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Sara Krsteva 01.06.

2022

Riassunto Promessi Sposi


Cap. 8 - 24
Capitolo otto
Questo è il capitolo dedicato alla notte degli imbrogli. Mentre Don Abbondio , come ogni sera,
sta leggendo Perpetua gli annuncia la visita di Tonio interrompendolo. La domestica viene poi
attirata lontano da casa da Agnese che si finge desiderosa di raccontarle un pettegolezzo che la
riguarda. Intanto Tonio e Gervaso salgono in camera e con loro entrano di nascosto anche
Renzo e Lucia pronti a dichiarare le loro formule al momento opportuno. Quando Don Abbondio
si volta per firmare le ricevute Renzo dichiara Lucia sua moglie, ma la ragazza non riesce a finire
di parlare perché il curato si ribella e inizia a chiedere aiuto svegliando Ambrogio, il sagrestano,
che dà l’allarme suonando le campane. Intanto i bravi, introdottisi in casa di Lucia, vi trovano
soltanto Menico e sono poi costretti a scappare per via dell’allarme dato dalle campane stesse. Il
ragazzino riesce così a fuggire e, incontrati sulla via Renzo, Lucia e Agnese li avverte del pericolo.
Il gruppo si dirige allora a Pescarenico dove padre Cristoforo gli comunica di aver trovato un
rifugio per Renzo a Milano e per le due donne a Monza. Dopo aver pregato arriva il momento
della partenza. Lucia, salita sulla barca che la porterà a destinazione, guarda il paesaggio natio e
riflette sulle sue speranze vane dando vita al monologo interiore noto come addio ai monti.

Capitolo nove
È l’alba di sabato 11 novembre 1628 quando i tre viaggiatori giungono sull’altra sponda del lago
dove li attende un barroccio che li conduce a Monza. Dopo aver mangiato Renzo a malincuore
parte per Milano mentre le due donne si recano dal padre guardiano a cui fanno leggere la
missiva di Fra Cristoforo. Il cappuccino decide quindi di accompagnarle dalla Signora. La
Monaca di Monza, una donna di circa venticinque anni il cui padre è il più importante signore
della città, appare alle due donne bella ma sfiorita e, dopo aver accettato di ospitarle, chiede di
essere lasciata da sola con Lucia. A questo punto Manzoni si interrompe sostenendo che
piuttosto che narrare il confronto tra le due, preferisce raccontare ai lettori la storia della
Signora. Gertrude, questo il suo nome di battesimo, è stata cresciuta da sempre con la
convinzione che prendere i voti fosse il suo destino, per questo i suoi giochi avevano lo scopo di
ricordarle la vita nel chiostro e a sei anni era stata rinchiusa nel monastero. Scoperto ben presto
di non essere adatta a quella vita, la ragazza scrive al padre senza però ricevere alcuna risposta
e, tornata a casa per un breve periodo, viene stata trattata come un’indegna. Durante questo
tempo soltanto un paggio le mostra gentilezza. Proprio a lui Gertrude si decide a scrivere un
biglietto che, però, viene scoperto e ha il solo effetto di causare il licenziamento del servo e la
Sara Krsteva 01.06.2022

sua reclusione in una delle stanze del palazzo. Sola e minacciata di venir ulteriormente punita in
seguito, la ragazza scrive di nuovo al padre implorando il suo perdono.

Capitolo dieci
Il principe padre manda a chiamare Gertrude convincendola così a sottomettersi al proprio
volere. La fanciulla prende così i voti dichiarando al vicario e alla madre badessa, solo per paura,
che la sua è una libera scelta. Le tappe che la conducono a diventare monaca per sempre sono
intrise del senso d’angoscia provato da questo personaggio che non vuole rassegnarsi al proprio
destino. Confinata in alcune stanze più isolate la giovane inizia una relazione segreta con il
depravato Egidio le cui proprietà confinano con i suoi appartamenti. La tresca viene però
scoperta da una conversa, immediatamente fatta sparire. Tormentata dal sospetto di quella
strana scomparsa la Monaca di Monza ha così vissuto per circa un anno quando decide di
ospitare Lucia a cui rivolge domande riguardanti la sua storia e i suoi sentimenti dirette al punto
da farla arrossire. Rimasta sola con la madre la ragazza racconterà poi l’accaduto alla madre
ottenendo come risposta che “I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han
tutti un po' del matto”.

