciamo p, e
l’altra proposizione, diciamo q, come se q fosse la
proposizione che descrive un complesso costituente una
parte di p, e così via per r, s etc.
Infatti Wittgenstein accetta la teoria delle descrizioni
definite di Russell: “la proposizione ove si parla d’un
complesso sarà, se questo non esiste, non insensata, ma
semplicemente falsa” (3.24). Quindi se il complesso di
cui si parla in q non esistesse, q sarebbe non insensata,
ma falsa. A sua volta p, per il principio di
verofunzionalità, dovrebbe essere falsa, e non insensata,
come invece si dice nella 2.0211. Quest’osservazione
potrebbe sembrare qui fuori luogo: se si tiene presente il
passo citato prima da Kenny (1984, pp. 98-99), ci si
rende conto infatti che nell’impianto di Wittgenstein la
teoria delle descrizioni definite trova la sua
legittimazione dopo l’introduzione della sostanza del
mondo (prima di quest’ultima mossa essa deve rimanere
al livello solo di ipotesi), quindi, in linea di principio,
quella che sembra valere da premessa logica per tutto il
Tractatus, dovrebbe poter essere spiegata senza ancora
impiegare la teoria delle descrizioni. Credo però che
questa considerazione sia sostanzialmente scorretta,
dato che altrimenti, una volta che si fosse introdotta la
teoria delle descrizioni, si dovrebbe considerare questa
una reductio ad absurdum, che scalza alla base
l’argomentazione del regresso, quindi – secondo questa
concezione – il cuore di tutta l’opera.

7.6. Anscombe (1966) sviluppa un’argomentazione

169
molto complessa, che qui presenterò in modo
schematico. Si utilizza proprio la teoria delle descrizioni
per spiegare la 2.0211, presupponendo che una
proposizione che parla di un costituente inesistente
debba essere falsa. L’autrice però distingue tra falsità
radicale e falsità comune di una proposizione. Fa
l’esempio di una proposizione come “Il parlamento
inglese fa passare una legge a larga maggioranza”: se
non esistesse un parlamento in Gran Bretagna, la
proposizione sarebbe falsa nel primo senso, ma questo
significherebbe comunque che si possono immaginare
degli esseri umani in Gran Bretagna che agiscano in
modo da rendere reale il costituente “parlamento
inglese”, anche se non si dà nella realtà il caso. Avrebbe
invece solo una falsità comune se semplicemente non
sussistesse la relazione tra il parlamento inglese (inteso
come esistente) e il “fare leggi a larga maggioranza”. “È
chiaro che una 'falsità radicale' dipende sempre dalla
possibilità di una falsità comune” (ivi, p. 44):
capiremmo una proposizione sul parlamento inglese
anche nel caso che esso non esistesse, perché la
riduciamo ad un’asserzione su esseri umani (esistenti)
che agiscono in modo da rendere “reale” l’istituzione
del parlamento inglese. A sua volta questa proposizione,
se può essere radicalmente falsa, presuppone di nuovo
una diversa proposizione che possa essere falsa
comunemente. La 2.0211 argomenterebbe quindi che il
regresso deve necessariamente avere un termine:
“Pensando che si potrebbe sollevare il problema della
'falsità radicale', dovremmo sempre distinguere fra i tipi
possibili di falsità delle nostre asserzioni”. “Ma allora

170
non potremmo mai determinare il senso della falsità
[radicale o comune] di una proposizione, tranne che
supponendo la verità di una qualche proposizione
precedente” (ivi, p. 44).
Ad ogni passaggio ci troveremmo di fronte ad una
disgiunzione tra i tipi possibili di falsità, e per questo il
senso della proposizione rimarrebbe indeterminato, a
meno di non supporre che la proposizione presupposta
sia vera e non falsa. Commentando la 3.24, Anscombe
scrive: “un tipo di indeterminatezza in una proposizione
potrebbe essere il fatto che vi sia più di un modo del suo
essere falsa: potrebbe esistere il complesso, ma non
valere ciò che di esso si diceva; oppure potrebbe non
esistere il complesso” (ivi, pp. 30-31). Viceversa, “La
proposizione elementare avrà invece soltanto uno stato
di cose che la renderà vera: 'tutto' sarà determinato da
essa – non resterà nulla di indefinito” (ivi, p. 31).
Le obiezioni che si possono fare a questa concezione
sono: (i) la presenza di una disgiunzione rende meno
determinato il senso, ma esso continuerebbe ad avere un
contenuto, per quanto più generico. Si dà in effetti il
caso che le nostre proposizioni possano essere
indeterminate in una misura maggiore o minore.
Sapendo che una proposizione è falsa (pur non
conoscendo di quale tipo di falsità), comunque
sapremmo che non è vera, e questa è già
un’informazione rilevante. Non è detto che ci siano
problemi nel supporre che le nostre proposizioni
soffrano tutte sistematicamente di questo tipo di
indeterminatezza. (ii) Viene presupposta in effetti la
teoria delle descrizioni di Russell. Per quanto si tratti di

171
un’assunzione del tutto plausibile, la scelta di far valere
quei presupposti teorici invece che altri, potrebbe
apparire arbitraria, se commisurata con le conclusioni,
molto più paradossali rispetto a Russell, che
Wittgenstein man mano ne trae lungo il Tractatus: la
Anscombe stessa rifiuterà infine la nozione di oggetto
(ivi, p. 71).

7.7. Un’ulteriore considerazione è che, già da un punto


di vista intuitivo, il senso di una proposizione complessa
dovrebbe essere fatto dipendere dal senso delle
proposizioni costituenti, non dalla loro verità –
basterebbe il fatto da solo che q abbia senso a svolgere,
ai fini dell’argomentazione, il ruolo che viene fatto
svolgere invece alla verità di q. Perché formulare la
propria argomentazione in una maniera che crea
difficoltà inutili, facendo riferimento anche alla verità
delle proposizioni costituenti, invece che al solo senso?
Anche da un punto di vista stilistico, sembra difficile
capire perché Wittgenstein avrebbe dovuto scegliere una
formulazione così lontana da quello che invece sarebbe
stato – almeno in base all’ipotesi del regresso – l’ordine
naturale dei suoi pensieri. Il requisito che una
proposizione abbia senso è molto più debole e facile da
soddisfare di quello che una proposizione sia vera:
perché assumersi un onere così ingente, la cui utilità è
invece del tutto dubbia?
Naturalmente se si dice che una proposizione “è
vera”, di può dedurre anche che deve “aver senso”, ma
il modo di esprimersi di Wittgenstein lascia supporre
che intenda: “riconoscere che una proposizione abbia

172
senso dipenderebbe dal sapere – noi – che una certa
altra proposizione sia vera”. Altrimenti, se valesse non
una prospettiva epistemologica – ciò che noi sappiamo
–, ma una “oggettivista” – i. e. una “connessione”
oggettiva di qualche tipo (ad es. logica), ma comunque
indipendente dal nostro giudizio, tra il senso della prima
proposizione e la verità dell'altra – sarebbe perlomeno
dogmatico sostenere che ci sia un paradosso in un
“regresso” del genere.
Dobbiamo considerare anche l’obiezione – almeno
altrettanto importante – che è l’impianto complessivo
della semantica del Tractatus che renderebbe scorretta
l’argomentazione così individuata in 2.0221:

4.22 La proposizione elementare consta di nomi. Essa è


una connessione, una concatenazione, di nomi.
3.318 La proposizione la concepisco – come Frege e
Russell – quale funzione delle espressioni in essa
contenute.
4.026 I significati dei segni semplici (delle parole) devon
esserci spiegati affinché li comprendiamo. ...

Il significato dei segni semplici è supposto come già


noto (presumibilmente mediante semplici ostensioni):
non serve, in linea di principio, una proposizione per
introdurli (anche un’“illustrazione” dei significati,
mediante proposizioni, può essere solo utile, non
necessaria, per la comprensione). La proposizione
viene compresa se si conosce il significato delle parti
costitutive. Quindi per rappresentarsi uno stato di cose
infinitamente complesso, non abbiamo bisogno di
conoscere il valore di verità di un numero infinito di

173
proposizioni, ma solo di riconoscere il significato di un
numero infinito di segni semplici: basterebbe ad es.
utilizzare i punti di un tratto di matita. Così, “Ciò che
l’assioma dell’infinito intende dire sarebbe espresso nel
linguaggio dall’esservi infiniti nomi con significato
diverso” (5.535).
Mi sembra poco credibile che Wittgenstein, dopo
aver espresso nei Quaderni (peraltro nella fase più
avanzata della loro elaborazione) una quantità di dubbi e
di osservazioni estremamente perspicaci e complesse su
questi problemi, senta di potersela cavare rifiutando per
principio e in maniera del tutto dogmatica proprio le
possibilità teoriche che più lo avevano impegnato.

7.8. Credo che possiamo ricavare delle indicazioni


essenziali per comprendere la 2.0211 dai passi relativi
dell’Introduzione di Russell. Scrive infatti il filosofo
inglese parlando di Wittgenstein:

His ground for maintaining that there must be simples is


that every complex presupposes a fact. It is not necessarily
assumed that the complexity of facts is finite; even if
every fact consisted of an infinite number of atomic facts
and if every atomic fact consisted of an infinite number of
objects there would still be objects and atomic facts
(4.2211). The assertion that there is a certain complex
reduces to the assertion that its constituents are related in a
certain way, which is the assertion of a fact: thus if we
give a name to the complex the name only has meaning in
virtue of the truth of a certain proposition, namely the
proposition asserting the relatedness of the constituents of
the complex. Thus the naming of complexes presupposes

174
propositions, while propositions presupposes the naming
of simples. In this way the naming of simples is shown to
be what is logically first in logic. (In Tractatus, 1954, p.
142)

Come si vede, viene ammessa, sulla base di 4.2211, la


possibilità di un numero infinito di costituenti del fatto.
D’altra parte il nome di un complesso costituente “has
meaning in virtue of the truth of a certain proposition”,
la quale affermi l’esistenza del fatto stesso – secondo
una formulazione che ricorda la tesi del regresso che sto
criticando. È possibile quindi portare l’autorevolezza di
Russell a sostegno della mia tesi oppure no?
Per rispondere dobbiamo prima analizzare con
attenzione la logica della sua argomentazione. Perché il
nome del complesso ha significato solo se esiste il
complesso stesso? Abbiamo visto come per la picture-
theory la proposizione debba essere essenzialmente
composta, articolata: i suoi costituenti devono poter
figurare anche in altri contesti proposizionali. In questo
modo la proposizione può avere senso pur essendo
falsa. Se il legame tra i costituenti fosse indissolubile, la
condizione per capire p sarebbe di vederla, di fatto,
verificata. Eppure Russell sembra attribuire
testualmente a Wittgenstein una visione del tutto
differente: la proposizione che descrive il fatto
costituente potrebbe essere considerata dotata di senso
(e dare significato al nome che designa il complesso)
solo a condizione di essere verificata. In realtà, se
Russell avesse avuto in mente il rischio di un regresso,
(i) avrebbe contraddetto il proprio richiamo alla 4.2211,
(ii) avrebbe davvero attribuito a Wittgenstein una

175
concezione della semantica da lui rifiutata. Russell
aveva discusso dettagliatamente con Wittgenstein nel
1919 il testo del Tractatus, e ne conosceva quindi bene
gli schemi euristici, quali noi leggiamo nei Quaderni:
un nome può essere considerato semplice anche qualora
designi un complesso. In questo caso, il nome è
semplice per noi. Trattare un segno come semplice
significa che possiamo rinunciare a riferirci alle
(eventuali) parti del designato considerate a prescindere
l’una dalle altre. In questo caso il significato del nome
dipende dalla verità di una proposizione che afferma
l’esistenza del complesso che esso designa.
Possiamo anche supporre di avere verificato tale
proposizione: per farlo avremmo dovuto prima capire il
significato delle parti costituenti, quindi avremmo così
individuato oggetti semplici, e avremmo di fatto risolto i
nostri problemi. Oppure possiamo immaginare di dover
proseguire per un tempo indeterminato. Il problema
però non è dato dal regresso di per se stesso – che
Wittgenstein sostanzialmente considerava ammissibile,
anche se solo come possibilità sul cui verificarsi
effettivo la logica non può pronunciarsi. Quanto
piuttosto dalla necessità (logica) che ad ogni ulteriore
passaggio, i nuovi segni “semplici” così ottenuti, siano
definiti in modo da poter essere impiegati anche in altre
proposizioni (altrimenti non sarebbero indipendenti, e il
complesso sarebbe designato ancora solo da un nome,
invece che descrivibile da una proposizione). Ma per
ottenere ciò, il loro significato deve essere costante da
un contesto all’altro – in questo senso gli oggetti sono il
sussistente, la sostanza del mondo.

176
È il fatto che la proposizione sia articolata che
permette di capirla anche senza verificare l’esistenza del
complesso che descrive: la sua articolazione ci permette
di essere liberi dalla necessità di conoscere già la
designazione (come invece è per gli oggetti). “... La
grammatica conferisce al linguaggio il necessario grado
di libertà” (Osservazioni filosofiche, § 38), indicando
quali sono le combinazioni ammesse: l’articolazione
(composizione) è lo strumento con cui sfruttiamo la
libertà che ci è concessa. Ma l’idea stessa di
articolazione presuppone che qualcosa rimanga
inalterata da una compagine proposizionale all’altra: 1)
se non ci fossero oggetti che compaiono in proposizioni
diverse, le proposizioni non sarebbero articolate, 2) se
un oggetto non rimanesse poi comunque uguale a se
stesso, pur nelle diverse compagini proposizionali,
ovviamente non lo riconosceremmo più come lo stesso
oggetto.
La “sostanza del mondo” quindi è garanzia solo
dell’articolabilità delle proposizioni, ed è questa che
crea, a sua volta, le condizioni perché un regresso
nell’analisi sia non impossibile, quanto piuttosto del
tutto innocuo. La 2.0211 può quindi intendersi così:
deve esistere una sostanza del mondo (elementi che
rimangano inalterati da un contesto proposizionale
all’altro), perché altrimenti non potremmo concepire
proposizioni articolate, e, senza di queste, il senso di
una proposizione dipenderebbe sempre (come per i
nomi) dalla verifica dell’esistenza del designato, quindi
dalla verità di un’altra proposizione: il perno di tutto il
ragionamento è però essenzialmente il concetto di

177
articolazione.

7.9. Posto che per capire una proposizione dobbiamo


conoscere il significato dei suoi costituenti, se uno stato
di cose fosse composto da due soli oggetti A e B, ma
fosse (per qualche ragione) irriducibilmente complesso
(inanalizzabile), la proposizione p che lo descrive (per
quanto non si debba temere che possa essere
infinitamente complessa) potrebbe essere capita, solo a
condizione che (come per i nomi) fosse stata verificata
l’esistenza del complesso AB (dato che per ipotesi A e B
non sono dissociabili), in questo caso quindi accadrebbe
che il senso di p potrebbe essere capito solo
riconoscendo anche la verità di p medesima. A questo
punto, se, per assurdo, vogliamo continuare a trattare p
come una proposizione, che può essere vera o falsa, e ha
senso anche prima di scoprire quale dei due casi si dia,
avremmo allora davvero un regresso vizioso, ma
all’esterno di p, con una serie infinita di meta-
proposizioni, che affermano la verità di p (p', p'', ...). Se
invece rinunciamo a vedere p come una proposizione,
possiamo permetterci di rinunciare alla sostanza del
mondo”, ma, se non ci fosse una sostanza del mondo,
non esisterebbero proposizioni, nel senso che non ci
sarebbero forme di espressione articolata – ma, se non
esistesse la possibilità di discorso articolato, allora
l’ammissione degli oggetti a fortiori risulterebbe
necessaria (ci si mostrerebbe da subito come dato
evidente).
Se non esistesse una sostanza del mondo, rimarrebbe
inspiegata la possibilità di un discorso articolato: non si

178
potrebbe dar conto di “come fa un oggetto ad assumere
varie configurazioni e nonostante ciò a rimanere
identico a se stesso” (Frongia). Ma se si scegliesse di
seguire proprio questa strada, in ogni caso risulterebbe
già dimostrata la tesi desiderata, dell’esistenza di oggetti
semplici, dato che non potremmo più pensare la
complessità interna del designato, e quindi,
conformemente alla logica dell’idealismo, neppure
avrebbe senso pensare che essa si dia. Ma grazie alla
strategia della picture-theory, le esigenze del realismo
vengono comunque salvate, perché ad essere articolate
saranno invece le proposizioni che contengono queste
unità semplici. Mi preme però di sottolineare: finché si
rimane dentro il complesso inanalizzato, anche
Wittgenstein, se si fosse posto il problema, avrebbe
dovuto ammettere una misura di induttivismo. “... È
affatto chiaro che io posso effettivamente coordinare a
questo orologio, come esso è e va davanti a me, un
nome, e che questo nome avrà significato fuori d’ogni
proposizione nello stesso senso in cui io abbia inteso la
parola. E sento che in una proposizione quel nome
risponderà a tutti i requisiti del <nome dell’oggetto
semplice>” (Quaderni, 15.6.15), quindi le connessioni
tra le parti dell’orologio, sarebbero ugualmente costanti
e immutabili proprio come è per gli oggetti (anche se, in
questo caso, solo all’interno di un sistema
convenzionale di definizioni: se stabiliamo di intendere
per “orologio” un complesso sempre esattamente
identico a quello dato). Per questo è significativo che, in
Waismann (1975, p. 205), Wittgenstein parli di “due
concetti differenti di «esperienza»”, uno dei quali

179
sarebbe quello da impiegare per costruire ad es. la
sintassi logica dei colori: mentre di un orologio è
pensabile che ad es. si blocchi o abbia ingranaggi
diversi, invece di un punto rosso non è pensabile che sia
anche blu, ma in entrambi i casi è sempre
un’“esperienza” (in un’accezione fondamentale del
termine) che fonda la relazione (in un caso esterna,
nell’altro interna). La differenza irriducibile tra i due
casi (relazioni interne ed esterne) è solo apparente: non
abbiamo mai visto un blu che è anche rosso, quindi
pensiamo che ciò derivi da una relazione interna tra i
due colori; nel caso delle parti che compongono
l’orologio, se le avessimo viste sempre e solo in quella
determinata connessione (e se in generale non avessimo
familiarità con leggi fisiche che rendono facilmente
prevedibile la possibilità di una loro scomposizione),
penseremmo (induttivamente) che il loro rapporto è
dovuto ad una relazione interna. Per questo, allo stato
attuale, la parola “orologio” può essere considerata un
“nome” solo per convenzione arbitraria.
Oltre ad un regresso di meta-proposizioni, possiamo
ammettere anche un regresso nell’analisi del significato
della proposizione stessa, ma da tutto il discorso fatto si
vede come in ogni caso essenziale sia non procedere a
“smembrare” ogni volta in maniera più accurata il
complesso di partenza, ma piuttosto ogni volta inserire
le espressioni risultanti dall’analisi in contesti
proposizionali diversi ed esterni. Il nome ha significato
solo nella proposizione: l’analisi del suo significato
viene quindi compiuta conoscendo il valore di verità
delle proposizioni in cui può figurare.

180
Tutta questa questione è molto difficile, e ho diversi
dubbi sull'analisi che propongo. In particolare non sono
sicuro di un punto che però vorrei brevemente discutere:
anche se si ammettesse la versione che critico (“la
catena di elementi – che, si intende, sono
immediatamente presenti e che sono già ora riconosciuti
dal soggetto epistemico – deve essere finita, etc.”),
comunque questa argomentazione potrebbe funzionare
solo se il rischio di regresso venisse fatto valere solo a
partire da quelli che sono gli elementi successivi (non
già immediatamente dati e disponibili) della catena, vale
a dire quegli elementi il cui “aspetto” non mi è ancora
noto. Se ci si riferisse a quei contenuti che sono stati già
appurati attraverso la catena dell'analisi già compiuta,
non si vede dove potrebbe essere il problema: per
ognuno dei livelli dell'analisi già compiuta (tranne
l'ultimo) esistono già le proposizioni (e sono note) che
danno l'indicazione degli elementi costituenti (esiste già,
ed è nota, la proposizione dalla cui verità dipende il
senso della proposizione di livello superiore). Ma se il
problema esiste solo a partire dagli elementi che non
sono stati ancora a loro volta analizzati, deve ancora
supporsi necessariamente l'intervento del tipo di
proposizioni che qui ho definito come “esterne” rispetto
a quello che è il regresso in senso stretto, e che
richiedono quindi l'utilizzo del principio di contestualità
e, di conseguenza, presuppongono la condizione che il
significato dei nomi rimanga immutato da un contesto
proposizionale all'altro. Quindi si dovrebbe sempre
arrivare alla mia conclusione, che la priorità
nell'argomento di Wittgenstein spetta alla necessità di

181
avere un “materiale semantico” di base (“nomi” e
“oggetti” semplici e inalterabili), che rende in linea di
principio fattibile la composizione di nuove
proposizioni e, così, il processo di analisi, e non che il
problema di fondo sia l'impossibilità di un regresso
infinito in quanto tale.
Questo punto è interessante inoltre perché mostra
come i due tipi di regresso (“interno” ed “esterno”)
siano tra loro strettamente collegati: è nella logica
dell'argomentazione che l'uno implichi l'altro. Questo
potrebbe contribuire a spiegare la facilità con cui, pur
focalizzando la propria attenzione su uno dei due e non
sull'altro, si sviluppino di fatto ragionamenti che
(logicamente) implicano i problemi posti dall'altro. Da
qui la confusione tra i due ordini di problemi. Credo che
sia abbastanza plausibile pensare che lo stesso
Wittgenstein, analizzando tutta la questione da una
pluralità di punti di vista, e vedendo ogni volta
comparire le difficoltà teoriche ed intuitive collegate più
da vicino a ciascuna delle prospettive corrispondenti a
cui volta per volta più si legava, abbia finito
semplicemente per considerare insuperabili queste
difficoltà, preferendo infine abbandonare l'impianto
stesso del Tractatus.
L’analisi del senso della proposizione può diventare
un processo infinito, e, in questo caso, potremmo
legittimamente chiederci se sarebbe mai possibile capire
la proposizione. Ma la risposta di Wittgenstein non sta
nell’assunzione ad hoc che il processo non debba essere
infinito. Ma piuttosto nell’interpretare questo caso con
l’ingegnosa teoria che quella parte del senso che non

182
siamo riusciti a determinare (perché non abbiamo potuto
procedere oltre nell’analisi), deve essere intesa come
semplicemente non-esistente: il non-determinato è, per
definizione, impensabile, e la filosofia “deve delimitare
l’impensabile dal di dentro attraverso il pensabile”
(4.114).
È sulla base di questa teoria (non per evitare il
regresso) che – io credo – viene introdotta l’esistenza di
oggetti semplici ed immutabili – per garantire
l’inalterabilità del significato da un contesto (e
proposizionale e ontologico) all’altro. Ma questo
principio deve essere accettato solo in quanto logica
conseguenza del principio di identità, e non perché
desideriamo poter dire che le nostre proposizioni
abbiano senso.
È possibile che Russell abbia scelto di non
sviluppare in maniera più esplicita e dettagliata il suo
pensiero, per un comprensibile desiderio di prudenza,
dato che l’argomentazione è congegnata già in modo da
contenere in nuce tutta la picture-theory, e posto anche
che in quell’occasione il suo desiderio era –
verosimilmente – di mettere in buona luce l’opera che
grazie al suo interessamento veniva pubblicata, e quindi
di evitare analisi che potessero apparire eccessivamente
tortuose e farraginose. Un’argomentazione più semplice
e secca aveva più probabilità di suscitare interesse –
anche se, insieme, era più facile da banalizzare. In
questa maniera il testo di Russell, pur non facendo leva
in realtà su di un regresso vizioso, ha finito per prestarsi
ad una serie di equivoci, che hanno condizionato le
letture successive – equivoci tanto più difficili da

183
riconoscere, dal momento che un regresso vizioso nella
determinazione del significato in effetti è chiamato in
causa, però non è escluso ad hoc per far salva la
determinatezza del senso, ma ha semmai solo un ruolo
parziale all’interno di un’argomentazione più
complessa. Si può dire che l’evidenza fattuale che le
proposizioni hanno senso, vale solo come conferma a
posteriori di una deduzione già fatta valere
autonomamente. Anche in seguito è facilmente
comprensibile che Russell abbia rinunciato a tentare
un’esegesi più accurata: possiamo ricordare l’episodio,
raccontato da Malcolm (1988, pp. 70-72), in cui il
filosofo austriaco fu coinvolto in una polemica, ma,
nonostante le sue proteste e richieste esplicite, non trovò
neppure tra i suoi amici ed estimatori qualcuno che ne
prendesse le difese. Nonostante l’ammirazione, era in
effetti anche corretto da parte loro non sbilanciarsi nella
difesa di un pensiero che poteva ben apparire confuso e
paradossale. Nelle parole di Malcolm (ivi, p. 70): “Mi
domandò se sarei stato disposto a pubblicare una
smentita [ad un’errata interpretazione dei suoi scritti che
circolavano inediti], ma io gli risposi che non avevo la
più pallida idea della forma che tale smentita avrebbe
dovuto assumere”.
Per quanto riguarda l'accusa di dogmatismo, si deve
ricordare che lo stesso Wittgenstein ha dichiarato, al
tempo dei colloqui annotati da Waismann (1975, p.
173): “Nel mio libro [il Tractatus] ho proceduto ancora
in modo dogmatico. Questo procedimento è legittimo
solo se si tratta di fissare per così dire la fisionomia di
quello che si riesce appena, faticosamente, a

184
riconoscere, e questa è la mia giustificazione”. Ma
questa autocritica mi sembra ancora del tutto coerente
con la ricostruzione qui tentata, 1) perché le parole che
enfatizzano la difficoltà del compito, male si adattano ad
una tesi tutto sommato semplice quale quella del
regresso (nella sua interpretazione tradizionale) o anche
ad una teoria che si limiti ad affermare
(“dogmaticamente”) una forma di realismo ingenuo. Si
prestano invece bene a descrivere lo sforzo di
concentrazione che qui si suppone che Wittgenstein
debba aver fatto nel tentativo di “fissare la fisionomia”
di un'intuizione così sottile e sfuggente, riguardo alla
quale appare assai arduo riuscire a stabilire quali ne
debbano essere le implicazioni e i presupposti. Questo
ci porta a: 2) una tale “fisionomia” deve essere
“riconosciuta”, come se fosse un materiale già dato, per
quanto oggetto solo di un'apprensione intuitiva molto
confusa. Una tale affermazione può essere vista in
effetti come espressione di una scelta teorica fortemente
preconcetta, ma si tratta in realtà di un'interpretazione
che non è insindacabile e può essere sostituita da una
lettura alternativa: se la strategia di pensiero di
Wittgenstein può essere descritta nei termini del
“paradosso dell'analisi”, c'è effettivamente una forma
(molto debole) di “dogmatismo”, i. e. si sceglie, in una
maniera di fatto arbitraria (o che comunque dipende in
maniera essenziale dalle intuizioni soggettive
dell'autore) un certo sistema di analisi invece che un
altro, contando sul fatto che esso soddisfi dei requisiti di
plausibilità intuitiva che in realtà esso stesso,
circolarmente, contribuisce a definire in dettagli più o

185
meno rilevanti. Se si considera però che tra i vari
requisiti di plausibilità intuitiva posti, ve ne figura
almeno uno fondamentale (mi riferisco a quello per cui
il significato di un nome deve, in qualche modo,
risultare riconoscibilmente identico a se stesso da un
contesto proposizionale ad un altro – per evitare
l'equivocità, e di fatto l'inservibilità, della descrizione),
e che questo requisito è, in generale, molto difficile da
soddisfare per ogni teoria del linguaggio e della mente,
credo che si debba ammettere che in un senso
importante la qualità dell'argomentazione di
Wittgenstein va ben oltre quanto le accuse di
dogmatismo possono lasciar supporre. Un limite
evidente di queste mie considerazioni è che il requisito a
cui faccio riferimento, è stato diffusamente e
aspramente contestato, e quindi potrebbe apparire come
“dogmatico” lo stesso farvi appello. Sarebbe comunque
un obiettivo rilevante, e per nulla “dogmatico” in un
qualunque senso filosoficamente accettabile del termine,
mostrare che un modello teorico che assume questi
presupposti non dà poi luogo a paradossi o a
conseguenze in genere inaccettabili.
Per ragioni di brevità, non è possibile qui dedicare
troppo spazio alla questione, ma vorrei ugualmente dare
delle considerazioni orientative che dovrebbero però
essere sviluppate molto più ampiamente. Non posso
approfondire qui quegli approcci teorici che danno per
presupposto che il linguaggio (o perlomeno quello
“ordinario”) abbia una vaghezza e ambiguità irriducibili
(nella Parte Seconda tornerò, per quanto rapidamente,
sul problema), ma vorrei indicare le linee guida della

186
mia strategia di risposta: 1) quella che empiricamente
può apparire come un'“ambiguità” più o meno
costitutiva della comunicazione (e del pensiero), può
essere spiegata in realtà in termini della sua
“complessità”: se c'è un numero grandissimo di
elementi (noti comunque al parlante e al ricevente) che
come osservatori dovremmo (e non possiamo) prendere
in considerazione, possiamo avere l'impressione che la
comunicazione sia ambigua (o contraddittoria) ma non
inefficace. Se si ammette che un messaggio, nella
misura in cui è “ambiguo”, è anche “non informativo”,
naturalmente sono ambigui praticamente tutti i
messaggi. Ma nella misura in cui un messaggio (o una
descrizione) dà informazione, parlanti che sembra che
“comunichino” (si scambino informazione) mediante
messaggi ambigui, stanno semplicemente attingendo ad
una riserva di conoscenze condivise, che rendono non
necessaria l'informazione che il messaggio in ogni caso
non è in grado di dare. 2) Ho già ammesso che nella
comunicazione è sempre implicita in effetti una misura
di ambiguità, perché soggetti epistemici diversi
definiscono il significato in base a diverse esperienze (v.
paragrafi 6.5, 6.6). Riguardo al pensiero (in quanto volto
a rappresentare parti della realtà e non a trasmettere
informazioni ad altri soggetti epistemici), la
“proposizione” “mostra” come è la situazione descritta,
nel caso la proposizione risulti vera, ma (nell'analisi del
realismo) l'informazione che si ottiene è “ambigua”, nel
senso che il fatto descritto è in qualcosa diverso da
come la proposizione lo descrive. Nell'analisi idealista
invece, questa ambiguità non è rilevabile: sarebbe

187
autocontraddittorio volerne parlare, dato che non posso
andare oltre “il limite del (mio) pensiero”.
Nell'analisi del rapporto idealismo/realismo, l'accusa
di dogmatismo è poco applicabile tanto quanto accade
per la tesi sul regresso: l'intenzione che animava
Wittgenstein era di mostrare che la sfasatura tra questi
due piani (idealista e realista) poteva considerarsi
filosoficamente del tutto innocua. In questa pretesa c'è
in effetti un elemento di “arbitrarietà”: posto che una
discrepanza tra i due modi di vedere, oggettivamente c'è
(allo stesso modo in cui ciò si verifica per es. tra due
versioni in lingue diverse di uno stesso testo), in che
modo si può stabilire se le differenze riscontrabili sono
o no filosoficamente pericolose? Ci si dovrà affidare
necessariamente ad una valutazione di tipo “intuitivo”,
ma è eccessivo da qui passare ad un'accusa di
dogmatismo. Il senso di questa strategia di pensiero sta
nel fatto che se due situazioni teoriche appaiono dotate
di una sorta di omologia di struttura, si può supporre che
le differenze che possono apparire a prima vista
essenziali, siano in realtà di tipo estrinseco e dovute ad
una superficialità di visione. Dato che una buona parte
delle difficoltà nella controversia idealismo/realismo è
dovuta proprio alla necessità di capire che cosa
effettivamente implichi ciascuna delle due posizioni, c'è
un ampio spazio per mostrare che entrambe, sviluppate
fino alle estreme conseguenze, siano convertibili l'una
nell'altra: “l'idealismo, pensato con rigore sino in fondo
porta al realismo” (Quaderni, 15.10.16), viceversa
l'idealismo con “il solipsismo, svolto rigorosamente,
coincide con il realismo puro” (5.64).

188
7.10. Ammessa tutta questa ricostruzione, ci si può
chiedere perché Wittgenstein stesso non abbia cercato di
dissipare gli equivoci così sorti. La risposta può essere
trovata in una molteplicità di fattori. Il motivo
principale è che in realtà l'interpretazione tradizionale,
parlando di un regresso infinito nell'analisi della
proposizione, alla lettera è del tutto nel giusto. Il
problema è poi però stabilire come debba avvenire
questo processo di analisi. Per il principio di
contestualità esso deve avvenire necessariamente
attraverso ulteriori proposizioni (“esterne”), che
specificano ogni volta caratteristiche “interne” del
complesso (che al passaggio precedente era individuato
in realtà come oggetto semplice, e non come
“complesso”). Il dispositivo teorico prodotto da
Wittgenstein permette in effetti di dar conto
dell'intuizione che ad ogni nuovo passaggio (quindi ad
ogni nuovo apporto di informazione) si modifichi
l'immagine soggettiva dello stato di cose rappresentato,
ma comunque si conservi il riferimento ad uno “stesso”
stato di cose (conosciuto progressivamente meglio: il
discorso è poi facilmente adattabile al caso in cui si parli
non di “informazione” o “conoscenza” , ma di
“definizione” e di “maggiore ricchezza semantica”). È
presumibile che ad ogni nuova applicazione del
principio di contestualità ad elementi che erano presenti
al livello subito precedente, si raggiunga un ulteriore
livello nell'analisi, in cui compare qualche
specificazione che prima non appariva e in cui
comunque la situazione rappresentata appare diversa in

189
qualcosa da prima. Per definizione, se si ritenesse
invece che questo processo di analisi non può far
emergere una rappresentazione diversa, e fosse
interamente riferita ad una catena di elementi tutti
immediatamente già dati, avremmo allora, forse, in
questo caso, che non sarebbe più necessario il ricorso a
proposizioni “esterne” per rilevare la presenza di
ciascuno di questi elementi: esprimendomi un po'
approssimativamente, se nella proposizione “AB”,
l'analisi mostra che “A” indica il complesso CD, allora
“CDB” verrebbe ad affermare simultaneamente sia
CDB che AB. Un'analisi di questo tipo,
presumibilmente, sarebbe – in se stessa – inutile a
tautologica, ma comunque l'argomentazione di
Wittgenstein potrebbe essere intesa più o meno così:
“questa catena di elementi deve essere finita, perché
altrimenti il senso della proposizione sarebbe
indeterminato, dato che ad ogni livello n, il senso inteso
dipenderebbe dall'essere vera o meno un'ulteriore
proposizione di livello n+1”, o, con una variante,
“questa catena deve avere un termine, perché altrimenti
si darebbe un senso della proposizione, ad un qualunque
livello n dell'analisi, solo ammettendo previamente un
livello n+1 e così via” (uno dei problemi è se sia
possibile o no in linea di principio un senso che non sia
“determinato” e che cosa ciò significhi). In questo caso
però 1) l'argomento sarebbe circolare: si rifiuta
un'analisi infinita perché si rifiuta un'analisi infinita (ma
cfr. 4.2211); 2) credo che dovrebbe prevalere senz'altro
l'obiezione che un conto sono le questioni sulla realtà
(gli “oggetti” e la “sostanza del mondo”) e un conto

190
molto diverso sono le questioni sul linguaggio (il senso,
la determinatezza e l'analisi delle proposizioni), e
sarebbe arbitrario supporre che le prime debbano essere
“rispecchiate” nelle seconde.
Se si accettasse questa interpretazione, sarebbe
legittimo accettare le critiche più diffuse, che accusano
il Tractatus di dogmatismo, ma la mia ipotesi è che sia
fuorviante il modo in cui in genere è presentata e
sviluppata questa critica. È vero infatti che c'è un
regresso, potenzialmente infinito, nell'analisi dei
costituenti della proposizione, ma la scansione di questo
regresso, che permette in effetti di determinare sempre
più esattamente il significato della proposizione iniziale
– così come sostengono le letture più frequenti – fa
tutt'uno con una serie di proposizioni “esterne”
(“esterne” nel senso che specificano ulteriormente
l'immagine assegnata agli elementi costituenti “interni”,
ma facendola apparire “morfologicamente” diversa da
come appariva prima, quindi si deve intendere che il
loro contenuto non era incluso inizialmente nella
proposizione di partenza. Queste proposizioni, che
agiscono dall'esterno, possono svolgere il loro compito
soltanto se il contenuto semantico che devono
specificare si mostra riconoscibilmente identico, da un
lato, nel loro stesso senso, e dall'altro nel senso della
proposizione analizzata (al livello di analisi che viene
determinato dalla proposizione “esterna”
corrispondente). Per questo è necessario che il
significato di ogni nome (l'“aspetto” di un oggetto)
rimanga immutato da un contesto proposizionale
all'altro.

191
Il limite di questa analisi è però che ci costringe di
fatto a pronunciarci su aspetti dell'argomentazione di
Wittgenstein sui quali l'autore non si è espresso o per lo
meno non lo ha fatto chiaramente, e deve essere quindi
considerata piuttosto la ricostruzione di un ordine di
pensieri che in effetti rende legittima (e non arbitraria,
come in genere si ritiene) la conclusione di
Wittgenstein, e per questo può essere quello che egli
aveva in mente. C'è una certa coerenza con le evidenze
testuali, e soprattutto si deve considerare che su
questioni così difficili e intricate, differenze di
prospettiva anche piccole sul problema, possono portare
a formulazioni che appaiono tra loro in contraddizione,
ma più perché si è finito per accentuare aspetti diversi di
una stessa strategia di pensiero. In realtà la connessione
logica tra le prospettive in questione (qui in particolare,
regresso interno versus esterno – anche se discorsi simili
possono farsi anche su altri punti) è molto forte, ed è
difficile (verosimilmente impossibile) dire quanto
l'intenzione dell'autore si soffermasse più sull'una che
sull'altra. Un'analisi di questo genere credo che abbia
comunque interesse, per lo meno in quanto volta a
costruire una “mappa” delle relazioni logiche che la
teoria di Wittgenstein sembra intrattenere con
concezioni che condividono con essa elementi
importanti: l'obiettivo in questo caso non sarà più
strettamente esegetico, ma avrà comunque rilievo per
tentare un'analisi autonoma dei problemi che
Wittgenstein pone.
In quest'ordine di idee, deve essere osservato in
particolare che 1) nell'analisi dell'idealismo, si dovrà

192
considerare più rilevante e significativo il regresso delle
proposizioni “esterne”: i contenuti della proposizione
che esso permette di riconoscere e identificare, si
mostrano tutti nella prospettiva (sincronica, o, meglio,
intemporale) dell'io metafisico. Formalmente (i. e.
nell'analisi idealista della picture-theory) non è neppure
corretto dire che ad ogni nuova applicazione del
principio di contestualità (cioè ad ogni nuovo livello di
analisi nella prosecuzione del regresso) si continui a
parlare dello “stesso” fatto, dato che il processo si
svolge diacronicamente, e, nel presente dell'io
metafisico, i significati (gli “oggetti”) coinvolti hanno
semplicemente un contenuto fenomenico diverso.
2) È nell'analisi del realista che acquista molta più
importanza il regresso dell'analisi “interno” alla
proposizione iniziale, dato che ad ogni nuovo passaggio
(nell'analisi realista) cambia il significato della
proposizione, ma ci si continua (in qualche modo) a
riferire sempre a qualcosa di “oggettivamente” identico
– anche se attraverso l'analisi stiamo riuscendo a
costituire un'immagine sempre più ricca di questo
qualcosa.
Supponendo che Wittgenstein considerasse
prioritario “salvare” una forma di realismo il più
possibile simile al realismo del “senso comune”, la
valutazione più prudente e plausibile sembra essere che
lui stesso desse particolare importanza a quello che ho
chiamato il “regresso interno” alla proposizione, o più
esattamente che si sarebbe sentito soddisfatto solo
riuscendo ad ottenere quello che è il senso intuitivo di
questo regresso: che ad ogni passaggio si arricchisca

193
l'immagine che abbiamo di una realtà da intendersi
come “esterna”. In uno schema teorico quale quello
descritto dal “paradosso dell'analisi”, i contenuti
intuitivi che nel nostro caso costituiscono l'analysandum
(le intuizioni del realismo) rischiano di essere del tutto
persi se si cerca di leggerli attraverso un'analisi
idealista. È possibile quindi che Wittgenstein
considerasse troppo pericolosa una strategia
argomentativa che accentuava la funzione teorica svolta
dal regresso “esterno” alla proposizione. (Nella Seconda
Parte, cercherò di sviluppare una diversa possibilità per
introdurre una nozione alternativa soddisfacente di
“realtà”).
Per quanto sia un discorso necessariamente aleatorio,
credo che si possa considerare plausibile
l'interpretazione che propongo perché: (i) abbiamo visto
che il riferimento al regresso gioca in effetti un ruolo.
Distinguere con maggiore chiarezza il ruolo che
esattamente gli spetta da quello che ha finito per essergli
attribuito, avrebbe comportato in realtà uno sviluppo
ulteriore dell’argomentazione. In particolare: (a) sarebbe
stato importante poter fornire esempi di oggetti e di
proposizioni elementari. Ma, come vedremo, sarà
proprio un tale ordine di problemi che lo porterà
piuttosto ad abbandonare la teoria del Tractatus49. (b) La
49
Nelle lezioni degli anni 1930-1933, arriverà a sostenere che
l’impossibilità di produrre esempi costituiva la prova che nel
Tractatus vi erano degli errori, infatti “né Russell né lui stesso
avevano mai prodotto degli esempi di proposizioni «atomiche»,
e ... ciò indicava che ci doveva essere qualcosa di sbagliato
nell’assunzione delle proposizioni atomiche, benché fosse
difficile dire esattamente che cosa” (Moore, 1970, p. 325).

194
direzione seguita in questa autocritica sarà in effetti
verso l’idea che le proposizioni elementari non sono
logicamente indipendenti l’una dall’altra; ma con questo
viene a mancare tutto il quadro complessivo che rende
possibile pensare a oggetti immutabili. Affermare
l’immutabilità degli oggetti significa che essi non
cambiano fattezza da un contesto all’altro: gli oggetti
sono logicamente indipendenti l’uno dall’altro; ma
questo fa tutt’uno con il dire che anche gli stati di cose –
che sono costituiti da oggetti – siano indipendenti l’uno
dall’altro (2.062). Se invece un fatto atomico ha delle
fattezze che dipendono “logicamente” (in qualche
senso) da un altro fatto atomico (al modo che l’essere
verde rende impossibile l’essere al tempo stesso blu), si
apre uno spazio considerevole per supporre che in
ciascuno di essi ci sia qualche componente che è sì
“comune” (in modo da spiegarsi l’interdipendenza
logica), ma subisce comunque un qualche tipo di
trasformazione ontologica per il fatto di occorrere in
contesti diversi. Dovrà accadere, per intenderci, che
qualcosa come “rosso-in-sé” venga ad essere alterato in
qualche modo da “gradazione-n-di-rosso”, se il risultato
ontologico deve consentire di trarre da “P ha la
gradazione n di rosso”, l’inferenza che “P non ha la
gradazione m di rosso”.
Tra il ‘29 e il ‘30, Wittgenstein così si esprimerà:

Supponiamo di chiamare b l’unità – diciamo – di brillanza


e che E(b) sia l’asserzione che l’entità E possiede tale
brillanza; allora la proposizione E(2b), la quale dice che
E ha due gradi di brillanza, sarebbe analizzabile nel
prodotto logico E(b)&E(b), ma questo è identico a E(b);

195
se, d’altra parte, cerchiamo di distinguere fra le unità e
scriviamo di conseguenza E(2b)=E(b')&E(b''), veniamo ad
assumere due unità distinte di brillanza; e allora, se
un’entità possiede un’unità, ci si potrebbe chiedere quale
delle due – b' o b'' – essa sia; il che è ovviamente assurdo
(Alcune osservazioni sulla forma logica, in Osservazioni
filosofiche, 1976, pp. 263-264).

Più chiaramente, nell’ultimo caso, si potrebbe anche


dire: abbiamo due unità, e possiamo applicarne una, ma
quale che sia quella delle due che scegliamo, non
possiamo dedurne vero-funzionalmente che l’altra è da
escludersi a priori. Nelle Osservazioni filosofiche (§ 86)
troviamo:

La sintassi vieta una costruzione come 'A è verde e A è


rosso' ... ma per 'A è verde' la proposizione 'A è rosso' non
è per così dire un’altra proposizione – e questo è ciò che
la sintassi mette in chiaro – bensì un’altra forma della
medesima proposizione.
In tal modo la sintassi raccoglie assieme tutte le
proposizioni che sono una sola determinazione.

È l’ultimo corsivo (dell’autore) che ci fa capire molto


incisivamente che l’ontologia di una specifica
determinazione di colore non è più considerata
indipendente da quella delle determinazioni alternative.
Come si vede, tutta la questione è estremamente
intricata e sottile, e verosimilmente Wittgenstein ha
preferito non impegnarsi in una discussione in difesa di
tesi che lui stesso ormai si andava man mano
convincendo che erano insostenibili. Sono proprio
questi problemi che lo porteranno ad abbandonare le

196
posizioni del Tractatus. Waismann così riferisce le sue
parole: “l’errore della mia concezione stava nel fatto di
credere che si potesse stabilire la sintassi delle costanti
logiche senza considerare il nesso interno delle
proposizioni. Non è così. Non posso dire per esempio
che rosso e blu sono contemporaneamente nello stesso
punto. Qui non si può fare il prodotto logico”
(WAISMANN, 1975, p. 62); “un sistema di proposizioni è
accostato alla realtà come un metro ... Non accosto le
singole linee ma l’intera scala ... Tutto questo non lo
sapevo ancora quando scrivevo il mio libro: credevo che
ogni deduzione poggiasse sulla forma tautologica. Non
avevo ancora visto che un’inferenza può avere anche
questa forma: un uomo è alto due metri, quindi non è
alto tre metri” (ivi, p. 51).
(ii) Si deve senz’altro dare rilievo alla personalità del
filosofo e in particolare all’insofferenza che mostrava
verso i discorsi e i comportamenti che riscontrava nel
mondo accademico. Verosimilmente avrebbe
considerato una preoccupazione filologica inutile l’idea
di tornare a ricostruire un percorso così tortuoso quando
ormai gli appariva essere un vicolo cieco. Inoltre sono
diversi gli episodi (ad es. con Popper o con Carnap) che
lo mostrano animato da una profonda convinzione della
propria superiorità, fatta dipendere forse, più che dal
talento intellettuale, anche da uno specifico modo di
intendere l’impegno filosofico – quindi si può pensare
che in molti casi si sentisse di non dover dare
importanza alle critiche che gli venivano fatte.
Waismann in conclusione di Ludwig Wittgenstein e il
Circolo di Vienna enuncia, a proprio nome, una serie di

197
tesi, tra le quali una versione dell’argomento del
regresso, dichiarando di prendere ispirazione da
Wittgenstein: è noto però come questi accolse
malamente il lavoro (v. la Presentazione di McGuinness
a WAISMANNN, 1975), tanto che l’uscita della progettata
opera di Waismann, Philosophy of Language, che
avrebbe dovuto costituirne lo sviluppo, fu
continuamente ritardata, fino a vedere la luce solo
postuma.
Con parole molto precise, Marino Rosso descrive
l’aspetto forse più immediatamente evidente della
personalità intellettuale di Wittgenstein: “Egli tende a
sacrificare la chiarezza di certe osservazioni alla
laconicità ed enigmaticità di altre, senza dubbio per
proteggersi dall’aborrita banalità, ma anche per un
motivo più profondo. Spesso – e forse sempre –
Wittgenstein si trovò a sostenere tesi filosofiche
estreme, capaci di suscitare al primo ascolto obiezioni
spontanee apparentemente decisive. Wittgenstein tende
a proteggersi con una duplice tecnica: da un lato
formulando egli stesso (piuttosto male) quelle obiezioni
e presentandole come abbagli, ingenuità, reperti
patologici; dall’altra scegliendo per le proprie tesi una
formulazione criptica e reticente, che offra pochi punti
deboli” (ROSSO, 1988, pp. 53-54).
(iii) Infine si può ricordare una testimonianza riportata
in un’appendice da Lokhorst (1988, pp. 24-25): G.
Kreisel riferisce per lettera all’autore di aver avuto una
conversazione con Wittgenstein e di avergli detto che
“what I found in Tractatus was compelling only if one
assumed that there were finitely many simples.

198
Otherwise things became contrived here and there”, e la
risposta fu “something to the effect: 'Of course, I
thought of the primitive case, and if things are clear
there, the rest will look after itself...'”. Ora, se il
finitismo doveva caratterizzare solo una fase
preparatoria di un sistema che consentisse di accettare
anche la nozione di infinito, non avrebbe avuto senso
fondare tutto questo su di un’argomentazione che fa
appello in modo essenziale al principio che un regresso
infinito sia assurdo.

Il misticismo di Wittgenstein

8.1. Se l’analisi che ho proposto del brano di Russell è

199
giusta, credo che, già in quella forma, abbiamo ottenuto
un risultato compatibile con il resto della mia indagine.
Vorrei però suggerire la possibilità di una lettura ancora
diversa della 2.0211. L’impianto complessivo della mia
interpretazione, rende naturale pensare che la
proposizione q che lì viene evocata non sia la
descrizione del complesso che costituisce una parte di p:
il regresso che si teme non è interno a p, e ottenuto a
causa dell’analisi di p, piuttosto è esterno ad essa.
Secondo tutta la semantica e la gnoseologia del
Tractatus, p è una semplice connessione di oggetti che
fanno da proposizione, ma sono esattamente della stessa
natura fondamentale degli oggetti che dovrebbero essere
raffigurati. Il problema, evidentemente, è di spiegare il
rapporto tra p e il fatto descritto, diciamo f.
Il timore che anima Wittgenstein è che ci se la cavi
pensando di poter introdurre una seconda proposizione,
q, che afferma che lo stato di cose che costituisce p
abbia una particolare capacità di raffigurare f. Se q è
vera, p sarebbe sensata. Naturalmente il problema si
riproporrebbe: q a sua volta è solo uno stato di cose:
come spiegare il rapporto di q con p ed f? Si noti come
qui il regresso sarebbe sicuramente vizioso, dato che, se
q fosse falsa, p non avrebbe senso, e così via con r, s etc.
Si tratta di quello che spesso viene indicato come
“problema gnoseologico” – anche se la sua definizione è
congegnata in modo da fare da premessa anche per la
costruzione di una semantica: in questo sta il senso della
“svolta linguistica”. Quale risposta possiamo quindi
trovare nel Tractatus a questo problema?
Gli oggetti vengono introdotti con un ragionamento

200
del tipo di quello che abbiamo visto spiegare da Kenny
– quindi indipendentemente dall’eventualità o meno di
un regresso nell’analisi. Dato che il termine
“indistruttibile” usato da Kenny può risultare fuorviante,
ribadiamo che gli oggetti “sono ciò che rimane
invariato non nell’effettiva transizione da una certa
configurazione del mondo all’altra (il mutamento
fisico), ma nel passaggio da una sua qualunque
configurazione concepibile ad una qualunque altra (la
variazione logica)” (FRASCOLLA, 2000, p. 90), se non
altro per 6.3611: “Non possiamo confrontare alcun
processo con lo «scorrer del tempo» – esso non v’è –,
ma solo con un altro processo (ad esempio, con il
movimento del cronometro)”. L’inalterabilità degli
oggetti è invece in senso logico, e consiste nel principio
che il designato di un nome rimane perfettamente
identico a se stesso in qualunque stato di cose compaia:

5.552 L’«esperienza» che ci serve per la comprensione


della logica, è non l’esperienza che qualcosa è così e così,
ma l’esperienza che qualcosa è: ma ciò non è
un’esperienza.
La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza
che qualcosa è così.
Essa è prima del Come, non del Che cosa.
3.221 Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono
rappresentanti. Posso solo dirne, non dirli. Una
proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa
essa è.

L’indicazione dell’oggetto (naturalmente non


pronunciando il nome, ma con l’ispezione dell’oggetto

201
stesso) è la risposta alla domanda “Che cosa?” – e fa
parte della “logica”. Quindi non si può predicarne
l’indistruttibilità, che, intesa in senso più o meno
letterale, sarebbe ancora una proprietà – per di più
collegata allo scorrere del tempo.
Un nome (con il suo significato – 3.326) è
inalterabile perché può occorrere in contesti
proposizionali diversi rimanendo uguale a se stesso –
come si vede, è una semplice applicazione del principio
d’identità: se il nome cambiasse da una proposizione
all’altra, semplicemente non lo riconosceremmo più
come lo stesso nome (posto anche che deve essere
semplice).
Una volta che sia stata data questa caratterizzazione
rigorosamente logica di nome ed oggetto, ci accorgiamo
che in realtà la base per introdurre la nozione di oggetto
era stata data in 2.012, 2.0121: non possiamo pensare
che il futuro ci riservi la scoperta di nuove possibilità: le
staremmo appunto pensando, quindi verrebbero
attualizzate (come possibilità) già ora. “Ciò che non
possiamo pensare, non possiamo pensare”.
Quindi l’intero insieme delle possibilità che
concepiamo, deve essere dato ora – o, più esattamente,
in un presente (che viene per questo visto come)
intemporale.

8.2. È avendo in mente queste considerazioni, che


dobbiamo leggere:

6.4311 ... Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel
tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel

202
presente.
La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo
visivo è senza limiti.

Il campo visivo è “senza limiti” nel senso che segna il


limite del pensiero che non possiamo trascendere.
Abbiamo visto che

5.632 Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un


limite del mondo.
5.633 ... nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia
visto da un occhio.

La “vita nel presente” ha il suo fondamento filosofico


nell’eternità della sostanza del mondo, che si trova così
ad essere la base – oltre che della semantica e della
gnoseologia – anche dell’etica di Wittgenstein.
Possiamo quindi vedere come Wittgenstein affronta
il problema gnoseologico. Ogni oggetto deve –
necessariamente – restare uguale a se stesso, qualunque
sia lo stato di cose in cui figura. Ciò posto, (i) possiamo
spiegare la semantica, attraverso la forma logica di
raffigurazione:

2.2 L’immagine ha in comune con il raffigurato la forma


logica della raffigurazione.

Dove l’espressione “in comune” va presa nel senso più


forte e letterale. Qui il discorso sugli oggetti sembra
applicarsi solo in modo improprio, dato che la forma
logica comune a segni e mondo è quella più generale ed
astratta, e finisce per coincidere con il limite (l’io

203
metafisico, il pensiero – in termini semantici: il metodo
di proiezione), che contiene tutte le cose. Torneremo in
seguito su questo punto.
(ii) Invece la rappresentazione che le persone in carne e
ossa si fanno dei fatti, viene spiegata in questi termini:
gli oggetti, in quanto compaiono nella mente di A,
rimangono gli stessi (e con lo stesso livello di
“indeterminatezza”) di quando compaiono nel fatto che
A si raffigura (secondo quanto giudica l’io metafisico).
Il rapporto mente-mondo viene risolto con l’identità di
una parte del materiale impiegato per costituire
raffigurazione e raffigurato (le parti che l’io metafisico
giudica differenti, gli serviranno ad identificare appunto
l’una come raffigurazione e l’altro come raffigurato –
entrambi in senso empirico).
(iii) Per l’io metafisico vale il riconoscimento che “io
sono il mio mondo”: gli oggetti che costituiscono la mia
“mente”, sono ontologicamente identici al mondo che
rappresentano.
È questa tesi che permette di spiegare una serie di
passi molto significativi dei Quaderni.

... L’Io filosofico è non l’uomo ... Il corpo umano però, il


mio corpo in particolare, è una parte del mondo tra altre
parti del mondo, tra animali, vegetali, minerali etc. etc.
Chi s’avvede di ciò non vorrà concedere al suo corpo o al
corpo umano una posizione privilegiata nel mondo.
Egli considererà uomini e animali, del tutto
ingenuamente, cose simili e compagne. (Quaderni,
2.9.16)
Una pietra, il corpo d’un animale, il corpo d’un uomo, il
mio corpo, stanno tutti sullo stesso livello.

204
Perciò quello che avviene, venga da una pietra o dal mio
corpo, è né buono né cattivo. ... (Quaderni, 12.10.16)
E in questo senso posso anche parlare d’una volontà
comune al mondo intiero.
Ma questa volontà è in un senso più alto la mia volontà.
Come la mia rappresentazione è il mondo, così la mia
volontà è la volontà del mondo. (Quaderni, 17.10.16)

Vediamo con chiarezza come l’esperienza di misticismo


che ha avuto tanta importanza nella riflessione di
Wittgenstein non è da intendersi come un ambito
separato, ma piuttosto come una conseguenza teorica
dedotta (con buon margine di rigore) dalla sua logica.
Possiamo capire quindi la tensione e il tormento che
hanno animato Wittgenstein anche nelle questioni di
logica “pura”. Per Wittgenstein

6.522 V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il


mistico.

Ma il mistico non è l’oggetto di una ricerca diversa da


quella condotta in logica.

6.44 Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è.


5.552 ... La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni
esperienza che qualcosa è così.
Essa è prima del Come, non del Che cosa.

Mentre il come è “detto” dalla proposizione, il che del


mondo è costituito semplicemente dagli oggetti:

3.221 Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono


rappresentanti. Posso solo dirne, non dirli. Una

205
proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa
essa è.
6.41 Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. ...
Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni
avvenire ed esser-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così
è accidentale.

