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ROMEO & JULIET

Romeo e Giulietta è una delle tragedie più note di William Shakespeare e viene composta tra il 1594 e il
1596. La vicenda, che segue lo sfortunato amore di due giovani appartenenti a due famiglie veronesi rivali, i
Montecchi e i Capuleti, affonda le sue radici nella tradizione classica (da Senofonte a Ovidio, che narra la
vicenda di Piramo e Tisbe nelle sue Metamorfosi) e in quella tardomedievale (Masuccio Salernitano, Luigi
da Porto). Anche Dante Alighieri citerà le due famiglie rivali nel sesto canto delPurgatorio, facendole
simbolo delle divisioni politiche dell’Italia del tempo 1.
Shakespeare riprende e rielabora profondamente questa tradizione, facendo di Romeo e Giuletta una delle
tragedie più note della letteratura mondiale e un archetipo di riferimento per ogni vicenda d’amore.

Riassunto

Nel prologo, composto in forma di sonetto elisabettiano, il corointroduce la vicenda di sfondo su cui si
innesta la storia dei due sfortunati amanti, Romeo e Giulietta: a Verona due nobili famiglie, i Montecchie
i Capuleti, sono dilaniate da un conflitto senza risoluzione, che provoca disordini e morte e crea scompiglio
tra i veronesi.
Il primo atto comincia proprio con una rissa tra le strade di Verona. I servi dei Capuleti hanno infatti
provocato i servi dei Montecchi e il tafferuglio degenera fino a scatenare una vera e propria battaglia, che
coinvolge anche Benvolio, nipote di Montecchi, che aveva in principio cercato di chiamare gli animi e i
simpatizzanti dell’una o dell’altra casata. Interviene a sedare lo scontro il Principe della Scala, Signore di
Verona, che, estenuato dall’atteggiamento dissennato delle due famiglie, dichiara che, in caso di nuovi
scontri, condannerà a morte i capi delle due fazioni.
Benvolio incontra quindi il cugino Romeo, figlio di circa vent’anni dei Montecchi, che gli confida di avere il
cuore infranto: la bella Rosalina, parente dei Capuleti, ha fatto un voto di castità e non ha intenzione di
ricambiare l’amore che lui sente di provare per lei. Siccome è prevista per la sera stessa una festa presso i
Capuleti a cui sarà presente anche Rosalina, Romeo decide di introdursi di nascosto per vedere la giovane
che ama. Appena giunto al ballo, Romeo nota però la figlia di Capuleti, Giulietta, che non ha ancora
quattordici anni e subito si dimentica di Rosalina. Giulietta, per la quale i Capuleti hanno indetto la festa
nella speranza di farla sposare col nobile Paride, si innamora anch’essa subitamente di Romeo. I due giovani
si baciano prima di scoprire le rispettive identità. Romeo nel frattempo è controllato daTebaldo, che, pur
avendolo riconosciuto tra gli invitati, non può cacciarlo per ordine dello zio, che non vuole procurare disagi
agli invitati.
Nel secondo atto, troviamo la famosa scena del balcone: Romeo, sotto la stanza di Giulietta, ascolta i
raginamenti ad alta voce della ragazza, che confessa l’amore che prova per Romeo e al tempo stesso il
timore che questo possa venire ostacolato dalla situazione delle due famiglie. Romeo, comprendendo che il
suo amore è ricambiato, decide di uscire allo scoperto e dichiarare apertamente i suoi sentimenti a
Giulietta. Dopo un accorato incontro Giulietta decide di inviare un messaggero da Romeo l’indomani: il
giovane dovrà comunicarle dove e quando celebrare il loro matrimonio. Il giorno successivo Romeo si reca
dal francescano frate Lorenzo, per convincerlo a celebrare il matrimonio e il religioso acconsente di buon
grado poiché spera che l’unione tra i due giovani possa contribuire alla pacificazione delle due
famiglie. Giulietta invia quindi a Romeo la sua nutrice, a lei il giovane confida il piano che ha ideato:
Giulietta dovrà recarsi da frate Lorenzo usando la scusa della confessione e qui i due verranno sposati.
Inoltre alla balia verrà consegnata una scala da calare durante la notte dalla finestra di Giulietta, affinché
Romeo possa raggiungere l’amata. La nutrice confida anche a Romeo le mire di Paride, perché il giovane
sappia ai pericoli cui va incontro.
Il terzo atto si apre con Tebaldo che va alla ricerca di Romeo per sfidarlo a duello. Sebbene Romeo cerchi di
non esasperare gli animi, essendo oramai sposato con Giulietta, Mercuzio si intromette per difenderlo e
resta ucciso da Tebaldo. Romeo, reso cieco dall’ira, vendica l’amico uccidendo Tebaldo. I Capuleti cercano
di convincere il Principe delle responsabilità dirette di Romeo nella morte di Tebaldo, chiedendone la
condanna a Morte. Il Principe tuttavia, in considerazione del fatto che Mercuzio era suo parente e che
Romeo ha agito per vendicare un amico, converte la condanna in esilio e impone una multa ad entrambe le
famiglie. Giulietta, informata dalla nutrice dei fatti, sprofonda prima nella rabbia per la morte del cugino e
poi per la disperazione di non rivedere più il suo amato. La nutrice però la rassicura che Romeo è al sicuro
presso frate Lorenzo e che quella notte andrà a trovarla come stabilito.Romeo e Giulietta trascorrono così
insieme la notte, e all’alba il giovane parte per Mantova. I Capuleti tuttavia hanno già
organizzato l’imminente matrimonio tra Giulietta e Paride. La giovane inizialmente rifiuta, mandando su
tutte le furie il padre, che minaccia di diseredarla. Giulietta, quando scopre i piani di vendetta della madre
contro Romeo e capisce che anche la nutrice non vuole più aiutarla, finge di acconsentire alla nozze.
Nel quarto atto, Giulietta si reca da frate Lorenzo, che le suggerisce un sottile piano per evitare il
matrimonio e fuggire con Romeo: la giovane dovrà bere un potente sonnifero per simulare per
quarantadue ore la propria morte; dopo, potrà fuggire da Verona con l’amato Romeo. Giulietta, pur
timorosa, torna a casa ed esegue diligentemente il piano, mentre Frate Giovanni parte per avvisare Romeo.
La nutrice, la mattina seguente, scopre Giulietta apparentemente morta. La giovane è deposta nella tomba
dei Capuleti.
Nel quinto atto, a Mantova, Romeo è ignaro di tutto: la città è in stato di quarantena per un’epidemia di
peste e quindi frate Giovanni non ha potuto recapitare il messaggio di frate Lorenzo. Saputo del funerale di
Giulietta dal servo Baldassare, Romeo, disperato, acquista del veleno e, dopo aver scritto una lettera al
padre in cui descrive tutta la storia, parte per Verona, per suicidarsi accanto al corpo di Giulietta. Giunto al
sepolcro di Giulietta Romeo si scontra con Paride, che ha portato fiori sulla tomba dell’amata. I due si
battono a duello e Romeo uccide Paride. Paride prima di morire chiede a Romeo di seppellirlo accanto a
Giulietta, e Romeo, commosso, acconsente. Romeo può quindi riabbracciare Giulietta e, credendola
morta, beve il veleno che ha con sé, uccidendosi. Sopraggiunge frate Lorenzo, che, intuendo la tragedia e
vedendo che Giulietta sta per risvegliarsi, cerca di convincerla a fuggire per salvarle la vita. Giulietta vede il
corpo di Romeo e dopo averlo baciato, nella speranza che sulle sua labbra sia rimasto ancora del veleno, si
uccide trafiggendosi il petto con il suo pugnale di lui.
All’arrivo dei Capuleti e dei Montecchi, seguiti dal Principe, Lorenzo racconta la vicenda del matrimonio
segreto; la sua testimonianza, suffragata dalla lettera di Romeo al padre, contribuirà a rendere Montecchi e
Capuleti consapevoli del dolore che la loro rivalità ha provocato e a riconciliare le due famiglie, che
decidono di seppellire insieme i due sfortunati amanti.
Riassunto