Capitolo undici
In questo capitolo Manzoni compie un passo indietro e ci riporta a venerdì 10 novembre 1628
per mostrarci cosa è accaduto in paese dopo la notte degli inganni. La scena si apre con Don
Rodrigo che, impaziente e inquieto, attende l’arrivo dei bravi e, non appena li vede comparire
all’orizzonte, scopre che il piano è fallito. Il signorotto interroga dunque Griso sull’accaduto e,
quindi, gli ordina di spedire due uomini ad intimare silenzio al console del paese, due nel
casolare a riprendere la portantina e, infine, di mescolarsi tra le gente per carpire le chiacchiere
e cercare di riscostruire come si sono svolti i fatti. Il mattino seguente Don Rodrigo racconta la
vicenda al conte Attilio che, certo che la colpa del mancato rapimento sia da attribuirsi a Fra
Cristoforo, promette di rivolgersi al conte zio affinché esso venga punito. All’ora del desinare,
finalmente la nebbia si dirada grazie al racconto del Griso che è riuscito a parlare con diversi
testimoni: Perpetua, Gervaso, la moglie di Tonio e i genitori di Menico. Grazie alle loro
testimonianze è a conoscenza del fatto che i due promessi sposi si sono rifugiati a Pescarenico.
Inviato subito sul posto scoprirà la loro destinazione finale e, il mattino successivo, partirà con
due bravi alla volta di Monza lasciando Don Rodrigo a meditare su un modo per allontanare i
due innamorati. Intanto Renzo è giunto in una Milano piuttosto insolita in cui le strade sono
ricoperte di farina e le persone girano cariche di farina e di pane. Il giovane capisce allora di
trovarsi in una città in cui da poco vi è stata una sommossa. Il capitolo si chiude con il ragazzo
che, giunto in convento, non trova padre Bonaventura e, quindi, decide di fare un giro in città.
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Capitolo dodici
Manzoni apre il capitolo con una spiegazione storica della situazione in cui versava la Milano
dell’epoca dove, dopo due anni di raccolto scarso e carestia, il prezzo del pane era aumentato
così come il malcontento tra il popolo che chiedeva l’intervento del governo. Per questo motivo
il gran cancelliere Antonio Ferrer, che nel 1628 faceva le veci del governatore, aveva stabilito un
prezzo tale da sfavorire i fornai, i quali subito erano insorti. La loro protesta aveva spinto il
governatore a nominare una giunta che aveva aumentato nuovamente il prezzo del pane
innescando una vera e propria rivolta cominciata, appunto, proprio il giorno dell’arrivo di
Renzo. Il giovane è dunque appena giunto a Milano quando si rende conto che le persone stanno
rapinando i garzoni dei fornai. La folla si reca poi al forno delle grucce e, nonostante l’intervento
del capitano di giustizia, riesce a svaligiarlo rendendo evidente che tutti i forni della città
rischiano di subire lo stesso trattamento. La folla inferocita si sposta allora in piazza Duomo
dove gli utensili appena rubati vengono dati alle fiamme. Tra loro vi è il giovane promesso sposo
che, per curiosità, continua a seguire le proteste ritrovandosi in piazza Cordusio dove si sta
decidendo di recarsi direttamente a casa del vicario.