Ma in realtà “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle


cose” (1.1), quindi “fuori del mondo” significa solo
“fuori della contingenza propria dei fatti”: il candidato
più plausibile per ricoprire il ruolo di sede del “valore” e
del “senso” è in effetti la sostanza del mondo, che
mostra sul piano ontologico quella stessa necessità che
deve dominare l’etico (6.41).

8.3. La tesi di una connessione tra il misticismo di


Wittgenstein e la sua logica è stata spesso riconosciuta.
In particolare la mia versione trova un importante
appoggio in Bouveresse (1982), che riconosce in
maniera lineare e plausibile tutta la sostanza di
quest’argomentazione:

All’opposizione tra l’esser-tale e l’esser-ci delle cose, tra


il loro modo di essere e il fatto che esse sono, corrisponde
dal punto di vista logico l’opposizione tra la
configurazione accidentale e la sostanza immutabile, cioè
tra gli stati di cose contingenti in cui entrano gli elementi,
da una parte, e gli elementi stessi, dall’altra. ...
Potremmo evidentemente fare un accostamento tra la
visione del mondo sub specie aeternitatis di cui parla il
Tractatus e una sorta di visione del mondo secondo
l’angolatura dell’oggetto, di ciò che, in senso assoluto, è
in opposizione a ciò che accade. La felicità, nel senso del

206
Tractatus, non è altro che l’indifferenza totale
all’accidente, cioè a tutto quel che può accadere o non
accadere. Di conseguenza, la vita felice deve essere in una
certa maniera (ma questo non è altro che una metafora) la
vita nell’eterno presente degli oggetti in seno allo spazio
logico, cioè fuori dalla fattualità, in opposizione alla vita
«mondana» nell’universo dei fatti, cioè dell’accidente.
(BOUVERESSE, 1982, pp. 43-44)

È molto significativo che però infine l’autore ne rifiuti


completamente le conclusioni. Fa valere una diversa
caratterizzazione degli oggetti, che deriva da Favrholdt
(1964): la picture-theory “per poter essere applicata in
un qualsiasi modo richiede una decomposizione della
realtà in particelle elementari, non solo nello spazio, ma
anche nel tempo”, “occorre evidentemente che ci siano
oggetti e composizioni di oggetti che persistono per un
istante indivisibile” (BOUVERESSE, 1982, p. 35): a questo
punto però diventa del tutto contraddittorio l’impianto
stesso della teoria, che dovrebbe vedere nella sostanza
del mondo qualcosa di intemporale, costituita però da
parti che “persistono per un istante indivisibile”, e
quindi sono contenute nel flusso temporale come
comunemente inteso. Bouveresse avrebbe in realtà un
certo spazio per risolvere questa contraddizione, sia
grazie ad un’argomentazione simile a quella escogitata
dagli Hintikka (1990) per dar conto delle tesi sul
solipsismo, sia perché riconosce che

La saggezza è definita esplicitamente nel Tractatus come


l’annullamento pratico della temporalità, la visione del
mondo sub specie aeterni (6.45), cioè la vita nel presente

207
(6.4311). (BOUVERESSE, 1982, p. 26)

Ma le riserve che fa valere nel primo passo citato


parlando solo di “una metafora”, sono del tutto
legittime, e derivano dall’impianto stesso del Tractatus.
È estremamente difficile infatti capire come l’insieme
degli oggetti immutabili possa dar luogo a situazioni
davvero contingenti, quindi è almeno altrettanto difficile
convincersi di poter vivere realmente “nell’eterno
presente degli oggetti, in seno allo spazio logico”. Lo
stesso Wittgenstein nella Conferenza sull’etica (in
Lezioni e conversazioni, p. 25) insiste che “I fatti per me
non sono importanti. Ma a me sta a cuore quel che
intendono gli uomini quando dicono che «il mondo
c’è»”, ma non si sbilancia a dire esplicitamente che si
possa vivere, per così dire, solo nella dimensione degli
oggetti (che sarebbe poi quella delle sole necessità
logiche).

8.4. Il movimento complessivo di pensiero alla base di


tutto lo sforzo di Wittgenstein, può essere capito nella
maniera più incisiva leggendo un passo di Russell, che
sicuramente aveva in mente il suo allievo ed amico
quando scriveva:

La metafisica, ossia il tentativo di concepire il mondo


come un tutto per mezzo del pensiero, si è sviluppata fin
dall’inizio grazie all’incontro e al conflitto di due impulsi
umani diversissimi, uno dei quali spinge gli uomini verso
il misticismo, l’altro verso la scienza. Alcuni hanno
raggiunto la grandezza attraverso uno solo di questi
impulsi, altri attraverso l’altro. ... Ma i più grandi filosofi

208
hanno sentito la necessità sia della scienza sia del
misticismo: il tentativo di armonizzare le due cose ha
riempito la loro vita ... (RUSSELL, 1964, p. 11)

Se si possiede un forte temperamento mistico, “Quando


decresce l’intensità della spinta emotiva, chi abbia
l’abitudine al ragionamento cercherà delle basi logiche
in appoggio al convincimento che sente in sé” (R USSELL,
1964, p. 32).
Wittgenstein parte da un’intuizione di fondo il cui
contenuto è profondamente mistico, l’intuizione del
mondo sub specie aeterni, e, nel tentativo di sanare la
contraddizione che per questo si crea con le convinzioni
più radicate che agiscono nella vita quotidiana (ad es.
quelle su un fluire del tempo, capace di ridurre a nulla
tutto ciò che è passato), si impegna a dimostrare che,
con un’analisi rigorosa, le intuizioni del mistico
(solipsismo) sono in realtà completamente traducibili in
quelle del senso comune (realismo), e viceversa: “il
solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il
realismo puro” (5.64).
È possibile che molti autori abbiano rifiutato le
conclusioni di tipo mistico di Wittgenstein perché, in
coscienza e con onestà, umanamente non si ritrovavano
in esse. Così, forse, si può spiegare il repentino
abbandono da parte di Bouveresse di uno schema
euristico che pure aveva sviluppato in modo
estremamente coerente. Lo stesso Russell (1964, p. 33)
prosegue immediatamente l’ultimo brano citato
osservando che “dato che il convincimento [mistico]
esiste già, costui [che lo accoglie] sarà disponibile a
qualsiasi conferma”: il convincimento profondo della

209
persona dipende da premesse pre-razionali. Moritz
Schlick (1987) distingue tra l’atteggiamento di chi –
come lo scienziato – dà importanza alla “forma” e alle
relazioni tra le cose, e chi invece – l’artista o il mistico –
si identifica nel “contenuto” della percezione.
L’adozione di uno dei due orientamenti dipende dalla
volontà della persona, e non può essere contestata.
Il movimento neoempirista ha dedicato di fatto le
proprie energie più per lo sviluppo dell’atteggiamento
scientifico, ma il principio di avalutatività della scienza
impedisce, in linea di principio, di fare di questa una
premessa di ordine assiologico. È chiaro in ogni caso
che, se Schlick riconosce l’impossibilità di produrre una
dimostrazione (scientifica) che attesti la preferibilità
dell’atteggiamento scientifico, è comunque la pratica
dell’attività di ricerca dei neoempiristi che mostra la
loro decisa predilezione (a rigore “soggettiva”) per un
tipo di atteggiamento invece che per l’altro. Questa
distinzione tra ciò che può essere dimostrato e ciò che
può essere comunque, per così dire, ricostruito, fa
sorgere una questione: anche quando il pensiero
filosofico non è capace di produrre dimostrazioni, è
comunque fondamentale che esista una pratica di
discorso ben strutturata che permetta agli altri di
“ricostruire” le nostre convinzioni. È essenziale che si
possa confrontare con altre persone il proprio modo di
intendere la vita, anche se, per così dire, solo a fini
“consultivi” (posto che né una “dimostrazione” possa
essere prodotta, né in generale una imposizione
d’autorità può essere ammessa). Il pensiero “filosofico”
(in senso lato), anche se non dimostra le proprie tesi,

210
svolge comunque la funzione di dare espressione
pubblica ai diversi punti di vista – posto che non ci sia
un unico “contenuto” che possa essere oggetto di
apprensione intuitiva (e posto che le persone abbiano un
margine per modificare e rielaborare intenzionalmente i
propri contenuti di intuizione), sono concepibili una
pluralità molto vasta di attribuzioni di senso alla vita.
Per questa via, anche partendo da premesse come quelle
di Schlick, sembra necessario riconoscere una
legittimazione di ampiezza considerevole per la pratica
filosofica. Vorrei osservare anche come la fondazione
epistemologica (soggettiva) che il soggetto può dare alla
propria “filosofia”, può essere trovata proprio
nell’induzione: il senso di questa affermazione diverrà
più chiaro in seguito. Per ora vorrei sottolineare solo che
il carattere soggettivo di questa “fondazione” può essere
visto come uno strumento efficace per dar conto – sul
piano delle funzioni cognitive – di quelle che sono le
intuizioni più plausibili sul valore della tolleranza.
Quello che vorrei sostenere è che possono essere
evitate sia le conseguenze più radicali
dell’atteggiamento mistico wittgensteiniano, sia una
contrapposizione troppo netta tra interesse per la forma
o per il contenuto della realtà. Il Tractatus contrappone
proprietà esterne ed interne, contingenza e necessità,
stati di cose e sostanza del mondo. Se si accetta un
costruttivismo del tipo di quello di Piaget, e gli si dà la
necessaria “copertura” epistemologica mediante una
teoria dell’induzione, si vede come tutte queste
contrapposizioni vengano del tutto a cadere. È l’ordine
generato dalla natura immutabile degli oggetti, che

211
produce il “mondo”. È nell’eternità delle leggi della
natura che si mostra l’intemporalità degli oggetti. Non
c’è quindi più alcun motivo per pensare il senso e il
valore come “fuori dal mondo”: essi si manifestano
invece in maniera perfettamente compiuta già nel
mondo. Da questo dovrebbe seguire, in termini intuitivi,
l’abbandono di certi tratti del misticismo di
Wittgenstein, come sono espressi ad es. nel seguente
passo:

... La vita di conoscenza è la vita che è felice nonostante


la miseria del mondo.
Felice è solo la vita che può rinunciare ai piaceri del
mondo... (Quaderni, 13.8.16)

Né daranno più senso annotazioni come quella riportata


al 29.7.1916 nei Diari segreti (1987):

È difficile rinunciare alla vita quando se ne prova il


piacere. Ma proprio questo è il «peccato», la vita
irragionevole, una falsa concezione della vita.

Il fatto è che per Wittgenstein

2.0231 La sostanza del mondo può determinare solo una


forma, non già proprietà materiali. Infatti queste sono
rappresentate solo dalle proposizioni – sono formate solo
dalla configurazione degli oggetti.

Quindi vivere “nell’eterno presente degli oggetti”


significa necessariamente rinunciare a ciò che appare
contingente. Con il riconoscimento che “io sono il mio

212
mondo”, Wittgenstein è ad un passo dal riconoscere il
valore nel mondo, ma vede ancora il valore come
noumeno profondamente nascosto nel mondo.
Sembra che il problema ontologico di conciliare
sostanza del mondo e stati contingenti abbia avuto come
conseguenza per l’etica una decisa forma di
volontarismo: è solo mediante il mio sforzo che posso
riuscire a ignorare gli avvenimenti contingenti,
concentrandomi sugli oggetti. Alcuni dei passi citati
danno l’impressione che fosse proprio questo
l’atteggiamento di Wittgenstein, ma a questo punto il
lettore dovrebbe vedervi solo un’opzione soggettiva,
dovuta al temperamento dell’autore: non viene dato
infatti alcun motivo per decidere di compiere questo
sforzo. Che Wittgenstein non la pensasse esattamente
così, sembra essere implicato da un’espressione come
“vita di conoscenza” nel passo appena citato:
conoscenza dovrebbe significare che il mistico non ha
uno sguardo deformato sulla realtà, ma piuttosto ha una
visione vera. L’equilibrio che, sul piano ontologico,
Wittgenstein riesce a trovare (abbiamo già accennato, e
vedremo meglio in seguito, che si basa sul concetto di
determinazione del significato) è però molto delicato, e
verrà definitivamente scosso dalle riflessioni successive
dell’autore.
La mia proposta di soluzione invece, che fa
riferimento all’induzione, (i) spiega la contingenza in un
modo del tutto diverso: anche i fenomeni empirici sono
governati da leggi necessarie (per quanto la
determinazione di queste leggi dipenda rigorosamente
dal soggetto che le pone). In questo senso, tutto è

213
necessario: la nostra convinzione che non sia così deriva
solo dalla circostanza che le uniformità che non sono
ammesse dagli altri soggetti, con i quali collaboriamo ai
fini dell’adattamento, vengono da noi “abrogate”, per
consentire un migliore coordinamento delle azioni di
attori diversi (quella che Quine chiama “trazione
oggettiva”). Il “doppio livello” che così si crea, può
essere letto come una non piena sovrapponibilità tra (a)
le mie proprie esperienze “soggettive”, che sono indotto
a considerare “contingenti” e dipendenti da uno
specifico punto di vista: il mio o di altre singole
persone, e (b) le proprietà delle cose che considero
“oggettive”, e facenti parte dell’“essenza” delle cose:
quelle che ogni soggetto (che riconosco “significativo”)
ritiene “reali” e “necessarie”. Naturalmente questo
processo costituisce solo la base psicologica per uno
sviluppo evolutivo che vede risultati sempre più
avanzati e sofisticati, come la strutturazione di un
sistema di coordinate spaziali e temporali, e, in seguito,
la costituzione di un metodo scientifico per distinguere
le “prove” ammissibili da quelle non vincolanti in sede
di confronto interpersonale delle opinioni. (ii) Se anche
la realtà empirica è governata da leggi necessarie, il
principio d’ordine che è ricercato dal mistico può essere
trovato nella stessa realtà empirica, e non in una
sostanza del mondo da essa diversa. Naturalmente dire
che “tutto è necessario” non significa che possiamo
prevedere il futuro in maniera determinata: significa
solo che le nostre previsioni sono dettate in modo
necessario e preciso dalle conoscenze che noi ora
abbiamo. Ontologicamente, i molti “vuoti” che ci sono

214
nella nostra conoscenza del futuro significano solo che
non annettiamo alcuna realtà e consistenza agli spazi
logici corrispondenti: formalmente dovremmo dire che
non pensiamo nulla al riguardo. In questo senso i
“vuoti”, a rigore, sono non-esistenti. Si vede come il
significato teorico qui attribuito all’opposizione
esistente-non esistente, corrisponde a quella che nel
Tractatus è l’opposizione determinato-indeterminato.
L’idea che esista una realtà che non conosciamo
nasce insieme a tutto il sistema della conoscenza
intersoggettiva e condivisa, attraverso il meccanismo
della trazione oggettiva. È su questo piano infatti che
sono necessari i concetti di vero/falso (e di
esistente/inesistente), per distinguere, semplicemente,
chi non condivide le nostre esperienze e credenze
(individuali e/o di gruppo).

Oggetti semplici e indistruttibili.

215
9.1. Cercherò ora di dare un’analisi più precisa e
completa della nozione di “oggetto”. In questo
paragrafo mi limiterò a tracciare un quadro sintetico e
globale della mia risposta a questa questione. In quelli
successivi, tenterò un’analisi più dettagliata.
Gli oggetti sono “forma e contenuto” (2.025).

2.014 Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le


situazioni.
2.0141 La possibilità del suo occorrere in stati di cose è
la forma dell’oggetto.
2.0123 Se conosco l’oggetto, conosco anche tutte le
possibilità del suo occorrere in stati di cose.
(Ognuna di tali possibilità dev’essere nella natura
dell’oggetto.)
Non può trovarsi successivamente una nuova possibilità.
2.022 È manifesto che un mondo, per quanto diverso sia
pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il
mondo reale qualcosa – una forma –.
2.023 Questa forma fissa consta appunto degli oggetti.
2.0124 Se sono dati tutti gli oggetti, sono dati con ciò
tutti gli stati di cose possibili.
2.03 Nello stato di cose gli oggetti ineriscono l’uno
nell’altro, come le maglie d’una catena.
2.032 Il modo, nel quale gli oggetti ineriscono l’uno
all’altro nello stato di cose, è la struttura dello stato di
cose.
2.033 La forma è la possibilità della struttura.

Inoltre gli oggetti sono “elementi paritetici della


rappresentazione” (WAISMANN, 1975, p. 32)50.
50
Il principio che gli oggetti siano, per così dire, tutti su uno

216
Per intendere la 2.025, possiamo iniziare a confrontarla
con:

3.13 Alla proposizione appartiene tutto ciò che appartiene


alla proiezione, ma non il proiettato.
Dunque, la possibilità del proiettato, ma non il proiettato
stesso.
Nella proposizione non è dunque ancora contenuto il suo
senso, ma la possibilità d’esprimerlo.
(«Il contenuto della proposizione» vuol dire il contenuto
della proposizione munita di senso.)
Nella proposizione è contenuta la forma, ma non il
contenuto, del suo senso.

Abbiamo già citato l’annotazione sui Quaderni del


15.4.1916, dove, parlando degli oggetti, Wittgenstein
scrive: “l’unico segno che garantisce il suo significato è
funzione e argomento”.
Questa terminologia ci rimanda subito a Frege: non
possiamo ricostruire qui naturalmente il percorso di
questo autore, ma vorrei ricordare come in Funzione e
concetto troviamo un duro attacco – che deriva
evidentemente dalla sua linea anti-empirista e anti-
psicologistica – contro la “tendenza oggi assai diffusa a
non riconoscere come oggetto alcunché che non sia
percepibile dai sensi” e il conseguente

difetto delle teorie formali correnti in aritmetica. Si parla


stesso piano, è discusso e difeso da H INTIKKA-HINTIKKA (1990, p.
73), in connessione con l’analoga questione, che si incontra
nella lettura di Frege, se la parte “insatura” di una proposizione
sia identificabile in maniera oggettiva o sia solo relativa ad una
nostra scelta.

217
di segni che né hanno né devono avere un contenuto, e
tuttavia si attribuiscono loro proprietà che possono
spettare ragionevolmente solo al contenuto del segno. Lo
stesso avviene anche qui [con le funzioni]: una mera
espressione, la forma per un contenuto, non può costituire
l’essenza della cosa, ma solo il contenuto stesso può
esserlo. Che cos’è dunque il contenuto, il significato
[Bedeutung] di «2 . 2³ + 2»? È lo stesso di quello di «18»
o di «3 . 6». ... Mi devo qui opporre alla concezione per
cui, ad esempio, 2 + 5 e 3 + 4 siano uguali ma non
identici. Alla base di questa opinione è ancora una volta la
confusione tra forma e contenuto, tra segno e designato
[Form/Inhalt, Zeichen/Bezeichnetem, corsivi miei].
Sarebbe come considerare la violetta profumata diversa
dalla viola odorata perché i nomi suonano diversamente.
La differenza di segno da sola non può bastare a
giustificare una differenza in ciò che è designato. (F REGE,
Funzione e concetto, 2001, pp. 4-5)

Vediamo quindi come Frege intenda per forma il segno,


e per contenuto il designato. Poche pagine dopo (pp. 13
ss.) la tesi viene estesa ai contesti linguistici non
matematici, utilizzando la celebre distinzione tra senso e
denotazione, e richiamando, in nota 6, il saggio
omonimo.
La terminologia di Wittgenstein sembra quindi
derivare da Frege: gli oggetti sono (i) la “forma fissa” di
ogni mondo che possiamo concepire (2.013), le parti
elementari (il già noto) in cui possono scomporsi le
nostre immagini del mondo, quindi quello che Frege
avrebbe considerato il senso con cui identifichiamo la
realtà (la via che noi abbiamo a disposizione a tal
scopo), e sono (ii) in un certo senso, i segni che

218
utilizziamo (abbiamo visto come il nome, l’espressione
linguistica, e il suo designato, l’oggetto, possono essere
visti in realtà come un tutto unico, dato che il rapporto
che deve essere esplicato è quello gnoseologico tra
rappresentazione e realtà, e non quello semantico tra
espressione linguistica e mondo). Gli stati di cose
invece sono il designato dei segni-rappresentazioni (nel
senso “oggettivo” del realismo filosofico, e non nel
senso “soggettivo” dell’idealismo). In questo senso
“Nella proposizione è contenuta la forma, ma non il
contenuto del suo senso”: mentre l’oggetto è insieme
funzione e argomento (forma e contenuto, segno e
designato), la proposizione invece è solo funzione-
forma. La differenza tra i due autori è poi che, solo per
Frege, funzione e argomento sono entrambe realtà
accessibili al soggetto51; invece per Wittgenstein
l’argomento è – formalmente – inaccessibile

51
Anche se la funzione, da sola, è “insatura”, comunque sembra
che Frege la consideri in qualche modo identificabile come
realtà a sé. Il celebre problema che Frege stesso allora solleva è
che, se il “concetto” (“un concetto è una funzione il cui valore è
sempre un valore di verità” [FREGE, Funzione e concetto, 2001,
p. 14]) è essenzialmente insaturo, questo vuol dire che “Le tre
parole «Il concetto ‘cavallo’» designano un oggetto e, appunto
per questo, non designano un concetto nella mia accezione del
termine”, quindi “Non si può certo negare che ci imbattiamo in
una dissonanza linguistica forse inevitabile quando affermiamo:
il concetto cavallo non è un concetto, mentre la città di Berlino
è una città e il vulcano Vesuvio è un vulcano” (Frege, Concetto
e oggetto, 2001, pp. 61-63). È significativo per il nostro
discorso che questa problematica è stata posta (G EACH, 1976,
DIAMOND, 1991c) all’origine del tema dell’ineffabilità in
Wittgenstein.

219
(solipsismo), mostrando così quanto quest’ultimo si sia
allontanato dall’anti-idealismo del suo maestro (anche
se, ricordiamolo, attraverso il concetto di proposizione,
si riesce a dare espressione alle nostre intuizioni sul
realismo).

9.2. Può sembrare che ci sia un paradosso nel sostenere


che la proposizione contiene solo la “forma”, non il
“contenuto” del senso: vorrebbe dire che noi non
capiamo il senso (o forse ne capiamo solo la “forma”:
ma che cosa significherebbe?) delle proposizioni che
pronunciamo? Ma si deve tener presente che subito
prima è stato detto che “la proposizione è [solo] il segno
proposizionale nella sua relazione di proiezione al
mondo” (3.12). Sarà solo il “pensiero” ad essere la
“proposizione munita di senso” (4). La 3.13 dice
espressamente che alla proposizione non appartiene né
il suo proiettato né il contenuto del suo senso (che
sembrano essere la stessa cosa). Quindi è come se ci si
riferisse al segno proposizionale nella sua materialità
(insieme al metodo di proiezione, che scatta
automaticamente per necessità logica) senza che sia
coinvolto l’aspetto reale del raffigurato così come lo
conosciamo realmente: siamo ancora sul terreno dei
semplici segni linguistici (v. poco infra la diversa
interpretazione di Kenny).
Il modo di Wittgenstein di intendere “forma” e
“contenuto” può sembrare contro-intuitivo se partiamo
dall’idea che la forma di qualcosa debba presentarsi con
la cosa stessa: la forma di sonetto è riconoscibile ad es.
ispezionando un testo poetico, ed entrambe le cose,

220
forma e contenuto, ci si danno insieme. Possiamo
ricordare però come anche Kant intendesse per “forma”
qualcosa che media/condiziona la conoscenza di un
designato-noumeno, svolgendo un ruolo simile a quello
degli oggetti nella picture-theory52. Inoltre nelle Lezioni
1930-1932 Wittgenstein sarà esplicito nel considerare le
“forme” come ciò che già conosciamo e che vale
(proprio per questo) per necessità logica, dato che
inevitabilmente le proietteremo su tutto quanto
riusciamo a concepire: “Se «uomo» è una forma, come
p. es. «colore», non posso dire «a è un uomo», perché
questo dev’essere mostrato dalla sintassi di «a». Se
«uomo» è un predicato, esiste una proposizione che ha
la forma «a è un uomo»” (ivi, p. 30). Inoltre “Un
concetto richiede una spiegazione; la forma della
proposizione è visibile. La forma non può essere
descritta perché la descrizione rappresenta la forma.
Avere forma vuol dire essere immagine; pensare o
parlare vuol dire raffigurare. Concetti sono espressi da
segni; la forma, il segno proposizione [sic], è visibile”
(ivi, p. 198, corsivo mio). In questi passi (abbastanza
difficili e poco considerati in letteratura), credo si possa
intendere che (i) “concetto” indica la rappresentazione
di una realtà non presente (“pensata”, “raffigurata”
attraverso “segni”, e – necessariamente – proposizioni),
52
Per Kenny (1988, p. 118) “la proposizione intesa come un tutto,
cioè il segno proposizionale più il senso della proposizione dato
dal pensiero, contiene la forma ma non il contenuto del suo
senso: essa è costituita da oggetti che sono formalmente
congruenti, ma non identici, agli oggetti dello stato di cose
possibile”. Viene accettata cioè l’idea che la forma sia “al di
qua” della rappresentazione, mentre il suo contenuto “al di là”.

221
(ii) ci permettono di interpretare una proposizione molto
discussa del Tractatus: “Spazio, tempo e colore (aver
colore) sono forme degli oggetti” (2.0251). Vorrebbe
dire allora che Wittgenstein considerava gli oggetti
necessariamente dotati di un colore e collocati nello
spazio e nel tempo, anche se il suo interesse non doveva
spingersi molto oltre, dato che, come sappiamo, non
considerava suo compito specificare la natura degli
oggetti53. (iii) Vorrei segnalare da subito che, specie il
primo passo, andrà tenuto presente quando discuteremo
il ruolo dell’esperienza nella costruzione della
grammatica. (iv) Possiamo collegare infine (sempre
specie il primo passo) alla discussione già fatta circa la
possibilità (per le persone concrete, e non per il soggetto
metafisico) di perfezionare sempre di più la propria
definizione dei significati, ma trasformando, per così
dire, opinioni empiriche (di tipo probabilistico) in verità
stabilite come dovute alla “sostanza” del designato del
nome, e in questo senso necessarie.
A sostegno della ricostruzione proposta, possiamo
citare anche quanto osservato in Alcune osservazioni
sulla forma logica (in Osservazioni filosofiche, 1976, p.
260): “Si è spesso tentati di chiedere da un punto di
vista a priori che cosa, dopo tutto, possono essere le
sole forme di proposizioni atomiche e rispondere, ad es.,
proposizioni a soggetto-predicato ... Ma questo – io
credo – è semplicemente giocare con le parole. Una

53
Colombo (1954, p. 43) smorza il peso della 2.0251 in funzione
di tale problema, dato che lì potrebbero essersi voluti indicare
semplicemente degli esempi di forme: alcuni oggetti avrebbero
quelle forme, altri no.

222
forma atomica non può essere prevista. E sarebbe
sorprendente se i fenomeni effettivi non avessero da
insegnarci niente di più sulla propria struttura” (ultimo
corsivo mio). Vediamo quindi come sicuramente per
Wittgenstein la sola ispezione delle forme dovesse già
consegnarci un certo tipo di conoscenza, anche se, per
definizione, non di carattere proposizionale. Una tale
conoscenza è espressa dalla sintassi logica, anche se, in
conclusione dell’articolo ora citato, troviamo scritto che
“Regole di questo genere non si possono ad ogni modo
stabilire finché non abbiamo effettivamente raggiunto
l’analisi ultima dei fenomeni in questione. Questa, come
è ben noto, non è stata ancora conseguita” (ivi, p. 266).
L’ultima clausola, in particolare, può essere intesa come
espressione del punto di vista realista.

9.3. Possiamo proseguire quindi nell’analisi del


Tractatus: gli oggetti nel loro insieme sono la “forma
fissa” del mondo, anzi di qualsiasi “mondo, per quanto
diverso sia pensato da quello reale”. Abbiamo visto
inoltre che gli oggetti sono ciò che ci è già noto – infatti
ci si “mostrano”. Invece le proposizioni devono dire il
nuovo. Inoltre gli oggetti determinano solo la forma,
“non già proprietà materiali” del mondo (2.0231).
Tant’è che:

2.01231 Per conoscere l’oggetto non ne devo conoscere,


è vero, le proprietà esterne – ma tutte le sue proprietà
interne le devo conoscere.

In base alla ricostruzione che ho cercato di dare della


picture-theory, credo che si possa agevolmente

223
intendere: gli oggetti sono, nel loro insieme, ciò che già
sappiamo. Per questo devono essere la “forma fissa”
comune ad ogni mondo concepibile: (i) perché una
verità già accertata non potrebbe in ogni caso essere
negata; (ii) in maniera più interessante, perché la
picture-theory, obbliga a concepire il nuovo in termini
del già noto. Per questo

4.022 La proposizione mostra il suo senso.


La proposizione mostra come stan le cose, se essa è vera.
E dice che le cose stan così.

La proposizione può mostrare solo il come delle cose –


le relazioni affermate tra le cose, ad un livello variabile
di indeterminazione del significato e di astrattezza, al
limite solo grazie alla comune forma logica. Può invece
solo dire il che delle cose designate: non ce le mostra –
il designato è semplicemente un’entità diversa dal
segno proposizionale, e i nomi non sono iconici. Si noti
che per questi motivi il che delle cose designate, se
queste non sono presenti, semplicemente ci sfugge.
Quindi il dire, che è la formula con cui si esprime il
realismo, si riferisce a entità che non afferriamo, poste
al di là del limite del pensiero, che quindi non possiamo
capire nella loro autonomia ontologica. Il Tractatus
traduce appunto gli asserti del realismo su queste entità
noumeniche, riducendone il senso al contenuto che si
mostra (immediatamente) nell’immagine che usiamo
come proposizione.
La proposizione deve raffigurare iconicamente
almeno una parte del designato – con la sua forma di
raffigurazione:

224
2.161 In immagine e raffigurato qualcosa dev’essere
identico [corsivo mio] affinché quella possa essere
un’immagine di questo
2.17 Ciò che l’immagine deve avere in comune con la
realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente
– nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria
dell’immagine.
2.172 La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia,
l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce.

Vale a dire: la mostra. In un caso speciale – quello in cui


l’iconicità così ottenuta è minima – la forma della
raffigurazione coincide con la forma logica:

2.181 Se la forma della raffigurazione è la forma logica,


l’immagine si chiama l’immagine logica.
2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa
sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla
raffigurare – correttamente o falsamente – è la forma
logica, cioè la forma della realtà.

(Se la forma logica è “in comune”, evidentemente è


“mostrata” anche dall’immagine). Questo comporta che
è la forma (non il contenuto) del designato, che ci è di
fatto già noto (esibito, mostrato dal segno
proposizionale): allo stesso modo in cui gli oggetti sono
“forma” del mondo. La differenza è che gli oggetti, in
quanto tali, non riescono ad indicare – come frecce –
una realtà esterna. Quindi il loro “contenuto” non è un
designato diverso da essi stessi: essi sono “forma e
contenuto”.
L’oggetto contiene “tutte le possibilità del suo

225
occorrere in stati di cose” (2.0123), e l’insieme di queste
possibilità è la “forma” dell’oggetto (2.0141). Ma
l’oggetto ha come proprio contenuto solo queste
possibilità. Quindi è una forma, il cui contenuto è
esattamente essere quella forma. Si pensi alla forma
astratta di un triangolo: essa stessa è un contenuto di
percezione o di pensiero (per quanto astratto), altrimenti
non saremmo in grado di isolare una stessa proprietà (“-
essere un triangolo”) in figure ad es. di grandezza
diversa.
La proposizione, diversamente, è/ha la “forma” del
senso (la parte di esso già nota, che si mostra nel segno
proposizionale stesso, anche a chi non conoscesse il
designato con la misura di iconicità da noi raggiunta),
ma è il suo proiettato che la renderà vera o falsa.
Sappiamo infatti che la proposizione (segno
proposizionale + metodo di proiezione) contiene solo la
forma del suo senso. Posto quindi che (i) il senso è “Ciò
che l’immagine rappresenta” (2.2221), ciò di cui la
proposizione deve essere munita per dare il “pensiero”
(prop. 4), e (ii) “Nella concordanza o discordanza del
senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o
falsità dell’immagine” (2.222, corsivo mio), ne segue
allora che (a) il senso deve essere considerato (almeno
soggettivamente) una riproduzione iconicamente fedele
del designato, per consentire il confronto (non
basterebbe affatto a tal fine il solo segno
proposizionale), (b) la forma del senso, è
(soggettivamente) anche la forma del designato. Quindi
la proposizione, se ha solo la forma del senso (e la
“possibilità di esprimerlo”), ha allora solo la forma del

226
designato (e “la possibilità del proiettato”). Con ciò
stesso si può dire che la proposizione è/ha (solo) la
possibilità del fatto raffigurato: come già sappiamo, il
senso di contingenza è associato indissolubilmente ad
ogni contenuto che una proposizione (in quanto tale)
esprime. La pensabilità di p implica la possibilità che p
(3.02, 2.203), perché la possibilità in quanto tale non è
nient’altro (ontologicamente) che quanto già ci si
mostra (nell’immagine-veicolo di p) del fatto stesso che
p (nella peggiore delle ipotesi: la sola forma logica). In
questo senso, gli oggetti sono la possibilità dei fatti:
probabilmente è così che può spiegarsi anche:

2.0124 Se sono dati tutti gli oggetti, sono dati con ciò
tutti gli stati di cose possibili.

“Possibilità” significa solo che non conosciamo il valore


di verità della proposizione e di altre proposizioni in cui
i nomi – usati nella prima – pure ricorrono, i. e. il
significato dei nomi non è compiutamente determinato,
i. e. il che dei loro designati non ci si mostra (a rigore, è
inconcepibile). Ma questo non significa che gli oggetti
abbiano un carattere, per così dire, solo virtuale (come
gli stati meramente possibili). Infatti non sono gli
oggetti ad essere definiti in termini di possibilità, ma è
l’inverso: dopo che si è introdotta una sostanza del
mondo (2.0211) – con un carattere ben oggettivo e
“reale” – è questa a fare da explicans per introdurre
l’ulteriore nozione di possibilità. Quindi è il concetto di
mondo possibile che viene ridotto a quello di sostanza
del mondo, finendo per acquisirne la caratterizzazione

227
in qualche modo di realtà “solida”, coerentemente con il
principio che il non-dato-ora (quindi anche le possibilità
al presente non realizzate) sia raffigurabile solo
riducendone l’immagine a una composizione di
elementi che siano dati ora.
Raccogliendo progressivamente nuove informazioni,
l’iconicità diventa maggiore: ciò che in precedenza era
“contenuto”, una volta che venga verificato, diventa
“forma”, restringendo il margine di indeterminatezza
dell’espressione54. Un bambino che non ha mai visto
delle automobili, si immaginerà un incidente in maniera
maggiormente univoca se vede un plastico, piuttosto che
se ascolta una descrizione che impiega parole di cui
conosce solo in piccola parte o per nulla il significato.
Però ugualmente un discorso del genere, in cui il
bambino potesse individuare la molteplicità logica delle
espressioni (verosimilmente grazie al fatto che le vede
scambiate man mano di posto sempre nel rispetto di
certe regole), sarebbe la base necessaria e sufficiente per
iniziare un processo di apprendimento sulla natura delle
automobili. Il senso del ragionamento è che “possibile”
significa che qualcosa esiste, ma in modo
indeterminato: in questo senso, alla lettera, il segno
proposizionale, avendo la stessa molteplicità del fatto,
contiene già la sua possibilità (il suo stesso modo di
essere, ma in modo più indeterminato). “La possibilità è
espressa (contenuta) nel linguaggio stesso” (Lezioni

54
Piaget utilizza uno schema d’analisi simile, con il concetto di
struttura che sostituisce quella che qui è la “forma”. Vedremo in
seguito meglio questo punto, discutendo le nozioni di
assimilazione e accomodamento.

228
1930-1932, p. 23).

9.4. Gli oggetti sono semplici perché le forme in quanto


tali sono semplici:

4.1241 Le forme non si possono distinguere l’una


dall’altra dicendo che l’una ha questa, e l’altra quella
proprietà; infatti ciò presuppone che abbia un senso
enunciare ambe le proprietà d’ambe le forme.

Invece quelle che possiamo chiamare impropriamente


“proprietà” di una forma sono sempre proprietà (o
relazioni) interne (necessarie). Per questo non potrebbe
avere “un senso enunciare ambe le proprietà d’ambe le
forme”:

4.122 ... Il sussistere di tali proprietà e relazioni interne


non può, tuttavia, essere asserito da proposizioni; ciò
invece mostra sé nelle proposizioni che rappresentano
quegli eventi e trattano di quegli oggetti.

Come esempio di proprietà interna viene fatto il


seguente: “Questo colore e quello stanno eo ipso nella
relazione interna di più chiaro e più cupo. È impensabile
che questi due oggetti non stiano in questa relazione”
(4.123). Dato che le proprietà interne possono solo
mostrarsi (non sono vere “proprietà”), e le proprietà
esterne danno corpo a stati di cose, un oggetto (forma)
in quanto tale deve essere semplice.
Sembra in particolare che le proprietà interne
debbano essere comunque concepite come dotate di una
certa “solidità” o sostanzialità, dato che “Affinché

229
proposizioni collegate in un determinato modo
producano una tautologia, esse devono avere
determinate proprietà della struttura” (6.12). (Vedremo
in seguito che casi come quelli della 4.122 devono
essere trattati proprio con il calcolo delle tautologie).
Per quanto le forme possano essere numerose, se le
riconosciamo come diverse, ciò stesso basta a
distinguerle (2.0233, 2.02331): esse sono
l’immediatamente noto, perciò, qui, vale la logica
dell’idealismo. Vedere due oggetti come diversi,
significa ipso facto che essi sono diversi. Con ciò è
eliminata la possibilità di oggetti (forme) complessi: se
vedere due oggetti significa vederli come
semplicemente diversi, che significato potrebbe avere
parlare di oggetti “complessi”? Un oggetto complesso
dovrebbe avere una pluralità di aspetti, ma ciascuno di
questi sarebbe in realtà solo un oggetto a sé stante. Se
nell’idealismo esiste solo ciò che ci è immediatamente
dato, la diversità che riscontriamo tra due oggetti
comporta una indipendenza irriducibile tra di essi.
Viceversa il realismo e la picture-theory verranno a
definire un modo per usare combinazioni di oggetti al
fine di raffigurare – in un senso intuitivamente
soddisfacente – il non immediatamente noto. È però
solo la proposizione che, riferendosi a fatti complessi,
può essere falsa – secondo l’intuizione realista. La
complessità comporta la presenza di variabili vincolate
da un quantificatore, quindi l’indeterminatezza del
significato e la contingenza di quanto detto.

9.5. Possiamo passare a considerare quindi il problema

230
del circolo vizioso che sembrerebbe correre in maniera
evidente tra principio di contestualità e principio di
composizione.

3.314 L’espressione ha significato solo nella


proposizione ...
3.3 Solo la proposizione ha senso; solo nella connessione
della proposizione un nome ha significato.

4.024 ... si comprende [la proposizione] se se ne


comprendono le parti costitutive.
3.263 I significati dei segni primitivi possono essere
spiegati mediante illustrazioni. Illustrazioni sono
proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse
dunque possono esser comprese solo se sono già noti i
significati di questi segni.
3.318 La proposizione la concepisco – come Frege e
Russell – quale funzione delle espressioni in essa
contenute.

In base alla mia ricostruzione, si può pensare che


l’intenzione di Wittgenstein fosse di distinguere tra la
dimensione in cui far valere il principio di
composizione, e quella di utilizzo del principio di
contestualità. Il primo riguarda il costituirsi
dell’immagine in quanto fatto essa stessa. Il secondo
deve garantire invece il potere rappresentativo
dell’immagine così ottenuta. Il primo riguarda il lato
soggettivo e idealista del processo conoscitivo, il
secondo il lato oggettivo e realista. Ma è proprio
l’immagine in quanto dotata di un determinato corpo
materiale immediatamente dato (lato soggettivo), che ha
il potere di rappresentare (lato oggettivo), quindi si deve

231
mostrare con più precisione come il circolo possa essere
sciolto.
In effetti la molteplicità logica (l’informazione
minima) viene ammessa come nota fin dall’inizio
(altrimenti dovremmo pensare esattamente che “un
mondo non v’è”). Quindi abbiamo dei costituenti
iniziali della proposizione da cui partire, in modo da non
restare prigionieri del circolo. Questi costituenti hanno
significato (designano) solo grazie alla proposizione in
cui compaiono (solo così il nome può indicare una
realtà differente da sé – altrimenti continuerebbe ad
essere solo l’immagine di se stesso: “vero” e “falso” si
applicano solo a proposizioni). Così procedendo a
verificare o falsificare le varie possibilità che si aprono
grazie alla sintassi logica del segno proposizionale
(preso nella sua più nuda materialità), possiamo
raccogliere informazioni che consentono una sempre
maggiore determinazione del significato dei nomi – che
consente, a sua volta, proposizioni sempre più iconiche.

9.6. Kenny (1988, p.117) evidenzia le difficoltà


connesse con la 3.1355, in particolare dove recita: “Nella
proposizione non è dunque ancora contenuto il suo
senso, ma la possibilità d’esprimerlo”. “Non v’è però
qualcosa di molto strano nel dire che una proposizione
55
È opportuno darne il testo tedesco: “Zum Satz gehört alles, was
zur Projection gehört; aber nicht das Projizierte. Also die
Möglichkeit des Projizierten, aber nicht dieses selbst. In Satz
ist also sein Sinn noch nicht enthalten, wohl aber die
Möglichkeit ihn auszudrücken. („Der Inhalt des Satzes“ heisst
der Inhalt des sinnvollen Satzes.) Im Satz ist die Form seines
Sinnes enthalten, aber nicht dessen Inhalt”.

232
contiene la possibilità di esprimere il suo senso quando
ciò che effettivamente fa è esprimerlo?”. La sua
proposta è quindi di intendere qui “Satz come
Satzzeichen”: il segno proposizionale (Satzzeichen),
prima di avervi associato delle convenzioni linguistiche,
contiene solo la possibilità di esprimere un senso. La
difficoltà è resa ulteriormente grave perché subito
prima, nella stessa 3.13, si intende Satz proprio come
proposizione. Quindi Kenny è obbligato a ipotizzare che
ci sia una oscillazione piuttosto pesante nel significato
dato al termine nella stessa proposizione.
Il mio suggerimento è stato che in effetti si debba
intendere, in tutta la 3.13, sempre qualcosa del tipo di
Satzzeichen, ma perché è la stessa definizione generale
di “proposizione” che porta in questa direzione. La
stessa facilità con cui si passa da un concetto all’altro,
mostrerebbe che, dal punto di vista di Wittgenstein, essi
sono pressoché intercambiabili. È il segno
proposizionale stesso (in alcuni casi delle semplici linee
di matita, in altri tutta l’estensione dei nostri pensieri
riguardo al fatto raffigurato) che mostra la forma del suo
senso. Quindi dire “proposizione” non aggiunge nulla a
“segno proposizionale”: per entrambe le cose, dire
“possibilità di esprimere un senso” significa solo che in
una certa condizione (quella della verifica del segno/
proposizione), troveremo che il segno/proposizione era
adeguato a raffigurare il raffigurato ( = possiede la sua
stessa molteplicità).
Possiamo permetterci di dire, in modo un po’
equivoco, che un segno proposizionale può essere
“verificato”, nel senso che qualcuno che avesse come

233
unica informazione disponibile sul designato, quella
costituita dalla forma logica del segno linguistico,
tratterebbe quest’ultimo come se fosse il suo “pensiero”
sul designato, quindi potrebbe procedere a verificarlo.
In questo quadro si può mettere meglio a fuoco l’idea
che la picture-theory non sia incentrata essenzialmente
sulla semantica dei segni linguistici. Formalmente
infatti si dà la possibilità che io conosca del raffigurato
solo la sua molteplicità logica. In questo caso la mia
conoscenza sarebbe ristretta – in concreto – al solo
segno linguistico. Può sembrare quindi che quella che
viene trattata sia una relazione di tipo semantico tra
segni e mondo, ma non è così, semplicemente perché, in
questo caso, si suppone appunto che formalmente il
mondo (“fuori” dalla proposizione) non ci è noto, e non
può quindi essere impiegato come elemento esplicativo
(o costitutivo) della relazione stessa (come invece fa ad
es. BLACK, 1967, p. 120). In un caso come questo, in
realtà, il rapporto che deve essere ricostruito,
formalmente è quello studiato dalla gnoseologia, perché
la mia immagine soggettiva del raffigurato è ristretta
alla sola conoscenza del segno linguistico, e quella che
dovrà essere spiegata è quindi la relazione tra la mia
immagine di una cosa e la cosa stessa. Così man mano
l’acquisizione di nuove informazioni permette di
sostituire un segno proposizionale più iconico ad uno
precedente che lo era di meno, ma la relazione che deve
essere spiegata è sempre quella gnoseologica.
Per Kenny l'interpretazione proposta sarebbe
inaccettabile, perché intende che i segni hanno bisogno
di convenzioni linguistiche per diventare significanti

234
(secondo un approccio semantico-linguistico). Nella mia
interpretazione, queste stesse “convenzioni” andrebbero
viste in ogni caso, a rigore, come un processo di raccolta
di informazioni (formalmente, non definizioni
convenzionali) che specificano l’ancora minima
informazione iniziale (quella che afferma solo la
condivisione di una certa molteplicità logica). Sarebbe
corretto quindi dire che il segno proposizionale da solo
mostra il suo senso (sarebbe però non il senso con il
livello di iconicità che noi abbiamo guadagnato): le
convenzioni aggiunte hanno solo l’effetto di
riconfigurare il segno proposizionale stesso, sostituendo
in effetti ad una vecchia notazione molto povera, una
nuova iconicamente più ricca. Nelle Lezioni 1930-1932
Wittgenstein esprimerà a più riprese il concetto che “La
spiegazione di una proposizione appartiene sempre al
tipo di una definizione che sostituisce un insieme di
simboli con un altro” (p. 59), mostrando un forte
collegamento tra la tesi più antica, che è il tutto
proposizione-segno proposizionale che “evolve”
attraverso le nuove convenzioni (in realtà informazioni),
e l’idea che sarà propria delle Ricerche, che non si può
“uscire” dal linguaggio mediante le definizioni
ostensive.
Dalla 3.13 ricaviamo anche altre importanti
indicazioni: (i) la “possibilità del proiettato”
“appartiene” (gehört) alla proposizione. Come si vede
l’espressione è molto forte (la possibilità ad es. non è
“implicata” dalla proposizione), e sarebbe quindi in
contrasto con l’idea che la forma della proposizione
(che deve mostrare la possibilità del fatto) sia solo

235
un’esemplificazione simile della stessa forma del fatto,
come abbiamo visto essere sostenuto ad es. da Black
(1967, pp. 93-95). Piuttosto è l’ontologia della
possibilità che viene definita in modo da ridurre a
qualcosa di attuale la condizione stessa di semplice
possibilità. Inoltre la possibilità del proiettato appartiene
alla proposizione e non ai nomi, confermando che le
proprietà contingenti (materiali) presuppongono
l’intervento di una proposizione (2.0231).
(ii) La proposizione contiene tutto ciò che abbiamo,
anche “tutto ciò che appartiene alla proiezione”: se la
proiezione fosse resa possibile da qualcosa di esterno
alla proposizione, dovrebbe esserci subito un regresso
infinito. Per questo anche le “convenzioni” richiamate
ad es. da Kenny (1984, 1988), rischiano di dovere essere
regole che possono essere attivate solo mediante altre
meta-regole. Invece secondo Wittgenstein:

2.1513 ... appartiene dunque all’immagine pure la


relazione di raffigurazione che ne fa un’immagine.

È in realtà la stessa argomentazione che abbiamo visto


presupposta da 2.0211. “Ciò che è «in comune» fra
pensiero e realtà dev’essere già espresso
nell’espressione del pensiero. Non lo si può esprimere
in una proposizione supplementare, ed è ingannevole
tentare di farlo” (Lezioni 1930-1932, p. 56).

9.7. Un modo assai comune di presentare la teoria della


logica del Tractatus, è dire che “le tautologie non
dicono nulla del mondo, ma rivelano la struttura dei

236
simboli che le costituiscono”, “le tautologie mostrano le
proprietà logiche o strutturali delle loro parti
costituenti” (KENNY, 1984, p. 64). In effetti per
Wittgenstein:

6.113 È il carattere particolare delle proposizioni logiche


la possibilità di riconoscerle vere dal simbolo soltanto, e
questo fatto chiude in sé tutta la filosofia della logica.
4.461 ... Tautologia e contradizione sono prive di senso....
(Ad esempio non so nulla sul tempo se so che o piove o
non piove.)

L’affermazione quindi è certamente vera, ma non basta:

6.12 Che le proposizioni della logica siano tautologie


mostra le proprietà formali – logiche – del linguaggio, del
mondo. ...
6.124 ... È chiaro che deve indicare qualcosa sul mondo il
fatto che certi nessi di simboli – che per essenza hanno un
determinato carattere – siano tautologie. ...

Se immaginiamo una maggiore determinazione del


significato, dobbiamo prevedere anche una riduzione
del margine di spazio che si consente di ricoprire alle
proposizioni (in quanto tali contingenti e quindi
indeterminate), quindi un estendersi di quella parte di
realtà che viene mostrata dalle tautologie: ci si
mostrerebbe un numero più piccolo di proposizioni
elementari. A un essere onnisciente (Dio) si mostrerebbe
tutto sotto forma di tautologia. In effetti per
Wittgenstein le proposizioni sono fatti, ed ogni fatto può
fare da proposizione. Quindi dire che le tautologie

237
rivelano la struttura dei simboli, significa anche che
rivelano la struttura del mondo, anche se tale struttura
può soltanto mostrarsi (le ultime parole citate della 6.12
lo esprimono in modo molto efficace). Dato che la
“struttura” è il sussistere di una relazione (2.15), le
tautologie mostrano il sussistere di una relazione tra
nomi, e, così, la ricchezza di contenuto dell’immagine –
il grado di determinazione del significato degli oggetti.
“Affinché proposizioni collegate in un determinato
modo producano una tautologia, esse devono avere
determinate proprietà della struttura. Che esse, connesse
così, producano una tautologia, mostra dunque che esse
possiedono queste proprietà della struttura” (6.12).
Rispetto al soggetto metafisico sarebbe insensato
pensare ad un aumentare o decrescere della ricchezza di
contenuto dell’immagine, ma l’intenzione di
Wittgenstein è di far valere queste nozioni per
descrivere, in modo logicamente non contraddittorio, la
trasformazione delle credenze delle persone concrete.
L’obiettivo di fondo è poi comunque di disporre questa
parte della sua teoria all’interno di uno schema più
ampio, che si applica anche all’io metafisico, ma in
quest’ultimo caso, il sistema così elaborato (la picture-
theory e i principi di composizione e di contestualità),
per quanto sia ancora formalmente in vigore, rimane di
fatto inutilizzato, perché manca appunto il presupposto
di un processo temporale di trasformazione.

238
10

L’articolazione del significato

10.1. Gli oggetti – ho detto – sono il già noto, ma se ci


sono fatti che non conosco, ci dovrebbero essere anche

239
oggetti che non conosco. Dobbiamo dire quindi, più
esattamente: qualcosa so di ogni oggetto – almeno la
sua forma. Altrimenti dovrei pensare che possano
comparire in futuro “nuove possibilità”. Quindi, a
rigore, oggetti (e fatti) che non conosco (intendo: di cui
non conosco nulla – che neppure identifico), non
esistono. Il fatto che possa conoscere, per così dire, un
oggetto solo in parte (in modo indeterminato) non è in
contraddizione con la caratterizzazione che ho dato
degli oggetti, di essere il “già noto”, dato che
l’indeterminazione significa solo, formalmente, che
quegli aspetti non noti non esistono.
È chiaro come il significato del nome che designa
l’oggetto possa essere ampiamente indeterminato. Non
sapere se un fatto è reale, significa non sapere se una
relazione tra due o più oggetti sussista – in questo senso
i loro nomi hanno un significato indeterminato. Ma la
sussistenza o meno di una relazione tra A e B dipende
da come A e B stessi sono, non dall’esistenza di
qualcosa di indipendente da essi (3.1432). Quindi
scoprire la verità di A-R-B non comporta la comparsa di
nuovi elementi, diversi da A e B, ma solo un diverso
modo di vedere il loro significato56. A e B continuano ad
56
In letteratura si considera il problema se R debba essere
considerato un elemento dotato di una sua autonomia, i. e. se
valga o no una forma di “realismo delle relazioni”. Il punto qui
non è rilevante: nel caso, vorrebbe dire solo che il fatto contiene
tre elementi e non due. Anche se si ammette che quelle che
abitualmente vengono viste come relazioni (“essere a destra di”
etc.) vanno considerate oggetti nel senso del Tractatus, mi
sembra comunque chiaro che il rapporto che così si crea tra A,
R e B non può essere a sua volta “reificato”.

240
essere semplici, ma si mostrano secondo una fattezza
diversa. Si potrà riconoscere che il vecchio e il nuovo
significato si riferivano entrambi ad un’unica entità? Se
il significato è cambiato (ed è semplice), questa
possibilità è da escludersi. Ma ciò significa solo che l’io
metafisico giudicherà che l’io concreto che afferrava il
vecchio significato e l’io concreto che afferrava il
nuovo, stavano pensando appunto cose diverse. L’io
metafisico potrebbe compiere su di sé una tale
operazione invece solo alla condizione – logicamente
contraddittoria – di poter concepire in maniera positiva
l’indeterminatezza del significato.
Gli oggetti sono la forma del mondo, ma ogni
oggetto ha a sua volta una forma, che è “la possibilità
del suo occorrere in stati di cose” (2.0141). La forma è,
in generale, ciò che sappiamo a priori, quindi qualcosa
che già sappiamo. Qui quindi sarà, in termini intuitivi,
tutto ciò che è già noto dell’oggetto: le relazioni tra esso
e altri oggetti delle quali sappiamo che sussistono (si
ricordi che gli oggetti ci sono dati sempre a priori: “La
logica è prima del Come, non del Che cosa”). In termini
formalmente più precisi, la forma è esattamente il
significato (rispetto all’io metafisico) che individua
l’oggetto. Infatti la “radice” ontologica che dovrà
fondare la sussistenza della relazione, va cercata – si
intende – nell’oggetto quale viene inteso “ora” (più
esattamente: quale viene inteso dall’io metafisico), non
nell’oggetto (quale concepito dal realismo) al quale l’io
concreto vorrebbe avvicinarsi con una conoscenza
sempre più completa.
È in questo modo che Wittgenstein ritiene di poter

241
scansare la critica che invece muove a Russell, per cui
gli oggetti-complessi “dovrebbero avere l’utile proprietà
d’essere composti, e con essa dovrebbero combinare la
gradevole proprietà di poter essere trattati come dei
«semplici»” (Note sulla logica, in Tractatus, 1974, p.
209). Se Wittgenstein stesso sia riuscito o no a risolvere
un tale problema, è una delle questioni più controverse
in tutta la letteratura critica. Come si è già visto,
interpretazioni quali quella di Black o degli Hintikka
sono condotte dalla loro logica interna quasi
inevitabilmente a negarlo. Se in particolare questa mia
ipotesi di lavoro dovesse rivelarsi giusta, sarebbe un
importante punto a favore di una visione non solo-
semantica del Tractatus.
Sulla base di questo discorso, possiamo affermare
che il senso della contingenza ci deriva dal fatto che di
molte relazioni tra oggetti non sappiamo se siano
sussistenti, e finiamo per scambiare la nostra incertezza
per una indeterminatezza delle cose. La consapevolezza
filosofica ci fa capire però che il significato che
riusciamo a dare ai nostri nomi, e il senso che riusciamo
a dare alle nostre proposizioni, è sempre quello che è (il
senso è cioè determinato). Né le proposizioni, dicendo
che sussistono relazioni che non abbiamo verificato, ci
fanno realmente vedere qualcosa che sia oltre il “limite
del pensiero”. Se ipostatizziamo l’indeterminato – che,
logicamente, dovrebbe invece non-esistere – è perché “il
linguaggio traveste il pensiero” (4.002).
Le esigenze della comunicazione, volta per sua natura
a trasmettere nuove informazioni, e quindi a servirsi di
proposizioni, ci fanno sviluppare l’abitudine di pensiero

242
che ciò che esiste è il corrispondente ontologico delle
proposizioni, vale a dire gli stati di cose, e non gli
oggetti: la struttura del reale sarebbe cioè organizzata in
diadi o, più in generale, in complessi. Ma questa
convinzione è il frutto di una confusione che l’analisi
del linguaggio e l’adozione di un formalismo adeguato
ci possono permettere di far dileguare.