L'azione si svolge a Verona dove da anni due grandi famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono consegnati ad
un odio inestinguibile (di cui si ignorano peraltro le cause). Romeo, figlio ed erede della famiglia Montecchi,
è innamorato della bella Rosalina e non teme di affrontare a questo riguardo gli scherzi dei suoi amici
Benvolio e Mercuzio. Capuleti, il capo della famiglia rivale si prepara a dare una grande festa per
permettere a sua figlia, Giulietta, di incontrare il Conte di Parigi. Quest'ultimo, in effetti, l’ha richiesta in
matrimonio ed i genitori di Giulietta sono favorevoli a quest'unione. Romeo - che crede di trovarvi Rosalina
- si autoinvita con gli amici Benvolio e Mercuzio a questo grande ballo mascherato. Scorge Giulietta e resta
folgorato dalla sua bellezza cadendo follemente innamorato di lei; è il colpo di fulmine reciproco. Le si
avvicina e l’abbraccia due volte quindi si ritira. Romeo e Giulietta scoprono adesso la loro identità reciproca.
Disperati si rendono conto di essersi innamorati ciascuno del proprio peggior nemico. Al cader della notte,
Romeo si nasconde nel giardino del Capuleti. Quindi si avvicina sotto il balcone di Giulietta e le dichiara il
suo amore. Tutti e due fanno a gara nel pronunciare dichiarazioni d’amore appassionate. Perdutamente
innamorato, Romeo si confida il giorno dopo con fra Lorenzo, il suo confessore. Inizialmente incredulo, fra
Lorenzo promette tuttavia a Romeo di aiutarlo e di celebrare il suo matrimonio, nutrendo anche la
speranza di riconciliare Capuleti e Montecchi. Tebaldo cugino di Giulietta, sfida Romeo a duello. Ma il
giovane - al colmo della felicità e pieno di una simpatia "fraterna" per l’aggressore - rifiuta di battersi.
Mercuzio, il confidente ed amico di Romeo, giovane coraggioso e brillante, si affretta a sostituirlo
battendosi contro Tebaldo. Quest'ultimo lo ferisce a morte. Mercuzio muore maledicendo il litigio delle due
famiglie nemiche. Romeo vendica la morte del suo amico ed uccide Tebaldo. Romeo ormai ricercato deve
fuggire in esilio. Giulietta è in preda al dolore. Suo padre, reso inquieto dallo stato d’animo della figlia,
decide di accelerarne il matrimonio con il Conte di Parigi. Il matrimonio avrà luogo il giorno dopo. Giulietta
si rifiuta. Suo padre la minaccia: o sposa il Conte, o la disereda. Lei corre da fra Lorenzo che le propone di
bere un filtro che può darle l'aspetto della morta per quaranta ore: credendola morta la chiuderanno nella
tomba del Capuleti. Fra Lorenzo verrà allora con Romeo a liberarla. Il frate promette di informare Romeo
dello stratagemma. Giulietta accetta il piano. Rimasta sola nella sua camera, beve il filtro. La mattina del
giorno dopo la governante la scopre inanimata. Tutta la famiglia piange la morte di Giulietta. Fra Lorenzo fa
sì che tutto si svolga secondo i suoi piani. A Mantova, dove Romeo è in esilio, riceve la visita di Baldassarre,
suo servo, che gli annuncia la morte di Giulietta. Ha soltanto un rapido pensiero: procurarsi del veleno e
ritornare a Verona per morire accanto alla sua Giulietta. Durante questo lasso di tempo, fra Lorenzo
apprende che un intoppo ha impedito al suo messaggero di informare Romeo del suo stratagemma. Decide
di recarsi alla tomba del Capuleti per liberare Giulietta. Ma il dramma precipita. Romeo si reca sulla tomba
di Giulietta e vi incontra il Conte di Parigi venuto a portare fiori alla fidanzata morta. Un duello ha luogo tra i
due giovani e il Conte, morente, chiede a Romeo che accetta, di adagiarlo vicino a Giulietta. Romeo
contempla la bellezza luminosa di Giulietta e l’abbraccia prima di bere il veleno e morire a sua volta. Fra
Lorenzo è sconvolto nello scoprire i corpi di Romeo e del Conte di Parigi. Assiste al risveglio di Giulietta e
tenta di convincerla a seguirlo e andarsi a rifugiare in convento. Ma Giulietta che scopre il corpo di Romeo
mortogli vicino si pugnala con la spada del suo amante e muore al suo fianco. Il principe, Capuleti, e il
vecchio Montecchi si recano al cimitero. Fra Lorenzo narra loro la storia triste degli "amanti di Verona". I
due padri sfiniti dal dolore deplorano quest'odio, causa delle loro disgrazia. Si riconciliano sul corpo dei loro
figli e promettono di erigere alla loro memoria una statua d'oro puro.
Personaggi

ESCALO, Principe di Verona


MERCUZIO, giovane parente del Principe e amico di Romeo
PARIDE, un giovane conte, parente del Principe
PAGGIO del conte Paride
MONTECCHI, capo di una famiglia veronese in lite coi Capuleti
DONNA MONTECCHI
ROMEO, figlio di Montecchi
BENVOLIO, nipote di Montecchi e amico di Romeo e Mercuzio
ABRAMO, un servo dei Montecchi
BALDASSARRE, servitore di Romeo
CAPULETI, capo di una famiglia veronese in lite coi Monteccbi
DONNA CAPULETI
GIULIETTA, figlia di Capuleti
TEBALDO, nipote di Donna Capuleti
CUGINO DI CAPULETI, un vecchio gentiluomo
NUTRICE, serva dei Capuleti, balia di Giulietta
PIETRO, servo dei Capuleti al servizio della nutrice
SANSONE, GREGORIO, ANTONIO, PENTOLACCIA, Servi: di casa Capuleti
FRATE LORENZO, FRATE GIOVANNI: dell'Ordine Francescano
Uno speziale, di Mantova, Tre musici (Simon Corda, Ugo Archetto, Giovanni Spartito)
Guardie della ronda notturna, cittadini di Verona, maschere, portatori di torce, paggi, servi
CORO

Opera ricca e densa, Romeo e Giulietta fonde tutti i generi, tutti gli stili, alternado la grossolanità più rozza
ed il lirismo più raffinato. Ma soprattutto, è un’opera sostenuta da una poesia che oltrepassa il tempo e lo
spazio. Questa tragedia, certamente la più popolare di Shakespeare, si ispira a numerose fonti. Tuttavia
solo lui ha saputo elevare al rango di mito questa tragica storia d'amore e di morte. I personaggi di Romeo e
Giulietta appaiono la prima volta in una novella di Luigi da Porta (1485-1529) che riprendeva un soggetto
già sviluppato da un racconto del Novellino di Masuccio Salernitano e in seguito ripreso da Matteo Bandello
in una delle sue Novelle. Ma il nucleo narrativo di fondo è già rintracciabile nelle figure di Piramo e Tisbe
tratteggiate da Ovidio. La pièce ha ispirato moltissimi artisti (celebri l'opera musicale di Gounod e il balletto
di Prokofiev) e ha dato luogo ad innumerevoli adattamenti scenici e cinematografici.