Capitolo tredici
La narrazione si apre con il vicario che, a tavola, constata la mancanza di pane fresco e si augura
che i tumulti si plachino al più presto. Proprio in quel momento la folla si avvicina alla sua casa e
l’uomo, avvisato del fatto di essere uno degli obiettivi della rivolta, decide di rifugiarsi in soffitta
mentre i suoi servi sprangano porte e finestre. Tra la folla urlante c’è anche Renzo che, seppur
preso dalla protesta, quando capisce che si vuole attentare alla vita del vicario si schiera con
coloro che lo vogliono salvo. Nel frattempo sul luogo giungono dei soldati guidati da un ufficiale
piuttosto indeciso sul da farsi. Tramaglino esprime allora il suo dissenso ad alta voce dando vita
a più di un equivoco dato che alcuni si convincono che sia un servitore del vicario, mentre altri
credono che sia il vicario stesso in persona. L’annuncio dell’arrivo del cancelliere Ferrer,
fortunatamente, distrae la folla. L’uomo sta cercando di calmare gli animi e, per placare il
proprio senso di colpa, distribuisce saluti e sorrisi, rimanendo però sempre all’interno della
carrozza e affermando di essere venuto a prelevare il vicario al fine di portarlo in prigione. In
realtà le cose stanno diversamente dato che Ferrer stesso, in spagnolo, dice al conducente della
carrozza di procedere con prudenza. Renzo, ricordatosi che il nome del gran cancelliere era
sulla bolla mostratagli da Azzeccagarbugli, si dà intanto da fare per favorire il passaggio. Il
vicario viene così prelevato e fatto salire sulla vettura anche grazie al consenso dei manifestanti,
ormai convinti con l’inganno che le cose stiano volgendo al meglio. Salito in carrozza il vicario
confessa si aver deciso di dedicarsi all’eremitaggio.
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Capitolo quattordici
Mentre la sera inizia a calare anche la folla si dirada e solo piccoli crocchi qua e là rimangono in
strada. Renzo inizia allora a cercare una locanda in cui sfamarsi ma viene distratto dai discorsi di
un gruppo di persone che lo spingono a tenere un piccolo comizio in cui, fomentato
dall’eccitazione degli avvenimenti e dalla sua storia personale, inizia a parlare di prepotenze e
ingiustizie proponendosi come ambasciatore per andare a parlare con Ferrer il giorno dopo. I
presenti applaudono e gli danno appuntamento per l’indomani in piazza del Duomo. A questo
punto uno sbirro travestito si offre a lui come guida e, tra una domanda e un’altra, lo
accompagna fino ad un’osteria la cui insegna ha l’immagine di una luna piena. Una volta giunto
il giovane si rifiuta di dare le proprie generalità all’oste ma poi, spinto dal vino che lo rende
sempre più loquace, finisce col cadere nel tranello del poliziotto rivelandogli il proprio nome.
Rimasto quindi solo ed essendo sempre più ubriaco, Renzo, via via stuzzicato dagli altri clienti,
inizia a straparlare facendo a voce alta i nomi di Don Rodrigo e di Don Abbondio mentre nella
sua mente e nel suo cuore si fa di nuovo strada il pensiero di Lucia.

Capitolo quindici
Dopo essersi reso conto della situazione, l’oste decide di trascinare Renzo nella sua stanza e, pur
non riuscendo a farsi dire il suo nome, lo mette a letto prendendo da sé il pagamento per i suoi
servigi. L’uomo chiude quindi la stanza a chiave e si reca al palazzo di giustizia imprecando e
chiamando il suo ospite montanaro e testardo. Giunto a destinazione però rimane piuttosto
stupito nell’apprendere che la polizia è ben più informata di lui e non solo non viene ringraziato,
ma riceve sia qualche rimprovero per quanto è accaduto nel suo locale che la raccomandazione
di non lasciarsi sfuggire il forestiero. Si arriva così alla mattina di domenica 12 novembre 1628,
quando Renzo, dopo aver dormito profondamente a causa del vino, viene svegliato da un notaio
criminale (alias il corrispettivo di un commissario di polizia) e da due poliziotti che hanno il
compito di accompagnarlo in carcere. Una volta giunto in strada però il giovane tenta di farsi
notare dalla folla che si sta man mano radunando prima solo con cenni e colpi di tosse e, alla
fine gridando “pane e giustizia!” e aggiungendo che lo vogliono arrestare. La folla allora inizia a
stringersi intorno al quartetto mettendo in fuga sbirri e notaio.
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Capitolo sedici
La folla è tutta dalla parte di Renzo che riesce a scappare e decide di raggiungere suo cugino
Bortolo, che vive nel bergamasco. Non conoscendo la strada, il giovane chiede informazioni a
uno sconosciuto la cui apparenza gli ispira fiducia e riesce così ad arrivare fino a Porta Orientale
dalla quale imbocca senza alcuna difficoltà la strada verso Bergamo. Il pensiero dei fatti appena
accaduti lo spinge a decidere di muoversi a zig zag in modo da essere più difficilmente
rintracciabile. Così facendo Renzo allunga molto il suo percorso al punto che quando giunge a
sei miglia da Milano ne ha già percorse dodici e, quindi, decide di fermarsi in un’osteria dove una
vecchina lo riempie di domande riguardanti proprio la rivolta a cui egli risponde in maniera
evasiva chiedendo, a sua volta, il nome del grosso paese al confine con lo Stato di Milano e sulla
strada per Bergamo: Gorgonzola. Il ragazzo vi giunge all’ora di cena e si rifugia in un’osteria dove
alcuni sfaccendati stanno passando il tempo. Uno di loro gli si avvicina per domandargli se viene
da Milano ma lui, pronto, risponde che proviene da Liscate. Renzo infatti non è più un completo
sprovveduto e quando si accorge che l’oste, al quale tenta di chiedere indicazioni, sta
sviluppando una curiosità maliziosa nei suoi confronti, assume un atteggiamento defilato. In
quel momento però, proprio da Milano, giunge un mercante che racconta delle rivolte degli
ultimi giorni affermando che il capo dei ribelli è riuscito a scappare. Le vicende insospettiscono
l’oste che si volta verso Renzo per cui il cibo sembra essersi tramutato in veleno e che, quindi,
decide di saldare il suo conto per poter ripartite in tutta fretta dirigendosi nella direzione
opposta rispetta a quella da cui era venuto.