10.2. Sembra però che Wittgenstein, per mettere a


punto questa serie di intuizioni, abbia utilizzato uno
schema euristico almeno in parte diverso da quello qui
fatto valere. Infatti sembra essere partito nella sua
ricerca assumendo direttamente come dato intuitivo
iniziale la perfetta coerenza del significato dei segni
semplici (la sua “immutabilità” da un contesto all’altro).
Per questo ha potuto continuare a esprimersi dicendo
che stati di cose esistono, e non che esistono – in un
senso ontologicamente fondamentale – soltanto oggetti:
semplicemente intendeva per “stato di cose” soltanto
una “catena” di oggetti, che, in quanto intero, non
incideva minimamente sulla conformazione interna di
ognuna delle sue parti. L’immagine della catena (2.03) è
stata in effetti spiegata spesso come se gli oggetti si
colleghino “senza intermediari”, a “negare che, nel
fatto, esista qualcosa di sostanziale (un legame, un
vincolo, un nesso) a tenere insieme i componenti”
(BLACK, 1967, pp. 71-72, corsivo dell’autore). Lo stesso
Wittgenstein d’altronde utilizzerà in seguito la stessa
immagine più esplicitamente in tal senso (W AISMANN,
1975, p. 145).
Ciò che possiamo rappresentarci sono solo “catene”

243
di oggetti, ma non perché una disposizione “a catena”
degli oggetti riveli una particolare struttura (per diadi o
complessi) del mondo. Piuttosto solo perché per il
principio di contestualità qualsiasi designazione può
avvenire solo mediante una proposizione articolata (con
molteplicità logica > 1). Di conseguenza, quando ci
raffiguriamo qualcosa che – nel modo di esprimersi del
realista – dobbiamo considerare come non
immediatamente data, ci troviamo a designare
necessariamente una molteplicità di oggetti (uno stato
di cose). Viceversa, gli oggetti che (nel modo di
espressione del realista) ci sono già dati, li riconosciamo
ciascuno nella propria singolarità – senza bisogno di
connetterli in “catene”.
La caratteristica di essere un “fatto” ha implicazioni
esclusivamente epistemiche: esprime la circostanza che
non afferriamo il significato completamente determinato
degli oggetti che lo costituiscono. E questo a sua volta è,
debitamente analizzato, solo un modo di esprimersi che
serve a far salve le intuizioni del realismo, ma ci espone
sempre al rischio di ipostatizzare quanto per definizione
deve essere indeterminato, trattandolo come “realtà”
esterna al “limite del mondo” – all’io metafisico.
L’esistenza di uno stato di cose – in quanto tale – non
comporta alcun vincolo ontologico ulteriore rispetto a
quella dei soli oggetti, e questo era nel significato stesso
che Wittgenstein dava all’espressione “stato di cose”
(tranne alcune conseguenze che spiegava nella 2.0231 –
ma di cui ho cercato di dar conto in termini epistemici,
mediante l’analisi fatta del concetto di
indeterminazione), quindi poteva continuare ad

244
ammetterne con tranquillità l’esistenza.
Questa sua scelta ha provocato però una serie
lunghissima di equivoci nella letteratura critica, dato che
ha portato a collegare la tesi dell’isomorfismo che deve
rendere possibile la raffigurazione, all’idea che il mondo
debba essere organizzato strutturalmente in “fatti”, che
possano essere rispecchiati da “proposizioni” – da cui
l’accusa di aver delineato un’ontologia che ad hoc
rendesse possibile il nostro linguaggio. Credo che la sua
idea fosse in realtà del tutto diversa. La tesi
dell’isomorfismo non implica che mondo e linguaggio
siano speculari nel senso che un processo di “fusione”
che porta i nomi a riunirsi in proposizioni, ha il suo
analogo poi in un processo di “fusione” degli oggetti in
fatti.
Wittgenstein non avrebbe mai ammesso la possibilità
di una tale “fusione” – né per i nomi, né per gli oggetti.
Una certa ambiguità sembra essere connessa da vicino
con il concetto stesso di “articolazione”. Laspia (1997)
distingue al riguardo due usi: (i) per il primo, si può dire
che il linguaggio è ““articolato”, perché consta di parti.
Esso è composto da unità minime discrete, come
discrete, anatomicamente e fisiologicamente
differenziate sono le parti visibili di un corpo” (ivi, p.
11). (ii) Per l’altro ““articolazione” non significa
“divisione (in parti)”, ma “organizzazione”. Vero è,
infatti, che il punto di articolazione divide la parte flessa
in due metà: ma questa ripartizione è unicamente in
vista della funzionalità biologica dell’intero” (ivi, p.
127). La mia impressione è che Wittgenstein nella
picture-theory abbia sempre avuto in mente il primo

245
concetto di articolazione (attribuisce alla proposizione
addirittura una “molteplicità matematica”57). Molti degli
interpreti invece sono stati fuorviati dal termine
“struttura”, ed hanno pensato a qualcosa che valga come
un principio di riorganizzazione del materiale di
partenza.
La picture-theory implica che certe relazioni
specifiche, diverse da caso a caso, siano condivise se la
proposizione è vera (solo nel caso più sfortunato,
sarebbe condivisa unicamente la forma logica – che
però darebbe in pratica un’informazione del tutto
indeterminata), non che sia condivisa un’uguale
struttura di articolazione che abbia consistenza
ontologica e riconoscibilità autonome in ogni caso in cui
compare. Ciò che si dice è solo che “Il fatto, per essere
immagine, deve avere qualcosa in comune con il
raffigurato” (2.16), non che questo qualcosa debba
essere la stessa cosa (una forma o struttura diadica,
intesa con una qualche consistenza ontologica) che deve
comparire in ogni fatto il quale debba svolgere il
compito di raffigurare, né tanto meno che debba esistere
una certa forma o struttura (connotata ontologicamente)
che sia comune a tutto il linguaggio così come a tutto il
mondo. In quest’ultimo senso (ma in modo
estremamente indebolito), un’identità di struttura viene
in effetti ammessa tra linguaggio e mondo, ma senza
alcuna petitio principii: tale “struttura” consiste solo
nell’esistenza di unità elementari – i nomi e gli oggetti
57
“Nella proposizione dev’esser da distinguere esattamente tanto,
quanto è da distinguere nella situazione che essa rappresenta”
(4.04).

246
–, ma deve essere ammessa indipendentemente, e per il
linguaggio e per il mondo, sulla base del solo principio
di identità58. Posto che le proposizioni sono catene di
nomi, e gli stati di cose catene di oggetti, posto inoltre
che posizioni come quella della 2.0231 hanno la loro
origine in considerazioni epistemiche sui limiti della
nostra conoscenza, e non in senso stretto nell’ontologia;
possiamo pensare allora che l’isomorfismo linguaggio-
mondo, per il quale così tante critiche il Tractatus ha
ricevuto, fosse concepito da Wittgenstein in termini per
i quali diventava un vero e proprio truismo. Nella
2.0211 si può ritenere quindi del tutto legittimo il
passaggio che viene fatto dal “mondo” alle
“proposizioni”, perché l’argomentazione che vale per il
linguaggio, vale allo stesso titolo per l’ontologia: non è
possibile pensare che un segno cambi di significato da
un contesto all’altro (non lo riconosceremmo più come
lo stesso segno), allo stesso modo in cui non è
concepibile che uno stesso oggetto diventi diverso da un
contesto ontologico all’altro (non lo potremmo
riconoscere più come lo stesso oggetto).
In un certo senso è vero che il Tractatus individua dei

58
Una tale visione in effetti sembra essere implicita anche nei
seguenti passi: “Russell e Frege intendono il concetto quasi
come una proprietà di una cosa. Ma è molto innaturale
intendere le parole 'uomo', 'albero', 'trattato', 'cerchio', come <se
indicassero> proprietà d’un sostrato” (Osservazioni filosofiche,
§ 96). O anche: “Il fatto che ci serviamo di simili proposizioni
[a soggetto-predicato] riguarda solo il nostro sistema di
comunicazione”, non una struttura del mondo (ivi, § 93,
rimando al testo per riscontrare che tutto il ragionamento in cui
il passo è inserito va nella direzione che qui seguo).

247
vincoli che sono imposti dall’ontologia del linguaggio
all’ontologia complessiva del mondo, ma solo nel senso
che il nostro linguaggio, e il pensiero che con esso fa
tutt’uno, costituisce un a priori, che filtra tutta la nostra
visione del mondo: se esistesse una realtà diversa da
come il nostro pensiero afferma, noi evidentemente non
potremmo pensarlo. Il procedimento in questione non
costituisce quindi affatto una petitio principii, perché i
vincoli considerati sono, formalmente, nulli.

10.3. Data l’attinenza con il problema, vorrei inoltre


discutere la tesi di McGuinness (1988), per il quale gli
oggetti non andrebbero concepiti in senso realista: “Nel
Tractatus un oggetto che è il referente di un nome, o di
un segno semplice, può essere semplicemente
considerato il potenziale di valore di verità di una certa
espressione” (ivi, p. 106). “Nel Tractatus ... la filosofia
e la logica hanno a che fare non con uno speciale mondo
di oggetti, ma con i caratteri necessari del linguaggio”
(ivi, pp. 104-105). Ma questa conclusione è tratta in
realtà proprio per evitare (giustamente) l’idea che
Wittgenstein “cerca[sse] di inferire dal nostro
linguaggio i caratteri del mondo” (ivi, p. 103). Se invece
l’analisi che ho svolto in precedenza è corretta, si può
evitare di attribuire a Wittgenstein l’assunzione
dogmatica della rispecchiabilità del mondo nel
linguaggio, ma senza dover rinunciare alle conseguenze
più interessanti sulla natura degli oggetti che il
Tractatus permette di ricavare. Come si è visto poche
pagine sopra, anche nella mia lettura gli oggetti sono la
possibilità degli stati di cose, ma questo non ne

248
diminuisce il carattere di entità pienamente reali: non
possono essere detti, ma possono essere mostrati, e
questo basta a garantirne la realtà (attuale). Si può
obiettare a McGuinness anche che (i) gli stessi caratteri
del linguaggio possono essere studiati in maniera
rigorosa, solo avendo già in mente delle precise teorie
sull’ontologia, dato che la teoria del linguaggio dovrà in
ogni caso essere congegnata in modo da spigare
l’applicabilità del linguaggio al mondo. (ii) Se gli
oggetti sono i costituenti dei fatti, come possono degli
oggetti che non hanno lo statuto ontologico di entità in
qualche modo reali, comporsi a formare fatti reali? E
anche se gli oggetti sono stati ricavati solo – attraverso
il principio del contesto – dall’analisi dei fatti in cui
compaiono, non dovrebbero comunque avere una
consistenza ontologica, per quanto minimale, che basta
però a far scattare le conseguenze che abbiamo visto
sulla sostanza del mondo? Se la mia analisi è giusta,
basterebbe in effetti a tal fine l’applicazione del solo
principio d’identità.

10.4. La circolarità parti-intero nella comprensione della


proposizione, sembra ricalcare – come ho già accennato
in precedenza – la falsariga di Frege. Il movimento dalle
parti al tutto è di tipo psicologico. Il movimento inverso
dall’intero alle parti è di interesse della logica, e
garantisce l’oggettività della proposizione.
Se conosciamo il significato delle espressioni
costituenti, possiamo ricostruire il senso della
proposizione – ma conoscere il significato significa solo
che ci si danno attualmente alcune entità che hanno

249
piena autonomia ontologica dal fatto raffigurato, anche
se sono per noi un’“immagine” di qualcosa. Se si tiene
presente che il nome non è iconico59, riconosciamo di
aver bisogno di un ulteriore strumento per garantire che
la designazione avvenga e, soprattutto, sia oggettiva60.
La possibilità che il nome riesca a fare riferimento ad
una realtà diversa da sé, viene a dipendere dalla
circostanza che il nome compaia in una proposizione –
come afferma il principio di contestualità. Infatti solo
una proposizione può essere vera o falsa, quindi solo
una proposizione può effettivamente parlare di una
realtà “oggettiva”. È così quindi che si può garantire
l’oggettività della designazione.
Il principio di composizione si limita quindi ad
affermare che le espressioni semplici impiegate, unite,
danno la proposizione (sappiamo che la relazione tra di
esse è il senso della proposizione): possiamo dire (un
po’ liberamente) che riguarda una dimensione solo
“psicologica”, perché si limita a descrivere ciò che per
noi (soggettivamente) è immediatamente presente.
59
Anche se lo fosse, dovrebbe esserlo a tal punto da essere
perfettamente identico al designato, altrimenti il rapporto di
designazione potrebbe darsi ancora solo grazie ad una
proposizione – ma, se fosse del tutto iconico e indistinguibile
dal designato, a questo punto non avremmo più nemmeno la
possibilità e necessità di “raffigurare” qualsivoglia cosa.
60
Si noti che, se la designazione di una realtà esterna, “oggettiva”,
avviene, è già con ciò dimostrato che la designazione è
oggettiva: un processo che avviene esso stesso in modo
oggettivo, porterà a risultati che sono – in un senso
fondamentale – “oggettivi”. Se nel Tractatus l’oggettività del
processo è garantita da proprietà interne (logiche), il risultato
del processo sarà allo stesso titolo “oggettivo”.

250
L’oggettività della designazione è garantita perché la
relazione tra le espressioni, “confrontata” con la realtà
(4.05), può essere uguale o diversa, di modo che la
proposizione possa essere vera o falsa. Tutto ciò che il
concetto di raffigurazione indica, sta in questa identità o
diversità. Quindi la semantica e la teoria della
conoscenza sono costruite effettivamente in termini
puramente logici (principio di identità e un numero
indeterminato di primitivi indefinibili, gli oggetti).
Quindi l’oggettività della designazione – da ottenersi
attraverso la proposizione – è dimostrata (principio di
contestualità). Non c’è circolarità con il principio di
composizione perché rispondono ciascuno ad un
obiettivo diverso. Uno descrive solo il costituirsi delle
nostre immagini, l’altro spiega invece la capacità della
proposizione di designare. La proposizione completa
riceve dalle sue parti componenti soltanto il proprio
aspetto “materiale”. Le parti componenti invece
ottengono dalla proposizione la possibilità di designare.
Come abbiamo visto, è l’aspetto materiale del segno
proposizionale (ad es. un plastico piuttosto che un tratto
di matita), che gli permette di raffigurare – con una
fedeltà iconica maggiore o minore. Quindi dobbiamo
pensare che nella situazione logicamente più semplice,
noi abbiamo solo il segno proposizionale, e lo
scambiamo di fatto per la realtà raffigurata, come
farebbe un bambino che vedesse il modellino di un
incidente senza sapere nulla dell’esistenza di automobili
(né di una tecnica di raffigurazione mediante modellini).
Negli usi comuni del linguaggio, sono semplici tratti
di matita, perché ci sono state definizioni ostensive (o

251
altro) che hanno permesso di associare ad ogni segno un
significato assai più iconico e ben determinato61. In
questo caso, il segno proposizionale vero e proprio
dovrebbe essere considerato il fatto costituito dai
significati che componiamo nella nostra mente. Ma per
arrivare a questo, deve esserci stato un momento iniziale
in cui un segno proposizionale del tutto non iconico e
indeterminato, è stato scambiato per il raffigurato: detto
in termini più concreti, deve esserci stato un momento
in cui abbiamo capito che un segno proposizionale mai
prima osservato (ad es. da bambini le voci dei nostri
genitori) era un segno proposizionale, cioè “stava per”
qualcosa d’altro. La somiglianza iniziale necessaria è
così garantita dall’uguale forma logica: il segno e il
fatto hanno uguale molteplicità.

10.5. Nel Tractatus il principio di composizione è


quindi fatto salvo, perché le parti costitutive del segno
proposizionale esistevano comunque indipendentemente
l’una dall’altra. Il principio di contestualità è allo stesso
modo confermato perché l’esistenza di una molteplicità
di elementi presuppone (fa tutt’uno con) l’intera
compagine proposizionale.
Le parti costitutive del segno proposizionale, pur non
“designando” ancora nulla, potevano comporsi a
costituire un senso che designasse oggettivamente,
perché la realtà designata è di fatto sempre solo
“mostrata” nel segno proposizionale stesso, il quale
svolge la propria funzione con il solo limitarsi ad
61
Sarebbe più esatto dire: hanno permesso di configurare il segno
proposizionale secondo un aspetto assai più iconico.

252
esistere così com’è :

4.461 La proposizione mostra ciò che dice ...

Era quindi sufficiente alla designazione la semplice


esistenza delle espressioni.
Le teoria così elaborata con un procedimento logico,
corrisponde a quella che G.H. Mead (1966) proponeva
con una ricostruzione empirica per spiegare l’origine del
linguaggio: per due cani in una zuffa, ad es., il
movimento del balzo che l’uno compie, è, per l’altro, sia
un fatto percepibile di per se stesso, sia un segnale del
contatto fisico immediatamente successivo. Quando un
meccanismo di questo genere diventa abbastanza
sistematico, nascono “simboli”, che derivano questo
loro carattere dalle associazioni empiriche che i soggetti
sono in grado di compiere. Wittgenstein trova invece un
modo per sostituire un meccanismo di tipo puramente
logico all’associazione empirica. L’elemento comune
alle due visioni è che, all’inizio, il simbolo deve sia
essere che mostrare quello che dice. Per Wittgenstein
però, non ci sono associazioni empiriche che possono
aggiungere ricchezza espressiva al segno, per così dire
“dall’esterno” (lasciando quindi il segno stesso sempre
identico): deve essere il segno proposizionale stesso a
riconfigurarsi per poter mostrare in sé con una fedeltà
iconica sempre maggiore l’immagine del raffigurato. In
realtà, anche nei casi più avanzati di raffigurazione,
come può essere ad es. l’elaborazione di una teoria
scientifica, la designazione può ancora avvenire solo
sulla base dell’identità dei caratteri presentati da fatto

253
raffigurato e segno proposizionale (che ora è solo
riconfigurato in maniera enormemente più ricca e
articolata).
Si può dire quindi che la circolarità parti-intero nella
comprensione della proposizione: (i) in senso
sostanziale (i. e., dal punto di vista di un realista) si può
considerare virtuosa: il movimento è a spirale, e torna su
se stesso arricchito di un’iconicità del segno che è
sempre maggiore.
(ii) Da un punto di vista formale (quello imposto
dall’argomentazione del solipsista), è invece destinato a
rimanere un cerchio chiuso: ad ogni istante del processo
di accrescimento dell’iconicità, abbiamo di fatto sempre
solo il segno proposizionale che mostra se stesso.
La struttura circolare dello schema concettuale
esprime il fatto che, formalmente, non si può uscire
dalla logica dell’idealismo – se non rispettandola, i. e.
non si può propriamente uscire da essa: si può solo
adottare uno schema di analisi delle intuizioni del
realismo che le esprima nei termini di una logica
idealista.
Da un punto di vista formale, principio di
contestualità e principio di composizione sono
logicamente coerenti semplicemente perché

3.334 Le regole della sintassi logica devono


comprendersi da sé, sol che si sappia come ogni singolo
segno designa.
2.0123 Se conosco l’oggetto, conosco anche tutte le
possibilità del suo occorrere in stati di cose. ...

L’insieme delle applicazioni per entrambi i principi è

254
dato in maniera immediata, completa e istantanea: nel
presente intemporale dell’io metafisico, i due principi
non fanno altro che confermare a vicenda l’uno i
risultati delle applicazioni dell’altro. Se viene introdotto
uno schema concettuale così complesso – per poi
vederlo, formalmente, “girare a vuoto” – è perché ciò è
necessario, sul piano intuitivo e sostanziale, per far
salve le istanze di cui si fa portatore il realismo.
Abbiamo quindi che il principio di composizione è lo
strumento che guarda al lato soggettivo del rapporto di
raffigurazione – i. e., tiene conto dell’argomentazione
del solipsismo. Il principio di contestualità permette
invece di articolare, pur rimanendo formalmente
all’interno di questo quadro, le intuizioni del realismo.
Ma solipsismo e realismo coincidono:

... La strada che ho percorso è questa: L’idealismo separa


dal mondo, come unici, gli uomini, il solipsismo separa
me solo, ed alla fine io vedo che anch’io appartengo al
resto del mondo; da una parte resta dunque nulla;
dall’altro, unico, il mondo. Così l’idealismo, pensato con
rigore sino in fondo, porta al realismo. (Quaderni,
15.10.16)
5.64 Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente,
coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si
contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad
esso.

L’analisi fatta del circolo parti-intero nella proposizione


rende conto di tutto questo:

4.022 La proposizione mostra il suo senso.

255
La proposizione mostra come stan le cose, se essa è vera.
E dice che le cose stan così.

Chiedere di più di quanto è mostrato dal segno


proposizionale, vorrebbe dire voler andare oltre il limite
del nostro pensiero. Quindi ciò che sappiamo è dato in
effetti dal principio di composizione. Ma ciò che
sappiamo è dato anche dal principio di contestualità: la
designazione che attribuiamo al nome dipende dal senso
della proposizione – senso che non può che confermare
il risultato ottenuto per l’altra via, con il principio di
composizione, dato che tutto ciò che sappiamo della
realtà raffigurata, lo vediamo mostrato nel corpo
materiale del segno proposizionale.
Con lo stesso atto con cui mostra il suo senso, la
proposizione dice che le cose stanno così – in quello
stesso modo che è stato il risultato del mostrarsi: la
fraseologia del “dire” serve ad intendere che ci
riferiamo ad una stessa realtà, vista però secondo
l’analisi del realismo.
In Frege “Il senso e il significato [Bedeutung] di una
parola non sono due facce di una medaglia, ignare l’una
dell’altra. Non vi è una spiegazione di ciò in cui
consiste afferrare il senso di un enunciato e un’altra,
diversa e indipendente, di ciò in cui consiste
determinare la Bedeutung. Infatti afferrare il senso di
una parola è capire come essa contribuisce alla
determinazione delle condizioni di verità dell’enunciato
in cui figura”, mentre la Bedeutung è individuata
appunto attraverso la determinazione delle condizioni di
verità, che richiede il ricorso al principio del contesto

256
(PICARDI, 1994, p. 25). In Wittgenstein la prospettiva è
del tutto simile: quelle che qui possono essere viste
come dimensione soggettiva del senso e dimensione
oggettiva della Bedeutung sono esattamente
sovrapponibili e coincidenti .
62

Questo significa che per il soggetto metafisico


oggettività e soggettività non sono nozioni che possano
entrare in competizione. Se l’io metafisico riconoscesse
qualche contenuto come meramente soggettivo e dovuto
ad un’imperfezione delle proprie conoscenze, avrebbe
con ciò stesso contraddetto la diagnosi di una tale
imperfezione. È possibile quindi eludere l’antinomia
idealismo/realismo: “Gli idealisti avevano ragione a
sostenere che noi non trascendiamo mai l’esperienza.
Mente e materia costituiscono una divisione entro
l’esperienza. I realisti avevano ragione quando
protestavano che le sedie esistono. Essi si mettono nei
guai in quanto pensano che i dati di senso e gli oggetti
fisici siano collegati causalmente” (Lezioni 1931-1932,
p. 104).
62
La terminologia può apparire libera: in Frege il senso stesso è
oggettivo, ma Wittgenstein in realtà intende anche quella che
Frege avrebbe chiamato Vörstellung, come del tutto oggettiva,
dato che ogni raffigurazione per la picture-theory deve essere
oggettiva. Qui qualifico come “soggettivo” il senso perché è ciò
che noi abbiamo. Mi permetto questa assimilazione
terminologica perché il senso per Frege è sì oggettivo, ma “non
riesce a chiarire, se non da un unico lato, il significato
[Bedeutung] – posto che ve ne sia uno – del nome proprio cui si
riferisce” (FREGE, Senso e Significato, 1965, p. 377): soggetti
diversi selezioneranno sensi diversi per formulare i propri
giudizi. In ogni caso, in Wittgenstein, l’antinomia si scioglie
appunto perché la “soggettività” dell’io metafisico è oggettività.

257
10.6. È comunemente accettato che anche Wittgenstein
fosse radicalmente anti-psicologista.

4.1121 La psicologia non è più affine alla filosofia che


una qualsiasi altra scienza naturale.
La gnoseologia è la filosofia della psicologia.
Non corrisponde forse il mio studio del linguaggio
segnico a quello studio dei processi di pensiero, che i
filosofi ritennero così essenziale per la filosofia della
logica? Solo, essi s’irretirono per lo più in inessenziali
ricerche psicologiche, e un pericolo analogo v’è anche
con il mio metodo.

In realtà già la seconda parte di questa proposizione


credo che debba mettere in guardia contro l’idea che
Wittgenstein si sentisse estraneo alle euristiche
impiegate dalla psicologia (si ricordi anche che a
Cambridge si era interessato a esperimenti di psicologia
della musica [MCGUINNESS, 1990, pp. 191 ss.]). Più in
generale, credo si debba fare attenzione a non
fraintendere le motivazioni che portano Wittgenstein
all’anti-psicologismo.
La sua ambizione era di costruire un sistema
rigorosamente fondazionale, quindi sarebbe stato del
tutto inopportuno fare uso – nell’argomentazione – di
osservazioni empiriche relative a processi concreti di
pensiero. Si tratta però solo di una scelta di metodo
argomentativo. Sarebbe un errore pensare che il suo
anti-psicologismo fosse frutto di una prevenzione rivolta
contro le categorie della psicologia in quanto tali.
Piuttosto c’è in Wittgenstein la ferma volontà di non

258
impiegare argomentazioni e metodi di carattere
empirico, quindi neppure quelli della “psicologia” in
senso consueto.
L’impressione che nel Tractatus si trovi “una
generale atmosfera anti-psicologista” (Frascolla, 2000,
p. 76) è in realtà corretta, ma deriva soprattutto dal fatto
che gli autori più rappresentativi dello psicologismo
hanno sempre portato ipotesi e considerazioni di tipo
empirico all’interno di teorie che avrebbero dovuto
spiegare l’attività del pensiero e le possibilità di
elaborazione del sapere umano, portando evidentemente
ad un corto-circuito epistemologico che consisteva nel
dare per presupposto ciò che doveva essere spiegato.
Contro questo rischio Wittgenstein giustamente si allerta
con la massima attenzione. Ma questo non significa che
non abbia utilizzato schemi euristici che prevedevano
un ampio riferimento al “pensiero” in quanto tale.
Se prescindiamo dal metodo di giustificazione, e
guardiamo al merito delle conclusioni, la sua è una
forma di monismo rigoroso (“neutro”, nell’espressione
di Russell). Se lo schema euristico che segue è in buona
parte debitore ai problemi posti dal solipsismo (la
matrice andrà cercata nella lettura giovanile di
Schopenhauer e nelle implicazioni ricavate
dall’empirismo di Russell), nelle conclusioni è molto
più appropriato classificare il suo come “realismo puro”
– dato che il “soggetto che pensa non v’è”. Con questo
il desiderio fregeiano di oggettività viene esaudito.
L’ampio riferimento che ho fatto alla categoria di
“pensiero” nel precedente esame della picture-theory
non deve essere quindi frainteso. Credo che sia in tutto

259
corretto sostenere che Wittgenstein fosse anti-
psicologista nel metodo di giustificazione come nelle
conclusioni. Ma è un anti-psicologismo che – con
grandissima acutezza – è congegnato in modo da render
conto dei problemi – anche i più profondi – che lo
psicologismo (con l’idealismo e il solipsismo) pone.
Il senso della mia tesi deve quindi essere così inteso:
scelgo – solo per desiderio di una maggiore chiarezza
nell’esposizione – di riferirmi direttamente ad una
nozione di pensiero come utilizzata dalla psicologia. Ma
– formalmente – il carattere puramente logico della
picture-theory permetterebbe di escludere ogni
riferimento al pensiero in quanto tale. In ogni caso però,
ci troveremmo poi a dover mettere alla prova la
plausibilità intuitiva della teoria, confrontandola con le
nostre convinzioni sulle questioni trattate – si tratta di
convinzioni che di certo potrebbero essere sbagliate, ma
alle quali non saremmo disposti a rinunciare facilmente.
Quindi credo che sia preferibile usare un metodo di
esposizione che da subito ponga le condizioni per una
più facile “traducibilità” pratica successiva dei nostri
risultati – senza nulla pregiudicare in merito al
riconoscimento delle intenzioni fondazionali di
Wittgenstein.

10.7. Il problema della circolarità tra le parti e l’intero


della proposizione è una questione assai ardua,
ampiamente dibattuta anche negli studi su Frege. Vorrei
confrontare qui la mia strategia di soluzione con
Donatelli (1998, pp. 19 ss.). Abbiamo visto in apertura
di questo lavoro che Donatelli e Diamond intendono la

260
tesi dell’inesprimibilità delle proposizioni del Tractatus
(6.54) come l’indizio di un uso obliquo del linguaggio.
Un’argomentazione plausibile è ricavata dall’esistenza
di una tesi abbastanza simile in Frege –
incontestabilmente uno dei pensatori che più ha influito
sulla formazione di Wittgenstein. Si tratta del principio
per cui il “concetto” è, per Frege, a rigore, “ineffabile”,
dato che quando la parola che lo indica diventa soggetto
( = la parte “satura”) di una proposizione, non si trova
più, appunto, in posizione predicativa. Se dico “Socrate
è mortale”, “- è mortale” è la parte insatura della
proposizione. Se dico “ “- è mortale” è la parte insatura
della proposizione”, “- è mortale” è diventato un nome
(entità satura e “completa”), quindi il giudizio è falso,
quindi non si può affermare di un concetto che è un
concetto.
È un’idea che ha avuto molto risalto in letteratura, ad
es. da parte di Hintikka-Hintikka (1990). È stato questo
principio di Frege verosimilmente a influenzare con
forza la ricerca successiva di Wittgenstein. Per Frege,
sottolinea Donatelli (ivi, p. 18), “«Non ci resta dunque
altro che guidare il lettore o l’ascoltatore con dei cenni
per fargli sapere che cosa intendiamo con quella
parola»63. Si tratta di uno sforzo immaginativo e non di
un tentativo di raggiungere una comprensione autentica.
Frege infatti è molto netto nella distinzione tra logico e
psicologico, e le espressioni che egli usa per rendere
conto della natura degli enunciati delucidatitivi non
lasciano dubbi sul fatto che essi appartengano al regno
dello psicologico”.
63
Il passo è da FREGE, Concetto e oggetto (1973, p. 374).

261
Donatelli osserva come ci sia in Frege una certa
oscillazione: “Frege afferma al contempo che questi
enunciati sono semplicemente insensati ... Ma la
nozione di impossibilità comporta che vi sia comunque
qualcosa che si cerca di esprimere, sebbene senza
successo” (ivi, p. 17). Ma la sua conclusione principale
è che anche la filosofia del linguaggio dell’anti-
psicologista Frege può essere mantenuta solo
supponendo, accanto ad una parte rigorosamente
sistematica e formalizzabile (“oggettiva”), una parte che
non ha “la natura assertiva del linguaggio stesso, ma che
ricade nella sfera della psicologia: in questo caso,
tuttavia, si tratta di un uso intenzionale e consapevole
dell’immaginazione” (ivi, p. 19). La conclusione è di
estremo interesse: si deve notare, infatti, che questa
seconda parte, nell’ordine della costruzione teorica, fa
da premessa logica alla prima. Quindi, a rigore, tutta la
concezione di Frege riposerebbe su assunti di tipo
psicologico – anche se, verosimilmente, lo stesso Frege
li riconosceva ma li considerava ovvi, e quindi non in
grado di minacciare la tenuta complessiva della sua
costruzione. Picardi (1994, pp. 55 ss.) indica in effetti
una serie di temi fondamentali della riflessione matura
di Frege, che questi avrebbe tratto proprio dagli autori
psicologisti, primo fra tutti Wundt. Ora, se in Frege si
possono ammettere debiti importanti verso le nozioni
elaborate in ambito psicologico o psicologistico, a
maggior ragione dobbiamo aspettarcele nel Tractatus, il
cui impianto prevede un uso decisivo delle nozioni di
“io” e di “limite del pensiero” (almeno in termini
intuitivi: pensiero di chi?).

262
Ciò considerato, mi sembra che l’intenzione di
Donatelli sia di procedere molto oltre quelle proprie di
Frege, dato che ci si troverebbe così a fondare – almeno
formalmente – la logica sulla psicologia. Anche per
quanto riguarda il Tractatus, ci si può chiedere a questo
punto se invece che in una teoria puramente logica della
raffigurazione, la base dei processi di comprensione non
venga ad essere colta in motivi afferenti piuttosto alla
psicologia. Donatelli afferma che in Wittgenstein
l’oscillazione riscontrata in Frege viene risolta una volta
per tutte, affermando che propriamente “leggi della
logica” non esistono affatto – non si tratta cioè di
qualcosa che esiste, ma solo è destinata a rimanere
inesprimibile dal linguaggi. Vorrei osservare però che,
se è la semantica che viene espressa mediante un uso
obliquo del linguaggio64, ne segue in realtà che tutto ciò
che la semantica veicolerà, dovrà essere compreso sulla
base di un uso obliquo del linguaggio.
Indipendentemente dal problema storico-
interpretativo, ci si deve chiedere se teoreticamente una
concezione di questo tipo sia del tutto accettabile.
Arriviamo con questo al punto fondamentale di questo
paragrafo. La premessa del ragionamento di Donatelli è
che il ricorso alla psicologia si rende necessario a causa
proprio del principio di contestualità: è con la
proposizione completa che si garantisce l’oggettività
della designazione. Ma, posto che comprendiamo la
proposizione in quanto funzione delle sue parti
costitutive, questo comporta che c’è un momento
64
Gli Hintikka (1990, pp. 18 ss.) richiamano l’efficace formula
“semantici senza semantica”.

263
iniziale in cui, rivolgendoci ad un ascoltatore, possiamo
solo usare “dei cenni per fargli capire che cosa
intendiamo con quella parola”.
Black (1967, p. 118) commenta la 3.263 sopra citata
rilevando la circolarità che essa implica: posto il
principio di contestualità, “diventa misterioso il fatto
che due interlocutori possano raggiungere una base
d’intesa comune. Possiamo supporre che Wittgenstein
avrebbe replicato che è psicologica o sociologica, e non
filosofica, la questione del modo in cui si attua la
comprensione reciproca. È un fatto, per il quale si
possono addurre spiegazioni causali di ordine
scientifico, che noi talora riusciamo a farci capire. Non
può sorgere qui alcun problema filosofico, in quanto è
logicamente impossibile che esista una risposta
filosofica ad esso”.
Vorrei osservare però che così 1) si dovrebbe
ammettere che la picture-theory è manchevole rispetto
al suo fine principale: spiegare in termini logici la
capacità di comprendere una proposizione, 2) si deve
ammettere che la circolarità sarebbe particolarmente
stridente soprattutto in quanto conseguenza di una
visione linguistico-semantica: se questa può essere
evitata, ci si trova in una posizione migliore anche per il
problema della circolarità, 3) sul piano teoretico, questo
comporta tutti i problemi tradizionalmente associati allo
psicologismo.
Il riferimento di Donatelli e Diamond alla tesi di
Wittgenstein che le proposizioni del Tractatus siano
insensate, e che quindi non c’è propriamente un
contenuto ad esse associabile (vedi supra), risolve una

264
parte dei problemi, ma non tutti: rimane il fatto che i
compiti che altrimenti sarebbero stati svolti dalla
logica e dalla semantica – ora dichiarate in qualche
modo non inesprimibili, ma proprio inesistenti –, ora
dovremmo trovare altri strumenti per poterli rendere
eseguibili.
Se invece si rivelasse accettabile la mia analisi del
circolo parti-tutto, avremmo un modo per evitare tutto
questo insieme di problemi. Vorrei osservare però che
per Donatelli “difficilmente leggeremo quanto
Wittgenstein afferma sulla natura del mondo e del
linguaggio come dottrine che contribuiscono alla
delineazione della teoria che risolve il problema della
proposizione, ma vi scorgeremo esempi di come tali
formulazioni arrivino alla fine a dissolversi cambiando
l’aspetto che il problema della proposizione assume per
noi” (ivi, p. 36). Si vede quindi come ci sia una certa
misura di sovrapponibilità con la mia tesi che il
Tractatus voglia fondamentalmente analizzare il
realismo in maniera da renderlo formalmente
compatibile con le obiezioni del solipsismo: l’analisi è
appunto un processo, un’attività, che porta solo a
vedere sotto un diverso aspetto una questione, senza che
vengano dati contributi positivi di conoscenza in senso
stretto (quelli che Wittgenstein esprimerebbe solo
mediante proposizioni contingenti – della “scienza
naturale”).

10.8. Il punto più saliente sul quale credo che la mia


visione contrasti con quella di Donatelli, riguarda la
concezione delle letture ineffabiliste – quelle che

265
intendono che l’“inesprimibile” in Wittgenstein sia solo
qualcosa di non dicibile, ma comunque di pienamente
“esistente” (in qualche senso della parola). Viene fatta
dall’autore una rassegna molto ricca delle diverse
versioni che questa idea trova in letteratura. Quella che
a me più interessa è la lettura intuizionista dell’etica del
Tractatus: il mistico (das Mystische) avrebbe un suo
proprio contenuto, anche se non dicibile. Esemplare a
questo riguardo è Black (1967, p. 360): “Da una parte,
sembra chiaro (da osservazioni come 6.522), che per lui
[Wittgenstein] il mistico c’è. D’altra parte, osservazioni
come 6.5, 6.51, 6.52 paiono affermare che ogni tentativo
di esprimere il mistico, sia dicendolo sia mostrandolo,
deve condurre all’assurdo”. Vorrei osservare, intanto,
che 6.5, 6.51, 6.52 non fanno riferimento al “mostrare”,
ma solo al “dire”: “dubbio può sussistere solo ove
sussiste una domanda; domanda, solo ove sussiste una
risposta; risposta, solo ove qualcosa può esser detto”
(6.51, corsivi dell’autore). Si tratta di un elemento molto
importante che ci porta a richiamare la posizione già
vista di Bouveresse (1982).
Le versioni relativamente più vicine a quella che
cercherò di difendere in seguito sono:
1) quella degli Hintikka: il contenuto proprio del
mistico sarebbe costituito da “percezioni distinte dalle
percezioni sensibili poiché dirette verso oggetti
particolari: oggetti emozionali” (HINTIKKA-HINTIKKA,
1990, p. 83). In realtà gli Hintikka non dedicano ampio
spazio al tema nel loro libro, quindi non è del tutto
chiaro come intenderebbero sviluppare questa tesi. Mi
sembra però che i punti evidenziati da Donatelli siano

266
bene rintracciabili nel testo, in particolare: “Rimane
tuttavia oscuro un punto. Gli oggetti emozionali, che
entrano a far parte del nostro mondo grazie alle
esperienze di valore, possono anche entrare in relazione
con altri oggetti per formare stati di cose?” (DONATELLI,
1998, p. 84). La risposta da darsi, a questo punto, una
volta introdotti “oggetti emozionali” – visti come
oggetti tra altri oggetti – io credo che debba essere
affermativa, ma allora perché Wittgenstein direbbe che
l’etica “non può formularsi” (6.421), dal momento che
potrebbero comporsi delle vere e proprie proposizioni
su di essa? E perché si affermerebbe che l’etico ha il
carattere non della contingenza, ma della necessità
(6.41)? Si noti che le due formulazioni dell’obiezione
finiscono per essere di fatto equivalenti: se l’etica è in
realtà “senza senso” alla stessa maniera delle tautologie,
è chiaro allora perché debba avere il carattere della
necessità. Così Diamond (ad es. 1991a, p. 2) sostiene
appunto che “The propositions of logic, the equations of
mathematics, lack content, deal with nothing, express no
thoughts”.
2) Una lettura che accosta etica e tautologie è definita da
Donatelli “intuizionismo razionale”, ed è discussa in
particolare nella versione di Cyril Barrett (1991): in
logica “Si tratta di arrivare a riconoscere ovvietà:
tautologie e contraddizioni. In maniera analoga si può
pensare che in etica si tratti di arrivare a riconoscere
ovvietà morali” (DONATELLI, 1988, p. 85), intendendosi
principi o verità morali disponibili alla mente in maniera
non inferenziale (ivi, p. 83). Il limite anche di questa
lettura è secondo Donatelli che non viene spiegato

267
perché Wittgenstein definisca “insensate” le
proposizioni del Tractatus alla 6.54: seguendo Barrett
dovremmo pensare che “Wittgenstein non può volere
sul serio gettare via la scala”, trovandoci quindi in
contraddizione con uno dei passi più significativi di
tutta l’opera (ivi, p. 86). Vorrei osservare però in
quest’argomentazione uno slittamento: alla 6.54 si
afferma che le proposizioni di tutto il Tractatus sono
“insensate”, ma leggiamo alla 6.41 che il senso del
mondo “Dev’essere fuori del mondo” perché “Se un
valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire
ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è
accidentale”, e subito dopo, alla 6.42, che “Né, quindi,
vi possono essere proposizioni dell’etica” (corsivo mio).
C’è uno spazio considerevole quindi per intendere il
contenuto dell’etica come non “insensato”, ma “senza
senso” (come le tautologie – tant’è che viene inteso
anche come necessario). Credo che Donatelli trascuri la
6.42 perché assume l’idea che debba essere la lettura di
tutto il Tractatus ad avere una funzione etica. Quindi
gettare via la “scala” del Tractatus equivarrebbe ipso
facto a gettare via l’unico potenziale candidato (secondo
l’autore) ad essere il “contenuto” che si mostra
nell’etica. Ma i due problemi sono differenti: le
proposizioni del Tractatus possono essere insensate ed
essere al servizio solo di un uso obliquo del linguaggio,
ma una volta che questo uso particolare è stato
effettuato, il soggetto può riconoscere un contenuto
proprio dell’etica – che gli si mostra alla maniera del
contenuto delle tautologie –, e in maniera indipendente,
in un certo senso, dal fatto che abbia letto o no il

268
Tractatus: “Questo libro, forse, comprenderà solo colui
che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi –
o, almeno, pensieri simili” (Introduzione al Tractatus,
1954, p. 3).
Diamond (1991c, pp. 180-182) tratta così il punto,
riferendosi all’immagine della 6.54 del “gettar via la
scala” offerta dalle proposizioni che compongono il
Tractatus: “to throw the ladder away is, among other
things, to throw away in the end the attempt to take
seriously the language of ‘features of reality’ [“features
that can only be reflected in sentences and that cannot
themselves be said to be features of reality”] ... To speak
of features of reality in connection with what shows
itself in language is to use a very odd kind of figurative
language. That goes also for “what shows itself””. Ma
gli esempi di “features of reality” che Diamond ha in
mente sono quelli che esprimeremmo mediante
categorie logiche: “that the thing we speak about are
members of this or that logical category, really and truly,
only we cannot say so” (Diamond, 1991c, p. 194). La
sua analisi prende l’avvio dal problema già visto, posto
da Frege, che “The predicate “concept” cannot be
predicated of any concept” (ivi, p. 184). In quest’ordine
di questioni, è legittimo attendersi che, date “certain
parts of the philosophical vocabulary, in particular,
predicates like “function,” “concept,” “relation””,
queste possano essere “replaced by features of a
notation designed to make logical similarities and
differences clear”, e in particolare che ad es. “To refer to
a function ... is to use a sign with a characteristic kind of
incompleteness” (ivi, p. 183). Ma per la designazione

269
specifica di un nome è invece molto più plausibile
sostenere che ci sia proprio un’entità sostanziale che
“mostra se stessa”, anche intendendo l’espressione in
senso non metaforico.

10.9. In effetti una eventualità interpretativa che


Diamond e Donatelli mi sembrano trascurare è proprio
quella offerta da Bouveresse (1982): gli oggetti
(designati da nomi, quindi non da proposizioni – quindi
neppure dalle proposizioni che compongono il
Tractatus) sono per definizione fuori dalla contingenza,
e, pur avendo un contenuto, sono ineffabili (possono
solo mostrarsi), per cui la “vita felice” sarà “nell’eterno
presente degli oggetti”.
Se ci limitiamo ad intuire (nel senso di Schlick) il
contenuto proprio degli oggetti, soddisfacciamo una
volontà etica: abbiamo uno sguardo di tipo mistico sul
“mondo sub specie aeterni” (6.45) – ci troviamo a
vivere in un presente intemporale, o, più esattamente,
diventiamo consapevoli di vivere in un presente
intemporale (chi non ne è consapevole, non smette per
questo di vivere in un presente intemporale: negare il
“limite del pensiero” non vuol dire che si diventi capaci
di varcarlo).
L’intenzione di Wittgenstein non è di formulare
principi etici generali (né sotto forma di tautologie, né in
altro modo), ma di utilizzare la propria logica per
consentire una conoscenza del mondo, che – attraverso
la chiarezza dell’analisi – ci faccia capire che il senso
della contingenza del mondo è – letteralmente –
illusorio. Il mondo è costituito di oggetti, e gli oggetti

270
sono intemporali. Gli stati di cose a loro volta sono
connessioni di oggetti, quindi ontologicamente devono
essere essi stessi intemporali e necessari. La nostra
convinzione che gli stati di cose siano contingenti,
deriva dal fatto che utilizziamo proposizioni (quindi: (i)
siamo ignoranti sul sussistere o no delle relazioni, (ii)
adoperiamo significati indeterminati, servendoci di
variabili), e, lasciandoci confondere dal linguaggio,
scambiamo la nostra ignoranza per vera
indeterminatezza del mondo. Fin qui, la nostra ansia di
fronte al divenire delle cose sarebbe ancora del tutto
giustificabile: il mondo è interamente determinato, ma
noi non sappiamo in quali modi, quindi non sappiamo
che cosa realmente accadrà. Il fatto è però che, come già
insegna l’antinomia del mentitore, il pensiero che le
nostre credenze siano false – formulato da noi – sarebbe
auto-contraddittorio, quindi (noi) non possiamo
formularlo. In altre parole, l’idea della nostra ignoranza
è (formalmente) auto-contraddittoria: per concepirla
dovremmo oltrepassare il limite del nostro pensiero.
Infatti le immagini che utilizziamo sono esse stesse
perfettamente determinate, quindi ci obbligano a priori
a pensare al mondo attribuendogli una fattezza che è a
rigore interamente determinata. Per pensare davvero di
non sapere qualcosa sul mondo, dovremmo avere
immagini indeterminate. Ma un’immagine è solo un
fatto tra altri fatti, e sarà indeterminata in tanto in
quanto non contiene elementi in più oltre a quelli che la
costituiscono.
La nostra confusione nasce perché scambiamo l’io
metafisico con il nostro io-persona, quale nozione della

271
psicologia empirica: di quest’ultimo è del tutto sensato
dire che può sbagliarsi – dell’io metafisico invece è
affatto impossibile.

4.002 ... Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente


così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la
forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che
quello di far riconoscere la forma del corpo. ...

Si vede come per questa concezione, la priorità


ontologica spetti certamente agli oggetti, e non ai fatti –
almeno nello sguardo sub specie aeterni.

10.10. Inoltre una seconda premessa del ragionamento


di Donatelli è nell’analisi che egli fa del circolo parti-
intero nella comprensione della proposizione. “Secondo
il Tractatus, l’unico modo di riconoscere un’espressione
linguistica per le sue caratteristiche interne è quello di
comprendere una proposizione. Che l’etica non sia
esprimibile significa che non possiamo comprendere le
espressioni etiche in virtù delle loro caratteristiche
linguistiche” (ivi, pp. 96-97). “La nozione di uso [etico
del linguaggio] a cui alludiamo non è connessa [infatti]
a niente che faccia parte della logica della
proposizione”, piuttosto “Farne un certo uso significa
connettere un’espressione al proprio io, in un modo che
non tocca le caratteristiche interne della proposizione”
(ivi, p. 97). Se il principio di contestualità viene ad
avere una tale preminenza su quello di composizione, ne
segue che l’intuizione dei singoli oggetti in quanto tali
non può essere considerata un “contenuto” etico.

272
Ma è proprio l’ontologia del Tractatus, pure
considerata indipendentemente dall’etica – che rende
plausibile affermare la preminenza degli oggetti sugli
stati di cose. Naturalmente, come abbiamo già detto, il
punto è estremamente controverso. Hidé Ishiguro,
Weinberg, Dummett, sono esempi illustri, tra molti altri,
di autori che difendono la tesi che gli oggetti possono
essere solo ricavati attraverso un processo di analisi
formale del fatto (il principio di contestualità viene
portato a sostegno di questa visione). Viceversa Pears,
Black, gli Hintikka rivelano una forte inclinazione nella
direzione opposta. Per gli Hintikka, come abbiamo già
visto, “per Wittgenstein le forme logiche complesse
sono tutte determinate dalle forme logiche delle
proposizioni elementari (atomiche). Inoltre le forme
logiche delle proposizioni atomiche sono determinate
dalle forme degli oggetti. Attraverso questo processo in
due stadi tutte le forme logiche possono essere ridotte
alle forme logiche degli oggetti semplici” (HINTIKKA-
HINTIKKA, 1990, p. 89); inoltre “Nel Tractatus l’oggetto
viene dato mostrandolo, con un atto simile
all’ostensione; ed in tal modo non è solo la sua esistenza
ad essere data, ma anche la sua forma logica” (ivi, p.
264): si capisce quindi come, conoscendo gli oggetti,
conosciamo di conseguenza anche il mondo (almeno in
quanto insieme di possibilità). In questi autori la mossa
è associata alla scelta di un approccio linguistico-
semantico: gli oggetti sono solo il significato dei segni
linguistici (semplici). “Quella che viene erroneamente
detta «teoria raffigurativa del linguaggio» non è altro
che l’anticipazione da parte di Wittgenstein della prima

273
clausola di una definizione di verità di tipo tarskiano”
(ivi, p. 145).
La difficoltà di questa concezione sta nel fatto che
possiamo: (i) intendere gli oggetti come il “significato”
(mentale, o forse di un mondo di entità oggettive à la
Popper, o altro ancora) dei segni linguistici. È allora
abbastanza plausibile dire che essi siano immutabili
(posto che ogni parola debba avere un significato fisso e
invariabile – pena la contraddittorietà del discorso), ma
si compongano poi in configurazioni contingenti. Però
così (a) a questo punto anche il risultato della
composizione, il fatto, dovrebbe risultare immutabile
allo stesso modo degli oggetti, ed esprimere la totalità
delle proposizioni elementari sarebbe quindi
esattamente lo stesso che avere di fronte a sé la semplice
totalità degli oggetti: immaginare uno stato di cose
contingente sarebbe lo stesso che guardare a due entità
eterne ed immutabili; (b) soprattutto l’evidenza testuale
è che gli oggetti si riuniscono a formare stati di cose,
non immagini di stati di cose; ma se l’oggetto non è
esattamente la stessa cosa del designato (se ad es., come
a volte è stato sostenuto – è la possibilità in quanto tale
del designato di combinarsi con altri oggetti), non si
capisce come due possibilità – o comunque due non-
designati – possano riunirsi a formare un designato
complesso, i. e. un fatto reale.
(ii) Oppure possiamo intendere l’oggetto come il
designato medesimo. Ma potremmo allora dire che gli
oggetti sono immutabili? Ci troveremmo allora, di
nuovo, con un mondo empirico che ha il carattere
dell’immutabilità.

274
11

Sostanza del mondo e induzione (2)

11.1. Black (1967, p. 124) riconosce che “dobbiamo


opporci alla tendenza a considerare il senso della

275
proposizione come un qualcosa di sostanziale”, e dedica
un’importante sezione (ivi, pp. 168-172) a dimostrare
che i fatti in quanto tali non sono nominabili: non sono
una realtà ulteriore rispetto agli oggetti costituenti.
Inoltre “la forma di un fatto atomico è funzione
esclusiva della forma dei suoi oggetti” (ivi, p. 88), dove
sembra doversi intendere solo l’univocità di
determinazione del fatto – però il candidato più naturale
per individuare un ruolo specifico della proposizione o
del fatto in quanto tali, a discapito degli oggetti
costituenti, è rappresentato dalla forma logica dello stato
di cose, o dall’ordine di disposizione degli oggetti, o
altre nozioni simili. La conclusione di Black è invece
che “il senso della proposizione è determinato
unicamente dalla scelta dei nomi m ed n, quindi l’ordine
delle lettere nel simbolo mn è inessenziale” (ivi, pp.
130-131).
Il problema che Black ha in mente è la molteplicità
di possibili disposizioni, ad es. del plastico. “Quando
Wittgenstein dice che gli elementi di un complesso
sono concatenati in ‘modo determinato’, la struttura in
questione non contrasta con qualsivoglia altra struttura
che i medesimi elementi potrebbero aver avuto, ma,
piuttosto, con le diverse strutture che potrebbero aver
avuto le combinazioni di oggetti dotati di altra forma
logica” (ivi, p. 88), quindi semplicemente altri
oggetti . Ma le implicazioni di questa concezione sono,
65

65
Come osserva Gargani (1966, p. 127) “La prima conseguenza
che sembra derivare dal fatto che la struttura è pregiudicata
nelle forme degli oggetti è che i medesimi oggetti non possano
combinarsi in più di un fatto atomico, che un complesso di
oggetti non possa risultare strutturato che in un sol fatto”.

276
mi sembra, che se ad es. le due automobiline sono
disposte secondo una certa configurazione (ovviamente)
determinata (poniamo: A davanti a B), si può
immaginare una diversa configurazione (ad es. B
davanti ad A) solo a partire da “oggetti dotati di altra
forma logica”. Ma era proprio la forma logica
dell’oggetto a doverci permettere di immaginare le
possibilità alternative (non date) di connessione: se per
immaginare una diversa possibilità, dobbiamo invece
utilizzare proprio gli oggetti con un’altra forma logica,
significa che la forma logica dell’immagine
(determinata dalla forma degli oggetti) determina a sua
volta la necessità della relazione. Se dai significati
(semplici) di m ed n ricaviamo ipso facto quale
connessione deve correre tra m ed n, non possiamo
neppure concepire che m ed n, ad es. all’interno di una
proposizione molecolare più ampia (mnlo), perdano il
tipo di relazione che li lega (dato che sono immutabili).
Né mn, all’interno di due diversi contesti proposizionali
(diciamo: mnl, mno), potrebbe mutare in qualcosa la
propria fattezza: se l ed o designano le condizioni
iniziali che differenziano due situazioni, il rapporto tra
m ed n nei due contesti rimane comunque inalterato.
Con questo avremmo posto le basi per una ragionevole
forma di induttivismo: se l ed o designano due diverse
montagne, un animale m che si sposta tra l’una e l’altra,
conserverà ad es. (ceteris paribus) abitudini alimentari
uguali o sostanzialmente simili nei due contesti.
Black non è stato portato a trarre questa conseguenza
perché si muove in una prospettiva linguistico-
semantica. Se è l’immagine intesa come segno

277
proposizionale (con le regole di designazione) che, una
volta composta, implica la necessità della connessione
che viene raffigurata, una tale necessità diverrebbe per
noi vincolante solo a condizione che il segno
proposizionale (con le regole di designazione) fosse
tutto ciò che abbiamo. Ma noi ovviamente abbiamo
accesso indipendente (attraverso l’esperienza diretta,
senza la mediazione del segno) al designato. Quindi ci
limitiamo a ritenere: necessariamente, se è vera la
proposizione, si dà allora la connessione – il che è
ovvio.
Accade il contrario se invece ci atteniamo ad un
approccio più vicino alla tradizione kantiana. Scrive
Wittgenstein in un passo già ricordato: “Il limite del
pensiero si mostra nell’impossibilità di descrivere il
fatto che corrisponde ad una proposizione ... senza
appunto ripetere la proposizione. Abbiamo qui a che
fare con la soluzione kantiana del problema della
filosofia” (Pensieri diversi, 1980, p. 30). La “soluzione
kantiana” cui si riferisce Wittgenstein è verosimilmente
quella sui “limiti” del sapere metafisico umano, ma non
sfugge come le forme a priori di spazio e tempo, in
Kant, servano anche a dare conto delle uniformità di
natura descritte dalla meccanica di Newton.
Vorrei notare inoltre – anche se in modo incidentale e
solo come congettura estremamente vaga – che in effetti
nel Tractatus leggiamo che:

6.32 La legge di causalità non è una legge, ma la forma


di una legge.
6.36 Se vi fosse una legge di causalità, essa potrebbe
sonare: «Vi sono leggi naturali».

278
Ma ciò non si può certo dire: ciò mostra sé.
6.361 Nella terminologia di Hertz, si potrebbe dire: Solo
connessioni conformi a una legge sono pensabili.

Dato il ruolo svolto dal concetto di “forma” in tutta la


sua elaborazione, sembra che Wittgenstein vedesse la
possibilità di accettare, a qualche titolo, “leggi di
natura”, ma il desiderio che aveva di salvare e dare
priorità alla prospettiva realista (nella quale in effetti –
anche secondo la mia teoria – ogni legge di natura può
essere falsificata) lo porta a non accorgersi che, rispetto
al soggetto metafisico (i. e. in quella che logicamente è
la prospettiva fondamentale – anzi l’unica), la legge
d’induzione non è “superstizione” (5.1361). Per
l’estrema rapidità dei riferimenti che vengono fatti a
questo riguardo, è difficile pronunciarsi in proposito in
modo più preciso, ma sembra da escludersi che
Wittgenstein accettasse l’induzione (anche solo rispetto
al soggetto metafisico): (i) perché allora sarebbe
scomparsa la ratio di tutta la picture-theory, (ii) perché
tratta la questione con un’euristica del tutto diversa:

6.363 Il procedimento dell’induzione consiste


nell’assumere la legge più semplice che possa essere
accordata con le nostre esperienze.
6.3631 Questo procedimento ha tuttavia una fondazione
non logica, ma solo psicologica.
È chiaro che non esiste ragione di credere che davvero
avverrà il caso più semplice.

Dal punto di vista del soggetto metafisico (nella mia


riformulazione) un ragionamento come quello esposto

279
in questi passi non sarebbe affatto ammissibile.