Tragedia del Rinascimento


Questa tragedia ha per oggetto l’amore e la tragicità dell’amore. Dell’amore è certamente l’opera che,
insieme a poche altre, celebra il mito in un modo tale da fare assumere alla pièce la funzione di paradigma.
Da questo momento in avanti l’amore e Romeo e Giulietta faranno tutt’uno nell’immaginazione di tutti. È di
scena l’amore puro, rarefatto e senza condizioni, sembrerebbe neanche sotto l’ipoteca sessuale: a questo
riguardo l’amore maturo e adulto di Antonio e Cleopatra potrà costituire la verifica realistica se Romeo e
Giulietta ne è la trattazione idealistica o romantica. Certamente il Romanticismo si è impadronito dell’opera
e l’ha fatta propria: ma altre sono le sue radici e il suo spazio simbolico di fondo.In controluce c’è l’idea
d’amore del Rinascimento con i suoi riferimenti neoplatonici. Si rintraccia nell’opera l’eco di un’epoca
bellicosa: l’età elisabettiana porta il segno delle guerre di religione e dei conflitti cruenti che si
combatterono tra stati, tra famiglie. Il personaggio del Principe richiama alla mente la figura della sovrana
di ferro come anche il personaggio omonimo di Machiavelli e certo machiavellismo passato in Inghilterra
all’epoca (e nelle orecchie) di Shakespeare (vedi il saggio di M.Praz). Si annuncia peraltro in questo
Shakespeare “italiano” l’eterna Italie sanglante (pugnali e veleni) che perverrà intatta, come mito
romantico, nella penna di Stendhal (Chroniques italiennes).
Ma è il neoplatonismo di radice italiana passato ai poeti della Pléiade e certamente noto a Shakespeare che
edificando una concezione del sentimento amoroso su forti basi idealistiche e quasi mistiche (che non
riguarda solo i sentimenti umani ma tutta la concezione del cosmo e che peraltro, in più luoghi, nella pièce,
è messa in relazione con l’amore in una fusione panteistica), mette una seria ipoteca sull'opera. L’amore fra
i due adolescenti si esprime anche con un vocabolario religioso e mistico cui la presenza di Fra Lorenzo dà
quasi il carisma del mistero religioso. Ma come sempre i capolavori vivono sì nello spazio simbolico della
propria epoca ma fanno del proprio spazio simbolico un universo a se stante. Così quest’opera reca il
marchio del genio shakespeariano e l’idealismo romantico (se mai c’è stato) emerge da un mélange ardito
di comico e patetico, andamento prosastico e slancio lirico, linguaggio sostenuto e grossolanità: la cifra del
suo irregolare ed anticlassico autore.
Gli inestinguibili odi familiari, lo sferragliare delle spade, i sussurri amorosi dei giovanetti in amore in freschi
giardini italiani, l’enfasi e il lirismo sentimentale senza paragoni del loro fraseggio amoroso, il ballo
intrecciato del caso e della malasorte, il sinistro operare dei veleni nel freddo dell’ avello (dovuto anche al
maneggio di un frate un po’ pasticcione quasi da opera buffa), le morti incrociate degli amanti resteranno
nella memoria in fiamme dello spettatore e del lettore avvinti nel binomio di sempre (che come non mai
qui celebra il suo trionfo): l’amore che eleva le anime in cielo e la morte che trascina i corpi sottoterra.
Montecchi e Capuleti, famiglie veronesi offuscate dai soldi e dall’orgoglio smodato ed egocentrico, lasciano
scorrere gli anni alimentando un odio recondito l’una verso l’altra, e senza permettere spiragli di
chiarimento.
Sotto l’ombra di quest’odio sono cresciute le generazioni giovanili, intolleranti tra loro quanto gli stessi
adulti; ma per quanto i due casati non possano prendersi nemmeno in fotografica (o in dipinto onde evitare
anacronismi di natura tecnologica) un tenue filo sembra unirli segretamente: l’amore tra i rispettivi figli: la
dolce Giulietta, e il baldo Romeo.
Conosciutisi ad una festa, i giovani inconsapevoli delle proprie origini, si lasciano andare aprendo i propri
animi alle dichiarazioni più struggenti e sincere di un amore così puro e saldo quanto prematuro. Ma in
fondo per ogni roseto c’è sempre un bocciolo destinato ad essere reciso o da natura stessa, o da mano
dell’uomo, e costretto a non vedere fioritura… quanto per ogni amore c’è la possibilità di non vederne
maturazione. Offuscato dai propri sentimenti verso la bella Giulietta e fiducioso nel porre pace tra la sua
famiglia e quella dei Capuleti, Romeo si oppone con animo sincero alle lotte familiari fino a quando la
sventura non vede consegnare alla morte il suo amico Mercuzio per mano del codardo Tebaldo, nipote di
quel casato tanto odiato. Il tenero amore verso Giulietta, non impedisce a Romeo di vendicare il sangue
dell’amico versato.
Ucciso il riottoso Tebaldo, Romeo viene esiliato da Verona sotto gli occhi di Giulietta, troppo unita a lui e
alla sua mano, colpevole di aver seminato sangue della sua famiglia. Divisa dalla legge e dalle imminenti
nozze organizzate con il diletto Paride ad opera di suo padre, Giulietta accetterebbe ogni cosa pur di
scampare al destino e attendere chi lei realmente ama. Animata di coraggio accetta ciò che il buon Frate
Lorenzo, che ufficiò le sue nozze con Romeo, ha da proporle; e per quanto coraggiosa e desiderosa di venire
fuori, casualità o destino ancora una volta si metteranno contro, recidendo ciò spontaneamente veniva
fuori in splendore.
- Dramma d’amore -, - storia d’amore maledetto -, - storia di due tristi amanti -, e via dicendo, su “Romeo e
Giulietta” quotidianamente vengono messe centinaia di targhe chiarificatrici quanto ingiustamente
riassuntive.
L’opera scespiriana non è un commento così spicciolo, “Romeo e Giulietta” è innanzitutto poesia (essendo
scritta per la quasi totalità in versi, a tratti anche ritmati), poi è l’esaltazione del sentimento umano,
un’architettura stabile e inattaccabile come se giocasse su forze fisiche tanto numerose quanto di diversa
intensità orientate tanto da annullarsi tra di loro. In origine c’è l’odio, così forte e sopra ad ogni cosa da
portare solo pensieri di morte:

«…portami la spada, ragazzo. Ma come, quel vigliacco osa venire qui […] Ecco, per il sangue e l’onore della
mia stirpe, non reputo un peccato colpirlo a morte.»
Tebaldo, Atto 1, sc. 5.
Non importa che cada qualcuno colpito a morte, la sola cosa che conta animati da quell’odio è che la
famiglia e il nome vengano messi in salvo dal semplice pensiero di un disonore ipotetico. In questa via di
odio si stagliano due personaggi, il già citato ed irruento Tebaldo, e il danzante Mercuzio con Benvolio,
cugino di Romeo. La sola vista dei Capuleti per loro è sinonimo di ira, vergogna, impeti, ma se Mercuzio
davanti all’irritante Tebaldo parla con queste parole:

«Accordato? Ci prendi per sonatori? Se ci prendi per tali allora preparati a sentire soltanto disaccordi. Ecco il
mio archetto, ciò che vi farà danzare. Ecco i vostri disaccordi»
Mercuzio, Atto 3, sc. 1.

Benvolio invece segue:

«Siamo in mezzo alla gente. O ci ritiriamo in luogo appartato e ragioniamo a sangue freddo delle vostre liti,
o qui ci separiamo: tutti gli occhi puntano su di noi.»
Benvolio, Atto 3, sc. 1.

Se il primo, per quanto personaggio ilare della vita di Romeo, si rivela pur sempre vittima di quello spettro
che è l’odio, sempre pronto ad attaccare briga e azzannare Capuleti; il secondo appare più moderato,
accomodante e differente manifestazione di questo sentimento. A questo scheletro nero e teso, scarica un
altro insieme di immagini, personaggi e forze riassunte nel sentimento opposto. Se a fotogrammi alterni si
alternano parole di odio tra le due famiglie rivali per tutto il dramma, allo stesso modo dal secondo atto, ci
vengono offerti altri stralci moderati ma stabili, ed opposti al seme d’ira offertoci. Il dramma diventa quindi
una immane figura retorica: una sorta di ossimoro fatto di dialoghi e scene: è azzardata come affermazione,
ne sono conscio, ma la forza intrinseca del dramma è lì, dietro questo “odiato amore” che Shakespeare
amplifica abilmente.
L’odio delle famiglie così forte e amaro non fa altro che rendere automaticamente più dolce l’amore dei
due, e altrettanto per l’amore, così vivo e sereno da far apparire personaggi come Tebaldo, Mercuzio, e
compagnia accecati dalle loro questioni. Divisi dal loro nome Romeo e Giulietta, cedono ad un amore reso
ancora più forte e saldo dall’odio dal quale sono nati. L’amore narrato diventa anche antidoto contro l’odio
di cui è pregna la schiera dei personaggi, e testimone di questo tentativo è lo stesso frate Lorenzo,
confessore nonché amico di Romeo, è lui stesso a parlare alimentato da quest’idea:

«C’è una ragione per cui voglio aiutarti: il vostro matrimonio potrebbe forse mutare il rancore delle vostre
famiglie in affetto sincero…»
Frate Lorenzo, Atto 2, sc. 3.