Capitolo diciassette
Quando Renzo esce dalla città di Gorgonzola è ormai mezzanotte. Spaventato dalle parole del
mercante il ragazzo decide di percorrere una via secondaria per evitare di incontrare la polizia e,
durante il cammino, si sente pervadere da un senso di ansia e di solitudine mentre,
nell’oscurità, con l’orecchio cerca di cogliere la voce del fiume Adda. La sua paura e le sue
insicurezze crescono man mano che la vegetazione incolta si infittisce al punto che il nostro è in
procinto di tornare sui suoi passi quando, finalmente, ode il fiume, la voce amica. Dato che
mancano ancora sei ore all’aurora, Renzo decide di riposare in una capanna e, dopo aver
pregato, si addormenta. In sogno gli appaiono i protagonisti degli ultimi giorni della sua vita, ma
solo la visione di Padre Cristoforo e di Lucia è per lui priva di amarezza. Alle cinque del mattino
di lunedì 13 novembre, dunque, il promesso sposo riprende il suo viaggio e, dopo essersi fatto
traghettare sull’altra sponda da un pescatore, scopre grazie a un viandante Bergamo dista solo
nove miglia. Durante questo cammino finisce con lo spendere tutti i suoi soldi per il pranzo e per
fare la carità ai numerosi bisognosi incontrati. Il capitolo si chiude con l’incontro con Bortolo
Castagneri che, venuto a conoscenza dell’intera storia, decide di aiutare Renzo a trovare un
impiego nella filanda presso cui è il primo lavorante.
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Capitolo diciotto
Manzoni fa di nuovo un piccolo passo indietro per mostrarci che lo stesso giorno dell’arrivo di
Renzo a Bergamo, la polizia modenese fa irruzione nella sua casa natale per cercarlo. L’evento
mette in moto diverse chiacchiere che giungono all’orecchio di Fra Cristoforo, il quale scrive
subito a padre Bonaventura per avere spiegazioni, e di Don Rodrigo, che ne risulta compiaciuto
quasi come se avesse deciso lui stesso l’evolversi della situazione. La gioia del signorotto però è
destinata a svanire poco dopo quando Griso lo raggiunge per informarlo che Lucia non esce mai
dal convento presso cui si è rifugiata. Don Rodrigo decide allora di chiedere aiuto ad un potente
feudatario le cui mani sono in grado di arrivare ovunque o quasi. Alcuni giorni dopo egli viene
informato del fatto che Fra Cristoforo è stato trasferito e che Lucia è rimasta sola al convento.
Della prima partenza è direttamente responsabile il Conte Attilio, che ha personalmente
suggerito al conte zio il modo per eliminare il frate dalla scena. Anche lo spostamento di Agnese
è a sua volta legato a questa mossa dato che la donna è partita alla volta di Pescarenico in
seguito all’improvvisa interruzione della comunicazione col frate che, fino a quel momento,
aveva inviato notizie rassicuranti a lei e a Lucia dopo che a Monza era giunta notizia dell’arresto
di Renzo.