11.2. Abbiamo visto ampiamente in precedenza, e


ribadito poche righe fa a proposito degli Hintikka, le
difficoltà di un’interpretazione semantica. In realtà
proprio per sanare le difficoltà di tale approccio,
potremmo ricorrere ad una forma di induttivismo: se i
significati dei segni m ed n sono immutabili, e le
relazioni tra m ed n dipendono da m ed n soltanto, il
postulato che l’interpretazione semantica si troverebbe a
dover far valere, circa l’immutabilità degli oggetti
designati nel mondo, equivarrebbe appunto a formulare
in una forma estremamente decisa il principio
d’induzione.
L’interpretazione semantica dovrebbe però postulare
ad hoc l’induzione per far salva la teoria. La prospettiva
di tipo gnoseologico che si è cercato di delineare qui,
avrebbe invece questa come sua propria naturale
conseguenza logica. Comunque sia, sembra chiaro che
nemmeno Wittgenstein prende in considerazione
nessuna delle due possibilità sull’induzione (né la
versione semantica né quella gnoseologica). Ci si può
quindi chiedere se non sia troppa la libertà che mi
prendo nel muovere le mie analisi a partire dai suoi
testi.
Credo però che a questo proposito abbia un interesse
essenziale considerare quali sono stati i motivi che
hanno portato Wittgenstein ad abbandonare la teoria del
Tractatus. Anche grazie alle testimonianze già citate
dello stesso Wittgenstein, viene riconosciuto (v. ad es.
MARCONI 1971, pp. 81 ss.; KENNY, 1984, pp. 125 ss.) che

280
il punto in cui si incrinerà alla fine tutta la costruzione
del Tractatus è connesso, sostanzialmente, alla tesi
espressa dalla proposizione:

6.3751 Che, ad esempio, due colori siano a un tempo in


un luogo del campo visivo è impossibile: impossibile
logicamente, perché ciò è escluso dalla struttura logica del
colore. ...

Ma qual è lo statuto di un tale giudizio? Non è una


tautologia, ma neppure è di tipo empirico. L’enunciato
che affermi l’impossibilità per uno stesso punto di
avere due colori diversi, stabilisce una verità che sembra
essere a priori, ma non è analitica. Ammetterla sembra
implicare l’esistenza di una conoscenza sintetica, ma al
tempo stesso necessaria e a priori.
La soluzione cui perverrà l’autore, sarà che non è
mai la singola proposizione, ma “un sistema di
proposizioni [che] è accostato alla realtà come un
metro” (WAISMANN, 1975, p. 51; v. anche Alcune
osservazioni sulla forma logica, in Osservazioni
filosofiche, 1976). Da qui progressivamente prevarrà
l’idea di “sistema di regole” e, infine, di “gioco
linguistico”. Ma piuttosto che abbandonare tutto
l’impianto teorico del Tractatus, Wittgenstein avrebbe
potuto accettare semplicemente la possibilità di giudizi
sintetici veri a priori, che avrebbe significato, almeno
per una certa misura, accettare l’induzione. L’ostacolo
maggiore era però che, se avesse fatto questa scelta,
avrebbe comunque dovuto di fatto rinunciare a tutta la
picture-theory: pur potendo conservare la nozione di
sostanza del mondo, sarebbe scomparsa infatti la

281
nozione di proposizione articolata, dato che la
connessione tra due oggetti, stabilita una volta, avrebbe
dovuto essere fatta valere sempre in modo necessario
(induzione). Avrebbe quindi dovuto rinunciare alla sua
analisi che gli permetteva di salvare il realismo, anche
se – qualora avesse provato a sviluppare questa pista –
avrebbe potuto sostituirla con un’altra, che fondasse il
realismo come teoria dotata di contenuto empirico
(quello che ho chiamato “realismo naturalizzato”). Gli
schemi euristici da cui partiva ne sarebbero stati
evidentemente del tutto stravolti: presumibilmente era
portato a non dare neppure un’apertura di credito
iniziale a uno scenario così diverso da quello che per
anni aveva avuto in mente.

11.3. Tra poco torneremo su questo problema. Per ora


vorrei osservare come, sempre dall’argomentazione di
Black, derivino delle conseguenze che abbiamo in parte
già visto. La proposizione mostra come è il fatto (la
relazione fra i costituenti) se la proposizione è vera. Per
questo si dice che il senso della proposizione è
perfettamente determinato. Ma capire la proposizione
non significa sapere se è vera o falsa, quindi si deve
ammettere che la relazione potrebbe anche non
sussistere. Il senso della proposizione in questo caso
rimarrebbe pur determinato, ma il suo “significato” (la
Bedeutung) non esisterebbe affatto:

... Non è forse che la proposizione falsa ha, come la vera e


indipendentemente dalla propria falsità o verità, un senso,
ma nessun significato? ... (Quaderni, 2.11.14)

282
La proposizione è riconosciuta come vera o falsa
confrontandola con la realtà:

4.05 La realtà è confrontata con la proposizione.


4.06 La proposizione può essere vera o falsa solo essendo
una immagine della realtà.

Quindi, per quanto il suo senso rimanga determinato –


anche se la relazione non sussiste – dobbiamo
commisurare la determinatezza sostanziale (quella
intesa dal realista) della proposizione al fatto reale
raffigurato. Se la proposizione pone molte relazioni che
non sussistono, l’immagine del fatto reale è
indeterminata (per quanto, formalmente, lo si possa dire
solo di proposizioni espresse da altri – che possano
essere “osservate” dall’esterno: altrimenti dovremmo
uscire dal limite del nostro pensiero). Il fatto è che per il
principio di composizione il senso dipende dal
significato delle parti costitutive, e se la relazione
raffigurata non sussiste, vuol dire che stiamo utilizzando
dei nomi con un significato non fedele – non iconico (il
rapporto tra nome e designato è convenzionale, ma il
significato del nome deriva dai contesti proposizionali
in cui esso viene impiegato – e questo significato può
essere iconico, a seconda di quante sono le proposizioni
vere in cui lo inserisco). Se sappiamo che la
proposizione può essere falsa, quindi che il significato
dei nomi può essere diverso da quello necessario per
raffigurare il fatto reale, allora il poter essere falsa della
proposizione comporta il suo essere indeterminata:
almeno nel senso sostanziale, quello del realismo,
mentre per l’idealista il suo senso è da intendersi (come

283
del resto è) perfettamente determinato. Il confronto della
proposizione con la realtà è necessario proprio perché il
significato dei nomi può essere più o meno
indeterminato: è in questo modo che viene salvata
l’intuizione del realismo che esista una realtà
indipendente da noi.
Il problema che ora vorrei porre è che, nell’analisi
del realista, il senso è indeterminato. Ma allora, quando
confrontiamo senso e fatto, come facciamo a sapere che
il fatto che confrontiamo con il senso, è davvero quello
che dobbiamo utilizzare per il confronto? “Il metodo di
comparazione dev’essermi già dato, prima che io possa
confrontare” (Quaderni, 1.11.14). Ma se il senso è
indeterminato, è indeterminato il criterio stesso con cui
identifico il fatto con cui poi confrontare il senso. Come
faccio a compiere un confronto se la stessa pietra di
paragone è mal definita?
Ora, si può intendere: ciò che compare nella
proposizione è un segno composto che designa un
complesso, e contiene al suo interno un numero
maggiore o minore di parti “ben scelte”, i. e. combinate
in modo da essere iconicamente fedeli se confrontate
con il fatto. Oppure: utilizziamo un segno semplice, un
nome – quindi il controllo del valore di verità di una
proposizione che lo riguarda non aggiunge né toglie
parti al suo significato, ma piuttosto il suo significato
risulterà allora con un aspetto diverso (ma sempre
semplice).
Per quanto riguarda la prima ipotesi, si potrebbe
pensare che il segnale che il complesso A è il nostro
bersaglio, potrebbe essere costituito dalla circostanza

284
che molte delle sue parti costitutive facevano parte della
nostra immagine. La verifica conclusiva servirebbe
quindi solo a stabilire che alcune altre parti sono
connesse con le prime in un certo modo che è mostrato
nell’immagine. Ma l’ipotesi (i) ha scarso interesse
teorico, dato che presuppone un modo per confrontare
ognuna delle singole parti (semplici). Arriviamo quindi
in ogni caso appunto all’ipotesi (ii): credo che il
confronto in questo caso possa comunque avvenire
senza problemi, semplicemente constatando che manca
l’oggetto quale noi ci immaginavamo. Il confronto è tra
un’entità semplice, il significato del nome, e un’altra
entità, ugualmente semplice, che “cerchiamo” nella
realtà66. Il confronto fallisce se non “troviamo” una tale
entità: la proposizione cioè si dimostra falsa, sotto la
condizione che non ci si mostri una certa entità.

2.05 La totalità degli stati di cose sussistenti determina


anche quali stati di cose non sussistono.

Il soggetto metafisico non può prevedere – per sé – una


tale ipotesi: dovrebbe avere un nome che stia per un
significato che – ex hypothesi – non può afferrare. Ma la
possibilità del confronto deve essere ammessa per poter
applicare la picture-theory anche alle persone in carne e
ossa, e deve rendere conto della possibilità che esse si
66
Il confronto è sempre, almeno, tra coppie di nomi e coppie di
oggetti, ma solo perché il nome può “designare” soltanto
all’interno di proposizioni – basterebbe aggiungere la
precisazione: “il confronto è tra due o più entità semplici che
costituiscono la proposizione e due o più entità semplici che
cerchiamo nella realtà”.

285
sbaglino.
Il fatto che il confronto debba essere tra un’entità
semplice ed un’altra entità semplice (o più esattamente
tra due catene di entità semplici, ma dove ciascun
elemento è preso per sé solo – cfr. ultima nota) non
deve destare la nostra preoccupazione. Il problema
potrebbe essere così posto: se due entità semplici sono
differenti, sono semplicemente differenti. Perché si
dovrebbe mai dire che l’una “designa” l’altra, e, nella
fattispecie, ne permette solo un’immagine non fedele?
(Si ricordi anche che i nomi non sono iconici). Se
invece sono uguali, sono semplicemente uguali, e anche
così non si vede la possibilità di pensare ad un
qualunque rapporto di designazione. Il nocciolo della
risposta è che effettivamente Wittgenstein considera
verificata la proposizione quando si identifica
perfettamente il senso con il fatto raffigurato.
Coerentemente alla teoria sul segno di uguaglianza
(5.53 ss.), questa non è però una “relazione”, quindi non
c’è un “confronto” (tra due termini diversi). Dall’altra
parte, la differenza tra le due entità non è un’eventualità
che l’io metafisico possa neppure concepire (per sé).
Più in dettaglio, vediamo confermata la chiave di
lettura che qui sto cercando di delineare. Noi
scambiamo i costituenti dell’immagine (che abbiamo)
per i costituenti del fatto (che non abbiamo). Quindi, si
può dire, un rapporto vero e proprio di “designazione”,
formalmente non c’è: la designazione avviene in modo
implicito e inavvertito, a causa di una sorta di errore –
costituito dall’impossibilità di andare oltre quello che,
per definizione, abbiamo e conosciamo. Il solipsista ci

286
ricorda ogni volta che non possiamo essere consapevoli
di questo “errore”: altrimenti non lo staremmo più
commettendo – riusciremmo ad andare oltre il limite del
nostro pensiero. Ma per il realista è essenziale invece
che si costituisca un modo di parlare del mondo che ci
permetta di dare espressione alla nostra certezza di poter
commettere (e pensare a) un tale “errore”: scambiare
l’insieme delle nostre esperienze per un insieme assai
più vasto costituito dall’intero universo.
Lo strumento principale di cui si serve il realista a
questo scopo è – come abbiamo visto – il principio di
contestualità.

11.4. Mi propongo ora di mostrare che la questione del


“confronto” crea alcune difficoltà all’interpretazione
semantica, che esamineremo in Black (1976, pp. 98-99):
“Dato che le parole non sono iconiche, il criterio del
‘confronto’ non può essere preso alla lettera: una regola
di designazione non può essere ‘vista’ in senso letterale.
Fare uso di parole non vuol dire confrontarle con
alcunché, come del resto chiamare un uomo col suo
nome non vuol dire confrontare una persona con un
nome proprio”. L’autore sostiene quindi che per
verificare l’esistenza di un fatto (dato il principio di
contestualità) “registrando l’esistenza del fatto che mi
dà la verifica di una proposizione ... io ho già compiuto
l’atto della verificazione, sicché un ulteriore atto di
‘confronto’ non ha ragion d’essere. La verificazione si
riduce ad asserire la proposizione in presenza del fatto
ricercato. Il criterio di ‘confronto’ si dissolve nell’altro,
più appropriato anche se meno pittoresco, di asserzione

287
vera” (ivi, p. 99). Non sono sicuro di intendere con
esattezza il senso dell’argomentazione, però mi sembra
che ci sia una difficoltà. Un “confronto” di questo
genere sembra implicare che, prima di procedere alla
verificazione, non abbiamo ancora un “termine di
confronto”. Ma cfr. il passo già citato dei Quaderni
(1.11.14). Wittgenstein parla, almeno in termini
intuitivi, come se ci fossero due realtà da poter
paragonare. Forse Black ha in mente di fatto quello che
io vedo come un caso teorico particolare, quello dell’io
metafisico (come sembra suggerire la conclusione di
tutto il paragrafo), dato che è appunto questo il caso in
cui un “confronto” in effetti non avviene. È essenziale
però poter spiegare anche il caso in cui un tale
confronto possa esserci – il caso delle persone concrete.
Dai passi citati, si vede che la difficoltà sorge a causa
del concetto di “regola di designazione”, che “non può
essere ‘vista’ in senso letterale”. Un’interpretazione di
tipo semantico ha però bisogno necessariamente di
questo concetto, dato che la semantica dei segni
linguistici presuppone appunto regole arbitrarie e
convenzionali. Di certo nel Tractatus la preoccupazione
per questi temi è molto forte, ma non è il perno
dell’opera.
Le preoccupazioni di Wittgenstein circa la possibilità
di adottare notazioni erronee è innegabile (4.0411), ma
3.33 dimostra che la forma logica degli oggetti non può
essere scelta con una determinazione consapevole e
volontaria: accade che abbiamo a disposizione certi
oggetti, e le loro capacità di combinazione reciproca si
proiettano nelle possibilità di combinazione che

288
attribuiamo ai designati. Tutto ciò è, a rigore,
indipendente dalla nostra volontà o consapevolezza.

4.002 L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi,


con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare
come e che cosa ogni parola significhi. – Così come si
parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi. ...

L’uomo possiede una capacità innata di costruire simboli


con i quali può essere espresso qualche senso, senza avere
la minima idea di ciò che ogni parola significhi. Il
migliore esempio di ciò è la matematica; infatti sino a non
molto tempo fa l’uomo ha usato i simboli dei numeri
senza sapere ciò che essi significhino o che essi non
significano nulla. (Note sulla logica, in Tractatus, 1974, p.
204)

L’eventualità che di fatto scegliamo una notazione


invece che un’altra, sembra darsi con tanta evidenza alla
nostra attenzione solo perché la condizione logica
sufficiente per la raffigurazione è l’uguale molteplicità
logica, e le notazioni che soddisfano questa condizione
possono essere moltissime. Sappiamo che due certe
notazioni diverse sono entrambe adeguate per questo
compito, perché abbiamo in realtà molta altra
informazione relativa ai designati – superiore di certo a
quella che si mostra nella sola forma logica. Dire che
siamo liberi di scegliere una certa notazione, significa
solo dire che l’io metafisico si rappresenta come
possibile che alcune persone (concrete) partano, nel
processo di acquisizione di un bagaglio di informazioni
simile al nostro, da un diverso sistema iniziale di segni

289
(= un’uguale informazione di base, quella espressa dalla
semplice forma logica, espressa però con segni diversi).
È alla luce di ciò che bisogna leggere:

5.4732 Non possiamo dare ad un segno il senso sbagliato


5.473 ... Un segno possibile deve anche poter designare.
Tutto ciò che nella logica è possibile è anche lecito. ...
5.4733 ... Ogni possibile proposizione è formata
legittimamente, e, se non ha un senso, è solo perché noi
non abbiamo dato un significato ad alcune delle sue parti
costitutive.
(Anche se crediamo d’aver fatto ciò.)...

La clausola riportata in conclusione “(Anche se


crediamo di aver fatto ciò.)” dovrebbe potersi spiegare
riferendola esclusivamente al tipo di analisi effettuata
dal realista. Per Wittgenstein la ricostruzione,
logicamente coerente, della prospettiva del realista, è
l’obiettivo principale della sua analisi. Per questo dà
tanta importanza alla semantica dei segni linguistici e,
di conseguenza, alla possibilità (empirica) di “sbagliare”
notazione.

11.5. Nel 1913 Russell lavorava ad una teoria del


giudizio (rimasta inedita fino al 1983), di cui discusse
anche con Wittgenstein. Pears (1988) cerca quindi di
ricostruire il rapporto che ragionevolmente ci si può
attendere che intercorra tra la teoria di Russell e le tesi
del Tractatus. L’idea di fondo di Russell è che il
giudizio vada inteso come rapporto tra il soggetto S che
giudica, i termini della relazione (ad es.) aRb, e la
“forma pura della proposizione”, nel nostro caso, xχy

290
(PEARS, 1988, p. 70). “Il modo naturale di tradurre in
simboli una forma è quello di prendere una qualche
espressione in cui entità effettive sono messe insieme in
quella forma, e sostituire tutte queste entità con
«variabili»”: ad es. quella sopra espressa in lettere
greche sarebbe la “massima generalizzazione che sia
possibile partendo da «Socrate precede Platone»”
(RUSSELL, 1996, pp. 180-181). Dati a, R, b e xχy, la
condizione per capire il nome che designa ciascuno di
questi oggetti, è di avere conoscenza diretta
(acquaintance) o degli oggetti medesimi o dei loro
costituenti. xχy è però un oggetto logico: per questo
appunto si può parlare di platonismo in questa fase del
pensiero di Russell. “È difficile capire come potremmo
mai comprendere come debbano venir combinati
Socrate e Platone e «precede», a meno che non abbiamo
familiarità con la forma del complesso” (ivi, p. 181). Per
questa via, Russell arriva a “trattare la proposizione che
qualcosa ha una qualche relazione con qualcosa come
una verità logica” (PEARS, 1988, p. 72).
Viceversa, Wittgenstein offre quella che “Nello
spirito, è una soluzione aristotelica. Le forme che
Russell aveva posto in un mondo platonico,
Wittgenstein le tratta come caratteri essenziali degli
oggetti”, interni in qualche modo ad essi (ivi, p. 78).
Sono gli oggetti che contengono la forma della realtà.
Nei termini di Pears, le difficoltà di Russell sono (i) che
“egli attribuisce verità logica a generalizzazioni che
sono solo capaci di conseguire verità contingente” (ivi,
p. 73), (ii) considera le “forme pure” al tempo stesso
semplici e complesse. Il punto è che è essenziale che la

291
forma pura sia semplice: è la condizione perché possa
escludersi a priori nei suoi confronti la possibilità del
falso (se fosse un complesso, le sue parti potrebbero
allora venire a trovarsi, in linea di principio, in una
relazione diversa da quella affermata nel giudizio, che
quindi sarebbe falso [RUSSELL, 1996, p. 123]). Ma pure
deve essere complessa: “Il motivo per cui si
introducevano questi complessi era il loro isomorfismo
rispetto a particolari complessi percepiti, che non sono
semplici” (ivi, p. 73). Così ad es. la forma xχy dovrebbe
essere isomorfa al fatto che “Socrate precede Platone”,
affinché possa renderne possibile la comprensione: se
sostituiamo con variabili “Socrate”, “precede” e
“Platone”, otteniamo qualcosa di composto da tre
elementi.
Secondo l’obiezione di Wittgenstein, allora “in tal
caso avrebbe significato asserire che una forma
semplice è complessa” (Note sulla logica, in Tractatus,
1974, p. 209). Una difficoltà abbastanza simile però si
ritroverebbe a questo punto nello stesso Tractatus: gli
oggetti che formano la sostanza del mondo dovrebbero
avere una “forma”, ma questo non li renderebbe
complessi? Pears dà rilievo a questo problema, ma
sembra considerare soddisfacente la risposta che
attribuisce a Wittgenstein: “il possedere una forma, pur
essendo un tipo di complessità, non è un «essere
composto»”, perché “Gli oggetti wittgensteiniani non si
possono scomporre in ulteriori costituenti e in questo
sono semplici. Se il loro possedere forme non li rende
complessi, sono perfettamente semplici” (PEARS, 1988,
p. 78). Il motivo per cui non sorgono problemi è che la

292
“forma è assorbita da una proposizione” (ivi, p. 79): si
manifesta già nei costituenti della proposizione, senza
configurarsi come ulteriore elemento.
Mi sembra però che continuino ugualmente ad
esserci dei problemi: l’idea di fondo che sostengo è che
se gli oggetti sono (i) già noti, (ii) semplici e
immutabili, ne segue che dovremmo poter prevedere
con assoluta precisione anche il valore di verità delle
proposizioni che articoliamo (più esattamente,
dovremmo sentirci soggettivamente del tutto sicuri
nell’affermarne il valore di verità), dato che, quale che
sia la compagine proposizionale che fa da contesto,
l’oggetto deve sempre rimanere identico a se stesso.
Sviluppiamo questa argomentazione più in dettaglio: se
non esiste un’analisi che possa distinguere l’oggetto
dalla sua propria forma, non possiamo concepire
l’oggetto senza la sua forma. Ma “La forma è la
possibilità della struttura” (2.033): se la possibilità della
struttura viene a dipendere ontologicamente dai tratti
interni agli oggetti coinvolti, e se gli oggetti sono
immutabili, questi tratti dovranno necessariamente
essere conservati in ogni configurazione
immaginabile . Se immagino la possibilità di a
67

connesso con b secondo R (e con ciò immagino la scena


che renderebbe vera aRb), devo immaginare a con gli
stessi tratti con cui lo immagino quando immagino aRc.
Ma da questo dovrebbe seguire che, conoscendo ora a,
b, c con i loro rispettivi tratti interni (gli oggetti non
67
Cfr. il bel passo: “Una proprietà interna d’un fatto la possiamo
chiamare anche un tratto di quel fatto. (Nel senso nel quale
parliamo dei tratti del vòlto.)” (4.1221).

293
possono essere descritti, ma si mostrano: quindi non
posso pensare ad un oggetto che non mi sia già
immediatamente noto), devo conoscere con ciò a priori
anche quali possibilità di connessione risultino di fatto
verificate (poniamo aRb invece che aRc): se gli oggetti
a, b, c sono immutabili, e se tutto ciò che ho per
costituire l’immagine delle loro possibili combinazioni
sono a b c stessi con i loro propri tratti non-modificabili,
a in quanto figura in ab deve essere uguale ad a in
quanto figura in ac, e così per b e per c. Se compongo a
e b ad immaginare ab, non deve comparire nulla, in
questa immagine, che diventerebbe diverso se ab
comparisse a sua volta in abc. Ma se a deve contenere la
“forma”, che è solo la possibilità di comparire in ab o in
ac, una volta che avremo immaginato abc, quale delle
due possibilità avremo immaginata come verificata, ab
o ac?
Se è a stesso che contiene le proprie “possibilità” (in
quanto tali) di connessione, e se ad a deve aggiungersi
solo un secondo oggetto b, per vedere realizzata una
delle “possibilità” di a (quella raffigurata in ab),
l’immagine di abc allora dovrebbe farci vedere
realizzati entrambi gli stati di cose ab e ac. Il problema
è particolarmente grave quando i due stati di cose siano
tali da escludersi a vicenda (una certa rosa o è rossa o è
gialla: ab escluderebbe ac). Ma anche più in generale si
dà il paradosso: io so come è il rosso, so come è il
giallo, e so cosa corrisponde a “rosa” (so come è
ognuno degli oggetti che costituisce il complesso “rosa”
– posto che tutte queste entità siano immutabili), quindi
se compongo i nomi “rosa” e “giallo” (semplificando

294
molto) dovrei capire già se risulta vera la proposizione
“La rosa è gialla”. In particolare, se ho visto in passato
“rose gialle”, dovrei conservare per il futuro questa
descrizione delle rose, se invece non le avessi viste,
dovrei escludere la stessa possibilità di rose gialle (pur
capendo, se l’ho visto esemplificato, il significato di
“rosa” e “giallo”).
Potremmo distinguere la possibilità di connessione
dalla connessione effettivamente realizzata, solo se (tra
l’altro) potessimo distinguere analiticamente,
nell’oggetto, la sua forma (o, peggio ancora, quella
“parte” della forma che riguarda proprio la connessione
con b). Per Pears giustamente questo – riguardo alle
forme logiche – è da escludersi, perché altrimenti
l’oggetto non sarebbe più semplice. Ma, se ammettiamo
di non poter distinguere (neppure analiticamente)
l’oggetto dalla sua forma, non possiamo concepire
neppure che l’oggetto (in virtù dei suoi propri tratti
interni) dia corso ad una certa realizzazione delle
possibilità in esso contenute (poniamo ab) invece che ad
altre (poniamo ac).
Il problema può essere confrontato con quello
rilevato da Pears riguardo a Russell: gli oggetti, come le
forme logiche di Russell, devono essere semplici ma
anche complessi, se si vuole garantire la possibilità di
giudizi contingenti. Inoltre “La sua idea è che le forme
pure sono complessi completamente generali, atomici o
molecolari, e quando si acquista conoscenza diretta di
un complesso dell’uno o dell’altro tipo si acquista anche
conoscenza di un fatto. L’errore è fuori questione,
perché la proposizione che esprime il fatto non può

295
essere falsa” (PEARS, 1988, p. 72). L’ambiguità sta nel
fatto che “la conoscenza diretta della forma pura”, che,
presa per sé sola, potrebbe essere puramente logica, è
anche “conoscenza del fatto che qualcosa ha una
relazione duale con qualcosa” (ivi, p. 71), che è per
forza di cose complesso, e quindi dotato di un’esistenza
che è solo contingente.
La difficoltà di fondo deriva dal desiderio di salvare
la possibilità di giudizi contingenti: “Un complesso
percepito avrebbe potuto avere una disposizione
diversa, e quindi il giudizio [del soggetto] S è solo
contingente” (ivi, pp. 72-73). In linea di principio
(allontanandoci dagli interessi di ordine storiografico
che qui sono a cuore a Pears) si potrebbe però cercare di
dar conto in una maniera alternativa di questo tipo di
giudizi, ad es. come fa Wittgenstein, con il concetto di
“indeterminazione”, riducendo gli stati contingenti a
qualcosa che comunque si dà: “Qualcosa di logico non
può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni
possibilità e tutte le possibilità sono i suoi fatti”
(2.0121).

11.6. Pears in ogni caso sviluppa il paradosso


direttamente in un’unica direzione: posto che la
conoscenza di oggetti logici (le forme pure delle
proposizioni) deve rendere conto di proposizioni
contingenti, il giudizio che pone l’applicabilità ad un
certo caso di una determinata forma pura f, (i) non può
essere semplice, (ii) deve essere contingente. Quindi
Russell non riuscirebbe davvero ad evitare il regresso di
cui ha paura (ivi, p. 70), dato che per decidere di

296
applicare proprio f, dovremmo impiegare (in un meta-
giudizio) g, e così via. In altre parole viene dato per
scontato – comprensibilmente – che la teoria del
giudizio deve rendere conto – tra l’altro – dei giudizi
contingenti.
Se la mia analisi è giusta, lo stesso problema sorge in
realtà anche nel Tractatus: capiamo una proposizione se
conosciamo gli oggetti, ma gli oggetti sono immutabili,
quindi tutto ciò che intendiamo da essa, finisce per pre-
determinare lo stesso valore di verità della proposizione.
Tutti i giudizi finirebbero cioè per essere a priori. Il
fatto che il problema torni così a proporcisi, suggerisce
di seguire un’altra strada: la conoscenza degli oggetti
pre-determina in effetti il valore di verità che
attribuiamo alle proposizioni, ma questo trova
espressione appunto nel principio di induzione. La
nostra conoscenza, ora, degli “oggetti”, determina le
nostre previsioni su quanto non ci è dato al presente (ciò
che deve essere descritto da proposizioni). Se le
connessioni di a con b, c, ... dipendono da tratti interni
ad a, b, c, ..., e nient’altro, la connessione ab, una volta
verificata, non può essere mai più ritirata. Il senso che
abbiamo dell’accadere contingente degli avvenimenti,
va spiegato in altri termini, ricorrendo ad un impiego
sistematico di nozioni di carattere meta-cognitivo: una
proposizione è contingente se può essere falsa, e il
carattere di “falso” presuppone una competenza di tipo
meta-cognitivo, come è implicato dalla tesi
fondamentale di Piaget che stabilisce l’identità
intelligenza=azione, dove “azione” è necessariamente
sempre qualcosa di dato positivamente. I concetti di

297
negazione e di falso, e quindi il senso di contingenza
degli avvenimenti, sono il prodotto di una costruzione
del soggetto. Andando molto oltre le intenzioni di
Wittgenstein (specie in questa fase della sua vita),
possiamo dire che il concetto stesso di verità ha un
valore unicamente normativo e sociale – tant’è che l’io
metafisico non può applicare al proprio sapere la
dicotomia vero-falso, mentre può benissimo riferirla alle
persone in carne e ossa. Dobbiamo notare in particolare
che, secondo la descrizione del realista, possiamo
procedere a determinare sempre meglio il significato dei
nomi, e, in questo modo, le associazioni induttive che
avevamo fatto agire possono essere disconfermate
dall’esperienza – pur essendo noi obbligati, a priori,
ogni volta di nuovo a far valere la convinzione che il
nuovo assetto dei dati (che tiene conto della nuova
evidenza così raccolta) debba essere quello giusto, che
ci permetterà di compiere inferenze veridiche.
Possiamo dare conto, in questo modo, di una parte
delle tesi della sociologia della conoscenza. Ma non ne
viene affatto pregiudicato il carattere pienamente
oggettivo del sapere – dato che il canone dell’oggettività
è fornito dall’io metafisico. È solo il concetto di “verità”
ad avere natura interamente sociale, ma i contenuti di
pensiero in quanto tali (nella versione idealista), o gli
oggetti in quanto tali (nella versione equivalente del
“realismo puro”) sono entità del tutto oggettive.

11.7. Oltre a questi, che sono i risultati che più da vicino


ci riportano al tentativo di costruire una teoria
dell’induzione, vorrei indicare altre implicazioni di tutta

298
questa analisi: (i) La ricostruzione di Pears avvalora
autorevolmente l’idea che lo schema euristico alla base
del Tractatus sia di derivazione empirista e nella
fattispecie russelliana, anche se l’impegno di
Wittgenstein è di rinunciare nella maniera più assoluta a
informazioni o ipotesi di carattere empirico.
In modo più specifico, credo che troviamo, per
questa via, un’interessante conferma
dell’interpretazione che ho cercato di proporre
dell’argomento sul regresso. Infatti Pears riporta, tra gli
altri, un passo dei Quaderni (21.10.14): “Io pensavo che
la possibilità della verità di una proposizione φ(a) fosse
legata al fatto (E x,φ) . φx. Ma non si riesce a vedere
perché φa debba essere possibile solo se v’è un’altra
proposizione della stessa forma. φa non ha certo
bisogno d’un precedente. (Supposto infatti che vi siano
solo le due proposizioni elementari «φa» e «ψa», e che
«φa» sia falsa, perché questa proposizione dovrebbe
avere un senso solo se «ψa» è vera?!)”. “Così, nella sua
[di Wittgenstein] versione della teoria, il senso di una
proposizione elementare dipendeva dalla verità di
un’altra proposizione della stessa forma, piuttosto che
da una verità logica riguardante un complesso astratto di
un altro mondo. Era un passo avanti, ma che portò ben
presto al crollo di questa teoria” (PEARS, 1988, p. 77).
Se lo schema euristico impiegato da Wittgenstein è
stato davvero di questo genere, è chiaro che può essere
stata questa la base per l’argomentazione di 2.0211. Ma
allora la proposizione che innesca il regresso non
sarebbe una sui costituenti che compongono la
proposizione, ma piuttosto su quel costituente

299
particolare che è la sua “forma”: un modo almeno
ugualmente valido di esprimersi, sarebbe quindi dire che
le proposizioni man mano ottenute riguardano la forma
complessiva della proposizione che precede nel
regresso, e non un suo costituente, o più esattamente
riguarderebbero il rapporto tra l’“oggetto logico” (nel
senso di Russell) che costituisce la “forma” e gli
elementi che esso deve collegare (nei termini di Pears –
nella mia versione invece sarebbero le proposizioni che
affermano ogni volta l’esistenza di un rapporto di
“rappresentazione” tra la proposizione-oggetto e la
realtà). Abbiamo già visto quanto una differenza di
questo genere sia fondamentale per rendere accettabile
l’argomentazione della 2.0211, senza dovervi rinvenire
alcuna petitio principii.
Pears fa un riferimento molto rapido alla 2.0211, e
sembra accettare l’interpretazione più diffusa del passo.
Ma è il contesto complessivo della sua analisi che gli
rende impossibile sfruttare il potenziale esplicativo che
così si è aperto: la 2.0211 vale sì, infatti, a inferire
l’esistenza di una “forma del mondo” e di una forma
degli oggetti, ma questa, per Pears, è la forma che gli
oggetti hanno. In questa formulazione, la petitio
principii compare ugualmente: la forma dell’oggetto è
vista quasi come una sua parte componente, anche se
esso non è più ulteriormente analizzabile (si può pensare
ad una Gestalt?). Una volta ammessa questa
impostazione, si dovrebbe tornare a chiedere l’esistenza
di una parte-della-parte componente, e così via, affinché
la “forma” degli oggetti (in essi “assorbita”, ma pure da
essi in qualche modo distinguibile), consenta la

300
composizione di proposizioni.
L’interpretazione che io ho avanzato è invece che gli
oggetti sono una forma, che ha come proprio contenuto
la forma stessa: un oggetto non ha una forma, ma è una
forma – e il contenuto della forma così individuata è
l’oggetto stesso (il suo “contenuto”). Si può evitare
quindi la considerazione che Pears mostra di avere bene
in mente, che gli oggetti vengano concepiti da
Wittgenstein come semplici e composti allo stesso
tempo. Non c’è una forma e un contenuto dell’oggetto:
la forma è il contenuto68.
Analogamente Hyder (2004) mette alla base della
picture-theory il timore di un regresso, dovuto alla
necessità di specificare, senza ricorrere ad altri giudizi,
“what sorts of symbols may be legitimately combined to
yield elementary propositions” (ivi, p. 57), in modo da
evitare la possibilità di giudizi insensati, ad es.
“consisting only of particulars, such as 'table penholders
book'” (ivi, p. 55). La strategia di Wittgenstein sarebbe
quindi di porre che “the forms of the elementary
68
Almeno a livello terminologico c’è un’interessante somiglianza
tra questa mia tesi e la posizione di Russell (1996, p. 198):
“«qualcosa ha una relazione con qualcosa» ... può funzionare
come «forma» dei complessi duali. In un certo senso è
semplice, dato che non può essere analizzato. A prima vista
sembra avere una struttura e quindi sembra non essere semplice;
ma è più corretto dire che è una struttura. Il linguaggio non è
adatto a parlare di oggetti di questo tipo”. La difficoltà che
continua a persistere nella formulazione di Russell – mi sembra
– è che la “forma” comunque coesiste insieme ad altri elementi
colti al presente: continua ad esserci la possibilità di distinguere
(e quindi, poi, la necessità di collegare, mediante quella che
Russell chiama “sintesi mentale”) la “forma” dagli altri oggetti.

301
propositions and the facts to which they refer cannot
meaningfully be 'said'” (ivi, p. 60) ma solo “mostrate”.
Correttamente però l’autore non si impegna ad
estendere questa interpretazione fino ad includere
l’analisi della 2.0211, dato che non ne viene coinvolta in
effetti la tesi dell’inalterabilità della sostanza del
mondo.
Almeno una parte della tesi che qui faccio mia, è
accolta da Emiliani (2004), per il quale il regresso da
evitare è quello che nascerebbe se si volesse spiegare il
rapporto tra segni e mondo introducendo un (primo)
termine intermedio, che dovrebbe essere seguito
necessariamente da infiniti altri.
Un’ulteriore variante può identificare il regresso
temuto da Wittgenstein con quello descritto da F. H.
Bradley (che discuteremo più avanti): per spiegare il
rapporto che si crea tra gli elementi “Socrate”,
“precede” e “Platone” quando sono riuniti nella
proposizione corrispondente, sarebbe necessario
utilizzare una nuova proposizione, per la quale si
porrebbe di nuovo lo stesso problema. Credo che sia
sostanzialmente corretto intendere la 2.0211 come volta
a risolvere appunto questa difficoltà: una “proposizione”
ha senso (presa come un “tutto”) se è vera un’altra
proposizione che afferma la “connessione” tra le parti, a
meno che non siano proprio le parti costitutive a
mostrare, in se stesse, l’esistenza di una tale
connessione. I termini giusti in cui porre la questione
credo che siano di riconoscere che questo è
semplicemente un aspetto del problema più
complessivo, come è stato descritto nelle pagine

302
precedenti: si tratta cioè di dar conto della natura
“articolata” della proposizione. È poi proprio questo
stesso dispositivo teorico che servirà a spiegare la
dialettica realismo-idealismo (problema gnoseologico).
Se abbiamo di fronte un certo numero di alternative
esegetiche è solo perché in un quadro così complesso è
possibile scegliere di dare risalto ad un certo aspetto del
problema invece che ad un altro.
(ii) Abbiamo visto che una grossa difficoltà
nell’interpretazione di Pears (ma anche di HINTIKKA-
HINTIKKA, 1990) è che gli oggetti del Tractatus
dovrebbero essere visti ad un tempo come semplici ma
anche, almeno in un certo senso, come complessi, dato
che hanno una “forma”. Vorrei osservare però come
questa difficoltà sorga solo se si adotta una prospettiva
linguistico-semantica. Nella mia lettura invece è
essenziale distinguere tra due differenti livelli di analisi,
che permettono di distribuire su due piani diversi (i) la
semplicità degli oggetti, e (ii) la complessità dovuta al
loro possedere una forma. Su un piano, quello del
soggetto metafisico, mi si danno gli oggetti, e sono
(solo) semplici; sull’altro (quello che descrive tutto
secondo le intuizioni del realismo) si deve pensare che
gli oggetti che ora ad una persona P, a t, si presentano
come semplici, abbiano in realtà una forma, cioè la
possibilità di combinarsi in molti modi diversi,
semplicemente perché questo significa solo che in un
secondo momento (a t', t'' etc.) P scoprirà che gli oggetti
sono combinati tra di loro in una certa serie di modi.
(iii) Credo che la forte influenza di Russell su
Wittgenstein possa essere adeguatamente apprezzata

303
riferendoci sì al problema della “forma logica”, come
sostiene Pears, ma anche alla nozione di “molteplicità
logica”, da vedersi come sviluppo della teoria
russelliana delle descrizioni: “Un oggetto può essere
descritto con dei termini che stanno all’interno della
nostra esperienza, e allora la proposizione che c’è un
oggetto che risponde a questa descrizione è una
proposizione interamente composta di costituenti
esperiti. Perciò è possibile conoscere la verità di questa
proposizione senza fuoruscire dall’esperienza” (RUSSELL,
1996, p. 105). Il compito che Wittgenstein si dà,
secondo la mia ricostruzione, è di elaborare con
precisione questa teoria, specificando il ruolo che è
necessario riconoscere alle intuizioni comuni
sull’oggettività (realismo) da un lato e al soggettivismo
dall’altro.

11.8. Lo sviluppo dell’argomentazione di Pears – in


particolare sulla teoria delle tautologie e su tutta la
picture-theory – segue una direzione globale forse
simile alla mia – specie probabilmente per una comune
premessa che dà nettamente la priorità ontologica agli
oggetti e non ai fatti.
Per valutare le ragioni complessive che hanno reso
scettico Pears sulla possibilità di dare credito ad una
visione complessiva di questo genere, possiamo
guardare a quelle stesse che hanno portato Wittgenstein
ad abbandonare la sua opera giovanile. Se compongo a,
b e c ad immaginare abc, il problema è costituito dal
caso in cui – in termini concreti – diremmo che il
realizzarsi di ab è incompatibile con il realizzarsi di ac.

304
Ad es., se a è una certa macchia M, b è Rosso, c è
Verde, “M è rossa” è incompatibile con “M è verde”: ab
contraddice ac. In un colloquio assai noto che abbiamo
già citato, riferito da Waismann (1975, p. 51), è
Wittgenstein stesso che spiega che è stato proprio un
problema del genere a portarlo ad una revisione sempre
più radicale della sua vecchia teoria.

Le asserzioni che mi descrivono la lunghezza di un


oggetto formano un sistema, un sistema di proposizioni. È
un tale sistema di proposizioni nella sua interezza, e non
un singola proposizione, che viene confrontato con la
realtà. Se dico p. es. che quel punto del campo visivo è
blu, so anche che non è verde, rosso, giallo ecc. Ho
applicato di un sol colpo l’intera scala dei colori. Questo
è anche il motivo per cui un punto non può avere
contemporaneamente diversi colori. Se infatti accosto un
sistema di proposizioni alla realtà, è già detto con ciò –
proprio come succede per lo spazio – che può esistere solo
uno stato di cose e mai più d’uno.
Tutto questo non lo sapevo ancora quando scrivevo il mio
libro: credevo che ogni deduzione poggiasse sulla forma
tautologica. Non avevo ancora visto che un’inferenza può
avere anche questa forma: un uomo è alto 2 metri, quindi
non è alto 3 metri. Ciò è connesso al fatto che io credevo
che le proposizioni elementari dovessero essere
indipendenti; ritenevo che dall’esistenza di uno stato di
cose non si potesse dedurne la non-esistenza di un altro.
Ma se la mia concezione attuale del sistema di
proposizioni è corretta, allora la possibilità di dedurre
dall’esistenza di uno stato di cose la non-esistenza di tutti
gli altri che sono descritti da tale sistema è addirittura la
regola. (WAISMANN, 1975, pp. 51-52)

305
La sua concezione era stata che “se p [“Questo è rosso”]
contraddice q [“Questo è bianco”], allora p e q possono
essere ulteriormente analizzate per dare, per esempio, r,
s, t; v, w; ~t”: se “Il fatto [semplice] è autosufficiente e
autonomo”, la contraddizione può nascere solo tra fatti
che (i) sono complessi, (ii) l’uno contenga e l’altro no
un fatto descritto da una proposizione elementare t, di
modo che la contraddizione possa essere rilevata
attraverso il calcolo vero-funzionale (Lezioni 1930-
1932, p. 144).

Quando scrissi il Tractatus (ed anche in seguito) credevo


che fa = fa . ~fb [cioè un’incompatibilità logica fra le
attribuzioni di differenti colori alla medesima cosa]
sarebbe possibile solo se fa fosse il prodotto logico di un
altro enunciato con ~fb – cosicché fa a= p . ~fb – ed ero
dell’idea che fa [cioè un’attribuzione di colore] potesse
scomporsi in un prodotto logico di tal genere. Al tempo
stesso, non avevo alcuna idea chiara di come si potesse
giungere ad un’analisi simile. O meglio: pensavo di
costruire una notazione che grazie alla sua natura servisse
ad esprimere l’uso grammaticale corretto per ogni
situazione (cioè, le cui regole fossero formulate assai
semplicemente e contenessero già in sé [quest’uso], come
farebbe qualunque notazione perspicua), ma dimenticavo
che se questa riformulazione dell’enunciato f(a) dovesse
consistere nella sua sostituzione con un prodotto logico,
allora i fattori di tale prodotto avrebbero dovuto avere un
senso indipendente, a noi già noto. (Manoscritti, 112, p.
251, cit. in HINTIKKA-HINTIKKA, 1990, p. 192, parentesi degli
autori)

306
Contro il suo precedente atomismo, Wittgenstein viene a
sostenere che non è la singola proposizione che può
essere confrontata alla realtà, ma solo un sistema di
proposizioni: nei primi esempi, il sistema che descrive
l’insieme dei rapporti logici tra i colori. In seguito, il
principio si estende a tutta la “grammatica” del “gioco
linguistico”. Il concetto di “regola”, che domina tutto il
nuovo paradigma, è facilmente accostabile a quello di
“uniformità”. Posto in particolare che i linguaggi sono
“forme di vita”, associati inestricabilmente all’ambiente
(anche non linguistico) in cui la vita si svolge, è facile
suggerire – anche se in tono necessariamente
superficiale – che lo stesso Wittgenstein si sia mosso,
per certi aspetti, in una direzione simile alla mia. In
Waismann (1975) Wittgenstein si interroga più volte su
come venga determinata la “sintassi”: “A questo punto
sorge la questione se non sia necessaria anche
l’esperienza per costruire la sintassi. Occorre rispondere
che vi sono due concetti differenti di «esperienza»” (ivi,
p. 205). Si può pensare che quel tipo di esperienza che
si riversa nella sintassi logica (proibendo ad es. di dire
“Il verde è pesante”), è quell’insieme di “regolarità” che
abbiamo deciso (quineanamente) di considerare il cuore
non modificabile delle nostre teorie. Espressamente
Wittgenstein pone una differenza tra i due tipi di
“regolarità”, quando afferma che “Le leggi naturali
possono essere giustificate; le regole della grammatica
non possono essere giustificate” (Lezioni 1930-1932,
1990, p. 135), ma è possibile sostenere che le leggi
naturali più ben sedimentate siano quelle che
assumiamo di fatto come nostra grammatica, dove

307
rimane vero (formalmente) che “La grammatica non è
determinata dai fatti”, semplicemente perché, una volta
che abbiamo assunto una certa grammatica, potremmo
giustificarla in base a fatti empirici solo descrivendoli –
attraverso un’altra grammatica (ivi, p. 119).
Dobbiamo ricordare l’ambiguità della natura della
stessa “sostanza del mondo” del Tractatus: “Nel mio
trattato ho detto una volta: la logica precede il come ma
non il che cosa. ... Se lei vuole, potrei anche dire che la
logica è empirica – se Lei chiama questo empiria”
(WAISMANN, 1975, p. 64).
Queste osservazioni dovranno in ogni caso rimanere
qui a titolo puramente congetturale, non potendomi
dedicare ora all’analisi di problemi così impegnativi.

PARTE SECONDA

12

La costruzione della conoscenza

308
12.1. L’argomentazione dell’idealista appare semplice e
perfino banale, ma, per quanto sia stato speso un
numero infinito di pagine per difendere questo punto di
vista, sembra che finiscano per prevalere sempre le
intuizioni sedimentate nel senso comune, che
presuppongono invece l’esistenza di un mondo esterno,
ben distinguibile dal pensiero di chi se ne fa una
rappresentazione. È opportuno quindi spiegare meglio
in che modo cercherò di dar conto della situazione,
sviluppando alcune delle idee già espresse in
precedenza, anche se in una direzione che ci allontana
dalle concezioni proprie di Wittgenstein.
Il concetto di base di cui mi servo è quello che Quine
chiama “trazione oggettiva”:

Le parole essendo strumenti sociali, l’oggettività è


importante per la loro sopravvivenza ...
La preferenza abituale per l’oggettività è ben illustrata da
«quadrato». Ciascun membro di un gruppo di osservatori
osserva una tegola dal punto di vista a lui più favorevole e
dice che è quadrata; e ciascuno di essi ha, come sua
proiezione retinale della tegola, un quadrilatero scaleno
che è geometricamente diverso da quello di ognuno degli
altri. Chi impara «quadrato» deve correre un rischio con il
resto della società, e finisce con l’usare la parola nel
modo giusto. L’associazione di «quadrato» con le sole
situazioni in cui la proiezione retinale è quadrata sarebbe
più semplice da imporre ma l’uso più oggettivo è, per la
sua stessa intersoggettività, ciò cui tendiamo a essere
esposti e incoraggiati ...
La trazione oggettiva uniformerà tutte le risposte alla
risposta «rosso», attivando una miriade di indizi
correttivi. Questi indizi sono utilizzati inconsciamente,

309
tale è la perfezione della nostra socializzazione. (Quine,
1970, pp. 15-16)

Piaget illustra il punto in maniera molto simile: “ad


esempio, una ruota di automobile percepita
proiettivamente come un’ellisse viene tuttavia
riconosciuta subito come rotonda” (1982, p. 205).
Possiamo ammettere quindi una prima distinzione tra
un insieme di proprietà “primarie” e definitorie
dell’“essenza” di un oggetto, e un insieme di proprietà
“secondarie” o “prospettiche”, che sono (viste come)
dipendenti da un particolare punto di vista di un qualche
soggetto. Formalmente una tale distinzione (in accordo
con la lezione di Berkeley) non ha motivo di sussistere.
Ma da un punto di vista psicologico, le prime sono,
semplicemente, (i) quelle che rimangono più stabili
(almeno in un senso logico-costruttivo) nelle varie
osservazioni che fa il soggetto: si tratta di una stabilità
solo “logica” e costruita razionalmente perché il
contenuto delle percezioni è di per se stesso del tutto
mutevole, ma ammettere l’esistenza e “stabilità” di
alcuni elementi permette di fare di volta in volta le
giuste previsioni (almeno tendenzialmente) sul
contenuto delle percezioni prossime a verificarsi –
secondo delle strutture operatorie la cui progressiva
costruzione è descritta da Piaget in tutta la sua opera.
(ii) Le proprietà “primarie” sono anche quelle che,
almeno in termini ideali, risultano identificabili
stabilmente e universalmente dal punto di vista di tutti
gli interlocutori che il soggetto riconosce (nel senso
psichicamente più profondo) come “credibili”. La

310
letteratura che possiamo richiamare a sostegno di questo
punto è tutta quella esistente sul ruolo della
comunicazione e della relazione sociale nello sviluppo
del pensiero e nella costruzione di un “mondo” che
abbia, oltre al carattere dell’oggettività, quello della
intersoggettività: ricordiamo la scuola psicologica
“storico-culturale”, von Humboldt, Sapir e Whoorf,
Watson, Doise e molti altri.
La nozione di “oggetto”, nel senso del realismo, è
un’ulteriore elaborazione di questa distinzione iniziale:
le proprietà “primarie” generano la nozione di realtà
“oggettiva”, esterna al pensiero, le proprietà
“secondarie” quella di “immagine mentale”, che
costituisce un possesso del solo soggetto. I punti di
frizione che sono apparsi nella storia del pensiero (i
colori sono proprietà primarie o secondarie?) rivelano le
difficoltà che nascono a voler considerare questa stessa
distinzione come fondata su di una base che non risulti
fondamentalmente arbitraria – anche se naturalmente le
diverse indicazioni su dove stabilire la linea di
demarcazione rivelano differenze importanti sul modo
di vedere il mondo.
Come schema di fondo (anche se fa le cose molto più
semplici di quanto non siano) possiamo usare il
seguente: ogni dato di osservazione è descritto
(idealmente) da una lista di proprietà. Di queste, alcune
sono condivise da altri dati di osservazione (ad es. quelli
subito successivi o adiacenti), altre no. Le prime vanno
a costituire quello che chiamiamo l’oggetto reale (o
anche la sua “sostanza”), le seconde formano quella che
è vista come una prospettiva solo soggettiva

311
sull’oggetto – anche se il processo storico-psicologico
con cui tali distinzioni evolvono, è tanto complesso e
coinvolge un tale numero di variabili da non consentire
in alcun modo una determinazione univoca ed
ineccepibile di ciò che va a costituire le due categorie in
opposizione.

12.2. Senza poter qui affrontare il problema in maniera


adeguata, è bene però approfondire brevemente il
riferimento fatto all’epistemologia genetica, in
particolare esaminando quanto essa afferma su realismo
e idealismo. In ogni caso non può essere mia intenzione
presentarmi come seguace “fedele” di Piaget, né posso
voler analizzare in modo accurato un’opera così ampia e
densa di implicazioni come la sua, ma vorrei mostrare
che lo schema teorico di fondo da lui difeso, si presta ad
essere re-impiegato – con i dovuti aggiustamenti – in
un contesto generale pur molto diverso.
L’epistemologia genetica è definita dal suo fondatore
come “teoria della conoscenza scientifica basata
sull’analisi dello sviluppo stesso di detta conoscenza”
(PIAGET, 1982, p. 37). Il quadro di riferimento è quindi
quello del realismo di fondo delle scienze naturali: “non
si può certo mettere in dubbio che esiste uno sviluppo
delle conoscenze, il quale viene da tutti riconosciuto”
(ivi, p. 58). In generale si dà per scontato che “se
l’organismo costituisce il punto di partenza del soggetto
con le sue operazioni costruttive, egli resta nondimeno
un oggetto fisico-chimico fra gli altri, che obbedisce alle
loro leggi anche se ne aggiunge delle nuove” (P IAGET,
1971, p. 74).

312
Un elemento che invece allontana Piaget dal realismo
è che, a suo giudizio:

l’aspetto fondamentale del pensiero è quello operativo;


ritengo che la conoscenza umana sia essenzialmente
attiva. Conoscere è assimilare la realtà all’interno dei
sistemi di trasformazione. Conoscere è trasformare la
realtà per comprendere come viene ottenuta.
In virtù di questo punto di vista, mi sono trovato ad
oppormi ad una visione del conoscere come copia passiva
della realtà.
Nei fatti questa nozione si basa su un circolo vizioso: per
fare una copia di un modello bisogna conoscerlo, ma
l’unico modo di conoscere il modello è copiarlo. Io
ritengo tuttavia che conoscere un oggetto significa agire
su di esso, costruendo sistemi di trasformazione che
possano essere messi in pratica sull’oggetto stesso o con
esso.
Conoscere la realtà significa costruire sistemi di
trasformazione che corrispondono ad essa in modo più o
meno adeguato. Essi sono più o meno isomorfici alle
trasformazioni della realtà. Le strutture trasformazionali
in cui consiste la conoscenza non sono copie delle
trasformazioni reali: sono semplicemente possibili
modelli isomorfi che l’esperienza ci insegna a scegliere.
La conoscenza quindi è un sistema di trasformazioni che
si adeguano progressivamente. (1989, p. 30)

La conoscenza può adeguarsi sempre meglio alla realtà,


ma non consiste in una copia di essa: chi lo sostiene
cade in un circolo vizioso. Una tale direzione di
pensiero è accentuata da autori come Maturana, Varela,
von Foerster, Bocchi, Ceruti o von Glasersfeld, per il

313
quale ad es. “il soggetto non può trascendere i limiti
dell’esperienza individuale” (VON GLASERSFELD, 1998, p.
11) e “La conoscenza serve all’organizzazione del
mondo esperienziale del soggetto, non alla scoperta di
una realtà ontologicamente oggettiva” (ivi, p. 50).
Limitandoci per semplicità, in questa sede, ad esaminare
la posizione solo dell’ultimo autore, vediamo subito che
il peso dei passi citati non deve essere esagerato: “le
interazioni del conoscitore umano con il mondo ontico
possono rivelare, in una certa misura, ciò che egli può
fare – lo spazio in cui egli si muove –, ma non possono
rivelare la natura dei limiti in cui i suoi movimenti sono
confinati. Il costruttivismo, non ci dice, quindi, che non
c’è nessun mondo e nessuna altra persona, sostiene
soltanto che, per quanto li conosciamo, il mondo e gli
altri sono modelli che ci costruiamo noi” (ivi, pp. 121-
122). Il principio di fondo è che “La funzione della
conoscenza è adattiva, nel senso biologico del termine, e
tende verso l’adattezza o la viabilità” (ivi, p. 50).
Le considerazioni di von Glasersfeld derivano
sostanzialmente da Piaget, ma quest’ultimo dà
un’importanza maggiore alle intuizioni comuni su di un
mondo “esterno”. Quella tra soggetto e oggetto è vista
da Piaget come una “circolarità inevitabile”: “La
conoscenza poggia su un oggetto senza il quale il
soggetto sarebbe, a partire dal suo interno o dall’esterno
di esso, del tutto impassibile e quindi non conoscerebbe
neppure se stesso, per mancanza di attività da parte sua;
ma l’oggetto a sua volta non è conosciuto se non
attraverso il soggetto, altrimenti resterebbe inesistente
per lui” (PIAGET, 1982, p. 72). Posto che per rendere

314
“possibile un’assiomatica ... si deve per forza ricorrere
alle leggi della mente umana” e alla psicologia (ivi, p.
73), “Con le matematiche e la psicologia la scienza
assimila il reale agli schemi della mente umana e segue
così una direzione idealista ... Ma se questa è una delle
direzioni costanti del pensiero scientifico, l’altra non è
meno netta: con la fisica e la biologia la scienza
obbedisce ad una tendenza realista che subordina a sua
volta la mente alla realtà ... la fisicochimica inserisce
l’organismo in un mondo di realtà materiali via via più
lontano dagli stati immediati di coscienza” (ivi, p. 75).
Addirittura, se parliamo di “epistemologia genetica
generale quando il sistema di riferimento [dello stato
attuale di avanzamento delle conoscenze] viene pure
inglobato nel processo che si tratta di studiare” (ivi, p.
77), pure deve intendersi che “una ricerca
epistemologica radicalmente relativista, per metodo,
qual è l’analisi genetica generale, deve per forza parlare
di soggetto e oggetto, poiché questi due poli della
conoscenza si presentano perfino nelle più estreme
posizioni idealiste e realiste comprese nel quadro” di
quelle che ha ritenuto meritevoli di esame69 (ivi, p. 78).

12.3. Le obiezioni principali che si possono fare ad


entrambi gli autori sono due. 1) Affermano che esiste un
mondo esterno, ma la logica della loro teoria spinge in
direzione diversa: usando termini molto approssimativi,
se la funzione della conoscenza è solo adattiva, e non è
69
Esse sono: realismo, apriorismo, fenomenologia, empirismo,
pragmatismo e convenzionalismo, relativismo (PIAGET, 1982, p.
57).