E oltre l’appoggio spirituale del frate, a creare questa piccola rosa tra i rovi, sono gli stessi amanti, che
dichiarandosi l’uno all’altro e credendo in quel loro amore tanto impetuoso, creano una bolla sospesa per
aria nel corso della storia. Un mondo distaccato e denso:

«Se profano con la mano più indegna questa santa reliquia, il peccato è veniale. Le mie labbra, pellegrini che
timidamente arrossiscono, sono pronte a temperare questo rude tocco con un tenero bacio.»
Romeo, Atto 1, sc. 5.

«Con le ali lievi dell’amore volai sopra quei muri: confini di pietra non sanno escludere amore, e quel che
amore può fare, amore osa tentarlo…»
Romeo, Atto 2, sc. 2.

«Mi arrestino, e mettano a morte: ne sono felice, se sei tu a volerlo. […] vieni o morte e sii la benvenuta,
Giulietta lo desidera, ora anima mia continuiamo a parole… non è ancora giorno.»
Romeo, Atto 3, sc. 5.
«Oh mio amore, mia sposa! La morte che ha succhiato il miele del tuo respiro, ancora non ha avuto potere
sulla tua bellezza. Ancora non ti ha vita…»
Romeo, Atto 5, sc. 3.

E Giulietta dall’altro canto:

«Il mio unico amore, nato dal mio unico odio!»


Giulietta, Atto 1, sc. 5.

«Stendi la tua fitta coltre notte, perché gli occhi del giorno che fugge si chiudano, complici, e il mio Romeo
possa scivolare tra le mie braccia senza che alcuno lo veda…»
Giulietta, Atto 3, sc. 2.

«La luce laggiù non è il chiarore del giorno; lo so, credimi. […] e dunque resta; non è tempo ancora che tu
vada.»
Giulietta, Atto 3, sc. 5.

«Che c’è qui? Una tazza chiusa nella mano del mio amore fedele. Il veleno lo ha uccisa prima del tempo. Oh,
egoista! Lo ha bevuto tutto senza lasciarmene una goccia amica. Ti bacerò nelle labbra, forse vi è rimasto
ancora del veleno per darmi la morte in un istante. Le tue labbra sono calde.»
Giulietta, Atto 5, sc. 3.

Parlare di amore è semplice fondamentalmente, scrivere di amori struggenti, di lacrime e di amori


travagliati e osteggiati, è una delle tematiche più battute nel percorso letterario di ogni scrittore. Per
quanto mi riguarda cadere nella banalità nell’affrontare questo campo, e scivolare in frasi tipiche e
inflazionate è più probabile che essere originali e fuori dagli schemi. Shakespeare nel 1597 – 98 (la data di
stesura del dramma è soggetta ancora a forti indagini) con Romeo and Juliet si impone caparbiamente con
questo cocktail assurdo e semplice. Citando frate Lorenzo: «Il miele più dolce nausea per la sua stessa
dolcezza…», penso a Shakespeare che fa tesoro di questo dettame. I dialoghi d’amore sono asciutti nella
loro sincerità, Giulietta non è il personaggio che si strugge di amore per il suo giovane, e ne vanta le lodi
facendolo apparire come il cardine centrale di tutta la sua esistenza. Romeo per bocca della ragazza non
appare come il “figo” perfetto, che non suda mai, non va mai in bagno e non commette atti impuri:
Giulietta con le sue parole dice di amare una persona comune, e la ama con una parsimoniosa irruenza,
senza lasciarsi andare a considerazioni svenevoli, languide. Romeo appare comune, vivo nella sua
altalenante passione del primo atto verso la giovane Rosalina, e debole davanti all’imponente semplice
figura di Giulietta. Lui stesso ammette della sua debolezza quando frate Lorenzo gli ricorda che si ama con il
cuore e non con gli occhi, e lui stesso di rimando esalta, motivato, l’amore per la giovane Giulietta,
apparendo umanamente fragile e attuale. Shakespeare non parla di un amore smodato, dove la gente si
strappa i capelli e si cosparge il capo di cenere davanti alle avversità che si presentano nella loro relazione,
la modernità dell’autore è di mettere in luce la frettolosa storia adolescenziale dei due, travolti da
quell’impetuosa e ingestibile sincerità amorosa che si dichiarano, creando così un muro così imponente il
cui crollo finale ha ancora un carattere più drammatico. Scuro.
Una sorta di amarezza, non gratuita, ma dovuta e causata da quel confondersi di immagini di odio smodato,
contrapposte a quel dolce amore particolare e innovativo. Diverso e mai ricalcato. L’amore di Romeo per
Giulietta, decantato dalla nostra cultura come il più grande, romantico e passionale degli amori, alla luce
di un’analisi più attenta del personaggio di Romeo, non può esimersi dal risultare che una tremenda cotta
adolescenziale. Chi innamorato di questo amore, ne ricerca nella realtà un correlativo oggettivo, magari
senza il tragico finale, dimentica che Romeo si innamora della sua Giulietta appena qualche ora dopo aver
lamentato il suo amore non contraccambiato per una certa Rosalina, assente fisicamente nel dramma, ma
fortemente presente nel dialogo tra lui e il cugino Benvolio che vorrebbe invitarlo a dimenticare nella fase
iniziale della tragedia:
“L’amore è fumo creato dai sospiri degli amanti;
se è dissipato è fuoco che scintilla negli occhi degli amanti;
se è sofferto è un mare che si riempie delle lacrime degli amanti.
Che cos’altro è? Una pazzia silenziosissima,
un’amarezza che soffoca, una dolcezza che si conserva dentro … […]
Toh, mi sono perso, io non sono qui.
Questo non è Romeo, Romeo è da qualche altra parte. […]
Oh, insegnami a dimenticare […]
Colui che è colpito da cecità non può dimenticare
Il tesoro prezioso della vista perduta.
Mostrami una donna che sia più bella;
non servirà che come suggerimento
in cui rivedrò colei che è di gran lunga più bella …
Addio, tu non puoi insegnarmi a dimenticare “

La figura di Rosalina, ritorna successivamente nel secondo atto, quando Romeo è rimproverato da Frate
Lorenzo che mette in luce la natura superficiale dei suoi precedenti sentimenti per questa ex:

“San Francesco! Che cosa è questo cambiamento?