Capitolo diciannove
Il capitolo si apre con il conte zio che, per accontentare il Conte Attilio, invita a pranzo dal padre
Provinciale per convincerlo ad allontanare Fra Cristoforo da Pescarenico. Dopo aver mangiato i
due si ritirano in una stanza privata dove il conte svela le sue vere intenzioni che, inizialmente,
non trovano il fate d’accordo. Egli è però costretto a cedere e, in cambio di una futura
dimostrazione d’amicizia non meglio precisata, decide di trasferire Cristoforo a Rimini come
visto nel capitolo precedente. Il padre, seppure a malincuore, è costretto a partire. Manzoni
torna allora a concentrarsi sui piani di Don Rodrigo che ha deciso di chiedere aiuto ad un uomo
molto potente che da ora in avanti verrà chiamato con l’appellativo di Innominato. Di questo
personaggio si sa che era stato costretto, per via dei crimini commessi, ad abbandonare lo Stato
ma che, nonostante tutto, era comunque riuscito sia a mantenere molte amicizie nelle sfere più
influenti, che a rientrare stabilendosi in un castello distante solo sette miglia dal palazzotto.
Questo feudatario si era già più volte rivolto a Don Rodrigo promettendogli in cambio favori
futuri. Il capitolo si conclude col signorotto che, deciso a riscuotere il suo compenso, si dirige a
piedi al castello seguito dai bravi e dal Griso.

Capitolo venti
Il capitolo si apre con una descrizione del castello dell’Innominato, una vera e propria fortezza
dall’aria tetra e austera situata in cima ad un monte e da cui è possibile sorvegliare ogni via
d’accesso. Proprio alle pendici del monte vie è la locanda della Malanotte da cui Don Rodrigo,
dopo aver lasciato le armi e abbandonato la sua scorta, parte alla volta del castello portando
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con sé solo il Griso. Manzoni passa quindi a descrivere l’Innominato: un uomo bruno con pochi
capelli bianchi e con un volto che, nonostante le rughe, sprigiona una forza persino superiore a
quella di un ragazzo. Dopo aver ascoltato la richiesta di Don Rodrigo egli accetta e decide di
coinvolgere nei suoi piani un suo amico, Egidio, che abita nei pressi del convento di Monza e che
il lettore ha già incontrato nel capitolo dieci. La determinazione dell’Innominato, però, viene
meno poco dopo quando, rimasto solo, l’uomo scopre dentro di sé non un vero e proprio
pentimento, ma una certa uggia legata al senso di inquietudine che da un po’ di tempo a quella
parte lo aveva colto. Il pensiero della morte, infatti, in quei giorni si era spesso accompagnato a
quello delle sue malefatte di cui temeva di dover rendere conto a un Dio che, se da una parte
non riconosceva, dall’altra non si sentiva di negare. Ciononostante manda a chiamare il Nibbio,
il più fidato dei suoi bravi, allo scopo di inviarlo presso Egidio che, grazie al potere conferitogli
dall’uccisione della novizia che aveva scoperto la sua relazione con Gertrude, riesce a
convincere la Monaca di Monza a collaborare. Così il piano prende vita e Lucia, come stabilito,
viene mandata dalla sua soccorritrice a chiamare il padre guardiano. La giovane, impaurita dalla
strada deserta, ubbidisce e lungo il tragitto viene avvicinata da due uomini che, fingendo di
domandarle la strada per Monza, riescono a rapirla. L’angoscia e il terrore sono tali da far
perdere i sensi alla ragazza che, una volta rinvenuta, trova un po’ di conforto nella preghiera.
Nel frattempo l’Innominato, ancora inquieto, è in attesa della carrozza e, appena la vede
arrivare, manda una vecchia portantina a prendere Lucia affinché la consoli e la conduca al
castello