315
raffigurativa, questo dovrebbe valere non solo per
singole credenze specifiche, proprie dei vari ambiti
disciplinari, ma anche per la credenza più generale che
esista un mondo, un ambiente al quale ci si possa o no
adattare.
Il problema, ben noto – anche se in altre
formulazioni – almeno da Kant in poi, è qui acuito dal
fatto che l’impostazione teorica globale è derivata dalla
biologia. L’accezione in cui Piaget usa il termine
“idealismo” ha sempre come punto di riferimento
organismi biologici concreti. In un senso ovvio quindi il
contesto in cui ci si colloca è almeno fondamentalmente
realista (v. STANZIONE, 1990).
In particolare, se si concludesse però – coerentemente
– che anche la nostra convinzione che esiste un
ambiente in cui ci muoviamo, è spiegabile come dovuta
solo alla pressione all’“adattamento” (a questo punto, a
che cosa?), tutta la teoria perlomeno perderebbe ragion
d’essere ed efficacia esplicativa. Stanzione (1990)
prende in esame il tentativo delle teorie, in particolare di
Maturana e Varela, di “riaffermare la portata
epistemologica del criterio della coerenza contro gli
opposti criteri della corrispondenza e della verità” (ivi,
p. 156), ma conclude che così si “ripropone una
pericolosa circolarità concettuale tra adattamento e
selezione70, complicandola senza vantaggio con
l’introduzione di una terza nozione mediatrice, quella

70
Quella per cui “il più adatto sarebbe quello che ha superato la
selezione e la selezione sarebbe la conservazione del più adatto”
(STANZIONE, 1990, p. 187).

316
appunto di accoppiamento strutturale”71 (ivi, p. 155). Si
avrebbe cioè una perdita essenziale di potere
esplicativo. La mia osservazione è che, se, a questo
punto, diventa necessario trovare una legittimazione
della teoria che sia diversa da quella biologica da cui si
è partiti, possiamo però fare appello ad una motivazione
appunto di tipo strettamente logico, quale è quella del
vecchio idealismo di Hume. L’esigenza, giustamente
rivendicata da Stanzione, di accogliere in qualche modo
i principi del realismo, verrebbe soddisfatta dall’analisi
wittgensteiniana dell’equivalenza tra idealismo e
realismo.
2) Alle difficoltà del punto (1), corrisponde sul piano
metodologico un rischio evidente di circolarità. La
posizione di Piaget è che “o l’analisi genetica non
riuscirà a render conto del proprio sistema di riferimento
[il sapere scientifico del suo tempo] e quindi fallirà
nell’intento di costruire un’epistemologia generale,
oppure ci riuscirà, ma a prezzo di una circolarità
evidente, l’analisi genetica essendo basata, in questo
secondo caso, su un sistema di riferimento che si troverà
a dipendere da essa! ... ma non si tratta di una circolarità
viziosa o, perlomeno, ci è imposta dalla natura delle
cose” (PIAGET, 1982, p. 72). Il punto è che, da un lato si
ammette che “il genetico [non] si darà a legiferare al
71
Cioè, sostanzialmente, la tesi che basti richiedere “il
mantenimento della coerenza interna dell’organizzazione dei
sistemi viventi; il che significa affermare la compossibilità tra le
“soluzioni”, vecchie e nuove, praticate dagli organismi, e le
varie condizioni fisiche, vecchie e nuove, che si dimostrino
sufficienti a garantire l’autonomia e la chiusura operazionale
degli organismi” (STANZIONE, 1990, pp. 155-156).

317
posto del logico o della coscienza incarnante le norme,
ma ... descriverà nel linguaggio dei fatti ciò che costata
dal comportamento (interno o esterno) ispirato dalla
credenza nelle norme” (ivi, p. 61), ma, dall’altro, si
intende che a monte, il problema non è “di ritrovare la
norma fissa in seno all’evoluzione, bensì di generare la
norma stessa per mezzo dei dati mobili dello sviluppo.
Ora, siffatta posizione del problema, per chimerica che
possa apparire, corrisponde nondimeno all’aspetto
quotidiano della scienza contemporanea” (ivi, p. 64,
corsivi miei).
Questa tesi corrisponde a quella di Quine
sull’“epistemologia naturalizzata”: “La vecchia
epistemologia aspirava a contenere, in un certo senso, la
scienza naturale; la voleva costruire in qualche modo a
partire dai dati sensoriali. L’epistemologia nel suo
nuovo scenario, viceversa, è contenuta nella scienza
naturale come un capitolo della psicologia. Ma anche il
vecchio contenimento resta valido a suo modo”: ci
accorgiamo infatti che “La nostra stessa impresa
epistemologica ... è nostra costruzione o nostra
proiezione a partire da stimolazioni analoghe a quelle
che assegnavamo al nostro soggetto epistemologico
[studiato dalla psicologia]. C’è così un contenimento
reciproco, quantunque contenimento in sensi diversi:
l’epistemologia nella scienza naturale e la scienza
naturale nell’epistemologia”. Naturalmente “Questa
interazione richiama alla mente di nuovo la vecchia
minaccia di circolarità, ma è tutto a posto ora che
abbiamo smesso di sognare di dedurre la scienza dai
dati sensoriali” (QUINE, 1986, pp. 106-107).

318
Quello che Quine ha in mente e critica è
sostanzialmente un progetto fondazionale che voglia
“Rendere conto del mondo esterno come un costrutto
logico di dati sensoriali”, secondo il piano di Russell e
in particolare di Carnap, “che andò più vicino a
mandarlo ad effetto” (ivi, p. 99). Posto che si parla
appunto di “dati sensoriali”, nel senso dell’empirismo,
con tutti i vincoli restrittivi che questo riferimento
comporta, diventa prevedibile che la descrizione di un
processo che consenta la ricostruzione razionale di tutto
il sapere scientifico attuale partendo solo da questa base
ristretta, oltre ad essere estremamente improbabile da
ottenere, sarebbe anche, in ogni caso, da cercarsi non
sulla falsariga dell’evoluzione psicologica effettiva del
bambino: “certamente non siamo cresciuti imparando le
definizioni del linguaggio fisicalista in termini di un
precedente linguaggio di teoria degli insiemi, di logica e
di osservazione”, secondo quanto previsto dall’Aufbau
di Carnap (ivi, p. 101).
Si intende cioè che un fondazionalista (che si ispiri al
modello di Carnap) debba procedere secondo un
percorso logico diverso da quello seguito da un bambino
nella sua maturazione. L’alternativa sarebbe quantomai
difficile da sostenere: si tratterebbe di immaginare un
progetto fondazionale che parta dalle sole evidenze
disponibili ad un neonato, che escogiti un modo per
giustificare delle regole d’inferenza parimenti
disponibili al neonato, e operando logicamente con
questi strumenti, riesca a derivarne le varie teorie che si
vogliono legittimare.
Il modo in cui Piaget presenta la sua epistemologia

319
genetica contribuisce a far apparire ancora più remota
un’eventualità del genere: abbiamo visto infatti che dà
per scontato che il massimo contenuto di verità
(umanamente disponibile) sia da attribuirsi all’insieme
delle teorie scientifiche (degli adulti), mentre il neonato
partirebbe da un livello minimo di sapere intorno al
mondo. Il progetto di Piaget è del tutto coerente con
l’ammissione che “l’ordine inerente
all’assiomatizzazione capovolge per certi aspetti
l’ordine genetico della costruzione delle operazioni. Per
esempio dal punto di vista assiomatico la logica delle
classi si deve dedurre da quella delle proposizioni,
mentre dal punto di vista genetico le operazioni
proposizionali sono derivate dalla logica delle classi e
delle relazioni” (PIAGET, 1969, p. 28).
A contrastare questo quadro, possiamo fare le
seguenti osservazioni: (i) Il presupposto di Piaget è che
la maturazione di bambini diversi – tendenzialmente
tutti quelli con simile dotazione biologica e che ricevano
stimoli ambientali simili72 – proceda lungo un percorso
72
L’andamento complessivo che hanno avuto le ricerche di Piaget,
ha portato spesso ad accusarlo di voler generalizzare
indiscriminatamente i risultati delle sue osservazioni a bambini
con caratteristiche individuali diverse o a contesti di società non
occidentali (v. COHEN, 1987), ma il quadro teorico che egli apre
è certamente in grado di recepire questi problemi, anche se “la
psicologia che elaboriamo nei nostri ambienti, caratterizzata da
una certa cultura, da una certa lingua, ecc., resta essenzialmente
congetturale fino a quando non sia stato fornito il materiale
comparativo necessario di controllo” (P IAGET, 1974, p. 70).
Anche con queste riserve, il lavoro da lui fatto rimane
comunque assolutamente cospicuo e significativo. È senz’altro
vero poi che sarebbe auspicabile un incremento dello sforzo di

320
simile. Questo ci autorizza a pensare che agiscano
meccanismi psicologici che, in qualche senso, sono
anche principi d’inferenza epistemologicamente
ammissibili? Potrebbe accadere invece che tutti i
bambini finiscano sì per sviluppare una visione
sostanzialmente vera del mondo, ma solo grazie ad
errori sistematici (“errori” dal punto di vista dei metodi
“legittimi” d’inferenza, ma sembrerebbe che sono
comunque errori “fortunati”).
(ii) Il punto precedente ci porta ad osservare che sarebbe
opportuno distinguere tra (a) le procedure di
elaborazione del sapere, e (b) i contenuti e le
conclusioni che man mano si ammettono. Su (b) è
chiaro che il sapere del bambino è inferiore a quello
degli adulti – anche se è importante riconoscere che, in
quanto entità fenomeniche, per i suoi dati di partenza
(siano di provenienza innata oppure sensoriale etc.) non
ha senso porre il problema della verità o falsità più di
quanto lo sia per quelli degli adulti. Su (a) invece
dobbiamo di nuovo distinguere tra: (a’) alcune strategie
di pensiero relativamente elaborate che non compaiono
da subito. Possiamo citare le osservazioni di Piaget-
Inhelder (1991, pp. 286-289) sulla dissociazione dei
fattori che possono essere rilevanti per spiegare un
fenomeno: “Al livello delle operazioni concrete, il
soggetto non cerca di costituirsi un inventario
preliminare di fattori, ma passa direttamente all’azione
con dei metodi di seriazione e di corrispondenza seriale
[tra elementi scelti in maniera non sistematica] ... Dagli
11-12 anni, al contrario, (con punto d’equilibrio a 14-15
ricerca teso a rimediare a questi limiti.

321
anni), il soggetto, dopo alcune sperimentazioni, fa la sua
lista di fattori a titolo ipotetico, quindi li studia uno ad
uno ma dissociandoli dagli altri, cioè facendone variare
uno solo per volta” (ivi, pp. 287-288). Questi studi, che
sono presentati dall’autore come relativi all’“induzione
delle leggi”, non vanno per questo confusi con il vero
oggetto della mia ricerca, che è piuttosto dedicata alla
forme più elementari di generalizzazione induttiva, che
procedono in modo spontaneo e irriflesso e non seguono
necessariamente metodi complessi per garantire
l’attendibilità delle conclusioni: per queste più
sofisticate strategie di pensiero è più appropriata
l’espressione di “metodo sperimentale” (ivi, p. 287) più
o meno sviluppato.
È interessante, dal mio punto di vista, che lo stesso
Piaget insista che questo metodo di dissociazione dei
fattori “è tanto più notevole in quanto non è stato
affatto appreso nei soggetti fin qui esaminati” attraverso
un insegnamento scolastico (ivi, p. 288): la mia tesi è
che il tipo più elementare di generalizzazione induttiva,
con l’esperienza di alcuni anni di vita, arriva in modo
graduale a “fondare” psicologicamente i metodi più
complessi.
(a’’) L’azione (psicologica) dei meccanismi che io
intendo è particolarmente significativo che sia
riconosciuta da Popper (1972, p. 79) “negli animali
giovani e nei bambini, per quanto presi in età precoce,
senza limitazioni”, quando cita F. Büge: “Una sigaretta
accesa fu avvicinata al naso dei cuccioli. Essi
l’annusarono subito, ma scapparono e nulla li avrebbe
più indotti a riavvicinarsi alla sorgente dell’odore e ad

322
annusarla ancora. Pochi giorni dopo, reagirono alla sola
vista di una sigaretta, o anche di un pezzo di carta
bianca arrotolata, scappando via e starnutendo”73.
Tornando al caso (a) dalla cui analisi eravamo partiti,
mi sembra plausibile ritenere che agiscano, ad un livello
molto generale, meccanismi di inferenza comuni sia al
bambino sia all’adulto: se quelli di quest’ultimo sono
giustificabili, devono esserlo anche nel primo.
(iii) Viene spesso notato come Piaget tenda a sminuire la
continuità e gradualità del processo di sviluppo 74. In
effetti abbiamo visto come la sua intenzione sia di
fondare la “norma” epistemologica “per mezzo dei dati
mobili dello sviluppo”. Questa sua preoccupazione – di
ordine più epistemologico che psicologico – spiega
verosimilmente l’esigenza di accentuare la discontinuità
tra uno stadio e l’altro: se ogni nuovo stadio aggiunge
qualcosa di nuovo e di irriducibile ai precedenti, risulta
in effetti più facile dar conto di una superiore legittimità
epistemologica delle credenze degli stadi più avanzati75.
73
Il passo è da F. BÜGE, Zur Entwicklung, in Zeitschrift für
Hunderforschung, 1933.
74
Rimando a GOBBO-MORRA (1997) e STANZIONE (1990, pp. 99
ss.).
75
Fodor (in PIATTELLI-PALMERINI, 1991) muove a Piaget la critica
che “non è mai possibile imparare una logica più ricca sulla
base di una logica più debole” (ivi, p. 197): è un punto che
credo debba essere accettato, ma che si inserisce assai bene nel
quadro complessivo che qui difendo, dato che – allontanandoci
da Fodor – può essere utilizzato per sostenere che la logica di
fondo che continua ad agire, anche nell’adulto, è dello stesso
tipo di quella del bambino. Ciò che Fodor ha in mente è una
forma di innatismo maturazionista: condivide con Piaget la
premessa che quello cronologicamente posteriore è “un sistema

323
Non sarebbe però corretto schematizzare troppo la
posizione di Piaget. Nella sua opera si trovano infatti
importanti riferimenti a ciò che rimane come “invariante
funzionale” a tutti gli stadi dello sviluppo (PIAGET,
1973a, p. 353). Il concetto che spiega la genesi
psicologica della norma epistemologica è quello di
“equilibrazione maggiorante”, intesa come movimento
di fondo verso forme di equilibrio sempre più efficienti
nella gestione del rapporto con l’ambiente (PIAGET,
1981, p. 31). Così la “spiegazione del fatto che [le
strutture cognitive] diventano necessarie” è da ricercare
in direzione “di autoregolazioni con il loro
concettuale più ricco di quello che già si possiede” (ivi, p. 198).
Dal mio punto di vista è di estremo interesse l’obiezione di
Anthony Wilden: Fodor e Piaget sottintendono entrambi la
superiorità di una logica basata sul modulo “digitale” (possiamo
dire “razionale-analitico”) e non “analogico” (potremmo dire
“emozionale” e anche “mimetico”, dato che si basa sugli effetti
dovuti alla somiglianza tra le cose e sui rapporti naturali di
causa-effetto): “Fodor esamina gli effetti determinati
dall’utilizzazione di un sistema di logica e di comunicazione
codificato in maniera discreta – sistema in cui gli spazi vuoti tra
gli elementi hanno parte nel codice – per rappresentare o
verbalizzare il continuum analogico non discreto che costituisce
il suo contesto e, in realtà, la sua fonte ultima” (in P IATTELLI-
PALMERINI, 1991, pp. 203-204). Ciò che viene implicato dal
Tractatus è che in realtà il modulo analogico (solipsismo:
l’immagine delle cose che vediamo nel segno proposizionale) e
il modulo digitale (realismo: i rapporti di designazione con
oggetti intesi come “distanti” nel mondo) sono di fatto
perfettamente equivalenti. Le conseguenze su come intendere il
rapporto tra razionalità e non-razionalità nell’uomo sono
fondamentali: si vede un modo per recuperare una forma molto
profonda di monismo. Sono tutti questi temi che
richiederebbero – ovviamente – molto più spazio.

324
funzionamento in circuiti e la loro tendenza intrinseca
all’equilibrio” (PIAGET, 1971, p. 71)76.
L’“autoregolazione sembra proprio costituire
contemporaneamente uno dei caratteri più universali
della vita e insieme il meccanismo più generale comune
alle reazioni organiche e cognitive” (ivi, p. 72). Ai fini
del nostro discorso (v. poco infra), è importante
sottolineare che “si tratta di un funzionamento
costitutivo di strutture, e non di strutture già fatte in
seno alle quali basterebbe cercare quelle che
conterrebbero in anticipo allo stato preformato l’una o
l’altra categoria della conoscenza” (ivi, p. 72): in questo
senso si parla di “invariante funzionale” e non
“strutturale”.
I meccanismi principali di cui si serve l’organismo
per trovare l’equilibrio sono assimilazione e
accomodamento, definiti la prima come “incorporazione
di un elemento esterno (oggetto, avvenimento ecc.) in
uno schema sensori-motorio o concettuale del soggetto”
(PIAGET, 1981, p. 34), il secondo come “la necessità in
cui si trova l’assimilazione di tenere conto delle
particolarità degli elementi da assimilare” (ivi, p. 34).
L’“assimilazione è conservatrice, e tende a sottomettere
l’ambiente all’organismo” (PIAGET, 1973a, pp. 397-398):
il bambino può trattare un giocattolo nuovo applicando
ad esso gli stessi schemi di azione usati per altri tipi di
oggetti, semplicemente “assimilandolo” a realtà già

76
“Uno stato di equilibrio ... è uno stato in cui tutte le virtuali
trasformazioni compatibili con le relazioni del sistema si
compensano l’un l’altra”, rendendo il sistema chiuso e appunto
“necessario” (PIAGET, 1969, p. 45).

325
esperite. In termini logici, potremmo vederla come
un’applicazione del principio di identità (riferito ad un
aspetto – quello riconosciuto come rilevante dal
bambino – dell’oggetto). L’“accomodamento è fonte di
cambiamento e piega pertanto l’organismo agli influssi
successivi dell’ambiente” (ivi, p. 298). L’atto di
percepire un oggetto è già ad es. una forma di
accomodamento, perché comporta una modificazione
negli organi sensoriali dell’organismo.
Si capisce quindi come siano due meccanismi
complementari: “dall’origine, assimilazione e
accomodamento sono indissociabili l’uno dall’altro.
Infatti l’accomodamento delle strutture mentali alla
realtà implica l’esistenza di schemi assimilativi, al di
fuori dei quali sarebbe impossibile qualsiasi struttura. E,
inversamente, la costituzione degli schemi da parte
dell’assimilazione implica l’utilizzazione delle realtà
esteriori alle quali è necessario accomodarsi per quanto
un po’ all’ingrosso” (ivi, p. 398). Ma si ha
accomodamento anche quando viene effettuata
un’esperienza che porti ad una differenziazione (più o
meno rilevante e significativa) degli schemi di azione.
“Se l’assimilazione del reale agli schemi del soggetto
implica un continuo accomodamento di questi, non di
meno l’assimilazione si oppone ad ogni nuovo
accomodamento, ossia ad ogni differenziazione degli
schemi in funzione di condizioni ambientali sino allora
non incontrate. Se l’accomodamento invece prevale,
ossia se lo schema si differenzia, segna l’inizio di nuove
assimilazioni. Ogni conquista dell’accomodamento
diventa perciò oggetto di assimilazione, ma questa

326
resiste di continuo a nuovi accomodamenti” (ivi, p.
398).

13

Ontologia evolutiva

13.1. È una sorprendente analogia con il Tractatus che

327
l’assimilazione, espressione delle istanze della coerenza
logica, lascia il soggetto centrato su se stesso
(idealismo-solipsismo); l’accomodamento invece,
all’inizio troppo elementare per consentire una
conoscenza adeguata del reale, attraverso la
differenziazione degli schemi (quella che Wittgenstein
avrebbe chiamato “molteplicità”) permette
progressivamente l’acquisizione di una comprensione
sempre più “oggettiva” di esso. Non possiamo però
ancora considerare abbastanza incisivo questo
collegamento: è necessario invece procedere ad
un’indagine più accurata, che proverò ad iniziare in
questo paragrafo.
Il quadro delineato da Piaget credo che possa essere
tradotto nei seguenti termini. Ogni accomodamento è
l’effettuarsi di una nuova esperienza, che viene a
comportare però un nuovo schema di assimilazione (per
quanto, in genere, possa essere poco rilevante e
significativo per la vita del soggetto). Già Mach
spiegava i concetti e le uniformità di natura mediante
un’“astrazione idealizzante”, che seleziona il materiale
esistente nella realtà, in modo da produrre così essa
stessa (rispetto al soggetto) delle invarianze. In un’ottica
simile possiamo vedere l’accomodamento come il
verificarsi di una nuova esperienza, l’assimilazione
come l’istanza generalizzatrice che verrà applicata
all’esperienza così effettuata – istanza che agisce a
priori nell’organismo perché, per definizione, esso è
centrato sulle esperienze che ha fatto77, e non su quelle
77
Esperienze che naturalmente deve essere capace di richiamare
in memoria. Uso per semplicità il termine “esperienza”: Piaget

328
che potrà fare in seguito: il punto di partenza è
l’egocentrismo, che solo con lentezza e fatica viene man
mano superato.
In questo modo l’assimilazione può essere vista
come l’applicazione sistematica ed automatica del
principio d’induzione, mentre l’accomodamento
costituirebbe l’atto di apprensione di quella che, negli
studi sull’induzione, è chiamata evidenza iniziale78.

lo considererebbe improprio perché collegato con l’empirismo


(classico). Il fatto è che qui intendo per “esperienza” ogni
possibile contenuto dell’attenzione (innato o acquisito, pensiero,
emozione, impulso, sensazione cinestetica etc. – per ogni
possibile “misura” di attenzione > 0). La controversia
innatismo/empirismo viene così semplicemente scavalcata. A
scegliere di applicare in modo più radicale questa strategia,
avremmo il risultato che in effetti, a rigore, tutta
l’epistemologia genetica potrebbe essere falsa, senza che la mia
teoria possa essere per questo – logicamente – contraddetta: il
terreno sul quale si muove Piaget è (per metodo) interamente
quello dei fatti empirici. Il punto è però che, se appaiamo le due
impostazioni, fondazionale e genetica – ammesso che la mia
concezione sia nel giusto –, ne riceviamo un fondamentale
guadagno di tipo euristico.
78
Un bell’esempio dei risultati di questo meccanismo, è offerto da
Piaget-Inhelder (1977, p. 8): “l’ombra prodotta da uno schermo
sul tavolo è detta provenire «dall’ombra degli alberi», ecc.,
senza che il bambino scelga tra l’individuale (la stessa sostanza
spostata di luogo) e il generico (la stessa categoria di
fenomeni)”. Più in generale sull’argomento rimando a Benelli
(1989). Sono facili da identificare una varietà di strumenti
teorici che permettono di descrivere l’intervento dell’induzione
nella costruzione della conoscenza: basti qui ricordare il
fondamentale concetto di script (Nelson, Schank e Abelson) o le
posizioni, datate ma significative, di Werner sul “sincretismo”.
Anche uno studioso storicamente importante per il pensiero

329
Possiamo richiamare inoltre quanto Piaget dice sul
“sincretismo” del bambino, il quale prende “la propria
percezione per assoluta” (1958, p. 237): “Dapprima due
oggetti appaiono simultaneamente nella percezione del
bambino od anche due caratteri sono dati insieme nella
rappresentazione. D’allora in poi il bambino li
percepisce o li concepisce come legati o meglio come
fusi in un unico schema. Infatti questo schema prende
forza di implicazione reciproca, ciò val quanto dire che
se si isola uno dei caratteri dal tutto e si domandano al
bambino le ragioni di questo carattere, il bambino
invoca semplicemente l’esistenza degli altri a titolo di
spiegazione o di giustificazione” (ivi, p. 239). A
scansare il sospetto che possa essere questo un punto
marginale nella costruzione teorica piagetiana,
ricordiamo come il sincretismo giochi un ruolo
essenziale nello spiegare le difficoltà del bambino nel
padroneggiare la logica delle relazioni: se non è in
grado di inferire, da “A è più alto di B”, che “B è più
basso di A” è perché tratta “essere-più-alto-di-B” come
una proprietà “assoluta” di A – come sarebbe descritta
da una logica soggetto-predicato – e non come una
“relazione” (PIAGET, 1958, ad es. pp. 77 ss.). Ma a sua
volta la stessa “logica delle relazioni è immanente ad
ogni attività intellettuale”, attraverso la mediazione
della nozione di gruppo, che costituisce “il principio di
quel sistema di operazioni che i logici hanno chiamato
«logica delle relazioni»” (PIAGET, 1973a, p. 232), e che

antropologico come Levy-Bruhl ha portato l’attenzione sulla


difficoltà del “pensiero primitivo” di distinguere tra individuo e
specie.

330
costituisce la chiave di volta di tutta la progressiva
“costruzione del reale”.

13.2. Possiamo infine far intervenire i risultati


dell’analisi condotta sul Tractatus, in base ai quali è
possibile difendere una forma di induttivismo,
relativizzato al soggetto metafisico: l’“io metafisico” di
Wittgenstein è, nei termini di Piaget, il bambino, e poi
l’adulto, che comunque, stando al Tractatus (ma anche a
Piaget), dovrà conservare sempre una misura di
“egocentrismo” (formalmente, anche se non in senso
sostanziale, l’egocentrismo-solipsismo nel Tractatus è
sempre completo, dato che dipende da una necessità
logica). Le caratteristiche di questo modello che voglio
sottolineare sono:
1) Un progetto fondazionale quale quello del Tractatus
viene ad essere – dopo una serie di passaggi –
sovrapponibile al quadro dell’epistemologia genetica.
Viene scansata la consueta divaricazione tra
fondazionalismo e naturalizzazione dell’epistemologia,
utilizzando le due vie in modo indipendente per dare
sostegno alla stessa teoria.
2) Il progetto fondazionale che viene proposto deriva
molta della sua plausibilità proprio dal fatto di avere un
carattere solo metodologico e formale: ciò che viene
giustificato è il metodo induttivo di generalizzazione,
ma non si dice nulla su quale sia l’evidenza iniziale da
assumere, né quindi si dice nulla su quali contenuti
teorici specifici vadano accettati. È nella logica della
picture-theory che l’unica evidenza iniziale che posso
assumere è quella che definisce i limiti del mio io

331
metafisico, ma “nessuna parte della nostra esperienza è
anche a priori. Tutto ciò che vediamo potrebbe anche
essere altrimenti” (5.634). Tutto il nostro discorso
fondazionale può solo pronunciarsi sul metodo, non sui
contenuti. Inoltre si considera che sia un “metodo” che
agisce a priori nel soggetto, indipendentemente dalla
circostanza che abbia ricevuto o no una legittimazione
epistemologica cosciente di cui il soggetto debba essere
convinto. La speranza che si profila è significativa, ma
in linea di principio non corre il rischio di essere
irrealistica come invece appare la pretesa di
pronunciarsi con il rigore richiesto dal fondazionalismo
su specifici contenuti di sapere.

13.3. Possiamo procedere a fare un confronto più


preciso tra l’epistemologia genetica e il Tractatus. Nei
passi citati abbiamo visto usare in posizione di grande
rilievo il concetto di isomorfismo, che rimanda subito
alla picture-theory. Così come il concetto di azione
rimanda in effetti all’idea di Wittgenstein che le
proposizioni (e i pensieri) siano (i) il prodotto della
composizione da parte del soggetto degli oggetti in fatti,
(ii) fatti dello stesso livello delle situazioni raffigurate.
Per Piaget, prima della piena maturità operatoria,
l’intelligenza è senso-motoria o concreta, con
un’analogia significativa con il Tractatus, ma anche in
seguito, alla coordinazione dei movimenti necessaria
per compiere azioni efficaci, corrisponde “il sistema
delle coordinazioni operatorie, che trasforma gli oggetti
del pensiero come l’azione modifica gli oggetti
materiali. A questo proposito l’operazione non è la

332
rappresentazione di un’azione; essa è propriamente
parlando ancora un’azione, in quanto è costruttiva di
novità” (PIAGET, 1976, p. 248). La relazione che Piaget
pone tra epistemologia e biologia (quindi le azioni di
organismi positivamente dati) è chiaramente affine alle
posizioni espresse nel Tractatus. Riguardo al problema
della negazione, lo psicologo svizzero è esplicito nel
sostenere che “poiché il cammino spontaneo della
mente consiste nel centrarsi sulle affermazioni o sulle
caratteristiche positive degli oggetti, delle azioni, o
anche delle operazioni, le negazioni sono trascurate o
vengono costruite solo in un secondo momento e
laboriosamente” (PIAGET, 1981, p. 43). È nella logica
della sua teoria che si debba dare priorità all’“azione
attuale”, e non al “virtuale o il possibile”: “la specificità
del metodo genetico ... consiste nel considerare il
virtuale o il possibile come una creazione che l’azione
attuale e reale persegue continuamente: ogni nuova
azione, nel mentre che realizza una delle possibilità
generate dalle azioni precedenti, apre a sua volta un
insieme di possibilità, fino allora inconcepibili” (PIAGET,
1982, p. 65). Nella mia interpretazione del Tractatus,
abbiamo visto che: (i) i contenuti “negativi” di pensiero
sono – formalmente – indeterminati, e quindi, a rigore,
inesistenti, (ii) i dati presenti che costituiscono la
proposizione, contengono la possibilità delle situazioni
future.
Gli aspetti ora richiamati sono punti importanti, che
contribuiscono di molto ad attenuare l’impressione che
tra Piaget e Wittgenstein esista un abisso incolmabile,
ma gioca un ruolo ancora più significativo un altro

333
concetto che pure percorre tutta l’opera di Piaget: quello
di egocentrismo. L’autore svizzero descrive così il
processo di “costruzione del reale nel bambino”: “si può
dire che durante i primi mesi di vita, sino a che
l’assimilazione resta centrata sull’attività organica del
soggetto, il mondo non presenta né oggetti permanenti,
né spazio obiettivo, né tempo che colleghi tra loro gli
avvenimenti come tali, né causalità esterna alle azioni
proprie. Se il bambino avesse coscienza di sé,
bisognerebbe concludere che c’è solipsismo, ma si può
almeno parlare di egocentrismo radicale per designare
questo fenomenismo senza coscienza di sé, dato che i
quadri (tableaux) mobili che il soggetto percepisce sono
da lui conosciuti solo in relazione con la sua attività
elementare. All’estremo opposto, ossia quando
l’intelligenza senso-motoria ha elaborato la conoscenza
tanto da rendere possibile il linguaggio e l’intelligenza
riflessa, l’universo è invece costituito in una struttura
che è insieme sostanziale e spaziale, causale e
temporale” (1973a, p. 3). Quello iniziale è “un mondo di
quadri ciascuno dei quali può essere più o meno
conosciuto ed analizzato, ma che spariscono e
riappariscono capricciosamente”: “un universo senza
oggetti è un universo in cui l’io viene assorbito nei
quadri esterni, perché non conosce ancora se stesso, ma
in cui questi quadri si incentrano sull’io, perché non lo
comprendono come una cosa tra le altre, e mantengono
così tra loro rapporti che non dipendono da lui” (ivi, p.
6).
Il neonato è visto come “un solipsista che ignorasse
se stesso in quanto soggetto e non conoscesse che le sue

334
azioni” (ivi, p. 397): è immediato il collegamento con il
solipsismo in Wittgenstein. Per Piaget “Nella misura ...
in cui gli schemi si moltiplicano e si differenziano,
grazie alle loro assimilazioni reciproche e insieme al
loro progressivo accomodamento alle varietà del reale,
quest’ultimo si dissocia a poco a poco
dall’assimilazione e nello stesso tempo assicura una
graduale distinzione dell’ambiente esterno e del
soggetto” (ivi, pp. 395-396). In maniera simile, abbiamo
visto che per Wittgenstein le intuizioni del realismo
vengono salvate attraverso il carattere essenziale delle
proposizioni, di essere articolate: articolazione e
differenziazione degli schemi sono, per entrami gli
autori, la chiave di accesso per guadagnare una visione
oggettiva del mondo (ispirata al realismo). Piaget, meno
attento ai problemi più strettamente filosofici, ritiene di
poter dare per scontato che così si ottenga un accesso (in
qualche senso) al mondo esterno. Wittgenstein, che vede
questo come il suo problema principale, conclude
invece che può esserci solo una riduzione della nostra
nozione di “esterno”, a ciò che è rigorosamente
“interno” alla nostra visuale soggettiva.
Ai fini del discorso che qui cerco di costruire, è di
particolare rilievo la concezione proposta dello spazio e
del tempo: “lo spazio ... è l’attività stessa
dell’intelligenza, in quanto questa coordina gli uni agli
altri i quadri esterni” (ivi, p. 235), “il tempo, come lo
spazio, si costruisce a poco a poco ed implica
l’elaborazione di un sistema di rapporti” (ivi, p. 359).
Ricordiamo inoltre che, già al livello senso-motorio,
“l’atto con cui si conferisce obiettività agli spostamenti

335
delle cose implica già un allargamento della prospettiva
egocentrica iniziale” (ivi, p. 414), ma dopo il
completamento dello spazio pratico obiettivo, il
progresso successivo in questa direzione dipenderà da
fattori essenzialmente diversi: “Perché infatti il
soggetto, in un certo momento del suo sviluppo mentale,
cerca di rappresentarsi i rapporti spaziali, invece di
limitarsi ad agire soltanto su di essi? Evidentemente per
comunicare con altri o per ottenere da altri alcune
informazioni su di una realtà che si riferisce allo
spazio ... rappresentarsi lo spazio, o gli oggetti nello
spazio, significa necessariamente conciliare in un unico
atto le diverse prospettive possibili sul reale e non
accontentarsi più di adottarle l’una dopo l’altra” (ivi, p.
415).
Il realismo di fondo è sempre presente: “In un certo
senso, sia del tempo che dello spazio possiamo dire che
esistono già in ogni percezione elementare: ogni
percezione ha una durata, come ha un’estensione. Ma
questa durata primitiva è tanto lontana dal tempo
propriamente detto [organizzato secondo un sistema
operatorio] quanto l’estensione della sensazione lo è
dallo spazio organizzato” (ivi, p. 359). Ma questa
concessione (peraltro ammessa con molte riserve79) è in
realtà una debolezza dell’impianto teorico complessivo,
dato che viene in ogni caso introdotta (nella misura in
cui ciò avviene) come semplice evidenza preliminare,

79
L’“importante è di concepire questo dato di estensione
[spaziale] non come esistente in sé, ma soltanto in relazione con
l’intelligenza che gli fornisce progressivamente una struttura”
(ivi, p. 235).

336
che non si sente il bisogno di argomentare, derivando la
sua plausibilità da una previa accettazione dei principi
di fondo del realismo.

13.4. Tentando una via che va di certo assai oltre le


intenzioni di Piaget, vorrei allora proporre il seguente
quadro:
1) Il neonato dispone naturalmente solo della
conoscenza che gli è data nell’immediato (inclusa
quella innata, che, pur avendo la sua causa in radici
biologiche, comunque – per essere “conoscenza” – deve
essergli, a qualche titolo, presente). Ha davanti a sé un
insieme di oggetti che appaiono e scompaiono
disordinatamente. Ma questo loro carattere non
compromette le tesi sull’immutabilità degli oggetti:
significa solamente che ad ogni istante il bambino si
raffigura – nella memoria e nella previsione, per quanto
ne è capace – immagini tra loro slegate. In termini più
precisi – e utilizzando l’analisi fatta del Tractatus – è
solo nella prospettiva del realismo che ha senso parlare
del carattere “effimero” degli oggetti. Possiamo dire che
il bambino “vive nel presente”: avverte le sole cose
attuali come se fossero il tutto. Nei termini
dell’empirismo, non conosce “leggi di natura”.
2) La progressiva acquisizione di nuove esperienze,
permette al bambino di costruire un’immagine sempre
più elaborata e strutturata del mondo: procede
semplicemente per induzione. Opera per
generalizzazioni induttive, perché questa è una necessità
che agisce a priori nella mente di ogni soggetto
epistemico.

337
3) Possiamo quindi tornare all’obiezione che prima ho
posto a Quine: quello delineato è infatti un progetto
fondazionale (relativizzato al soggetto) che
contemporaneamente ricalca la descrizione
“naturalizzata” dello sviluppo delle conoscenze
individuali. È in questo modo che possiamo tener conto
sia delle esigenze di coerenza e rigore epistemologico
poste dal fondazionalismo, sia della forte incisività che
l’epistemologia naturalizzata riceve dal riferimento a
dati concreti di osservazione.
La mia impostazione in particolare consente di
aggirare i vincoli molto restrittivi imposti dal
riferimento di Quine a “dati sensoriali” come base del
processo di ricostruzione razionale. La nozione da cui
parto è quella di “esperienza” in senso lato, ossia di
“oggetto”, che, come sappiamo, scavalca a monte ogni
possibile distinzione tra psichico e fisico, sensoriale e
concettuale etc. Il fatto è che anche un termine
rigorosamente teorico è pur sempre, in quanto contenuto
di coscienza del soggetto che lo afferra, un’esperienza.
E, per l’argomentazione di Hume (e Wittgenstein),
sappiamo che non possiamo andare oltre il contenuto
proprio della “mente” (da caratterizzare, a rigore, come
io metafisico): il contenuto di comprensione che un
termine teorico può dare sta quindi tutto nella
modificazione che riesce a produrre sulla coscienza.
L’efficacia esplicativa che un termine “teorico” può
assumere deriva dalla rete di associazioni mentali che
innesca: si può dire che è un ente (mentale) prodotto
“artificialmente” (intendo: soprattutto da eventi
precedenti identificati a loro volta come “mentali” in

338
senso psicologico e non materiali) e congegnato in
modo da rendere attuabile una descrizione dei fenomeni
per quanto possibile coerente, semplice e completa.
Rispetto all’io metafisico, se tale entità esiste, è ipso
facto giustificata, come per ogni altro “oggetto”. In
questo quadro, il problema di individuare il referente
“reale” dei concetti teorici, per quanto possa porsi
(riferendosi alla relazione tra contenuti che però sono
tutti interni all’esperienza dell’io metafisico), perde di
mordente. Inoltre, come vedremo meglio in seguito, con
i soli mezzi qui indicati non possiamo più porci
l’obiettivo, essenziale nelle intenzioni di Carnap, della
“convalidazione dei fondamenti della scienza empirica”
(Quine,1986, p.100), che è per definizione
intersoggettiva e richiede perciò procedure molto più
specifiche di convalida.
Possiamo aggiungere: 4) per Wittgenstein la
confusione metafisica fondamentale è dovuta al
condizionamento del linguaggio, strutturato in
proposizioni.
5) Il neonato naturalmente non è stato ancora esposto al
suo influsso, ma quando, crescendo, inizierà ad
interessarsi di ontologia, ne sarà inevitabilmente
condizionato. È verosimile quindi che da ciò sia portato
a ritenere plausibile una metafisica che vede il mondo
organizzato strutturalmente in stati di cose “complessi”.
6) A una tale metafisica è associato per forza di cose il
problema di spiegare quella che, a questo punto,
dovrebbe apparire una coincidenza stupefacente, per cui
serie praticamente infinite di eventi diversi, si
presentano tutti nella stessa forma o in forma molto

339
simile (ogni mattina vediamo il sole sorgere etc.).
7) La postulazione che esistono uniformità di natura,
serve a sanare, con un intervento ad hoc, il paradosso
che sarebbe rappresentato da una coincidenza così
singolare. Ciò che si ottiene però (da un punto di vista
epistemologico) è solo di dare un nome al problema,
dato che questo viene semplicemente spostato.
8) Se si ammette invece la mia ricostruzione, scompare
la necessità di postulare una coincidenza così
miracolosa. Quelle che per l’influsso del linguaggio
siamo portati a vedere come uniformità di natura
(ripetizioni di una stessa combinazione di elementi in
contesti differenti), sono semplici espressioni del
principio d’identità (un’unica coppia – o n-pla – di
oggetti che rimane – necessariamente – uguale a se
stessa).

13.5. L’argomentazione che ho presentato suona così: la


“sostanza del mondo” (ciò che io ora constato) è
costituita di elementi, gli “oggetti”, necessariamente
inalterabili e uguali a se stessi (per il solo principio
d’identità). Se esiste una relazione tra due di tali oggetti,
essa dovrà essere, allo stesso modo, costante. Ma in che
senso si può parlare di oggetti semplici, che però sono in
relazione tra loro?
Accenno una traccia di risposta. L’inalterabilità degli
oggetti sta nel fatto che possono figurare in contesti
proposizionali diversi, ma ogni volta rimanendo sempre
rigorosamente identici a se stessi. Ne segue che quando
ci rappresentiamo la circostanza che A è nella relazione
R con B, possiamo intendere che R sia un terzo

340
elemento, ma non che riesca a modificare la fattezza di
A o di B. In termini intuitivi questa idea sembra difficile
da accettare: se dico “L’albero nel giardino”, ho in
mente un determinato albero, che è un altro da quello
cui penso se dico “L’albero nel bosco”. Le
determinazioni che aggiunge il contesto modificano
(rendono diverso) l’elemento.
Il paradosso che sembra sorgere è proprio ciò che ci
permette di spiegare l’induzione: “albero”, in entrambi i
contesti, indica una stessa realtà, che perciò avrà uguali
proprietà (dovrà avere uguali tutte le proprietà?
Cercherò di risolvere questo problema in seguito). Qui
vorrei osservare che se psicologicamente siamo portati a
pensare che invece R modifichi, in qualcosa, A e B,
probabilmente è a causa di una confusione, per la quale
pensiamo ad un elemento A sempre some se fosse
dotato di un sostrato, che rimane immutato nel
cambiamento: l’essere nella relazione R con B sarebbe
solo una delle possibili condizioni in cui può trovarsi A.
Ma ragionare così significa confondere due piani
differenti: nel caso degli oggetti concreti, un tale
“sostrato” in un certo senso c’è. Se sposto un armadio in
una stanza, comunque rimangono inalterati una serie di
elementi che mi permettono di continuare ad
identificarlo come tale, anche se ad es. la relazione di
“distanza” rispetto ad una parete verrà modificata. Ma
sul piano dei singoli oggetti elementari, esprimere
un’attesa simile non avrebbe senso, dato che per
definizione sono semplici80.
80
Per quanto un tale genere di richiamo possa apparire qui
sorprendente, un buon modo per visualizzare la relazione tra

341
Lo sforzo maggiore d’astrazione deve essere fatto per
capire in che modo un singolo oggetto semplice possa
essere contemporaneamente in molte relazioni diverse.
Ma la difficoltà è solo di ordine psicologico, e deriva dal
fatto che trasferiamo le abitudini di pensiero relative
agli oggetti della vita quotidiana, al livello ben diverso
degli oggetti elementari. L’essere A nella relazione R
oggetti elementari è offerto dal concetto di Gestalt. Induttivismo
e gestaltismo sono stati visti in genere in competizione, ma
questo non deve influenzarci: l’associazionismo induttivista ha
stretto storicamente una parentela molto forte con il
comportamentismo, ma la necessità, propugnata da
quest’ultimo, di non usare che dati pubblici e intersoggettivi,
viene qui del tutto rifiutata (o nella peggiore delle ipotesi, vista
come un vincolo speciale che agisce, sotto certe condizioni –
diverse da quelle stabilite dal comportamentismo radicale –,
nell’attività propria della comunità scientifica), quindi possiamo
sostanzialmente tirarci fuori dalla polemica tra gestaltisti e
comportamentisti. Il senso che abbiamo, invece, di fronte ad
una “forma”, che essa debba essere qualcosa di molto di più che
la semplice somma delle sue parti, può essere ragionevolmente
spiegato come dovuto proprio ad un’associazione tra elementi
A, B, ..., costituita e consolidata al punto da rendere impossibile
distinguere tra (i) la “conta” degli elementi separati A, B, ..., e
(ii) la previsione (che scatta automaticamente), a partire da A,
che debbano darsi anche B etc. Ci sembra inconcepibile che A,
B etc. possano essere dissociati (o comunque non capiamo
come possa essere il caso che uno degli elementi si dia, ma
senza nessuno tra quelli che compongono un repertorio di
elementi tra loro alternativi che sentiamo come “congruenti”
con il primo). (È interessante in effetti che nel sogno possiamo
cogliere con precisione un certo aspetto di un’entità, ma non
altri che da svegli consideriamo indissociabili, ad es. un colore
senza una figura con una qualche forma. Possiamo richiamare
anche varie forme di agnosia, ad es. quella “integrativa”, che
consiste nel cogliere i particolari ma non saperli comporre a

342
con B, significa solo che si danno: A, B. Senza alcuna
possibilità di modificare il loro essere ontologico, né di
intervenire attraverso una sub-specificazione di qualche
loro “parte” o “aspetto” (che non c’è) per ottenere
comunque una variazione in virtù di R. Se vogliamo,
possiamo ammettere un terzo elemento R, ma dato che
esso non può più svolgere alcun ruolo ontologico
particolare di “raccordo” tra l’essere di A e di B, la
mossa non ha effetti rilevanti. Il modo consueto di
esprimersi, che vede A, R e B come tre realtà distinte,
può essere semmai giustificato da un punto di vista
pratico, data la necessità di tener conto di un numero
enorme di oggetti elementari, e di dover procedere
quindi ad una loro classificazione in raggruppamenti più
o meno stabili (somiglianze di famiglia). Questo è un
primo elemento che porto, per ora, per rendere più
convincente la mia analisi: nel seguito svilupperò il
ragionamento in forma più sistematica, e si troveranno
allora anche altre ragioni a sostegno della mia
concezione.

formare l’intero). È di estremo interesse il fatto che Piaget


contesta che il grado di “pregnanza” delle “buone forme” sia lo
stesso ad ogni età: sembra esattamente che con il passare degli
anni, le “buone forme” siano riconosciute meglio (P IAGET,
1973b, pp. 129 ss.). Il concetto di Gestalt è utilizzato in realtà
da Piaget in modo assai esteso, per riferirsi alle “strutture”
cognitive in quanto tali. Nella direzione qui proposta vanno
affermazioni come: “La costruzione delle relazioni spaziali, più
ancora di quella degli schemi percettivi particolari, attesta
dunque il primato dell’attività intellettuale sulle strutture belle e
fatte, primato che la Gestaltpsychologie ci sembra trascurare”
(1973a, p. 241).

343
14

Conoscenza induttiva e conoscenza a posteriori

344
14.1. Senza che sia necessario qui fare un’esame più
accurato della questione, vorrei ricordare come alcuni
importanti filosofi, D. M. Armstrong, F. Dretske e M.
Tooley, hanno proposto una teoria dell’induzione per la
quale “the laws of nature are relations holding between
universals” (ARMSTRONG, 1985, p. 85). Premesso che qui
mi limiterò a discutere la versione di Armstrong, mi
sembra si possano trovare analogie interessanti con la
mia concezione.
Bisogna precisare che si danno in realtà motivi di
contrasto che rendono diverso alla base il contesto
teorico: 1) l’autore assume “the truth of a Realistic
account of laws of nature”, i. e. “that they exist
indipendently of the minds which attempt to grasp
them” (ivi, p. 7): viene esclusa la possibilità di una loro
giustificazione per via idealistico-trascendentale.
2) Gli universali sono caratterizzati in senso antitetico al
platonismo, pure relativamente più affine a una nozione
come quella di “oggetti” nel Tractatus: “universals can
be brought into the spatio-temporal world, becoming
simply the repeatable features of that world” (ivi, p.
82); “there is something identical in each F which
makes it an F, and something identical in each G which
makes it a G” (ivi, p. 78).
Armstrong, parlando del platonismo, riconosce che,
se se questa teoria è “extremely mysterious”, “The
mystery is only a little reduced by bringing the Forms to
earth and letting them exist only in their instantiations.
We still have the puzzle of a relation between the
universals which logically necessitates something
distinct from itself: the uniformity. A closely connected

345
difficulty is that the relation N which is said to hold
between the universals lies under suspicion of being no
more than ‘that which ensures the corresponding
uniformity’” (ivi, p. 86). Il tentativo è quindi di
assimilare “the relation betwen law and positive
instantiation of the law to a particular case of that of a
universal to its instances” (ivi, p. 39). Si riconosce però
che “This idea, that the state of affairs constituted by
N(F,G) [v. subito infra], is itself a universal, will not
solve the whole problem of understanding the
entailment. In the end, as we shall see, the relation of
nomic necessitation, N, will have to be accepted as a
primitive. But if we can also accept that N(F,G) is a
universal, instantiated in the positive instances of the
law, then I think, it will be much easier to accept the
primitive nature of N” (ivi, p. 88).
3) La strategia con la quale la tesi è introdotta, è vista
come

a case of an inference to the best explanation ... The law,


a relation between universals, is a theoretical entity,
postulation of which explains the observed phenomena
and predicts further observations. Many philosophers of
science have distinguished between ‘simple induction’ –
the argument from observed Fs to all Fs – and the
argument to hidden or theoretical entities (Peirce’s
‘abduction’). It seems to be a great and intellectually
encouraging simplification that, given our account of
laws, the two sorts of argument are shown to be not really
two. (ivi, p. 104)

In questo spirito, e coerentemente con (1), non esiste

346
un modo per derivare l’esistenza di un certo
“universale” dall’esistenza di un corrispondente
contenuto di pensiero. L’ipotesi è discussa nella sua
versione semantica, “with universals corresponding to
each general word or phrase” del linguaggio parlato: “I
call this a priori Realism (about universals). Against it,
I wish to uphold an a posteriori Realism. On the latter
view, just what universals there are in the world, that is,
what (repeatable) properties particulars have, and what
(repeatable) relations hold between particulars, is to be
decided a posteriori, on the basis of total science” (ivi,
p. 83).
Possiamo ora articolare in maniera più precisa alcune
obiezioni. (i) Un’abduzione risulta effettivamente
esplicativa: (a) se la connessione che lega gli eventi
ricostruiti per inferenza con il fenomeno da spiegare, è
già stata stabilita – indipendentemente – grazie ad altri
casi. Posso dire che un incendio è doloso se so che i
focolai iniziali sono stati più di uno, e se so,
indipendentemente dal caso in questione, che è
statisticamente difficile che in quell’ambiente possano
insorgere contemporaneamente diversi principi di
incendio. Se ciò che si deve inferire è qualcosa di cui
dobbiamo ancora argomentare l’esistenza, la situazione
in cui ci troviamo non può essere di questo tipo. Ma
pure (b) nella scienza si danno molti casi in cui viene
inferita l’esistenza di entità, ad es. gli elettroni, che non
erano state affatto rese note da altri contesti. Se si
accetta l’introduzione di queste entità, è però sempre per
meccanismi legati all’induzione: consentono di fare
previsioni e stabilire leggi ben confermate, che

347
affermano “uniformità di natura”, cosa che nel caso
degli universali peraltro non può avvenire81. La
spiegazione data dell’induzione presuppone quindi
proprio ciò che è da spiegare, l’esistenza di “uniformità
di natura”, oltre a non avere in effetti una base di
supporto “induttivo” adeguata – se non in un senso solo
intuitivo e soggettivo.
I passi citati mostrano che Armstrong si rende ben
conto di questa difficoltà: tutto sommato, induzione a
abduzione sono identificate, ma allora, dato che
l’induzione è giustificata grazie all’inferenza, per
abduzione, degli universali, l’induzione è giustificata
mediante se stessa.
Nella mia prospettiva, però, proprio la scelta di
conservare la posizione di fondo – pur con le difficoltà
viste – diventa di estremo interesse: “If F and G are
related by a diadic relation, a relation whose terms are
confined to these two universals, then it cannot be that
they have this relation at one time or place, yet lack it at
another. The universals F and G are exactly the same
things at their different instantiations. They cannot
81
O anche – almeno psicologicamente – il ricercatore coglie
analogie tra il caso che studia e altri che pure per altri aspetti (la
cui importanza sarà valutata soggettivamente) sono diversi:
nell’es. di sopra, possiamo pensare all’analogia tra struttura
dell’atomo e sistema solare. Nel nostro caso, quali sono le
analogie intuitive che possono dare sostegno alla visione di
Armstrong? È proprio su questo punto che tra poco mi
soffermerò. Per quanto riguarda l’argomentazione che sto ora
conducendo, se si vuole che l’analogia con un qualche altro
campo di fenomeni sia possibile, è necessario comunque
presupporre delle “regolarità” in questo diverso campo di
fenomeni.

348
dissolve into different F-nesses and G-nesses at different
places and times: if they do, we are not dealing with
unitary universals, that is, with universals” (ivi, p. 79).
Quello che è da sottolineare è che un tale meccanismo
concettuale, ben lontano dall’essere considerato
implausibile – per quanto comporti un notevole
allontanamento da premesse che possano apparire
autoevidenti – è visto invece come già (in parte)
esplicativo del problema dell’induzione. Mi sembra che
così si mostri la forte incisività intuitiva del
ragionamento di per se stesso – anche
indipendentemente dai diversi contesti teorici in cui è
collocato: se F e G sono in relazione, e se sono entità
che non mutano, anche la relazione tra F e G non può
mutare. D’altra parte è appena il caso di ricordare come
sin da Socrate i due problemi, induzione ed universali,
siano stati saldamente legati.
Possiamo cogliere inoltre l’occasione per discutere
brevemente i problemi associati al “realismo moderato”
nel dibattito sugli universali. Trascurando tutte le
implicazioni storico-filosofiche – per quanto importanti
– di questa lunga controversia, pongo qui la questione in
termini strettamente teoretici. Se ho la rappresentazione
di un’entità, la richiesta che questa rappresentazione sia
attendibile, implica (tra l’altro) che mi presenti come
singolo ciò che, nella realtà, è singolo, come molteplice
ciò che è molteplice. Se un termine (ad es. “uomo”)
sembra fare riferimento ad una pluralità di casi (molti
uomini), il rischio è di dover concludere che una
rappresentazione, che rimane sempre uguale a se stessa,
indichi di volta in volta realtà diverse. Come si vede, il

349
problema è lo stesso che torna in filosofia analitica
quando si fa appello al principio del contesto: il
significato di un termine semplice sembra che si debba
stabilire in funzione del contesto in cui compare.
Possiamo chiederci se vale a spiegare ciò una forma
di realismo moderato quale quella impiegata da
Armstrong. Mi sembra però che le difficoltà siano
insormontabili: (i) se la rappresentazione è una (i. e. è
sempre uguale se stessa), e se è la nostra
rappresentazione dell’ente, ci obbliga a vederlo come un
solo ente: l’essere-uomo, in ogni uomo, dovrebbe essere
visto esattamente come sempre la stessa entità. (ii) Se la
rappresentazione è molteplice (i. e. è diversa da caso a
caso, a causa dell’utilizzo di un diverso contesto
proposizionale o altro), non possiamo riconoscere nelle
diverse situazioni una stessa presenza identica: se la
rappresentazione è modificata attraverso il contesto
della proposizione, non ci rappresentiamo più una stessa
presenza, uguale in ogni situazione. Ma allora come
facciamo a dire che ogni volta è esemplificato lo stesso
universale? Il fatto è che psicologicamente ragioniamo
(a) come se la modificazione fosse sì avvenuta, ma
avendo comunque noi accesso alla realtà come era
descritta dalla rappresentazione non ancora modificata
(realismo ingenuo); ma per riuscire in ciò “dovremmo
poter pensare ambo i lati di questo limite” dei nostri
pensieri (pensare sia nel modo in cui facevamo prima,
sia nel modo attuale: rappresentandoci l’essere-uomo
come uguale ma anche come diverso da una situazione
all’altra). (b) Anche qui trasferiamo abitudini di
pensiero valide per gli oggetti – enormemente compositi

350
– della vita quotidiana, applicandole al piano del tutto
diverso dei loro costituenti elementari. Per i primi si può
pensare (seguendo la traccia indicata da Aristotele con il
concetto di “analogia”) che va ammesso che due
esemplificazioni dello stesso universale non sono
identiche in maniera assoluta, ma solo “analoghe”: una
parte dell’entità è comune alle sue diverse
esemplificazioni, un’altra no. Ma ciò implica che ci
riferiamo ad entità composite (per alcuni aspetti esse
sono uguali, per altri no), quindi lo stesso problema si
ripresenta per quelli di questi aspetti, ai quali sia
affidato il compito di ripresentarsi – uguali a se stessi
ma pure diversi – da un contesto all’altro. Il regresso
può concludersi solo se si accetta, con Wittgenstein, una
“sostanza del mondo” fatta di oggetti semplici e non
“ripetibili” (se sono semplici e immodificabili, non
possono darsi in una pluralità di casi, se non intendendo
che “ripetibilità” significhi occorrere – identico, anche
numericamente – in più di uno stato di cose).