Rosalina, che tu amavi così devotamente
l’hai dimenticata così presto?L’amore dei giovani non sta
veramente nel loro cuore ma nei loro occhi.[…]
Ma vieni con me, ragazzo volubile…”

Ma non è soltanto volubile, Romeo è intelligente, arguto e capace di battute spinte; é un giovane alla
ricerca di emozioni forti, senza capacità di moderazione in ogni sua manifestazione e non solo nel suo
amore per Giulietta: si introduce furtivamente in casa Capuleti solo per sbirciare la nuova fiamma, uccide
Tebaldo – cugino della già moglie- in un momento d’ira, e credendo Giulietta morta finisce col suicidarsi
solo per non aver aspettato ancora un po’ il suo risveglio. Romeo è anche un lettore di poesie d’amore e
questo facilmente porta a dedurre che nella sua ricerca tipicamente giovanile del grande amore, abbia
cercato di emulare l’amore ideale dei sonetti tanto in voga all’epoca e che quindi sia stato fortemente
influenzato da quel tipo di letture. Dunque quello che nei secoli è stato immaginato come il più grande degli
amori é solo impetuosità giovanile che già nell’età elisabettiana era conosciuto ed identificato con un nome
specifico: “calf love” o “amore di sbarbatello”. E Shakespeare ne dà un esempio nel personaggio di Romeo:
un adolescente che solo per aver preso una cotta, in soli quattro giorni fa scoppiare un putiferio. Con la
temerarietà tipica dei ragazzini.
MACBETH

Il Macbeth è una celebre tragedia di William Shakespeare (1564-1616), incentrata sulla figura di Macbeth e
sulla sua sanguinosa ascesa al trono di Scozia. Nella tragedia, Shakespeare sviluppa i temi dell’ambizione
umana e della sete di potere e delle conseguenze del male compiuto dagli uomini. Si tratta (rispetto ad
altre opere come Romeo e Giulietta, Amleto o Giulio Cesare) della tragedia più breve dello scrittore inglese.
Il Macbeth, probabilmente composto tra il 1599 e il 1605, è rappresentato per la prima volta l’anno
successivo. Tra le sue molteplici versioni, è particolarmente famoso l’adattamento operistico del 1847
diGiuseppe Verdi (1813-1901) su libretto di Francesco Maria Piave.

Riassunto

La vicenda è ambientata nella Scozia del Medioevo e si apre durante una furiosa tempesta che imperversa
sulla brughiera. Macbeth, signore di Glamis, e Banquo, suo amico, sono due generali di reDuncan di Scozia.
Essi hanno appena sconfitto in battaglia l’usurpatore Macdonwald, che, con il signore di Cawdor, si era
messo a capo degli eserciti di Irlanda e Norvegia. Macbeth e Banquo, di ritorno dal campo di battaglia,
incontrano tre streghe che predicono loro il futuro: Macbeth sarà signore di Cawdore successivamente re di
Scozia, mentre Banquo sarà progenitore di una stirpe di re. Nel momento in cui le streghe scompaiono i due
vengono raggiunti da un messo regale, che annuncia la nomina di Macbeth a signore di Cawdor, dopo che
questi è stato deposto e condannato a morte, in ricompensa del valore dimostrato in battaglia. Macbeth
allora si rende conto che le streghe hanno detto il vero e in una lettera ne informa la moglie, la perfida Lady
Macbeth.
Al castello di Inverness, dove Macbeth e Banquo sono ricevuti con tutti gli onori da re Duncan, quest’ultimo
li informa della decisione di nominare suo figlio maggiore Malcolm come erede della corona; Macbeth vede
quindi un ostacolo sulla strada del compimento della profezia. Lady Macbeth, divorata dall’ambizione,
decide di cogliere l’occasione al volo e progetta di assassinare il re. Macbeth inizialmente rifiuta di
commettere un regicidio ma, succube della moglie, decide infine di commettere il delitto. Dopo il suo
assenso, Macbeth ha un’allucinazione in cui compare un pugnale insanguinato. Fatte ubriacare le due
guardie della stanza di Duncan, Macbeth si intrufola nella camere e uccide il re. Lady Macbeth lascia poi dei
pugnali insanguinati accanto alle guardie prive di sensi, per far ricadere la colpa su di loro. Dopo l’omicidio,
Macbeth subisce un crollo psicologico, ossessionato dalla colpa che ha commesso ma comunque incapace
di pentirsi.
La mattina successiva giungono a Inverness i nobili Macduff e Lennox, che insieme a Macbeth scoprono il
cadavere di Duncan. Dell’omicidio vengono incolpate le guardie, che Macbeth, in un attacco di rabbia
abilmente simulato, uccide per metterle definitivamente a tacere e non compromettere i propri piani. Alla
notizia della morte del padre, l’erede al trono Malcolm e il fratello minore Donalbain, temendo per la
propria incolumità, fuggono rispettivamente in Inghilterra e in Irlanda, diventando così i principali sospetti
per l’omicidio del padre. Macbeth viene così nominato re, sebbene MacDuff nutra dei sospetti sul suo
conto. Il protagonista è tuttavia roso dal dubbio: nella profezia delle streghe, infatti, è Banquo colui che
genererà una stirpe reale. Per questo, Macbeth decide di eliminare l’amico e ingaggi dei sicari per uccidere
lui e il figlio Fleance mentre sono impegnati in una cavalcata notturna. Banquo muore nell’imboscata,
mentre Fleance si dà alla fuga. Macbeth, furioso per il fatto che un erede dell’avversario sia ancora vivo, si
reca comunque al banchetto che aveva indetto per quella sera stessa: a tavola, trova però ad aspettarlo il
fantasma di Banquo, che solo lui può vedere. Il suo equilibrio psichico, già scosso dall’assassinio commesso,
non riesce a reggere l’emozione e così Macbeth dà in escandescenze contro il fantasma del vecchio amico,
mentre tutti gli ospiti lo guardano come se fosse impazzito. Lady Macbeth, dopo aver spiegato che il marito
è gravemente malato, congeda i partecipanti al banchetto.
Macbeth dunque, in preda al terrore, torna a consultare le streghe, da cui ottiene tre profezie orrifiche:
nella prima, la testa decapitata di un cavaliere lo metta in guardia da Macduff; nella seconda, un bambino
insanguinato gli assicura che non potrà essere ucciso da alcun uomo nato da una donna; nella terza, un
fanciullo che stringe in mano un albero gli spiega che egli cadrà quando la foresta di Birnam si sposterà al
castello di Dunsinane. L’improbabilità delle profezie tranquillizza Macbeth, che però decide di eliminare
Macduff. Dato che il nobile è fuggito in Inghilterra, dove ora appoggia Malcolm per spodestare Macbeth,
quest’ultimo massacra la moglie e i figli del rivale. Dopo questi ennesimi omicidi, anche Lady Macbeth
comincia ad avvertire il peso di tanti crimini e, in una sequenza in cui è sonnambula, cerca ossessivamente
di lavar via dalle proprie mani il sangue dei lutti che ha causato.
Macbeth si reca al castello di Dunsinane, dove lo raggiunge la notizia del suicidio di Lady Macbeth, che
getta il protagonista nel più cupo sconforto, come emerge dal suo famoso monologo sulla vita dell’uomo,
che appare breve, assurda e priva di senso, angustiata da inutili occupazioni. Nel frattempo Macduff,
desideroso di vendetta, e Malcolm, che ha radunato un esercito supportato anche dai nobili scozzesi,
muovono guerra contro Macbeth. Le truppe di Malcolm si accampano nella foresta di Birnam, dove si
mimetizzano con dei rami tagliati dagli alberi. Come le streghe avevano predetto, la foresta di Birnam si sta
muovendo contro Macbeth, che è comunque sicuro di vincere la battaglia. Tuttavia, le forze di Malcolm
sono predominanti, e così si giunge allo scontro finale tra Macduff e Macbeth. Quest’ultimo invoca
l’oracolo delle streghe, per cui nessun “nato da donna” potrà sconfiggerlo, ma Macduff rivela di essere nato
da un parto cesareo. Macbeth capisce di essersi ingannato, ma continua a combattere; sconfitto, viene
decapitato da Macduff, che ristabilisce l’ordine e fa salire sul trono Malcolm. I futuri sovrani di Scozia -
come previsto dalla profezia delle streghe - saranno la discendenza di Fleance, figlio di Banquo.