Capitolo ventuno
La vecchia arriva alla Malanotte e, eseguendo gli ordini, prende in consegna Lucia per portarla al
castello dove si reca anche il Nibbio per far rapporto all’Innominato. Durante il colloquio il
bravo ammette di aver provato compassione per la ragazza e riceve due ordini contrastanti: il
suo padrone prima gli intima di recarsi immediatamente da Don Rodrigo per chiedergli di venire
a prendere al più presto la giovane, poi, a causa di un “no” che l’Innominato sente crescere
dentro di sé e che gli impedisce di proseguire, viene spedito a dormire. Le parole del Nibbio
hanno infatti instaurato nell’Innominato un forte desiderio di conoscere Lucia. Il primo incontro
con la giovane avviene nella stanza della vecchia, dove ella si è rannicchiata sul pavimento.
Appena lo vede lo supplica di ricondurla dalla madre e, nel suo discorso, gli parla del perdono
divino, una grazia che, in seguito ad un pentimento e ad un’opera di misericordia, lui è ancora in
tempo per ottenere. L’uomo cerca allora di consolarla e di infonderle coraggio, poi, prima di
andarsene, le promette che tornerà il giorno dopo. Rimasta sola Lucia riceve la visita di una
donna che le porta il paniere del cibo ma si rifiuta sia di mangiare che di sdraiarsi rimanendo
rannicchiata a terra tra il sonno e la veglia. Il suo animo è così prostrato dalle preoccupazioni e
dalle paure che riesce a trovare pace e ad addormentarsi solo dopo aver fatto voto alla Madonna
di rinunciare a Renzo in cambio della salvezza. Anche la notte dell’Innominato è tormentata dai
dubbi e dai pensieri perché il ricordo dei propri peccati riempie il signore di rabbia e di
disperazione. La sua frustrazione è tale da spingerlo ad accarezzare il pensiero del suicidio, atto
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estremo che decide di non compiere pensando a Dio e ad una vita futura. Solo le parole di Lucia
gli danno conforto e speranza. La narrazione si conclude con un cambio di registro: è l’alba e le
campane suonano a festa. Uno dei bravi viene mandato a informarsi sul motivo di tanto giubilo
inaspettato

Capitolo ventidue
Il bravo torna al castello annunciando che il paese è in festa perché la sera prima è giunto in
visita il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. L’Innominato decide allora di fargli
visita nella speranza di trovare anche lui un po’ di conforto. Prima di uscire vorrebbe parlare con
Lucia ma, trovandola addormentata, si limita a rimproverare la vecchia per le condizione della
fanciulla e a lasciarle detto che al suo ritorno farà tutto ciò che desidera lei. Solo e senza alcuna
scorta si reca allora a casa del curato dove è ospite il cardinale di cui Manzoni riassume la
biografia in un flashback. Federigo Borromeo era nato nel 1564 ed era una di quelle persone che
per tutta la vita tendono sempre verso il meglio. Proprio per questo si era dedicato
all’insegnamento della religione e aveva cercato di fare sì che la sua esistenza fosse utile e santa
prendendo i voti e accudendo, con umiltà, gli infermi e i derelitti. Non 1959 era poi stato
nominato arcivescovo di Milano da Papa Clemente VII, incarico dapprima rifiutato e poi
accettato per mera obbedienza, senza mai cedere alle lusinghe dell’ambizione. Infatti egli aveva
addirittura disposto che il proprio mantenimento e quello della servitù fossero a carico suo, in
modo che le rendite ecclesiastiche potessero essere destinate ai poveri. Non a caso riteneva
l’elemosina un dovere e andava d’accordo con tutti, anche grazie ai suoi modi soavi e pacati, in
particolar modo con gli umili. Non solo: egli aveva anche fondato al biblioteca Ambrosiana e
altre fondazioni culturali. Egli era infatti anche molto dotto, al punto che aveva scritto circa
seicento opere di vario argomento purtroppo andate perdute per ragioni sconosciute ai più
circa le quali Manzoni si interroga nella conclusione del capitolo.