14.2. Vorrei ora tornare a discutere che cosa possiamo


attenderci da una teoria dell’induzione elaborata su
queste linee. Partendo da una tale idea, chi voglia sapere
che ruolo hanno le generalizzazioni empiriche nella
ricerca scientifica, dovrà procedere con un metodo
puramente storico-descrittivo: andando a ricostruire in
che modo gli scienziati operano nella pratica effettiva
della ricerca.
Il fatto è che il problema, nella mia impostazione, ha
un carattere esclusivamente empirico. Se “scienza” è,
per definizione, un sapere costruito in modo da essere

351
intersoggettivo e poter dare risultati riproducibili, allora
la questione diventa essenzialmente di sapere quanto le
evidenze empiriche iniziali possedute da ciascun
ricercatore (e più in generale le rispettive pre-
comprensioni teoriche) siano condivise in modo più o
meno spontaneo e naturale dagli appartenenti alla
comunità scientifica – viceversa le divergenze andranno
interpretate (tautologicamente) come la proposta di una
nuova ipotesi esplicativa, che rimane solo opinione di
alcuni –, e tutto questo è un problema che può essere
discusso solo avvalendosi di dati di tipo storico e
psicologico82. La giustificazione epistemologica vera e
propria del sapere (scientifico e non), viene però non dal
consenso della comunità scientifica (o della società in
generale), ma dall’induzione che il soggetto applica ai
dati che ha. In che misura poi una persona ha fiducia
nelle affermazioni di chi è socialmente riconosciuto
come appartenente alla “comunità scientifica” (inclusi
gli esperti nelle applicazioni) dipende a sua volta dalle
esperienze fatte da quella persona al riguardo: se ha
riscontrato che le affermazioni degli “scienziati” (nel
senso socio-istituzionale) hanno fallito un numero n di
volte, si farà un’opinione corrispondente della loro
attendibilità. (Non è qui il caso di scendere in un’analisi
dei meccanismi psicologici che portano ad accettare un
82
Tutto sommato si può considerare questa una versione idealista,
equivalente al realismo di Armstrong: quelli che la scienza
(definita come ricerca di saperi intersoggettivi) stabilisce di
poter identificare (con la necessaria incertezza ed
approssimazione) come universali, sono determinabili solo a
posteriori. Quelli che per Armstrong sono “universali”, qui sono
invece le frazioni dei dati che risultano essere condivise.

352
parere perché sentito come “autorevole”, o delle
difficoltà di comprensione etc.).
In effetti Hume aveva sollevato il problema
dell’induzione avendo in mente in primo luogo il
problema aristotelico della sostanza. Nel corso del ‘900,
l’attenzione è tornata a soffermarvisi per motivi del tutto
diversi, legati alla possibilità di giustificare o meno, da
un punto di vista logico e filosofico, il metodo
scientifico. Questo contesto particolare ha fatto sì che
tutto il dibattito fosse orientato in direzioni diverse da
quelle che qui più ci interessano: l’intenzione di Popper
e dei Neopositivisti era di indagare su un metodo che
consentisse di giustificare un accordo intersoggettivo
sulle teorie scientifiche. Abbiamo già visto ad es. che il
carattere intrinsecamente teorico anche dei termini di
“osservazione”, viene argomentato proprio sulla base di
questa esigenza. Mi sembra che proprio la scelta di
questo terreno abbia finito con il favorire l’anti-
induttivismo popperiano: per sua propria natura il
ragionamento induttivo è da relativizzarsi ad un
soggetto determinato che stabilisca che cosa considerare
come evidenza iniziale.
La logica classica rispetta il principio di monotonia:
l’aggiunta di qualsiasi premessa ulteriore non
permetterebbe mai di dedurre una conclusione che
contraddice un teorema già dimostrato (se l’insieme
delle premesse non è di per sé già contraddittorio).
Invece qualunque logica induttiva plausibile deve fare a
meno di questo principio: l’aggiunta di nuova
informazione tra le premesse (anche se l’insieme delle
premesse è logicamente coerente) può rendere molto

353
improbabile una conclusione che invece in precedenza
era stata considerata accettabile. L’osservazione di un
cigno bianco (c) non contraddice di per se stessa
l’osservazione di un cigno nero (c’), ma il risultato di
una generalizzazione induttiva è molto diverso se,
invece che dalla sola premessa c, si parte da c + c’.
Questo significa anche che soggetti diversi, partendo
da premesse diverse, saranno comunque legittimati, in
base all’induzione, a trarre conclusioni del tutto
differenti. Ma soprattutto, a differenza che nelle forme
di ragionamento che rispettano il principio di
monotonia, una controversia non può essere risolta
trovando un accordo sulla (sola) verità delle premesse:
sarebbe necessario anche, per assurdo, un accordo sulla
loro completezza. Se l’accordo tra due soggetti
epistemici A e B non è completo, nessuno dei due dovrà
sentirsi vincolato (dall’esigenza di “razionalità” e
“logicità” del pensiero) ad aderire alle conclusioni di
un’inferenza induttiva condotta dall’altro: l’interesse
che A può avere ad ascoltare l’opinione (induttivamente
fondata) di B, ha la sua base solo nelle precedenti
esperienze che A ha avuto sulla competenza e
l’attendibilità di B, oltre che sulla valutazione,
necessariamente grossolana, che il soggetto fa
sull’irrilevanza o meno delle premesse che sa non essere
condivise. È difficile però trovare una collocazione
precisa in letteratura per la tesi che sto proponendo, dato
che ci sono punti di contatto con autori molto diversi, da
Kuhn a Feyerabend a Polanyi.

14.3. Queste considerazioni valgono a spiegare perché

354
Popper ha avuto facile gioco a mostrare che i sistemi di
logica induttiva non descrivono adeguatamente né i
metodi di scoperta né i metodi di giustificazione
impiegati (o impiegabili) nella ricerca scientifica, che è
basata essenzialmente sulla richiesta di presentare
risultati intersoggettivi e riproducibili.
Ma da ciò non segue che l’induzione di per se stessa
sia un metodo da scartare. Le conclusioni alle quali essa
conduce saranno condivise intersoggettivamente quando
viene fatta operare su insiemi di premesse a loro volta
condivisi. Verosimilmente è questa una condizione che
nelle scienze naturali si verifica perlomeno più spesso
che altrove, dato che è un ambito in cui si fa appello in
maniera più sistematica a dati sensoriali, e su questi è in
genere – almeno relativamente – più facile trovare un
accordo tra le persone. Si può avere così l’impressione
che la ricerca scientifica sia dominata, per suo proprio
statuto, dal metodo induttivo.
È facile però che questa prima impressione si riveli
erronea. La mia teoria a rigore non ha nulla da dire al
riguardo, dato che sia i dati sensoriali, sia i contenuti di
ideazione puramente teorici, dovranno confluire
nell’unica categoria degli “oggetti”. Se, nelle premesse,
il mio ragionamento lascia inoperante questa
distinzione, un materiale di partenza così indifferenziato
è difficile che poi permetta di recuperare – da solo –
elementi utili per affrontare il problema. Ci si potrà
servire in ogni caso, ad es., di metodi come quelli di
Piaget, anche se è importante ricordare che alcune delle
argomentazioni da lui portate – così come anche per
Kuhn, Feyerabend, Popper, Hanson etc. – hanno

355
presupposti di tipo ontologico che, in base alla mia
teoria, devono essere abbandonati.
Si può fare maggiore chiarezza però solo
riformulando in maniera molto diversa l’intera
impostazione del problema. Posto che il nostro
interesse, qui, è per i metodi di giustificazione del
sapere, e non per il “contesto della scoperta”, mi sembra
che si possa affermare che certamente, in un senso
ovvio, dobbiamo conferire priorità alla prospettiva del
singolo soggetto che osserva il mondo e che, tra le altre
cose, osserva un insieme di istituzioni e di azioni che
danno corpo a quella che chiamiamo “comunità
scientifica”.
Nella prospettiva del singolo soggetto, i metodi di
ricerca in uso nella comunità scientifica e i risultati che
permettono di ottenere, sono essi stessi oggetto di
conoscenza e di una valutazione, che può essere tesa a
stabilirne la natura e le proprietà, il valore, la
consistenza etc. Se l’induzione è stata messa a mal
partito quando si è cercato di vederla come un metodo
che fondi un sapere intersoggettivo, mi sembra molto
più difficile sminuirne l’importanza quando si adotta la
prospettiva del singolo soggetto che, autonomamente,
indaga sui fatti del mondo.
Nella prospettiva del singolo soggetto, gli esempi di
induzioni fallite portati da Popper possono essere
contati come confutazioni effettive dell’idea che un
metodo induttivo di ricerca possa avere validità
intersoggettiva. Ma non ne viene smentito il modo in
cui qui io intendo le “uniformità di natura”: come
connessioni costanti tra “oggetti” nel senso del

356
Tractatus – connessioni costanti proprio perché gli
oggetti sono immutabili. Se gli oggetti costituiscono il
noto-ora-a-me (per via innata, empirica, “teorica” o
altro), ogni esempio di generalizzazione induttiva fallita
(condotta da un altro soggetto epistemico), non vale a
contestare un tale modo di concepire l’induzione, che
però è comunque efficace nello spiegare la
constatazione che facciamo nel vedere gli eventi
disporsi, per così dire, in forme estremamente
omogenee e uniformi.
Ad evitare equivoci, non è mia intenzione neppure
sostenere che una singola persona abbia una
legittimazione epistemologica o filosofica nell’ignorare
le opinioni altrui (di scienziati e non). Ma a garantirci
efficacemente contro una simile conclusione, mi sembra
che bastino proprio le esperienze personali – la cui
ampiezza, riguardo a se stesso, ciascuno dovrà valutare
da sé – che mostrano, nei fatti, l’importanza di tener
conto del giudizio delle altre persone.

14.4. Una difficoltà importante, che abbiamo già visto


nell’analisi del Tractatus e che esamineremo meglio in
seguito, è che una forma così radicale di induttivismo,
oltre ad implicare un determinismo eccessivo, sembra
escludere la possibilità stessa di ignoranza del futuro.
Ovviamente è del tutto plausibile che io “non sappia”
come andranno le cose in una quantità di situazioni
future. Ma anche qui, l’utilizzo dell’espressione “io non
so” è frutto di una confusione: è di fondamentale
importanza riconoscere che, rispetto al soggetto
metafisico, la rappresentazione di una situazione ignota

357
è una non-rappresentazione. Coerentemente con i
presupposti dell’idealismo, ciò vuol dire che ci sarà non
solo un “vuoto” epistemico, ma una vera e propria
assenza di essere – quindi nulla che possa essere
conosciuto. L’abitudine ad esprimerci in questo modo
scorretto, può essere spiegata facilmente: quella che
abbiamo in mente in genere quando parliamo non è la
nozione di io metafisico, ma quella della nostra identità
di persone concrete. Ciò che intendiamo dire – a
semplificare molto le cose – è quindi un’idea del tipo:
mi rappresento il mio io-persona, che, in una certa
condizione futura, ha credenze e informazioni diverse
da quelle che ora accetto.
Una tale rappresentazione è formalmente del tutto
ammissibile, perché sappiamo che gli oggetti sono tra
loro indipendenti (nel senso che nessuno di essi,
riunendosi con un altro a formare un fatto, può alterare
la costituzione ontologica degli altri), quindi posso ben
immaginare ad es. la figura della mia persona che, in
una certa occasione futura, compie un’azione che oggi
considero inappropriata, ma senza avere (ora) alcuna
immagine dell’informazione che, in quell’occasione,
verrei ad avere in mio possesso. Dire “Potrei cambiare
idea” significherebbe quindi che (i) immagino la figura
della mia persona (o, se si vuole, dei contenuti della mia
mente) in una varietà di situazioni e di comportamenti,
che per ora non ho adottato, (ii) per quanto riguarda
invece il contenuto di credenza al quale mi riferisco
(quello di cui appunto non sono sicuro), esso sarebbe
(formalmente) inesistente, al modo in cui, nel Tractatus,
i pensieri il cui contenuto è indeterminato, sono a rigore

358
dei non-pensieri.
L’alto livello di competenza richiesto per dirigere
procedure così complesse, fa tutt’uno con la necessità di
disporre di meccanismi mentali per gestire in maniera
efficiente il significato psicologico della negazione.
Formalmente lo strumento della negazione non è
necessario: “L’indicazione di tutte le proposizioni
elementari vere descrive il mondo completamente”
(4.26). Per quanto possa essere disordinata la sequenza
delle variazioni che (ora) attribuisco ai miei (futuri) stati
di credenza, basterebbe avere un numero adeguato di
unità rappresentative.
Ma se vogliamo dare invece una descrizione concreta
dell’evoluzione cognitiva, possiamo servirci degli
strumenti dell’epistemologia genetica. Il significato
psicologico della negazione varia da un’età all’altra: “le
norme di verità esprimono ... in primo luogo l’efficacia
delle azioni, individuali e socializzate, per tradurre in
seguito quella delle operazioni e solo infine la coerenza
del pensiero formale” (PIAGET, 1982, pp. 64-65). I “soli
casi in cui la negazione è precoce sono quelli in cui il
soggetto non deve costruirla, perché viene imposta
dall’esterno: per esempio, una smentita dei fatti in
risposta a una previsione fatta” (PIAGET, 1981, p. 44).
“Percettivamente si registrano soltanto degli osservabili
positivi, e la percezione dell’assenza di un oggetto si
produce solo secondariamente e in funzione di attese o
previsioni che riguardano l’intera azione e superano la
percezione” (ivi, p. 45).
Piaget-Inhelder (1977) fanno una descrizione più
precisa di questo percorso di “costruzione” della

359
negazione. Ma è qui più importante soffermarsi su altri
aspetti: “l’intelligenza senso-motoria è un adattamento
dell’individuo alle cose o al corpo altrui, ma senza
socializzazione dell’intelligenza come tale, mentre il
pensiero concettuale è un pensiero collettivo, che
obbedisce a regole comuni. ... E proprio nella misura in
cui il pensiero verbale-concettuale vien trasformato
dalla sua natura collettiva, esso diventa capace di
constatazione83 e di ricerca della verità, in opposizione
al carattere pratico degli atti di intelligenza senso-
motoria e alla loro ricerca della riuscita o della
soddisfazione. L’intelligenza giunge infatti ai giudizi di
constatazione in funzione della cooperazione con gli
altri, poiché la constatazione implica una presentazione
o uno scambio e non ha in sé significato per l’attività
individuale. Che il pensiero concettuale sia relazionale
[basato sulla costruzione di sistemi di relazioni] perché
sociale o viceversa, l’interdipendenza della ricerca del
vero e della socializzazione ci sembra innegabile”
(PIAGET, 1973a, p. 407).
Piaget è stato spesso rimproverato per aver dato poco
spazio alla funzione della socializzazione nello
sviluppo: mi sembra che passi come questo dimostrino
83
Piaget usa qui il termine “constatazione” in modo molto diverso
da come è stato fatto prima da me. Nella mia prospettiva, più
vicina ad un idealismo radicale, “constatazione” è l’atto con cui
si rileva ciò che è immediatamente dato, per cui non ha senso
porre la distinzione vero/falso: si ricordi l’utilizzo che fa il
“secondo” Wittgenstein del paradosso di Moore. In quella di
Piaget, più vicina alla biologia, “constatazione” indica invece il
rapporto di un organismo con dei contenuti di percezione di cui
ha senso dire che sono “veri”.

360
che sul piano teorico non ha invece per nulla sminuito
l’importanza della socializzazione – anche se nella
maggior parte dei suoi studi si è occupato di aspetti
diversi. In ogni caso ci bastano le tesi così espresse
dallo psicologo svizzero per dare sostegno a quanto
detto in precedenza: l’opposizione “vero/falso” ha un
carattere esclusivamente sociale (e non ontologico), così
come quella “esistente/non esistente”. Questo apre
notevole spazio alle posizioni della sociologia della
conoscenza. D’altra parte non ne consegue una forma di
relativismo: è infatti un’altra categoria, che possiamo
indicare come realtà, che fonda l’oggettività del
giudizio. Per “realtà” possiamo intendere appunto ogni
elemento contenuto tra i limiti dell’io metafisico, e
l’individuazione di questi limiti (i) comporta, sì, una
forma di relativizzazione al soggetto metafisico, il quale
contiene però, in sé, tutto ciò che posso concepire, e
quindi ne viene legittimata, come abbiamo visto, la
stessa visione realista (e oggettivista). Possiamo quindi
parlare di “relativizzazione” solo in senso improprio (a
rigore non possiamo concepirla come tale). (ii) Una
categoria di “realtà” così definita non consente
un’opposizione del tipo “vero/falso”, dato che “falso” è
ciò che è al di là del limite del nostro pensiero.
Un’opposizione come quella di cui parla Piaget, “azione
riuscita/non riuscita” non consente per sua natura di
rappresentarsi situazioni non presenti, quindi può
significare solo che in un certo istante il soggetto è
soddisfatto/non soddisfatto, senza che possa però lui
stesso raffigurarsi l’altro lato dell’alternativa.
Per tornare al problema di come descrivere il

361
significato psicologico della negazione (e del dubbio),
possiamo dire che la negazione viene padroneggiata
(nel suo significato psicologico concreto) se si verifica
la seguente condizione: mi si devono dare, al presente,
come punto di partenza, esperienze che, come nel gioco
del domino, associo ad altre esperienze e così via,
secondo un percorso che sia, almeno per una parte
consistente, determinato. All’inizio del percorso non
visualizzo la scena che (mentalmente) mi apparirà alla
fine, ma la catena dei collegamenti deve lo stesso essere
congegnata in modo da condurre regolarmente
(grossomodo) a destinazione.
Quando l’esperienza dell’individuo è sviluppata a
sufficienza, non è inverosimile chiedere che tutta la
successione delle associazioni avvenga sulla base di
“richiami” di tipo induttivo (come in Hume
l’osservazione di A richiamerà alla mente B, se A e B
sono stati visti spesso in associazione).
Un’obiezione che si può porre è che, formalmente, in
presenza del primo elemento, tutta la sequenza dovrebbe
darsi in modo istantaneo. Concretamente invece è
essenziale che il processo abbia uno sviluppo nel tempo.
La risposta più plausibile è che quando cerco di
ricostruire e descrivere un simile processo cognitivo, mi
riferisco (e posso riferirmi) solo ad una persona in carne
e ossa, che costituisce un oggetto di conoscenza rispetto
al soggetto metafisico. Posso quindi applicare le mie
conoscenze (empiriche) sulla necessaria lentezza del
sistema neuronale nel supportare il processo di pensiero.
La mia teoria implica solo che gli oggetti che si
danno al momento, sono posti in connessione induttiva.

362
Dato che la persona in questione, nel corso del tempo
sta, per definizione, “cambiando idea”, non può avere
presente il contenuto preciso del suo prossimo stato di
pensiero: il problema di descrivere tutto quanto il
processo non può quindi – per definizione – riguardarla.
Il soggetto metafisico invece (i) si raffigurerebbe, per
quanto gli è possibile, “in positivo”, i vari stati futuri di
credenza del proprio “io-persona”, (ii) come abbiamo
già visto, l’ignoranza che sicuramente lo affligge andrà
analizzata come vera e propria assenza di realtà (un
altro soggetto epistemico che lo osservasse, potrebbe
cercare di descrivere la variazione di ciò che è
presente/assente ad ogni istante all’attenzione del primo
soggetto: potrebbe voler descrivere il percorso dei suoi
pensieri, come Piaget con i bambini).
Il quadro qui delineato andrebbe sviluppato in
maniera molto più ampia. In particolare si dovrebbe
approfondire la questione delle “possibilità” ( (i) fisiche
e logiche, (ii) controfattuali e non) e l’idea di “caso”. Va
al di là delle intenzioni e delle possibilità di questo
scritto pretendere di fare un’analisi più ampia di queste
nozioni. Nella prossima sezione tornerò comunque sugli
stessi problemi finora trattati, ma seguendo un percorso
reso più semplice e chiaro dal fatto che non mi porrò
l’obiettivo di ricostruire fedelmente il pensiero di
Wittgenstein.
Oltre alle difficoltà di interpretazione create dallo
stile caratteristico dell’autore, molti dei suoi passaggi
logici più complessi e oscuri, se la mia ricostruzione è
giusta, derivano dall’esigenza di dare una
riformulazione soddisfacente del realismo, ma senza

363
servirsi dell’induzione (che era stata esclusa a priori), e
quindi senza poter ricorrere a semplici uniformità di
natura nella descrizione dei processi causali che portano
la mente umana (delle persone concrete, non dell’io
metafisico) ad attingere informazioni sul mondo
esterno. A questo punto, come si è già accennato, tutta la
picture-theory potrebbe essere sostituita da una forma
naturalizzata di realismo.
Dato che così tutto il quadro diventa molto diverso
da quello fornito nel Tractatus, è bene procedere a dare
direttamente almeno la traccia di quello che potrebbe
essere un percorso alternativo – che pure condivide, con
il Tractatus, la tesi fondamentale circa la “sostanza del
mondo”.

15

La struttura della proposizione.

364
15.1. Abbiamo visto come per Wittgenstein “È
nell’essenza della proposizione poterci comunicare un
nuovo senso” (4.027). Credo che questa affermazione
abbia un’importanza teorica fondamentale, maggiore
anche di quanto Wittgenstein stesso sembra aver
ritenuto necessario.
Può essere utile inoltre affiancarle il problema della
“funzione combinatoria dei concetti”, come è posto in
psicologia cognitiva, “cioé il problema di come la
combinazione di due concetti distinti (ad esempio,
“cane” e “feroce”) porti alla formazione di un nuovo
concetto particolare, non totalmente riconducibile a
nessuno dei concetti combinati, presi singolarmente”
(Benelli, 1989, p. 8). Che cosa collega le due questioni?
Per rispondere, inizio con il considerare quello che in
linguistica è chiamato l’universale della forma tema-
commento:

Every human language has a common clause type with


bipartite structure in which the constituents can
reasonably be termed “topic” and “comment.”
... Of course, the generalization refers only to a “common
clause type.” Every language seems to have clauses of
other types as well. (HOCKETT, 1966, p. 23, corsivo
dell’autore)

Il nostro interesse qui non è per una sintassi o una


semantica dei segni linguistici, ma per quella che può
essere vista come sintassi o semantica dei contenuti
mentali. Dobbiamo quindi adattare la nozione introdotta
al contesto in cui la utilizzeremo. Parleremo così di

365
forma “logico-cognitiva” tema-commento (o
semplicemente forma logica tema-commento), che
includerà tutti i tipi di elaborazione del pensiero che
abbiano struttura diadica o comunque “molteplicità
matematica” > 1. Come ulteriore determinazione (D),
diremo che il termine indica: la variazione di significato
che un insieme di termini (semplici) riceve per il fatto
che i termini stessi sono associati tra di loro
(pronunciati, scritti, pensati, etc., insieme). Si tratterà di
vedere se l’esistenza di una tale determinazione (D) sia
ammissibile o no.
In una prospettiva cognitiva, dobbiamo subito
chiarire che tutti i messaggi di tutte le lingue hanno la
forma logica tema-commento. Infatti da un punto di
vista strettamente linguistico questa affermazione
sarebbe banalmente falsa, dato che sono possibili molti
messaggi composti da un solo elemento verbale. Invece,
su di un piano cognitivo, sono presenti sempre almeno
due elementi: anche se si emette, per es., solo
un’interiezione, come “Ahi!”, il significato del
messaggio si determina in funzione non solo di quale
suono è stato emesso, ma anche di chi lo ha emesso, che
diventa esso stesso, in un certo senso, “termine” che
contribuisce a determinare il significato del messaggio.
L’affermazione che ogni messaggio (espressione
linguistica) deve sempre attivare almeno due elementi
cognitivi nella mente del ricevente, è empiricamente
plausibile. Ma mi propongo di mostrare che è anche
necessaria logicamente, se si presuppone la funzione
pragmatica del linguaggio di trasmettere da un soggetto
A ad un soggetto B un’informazione non già posseduta

366
da B (proposizione 4.027 del Tractatus). Il fatto è
questo: se io emettessi un messaggio composto da un
solo elemento (quindi anche ad es. senza un tono o
un’espressività che servano a richiamare l’attenzione su
di un oggetto presente), chi mi ascolta, o (a) già conosce
il significato del termine, ma allora non gli servirebbe a
nulla la mia ripetizione: la competenza linguistica gli
sarebbe dovuta venire dalla conoscenza (tra l’altro) del
contenuto cognitivo associato a quel termine. Se dicessi
“mela”, chi mi ascolta dovrebbe già aver conosciuto
(per qualche via, non necessariamente ostensiva)
l’oggetto designato dalla parola, altrimenti
l’informazione che intendo trasmettergli non gli
arriverebbe. Oppure (b) se non conosce il significato del
termine, evidentemente non può verificarsi alcuna
comunicazione.
Il significato che do a un’espressione, dipende dalle
conoscenze che ho riguardo alla realtà designata: se uso
la parola “sole”, intenderò cose diverse se sono un
astronomo del XXI o del II secolo d.C., oppure se non
mi sono mai dedicato all’astronomia. Le regole di
designazione possono essere più o meno elastiche, ma
questo significa solo che devo fare riferimento ad una
conoscenza in certa misura indeterminata. Se invece non
ho nessuna conoscenza su di un oggetto, il termine
usato da altri per designarlo sarebbe per me senza
significato (se capisco di trovarmi di fronte ad una
lingua sconosciuta, posso al limite associare al termine
quel tanto di informazione che ciò implica: ad es. che
designa “qualcosa” – a seconda che questa venga fatta
contare, o no, come “conoscenza”, il termine sarà

367
veicolo, o no, di informazione, comunque minima).
Se la struttura composta del messaggio è una
necessità imposta dalla comunicazione tra chi ha e chi
non ha una certa informazione, possiamo ritenere che il
pensiero in quanto tale non sia sottomesso
necessariamente ad un vincolo analogo. È molto
plausibile che le difficoltà filosofiche create dalla
“funzione combinatoria dei concetti” derivino proprio
dall’influenza del linguaggio sul pensiero: la struttura
delle proposizioni del linguaggio, costruite sempre,
necessariamente, secondo la forma tema-commento,
viene sovrapposta – se non altro per inerzia – sul
contenuto del pensiero. L’abitudine a parlare applicando
alle nostre espressioni la forma tema-commento, ci
confonde e ci induce a ritenere ovvio che anche il
pensiero abbia una struttura uguale. “Il linguaggio
traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma
esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è
formata per ben altri scopi che quello di far riconoscere
la forma del corpo” (4.002).
Abbiamo visto che il concetto di “articolazione” può
avere due significati ben diversi: (i) essere divisibile in
parti, (ii) essere un’entità “complessa” dotata di un
principio unitario di organizzazione. Se
l’argomentazione che ho presentato è giusta, possiamo
dire che l’influenza del linguaggio porta a descrivere la
proposizione utilizzando un’idea del secondo tipo:
l’unità minima di comunicazione è la struttura
composta, quindi, nella misura in cui siamo abituati a
pensare riproducendo, anche nel discorso interiore, i

368
moduli della comunicazione, la struttura composta sarà
vista come un’unità minima non ulteriormente
decomponibile. Se adoperiamo il concetto di trazione
oggettiva di Quine, dobbiamo ammettere
contemporaneamente che la priorità data alla
comunicazione comporta sempre una misura di
contraddizione, per quanto questa sia assorbita, e anzi
richiesta, dal corretto funzionamento della
comunicazione stessa. Il linguaggio, come un abito, “è
formato per ben altri scopi che quello di far riconoscere
la forma del corpo”: è necessario infatti per trasmettere
informazioni da un individuo all’altro (che già non le
abbia), e per questo deve servirsi della forma logica
tema-commento.
Ne segue quindi che, per evitare di costruire
un’ontologia contraddittoria, dobbiamo adottare una
descrizione del tipo (i). Il problema che Wittgenstein
pone, alla proposizione 6.54 del Tractatus, se
un’ontologia così costruita possa o no essere
comunicata, viene affrontato notando che il singolo che
elabora l’ontologia, compie questo atto, in un senso
ovvio, entro il perimetro del proprio pensiero. Altri, che
vogliano ricostruire il suo percorso, possono osservarlo
“dall’esterno” leggendo l’opera, e ricavarne indizi su
come procedere, in quella che, in un senso altrettanto
ovvio, dovrà essere una loro autonoma elaborazione: chi
legge il Tractatus, “deve superare queste proposizioni;
allora vede rettamente il mondo”.
Potremmo distinguere in linea di principio tra (i) il
contenuto di informazione (il sapere sul mondo) che
possediamo e associamo ad un’espressione, (ii) il senso:

369
la semplice ipotesi che le cose stiano in un certo modo o
il significato in astratto di una singola parola,
considerato (nel caso ciò fosse possibile) come privo di
ogni contenuto di conoscenza. Ne seguirebbe allora che
diventerebbe illegittimo il lato (a) dell’argomentazione
su esposta, dato che in linea di massima sarebbe
ammissibile l’eventualità di capire il senso di
un’espressione senza sapere nulla di corrispondente sul
mondo. In realtà però, anche se (i) e (ii) sono
caratterizzati concettualmente in modo diverso, devono
sempre corrispondersi in forma esattamente biunivoca.
Nel Tractatus troviamo allo stesso modo che il senso di
una proposizione è come le cose starebbero se la
proposizione è vera.
Se al senso di un’espressione viene fatto
corrispondere di volta in volta nelle intenzioni dei
parlanti un contenuto d’informazione diverso,
l’informazione trasmessa risulterebbe per definizione
per una misura corrispondente equivoca: chi pronuncia
il messaggio e chi lo ascolta, assocerebbero ad esso un
contenuto d’informazione diverso, variabile entro i
limiti che sono consentiti dalla pratica linguistica
condivisa84. Ma nella misura in cui il campo di
variazione e di equivocità consentita è esteso, il
ricevente deve giudicare il messaggio come
indeterminato e quindi meno utile (in quanto voglia
riceverne informazione). Se il messaggio fosse inteso
come totalmente equivoco, non gli sarebbe attribuita più
84
Che ci sia una misura di equivocità fisiologica e non
concordabile preliminarmente dai parlanti, è senz’altro
accettato.

370
alcuna utilità – o comunque non sarebbe visto come
“messaggio” (espressione linguistica).
È plausibile formulare la stessa idea dicendo che
senso e contenuto d’informazione devono
corrispondersi in maniera perfetta, e che, nella misura in
cui ciò non avviene, non abbiamo né senso né contenuto
d’informazione né, propriamente parlando,
comunicazione. Si tratta più che altro di una
stipulazione linguistica: ad un senso “fisso” possiamo
naturalmente far corrispondere dei contenuti
d’informazione diversi, da selezionare a seconda del
contesto per inferenza dell’interprete. Ma questo
significa proprio dire, con altre parole, che anche il
senso è indeterminato, e che, nella misura in cui ciò non
è un danno, è sia perché c’è una conoscenza di fondo
condivisa dei possibili contesti di riferimento, sia perché
così si è potuta costituire una fisionomia dei vari sensi
più elaborata e sottile, capace di tener conto della
variabilità delle circostanze85. Soffermarsi su questa
pluralità di letture possibili è una strategia che risponde
allo sforzo di descrivere la situazione in modo meno
vincolante, per consentire una maggiore apertura verso
posizioni teoriche come quella sulle “somiglianze di
85
Si osservi che, se fosse possibile immaginare la ripetizione non
solo di un singolo termine, diciamo “mela”, ma anche di tutte le
precise condizioni che hanno portato la persona P ad assegnare,
nel gioco linguistico, un certo senso ad una certa mossa che
coinvolga “mela”, troveremmo che, a ripetere tutto questo
sistema di eventi, nella stessa identica forma, non ci sarebbe
alcuna trasmissione d’informazione: la nuova informazione
viene ottenuta grazie alla variazione rispetto alle condizioni
originarie di apprendimento del significato.

371
famiglia”. La mia idea di fondo è però che sia più vicina
al vero – e comunque dotata di una maggiore efficacia
nella semplificazione analitica – l’impostazione del
Tractatus: i “giochi linguistici” che si osservano nella
pratica quotidiana sono enormemente complicati, ma i
meccanismi di fondo dovrebbero essere, alla base, quelli
descritti nella prima opera di Wittgenstein.
Dobbiamo quindi ammettere che, affinché avvenga la
trasmissione dell’informazione voluta, deve esserci
corrispondenza tra senso e contenuto d’informazione, e
questa sola condizione (anche senza identità concettuale
tra le due nozioni) è sufficiente a far scattare la mia
argomentazione: avremmo in ogni caso che
un’espressione semplice (un nome) non veicola ad altri
nessuna informazione – tranne che nel caso (ozioso) in
cui già ne dispongano. Il punto è che chi conosca le
regole (più o meno rigide) che governano la
corrispondenza tra senso e contenuto d’informazione,
deve già possedere il contenuto d’informazione che
potrebbe essere rilevante trasmettergli attraverso la
comunicazione, altrimenti non potrebbe capire dette
regole.
Se le regole di corrispondenza sono rigorosamente
determinate, al momento in cui esse vengano applicate
in reazione ad un messaggio costituito da un solo
elemento, non possono produrre alcuna informazione
che non sia già posseduta dal ricettore: c’è già stato un
momento (o una serie di momenti) in cui esse sono state
apprese, e ora – dato il carattere rigorosamente
determinato della corrispondenza – ciò che può essere
associato al senso è solo il contenuto d’informazione

372
che era stato già guadagnato nel corso del processo di
acquisizione della competenza semantica.
Se invece la grammatica è costruita in modo da
consentire un margine di variazione tra senso e
contenuto d’informazione, sappiamo già che da ciò
segue che l’informazione che viene trasmessa è
proporzionalmente inferiore: il ricevente non può
utilizzare il messaggio per fare previsioni precise su ciò
che prima non sapeva.
Osserviamo inoltre che la stessa logica fatta valere
per la struttura composta della proposizione, si applica
anche per l’uso parimenti obbligatorio di “concetti”,
“universali”, che sono predicabili di più individui.
Infatti se, per le regole della grammatica, nessuno degli
elementi che compongono il messaggio fosse un
termine predicabile di più di un individuo, allora, chi
possedesse la competenza linguistica (e sapesse quindi
che è impossibile trasportare fuori dal messaggio una
qualsiasi delle sue parti – e inoltre constatasse
l’impossibilità, appena accertata, di utilizzare un
termine singolarmente), tratterebbe il messaggio come
un blocco unico, un’espressione unitaria, semplice e
indivisibile, per la quale si riproporrebbe esattamente la
situazione descritta in precedenza. “Se esistesse soltanto
la proposizione «φa» e non «φb», la menzione di «a»
sarebbe superflua. Basterebbe scrivere «φ» – la
proposizione non sarebbe composita” (WAISMANN, 1975,
p. 78).

15.2. La argomentazioni portate dimostrano che


l’organizzazione del linguaggio in messaggi composti,

373
contenenti almeno un termine generale, risponde anche
all’esigenza pragmatica del trasmettere informazioni. A
rigore però non è dimostrato che la struttura del
linguaggio soddisfi solo questa esigenza: in linea di
principio, potrebbe darsi, come caso fortunato, che la
realtà stessa sia strutturata in una maniera che ricalca
proprio le esigenze della comunicazione. In questo caso,
vorrebbe dire che la stessa struttura del linguaggio
possiede anche una capacità raffigurativa della struttura
stessa delle cose.
Da un punto di vista euristico, il grosso del peso del
mio discorso deve essere fatto poggiare sulle
conclusioni ora evidenziate. È estremamente
improbabile infatti che linguaggio e mondo abbiano
strutture sovrapponibili, in base ad una semplice
coincidenza, mentre è facile spiegare la convinzione
psicologica del contrario: l’abitudine a parlare per
trasmettere informazioni, conduce (i) a vedere il
pensiero come pure strutturato in unità complesse, (ii) a
proiettare sulle cose lo stesso tipo di struttura.
Rimangono aperte però due questioni: (a) screditare
le radici psicologiche che portano a vedere come
autoevidente la concezione che combatto, non basta
ancora a mostrare che, per qualche motivo che ancora
non conosco, essa sia comunque, alla fine, da accettare,
(b) si deve mostrare che è possibile sfuggire ad
un’abitudine di pensiero certamente così ben
sedimentata. Come potrebbe funzionare un pensiero
senza espressioni complesse e senza termini generali?
Per quanto riguarda (a), abbiamo subito un buon
punto di avvio: si tratta di un’argomentazione ben nota,

374
proposta da F. H. Bradley alla fine dell’‘800 per
dimostrare la contraddittorietà del concetto stesso di
“relazione”, e la conseguente necessità di ammettere un
Assoluto visto come unità sostanziale. Non è mia
intenzione qui di entrare nel merito di una metafisica
così complessa. Basterà portare il nocciolo – per quello
che qui ci interessa – della sua argomentazione,
conosciuta anche come “regresso di Bradley”.

Noi vediamo che i contenuti del nostro mondo si possono


raggruppare nelle cose e nelle loro qualità: quella di
sostanza e accidente è un’antica e veneranda distinzione,
uno schema logico che dovrebbe servire a comprendere i
fatti e a raggiungere la realtà. Ma io debbo mostrare in
breve l’insufficienza di questo metodo ...
Possiamo considerare l’esempio familiare di una zolletta
di zucchero ... Lo zucchero, ovviamente, non è semplice
bianchezza, semplice durezza e semplice dolcezza poiché
la sua realtà consiste in qualche modo nella sua unità. Ma
se, d’altra parte, ci domandano che cosa vi possa essere
nella cosa oltre le sue molteplici qualità rimaniamo una
volta di più delusi. Non possiamo scoprire nessuna reale
unità al di fuori di queste qualità, così come nessuna reale
unità esistente in esse. (BRADLEY, 1984, p. 157)

Si considera allora quello che è identificato


esplicitamente come l’“antico dilemma secondo il quale
se si predica ciò che è differente si attribuisce al
soggetto ciò che esso non è e se si predica ciò che non è
differente non si esprime assolutamente nulla ... se il
predicato non reca alcuna differenza è vano ma, se
rende il soggetto diverso da quello che è, è falso” (ivi,
pp. 158-159). La proposta è quindi:

375
Asteniamoci dal fare della relazione un attributo del
riferito e consideriamola come se fosse più o meno
indipendente. “Vi è una relazione C nella quale si trovano
A e B ed essa appare unita ad entrambi” ... Sembrerebbe
esserci, allora, un’altra relazione D nella quale stanno C
da una parte e A e B dall’altra. Ma un tale espediente dà
subito luogo ad un processo all’infinito. (Ivi, p. 159)

Ne segue che “o le qualità rimangono del tutto separate dalle


loro relazioni, e allora non avremmo detto nulla, o altrimenti
dobbiamo istituire una nuova relazione” che innesca però un
regresso infinito (ivi, p. 159).
Si deve ricordare che Bradley esprimeva, con
McTaggart, la filosofia dominante nell’Inghilterra di
fine Ottocento, e influenzò notevolmente il percorso di
Russell e il suo interesse per la logica delle relazioni. È
facile quindi prevedere un’influenza indiretta sullo
stesso Wittgenstein86. La proposizione del Tractatus che
più mette in luce questo influsso si può individuare
nella:

3.1432 Non: «Il segno complesso <aRb> dice che a sta


nella relazione R a b», ma: Che «a» stia in una certa
relazione a «b», dice che aRb.

La relazione non è qualcosa che possa sussistere


indipendentemente dai termini relati, ma si mostra nei
termini stessi87. Inoltre abbiamo visto nel paragrafo 11.5
86
Sulla vicinanza del Tractatus alle posizioni di Bradley, v. ad es.
FRONGIA (1983, pp. 45 ss.) o STENIUS (1988).
87
Ciò che non è chiaro, se consideriamo solo questa proposizione,
è come una caratteristica dei segni “a” e “b” possa mostrare

376
il ruolo della teoria delle “forme logiche” di Russell nel
percorso di Wittgenstein, e in che modo essa prendesse
le mosse dal timore del regresso che viene descritto da
Bradley. Credo che sia sostanzialmente corretto leggere
la 2.0211 come tesa ad evitare proprio questo problema:
una “proposizione” ha senso (presa come un tutto) se la
composizione tra le parti avviene in virtù di qualcosa
interno alle parti stesse. Avendo in mente queste
premesse, possiamo riprendere il filo del discorso.
Il punto è che anche solo per definire (o comunque
applicare) la forma logica tema-commento, è necessario
servirsi proprio della forma logica tema-commento
stessa. Se alla struttura linguistica deve corrispondere un
contenuto cognitivo (la condizione (D) sopra
introdotta), questo non può essere definito senza
incorrere in una circolarità. Il soddisfacimento di (D)
comporterebbe che alla riunione di più elementi
semplici in una forma composta, deve corrispondere una
loro variazione di significato: l’espressione “albero”,
per il fatto di ricorrere in “ - in giardino”, designerebbe
quelle che sono delle caratteristiche di a e b. Questa difficoltà
viene risolta se si considera il modo complessivo in cui
interpreto la picture-theory: il soggetto epistemico, vedendo il
segno proposizionale (quindi i segni “a” e “b”) vede (tutto e
solo quello che sa su) lo stato di cose che contiene a e b.
Accrescere il valore informativo del segno proposizionale
significa accrescere il suo livello di iconicità, e questo lo si
ottiene acquisendo nuove informazioni su a e b (attraverso
ulteriori proposizioni), ma questo significa, nei termini della
picture-theory soltanto che viene sostituito un segno
proposizionale con uno più iconico – rimanendo cioè sempre in
possesso solo dell'informazione “mostrata” dal segno
proposizionale in quanto tale.

377
un’entità differente da un’altra possibile (l’albero nel
bosco, o nel prato etc.). Ma 1) se sappiamo in anticipo
in cosa debba consistere esattamente questa variazione
di significato, possiamo individuare il fatto che gli altri
termini siano stati pronunciati insieme al primo in rapida
successione, come se fosse a sua volta un vero e proprio
termine, che dà un suo contributo cognitivo al
discorso88, ma allora esso dovrebbe essere composto con
88
Come in effetti in un certo senso è: se le parole fossero
pronunciate a distanza di molto tempo l’una dall’altra, non
prenderemmo la loro sequenza per una proposizione. Il fatto che
si tratti di una circostanza data in genere per scontata, non
significa che non sia un vero e proprio dato cognitivo,
fondamentale per la comprensione e rilevabile come tale dal
soggetto. Si può dire che non è un termine (linguistico) come gli
altri, dato che è una condizione costitutiva della possibilità
stessa di comunicare: proprio per l’argomentazione che
presento, se non si verifica una tale condizione, non può esserci
comunicazione. Ma ciò significa che esso segna il limite ultimo,
appunto, delle possibilità date alla comunicazione, non
all’attività cognitiva del singolo soggetto: non ci si può riferire
ad “ambo i lati di questo limite” finché si abbia la volontà di
comunicarlo (sarebbe una contraddizione in termini), ma il
singolo soggetto può benissimo rilevarlo. Dire che non si
dovrebbe chiedere alla forma tema-commento di avere un
contenuto cognitivo, perché essa non costituisce un elemento
del “discorso”, significa scambiare i due piani: è vero che non
dice nulla nella comunicazione (lì la sua presenza è scontata),
ma i singoli soggetti che partecipano alla comunicazione,
devono rilevarla nella propria personale esperienza,
guardandola come ogni altro dato cognitivo (altrimenti, se non
la rilevano, neppure potrebbero vedere quello come un
messaggio), e di qui nasce il problema di come riuscire a
comporla con gli altri elementi cognitivi raccolti, senza servirsi
di una meta-forma logica tema-commento.

378
gli altri, attraverso un’altra forma logica tema-
commento, e di qui un chiaro regresso. Se l’operazione
di composizione non avviene, ognuno degli altri termini
deve rimanere necessariamente uguale a se stesso. Il
contenuto della mia rappresentazione dei fatti sarebbe
quindi del tutto identico alla semplice somma dei
contenuti che posseggo già con la sola comprensione dei
significati dei termini semplici. La circostanza che
pronuncio insieme quei termini, avrebbe come unica
implicazione che mi rappresento proprio quegli oggetti
e non altri, ma nessuno di essi ne verrebbe modificato.
Se invece 2) non sappiamo quali effetti debba avere
l’aver pronunciato insieme tutti questi termini, avremmo
il risultato assurdo di non poter più parlare neppure
dell’universale strettamente linguistico “forma tema-
commento”, dato che esso non potrebbe più svolgere
alcun ruolo nella lingua. Questo caso teorico vale a
rispondere anche alla possibile obiezione che la
composizione degli elementi avviene secondo un
qualsiasi processo che sia inconsapevole (al modo in cui
si può parlare senza conoscere il funzionamento
dell’apparato fonatorio): vorrebbe dire infatti che, nella
comprensione del messaggio, non possiamo neppure
essere consapevoli di un’avvenuta variazione del
significato, e questo è sufficiente per le tesi che cercherò
di stabilire.
Se pensiamo di poter introdurre la nozione di forma
logica tema-commento a titolo di autoevidenza
primitiva (AP), rimane comunque il problema
insuperabile della sua applicabilità: AP può modificare
gli elementi A, B etc. se viene ad essi applicata, ma AP

379
stessa, per essere applicata proprio ad <A, B etc.>,
dovrebbe essere stata prima applicata ad <AP, A, B,
etc.>.
La conclusione è molto intuitiva: il fatto che due o
più termini semplici vengono pronunciati in successione
rapida, deve chiaramente contare esso stesso come
elemento che contribuisce a determinare la nostra
reazione ai suoni ascoltati. Ma se lo consideriamo come
costituente del significato (introducendolo al limite
come autoevidenza primitiva), otterremmo (D) una
variazione, in virtù di esso, del significato, solo se lo
registriamo a sua volta insieme con gli altri costituenti,
componendolo in una meta-forma logica tema-
commento.
Mi sembra chiaro che (i) il regresso sarebbe vizioso:
avere già applicato la meta-struttura cognitiva sarebbe
la condizione preliminare per avere il risultato voluto, e
così via. (ii) Se non lo registriamo coscientemente come
un costituente, è del tutto possibile (e anzi è proprio ciò
che accade) che una variazione del significato
comunque avvenga, ma ciò sarebbe sulla base di un
processo temporale e causale: mi rappresento ora (nel
presente intemporale dell’io metafisico) (a) che, nel
corso di pochi istanti appena trascorsi, una successione
di miei io-persona (passati) ha percepito una certa
successione di suoni convenzionalmente dotati di
“significato”, (b) mi rappresento (ora) inoltre un fatto
che contiene proprio gli elementi richiamati
(causalmente) nel modo che so da (a), ma la
rappresentazione (b) non si serve (né ha bisogno) ad
alcun titolo di un dispositivo logico come la forma

380
tema-commento, la cui applicazione sarebbe peraltro
viziata da circolarità e autocontraddittoria (regresso di
Bradley). Ciò che l’io metafisico si limita a registrare, è
un insieme di elementi semplici, non connessi in
strutture complesse, che gli danno una determinata
immagine del mondo. È chiaro inoltre che se non
disponiamo di rappresentazioni strutturate in forma
complessa, ogni entità che ci rappresentiamo dovrà
essere pensata come semplice (oppure come costituita
da una specie di mero elenco di oggetti semplici): se “ -
è verde” non modifica “albero”, non avremo che l’entità
stessa albero è immaginata diversamente per il fatto di
essere detta verde, quindi non avremo un “sostrato”
(albero) che rimane in qualche modo lo stesso pur nella
varietà delle possibili attribuzioni (verde/spoglio etc.),
quindi non avrebbe più senso dire che quella è una
stessa entità che gode di un certo numero di attribuzioni,
i. e. è “complessa”.

16

La struttura della credenza.

16.1. La rinuncia alla forma logica tema-commento, e

381
alla corrispondente ontologia di entità “complesse”,
apre uno scenario che appare del tutto paradossale e
insoddisfacente, ma dobbiamo fare attenzione a non
mettere alla prova la mia teoria continuando a far agire
surrettiziamente i presupposti (non dimostrati) di
ontologie alternative. L’impostazione che seguo rende
plausibile congetturare che le difficoltà che ci
spaventano siano piuttosto di ordine psicologico –
dovute all’abitudine a pensare riprendendo, nel
pensiero, le forme e le strutture del linguaggio parlato.
Dobbiamo però certamente tentare di rendere più chiara
tutta la situazione.
Cominciamo con il cercare di vedere come
dovrebbero essere “tradotte” a questo punto le
proposizioni consuete, ad es. “La stanza è calda”, “Il
sole è giallo” o “La sera è fresca”. Se non ammettiamo
nessuna possibilità di reciproca interazione ontologica
tra gli elementi semplici costituenti, sembra proprio che
dovremmo ottenere una cosa del tipo: “stanza, caldo”,
“sole, giallo”, “sera, fresco”, dove ciascuno di questi
termini designa un’entità o collezione di entità semplici
e inalterabili (considero irrilevanti naturalmente le
desinenze89). Sembra opportuno anzi, dato che gli stessi
89
Dare l’aggettivo di “stanza” al maschile non pone, sul piano
cognitivo, particolari problemi. Ma le desinenze verbali, o
quelle che qualificano il sesso di una persona, o l’opposizione
singolare/plurale, veicolano informazione. Tutte queste
informazioni però si potrebbero esprimere – anche
linguisticamente – con un numero adeguato di unità semplici di
significato – o perlomeno il problema della relazione logica tra
tutte queste unità non è diverso, nei punti che qui ci interessano,
da quello della relazione tra soggetto e predicato o in genere

382
raggruppamenti fatti non possono avere rilevanza
ontologica (per lo stesso ordine di motivi), che vengano
sostituiti direttamente con l’unico “stanza, caldo, sole,
giallo, sera, fresco” (posto che l’io metafisico afferma la
verità di tutte e tre le proposizioni originarie).
Ogni persona direbbe che le relazioni che valgono tra
ciascuno di questi elementi con ognuno degli altri sono
diverse da caso a caso: la stanza “è” calda, non gialla, la
sera “è” fresca, non calda. Senza forma logica tema-
commento, si può caratterizzare in modo ugualmente
plausibile questa serie di rapporti? Se tutto ciò che si
può fare è lasciar coesistere elementi distinti che devono
esistere, perché non può dirsi ad es. che anche la stanza
è fresca, o addirittura che il giallo è sera? Stanza e
fresco coesistono tra loro tutto sommato allo stesso
modo di sole e giallo. Che significa allora dire che la
stanza “è” calda e non anche fresca?
Il punto su cui dobbiamo far leva è che ognuno di
questi termini ha un contenuto d’informazione, che è al
tempo stesso 1) un costituente della realtà, un designato
identico al 2) contenuto della mente (dell’io metafisico)
che lo identifica: rappresentazione e rappresentato sono
realtà perfettamente identiche. Nel linguaggio abbiamo
visto che un termine semplice non può rivestire, per
principio, alcun ruolo comunicativo: ha bisogno di un
delle relazioni logiche in quanto tali. Si considerino
proposizioni che esprimono relazioni ontologiche complesse
come “Il fumo è nella stanza”, “Le spade sono nei foderi”, “Il
pavimento è di marmo”. Posto che ci muoviamo in uno scenario
rigorosamente idealista, gli elementi che corrispondono nella
realtà alle espressioni (semplici), sono sempre unità semplici
“affiancate” l’una alle altre “come le maglie d’una catena”.

383
“completamento”, che gli viene offerto dalla
proposizione. L’avere ascoltato la sola espressione
“sera”, non ci dice se la sera è fresca o afosa. Ma
dobbiamo ricordarci che quel meccanismo può essere
dimostrato necessario solo per il piano della
comunicazione, non per quello del pensiero, né
tantomeno dell’ontologia. “I significati dei segni
semplici (delle parole) devon esserci spiegati affinché li
comprendiamo” (4.026): dobbiamo conoscere il
designato di un nome per capirlo. Se sappiamo di cosa
parliamo quando diciamo “sole, sera etc.” dobbiamo
conoscere le fattezze proprie di ognuno degli elementi
della collezione di oggetti: “Che «a» stia in una certa
relazione a «b», dice che aRb” (3.1432). R non è un
terzo elemento rispetto ad a e b, ma “sopravviene” ad a
e b, esattamente così come essi sono: conoscendo solo a
e b, ci si mostra anche la loro relazione R. Vedendo
“sole, sera, fresco, giallo”, ci si mostra che il sole è
giallo (e non fresco), e la sera è fresca (e non gialla). Il
nome designa l’oggetto esattamente come esso è, non
come immagino che potrebbe essere, né come credo che
non sia, quindi – nei termini del senso comune – “sole”
designa il sole in modo che si mostri da sé che “è”
giallo, e “non è” bianco, o fresco etc.
La difficoltà è nel dirlo (ad altri), ma la
comprensione del giudizio è al singolo che deve essere
affidata: gli altri comprenderanno i loro propri giudizi,
procedendo autonomamente sul loro cammino. È il
contenuto della comunicazione che è essenzialmente
indeterminato, e siamo abituati per questo all’idea che il
singolo nome lasci aperte delle possibilità (l’albero può

384
essere verde, spoglio etc.). Ciò ci condiziona a pensare
che, anche nella realtà, il designato di un nome possa
aver bisogno intrinsecamente di un “completamento”,
trovandolo nella “relazione” che lo lega ad altri
designati.
L’impasse in realtà è solo linguistica: per far capire al
mio interlocutore che cosa è (per me) il designato, devo
servirmi in effetti di espressioni composte. Ma io dal
punto di vista cognitivo e soggettivo, non ho bisogno di
altro che di uno o più designati (semplici), che, insieme,
sono l’intera realtà.
In un certo senso si può dire che è “vero” che il sole è
fresco etc., ma in tutti questi giudizi paradossali, i
termini “fresco” etc. significano esattamente in modo
che i designati fresco etc. mostrino di essere quello che
si chiama in genere un “attributo” di sera, e non di sole,
e così via. È questo infatti che abbiamo appurato sul
conto dei designati al momento dell’apprendimento del
significato dei nomi (la loro “sintassi logica”). Ed è
questo il contenuto d’informazione che necessariamente
associamo alle espressioni linguistiche. Nel caso di
giudizi (ad es. “La stanza è fredda”), che siano falsi, ma
solo a posteriori, sono le uniformità che conosciamo sul
funzionamento della lingua (la sua “grammatica”, in
senso ordinario) che ci consentono di intendere nella
maniera voluta il significato risultante dell’intera frase.
Ma i tipi di relazioni che la grammatica descrive non
sono eterogenee rispetto a quelle su cui si basano le
uniformità “di natura”: se quindi riusciamo a
giustificare queste ultime, possiamo dar conto insieme
anche delle “uniformità” grammaticali per come sono

385
comunemente impiegate. Tutto ciò di cui abbiamo
bisogno sono l’intera collezione degli elementi semplici
e le “relazioni” tra essi che ci si mostrano sulla base
della sola esistenza degli elementi in quanti tali. Un
giudizio di relazione “A, B” è “vero”, in questo senso
particolare, semplicemente quando si danno A, B.
Verosimilmente una tale nozione di “verità” è del
tutto inutile (banale), dato che vale sempre, tra tutti i
designati dell’io metafisico (che necessariamente
coesistono), ma ciò che in genere viene fatta valere, da
un punto di vista psicologico, è piuttosto l’esigenza di
raccogliersi intorno ad una nozione di “verità”
intersoggettiva, che permetta di individuare i casi in cui
i diversi individui concordano o meno nell’attribuire ai
designati fattezze più o meno coincidenti: un giudizio è
“vero” quando permette di ricostruire che chi lo emette
fa riferimento a designati dalle fattezze uguali a quelli
che costituiscono un canone sociale condiviso (io evito
di mettere la mano sul fuoco: se osservo che altri
soggetti fanno lo stesso, ricostruisco che hanno un
universo di esperienze simile, in questo, al mio).

16.2. Abbiamo già visto, discutendo il Tractatus, che le


tesi sugli “oggetti” sembrano avere implicazioni
importanti per l’analisi dell’induzione. In effetti il
quadro ora delineato può essere chiarito e precisato
proseguendo sulla stessa falsariga. Il modo consueto di
porre il problema, presuppone (i) il darsi di un sistema
di coordinate spazio-temporali, (ii) il fatto che ci siano
elementi A che “sono” B, (iii) la ripetizione, in un
numero elevato di posizioni differenti all’interno di

386
questo sistema, delle stesse combinazioni di elementi A
e B (questo punto naturalmente è negato, o circoscritto,
da diversi autori). Da qui la richiesta (iv) di spiegare
(nel caso sia riconosciuta come data) la “coincidenza”
per cui tutti (o moltissimi) A risultano essere anche B,
(v) di giustificare (nel caso lo si consideri possibile)
l’inferenza che permette di passare dall’osservazione,
nel (nostro) passato, di alcuni A che erano B (e nessuno,
o pochi, A, che fossero non-B), alla conclusione che, in
generale, gli A siano B (sempre o molto di frequente).
Le osservazioni di Piaget sulla costruzione da parte
del soggetto delle nozioni di spazio e tempo, dovrebbero
mettere in forse il presupposto (i), dato che in realtà il
neonato inizia da subito – prima di avere sviluppato tali
nozioni – a compiere generalizzazioni.
L’argomentazione che ho portato contro la forma logica
tema-commento, dovrebbe rendere meno ferma la
nostra fiducia in (ii). È da notare che se spazio e tempo
sono ridotti logicamente alle relazioni tra gli “oggetti”
(attraverso la via che è quella indicata di fatto da
Piaget), la posizione nello spazio-tempo verrà definita
da un certo numero di relazioni che coinvolgono l’entità
cui ci riferiamo. Allo stesso modo in cui le relazioni, in
generale, si “mostrano” con l’ispezione dei soli termini
relati, così anche le relazioni che definiscono la
posizione spazio-temporale si “mostreranno” a chi
conosce i designati coinvolti.
Sappiamo già come per Wittgenstein “Non possiamo
confrontare alcun processo con lo «scorrer del tempo» –
esso non v’è –, ma solo con un altro processo (ad
esempio, con il movimento del cronometro). ...

387
Analogamente per lo spazio” (6.3611)90.
La mia proposta è quindi di provare a rovesciare
l’ordine consueto con cui si pone la questione: è il
principio d’induzione a fondare la nostra nozione di
spazio-tempo, e non accade, al contrario, che il primo
presupponga una cornice teorica che contiene come
premessa la seconda. Procediamo quindi da quello a
questa. Immaginiamo che una persona che adotta la
consueta ontologia del realismo, formuli il giudizio:

(A) Ho visto uno smeraldo nel punto P dello spazio-


tempo, e ho visto che era verde.