S'è appena conclusa una battaglia. Duncan, re di Scozia, saputo che il generale Macbeth signore di Glamis,
suo cugino, ha combattuto valorosamente, lo nomina signore di Cawdor. Prima però che i messi del re gli
portino la notizia, mentre cavalca insieme con Banquo, altro valoroso generale, s'imbatte in tre streghe che
lo salutano come signore di Glamis, signore di Cawdor, e futuro re; ma nello stesso tempo salutano Banquo
come genitore di re. Macbeth rimane molto sorpreso, ma quando poco dopo i messi del re gli confermano
la sua nuova signoria, comincia a credere alla profezia delle tre streghe. Scrive alla moglie, Lady Macbeth,
una lettera per informarla dettagliatamente di tutto, mentre la sua ambizione cresce a dismisura. Quando
di lì a poco saprà che il re in persona si fermerà nel castello dei Macbeth per una notte, fa in modo di
giungere alla sua dimora prima del sovrano, e con la moglie prepara un piano per uccidere il re. Duncan
viene ucciso e Macbeth ne prende il posto. Poco dopo verrà ucciso Banquo, mentre suo figlio Flenace riesce
a scappare. Poi toccherà alla moglie e ai figli di Macduff. Durante un banchetto lo spettro di Banquo
tormenterà Macbeth, ma la moglie riesce in qualche modo a giustificare agli occhi degli invitati il
comportamento del re. Intanto Macduff si rifugia in Inghilterra e insieme con Malcom figlio di Duncan
organizza la ribellione. Macbeth si reca dalle streghe per sapere qualcosa di più sul suo regno, e gli viene
detto che nessun uomo nato di donna potrà ucciderlo, e che rimarrà al trono finché la foresta di Birnam
non si muoverà verso la collina di Dunsinane. Macbeth, convinto di essere invincibile, affronta i ribelli. Ma
questi, coperti ciascuno da un ramo d'albero del bosco di Birnam si avvicinano verso Dunsinane. Inoltre
Macduff, prima del duello finale, dice a Macbeth di essere nato da un parto prematura con taglio cesareo.
E' la fine: Macduff decapita Macbeth, e come da copione delle streghe, il trono spetta alla discendenza di
Banquo.
Questa è, per sommi capi, la trama di una delle più cruente tragedie di Shakespeare. Essa comincia con
tuoni, lampi e l'inquietante presenza di tre orribili streghe che si danno appuntamento sulla landa ove
dovranno incontrare Macbeth. Prima di uscire di scena insieme "cantano": "E' brutto il bello, è bello il
brutto…" : solo il male può pronunciare tali parole. Esse da sole bastano a far capire i contenuti della
tragedia. Non è un luogo comune parlare di Lady Macbeth come della più sanguinaria fra i personaggi
Shakespeariani, ma la freddezza e la cattiveria delle figlie di re Lear nulla hanno da invidiare a questa Lady.
Gonerilla e Regana stanno bene in sua compagnia, e le cose orrende che entrambe riescono a fare al
povero Lear, loro padre, inorridiscono tanto quanto la furia assassina di quella. Tutte e tre sono ambiziose e
avide di potere, fredde, consapevoli del male che fanno, votate ad esso completamente.
Per esse il brutto è bello ed il bello è brutto. Hanno invertito le polarità della morale e dell'etica, del buon
senso e della ragione, dei sentimenti. Come il cieco occhio del tornado, il loro odio finalizzato può creare
solo caos, disordine, morte e distruzione. Il loro colore è il rosso dell' ira, del sangue, della furia cieca. Esse
"sono" le tre streghe di questa tragedia, o per meglio dire, queste streghe sono i veri volti delle tre Lady.

Molti commentatori, citando la scena terza del quinto atto, in cui, appreso che la regina suo sposa è morta,
Macbeth pronuncia il famoso monologo in cui definisce la vita "un'ombra che cammina; un povero
commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più.
Una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla" (Shakespeare -
Opere - Sansoni, pag. 972), molti commentatori, dicevamo, ci spiegano che Shakespeare aveva della vita
una tale opinione. Noi non condividiamo. A pronunciare quelle parole è Macbeth, un essere che poco prima
di questo monologo dice: "Io mi sono satollato di orrori", uno la cui ambizione ha rubato ogni energia
dell'anima, uno il cui furore ha soffocato ogni voce coscienziale, uno la cui moglie gli ha partorito serpenti
velenosi, un toccato dal male, uno che si è imbattuto nella propria ombra e ascoltandone la voce ha ceduto
alle lusinghe. E' Macbeth a pronunciare queste parole, Shakespeare è solo il fotografo di un'anima persa, il
pittore di un triste paesaggio, il fedele registratore di un demonio scatenato. Shakespeare, profondissimo
conoscitore dell'animo umano, ci conduce lungo il sentiero dell'ambizione sfrenata, per farci osservare la
sua genesi, la sua crescita, la sua fine. Il grande drammaturgo è solo poesia, quella leggera e profumata
brezza che soffia lieve su ogni sillaba, quella bellezza che sta sopra le più terribili tragedie, quell'inspiegabile
bellezza che avvolge l'orrido, il sanguinario, lo spietato, ma che spessissimo (non lo dimentichiamo) avvolge
la pietà e il perdono (vedi Prospero nella Tempesta), il comico (vedi lla rappresentazione di Piramo e Tisbe
nel finale del Sogno di una notte di mezza estate, o la combriccola guidata da Maria, Feste e sir Toby nella
Dodicesima notte), amore (vedi Romeo e Giulietta), teatro assoluto (vedi Amleto), etica e morale (vedi
Misura per misura), ecc. In Macbeth non scorre solo sangue, ma anche poesia e profonde riflessioni,
psicologia, teatralità, genialità. Shakespeare ha solo cantato, non ha definito un bel niente: troppo geniale
per farlo. A lui giustifichiamo i fiumi di sangue, ogni volgare doppio senso, ogni orrore, perché la sua poesia,
alla fine riesce ad uccidere le trame ed i significati. Il suo magnifico canto spesso, indossando il manto della
pietà, ci tiene per mano per ammonirci, per dirigerci, per allontanarci o avvicinarci, a seconda che tratttasi
di male o bene. Le parole dei suoi personaggi sono le parole che ognuno di noi pronuncia, ora quando è
innamorato, ora quando è ambizioso, oppure quando è filosofo, giusto, cattivo, buono, matto, savio, ecc.
Con la sua inimitabile poesia ci rivolta come calzini, mette a nudo le nostre anime, pone ciascuno di noi di
fronte a se stesso, fa conoscere l'uomo all'uomo. Solo Macbeth può definire la vita così. Amleto ha altre
idee su di essa, Feste altre ancora, Petrucchio, Falstaff e i mille personaggi della sua vasta opera hanno
ciascuno un' ottica diversa. Sta a noi studiare i vari personaggi, le varie trame, per cavare da esse
insegnamenti nascosti nella poesia che tutto pervade e sostiene. Ed è quello che, con questi brevi
commenti, stiamo cercando di fare per noi stessi. Interiorizzare le vicende e i personaggi per cercare
percorsi conoscitivi.