Capitolo ventitré
Il bravo torna al castello annunciando che il paese è in festa perché la sera prima è giunto in
visita il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. L’Innominato decide allora di fargli
visita nella speranza di trovare anche lui un po’ di conforto. Prima di uscire vorrebbe parlare con
Lucia ma, trovandola addormentata, si limita a rimproverare la vecchia per le condizione della
fanciulla e a lasciarle detto che al suo ritorno farà tutto ciò che desidera lei. Solo e senza alcuna
scorta si reca allora a casa del curato dove è ospite il cardinale di cui Manzoni riassume la
biografia in un flashback. Federigo Borromeo era nato nel 1564 ed era una di quelle persone che
per tutta la vita tendono sempre verso il meglio. Proprio per questo si era dedicato
all’insegnamento della religione e aveva cercato di fare sì che la sua esistenza fosse utile e santa
prendendo i voti e accudendo, con umiltà, gli infermi e i derelitti. Non 1959 era poi stato
nominato arcivescovo di Milano da Papa Clemente VII, incarico dapprima rifiutato e poi
accettato per mera obbedienza, senza mai cedere alle lusinghe dell’ambizione. Infatti egli aveva
addirittura disposto che il proprio mantenimento e quello della servitù fossero a carico suo, in
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modo che le rendite ecclesiastiche potessero essere destinate ai poveri. Non a caso riteneva
l’elemosina un dovere e andava d’accordo con tutti, anche grazie ai suoi modi soavi e pacati, in
particolar modo con gli umili. Non solo: egli aveva anche fondato al biblioteca Ambrosiana e
altre fondazioni culturali. Egli era infatti anche molto dotto, al punto che aveva scritto circa
seicento opere di vario argomento purtroppo andate perdute per ragioni sconosciute ai più
circa le quali Manzoni si interroga nella conclusione del capitoloLa scena si apre con il cardinale
Federigo che, intento nello studio come al suo solito durante il tempo libero, interrompe la sua
attività per accogliere con gioia l’Innominato. Quest’ultimo ha l’animo diviso a metà: da una
parte il desiderio di trovare conforto, dall’altra la vergogna per i propri peccati. Poi, i modi del
cardinale riescono toccarlo al punto da spingerlo non solo a scoppiare in lacrime, ma anche a
confessare il torto fatto alla povera Lucia in seguito ad un abbraccio ricevuto. Borromeo ordina
allora che vengano mandati una donna e Don Abbondio, giunto in paese con altri parroci con lo
scopo di omaggiarlo, a prendere la fanciulla e, infine, decide di mandare a chiamare anche
Agnese. Don Abbondio vorrebbe assumersi personalmente l’incarico onde evitare di viaggiare
accanto all’Innominato, personaggio da lui molto temuto, ma viene costretto ad andare da
Lucia e ha modo di constatare con i suoi occhi la spontanea confidenza che c’è tra i due uomini
di cui sta eseguendo gli ordini. Così Don Abbondio, la donna da lui chiamata e l’innominato si
mettono in viaggio dando vita ad un silenzioso corteo che in paese, dove la voce della
conversione si è già sparsa, viene salutato con gioia. Questo però non calma affatto il curato
che, tra sé e sé, se la prende con i birboni (Don Rodrigo e l’Innominato stesso) ma anche con i
santi (il cardinale). Giunti a destinazione i tre vengono salutati dai bravi che si inchinano al loro
passaggio.

Capitolo ventiquattro
Al suo risveglio Lucia trova nella sua stanza Don Abbondio e la donna pronti a rassicurarla. Infine
anche l’Innominato fa la sua comparsa e le chiede perdono risvegliando in lei un sentimento di
pietà misto a riconoscenza e speranza. I quattro ripartono quindi alla volta del paese. Don
Abbondio è costretto a viaggiare sulla mula e i suoi pensieri durante il tragitto confermano
l’indole che Manzoni ha più volte mostrato: egli teme una rivalsa dei bravi e di Don Rodrigo, si
lamenta della scomodità del viaggio e pensa a quale spiegazione potrà dare al cardinale per
tutto l’accaduto. Fortunatamente per lui, però, all’arrivo del gruppetto le funzioni sono ancora
in corso e questo gli dà la possibilità di tornare alla sua parrocchia sottraendosi al confronto.
Lucia viene invece ospitata dalla donna, che è la moglie del sarto, e pranza con la sua famiglia.
Intanto Agnese lungo la strada incontra il prelato fuggiasco che le raccomanda di non far parola
del matrimonio da lui non celebrato. Finalmente madre e figlia riescono poi a riabbracciarsi ma
quest’ultima tace il voto fatto alla Vergine Maria. Dopo aver pranzato con l’Innominato il
cardinale raggiunge le due donne e apprende da Agnese tutta la vicenda, rifiuto di Don
Abbondio compreso. Nel frattempo l’Innominato, giunto a palazzo, comunica ai bravi la sua
conversione invitando chi vuole a restare comunque al suo fianco. Rimasto solo prega, come
Sara Krsteva 01.06.2022

non faceva da quando era solo un bambino, e poi si abbandona serenamente tra le braccia di
Morfeo.

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