Immaginiamo che abbia visto un certo numero di


smeraldi, e formuli altri giudizi corrispondenti (A’ per
P’, A’’ per P’’ etc.), affermando di tutti che erano verdi –
dove P, P’ etc. indicano sinteticamente i diversi insiemi
di relazioni che definiscono le posizioni dei diversi
smeraldi osservati. La conclusione che trarrà sarà
probabilmente:

(B) Tutti gli smeraldi sono verdi.

Inoltre, se è un filosofo, potrebbe dire:

(C) Lo smeraldo in quanto tale è verde.


90
Non mi sento di sviluppare qui l’argomento, ma vorrei
segnalare che il modo in cui prosegue la 6.3611, in particolare
nel riferimento conclusivo al concetto di causa, può aprire
prospettive di estremo interesse sulla concezione
wittgensteiniana della causalità, che sembrerebbe essere non di
semplice rifiuto.

388
La versione che io mi trovo a proporre per questi giudizi
sarebbe:

(A*) P, smeraldo, verde.


(A’*) P’, smeraldo, verde. ...

La congiunzione dei casi osservati A, A’, A’’ etc.,


verrebbe formulata come:

(A . A’ . A’’...*) P, P’, P’’, ..., smeraldo, verde.

Se con p, p’, p’’, ..., indichiamo gli insiemi di relazioni


che definiscono la posizione di smeraldi non ancora
osservati, (B) diventerebbe:

(B*) P, P’, P’’, ..., p, p’, p’’, ..., smeraldo, verde.

(C) sarebbe invece:

(C*) smeraldo, verde.

Posto che non ci siano giudizi attestanti l’esistenza di


smeraldi non verdi, il principio d’induzione
affermerebbe che (A . A’ . A’’...*) implica (B*). In una
versione platonizzante, si direbbe che (A . A’ . A’’... *)
deve implicare (C*).
A questo punto, data la caratterizzazione dei termini
costituenti come “oggetti” (o collezioni di oggetti)
semplici e inalterabili (in qualsiasi giudizio/fatto
compaiano), vediamo lungo quale strada possiamo

389
cercare di introdurre una piena giustificazione del
principio d’induzione: ciascun giudizio (A, A’ etc.) che
fa da premessa dell’inferenza induttiva contiene (nel
senso letterale della parola) (C*), ed è, a sua volta,
contenuto da (B*), quindi, purché si suppongano le
posizioni (future) p, p’, p’’, ... come rappresentate dal
soggetto, la semplice coesistenza di p, p’ etc. con A*, dà
luogo al giudizio (B*)91. Nei termini del realismo: se si
suppone l’esistenza di altri smeraldi, non osservati, si
deve concludere che essi siano verdi. Il punto
fondamentale è che, se i designati smeraldo e verde
sono inalterabili, e se, osservati in un caso, hanno dato
l’immagine di quello che il realismo esprime parlando
di “uno smeraldo verde”, allora è necessario
logicamente (per il solo principio d’identità) che la
relazione così descritta dal realismo, valga anche
91
A maggior ragione se, oltre ad A*, sono presenti anche A’*, A’’*
etc. Il fatto che in genere si richiedano molti esempi positivi per
confermare un’inferenza induttiva non deve impensierirci
eccessivamente: si può intendere facilmente che questa richiesta
sia proprio il frutto di anni di esperienze relative al modo più
efficace di trarre “inferenze induttive” (nel senso psicologico
del termine, quello ad es. studiato da Piaget nelle indagini sulla
“induzione delle leggi e la dissociazione dei fattori”). Secondo
il mio modello di spiegazione, in mancanza di un’ampia
conoscenza di sfondo, è sufficiente al limite anche un solo
esempio positivo per compiere una generalizzazione. Sono
problemi ben noti, posti ad es. da Mill. Vorrei osservare che in
questo quadro gli studi che trattano l’induzione mediante la
teoria della probabilità, possono essere visti come studi
(formalmente) di tipo empirico, e trovare giustificazione
epistemologica sulla base proprio dell’induzione e
dell’esperienza (in ogni caso da verificarsi) che effettivamente
“funzionino”.

390
quando quei designati sono posti in contesti
proposizionali per il resto diversi.
Si osservi che molte volte la designazione delle
parole impiegate correntemente è costituita da un
numero assai elevato di elementi, che esprimono anche
una serie di conoscenze che abbiamo “su” i designati:
nella misura in cui queste conoscenze fanno parte “per
definizione” del significato del nome, possiamo dire ad
es. che intendiamo per “cigno” un animale che è bianco,
ha certe dimensioni etc. Il mio ragionamento implica
che tutti gli elementi che danno l’immagine risultante
devono ripresentarsi per riottenere la stessa immagine (i.
e. per fare una previsione di tipo induttivo). Non è detto
però che ciò accada sempre, e neppure di frequente, ma
ci aspettiamo lo stesso che un cigno sia bianco anche se
per es. ha dimensioni leggermente maggiori di quelle
finora osservate. Ma credo che questo significhi soltanto
che (possiamo dirlo a priori) le “parti” mancanti
dell’immagine (nell’es. quelle che danno le dimensioni
corporee) non erano rilevanti per stabilire l’inferenza:
la relazione che ci interessava era “contenuta” negli altri
costituenti. D’altra parte, viceversa, accade che continuo
ad identificare un designato, diciamo sole, sempre come
tale, anche se non è rispettata la previsione che ho fatto
(per es. se è una mattina di giugno) che esso dovesse
scaldarmi: in questo caso vuol dire che ciò che intendo
per “sole” è qualcosa che può rivelarsi, sotto certe
condizioni, una fonte di calore più tiepida del previsto.
Ora, per l’epistemologia genetica, p, p’, p’’ etc. sono
certamente rappresentabili dal soggetto: avere la
nozione di spazio e tempo significa ovviamente riuscire

391
a concepire un evento che possa avvenire in circostanze
future o nel passato, anche se non è esperito
personalmente. Se possiamo mostrare che questo punto
è conservato anche dalla mia teoria, avrebbe già un
livello significativo di completezza la giustificazione
che propongo dell’induzione.
La difficoltà principale è costituita dal fatto che, per
tutto quanto finora detto, il non-già-esperito, deve essere
inteso come non-rappresentato, e, quindi, un non-essere.
Indipendentemente dall’induzione, se da ciò seguisse
che non possiamo rappresentarci, in un senso plausibile,
gli eventi in quanto futuri, naturalmente la mia teoria
sarebbe ridotta interamente all’assurdo.
Sappiamo che per Wittgenstein (i) il non-dato-ora
può solo essere “detto” mediante proposizioni, (ii) che
le proposizioni sono essenzialmente indeterminate, e
(iii) questa indeterminazione equivale ad una vera e
propria assenza degli elementi che altrimenti avrebbero
determinato il significato.
Per quanto nella mia versione il concetto di
proposizione svolga un ruolo meno rilevante, ho
mostrato in precedenza in che modo ritengo di poter
conservare comunque almeno il nucleo delle idee di
Wittgenstein. Si tratterebbe in sostanza di definire
direttamente il non-dato-ora in termini di assenza di
alcuni elementi: se la collezione di oggetti “a, b, c, d, ...”
costituisce la rappresentazione(-designazione) che ho
dell’albero nel mio giardino, in quanto percepito
direttamente (“dato”), la nozione di un certo albero che
cresca sulle montagne vicino casa mia (quindi, se mi
trovo distante, “non-dato”), è costituita solo da una

392
parte (per es. “a, c, d, ...”) di quella collezione di
oggetti, per es. quelli che danno la grandezza
complessiva della pianta o il colore delle foglie, che
sono facilmente immaginabili, ma non da quelli che
avrebbero dato la forma precisa di ogni ramo etc.
Questa tesi è in accordo con l’analisi che ho proposto
del significato della negazione e del dubbio:
un’espressione come “Potrei cambiare idea”
psicologicamente descrive il processo con cui si
succedono una serie di immagini diverse; logicamente
(e anche psicologicamente) la caratteristica di queste
immagini è di essere ognuna affetta da una misura di
indeterminazione. Si intende che l’osservazione
dell’intero designato di albero (in quanto dato ora) dà
corso (in un processo temporale e causale) ad una
sequenza di immagini di un certo tipo: se mi
rappresento l’albero come dato ora, mi rappresento
anche ad es. la possibilità di arrampicarmici o di
mordere i frutti raccolti. Se invece mi rappresento solo
una parte (“a, d, e, ...”) del designato, do corso ad una
sequenza di immagini ben diversa, che descrive “a, d,
e, ...” come una semplice “idea” dell’albero, che sta
“nella mente” e dalla quale non è possibile raccogliere
frutti. Il pieno possesso di questa rete assai intricata di
possibili inferenze, equivale da un lato alla nozione
comune di “oggetti fisici”: corpi posti nello spazio e nel
tempo, soggetti a varie leggi causali più o meno
elastiche. Dall’altro a quelle che psicologicamente
possono essere descritte come competenze meta-
cognitive per la gestione delle nostre “idee”: se so che
un designato gode delle proprietà a, d, e, ... (anche se

393
non vedo “materialmente” a, d, e, ...), che cosa associo
ad a, d, e, ... (in assenza di b)? O anche un osservatore
esterno può chiedersi, al modo di Piaget, “se una certa
persona ha a, d, e, ..., causalmente che cosa posso
attendermi che avrà nella mente alcuni istanti dopo?” e
così via.
Il fatto che ci sia un processo causale, che copre un
certo arco temporale, permette a chi cerca di descrivere
questi fenomeni, di servirsi di unità di significato che
compaiono e scompaiono nel tempo in sequenze più o
meno prevedibili, dando ad ogni istante un assetto
diverso ai contenuti propri della mente. In questo modo
sembra possibile dar conto teoreticamente della nostra
rappresentazione (così come la esperiamo nella vita
quotidiana) di situazioni ed eventi non presenti e non
interamente noti – anche se siamo obbligati a muoverci
ad un livello molto elevato di astrazione, e quindi di
certo uno psicologo cognitivo considererebbe poco
esplicativi, per i suoi interessi, questi risultati.
Si osservi anche che si danno così degli strumenti per
trattare il problema posto dalle Ricerche filosofiche della
re-identificazione in momenti diversi di una stessa
entità, riconosciuta come uguale: l’immagine nel
“ricordo” non può ingannarci, perché essa – in quanto
contenuto della mente dato ora – agisce come forma a
priori per l’identificazione dell’oggetto come uguale nei
due casi, presente e passato (cfr. supra la conclusione
del par. 3.7). Quando pensiamo al caso passato e a
quello presente, usiamo la stessa immagine per quelli
che sono gli elementi comuni, quindi siamo obbligati a
vederli come uguali. Ciò che poi differenzia i due casi,

394
per definizione, è la presenza, nel caso attuale, di
elementi assenti in quello passato.
Il merito di questa osservazione è anche di sollevarci
dal peso di un paradosso altrimenti molto minaccioso: le
teorie dell’induzione in genere scelgono di ammettere
all’interno dell’evidenza iniziale anche il riferimento,
pur mediato dalla memoria, a dati di osservazione
passati, eppure è esperienza comune che la memoria
può ingannare, e che anzi in certi casi disponiamo di
conoscenze (induttive) empiriche che ci permettono di
capire se ricordiamo male: conoscenze relative ad
episodi collaterali a quello ricordato, o anche
l’esperienza pregressa che, ad es., in condizioni di
particolare stanchezza, non riusciamo a tenere a mente
una quantità sufficiente di informazioni. Secondo il mio
modello invece, l’evidenza iniziale è costituita per
definizione da ciò che è dato-ora, nel “presente” (di
fatto fuori dal tempo) dell’io metafisico. È a partire da
questa base che devo ricostruire anche ciò che –
psicologicamente – è “passato”.
Quindi, in linea di principio, dovremmo essere in
grado di ammettere anche la rappresentabilità delle
relazioni che definiscono la posizione degli eventi non
ancora osservati, da cui la possibilità, da noi richiesta, di
fare previsioni induttive. Ma rimangono ancora dei
punti importanti da chiarire.

16.3. Il problema da cui siamo partiti, la possibilità di


rappresentare la posizione spazio-temporale di entità
non ancora osservate, è collegato ad un’altra questione,
che dovremo trattare con estrema cautela. Data la

395
caratterizzazione degli oggetti, è impossibile pensare
che uno stesso “oggetto”, considerato in quanto tale,
possa darsi (numericamente) più di una volta. Se un
oggetto è per definizione perfettamente semplice, come
potremmo distinguere un’occorrenza dall’altra?
Dovremmo servirci di qualcosa come un indice o un
“marcatore”, ma allora o l’oggetto non è più semplice,
oppure non lo stiamo più considerando solo in quanto
“oggetto”: stiamo considerando uno stato di cose. Ma la
mia argomentazione permette di giustificare l’induzione
solo in una formulazione molto precisa, che non dà per
presupposte le posizioni spazio-temporali (che solo
dopo, proprio grazie all’induzione, saranno introdotte),
ma si limita ad affermare: la relazione tra due o più
oggetti a, b, c, ... è costante ed inalterabile, tanto quanto
gli oggetti stessi.
Da questa premessa possiamo ottenere due esiti:
1) Se la relazione vale tra a e b, la presenza di un terzo
elemento c non dovrebbe essere mai in grado di
circoscriverne la validità. Ma questo risultato sarebbe
del tutto contro-intuitivo: siamo a conoscenza di un
buon numero di leggi che valgono se si verifica un
insieme di n condizioni, ma solo in assenza di varie
possibili condizioni ostative. La mia convinzione è che
il sole sorga ogni circa 24 ore, a meno che non si dia la
condizione che l’osservazione è condotta a latitudine
prossime al Polo. Dovrei quindi potermi rappresentare
una connessione che vale tra alcuni elementi, ma solo in
assenza di altri.
Una riflessione più attenta però ci fa accorgere che il
risultato temuto non è conseguente alla mia teoria.

396
Abbiamo già avuto modo di vedere che una
designazione come sole, con l’aiuto dei contesti in cui
ricorre, finisce per comporre l’immagine di scene
diverse a seconda che di volta in volta il designato sia in
certe relazioni o no con altri specifici designati, i. e.
“coesista” o no, nel soggetto metafisico, con essi,
possedendo ciascuno una ben precisa fattezza. Il limite
che incontriamo nel voler descrivere queste fattezze
proprio nel modo preciso in cui esse sono, è solo dovuto
al linguaggio: dovrebbe esserci stato un momento in cui
abbiamo concordato il significato dell’espressione che
le indica, ma a questo punto non servirebbe più
parlarne, perché sarebbe diventata una conoscenza già
nota e presupposta alla comprensione reciproca. Dato
che non possiamo parlarne (non avrebbe senso volerlo
fare), siamo portati (psicologicamente) a ritenere che la
“parola” che le indica non possiede quello come
significato (quello che “mostra” ipso facto tutte le
relazioni riscontrate dal singolo osservatore tra i
designati), ma solo quello molto più indeterminato che
il canone linguistico intersoggettivo stabilisce come
legittimo, in modo da far salva (con margine più o meno
molto largo) la coordinazione sociale dei punti di vista.
Ma in realtà non è vero che la fattezza specifica di
ciascun designato non si “mostri”, singolarmente a
ciascuno che possiede tale conoscenza – ed è appunto
questa conoscenza che ci si “mostra” soggettivamente,
che ci guida poi a compiere le inferenze induttive del
caso (ce le fa apparire “evidenti”).
Dato un insieme di conoscenze che corrispondono
all’espressione “trovarsi al Polo”, l’espressione “sole”

397
designa già un’entità con una fattezza tale che il
risultato “concreto” del giudizio è di pensare che il sole,
al Polo, non sorge ogni 24 ore. Tutto l’insieme delle
condizioni iniziali rilevanti (soggettivamente) per
compiere un’inferenza induttiva, è contenuto nella
collezione delle designazioni coinvolte. Una possibile
fonte di confusione è che siamo abituati a pensare che le
varie condizioni iniziali rilevanti siano state scoperte in
momenti diversi, quindi siano dissociabili tra loro – così
come posso raffigurarmi diversi soggetti epistemici che
sono a conoscenza dell’una ma non dell’altra
condizione rilevante. Ma questa abitudine di pensiero è
dovuta solo alla nostra fiducia istintiva nel realismo
ingenuo: ad un’analisi logicamente accurata, dobbiamo
ammettere che il soggetto metafisico coglie, in un
“presente” intemporale, tutte insieme le condizioni
iniziali rilevanti. L’esito ipotizzato in (1) può essere
quindi escluso. Andiamo allora ad esaminare una
diversa possibilità.
2) Da (1) sappiamo che le condizioni iniziali rilevanti
agiscono sempre (rispetto all’io metafisico) tutte
insieme. Sappiamo anche che le diverse posizioni
spazio-temporali non possono essere presupposte, ma
sono costruite per inferenza induttiva attraverso diversi
anni di esperienza del bambino. Inoltre un “oggetto” è
semplice, quindi non può darsi (numericamente) più di
una volta, a meno che non si intenda solo che esso
(numericamente singolare) interviene però in più di uno
stato di cose.
Da queste premesse, segue che l’unica formulazione
che possiamo accettare per il principio d’induzione,

398
dovrebbe essere una cosa del tipo: A condizioni iniziali
uguali, sono connesse conseguenze (in senso logico)
rigorosamente identiche. Infatti (i) non abbiamo diverse
posizioni spazio-temporali cui “ancorare” – come
principium individuationis – le entità coinvolte:
possiamo servirci, a questo scopo, solo di marcatori
empirici (quindi stati di cose). (ii) Dobbiamo fare agire
sempre tutte insieme le entità messe in relazione.
Il problema allora è: un oggetto può essere detto
occorrere in due stati di cose diversi, se e solo se riceve,
nei due casi, predicazioni diverse, che consentano –
come dei marcatori – di distinguerlo. Ma così le stesse
condizioni iniziali vengono ad essere diverse: perché
allora l’inferenza induttiva in questione dovrebbe essere
considerata ancora valida? Se sono differenti le
condizioni iniziali, il caso osservato non può essere
portato come esempio pertinente per prevedere
induttivamente un caso futuro. La conclusione
sembrerebbe allora essere che il principio d’induzione
non può essere di fatto applicato in nessuna maniera che
sia informativa: può essere utilizzato solo quando i casi
non ancora osservati siano identici a quelli dati ora.
La strategia che stiamo seguendo dovrebbe essere in
grado di fornirci una traccia di risposta: gli eventi non
ancora osservati sono, per definizione, indeterminati:
mancano di alcuni elementi rispetto a quelli
(interamente/ora) dati. Due eventi non ancora osservati
si distinguono l’uno dall’altro perché mancano l’uno di
alcuni, l’altro di altri elementi: se ce li rappresentassimo
interamente identici, non potremmo distinguerli
(identità degli indiscernibili). Allo stesso modo essi

399
sono distinguibili dagli eventi dati al presente: questi
ultimi hanno, gli altri no certe predicazioni. Questo
produce nei due casi una diversa distribuzione delle
relazioni in generale, quindi anche di quelle che
definiscono la posizione spazio-temporale. Quindi gli
eventi non dati-ora saranno distinguibili sia tra loro sia
da quelli dati-ora. Più in particolare sembra plausibile
ritenere che la nozione di “passato” richieda una doppia
caratterizzazione psicologica: (i) nasca – e continui in
una certa misura a essere sentita – come senso
soggettivo di un’esperienza di cui si è certi e che è
avvertita come non modificabile; (ii) quando su questa
base si innesta la costruzione di uno spazio e di un
tempo condivisi e strutturati ordinatamente, da un lato si
affievolisce il senso di certezza (epistemica), dall’altro il
carattere di irrevocabilità viene ad essere riconosciuto
anche al passato personale (anche se sconosciuto) degli
altri soggetti epistemici, e in genere a tutti i “punti di
vista” che pure siano solo la prospettiva potenziale di
osservatori virtuali. (iii) Una serie di regolarità che
descrive l’insieme di queste caratteristiche, definisce il
“passato” e, con le variazioni del caso, il “presente”
psicologici. Tutte queste informazioni serviranno anche
a distinguere mediante “marcatori”, tra gli eventi non-
dati ora, quelli appartenenti (a) al passato non-proprio
(esperiti da altri soggetti o proprio non-esperiti da
alcuno), (b) al passato personale, (c) al presente
psicologico degli altri soggetti, (d) al futuro, oltre che
quelli (e) appartenenti al presente personale psicologico:
esperiti dal mio io-persona attuale, in quanto fenomeno
empirico, essenzialmente diverso dall’io metafisico. Gli

400
eventi che ricadono sotto (e) ad es. includono il dato del
bianco della carta su cui scrivo, ma non l’azzurro del
mare che si trova lontano in questo momento da me (per
quanto l’io metafisico ne abbia pure – nel caso lo pensi
– rappresentazione). L’informazione ad es. che un
evento sia stato esperito da un altro individuo invece
che da me, è espressa attraverso la rete delle relazioni
causali che in genere si collegano a situazioni di questo
genere.

16.4. Dobbiamo però riconoscere che formalmente,


rispetto all’io metafisico, l’induzione non produce
alcun ampliamento della conoscenza. Ma questa tesi
può apparire paradossale solo se si confonde la nozione
di io metafisico con quella di io-persona: rispetto all’io
metafisico, non esiste un “esterno” da conoscere
attraverso l’induzione. Il problema filosofico
dell’induzione è solo quello di spiegare l’impressione
che abbiamo (più o meno confusa) che valgano alcune
uniformità nella descrizione che il realista fa dei
fenomeni concreti.
Anche per chiarire gli effetti di questa differenza tra
la dimensione dell’io metafisico e quella degli io-
persona, dobbiamo riprendere alcune osservazioni già
fatte. Il realismo dice “La stanza non è fredda”, e questo
ci porta a pensare che tra stanza e freddo non si dia una
qualche relazione. Ma se si considera il significato
pienamente determinato dei designati (eludendo quella
che Quine chiama “trazione oggettiva”), si troverà
necessariamente che qualche “relazione” tra i designati
si dà. Le designazioni smeraldo e verde realizzano

401
insieme il contenuto cognitivo che il realismo esprime
dicendo che “Gli smeraldi sono verdi”. Se siamo
interessati all’“associazione” che così si immagina
corrispondere al verbo “essere”, diremo che smeraldo è
“associato” con verde, e che smeraldo è “non-associato”
con giallo; se ci riferiamo invece all’“associazione” che
il realismo esprime con “essere incastonato in un anello
di colore ...”, allora alcuni smeraldi (cioè smeraldo e
certi suoi “marcatori”) saranno “associati” con giallo (se
risultano incastonati in un anello di oro giallo), altri con
verde (se l’anello è verde). Ma tra due oggetti qualsiasi
c’è sempre qualche rapporto, quindi ogni designazione
risulterà “associata”, in qualche maniera, con ciascuna
delle altre. Solo che in molti casi l’“associazione” in
questione è considerata come del tutto irrilevante:
mentre penso che domani mattina devo portare
l’automobile dal meccanico, posso esprimere, oltre al
giudizio “L’impianto per il raffreddamento è
danneggiato” (molto sinteticamente: “impianto,
raffreddamento, danneggiato”), anche “L’officina è
deserta” (“officina, deserto”). Ma in quest’ultimo
giudizio (se non ho motivo di credere che l’officina
“sia” deserta) starei solo designando insieme officina e
deserto, dove però il contenuto d’informazione che
associo all’espressione “deserto” potrebbe essere, ad es.,
solo lo spazio completamento vuoto che mi aspetto di
trovare nel negozio adiacente all’officina del mio
meccanico. La relazione, in effetti realmente esistente
tra queste due designazioni, non mi dà però nessuna
informazione rilevante per prevedere quanto tempo mi
ci vorrà per la riparazione della mia auto. Per questo

402
semplice motivo, se mi si chiedesse quali sono gli
elementi in base ai quali programmo la mia giornata di
domani, sarei portato a non prendere in nessuna
considerazione la relazione che pure lega – a rigore –
l’officina e il negozio vicino. Data la ripetizione
continua, lungo tutta la vita della persona, di un
meccanismo psicologico di questo tipo, si diviene infine
convinti che non esista (ontologicamente) una relazione
tout court – a patto che una tale relazione non ci
interessi.

16.5. Andiamo a considerare ora il seguente caso.


Poniamo di non aver mai visto il sole sorgere sul mare.
Sappiamo però perlomeno che il sole sorge sempre ad
Est e che la città P, che si affaccia sul mare, ha il mare
ad Est. Programmiamo di trovarci a P in tempo e in una
posizione idonea per vedere l’alba: verosimilmente
prevederemmo di osservare il sole sorgere sul mare,
anche se fino ad ora non abbiamo mai fatto questa
esperienza. Vediamo se la mia teoria dell’induzione
consente la rappresentabilità di un tale caso mai prima
osservato. La base della rappresentazione dovrebbe
essere costituita dai designati orizzonte, sole, mare.
Nell’evidenza iniziale orizzonte è “associato” a sole in
certi contesti noti (scripts), a mare in altri. Poniamo che
la relazione tra sole e orizzonte contenga una cosa del
tipo “essere otticamente vicino a ... in certe condizioni
di luminosità”, in modo da dare la descrizione di
un’alba (non sul mare). Tra orizzonte e mare invece
diciamo che la relazione sia del tipo “essere occupato da
...” (ma senza la presenza del sole basso sul mare).

403
Dobbiamo ora insistere sul fatto che ognuna delle
immagini che costituiscono l’evidenza iniziale contiene
in realtà un numero grandissimo di elementi. Ciò posto,
si può dire: nell’immaginare un evento mai osservato
prima (l’alba sul mare), possiamo conservare i designati
sole, orizzonte, mare, insieme a tutti quelli che
completano la descrizione del rapporto che desideriamo
tra sole e orizzonte, e tra orizzonte e mare, e sopprimere
quelli che danno l’“associazione”, tra mare e sole (in
quanto non contigui), che noi non vogliamo. Queste
operazioni di selezione dei designati da mantenere, sono
del tutto possibili in quanto successione di eventi nella
mente di un io-persona, e sono padroneggiabili da un
tale soggetto epistemico grazie all’esperienza
accumulata in alcuni anni di attività d’inferenza.
Otterremmo in questo modo la raffigurazione di un sole
che sta sorgendo, e di un orizzonte che è occupato dal
mare.
La difficoltà psicologica che possiamo avere a fare
mente locale ad un tale tipo di descrizione delle nostre
operazioni di pensiero, è dovuta al fatto che siamo
abituati a trattare con collezioni estremamente ampie di
elementi: ad es. mare è inestricabilmente connesso a
tutti gli elementi che danno, insieme, le conoscenze che
abbiamo sul mare (come raggiungerlo, azioni come il
nuotare etc.). L’unico modo per trascurare una parte di
questi elementi è che, al momento, essi non siano
attivati dal nostro sistema nervoso, pur rimanendone
presenti un numero sufficiente di altri che diano
l’immagine (per quanto di un po’ più vaga e astratta) di
qualcosa che ancora saremmo disposti a chiamare

404
“mare”. Di fronte ad una collezione molto ampia di
elementi, è utile parlare come se, pur in assenza di un
certo numero di essi, si possa ancora continuare a dire
“mare”, e in maniera simile, se ci troviamo in un parco,
dire che se certi elementi compaiono in un caso ma non
in un altro, abbiamo per es. due alberi e non uno. Ma
questo modo di intendere le cose sarebbe del tutto
assurdo se trasferito al piano delle relazioni tra oggetti
semplici. Qui infatti, una volta che siamo riusciti a
prescindere mentalmente da una quantità enorme di
elementi e conoscenze che abbiamo, e siamo così
rimasti con “particelle” di significato estremamente
astratte (“semplici”, anche se non vuote di contenuto
d’informazione), da un lato siamo sì ancora in grado di
riconoscere un rapporto tra le particelle elementari così
individuate A e B: è la somma di tutte queste varie
particelle (e dei loro rapporti – che fanno tutt’uno con
esse) che dà le immagini complessive delle cose. Ma
dall’altro mi sembra che sia chiaro che, mentre per
collezioni estese di elementi, possiamo immaginare un
“sostrato” che rimanga più meno costante pur nel
cambiamento delle relazioni che gli vengono assegnate,
invece per elementi semplici non è neppure concepibile
che una diversa relazione possa essere assegnata allo
stesso elemento iniziale: non sarebbe più riconoscibile
come lo “stesso” elemento.
Se ci chiedessero di rappresentare linguisticamente il
solo rapporto tra A e B, ci troveremmo di fronte ad una
difficoltà insuperabile: noi vediamo quale è il rapporto
tra A e B, grazie alla sola ispezione di A e B, ma il
nostro interlocutore (i) non potrebbe mai capire quali

405
sono i designati proprio delle parole “A” e “B” che
potremmo provare ad adoperare, (ii) anche se lo capisse,
la condizione sarebbe di trovarsi in uno stato cognitivo
esattamente uguale al nostro, ma allora la
comunicazione attraverso la frase “A è B” sarebbe per
definizione inutile. L’abitudine a non poter parlare nei
termini di questi rapporti tra elementi semplici, ci porta
a ritenere che la realtà e il pensiero debbano pure essere
conformati secondo quella che è la struttura del discorso
tra diversi soggetti epistemici.
Si potrebbe dire che in linea di principio potremmo
anche avere a che fare non con uno stesso orizzonte, sia
otticamente vicino al sole, sia occupato dal mare. Il
fatto è che dobbiamo ricordare che le designazioni
coinvolte sono sempre in numero elevatissimo, e una
volta soppresse tutte quelle non volute, avremo
un’immagine molto più “astratta” e meno completa
della scena in questione. Può accadere anche che, tra le
designazioni che psicologicamente siamo stati portati a
conservare, ce ne siano proprio alcune che rendono
impossibile costruire un’unica scena unitaria. Nella
terminologia di Wittgenstein, la sintassi logica di “sole”
escluderebbe che il sole possa sorgere proprio sul mare,
così come una superficie non può essere sia blu sia
verde. Nella mia versione, significherebbe che le nostre
esperienze e teorie astronomiche ci portano – per
induzione – ad essere convinti che il sole non possa mai
sorgere sul mare: per quanto non sia il nostro caso, sono
ben concepibili popoli le cui conoscenze geografiche e
convinzioni cosmologiche li inducano a considerare
impossibile che il sole possa sorgere sul mare. La

406
distinzione, tra possibilità logica e fisica, che viene così
in qualche modo negata, da un lato ci permette di
riprendere – in una certa misura – le note tesi di Quine
sul “dogma” della distinzione analitico/sintetico (ma
non è il caso qui di soffermarsi sull’argomento),
dall’altro sarà da considerarsi essa stessa una
costruzione teorica, che serve a sorreggere e tenere in
ordine tutta una visione del mondo e una metafisica
estremamente complesse quali quelle che storicamente
l’hanno elaborata.
I risultati ottenuti sono del tutto intuitivi: l’immagine
che riusciamo a farci di un fenomeno nuovo, mai
osservato prima, dipende di certo, specie per la sua
fisionomia esatta, dai dettagli dei fenomeni che invece
abbiamo osservato. Così chi sia sempre vissuto in un
paese a clima mediterraneo, trovandosi nella situazione
dell’ipotesi, si rappresenterebbe il sole come più caldo e
meno opaco di uno che fosse vissuto sempre in un paese
nordico. Inoltre i percorsi mentali soggettivi possono
dare facilmente l’impressione di essere non-induttivi,
ma è solo a causa dell’estrema plasticità del cervello
umano: la massa di dati presenti ad ogni istante, è
selezionata di volta in volta in modo da presentarsi nelle
fisionomie più diverse nel corso del processo di
formulazione e valutazione delle varie ipotesi. Ma si
tratta di un procedimento che può essere descritto
adeguatamente anche in termini di inferenze induttive
(soggettive).
Ammesso che, per questa via, possiamo dare
pienamente conto di quelle che il realismo vede come
rappresentazioni di situazioni “nuove”, possiamo allora

407
anche ammettere la rappresentabilità delle relazioni che
definiscono la posizione spazio-temporale di eventi non
ancora verificati, e quindi giustificare le previsioni fatte
per inferenza induttiva. Osserviamo però che (i) non
sempre il realista considererebbe plausibile la
generalizzazione induttiva di una certa evidenza
iniziale, ma (ii) in effetti la mia teoria – per l’ultima
argomentazione portata – non implica che siano da
accettare tutte quelle che il realista vedrebbe come
generalizzazioni induttive formalmente possibili, anche
se del tutto paradossali. Così come possiamo
rappresentarci il sole albeggiare sul mare, anche senza
averlo mai visto prima, allo stesso modo, per un’analoga
linea di ragionamento, potremmo evitare conclusioni
indesiderate come quelle congetturate da Goodman –
pur continuando a disporre di una base solida per
spiegare l’esistenza di uniformità di natura ampiamente
diffuse. In ogni caso, nelle appendici I e II, cercherò di
affrontare i noti “paradossi dell’induzione” posti da
Hempel e Goodman, ma le strategie di soluzione che
proporrò sono indipendenti dal discorso fatto finora.

16.6. Un’altra importante obiezione potrebbe essere


formulata così: il mio ragionamento presuppone che un
“oggetto”, nel senso del Tractatus, non possa occorrere
(in quanto oggetto) più di una sola volta. Potremmo
distinguere due o più occorrenze come numericamente
diverse, solo apponendo dei “marcatori”, ma così non
avremmo più un “oggetto”, ma uno stato di cose. Il
problema è che percettivamente sembra ovvio che ad
es., date due macchie celesti su di un foglio, vedo

408
(almeno) due occorrenze di celeste e non una.
Possiamo andare contro quella che pare un’evidenza
così chiara? La mia risposta è che anche qui è in gioco
una confusione dovuta alle convinzioni presupposte dal
realismo ingenuo. Ciò che mi permette di distinguere
due macchie come due è il rilevamento ulteriore di
alcune caratteristiche che l’una possiede e l’altra no: è
essenziale il riferimento non più all’“oggetto” in quanto
tale, ma a delle relazioni che esso intrattiene con altri
oggetti (uno stato di cose). Se avessi l’abitudine di
pensare al celeste in astratto, prescindendo da tutte le
possibili circostanze in cui lo osservo in concreto, mi
sarebbe più facile – anche psicologicamente – pensare
alle “due” occorrenze come il darsi di un unico oggetto
(che poi è in relazione con almeno altri due oggetti
diversi). La locuzione “pensare al celeste in astratto”,
deve essere presa alla lettera – come è sempre giusto
fare nell’analisi filosofica: se davvero prescindiamo da
tutte le ulteriori determinazioni, del designato celeste
rimane solo qualcosa che è appunto indistinguibile “tra
un caso e l’altro”. Anche qui possiamo riconoscere uno
scambio di piani simile a quelli già osservati: per le
entità concrete ha senso parlare di un sostrato (un
insieme di certi elementi semplici) che rimane uguale da
un caso all’altro (in contesti costituiti da altri oggetti,
diversi di volta in volta). Non è però corretto trasferire
un’abitudine di pensiero acquisita per questa via, al
piano delle unità ontologiche più elementari, dove, se
mutasse il “sostrato”, non ci sarebbe più alcuna
speranza di riconoscere l’oggetto come “uguale”
(numericamente e qualitativamente). Inoltre il realismo

409
ingenuo ci abitua a pensare che esistano entità diverse e
indipendenti dalla rappresentazione che ne abbiamo: in
questo modo diventa lecito intendere che, anche se
prescindiamo (mentalmente) da tutti gli aspetti tranne
uno, comunque l’unico rimanente continua
(ontologicamente) ad essere diverso in qualcosa da
come sarebbe se non fosse in connessione (nella realtà)
con quelli da cui abbiamo fatto astrazione. Quindi
esemplari diversi (numericamente) di celeste
continuerebbero ad essere numericamente differenti,
anche se facciamo astrazione dalle ulteriori
determinazioni che li rendono differenti: l’operazione di
astrazione sarebbe puramente mentale, e non
inciderebbe sull’essere degli oggetti in questione. Ma
qui è rifiutata la premessa stessa del realismo ingenuo,
che è necessaria per dar luogo a tutto questo
ragionamento. Inoltre il meccanismo concettuale di
fondo che rende contraddittorio il realismo ingenuo
trova in questo caso una nuova applicazione: mentre (si
dice) “prescindiamo” da tutti gli altri aspetti, comunque
i loro effetti ontologici devono continuare ad agire –
differenziando numericamente “nella realtà” i diversi
esemplari di celeste –. Ma l’obiezione fondamentale è
che, se facciamo davvero astrazione da alcuni aspetti,
non possiamo ritenere di continuare ad avere ancora
comunque accesso a quegli aspetti che – per ipotesi –
stiamo (anche se momentaneamente) ignorando.
Se procediamo invece ad identificare la
rappresentazione (posseduta dall’io metafisico) e il
rappresentato, si deve ammettere che prescindere
“mentalmente” da un aspetto, comporta ipso facto che

410
non consideriamo più nemmeno l’esistenza “reale” di
quell’aspetto, né quindi le sue possibili implicazioni
ontologiche. Osservando due macchie celesti, se
riusciamo a fare astrazione da tutte le ulteriori
determinazioni che le differenziano, facciamo venir
meno (nell’istante in cui compiamo il processo
d’astrazione) anche l’esistenza di tutte queste
determinazioni. Ciò non toglie che una forma non
ingenua di realismo sia senza dubbio conservata:
l’impianto teorico proposto permette infatti di
continuare a far salve tutte le intuizioni alla base dei
giudizi comunemente dati. Ad esempio, l’idea che
l’essere delle cose non sia intaccato dall’operazione di
astrazione, può essere plausibilmente analizzata come:
“per un istante – o per quanto dura l’atto di astrazione –
alcuni aspetti non sono considerati, ma poi tornano a dar
segno di sé”. Dire che quegli aspetti “continuano, nella
realtà, ad esistere” è, grossomodo, una maniera più
enfatica per dire che torneranno a dar segno di sé: per le
esigenze della vita quotidiana, stare a specificare che un
certo aspetto è scomparso per un attimo, i. e. rispetto ad
un certo soggetto epistemico, e riapparirà subito dopo, i.
e. rispetto ad un diverso soggetto epistemico, dove i due
soggetti sono parte di una sequenza temporale di io-
persona causalmente connessi tra loro etc., sarebbe
ovviamente un’inutile dispendio di risorse, né la
precisazione di tutte queste informazioni aggiungerebbe
alcunché alla conoscenza che di fatto è implicita nella
formulazione più sintetica che si sceglie in genere.

16.7. Dopo questi indispensabili approfondimenti,

411
possiamo tornare a soffermarci sulla logica di base che
sottende alla mia teoria. Il punto è che il contenuto
cognitivo della proposizione “Ho visto uno smeraldo in
P ed era verde”, deve essere ridotto al darsi delle
designazioni: smeraldo, verde, P. Così la congiunzione
delle proposizioni su dette A, A’ etc. si limiterà ad
includere le corrispondenti designazioni P’, P’’ etc.,
dove smeraldo e verde continuano a comparire sempre
ciascuno come un unico designato del tutto inalterabile.
In maniera analoga si deve procedere per (B*). Ora, la
condizione per affermare il contenuto cognitivo
espresso da A* è – proprio per il contenuto dei giudizi
in questione – di affermare ipso facto anche (C*), e,
sotto le condizioni prima indicate (la rappresentazione
delle posizioni spazio-temporali di eventi non presenti),
(B*).
In effetti è intuitivo che se quelle che il realismo vede
come le diverse occorrenze dell’universale verde,
dovranno ridursi, in quanto tali, all’esistenza della
singola designazione verde, le relazioni che sono state
osservate in un caso (per es. con smeraldo) dovranno
valere in assoluto. D’altra parte se verde è stato
osservato anche per es. con erba, mela, mare, allora ad
essere generalizzato sarà tutto il sistema di relazioni che
verde intrattiene con queste designazioni, e così vale per
il fatto che un certo designato (ad es. mela) sia in
relazione con verde, ma anche con rosso e così via.
Hume ha esemplificato i suoi dubbi sull’induzione
immaginando che Adamo, un istante dopo essere stato
creato, senza aver acquisito ancora altra conoscenza,
veda una palla da biliardo che ne sta per colpire una

412
seconda: il filosofo scozzese è convinto che Adamo non
potrebbe mai prevedere che l’urto muoverà anche la
prima palla. La mia proposta è (i) di sostituire l’esempio
con uno più maneggevole, che non comporti il
riferimento ad una nozione complessa come quella di
spazio e tempo, quindi (ii) di osservare che se Adamo,
senza disporre di altre conoscenze ed esperienze,
vedesse per es. un cigno bianco, non conoscendo altro,
sarebbe obbligato a priori a rappresentarsi i cigni come
necessariamente bianchi, e, sotto le condizioni dette, a
immaginare, per così dire, che tutto il mondo sia come
un grande cigno bianco.
Nelle parole di Wittgenstein – che non intendeva
riferirsi all’induzione, ma abbiamo visto che il suo
discorso sembra proprio avere implicazioni per questo
problema –: “Se ho contemplato la stufa e mi si viene a
dire: ma adesso non conosci che la stufa, certo il mio
risultato pare esiguo. Così infatti la si mette giù come se
io avessi studiato la stufa tra le molte, molte cose del
mondo. Ma, se ho contemplato la stufa, essa era il mio
mondo, e di contro tutto il resto smoriva ... Si può infatti
concepire la mera rappresentazione presente sia come la
vana immagine momentanea in tutto il mondo
temporale, sia come il mondo vero tra le ombre”
(Quaderni, 8.10.16). Un pregio di questo passo è anche
che l’autoironia che sta alla base dell’esempio scelto,
sembra denunciare il bisogno dell’autore di
sdrammatizzare il peso di una verità filosofica che,
presumibilmente, veniva messa in relazione con le tesi
sul misticismo e con l’idea che “Intuire il mondo sub
specie aeterni è intuirlo quale tutto – limitato –” (6.45).

413
L’idea di fondo torna ad essere quella che, all’inizio
di questo scritto, ho descritto come uno “scambio”: dato
l’insieme dei dati immediati, il soggetto epistemico lo
prende come se fosse l’intero universo, ma l’illusione è
così perfetta – per una necessità logica, rilevata
dall’idealismo –, da non poter neppure essere vista
propriamente come un’“illusione”. Il moltiplicarsi delle
esperienze, per quanto possa continuare a lungo, non
metterà mai capo alla possibilità di uscire da questa
“illusione”, dato che la rete delle nostre inferenze potrà
diventare solo più fitta e complessa – ma non potrà mai
svilupparsi secondo una logica non-induttiva. Ciò che
può rasserenarci è però che, letteralmente, tutto questo
non è concepibile come una sorta di errore, dato che non
possiamo neppure formulare un tale pensiero. La paura
di un errore sistematico, che affondi le sue radici nella
natura stessa del nostro pensiero, può essere esclusa in
quanto auto-contraddittoria. Rimane naturalmente la
consapevolezza di tutti gli errori che possiamo
commettere nel merito delle singole questioni.

414
APPENDICE I. Il problema dell’evidenza iniziale nel
paradosso di Hempel92

1. Introduzione. Se abbiamo osservato di notte la luna


piena, e se ci serviamo di una teoria dell’induzione che
pretenda di far proprio il requisito di monotonia,
potremmo trovarci a dover considerare confermata
l’ipotesi:
(i) “La luna di notte appare sempre piena”
come risultato della generalizzazione condotta
sull’evidenza a disposizione; ma in seguito, quando
vedremo la luna in fase calante, lo stesso varrà anche
per:
(ii) “La luna di notte appare sempre in fase
calante”
oltre che per:
(iii) “La luna di notte appare a volte in fase
calante e a volte piena”
Il fatto è che, mentre in una deduzione della logica
classica, possiamo aggiungere nuove premesse alle
vecchie ed aspettarci che le conclusioni
precedentemente ricavate vengano comunque
conservate, in una logica induttiva questo non accade: il
requisito di non monotonia (che sembra plausibile far
valere in un tale contesto) implica infatti che se, dopo
aver visto (solo) la luna piena, osserviamo anche la
luna in fase calante, non saremo più autorizzati a
considerare necessaria la deduzione di (i). Mi
92
Le Appendici I – II possono essere lette come indipendenti tra
loro e da tutto il resto di questo lavoro.

415
propongo di dimostrare nelle pagine che seguono che
queste considerazioni invalidano il ragionamento
portato da Hempel (1945) a difesa del suo noto
paradosso. Infatti se l’evidenza iniziale (e. i.) è
costituita da
(e) “a non è nero e non è un corvo”
possiamo concludere, come fa Hempel, che viene
confermata l’ipotesi
(iv) “Tutti i corvi sono neri”
Ma se l’evidenza iniziale contiene anche altre
informazioni, ad es.:
(e’) “a è una foglia ed è verde”
come espressamente viene specificato da Hempel e
come è necessario perché sorga il paradosso, accade
che ad essere confermata è:
(v) “Tutte le foglie sono verdi”
che non implica, come nel ragionamento di Hempel,
che tutti gli oggetti non-neri sono non-corvi, e, di
conseguenza, non conferma (iv).

2. Chi accetta la possibilità di confermare mediante


l’induzione un’ipotesi di forma universale come:
(i) “Tutti i corvi sono neri”
può trovare una valida formulazione per le proprie
intuizioni in quello che Hempel (1945, p. 10) chiama
“criterio di Nicod” (CN), riferendosi all’opera
Foundations of Geometry and Induction di Jean Nicod
(1930, p. 219). In base a (CN) (i) sarà confermata
dall’osservazione di (e solo di) ogni oggetto che risulti
essere sia un corvo sia nero: l’osservazione di un corvo
non-nero falsificherebbe (i), mentre l’osservazione di
ogni cosa che non sia un corvo (sia essa nera oppure
no) sarebbe considerata irrilevante per la valutazione
dell’ipotesi.

416
In più Hempel introduce quella che chiama
“condizione di equivalenza” (CE): “Whatever confirms
(disconfirms) one of two equivalent sentences, also
confirms (disconfirms) the other” (1945, p. 12).
Per quanto almeno (CN) non sia affatto ovvio, date
le critiche tradizionali che vengono opposte al principio
di induzione, i due concetti sembrano essere perlomeno
di semplice e chiara applicazione. Il merito di Hempel è
di aver mostrato che non è affatto così: è la stessa
formulazione di un criterio per applicare il principio di
induzione che solleva problemi del tutto inaspettati:

if a is both a raven and black, then a certainly confirms


S1: ‘(x) (Raven (x) → Black (x))’, and if d is neither
black nor a raven, d certainly confirms S2:
“(x) (~Black (x) → ~Raven (x))”.
Let us now combine this simple stipulation with the
equivalence condition: Since S1 and S2 are equivalent, d
is confirming also for S1; and thus, we have to recognize
as confirming for S1 any object which is neither black
nor a raven. Consequently, any red pencil, any green leaf,
and yellow cow, etc., becomes confirming evidence for
the hypothesis that all ravens are black. (Hempel, 1945,
p.14)

In più:

The following sentence can readily be shown to be


equivalent to S1: S3: “(x) [(Raven (x) v ~Raven (x)) →
( ~Raven (x) v Black (x))]”, i. e. “Anything which is or is
not a raven is either no raven or black”. Accordingly to
[(CN)], S3 is confirmed by any object, say e, such that (1)
e is or is not a raven and, in addiction, (2) e is not a raven
or also black. Since (1) is analytic, these conditions
reduce to (2). By virtue of the equivalence condition, we

417
have therefore to consider as confirming for S1 any
object which is either no raven or also black. (HEMPEL,
1945, p.14)

La conclusione per le teorie dell’induzione sarebbe


chiaramente disastrosa: qualunque osservazione che
non contraddice logicamente S1, la conferma – anche
tutti quei casi che (CN) giudicherebbe irrilevanti.

3. La strategia di soluzione di Hempel (1945, pp. 18


ss.) si basa sul concetto di “finzione metodologica”: per
compiere correttamente un’inferenza induttiva, è
necessario immaginare che gli unici dati a nostra
disposizione siano quelli indicati esplicitamente come
evidenza iniziale. Se accade che nella realtà
conosciamo altre notizie sul fenomeno oggetto di
studio, la coerenza metodologica impone comunque di
“fingere” di non possederle. Il compito che si dà
Hempel è infatti quello di costruire una “definizione
puramente sintattica di conferma” (HEMPEL, 1943).
In che modo questo principio incide sulla
comprensione del paradosso? Hempel porta il seguente
esempio: la proposizione “Il sale di sodio brucia sempre
dando una fiamma gialla” viene corroborata non solo
riscontrando che un campione che contiene sali di sodio
brucia effettivamente dando una fiamma gialla, ma
anche nel caso in cui l’osservazione mostri una
sostanza che brucia senza dare una fiamma gialla, e
analisi successive rivelino che quella sostanza non
conteneva sali di sodio: qui non sembra esserci alcun
paradosso (per quanto formalmente la situazione sia
uguale a quella dei non-corvi non-neri), perché il fatto
di non sapere in partenza quale fosse la sostanza in
esame, ci “aiutava” a rispettare la finzione

418
metodologica. L’ignoranza reale, e non simulata, per
così dire, ci agevolava nel compito di adoperare
correttamente (CN).
Invece, se sappiamo che la sostanza su cui
lavoriamo è ghiaccio puro, e che il ghiaccio puro non
contiene sali di sodio, è (psicologicamente) più facile
che commettiamo un errore: se il risultato
dell’esperimento è una fiamma non-gialla, non lo
consideriamo una conferma dell’ipotesi perché questa
richiede che in tal caso “the substance contain no
sodium salt – and we know beforehand that ice does
not”, mentre se il risultato è che abbiamo una fiamma
gialla, “the hypothesis would impose no further
restrictions on the substance” (HEMPEL, 1945, p. 19).
Il nostro errore sarebbe di introdurre tacitamente
“the knowledge (1) that the substance used in
experiment is ice, and (2) that ice contains no sodium
salt” (HEMPEL, 1945, p. 20), ma così l’esperimento
finisce per non dare alcuna nuova conferma
dell’ipotesi: semplicemente perché l’informazione che
ricaviamo era già a nostra disposizione.
È da sottolineare che, per Hempel, noi comunque
raccogliamo un’informazione che altrimenti sarebbe
rilevante per valutare l’ipotesi: il problema è solo che
nel nostro caso era un’informazione già disponibile.
L’impressione che ci sia un paradosso sarebbe quindi
illusoria: l’evidenza che abbiamo conferma
effettivamente l’ipotesi sul sale di sodio in entrambe le
sue formulazioni, e questo avviene sia se rispettiamo
sia se non rispettiamo la finzione metodologica. La
differenza tra i due casi è che, solo nel secondo, siamo
portati (psicologicamente) a non dare importanza alla
conferma ottenuta (in quanto non nuova), e a pensare
quindi (erroneamente), che l’evidenza non dovesse

419
essere irrilevante. Se la tesi che proporrò è corretta, si
dovrà concludere invece che, se utilizziamo le
informazioni interdette dalla finzione metodologica, la
deduzione paradossale non è più possibile: non perché
l’equivalenza logica tra le due formulazioni non tenga
(naturalmente tiene), ma perché siamo obbligati (in
base alle caratteristiche del ragionamento non
monotono) a considerare confermata non l’ipotesi
(meno informativa): “Una sostanza che non è sale di
sodio, non brucia con fiamma gialla”, ma l’altra (più
informativa) che specifica 1) quale sostanza
adoperiamo, 2) il risultato effettivo della prova, e. g., se
il campione è costituito da sali di potassio, “I sali di
potassio bruciano sempre con fiamma violetta” – che
non implica, evidentemente, che il sale di sodio debba
bruciare dando una fiamma gialla.
Hempel considera inoltre la possibilità di un secondo
tipo di confusione (1945, pp.18-19): una formulazione
come “Tutti i corvi sono neri” suggerisce che si stia
parlando solo di corvi, mentre il senso reale della
proposizione (evidenziato bene dalla notazione
simbolica per mezzo del condizionale universale)
riguarda tutti gli oggetti, non solo quelli che rendono
vero l’antecedente. Infatti “a hypothesis of the form
“Every P is Q” forbids the occurrence of any object
having the property P but lacking the property Q”
(HEMPEL, 1945, p. 18). Quindi l’ispezione di qualunque
oggetto è rilevante per valutare (i), come si vede meglio
dalla formulazione, diversa ma equivalente, “Nulla è un
corvo non-nero”. Sarebbe quindi corretto concludere, a
rigore, che anche l’osservazione di una foglia verde
confermi l’ipotesi sui corvi.

4. Il dibattito che è seguito sulla nozione di “finzione

420
metodologica” è stato assai vivace: uno scienziato nella
pratica effettiva della ricerca fa largo uso delle sue
“conoscenze di sfondo”. Se quella che vogliamo
ottenere è “a ‘rational reconstruction’ of the concept of
confirmation as it is used in the methodology of
empirical science” (Hempel, 1943, p. 122), come
possiamo permetterci di ignorare un fatto così
importante?
La questione che io vorrei porre però è differente, ed
è: secondo quanto scrive Hempel, quale è esattamente
l’informazione che dovrebbe rimanere per principio
inutilizzabile per rispettare la finzione metodologica?
La risposta di Hempel è:

we have to ask: Given some object a (it happens to be a


piece of ice, but this fact is not included in the evidence),
and given the fact that a does not turn the flame yellow
and is no sodium salt – does a then constitute confirming
evidence for the hypothesis? (1945, p. 20)

Sembra quindi che, nel caso dei corvi, dovremmo


comportarci come se non sapessimo che a è una foglia
verde, basandoci cioè sulla sola informazione che a è
un non-corvo non-nero.
Ma nella formulazione sopra riportata del paradosso
si fa riferimento al fatto che “any red pencil, any green
leaf, and yellow cow, etc., becomes confirming
evidence for the hypothesis that all ravens are black”.
La formulazione letterale del paradosso implica quindi
che noi sappiamo che a è, ad es., una matita rossa. In
linea di principio si può pensare ad un semplice
equivoco tra uso attributivo ed uso referenziale:
Hempel scrive “red pencil”, suggerendo implicitamente
che ha in mente il significato attributivo (che

421
obbligherebbe a tener conto anche dell’informazione
che a è una matita rossa), ma intenderebbe
l’espressione, in realtà, in senso referenziale.
Se si accetta questa analisi, ne segue comunque che
l’interpretazione giusta, a rigore, è quella referenziale:
in questo caso non siamo più portati a pensare che
l’indicazione di Hempel sia che e. i. non deve includere
l’informazione che a è una matita rossa, e possiamo
tornare alla lettura precedente (basata su HEMPEL, 1945,
p. 20), per la quale l’informazione da utilizzare è tutta e
soltanto quella espressa da “a non è nero e a non è un
corvo”.
Quello che cercherò di mostrare in seguito è che,
con questa limitazione, viene a mancare un’importante
premessa, necessaria per far sorgere il paradosso.
Tornando però all’analisi del testo di Hempel, è
verosimile che la distinzione tra uso attributivo e uso
referenziale sia considerata qui non rilevante,
semplicemente perché, posto che sappiamo che a è una
matita rossa, possiamo sempre dedurre che allora a non
è nero e non è un corvo. Secondo questo modo di
vedere, l’informazione di partenza è sì più ampia
(sappiamo che l’oggetto è una matita rossa), ma poi è
del tutto corretto circoscriverla e selezionarla,
limitandoci a considerare “a non è un corvo e a non è
nero”, dato che questa proposizione è perfettamente
deducibile da “a è una matita rossa”.
Ci sono però buone ragioni perché in una logica
induttiva questo presupposto non venga fatto valere,
dato che la non monotonia è una caratteristica che
certamente il ragionamento induttivo deve possedere.
In logica classica, è possibile aggiungere nuove
premesse a quelle inizialmente considerate: le
conclusioni tratte in precedenza sono sempre coerenti

422
con le nuove (posto naturalmente che le vecchie e le
nuove premesse siano coerenti). Nel ragionamento
induttivo invece non sappiamo in anticipo se
l’introduzione di nuove premesse permetterà o meno di
conservare come valide le vecchie conclusioni, né
tantomeno sappiamo se possiamo sempre eliminare
senza conseguenze qualcuna delle vecchie premesse.
Chiaramente è proprio per questa ragione che viene
fatto valere lo stesso concetto di “finzione
metodologica”. (Hempel discute punti analoghi in
1986, pp. 89 ss. e in 1968).
Se ad es. abbiamo visto la luna per molti mesi di
seguito, possiamo formulare la legge che descrive il
succedersi delle sue fasi. Prese nella loro totalità, le
osservazioni che abbiamo condotto implicano
naturalmente che ad un istante t la luna era piena, ma
sarebbe assurdo impiegare solo questa parte di
informazione (per quanto essa sia logicamente
deducibile da e. i.) per sostenere che “La luna è sempre
piena”.
Per tornare all’esempio dei corvi, l’informazione che
a non è nero e non è un corvo, conferma la
proposizione “Tutte le cose che non sono nere, non
sono corvi”, che equivale (per contrapposizione) ad (i).
Ma l’osservazione che a è una foglia verde, conferma
(se consideriamo tutta l’informazione che essa
convoglia) “Tutte le foglie sono verdi”, che non implica
affatto (i). Quello che dobbiamo far valere è il principio
che vada utilizzata tutta e soltanto l’informazione
contenuta nelle premesse che rappresentano e.i. – ci
riferiremo ad esso nel seguito come “principio
dell’evidenza iniziale completa” (EIC).
Per mettere le cose in altri termini, che rendano forse
più chiari i passaggi del ragionamento che propongo,

423
possiamo dire che l’osservazione di un oggetto che sia
una foglia verde, ci permette di inferire che esso non è
nero e non è un corvo, ma possiamo dedurre su di esso
in realtà anche un gran numero di altre proprietà: da
una parte che non è rosso, né giallo, né bianco, ...,
dall’altra che non è un tavolo, né un bicchiere, né un
foglio di carta, ... . Se autorizziamo, con Hempel, il
riferimento alla prima parte di questa informazione (“a
non è nero e non è un corvo”), non abbiamo ragioni per
non richiamare anche tutta le parte restante. Vediamo
così che in realtà l’osservazione ad es. di una foglia
verde conferma:
(x) (Verde (x) . ~Nero (x) . ~Rosso (x) . ~Giallo
(x) . .... → Foglia (x) . ~Corvo (x) . ~Tavolo (x) .
~Bicchiere (x) . ...)93.
Per contrapposizione otteniamo:
(x) (~(Foglia (x) . ~Corvo (x) . ...) → ~(Verde
(x) . ~Nero (x) . ....)).
Quindi, per una semplice legge di De Morgan,
(x) (~Foglia (x) v Corvo (x) v ...) → ~Verde (x)
v Nero (x) v ...).
Questa proposizione si limita a dire: “Posto che x sia un
corvo oppure un tavolo o un bicchiere o qualunque altra
cosa, tranne che una foglia, allora x potrà essere nero o
rosso o giallo o di qualunque altro colore tranne che
giallo”.
Abbiamo visto che Hempel ha considerato anche la
possibilità di giustificare la tesi che il paradosso non sia
tale, portando la motivazione che, in realtà, l’ipotesi sui
corvi fa un’affermazione anche su quelle cose che non
sono corvi, e quindi è corretto che anche queste valgano
93
Naturalmente ad essere confermata qui è l’equivalenza, non la
semplice implicazione, ma questo non è rilevante ai fini
dell’argomentazione

424
come esempi di conferma. Un tavolo rosso a rende vera
la descrizione “~Corvo (a) v Nero (a)”, e conferma
quindi “(x) (~Corvo (x) v Nero (x))”, equivalente a “(x)
(Corvo (x) → Nero (x))”: anche un tavolo rosso (nel
caso fosse stato un corvo non-nero) avrebbe potuto
invalidare la generalizzazione, quindi è importante che
l’oggetto osservato sia risultato essere un tavolo rosso.
Cercherò di mostrare che anche su questa diversa
base la mia argomentazione può essere riproposta.
L’ipotesi sui corvi impone che, per ogni x, sia
soddisfatta la formula “~Corvo (x) v Nero (x)”. Ora, se
noi sappiamo solo che a soddisfa questa formula, di
certo anche l’ipotesi sui corvi viene confermata. Ma se
1) sappiamo anche che a è rosso ed è un tavolo e 2)
riconosciamo che il ragionamento induttivo deve essere
non monotono, ne segue che dobbiamo considerare
confermata semmai l’ipotesi “(x) (Rosso (x) → Tavolo
(x))”, che non implica però che i corvi debbano essere
neri (sia che si adotti la formulazione (i) sia che si
adotti la formulazione “Nulla è un corvo non-nero”).