Ma torniamo a Macbeth. Egli è un valoroso generale. Agli occhi del re Duncan è un sole, una supernova,
una stella di rara grandezza: è coraggioso, valoroso, sprezzante del pericolo, leale. Improvvisamente però
s'accende il lui una smisurata ambizione, ed ecco che la stella esplode: Macbeth diventa un buco nero. Da
quel momento in poi la sua "forza gravitazionale" attirerà ogni "astro" o "pianeta" che si avvicina troppo e
lo annienterà. Diviene un vortice distruttivo? E qui entra in campo quell'impetuoso vento che muove la sua
incerta volontà: Lady Macbeth.
Ma seguiamo passo passo la vicenda. Allorché le streghe gli svelano il futuro di re, Macbeth trasalisce (Mio
buon signore, perché trasalite…? - gli dice Banquo, pag. 948): l'avvelenamento è subitaneo, e l'intera
tragedia è racchiusa in quel trasalimento, perché la sua mente, in un lampo, gli ha parato innanzi tutto
l'orrore di cui dovrà satollarsi per raggiungere il suo scopo. Il destino suo e di chi lo circonda è segnato. Ma
anche Banquo (che però reagirà) è stato morso dalla "vipera": le streghe sono appena scomparse e si
rivolge a Macbeth così: "Quegli esseri dei quali parliamo, sono stati qui veramente, o noi abbiamo mangiato
di quella radice insana che fa prigioniera la ragione?" (idem). Quando la mente si surriscalda per un forte
sentimento, per una passione o per un vizio, è quasi capace di dare forma ai pensieri, corpo alle idee.
Macbeth deve essere re, ecco perché l'apparizione del pugnale grondande sangue. Il pugnale è nato nel
momento del trasalimento, ed esso sarà il mezzo con il quale sia i Macbeth, sia i loro sicari verseranno
sangue innocente. Tutto è dunque già scritto, e che la mente del futuro assassino del re di Scozia sia già
orientata, è testimoniato da quanto egli dice a se stesso dopo aver saputo della nuova signoria: "Glamis e
signore di Cawdor: il meglio è da venire" (id.). Cioè, il trono che mi spetta deve ancora venire. Ma che egli
sia ormai preda dell'ambizione e delle streghe ce lo confermano le terribili parole che poco dopo pronuncia
sempre a se stesso: "Questo incitamento soprannaturale non può essere cattivo, e non può essere buono: se
cattivo, perché mi ha dato garanzia di successo cominciando con una verità? Io sono signore di Cawdor: se
buono, perché io cedo ad una tentazione la cui orrenda immagine mi fa rizzare i capelli, e spinge il cuore,
ch'è pur saldamente fissato, a battermi alle costole contro il natural costume? Le paure effettive sono
minori delle orribili fantasticherie. Il mio pensiero, il cui assassinio ancora non è che immaginario, scuote a
tal punto la mia compagine d'uomo, che l'attività della mente resta ingorgata in quella supposizione, e per
me non esiste altro che ciò che non esiste" (pag. 949). "Per me non esiste altro che ciò che non esiste". Con
questa frase Shakespeare ci sta facendo capire fino a che punto la mente può essere trascinata da un
pensiero alimentato dal fuoco dell'ambizione. La mente comanda sul corpo e sui sentimenti, sia nel bene
che nel male. E' meglio guardarsi dai cattivi pensieri, e non alimentarli, se no acquisiscono autonomia e
forza e scuotono ogni fibra del corpo e dell'anima. Un pensiero ossessivo è capace di oscurare
completamente la ragione e di farci credere che "esiste solo ciò che non esiste": la realtà è rimossa e
l'ossessione governa. Attenzione, dunque, a quel che succede a Macbeth in questa prima parte della
tragedia, perché ci viene offerta la possibilità di osservare una mente ossessionata all'opera. Egli non
mostra di possedere più un briciolo di volontà buona, allorché si abbandona completamente al vaticinio ed
alla volontà della moglie che sa essere forte e inflessibile: "Accada quello che può accadere, il tempo e l'ora
fuggono attraverso il più triste dei giorni", dice sempre a se stesso. Non 'accada' quello che deve accadere,
ma quello che può accadere. La differenza è notevole, perché quello che deve, comporta un affidarsi al
destino, mentre quello che può, presuppone un affidamento all' ambizione scatenata: lui e sua moglie
faranno quanto può esser fatto, pur d'arrivare allo scopo. Non si pongono limiti di umana pietà. D'ora in
poi, quanto si troverà sul suo cammino verrà spazzato via. Il primo a porsi sulla sua strada è Malcom, il
primogenito del re appena nominato principe di Cumberland. Ed ecco quel che dice ancora una volta a se
stesso Macbeth:"Questo…si trova sul mio cammino. Stelle nascondete i vostri fuochi! La luce non veda i miei
tenebrosi e profondi desideri…" (pag. 950).

Che sia la tragedia dell'ambizione è ribadito ancora una volta dal nostro negativo protagonista appena più
tardi nel suo castello, poco prima di rivedere la moglie: "Io, per pungere i fianchi del mio disegno, non ho
altro sprone che l'ambizione…" (951). Ma adesso è giunta l'ora di occuparci della sua consorte. Lady
Macbeth è il perverso mediatore tra il desiderio e l'azione. E' il male esteriorizzato e corporificato del
marito, che appunto perché materializzato e pesante, fa toccare terra al piatto dell'azione, facendo sì che
quello del desiderio voli alto nel cielo in una sorta di estasi negativa. Allorché il marito le confida
che vorrebbe, ma non osa, lo prende in giro col il famoso proverbio del gatto che voleva mangiare il pesce,
ma senza bagnarsi i piedi: pretenderesti, gli dice, che "io non oso" stia al servizio di "io vorrei" come fa il
povero gatto del proverbio? (952). Macbeth, subito dopo si dichiarerà risoluto. E' da sottolineare, a questo
punto, che nonostante egli sia preda del destino che si è "neramente" immaginato, la sua consapevolezza
del male che sta per compiere rimane intatta: "Tu salda e ben ferma terra, non sentire per quale via
camminano i miei passi, per paura che le pietre stesse abbiano a chiacchierare del luogo ove io mi aggiro, e
tolgano al momento l'orrore presente, che con esso s'accorda". Nella notte, Duncan, re di Scozia, viene
ucciso da Macbeth. Quel pugnale che sanguinante animava la sua immaginazione ora è arma di delitto,anzi
sono (sono i pugnali dei due servi del re) arma del delitto e sono macchiati del sangue del re. Secondo il
piano essi dovevano esser lasciati in mano alle guardie drogate dalla moglie, ma lui le si presenta con l'armi
in pugno: sarà lei a imbrattare i visi degli innocenti servi che dormono col sangue ancora caldo di Duncan,
perché la colpa ricada su di loro. La tragedia è iniziata e proseguirà perché i pensieri di Macbeth sono
oramai come magma incandescente desideroso solo di spazzar tutto quanto possa far vacillare il suo trono
di neo re. "Oh, il mio pensiero è pieno di scorpioni, moglie cara", dirà alla regina. E questa frase ricorda
tanto il mio petto si gonfia di serpenti di Otello ormai vinto dalla gelosia e dal veleno di Jago. Il pensiero di
Macbeth è mortale, dalla sua testa partono esseri velenosi come in Medusa. Il nulla avanza, il buco nero
manifesta la sua presenza dal caos e dalla morte che "crea" intorno a sé. Ma dicevamo di Lady Macbeth. La
sua vera natura viene palesata dalle tremende parole pronunciate subito dopo aver letto la lettera del
marito sull'incontro con le streghe e aver saputo della visita del re. Invocando il soprannaturale, e
precisamente gli spiriti che alimentano i pensieri di morte, ai quali chiede crudeltà: "Venite o voi spiriti che
vegliate sui pensieri di morte, in quest'istante medesimo snaturate in me il sesso, e colmatemi tutta, da
capo a piedi,della più atroce crudeltà. Spessite il mio sangue, occludete ogni accesso ed ogni via alla
pietà…Venite alle mie poppe di donna, e prendetevi il mio latte in cambio del vostro fiele…". Meglio fermarsi
ed invocare il nome di Gesù e dei Santi per annullare questa orrenda invocazione di nera magia. E' questo
un vero e proprio patto col male assoluto, ed è il momento in cui l'orribile Lady consegna la sua vita (col suo
latte che dà vita ai pargoli) al nulla. Il maestro Gesù raccomandava di "perdere" ciascuno la propria vita così
come fa il seme per rivivere come pianta, e non di barattarla per la dannazione eterna: perché il nulla è
proprio la negazione dell'Essere, dell'Eterna Vita che anima ogni cosa. Quanto è stato invocato da questa
orribile strega, ha preso pieno possesso del corpo, del cuore e della mente, lasciando che solo la pazzia e il
suicidio rimangano come uniche facoltà di Lady Macbeth. Sì, Shakespeare non aveva mai messo in bocca ai
suoi personaggi parole più terribili di queste, rese ancora più sinistre da una donna che per natura "dona" la
vita e allatta il bene. Non sarebbe male se ad ogni rappresentazione di Macbeth, nel momento di tale
invocazione fosse presente sul palcoscenico un enorme Crocifisso. Questa è Lady Macbeth.