5. Può essere interessante osservare che a venire


confermata è comunque “(x) (~Tavolo (x) → ~Rosso
(x))”, che ci dice in effetti qualcosa sui corvi: dato che
afferma che solo i tavoli possono essere rossi, possiamo
dedurre che i corvi, non essendo tavoli, non possono
essere rossi. Ma è un’informazione molto più generica
di quella che Hempel contava di poter ottenere.
L’osservazione di un tavolo rosso conferma l’idea che i
corvi non possono essere rossi, e, quindi, rende (un
poco) più plausibile l’ipotesi che debbano essere neri.
In questo modo la mia strategia di soluzione acquista
un profilo abbastanza simile alla proposta fatta valere

425
da Hosiasson-Lindenbaum (1940)94.
Per questa studiosa possiamo ammettere
ragionevolmente che la classe degli oggetti non-neri è
di gran lunga più numerosa della classe dei corvi.
Quindi l’osservazione di un oggetto non-nero che non è
un corvo aggiunge sì sostegno all’ipotesi sui corvi, ma
in una misura assai inferiore rispetto all’osservazione di
un corvo nero, semplicemente perché sarebbe
necessario osservare molti più oggetti non-neri per
corroborare adeguatamente un’ipotesi sui membri di
una classe così estesa.
La critica principale a questa tesi è stata avanzata da
Hempel (1945, pp. 21-22n): il paradosso viene risolto
solo se si accetta un’assunzione di tipo empirico, che,
per quanto sia ragionevole, è comunque da evitare, se
l’obiettivo che ci proponiamo è di elaborare una
definizione “puramente sintattica” di conferma.
Scheffler (1972, pp. 292 ss.) e Hintikka (1970, p. 26)
osservano inoltre che in alcuni casi un’assunzione del
genere risulterebbe falsa: “Tutte le molecole sono esseri
non-viventi” dovrebbe ad es. essere supportata
dall’osservazione di un moscerino che è un essere
vivente e non è una molecola.
Come conseguenza della critica di Hempel,
possiamo notare anche che l’assunzione sul numero dei
casi dipende in ultima analisi dall’applicazione dello
stesso principio d’induzione, quindi potremmo servirci
del paradosso per inferire una qualunque previsione sul
numero dei corvi: 50 automobili in un parcheggio
potrebbero essere portate a conferma dell’ipotesi che
94
Il paradosso era stato illustrato alla Hosiasson-Lindenbaum da
Hempel in discussioni private. Per un riepilogo delle principali
pubblicazioni che si basano su questa strategia, cfr. V RANAS
(2002, p. 3n).

426
una scatola (che non è un parcheggio) contenga 50
corvi (che non sono automobili).
Il vantaggio offerto dalla mia strategia di soluzione è
che non richiede assunzioni di tipo empirico: la
deduzione da “Tavolo (a)” a “~Corvo (a)” avviene o in
forza di “postulati semantici” che normalmente
adoperiamo per regolare l’uso delle parole in questione
(e questa sembra la scelta più semplice), oppure perché,
osservando che a è un tavolo rosso, riscontriamo
(empiricamente) anche che a non è un corvo e non è
nero. In entrambi i casi può essere fatto valere il
principio che debba essere utilizzata tutta e soltanto
l’informazione che si è stabilito di includere
nell'evidenza iniziale – senza chiedere ulteriori
assunzioni che abbiano contenuto empirico95. Se i
postulati semantici (o i “riscontri empirici” che
abbiamo ipotizzato) vengono ritirati, lo stesso
paradosso non potrà più sorgere. Se vengono
mantenuti, l’incremento di probabilità che l’ipotesi sui
corvi riceve dall’osservazione di una foglia verde, potrà
essere misurato non sulla base di una valutazione del
numero dei corvi e degli oggetti non-neri esistenti (cioè
riferendosi ad un fatto empirico), ma piuttosto
calcolando il numero delle combinazioni logiche
possibili tra i termini che sono stati impiegati per
esprimere l’evidenza iniziale. Un corvo è concepibile in
linea di principio che sia nero, rosso, verde, ..., nero e
rosso, nero e verde, ... . L’insieme di tutte queste
possibilità determina la rilevanza (comunque assai
piccola) che può avere la scoperta di un caso che
95
Naturalmente possiamo smorzare la differenza tra i due casi,
intendendo che anche la definizione dei postulati semantici sia,
di fatto, guidata dall’esperienza. Ma questo non ha implicazioni
per l’argomentazione che stiamo qui discutendo.

427
corrobori l’impossibilità per i corvi di essere ad es.
verdi. È chiaro comunque che in mancanza di una
descrizione più precisa e completa del ragionamento
induttivo, queste osservazioni rimangono a livello
intuitivo – né può essere nelle intenzioni di questo
lavoro procedere oltre una prima fase di ricognizione
della questione.

6. Prima di procedere, è bene precisare esattamente


quali sono i presupposti teorici che sono richiesti per
rendere possibile la strategia di soluzione proposta. La
letteratura sull’induzione presenta spesso quello che
viene chiamato “principio dell’evidenza totale”
(CARNAP, 1947): per ottenere generalizzazioni induttive
che siano non solo corrette sotto il profilo formale, ma
anche plausibili, è necessario utilizzare tutta
l’informazione (che può apparire rilevante) che ci è
possibile. Nella terminologia di Hempel, un principio
del genere non è una “regola di inferenza induttiva
valida” – è piuttosto una “regola di applicazione”
razionale dell’induzione (HEMPEL, 1989, pp. 53 ss.;
1986).
Nel nostro caso ci siamo serviti soltanto di quello
che possiamo chiamare “principio dell’evidenza
iniziale completa”: per svolgere un’inferenza induttiva
corretta (non ci importa, qui, se plausibile), è
necessario indicare un insieme di proposizioni come
premesse (siano esse una descrizione dell’evidenza
iniziale o postulati semantici). Le conclusioni dovranno
poi fare riferimento alla totalità di questo insieme (e
naturalmente solo ad esso). Se l’insieme delle
premesse viene modificato, ci troveremo
semplicemente di fronte ad un’altra inferenza. Tale
impostazione sembra essere la più pertinente almeno se

428
ci proponiamo di elaborare una definizione di tipo
sintattico del concetto di conferma. Lo statuto
epistemologico del “principio di evidenza iniziale
completa” è quindi assai diverso da quello di “evidenza
totale”: il primo, non il secondo, deve essere accettato
per semplici ragioni di coerenza logica. Se non lo
rispettiamo, possiamo trovarci facilmente a dover
accettare che da premesse coerenti possano essere tratte
conclusioni contraddittorie.
Un problema che si può porre è che prima di ogni
inferenza (induttiva o deduttiva), noi compiamo una
selezione dei dati: per quanto la maggior parte di essi
verrà certamente ignorata, comunque in genere
riteniamo di arrivare a conclusioni attendibili. Il
carattere non monotono del ragionamento induttivo ci
obbliga a mettere in discussione questo incauto
ottimismo: la condizione per arrivare a conclusioni
attendibili sarebbe in realtà, a rigore, di basarci su tutta
la conoscenza di sfondo, così come è sancito dal
principio di evidenza totale.
Il principio di evidenza iniziale completa è, alla
lettera, più debole, ma è difeso sulla base di
un’euristica che conduce ugualmente nella stessa
direzione. I problemi che possono sorgere riguardano in
particolare la definizione di criteri che permettano di
individuare le premesse di cui è “giusto” tener conto. Si
tratta, in sostanza, della questione sollevata da
Goodman (1985). Non è possibile qui procedere nella
sua analisi. Vorrei solo osservare che la scelta di tener
conto del carattere non monotono del ragionamento
induttivo non è fatta ad hoc per affrontare il paradosso
di Hempel, ma merita piuttosto in maniera del tutto
indipendente di essere mantenuta e difesa. Per questo, i
problemi che il principio di evidenza iniziale completa

429
può porre, sono sì assai importanti, ma la strada giusta
per affrontarli non credo che sia il rifiuto di questo tipo
di impostazione, ma piuttosto il suo sviluppo e
approfondimento.

7. Vorrei infine esaminare altre due versioni del


paradosso.
A) Abbiamo visto che se a non è un corvo oppure se è
un oggetto nero, viene confermato “Ogni cosa che è o
non è un corvo, o non è un corvo oppure è un oggetto
nero”. Naturalmente però l’osservazione non ci dice
che a è un non-corvo-oppure-un-oggetto-nero:
possiamo osservare che a è nero, e dedurre che la
proposizione “a non è un corvo oppure è nero” è vera.
In questo modo però è stata ignorata una parte
dell’informazione indicata come e. i. – violando (EIC).
Nel caso poi in cui si riescano a immaginare complesse
situazioni sperimentali in cui l’evidenza è
effettivamente del tipo richiesto da Hempel, dovremmo
1) controllare che il nostro principio non sia stato
violato mentre si procedeva a descrivere formalmente
la situazione sperimentale (per un esempio di una
situazione di questo tipo, cfr. infra (B)), e 2) nel caso
che il controllo venisse superato, semplicemente
ammettere che lì il ragionamento di Hempel è giusto e
non costituisce un paradosso.
B) Hempel considera la possibilità che (CN) venga
esteso “so as to be applicable also to universal
conditionals containing more than one quantifier”
(1945, p.10), ma si può mostrare allora che sorge un
nuovo problema. Possiamo infatti considerare (H EMPEL,
1989, pp. 125-126) l’ipotesi: “Se due persone qualsiasi
x, y non si amano l’un l’altra, allora la prima ama la
seconda, ma non viceversa”. In notazione simbolica:

430
(h) (x)(y) (~(Axy . Ayx) → (Axy . ~Ayx))
dove A indica la relazione a due posti non simmetrica
“Amare”.
Sia ora (E) l’informazione che a e b sono due
persone tali che a ama b ma non viceversa:
(E) Aab . ~Aba.
In base ad (E) dobbiamo ammettere
(E’) ~(Aab . Aba) e Aab . ~Aba
dato che la prima proposizione in (E’) è una
conseguenza di (E) e la seconda è (E) stessa.
Così (E’) conferma (h) per (CN). Ma (E’) è equivalente
a
(E’’) ~(Aba . Aab) e ~Aba . Aab
e per (CN) (E’’) invalida (h).
In termini intuitivi il significato dell’argomentazione
è che, se condideriamo a la prima persona e b la
seconda (come in (E’)), (E) conferma (h); se invece
consideriamo b la prima persona e a la seconda (come
in (E’’)), (E) invalida (h).
La mia obiezione è:
1) L’antecedente di (h) che è soddisfatto sia da (E’) sia
da (E’’) è la negazione di una congiunzione. La
negazione di una congiunzione è vera quando o il
primo o il secondo o entrambi i congiunti sono falsi, ma
non viene specificato quale sia vero dei tre casi, quindi
l’informazione così espressa è minore di quella
contenuta in (E), che dice invece in maniera più
specifica che Aba è falso e Aab è vero.
2) Noi accettiamo in (E’) la prima proposizione solo
perché è una conseguenza logica di (E), ma (E) è molto
più informativa: per rispettare (EIC) dovremmo
sostituire in (E’), (E) alla prima proposizione di (E’),
dato che (E) è molto più informativa di quest’ultima.
Seguire un altro criterio sarebbe come dire: (I) “Questo

431
liquido è acqua ed è dissetante” implica (II) “Questo
liquido è acqua ed è dissetante oppure velenoso”,
quindi (I) conferma “L’acqua è dissetante oppure
velenosa”, da cui seguirebbe che, in base ad (I), è
imprudente bere acqua. Per la stessa ragione dobbiamo
sostituire in (E’’), “~Aba . Aab” a “~(Aba . Aab)”.
3) Rispettando il principio di evidenza iniziale
completa, otteniamo soltanto:
(h’) (x) (y) (Axy . ~Ayx → Axy . ~Ayx)
che naturalmente è una tautologia.

8. Possiamo quindi ricapitolare i risultati di questo


capitolo. Le idee che ho presentato hanno naturalmente
un carattere di forte incompletezza: si vogliono solo
fornire alcuni elementi che possano essere utili ad una
chiarificazione più sistematica del funzionamento di
una teoria dell’induzione. Le conclusioni principali
sono stati due:
1) Abbiamo introdotto il principio di evidenza iniziale
completa: per procedere ad un’inferenza induttiva, è
necessario attenersi ad una rigorosa delimitazione delle
premesse indicate come costituenti l’evidenza iniziale.
Tutte e solo queste premesse andranno prese in
considerazione per svolgere l’inferenza. (Naturalmente
per brevità possiamo utilizzarne una sola parte, ma, in
caso di difficoltà, il criterio da utilizzare sarà quello ora
delineato).
2) In questo modo sembra inoltre che il paradosso di
Hempel trovi una valida spiegazione, per quanto, in
mancanza di una descrizione più completa dei modi di
funzionamento del ragionamento induttivo, possiamo
aspettarci la comparsa di altri problemi.

432
APPENDICE II. Il paradosso di Goodman

1. Goodman introduce il predicato “blerde” per fare


riferimento a “tutte le cose esaminate prima di t solo
nel caso che esse siano verdi, ma ad altri oggetti solo
nel caso che essi siano blu”, per t successivo all’istante
attuale (GOODMAN, 1985, p. 76). Il problema, come è
ben noto, consiste nel fatto che per es. tutti gli smeraldi
che abbiamo fino ad ora osservato potevano essere
descritti sia come “verdi” sia come “blerdi”.
Applicando però il principio di induzione su entrambe
le descrizioni, dobbiamo ammettere
contemporaneamente due conclusioni contraddittorie:
1) “Tutti gli smeraldi sono verdi”, per cui dopo t gli
smeraldi continueranno ad essere verdi, 2) “Tutti gli
smeraldi sono blerdi”, per cui dopo t gli smeraldi
dovranno essere blu.
La trascrizione logica più fedele del predicato si

433
serve di una coppia di condizionali. Se Pmt = osservato
prima di t, V = verde, B = blu, avremo:

Blerde = def Pmt (x)  V (x)  Pmt (x)  B (x)

Hempel discutendo il suo paradosso dei corvi ha


introdotto il principio che prescrive la necessità di
attenersi, quando si procede ad una inferenza induttiva,
alla “finzione metodologica”, i. e., una volta costituita
una certa evidenza iniziale, dobbiamo “far finta” di non
sapere nulla oltre a ciò che è da essa affermato (H EMPEL,
1945, p. 20). Per cominciare a chiarire la situazione,
vorrei rifarmi anche qui ad un principio che è
simmetrico a quello di Hempel (v. Appendice I), e che
ho chiamato dell’“evidenza iniziale completa” (EIC):
una volta stabilita una certa evidenza iniziale (e.i.),
dobbiamo sfruttare tutta l’informazione in essa
contenuta.
Le ragioni per accettare questo principio credo che
siano molto forti, ed hanno a che vedere con la
proprietà del ragionamento induttivo di essere
tipicamente non-monotono. Consideriamo per es. un
sillogismo aristotelico: se riscontriamo la verità di una
terza proposizione, diversa dalle due premesse e non in
contraddizione con esse, la conclusione del sillogismo
non ne viene comunque minacciata. In un’inferenza
induttiva invece l’incremento di e.i. può benissimo
portarci a rivedere le nostre previsioni precedenti (non
vale cioè quella che in logica matematica è nota come
regola di indebolimento). Ne segue che un’inferenza
condotta tenendo conto di un’informazione inferiore a
quella contenuta in e. i., è semplicemente un’altra
inferenza, che comprensibilmente può portare a risultati
in contraddizione con la prima.

434
Se abbiamo osservato la luna tutte le notti per molti
mesi di seguito, possiamo concludere con una legge che
descrive con precisione le fasi lunari: se però
ammettiamo di poter omettere per es. il riferimento a
tutte le volte che l’abbiamo vista in fase calante o
crescente, dobbiamo concludere che quella stessa
evidenza confermi anche la legge che la luna si trova
sempre o in fase di luna piena o nuova.

2. È possibile quindi muovere un’obiezione molto seria


all’idea che le previsioni del tipo “blerde” siano
effettivamente confermate. Abbiamo visto che “blerde”
è analizzabile come una congiunzione di due
implicazioni. Ora ognuna delle due implicazioni
equivale ovviamente alla disgiunzione dei tre casi che
la rendono vera: AB  (A B)(A B)(A .
B). Quindi “blerde” può essere reso come:
((Pmt(x) V(x))(Pmt(x) V(x))(Pmt(x) .
V(x)))  ((Pmt(x) B(x))(Pmt(x) B(x)) (Pmt(x) .
B(x)))
Questa formulazione ci permette di cogliere con più
evidenza un fatto molto importante. Se sappiamo che a
verifica per es. “A(x) . B(x)”, naturalmente
ammettiamo che a verifica anche “A(x)B(x)”, ma
servendoci di quest’ultima formulazione, non
esprimiamo tutta la conoscenza di cui disponiamo su a,
quindi se pretendiamo di generalizzare induttivamente
il possesso della sola proprietà definita
dall’implicazione, veniamo meno ad (EIC). Infatti
“A(x) . B(x)” è più informativo di “(A(x)
.B(x))(A(x)B(x))(A(x) . B(x))”: il primo
implica il secondo, ma non viceversa.
Se abbiamo verificato in passato che il contatto della

435
nostra pelle con il fuoco ci provocava dolore, la
descrizione che possiamo dare di questo fatto (“Il
contatto con il fuoco ci ha provocato sempre dolore”)
implica logicamente “Il contatto con il fuoco ci ha
provocato sempre dolore oppure sonnolenza”, ma la
massima informazione che possiamo ricavare per
induzione dalla nostra e.i. ci consiglia energicamente di
non usare fiammiferi come sonniferi.
La formulazione precisa del paradosso in effetti è:
“abbiamo visto degli smeraldi ed erano verdi, quindi
erano anche blerdi”; quindi non è possibile negare che
l’informazione costituita formalmente come e. i.
contenga anche la notizia che gli smeraldi erano B e
Pmt. Fatta la premessa che la conferma induttiva di
una congiunzione di proposizioni può esserci solo,
ovviamente, se vengono confermati tutti i membri della
congiunzione, l’obiezione che sta alla base di tutto
questo ragionamento allora è: se e.i. afferma che gli
smeraldi erano Pmt e B, perché dobbiamo
esprimere questa conoscenza nella forma molto meno
informativa costituita dal condizionale “Pmt (a)  B
(a)”?
D’altra parte è difficile immaginare una situazione in
cui osserviamo un fenomeno a e raccogliamo su a tutta
e soltanto l’informazione espressa dal condizionale “A
(a)  B (a)”, senza sapere quale si verifichi dei tre casi
che possono rendere vero il condizionale. E anche se
una situazione del genere venisse escogitata96, questo
dimostrerebbe soltanto, al limite, che il paradosso
potrebbe sorgere (solo) in tali situazioni, del tutto
artificiose e irreali, e comunque non generalizzabili.
96
Cfr. il dispositivo escogitato da Putnam nell’Introduzione a
(GOODMAN, 1985).

436
Hempel (1989, p. 53), Carnap (1947, sez. III), lo
stesso Goodman (1985, pp. 82-83), hanno teorizzato il
principio “dell’evidenza totale”: quando si procede ad
una inferenza induttiva si deve tener conto di tutta
l’informazione (effettivamente) disponibile che può
considerarsi rilevante. È questo un principio di natura
metodologica, non strettamente logica, potremmo dire
dovuto al buon senso del ricercatore. Nel nostro caso ci
troveremmo invece di fronte alla negazione di un
principio di natura ancora più forte.
Si tratta infatti di chiedere che quella che istituiamo
formalmente come e.i., non subisca al momento della
formulazione della previsione, una decurtazione di
contenuto informativo: è in definitiva un semplice
principio di conservazione (di non equivocità) dei
significati. Un po’ come nel sillogismo aristotelico non
si può ammettere che il termine medio venga assunto in
una premessa con un’estensione e nell’altra premessa
con una estensione diversa.
Avendo visto degli smeraldi che erano “verdi” e
“visti prima di t”, non possiamo applicare (per
esprimere e.i.) la descrizione molto meno informativa
“verde se visto prima di t e blu altrimenti”.

3. Ci si può chiedere se (EIC) non venga smentito dallo


stesso “criterio di Nicod” (CN), che indica come
evidenza rilevante per una legge del tipo “(x) (A (x) 
B (x))” quella composta da esempi del tipo “A (x)  B
(x)” (positivi), e del tipo “A (x)  B (x)” (negativi),
mentre considera irrilevanti tutti gli altri (Nicod, 1930,
p. 219).
Se l’evidenza “rilevante” è (solo) quella indicata da
Nicod, perché dovremmo concludere con una legge

437
formulata nella maniera molto meno informativa
costituita dall’universale condizionale? In effetti se e.i.
contenesse solo esempi positivi nel senso di Nicod, per
sfruttare tutta questa informazione dovremmo
concludere con una legge del tipo “(x) (A (x)  B (x))”,
che poi comunque implica logicamente “(x) (A (x)  B
(x))”. Quindi (EIC) è compatibile con (CN): difatti i
problemi sorgerebbero soltanto se a questo punto
ritenessimo che per qualche motivo la nostra
conoscenza si ferma a quanto espresso dall’ultimo
condizionale.
Il fatto è che normalmente (i. e. non in situazioni
artificiali) una legge ben supportata dispone di una
evidenza che:
1) contiene esempi del tipo “A (x)  B (x)”;
2) non contiene esempi del tipo “A (x)  B (x)”;
e in più: 3) contiene (di fatto) esempi del tipo “A (x)
B (x)”;
4) contiene (di fatto) esempi del tipo “A (x)  B (x)”.
Presi tutti insieme questi esempi supportano la legge
che nel mondo esistano solo individui che soddisfano
uno dei quattro tipi di descrizione, da cui possiamo
dedurre per implicazione logica “(x) ((A (x)  B (x)) 
(A (x)  B (x))  (A (x)  B (x)))”, i. e. la legge che a
noi interessa: “(x) (A (x)  B (x))”, insieme ad altre
clausole, che però in genere per brevità omettiamo. Il
fatto che omettiamo queste clausole non costituisce di
per sé un errore, purché ricordiamo, quando serve, che
l’informazione che esse esprimono è di fatto a nostra
disposizione.
È chiaro che logicamente è possibile che non si
diano esempi né del tipo (3) né del tipo (4): nel primo
caso significherebbe che l’implicazione vale anche

438
nell’altro verso (“(x) (B (x)  A (x))”); nel secondo
che la legge riguarda tutti gli individui del nostro
universo di discorso. Nelle situazioni consuete però
questo non accade, quindi di fatto non si rende mai
necessario applicare (EIC) per distinguere tra
l’informazione che supporta uno o l’altro dei casi che
rendono vero il condizionale, perché di fatto è sempre
presente un’informazione sia del tipo (3) sia del tipo (4)
che renderà comunque vere le conclusioni. Occorre il
riferimento a situazioni artificiali per capire che (EIC)
ha conseguenze del tutto compatibili con (CN). Se
immaginiamo un caso in cui sia presente solo
un’informazione di tipo (1), il rispetto di (EIC) in effetti
porterebbe a conclusioni più informative di quanto
previsto da (CN), ma non in contraddizione.

4. Lo stesso Goodman (1985, pp. 81-82), discutendo il


paradosso di Hempel, afferma che, presa da sola,
l’osservazione di un oggetto che non è nero e non è
corvo sostiene, in realtà, la legge che non “c’è niente
che sia o un corvo o nero”, come implica (EIC). Con
questo arriviamo però ad un altro problema.
L’evidenza raccolta ci mette in possesso
dell’informazione che tutti gli smeraldi osservati erano
“blerdi” perché “verdi e osservati prima di t”. Ma
questo implica che nessuno smeraldo era “blu e non-
osservato-prima-di-t”, e questo ci dovrebbe convincere,
per induzione, che non esisteranno mai smeraldi blu e
non-osservati-prima-di-t: cosa che di per sé è vera, ma
è comunque ad un passo dal paradosso. Basta riferirci
al solo predicato “non osservato prima di t”, per dover
concludere che non osserveremo mai smeraldi, di
qualunque colore essi siano, dopo t. In questa forma il
paradosso è stato formulato, indipendentemente da

439
Goodman, da Agassi97: possiamo utilizzare per una
generalizzazione induttiva il predicato “osservato prima
di t”; ne dovremmo concludere immediatamente che
non sarà osservabile più nulla dopo t.
Se siamo realmente riusciti a ridurre la formulazione
tradizionale del paradosso di Goodman a questa forma
molto più semplice, credo che sia già un notevole passo
avanti. Non so se le differenze tra le due formulazioni
vadano considerate essenziali. Comunque mi sembra
che la formulazione di Agassi (e anche quella di
Goodman, con i dovuti aggiustamenti) si presti a delle
obiezioni. In termini intuitivi possiamo dire: noi
sappiamo per ipotesi a livello “di cornice”, i. e. meta-
induttivo, che tutti gli esempi che compongono e.i.
sono stati osservati prima di t: sono stati osservati,
quindi sono stati osservati prima di t, per qualunque t
successivo all’istante attuale. Ne segue che una
generalizzazione effettuata su un predicato come
“osservato prima di t”, generalizzerebbe su un
contenuto cognitivo inesistente: fatta l’ipotesi che
stiamo compiendo un’inferenza induttiva, è del tutto
tautologico che gli esempi osservati fino ad ora siano
stati tutti “osservati prima di t”. Se si accetta tale ipotesi
quindi non è possibile generalizzare su un predicato del
genere, se non la si accetta, non si sta più compiendo
un’inferenza induttiva98. La questione di fondo è se
97
Viene esposto da Popper (1972, pp. 484-485), che in nota
scrive di aver fatto leggeere le bozze a Goodman, e di esserne
stato informato che il paradosso era già stato scoperto da
Goodman stesso, che dava quindi per scontata l’identità dei due
problemi.
98
Si vede come l’argomentazione si applichi alla formulazione di
Goodman: sotto la condizione che t sia successivo all’istante
attuale, anche la clausola “Pmt (a)  B (a)” è tautologica,

440
siano lecite generalizzazioni induttive effettuate su
proposizioni tautologiche, ed è stata posta, più o meno
in questi termini, da Luca Moretti (2003, p. 3), che
considera abbastanza naturale pensare che “since
tautological statements have no empirical content, they
cannot be subject to empirical confirmation (or
disconfirmation)” (corsivo nel testo). Anche T. E.
Wilkerson (1972) impiega lo stesso principio
all’interno di una brevissima nota dedicata proprio al
paradosso di Goodman (la soluzione che propone
sembra peraltro avere dei difetti piuttosto evidenti, dato
che deve assumere per es. che già sappiamo che tutti gli
smeraldi sono verdi).

5. Al riguardo vorrei fare qui le due seguenti


osservazioni: 1) riprendendo una celebre immagine di
Russell (1954, p. 408), possiamo riproporre il
paradosso in termini spaziali: se sono un contadino che
non è mai uscito dallo Herefordshire, potrei dire “Tutto
il bestiame che io abbia mai visto era nello
Herefordshire, e perciò, probabilmente tutto il bestiame
esistente si trova in quella contea”. Credo che la mia
argomentazione possa applicarsi anche a questa
formulazione (spaziale) del paradosso. Si danno infatti
(logicamente) due casi: a) o so di essere sempre vissuto
nello Herefordshire, quindi ammetto che tutta
l’evidenza che ho potuto raccogliere deve per forza
essere stata raccolta nello Herefordshire, quindi
l’affermazione della clausola “trovarsi nello
Herefordsire” negli enunciati di attestazione diventa
tautologica. b) Oppure per qualche motivo non so o non
mi rendo conto di essere sempre vissuto nello
dato che l’antecedente è falso per ipotesi, e la verità o falsità
del conseguente diventa per questo irrilevante.

441
Herefordshire. Allora non potrei formulare gli enunciati
di attestazione.
2) Secondo la mia argomentazione, il riferimento al
tempo è sì di fatto la causa dell’insorgenza del
paradosso, non lo è però logicamente. Predicati che
fanno riferimento ad un istante t possono finire per
esprimere un’informazione solo apparente (i. e.
tautologica), ma la ragione reale per cui si dà il
paradosso è che appunto l’informazione è apparente.
Quindi l’argomento non è dello stesso tipo di quelli che
si limitano a proibire riferimenti temporali (o spaziali).
In caso contrario sarebbe pertinente l’obiezione di
Goodman (1985, pp. 92 ss.) che possiamo considerare
primitivi i predicati “blerde” e “vlu” (i. e. “blu se visto
prima di t, verde altrimenti”), e allora sarebbero
“verde” e “blu” a diventare predicati composti (definiti
impiegando “blerde” e “vlu” come termini primitivi)
che fanno riferimento ad un istante t. Quindi le nostre
previsioni dipenderebbero comunque dal linguaggio
che decidiamo di impiegare. Secondo la mia
argomentazione, anche in un linguaggio vlu-blerde
l’informazione espressa dagli enunciati (per noi)
paradossali sarebbe tautologica.
Si vede quindi come si possa ricorrere a questo
punto all’espediente di proibire ad hoc le induzioni su
predicati paradossali: si tratterebbe di caratterizzarli
non come quelli che fanno riferimento ad un istante o
ad un punto dello spazio preciso, come nelle ipotesi
prese in considerazione da Goodman. Si tratta invece di
proibire le induzioni su predicati che non esprimono
un’informazione ulteriore rispetto a quella che già
possediamo per il fatto di sapere che gli eventi osservati
facevano parte – per ipotesi – di e. i.
Goodman porta degli esempi di enunciati che fanno

442
riferimento a posizioni spaziali, ma sono del tutto
generalizzabili (“Nel punto P a nord del Circolo Polare
Artico la temperatura è costantemente rigida”) 99: si
vede come in questo caso l’informazione espressa dagli
enunciati di attestazione non sia affatto tautologica,
quindi l’inferenza sia legittima.

6. In linea di principio si potrebbe sostenere che il


modo corretto di intendere il predicato “blerde” non sia
la congiunzione di due condizionali, ma la
congiunzione di due enunciati di cui il secondo sarebbe
un controfattuale (“verde se visto prima di t, ma blu se
non fosse stato visto prima di t”).
Effettivamente la semplice implicazione logica non
rende conto delle nostre intuizioni quando affermiamo
un controfattuale: in un condizionale controfattuale, per
definizione l’antecedente è falso, quindi il condizionale
sarà sempre vero, qualunque cosa affermi (e.g. “Se il
fiammifero fosse stato sfregato, mi avrebbe morso”).
Questa interpretazione però non mi sembra che
possa portare ad alcun paradosso. Un controfattuale
afferma per definizione qualcosa su di un caso che non
si è verificato. Se la nostra osservazione degli smeraldi
che costituiscono l’evidenza iniziale non si è compiuta
dopo t, come facciamo a sapere che se fossero stati visti
dopo t quegli smeraldi sarebbero apparsi blu-blerdi?
In effetti l’applicazione di un controfattuale
presuppone che si sia già compiuta un’induzione 100, che
nel caso specifico però non può essere effettuata perché
il secondo antecedente ovviamente non è mai risultato
99
(GOODMAN, 1947, p. 150). Gli esempi portati da Goodman sono
“solar”, “arctic”, “sung”.
100
Ricordiamo come lo stesso Goodman arrivi al problema
dell’induzione partendo proprio da quello dei controfattuali.

443
verificato.
In generale il predicato “blerde” o è definito in
modo da implicare una descrizione di fatti che non sono
stati osservati prima di t, ma allora la sua applicazione
sulla base solo di e.i. è arbitraria, e comunque richiede
l’intromissione di un elemento non-induttivo (che anzi
contraddice il principio d’induzione), al quale andrebbe
imputata la reale responsabilità dell’insorgenza del
paradosso, oppure per definizione non implica una
descrizione del genere, ma allora, anche una volta
generalizzato, non si dirà nulla su dopo t, quindi non
creerà problemi di nessun tipo. È possibile che il
paradosso sia sorto proprio per lo slittamento tra queste
due interpretazioni, favorito dalle difficoltà di
formalizzare logicamente il dispositivo dei
controfattuali: al momento dell’applicazione del
predicato, si userebbe un’interpretazione del secondo
tipo, di per sé legittima ma non informativa su dopo t,
al momento dell’inferenza, una del primo, che permette
di stabilire delle conclusioni su dopo t.

8. Arriviamo comunque ad un altro punto che


desidererei discutere. Da un punto di vista logico ad un
individuo a si può applicare la descrizione “A (a)  B
(a)  C (a)  D (a)”, anche se a non soddisfa nessuna
delle quattro proprietà indicate: entrambe le
implicazioni risulterebbero vere perché antecedente e
conseguente sarebbero tutte e due le volte entrambi
falsi.
Da un punto di vista epistemologico però, se
abbiamo in animo di compiere una generalizzazione
induttiva, dobbiamo riflettere bene sulla questione. Se
sappiamo per es. che 1) tutti gli uccelli sono vertebrati,

444
e 2) tutti i corvi sono neri, la nostra conoscenza può
essere espressa dalla proposizione “(x) (uccello (x) 
vertebrato (x)  corvo (x)  nero (x))”. Nessuno però
considererebbe un esempio di supporto di questa
(doppia) legge un individuo che non soddisfi nessuna
(o solo le prime due) delle quattro proprietà considerate
(cfr. CN). Formalmente non è visibile nessuna
differenza tra questo caso e quello di “blerde”.
Queste osservazioni non credo che siano intaccate
dall’argomento di Goodman (1985, pp. 91-93) che
l’essere un predicato “composto” o meno è qualcosa di
relativo al linguaggio da cui si parte: è sufficiente
ammettere l’equivalenza logica tra il predicato “blerde”
e la congiunzione dei due condizionali, cosa che
Goodman fa nel momento in cui introduce il predicato
paradossale con una definizione che stabilisce appunto
questa equivalenza.
Per concludere questa sezione, vorrei notare come le
mie argomentazioni non sembrano aver presa su di un
problema che viene spesso confuso con il paradosso di
Goodman (e che in forma molto più complessa torna
nelle Ricerche filosofiche). Già Leibniz notava, nella
lettera del 3 dicembre 1703 a Jakob Bernoulli, che, se
studiamo i valori che assumono due variabili che
descrivono grandezze fisiche, possiamo scoprire che
questi valori sono associati da una determinata
funzione; il problema è però che in realtà esisteranno
sempre infinite funzioni, tutte ugualmente in grado di
individuare i dati disponibili, ma che conducono a
previsioni contraddittorie per le situazioni non ancora
osservate. I dati disponibili sono cioè ambigui.
L’analogia con il paradosso di Goodman sembra
evidente. In maniera immediata non appare però

445
nessuna applicazione di (EIC) che possa risolvere il
problema. Tra i due casi c’è una differenza importante.
Le descrizioni di fenomeni di tipo quantitativo sono
sempre essenzialmente “ambigue”: semplicemente
perché per es. “2” può essere scritto in un’infinità di
modi diversi (“1+1”, “3 - 1”, “4 : 2”, …): va da sé
quindi che per ogni serie di coppie di valori <x, y>, ci
sarà sempre un’infinità di funzioni che riescono ad
associare il valore x al corrispondente valore y. Le
proprietà di tipo qualitativo invece non sono
descrivibili in maniere alternative, che non siano o
rigorosamente sinonimiche, oppure che aggiungono o
tolgono informazione all’evidenza effettivamente
disponibile. Per questo motivo le proprietà di tipo
quantitativo sono effettivamente descrivibili in più
maniere, e sceglierne una invece di un’altra può portare
le nostre previsioni ad esiti diversi. Normalmente
scegliamo la funzione più “semplice”, ma “questo,
ovviamente, è meramente un precetto metodologico,
non una legge della Natura” (RUSSELL, 1970, p. 192).
Non sappiamo comunque se questa sia una differenza
essenziale.

446
APPENDICE III: Analisi della volontà

Le riflessioni che seguono (i) mi permettono di inserire


il riferimento a passaggi molto importanti del pensiero
di Wittgenstein, procurando delle conferme interessanti
della ricostruzione fin qui fatta; (ii) indicano una serie
di problemi sui quali credo possa essere assai
opportuno soffermarsi in una successiva attività di
ricerca. Si vedrà – fin troppo bene – che, nel loro
nucleo portante, si tratta di problemi che per la loro
ampiezza ed elusività richiederebbero ben altro livello
di approfondimento: spero ugualmente – per questa
ultima Appendice come per tutto questo scritto – che
nonostante la difficoltà dei temi trattati e la
provvisorietà di questa fase della ricerca, le proposte di
analisi che avanzo appaiano sufficientemente plausibili
e meritevoli di attenzione.
Abbiamo visto come tutto il discorso fin qui fatto
poggi su di un’argomentazione del tipo di quella portata
da Hume a difesa dell’idealismo: non possiamo

447
oltrepassare il “limite” del nostro pensiero, né quindi
raffigurarci qualcosa che non sia, in effetti, già dato al
presente.
Una seria difficoltà per questa concezione deriva
dall’analisi del concetto di volontà. Per dirla con
Wittgenstein, “Il soggetto che pensa è certo vana
illusione. Ma il soggetto che vuole c’è” (Quaderni,
5.8.16): un’esperienza irriducibile, nella nostra vita, ci
dice che “il soggetto che vuole c’è”, dove invece, sul
piano dell’attività conoscitiva, (i) le teorie ridondantiste
della verità mostrano che il predicato “ - è vero”,
applicato ad una proposizione da noi asserita, è in fin
dei conti superfluo, dato che non aggiunge nulla a
quello che già esprimiamo asserendo la proposizione, e
(ii) lo stesso può argomentarsi facilmente per il
predicato simile “ - è pensabile”: quindi non sembrano
esserci gravi problemi se si procede a negare, con
l’idealismo, l’esistenza di una relazione definibile come
“conoscenza” tra un soggetto ed un oggetto (diverso dal
soggetto) del conoscere.
Eppure, come la conoscenza sembrava richiedere
una relazione tra rappresentazione e rappresentato, così
la volontà sembrerebbe richiedere una relazione tra il
soggetto della volontà e il suo oggetto, né la negazione
di un tale tipo di relazione sembra ammissibile senza
creare conseguenze teoriche molto gravi. Se l’idealismo
nega il primo tipo di relazione (di “conoscenza”), può
ammettere il secondo (di “volontà”)?
Nel Tractatus il problema non è trattato se non in
maniera indiretta (anche se è possibile che una sua
qualche versione sia alla base di tutte le tesi sul
misticismo). Nei Quaderni invece troviamo dedicate ad
esso alcune pagine di grande bellezza – per quanto di
lettura assai ardua. Ma proprio le incertezze che

448
l’autore ripetutamente vi manifesta su quelli che sono i
punti fondamentali, sono presumibilmente la ragione
della scelta di non inserirle nel testo da pubblicare.
In quasi tutte le opere successive Wittgenstein torna
più apertamente sulla questione di quale sia la relazione
tra la volontà e il suo oggetto, e la risposta che dà mi
sembra che vada proprio nella direzione che qui
suggerisco. Non possiamo qui allargare il tema
dell’analisi fino a comprendere il pensiero complessivo
della seconda fase della vita del filosofo. Mi limiterò
quindi a richiamare la tesi di fondo che la relazione tra
la volontà del soggetto e quello che è il suo oggetto, è
di tipo interno e non empirico, e a cercare di mostrare
in che modo agisce in una serie di circostanze.
“Quando muovo ‘volontariamente’ il mio braccio,
non mi servo di un mezzo per provocare il movimento.
Neppure il mio desiderio è un tale mezzo” (Ricerche
filosofiche, I - § 614). “Ma non dimentichiamo una
cosa: quando ‘io sollevo il mio braccio’, il mio braccio
si solleva. E sorge il problema: che cosa rimane,
quando dal fatto che io alzo il mio braccio tolgo il fatto
che il mio braccio si alza? ((Il mio volere sono le
sensazioni cinestetiche?))” (ivi, I - § 621). Il volere è
qualcosa di più intimamente connesso con l’azione: è,
in un certo senso, l’azione. Nei Quaderni (4.11.16)
Wittgenstein aveva scritto:

... È chiaro: È impossibile volere senza già eseguire la


volizione.
La volizione non è la causa dell’azione, ma l’azione
stessa.
Non si può volere senza fare ...

Il problema è allora così formulabile: ““Mi aspetto uno

449
sparo.” Si sente uno sparo. Ma come, ti eri aspettato
questo? Dunque questa schioppettata era già contenuta
in qualche modo nella tua attesa?”; “Dico: “L’ho
immaginato esattamente così.” E magari un tale
risponde: “È impossibile, perché quella era
un’immagine, ma quest’altro no; per caso avrai mica
preso la tua immagine per la realtà?” (Big Typescript, p.
360).

Noi vogliamo che il desiderio, che Smith entri in questa


stanza, sia il desiderio che proprio Smith (e non: un
sostituto di Smith) compia l’atto di entrare (e non: un
sostituto dell’entrare) nella mia stanza (e non: in un
sostituto della mia stanza)101. (Libro Blu, p. 53)

Si vede come l’ordine di problemi sia molto affine a


quello imposto dall’idealismo nel Tractatus. Il rischio
di questi ragionamenti però (nell’impianto teorico del
Tractatus) è di arrivare ad esiti del tutto paradossali:
“Se non fosse troppo assurda, noi diremmo che il fatto,
che noi desideriamo, debba essere presente nel nostro
desiderio. Infatti, come possiamo noi desiderare che
proprio questo avvenga, se proprio questo non è
presente nel nostro desiderio?” (Libro Blu, p. 53). Ma,
se per definizione ciò che vogliamo, deve esserci dato
già ora, in modo da non essere distinguibile da una
semplice immagine mentale che potremmo averne (se
fosse diverso in qualcosa, staremmo volendo
qualcos’altro), significa che ciò che vogliamo in realtà
101
Il passo prosegue: “Ma questo è esattamente quel che abbiamo
detto”. La forma matura di questa idea avrà il suo fulcro nella
nozione di “gioco linguistico” e nell’asserita impossibilità di un
“linguaggio privato”: nella composizione di un discorso, ciò
cui ci si intende riferire non è mai uno “stato interno” del
pensare, desiderare etc.

450
lo abbiamo già. Possiamo richiamare anche un passo
già citato molto in avanti (v. nota 15): “Così, al
presente, continuo in fondo a dirmi che il fatto deve pur
essere già presente nel comando, nella frase, anche se
so che non lo è; ma è questa apparenza che va
aggredita”.
Sembrerebbe essere una filosofia della volontà
improntata ad un eccessivo ottimismo: se vogliamo un
accadimento A, ciò che ci immaginiamo A possa essere
e significare per noi, sta tutto nella nostra esperienza
attuale (nelle rappresentazioni di A che esperiamo ora).
Ma se ciò che capiamo sul conto di A, è presente ora,
non dovremmo far nulla per sforzarci di realizzare
alcunché. Si dirà: ciò che è presente al momento è solo
un’immagine mentale di A. Non potremmo mai dirci
soddisfatti di una specie di allucinazione. Ma il limite
del (nostro) pensiero è per definizione impensabile,
quindi non dovremmo neppure poter capire che
l’immagine attuale di A è solo un’immagine mentale.
Se un’allucinazione è sistematica e protratta nel tempo,
chi ne è colpito (se riesce a sopravvivere) non è più in
grado di intenderla come “allucinazione”. Nel presente
dell’io metafisico l’“immagine” che ho, tocca l’estremo
limite della mia nozione di qualsiasi cosa: per
definizione non è distinguibile da una realtà “in sé”.
L’idea che intuitivamente si vorrebbe far valere è
che ciò che soddisfa la volontà è il realizzarsi di
un’esperienza (se si vuole, si può dire anche:
un’immagine) che però avverrà in un secondo
momento, ma l’idealismo rende difficile proprio
accettare questo punto, dato che ci obbliga ad
identificare in tutto il referente dell’immagine con
l’immagine stessa. La picture-theory recupera le
intuizioni del realismo, ma solo rispetto alle persone in

451
carne e ossa: il soggetto metafisico (nozione che è
conservata anche nella mia versione) non può concepire
un mondo come esterno a sé, sul quale si possa incidere
attraverso la propria volontà ed azione.
La mia ipotesi è che Wittgenstein, già al tempo del
Tractatus, avesse ben presenti tutti questi problemi, ma
proprio per l’apparenza di paradosso che essi sembrano
suscitare, abbia evitato di svilupparne più ampiamente
la trattazione. I Quaderni però danno indicazioni
preziose al riguardo.

... La volontà sembra doversi riferire sempre ad una


rappresentazione. Ad esempio non possiamo
immaginare d’aver eseguito una volizione senza
essercene accorti. ...
È chiaro, per così dire, che noi per la volontà
abbiamo bisogno di un appoggio nel mondo ...
Le sensazioni, che mi persuadono che un atto di
volontà si verifica, hanno qualche particolare
proprietà che le distingue da altre rappresentazioni?
Sembra di no! ...
Non si può volere senza fare.
Se la volontà deve avere un oggetto nel mondo,
l’oggetto può anche essere l’azione stessa.
E la volontà deve avere un oggetto.
Altrimenti non avremmo alcun appoggio, né
potremmo sapere che cosa vogliamo.
Né potremmo volere cose diverse ...
Ma: Io non posso volere tutto. -
Ma che significa: «Io non posso volere questo»?
Posso forse tentare di voler qualcosa?
A chi infatti consideri il volere, pare che una parte
del mondo mi stia più vicina che un’altra (il che
sarebbe intollerabile).

452
Ma certo è innegabile che, in un senso ordinario,
certe cose io le faccia ed altre no.
Così dunque la volontà non starebbe di fronte al
mondo come suo equivalente, il che dev’essere
impossibile... (4.11.16)

Wittgenstein considera “intollerabile” che “una parte


del mondo mi stia più vicina che un’altra”, i. e. che la
propria volontà non stia “di fronte al mondo [intero]
come suo equivalente”. Ma riconosce che ciò è in
contraddizione con il dato che nella vita ordinaria
accade, letteralmente, che “non posso volere tutto” e
che è innegabile che “certe cose io le faccia ed altre no”
(da cui: alcune le voglio, altre no).
Il fatto è che l’impianto della sua filosofia conduce
con forza verso la conclusione che, rispetto all’io
metafisico, viene a cadere la nozione stessa di volontà,
intesa come rapporto tra il soggetto che vuole ed un
oggetto del volere che sia esterno al soggetto. Ciò che
si può volere (per una logica interna al meccanismo
stesso del volere) è solo il dato-ora. È per questo, io
credo, che Wittgenstein si sentiva obbligato dalla sua
filosofia a non esercitare una volontà sul mondo:
sarebbe stato in contraddizione con il senso di “assoluta
sicurezza” di cui parla diffusamente nella Conferenza
sull’etica.

... Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la


mia volontà; al contrario, sono affatto impotente.
Solo in un modo posso rendermi indipendente dal mondo
– e dunque, in un certo senso, dominarlo –: rinunziando a
influire sugli eventi. (Quaderni, 11.6.16)
... Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge
al mondo completamente dal di fuori, come a un fatto

453
compiuto.
(Che cosa sia la volontà non so ancora.)
Quindi abbiamo la sensazione d’essere dipendenti da una
volontà estranea... (Quaderni, 8.7.16)

L’identificazione sostenuta tra io e mondo, porta


direttamente ad un esito del genere, ma è comprensibile
che il filosofo ritenesse queste conclusioni un vero e
proprio “veleno logico”.
I Quaderni descrivono come una stessa identica cosa
la condizione di immedesimazione con l’io metafisico,
e lo stato dell’“essere felice”:

... Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è


felice ...
Per essere felice devo essere in armonia con il mondo. E
questo vuol dire «essere felice».
Allora io sono, per così dire, in armonia con quella
volontà dalla quale sembro dipendente ... (8.7.16)

L’alternativa è la vita dell’“uomo infelice”.


Sembrerebbe quindi che, nella misura in cui si vogliono
“certe cose ... ed altre no”, si deve essere infelici:

6.43 Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso


può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò
che può essere espresso dal linguaggio.
In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro
mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in
toto.
Il mondo del felice è altro che quello dell’infelice.

La volontà (dell’io metafisico) si applica sempre al


mondo nella sua interezza: una volta che il soggetto
epistemico si riconosce come io metafisico, è il

454
meccanismo stesso alla base del volere che viene ad
essere toccato, quindi è ogni atto di volontà che viene
coinvolto – e sappiamo, inoltre, che le sensazioni
proprie del “volere” non sono distinguibili per questo
da ogni altra sensazione o esperienza, quindi ogni
contenuto di esperienza “veicola” una (parte di)
volontà, e la volontà del soggetto sta così “di fronte al
mondo come suo equivalente”.
Viceversa, della volontà dei soggetti empirici non
interessa al filosofo: “la volontà quale fenomeno
interessa solo la psicologia” (6.423). Addirittura:

6.374 Anche se tutto ciò che desideriamo avvenisse,


tuttavia ciò sarebbe solo, per così dire, una grazia del
fato, poiché non v’è, tra volontà e mondo, una
connessione logica che garantisca tale connessione, e
comunque questa stessa supposta connessione fisica non
potremmo volerla a sua volta.
6.375 Come v’è solo una necessità logica, così pure v’è
solo una impossibilità logica.

Si parla, qui, delle volontà “empiriche”, che non


essendo in una connessione logica con il loro oggetto102
– e non essendoci, nel Tractatus, possibilità di
connessioni di qualsiasi altro genere – possono essere
soddisfatte solo per “una grazia del fato”. Se pensassi di
essere io a mettere in moto il processo che realizza il
risultato voluto, cadrei immediatamente in un regresso
infinito, dato che prima dovrei volere “questa stessa
supposta connessione fisica”, che dovrebbe essere a sua
volta “voluta” e ricevere il proprio avvio grazie alla mia
102
Allo stesso modo in cui una proposizione può essere falsa: la
sua capacità di raffigurare deriva da proprietà logiche, ma ciò
non esclude – come abbiamo visto – che possa anche essere
falsa.

455
iniziativa, e così via. Il risultato in generale è una
sostanziale svalutazione delle volontà “empiriche”.
Indipendentemente però dalla posizione di Wittgenstein
– che andrebbe di certo discussa con più ampiezza –
vorrei sostenere che sono possibili esiti complessivi
piuttosto diversi.
Nella mia versione della teoria, abbiamo già visto:
(i) che attraverso l’induzione possiamo identificare la
sostanza del mondo con l’eternità immutabile delle
uniformità della natura, quindi le nostre stesse azioni
(determinate induttivamente) si svolgeranno tra gli altri
accadimenti naturali, nel loro stesso modo.
Inoltre possiamo utilizzare gli elementi raccolti
attraverso il confronto con la psicologia cognitiva:
(ii) in linea di principio possiamo accettare come del
tutto plausibile la tesi che tutto ciò che mi si dà ora è
oggetto e contenuto della mia volontà (di soggetto
metafisico), ma semplicemente perché:
(iii) continuamente le diverse particelle elementari di
significato che danno i miei contenuti di coscienza
(incluse le “sensazioni” del volere etc.) sono attivate e
disattivate dal mio sistema nervoso, in modo da
produrne una distribuzione ad ogni istante diversa, e
quindi un “assetto” della coscienza (e della volontà)
continuamente in evoluzione. Ciò non toglie che, ad
ogni istante, io “voglio” l’intero insieme degli elementi
che rilevo – per quanto già l’istante successivo tale
insieme sia diventato, in qualcosa, diverso.
Ne segue che, se anche accettiamo questa teoria
filosofica, la nostra azione nel mondo non ne viene
affatto limitata, circoscritta o impedita.
Ma pure è conservato un elemento fondamentale di
saggezza, che il Tractatus è stato capace di cogliere: ad
ogni istante, in quanto soggetto metafisico, ciò che ho è

456
ciò che voglio, e viceversa. “Vivere nel presente”
significa davvero accettare (tutto) il dato-ora, in quanto
non passibile – ovviamente – di modificazione (“cosa
avvenuta, capo ha”). L’impegno nel mondo, con tutto il
sistema delle aspettative, delle anticipazioni e delle
conseguenti disposizioni all’azione, non ne viene per
questo sminuito: è proprio il dato-ora che predispone e
provoca i futuri assetti del mio io-persona.
L’esperienza del dolore è, in un certo senso, frutto di
una confusione: se dimentico di essere “io metafisico”,
e mi immedesimo nella sola mia personalità di essere
umano concreto (una successione di io-persona concreti
e momentanei), immaginerò per questo di dover
perseguire obiettivi che possono essere tra loro
incoerenti (un’attività che può piacermi ora, so che può
danneggiarmi in futuro).
Se ad ogni istante i vari io-persona momentanei si
identificassero di volta in volta con il proprio
(rispettivo) io-metafisico, non capirebbero cosa possa
significare l’essere infelici. Sembra di nuovo che ci
troviamo ad un passo dal paradosso: sembra che
pretendiamo di disporre di un sapere, che (come una
moderna gnosi) ci dia la felicità. Ma naturalmente non
è così. Purtroppo, dato che questo stesso processo con
cui un io-persona arriva a riconoscersi come io-
metafisico, deriva, attraverso un percorso storico-
causale, dai precedenti assetti della personalità e
dell’esperienza, sembra doversi concludere che la
stessa condizione di felicità o infelicità possa essere in
qualche modo descritta da questa teoria filosofica, ma
nient’affatto controllata. In altre parole, tutta la
costruzione è una specie di grande tautologia che
analizza semplicemente che cosa significa
(logicamente) essere felici, ma non può, da sola, aiutare

457
a creare le condizioni della felicità, se non nella misura
in cui può essere rilevante a questo fine una maggiore
chiarezza nella conoscenza di se stessi. Credo fosse per
questo che Wittgenstein considerava l’analisi (nel senso
che lui aveva in mente) e la chiarezza come lo scopo
principale della filosofia.

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INDICE

Premessa…............................................................... 2
1. Introduzione. I limiti del pensiero…...................... 9
2. I paradossi del Tractatus...................................... 19
3. Segni, mondo, e raffigurazione: la picture-theory.. 35

469
4. Idealismo e dogmatismo....................................... 74
5. Sostanza del mondo e induzione (1).................... 113
6. La natura della semplicità…................................. 122
7. Conoscenza indeterminata.................................. 152
8. Il misticismo di Wittgenstein............................... 200
9. Oggetti semplici e indistruttibili.......................... 216
10. L’articolazione del significato........................... 240
11. Sostanza del mondo e induzione (2).................. 276
12. La costruzione della conoscenza....................... 309
13. Ontologia evolutiva............................................ 328
14. Conoscenza induttiva e conoscenza a posteriori 345
15. La struttura della proposizione.......................... 365
16. La struttura della credenza................................. 382
APPENDICE I. Il problema dell’evidenza iniziale nel
paradosso di Hempel............................................... 415
APPENDICE II. Il paradosso di Goodman ............ 434
APPENDICE III. Analisi della volontà................... 449
Bibliografia.............................................................. 461

470

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