La nostra, è una tragedia che offre pochissimi momenti di quiete. La mente è continuamente sollecitata, il
cuore tambureggiato ossessivamente, il corpo sollecitato con brividi dalla testa ai piedi. Due sono i
momenti di "pace" che Shakespeare ci concede. Uno è quello del monologo del portinaio con cui si apre la
scena terza dell'atto secondo (che noi non riportiamo, per non appesantire troppo il breve saggio e per non
approfittare della bontà della Sansoni, il cui testo delle opere complete del grande drammaturgo curate da
Mario Praz consigliamo di leggere) e l'altro è il momento in cui, finalmente, Macduff taglia la testa a
Macbeth: una liberazione!

Nell'atto quarto Macbeth va a ritrovare le streghe, mentre queste danzano e cantano attorno ad una
caldaia che bolle osservate e incitate da Ecate, per saperne di più. Vuol sapere quello che dovrà accadere,
costi quel che costi, dovesse trattarsi delle cose più orrende (scatenare venti contro le chiese, affondare
navigli, distruggere raccolti, schiantare alberi, crollare castelli, distruggere palazzi e piramidi, "…dovessero le
virtù germinatrici della natura confondersi tutte insieme, tanto da saziare la distruzione fino alla nausea,
rispondete a ciò che vi chiedo". Dopo aver sottolineato che questo monologo sembra figlio di quello
stregonesco di Lady Macbeth, diciamo subito che le streghe lo accontentano e gli rispondono con delle
apparizioni. La prima apparizione è "una testa armata" che lo esorta a guardarsi da Macduff. La seconda è
"un fanciullo insanguinato" che lo rassicura: nessun nato di donna potrà sconfiggerlo. La terza è "un
fanciullo incoronato con un ramo d'albero in mano": Macbeth sarà invitto fino a che la foresta di Birnam
muoverà verso la collina di Nunsinane. Quarta apparizione: "otto re, l'ultimo con uno specchio in mano",
seguiti dallo spettro di Banquo: sono i discendenti di questi, tutti re. Certo, la presenza del soprannaturale,
può pure far pensare che il destino è segnato fin dall'inizio del tempo che ci è concesso, e forse ancora
prima. La sequenza delle apparizioni è frutto delle scelte di Macbeth, o le sue scelte sono frutto del destino
mostrato da esse? Antica domanda questa. Noi propendiamo per il libero arbitrio: quel che uno semina,
raccoglie. Ma di questi tempi di strambe teorie ne circolano tante: il nichilismo, sorretto in lunghe
processioni da fantasmi del sapere, offende la Saggezza proclamando il nulla come signore dei mondi e
professando apologia del caos e della distruzione. Per fortuna di tutti, poche fiammelle di modesto buon
senso, di nascosto (perché la ragione è costretta nei ghetti) custodiscono piccole luci. Macbeth di turno
hanno occupato il trono di tutti i megafoni, ma Macduff di turno sono pronti ad "abbattere" questi falsi
maestri. Non scorrerà sangue, né streghe e profezie, perché questi "uomini grigi" (per dirla con Ende)
saranno sconfitti ancora una volta da…Momo, dall'innocenza, dalla verità, dall'intelletto. Saranno sconfitti
soprattutto dalle loro bugie. Il maestro Gesù invitava a giudicare l'albero dai frutti: la gente, a forza
d'assaggiare, smaschererà tali falsi maestri,e finalmente i ragazzi del mondo torneranno ad essere ragazzi, e
non più branco guidato da ombre. Lady Macduff, prima d'essere uccisa dai sicari di Macbeth dice: "…io sono
in questo basso mondo, dove il fare del male è spesso lodevole cosa, e fare il bene qualche volta è
considerato pericolosa follia…" (pag. 966). Streghe impazzavano, ma streghe ancora impazzano, a quanto
sembra, perché queste parole di Macbeth (atto V scena V pag. 972) "Io comincio ad essere stanco del sole, e
vorrei che la fabbrica del mondo fosse distrutta…", strisciano come serpi velenose fra i detti del nichilismo
imperante e apologeta. E qui ci nasce spontanea una domanda: è davvero possibile combattere l'odio con
l'amore, o non occorre piuttosto estirpare la mal'erba? Solo finché è in noi è possibile soffocare l'odio con
montagne d'amore. Una volta imperante, c'è solo d'attendere Macduff.

Per il Bloom Macbeth è "una tragedia dell'immaginazione" (Harold Bloom - Shakespeare - Rizzoli, pag. 418),
ed ha perfettamente ragione: i due negativi protagonisti per potere raggiungere i lori orrendi scopi
mettono in atto una sorta di magia nera, giocando fortemente d'immaginazione. Essi prefigurano nella loro
mente scena dopo scena i loro delitti, dirigono la volontà a forza d'immaginazione, e quando non sono loro
ad usare questa facoltà dell'anima, ci pensano le streghe. Lo stesso Bloom sottolinea poi come non si può
accomunare Macbeth agli altri cattivi Shakespiriani, in quanto questi sono tutti consapevoli del male che
fanno e si "crogiolano nella loro malvagità" mentre quegli "soffre profondamente sapendo di compiere
azioni malvagie" (idem). Altra cosa da sottolineare fra i commenti dello stesso è la dominante, a suo parere,
di quest'opera: il tempo, che non è quello della cristiana pietà dell'eternità, ma "un tempo divorante, la
morte vista in maniera nichilista (pag. 426). Vorrei ancora citare un commento del Bloom: "Qualsiasi altra
cosa faccia, Macbeth non ci offre certo una catarsi per i terrori che evoca. Poiché siamo costretti a
interiorizzare il dramma, il 'timore dell'ignoto' è, in ultima istanza, timore di noi stessi" (pag. 447).

È proprio così, come per tutte le altre tragedie, Shakespeare ci rimanda a noi stessi, mette a nudo la nostra
psiche, la nostra anima, ed ogni suo capolavoro è una lezione da non dimenticare, un ammonimento, un
invito implicito ad usare sempre la ragione ed il buon senso, ad usare sempre la nostra testa, a non farci
ipnotizzare dalle chiacchiere di chicchessia. Sì, la parola può essere velenosa come può essere guaritrice, e
ciò vale sia per quella a noi diretta, sia per quella da noi pronunciata. La parola è il frutto dell'albero. Infine
due parole su quanto dice la Signora Maria Luisa Zazo nel suo "Introduzione a Shakespeare" - Laterza (pag.
113): "E' meno l'ambizione che la volontà delle tre sorelle a spingere Macbeth sulla strada del delitto".
Certo, anche questo è vero: il destino di Macbeth sembra essere stato disegnato dalle tre streghe fin
dall'inizio, ma non ci dimentichiamo della forza delle forze che caratterizza l'uomo: la volontà. Con essa è
possibile combattere e vincere, Giacobbe insegna (vedi Genesi). Essere forti non viene dal vincere gli altri,
ma se stessi. Shakespeare sta parlando sempre e solo di noi, dell'uomo, di sé. Osserviamoci e modelliamoci
secondo buon senso e coscienza: se possiamo (e volendo, possiamo) costruiamoci un mondo pulito,
ordinato, non violento. Ma…partendo dal pulire, ordinare e pacificare noi stessi.

Infine una piccola curiosità. Ecco come il poeta Francesco Maria Piave sintetizza per il Macbeth di Giuseppe
Verdi il famoso monologo che Macbeth dice dopo aver saputo della morte della moglie:

"La vita!… Che importa?… / E' il racconto d'un povero idiota! / Vento e suono che nulla dinota!"(Verdi - Tutti
i libretti d'opera - vol II - Newton, pag. 190) . Ma per chiudere positivamente e con una invocazione a Dio,
riportiamo dello stesso bravissimo Piave, il tutti con cui si chiude il primo atto dell'opera:

"Schiudi, inferno, la bocca, ed inghiotti / nel tuo grembo l'intero creato: / sull'ignoto assassiso esecrato / le
tue fiamme discendano, o Ciel. / O gran Dio, che ne' cuori penètri, / Tu ne assisti, in Te solo fidiamo: / da Te
lume, consiglio cerchiamo / a squarciar delle tenebre il vel! / L'ira tua formidabile e pronta : / colga l'empio,
o fatal punitor; / e vi stampa sul volto l'impronta : / che stampasti sul primo uccisor. (pag. 182).

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