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CAPITOLI 31-36 LA PESTE

Siamo nell’ottobre del 1929 e l’esercito dei lanzichenecchi si è appena ritirato lasciando dietro di
sé il flagello della peste che miete le sue prime vittime a Lecco e a Bellano. A Milano, però, in molti
sono convinti che le morti siano ancora dovute alla carestia e non al contagio. La smentita arriva
in fretta. Il primo a portare la malattia in città è un soldato italiano dell’esercito spagnolo
fermatosi per fare visita ai parenti. Dopo la sua morte tutti gli abitanti della casa, per ordine del
Tribunale della Sanità, vengono condotti al lazzaretto dove le persone iniziano ad ammalarsi e a
morire. La peste inizia così a propagarsi lentamente ma, ciò nonostante, in molti durante i primi
mesi del 1930 non credono che la malattia abbia iniziato a diffondersi. Gli ammalati vengono
portati al lazzaretto dove i frati di cappuccini si occupano di loro e finiscono con l’essere contagiati.
Tra questi vi è anche padre Felice Casati. Nessuno vuole arrendersi all’evidenza e, così, strane voci
iniziano a circolare sulle cause della malattia. Alcuni arrivano persino a credere che gli untori
imbrattino le case e i luoghi pubblici spinti da motivazioni criminali o da fini politici. Per fare sì che
il popolo si renda conto della situazione, allora, il Tribunale della Sanità decide di far portare in
giro, durante una delle feste della Pentecoste, un carro con sopra i corpi nudi di un’intera famiglia
sterminata. //
Mercoledì 22 maggio 1630 le autorità chiedono aiuto al governatore che, però, dicendosi già
impegnato con la guerra, delega ogni responsabilità a Ferrer. Anche quest’ultimo non interviene e
si limita a interpellare il Cardinale affinché organizzi una processione per vie della città portando
tra la gente il corpo di San Carlo. L’uomo dapprima ha paura del contagio ma poi accetta. La
processione favorisce il diffondersi della malattia che raggiunge il picco durante il mese di luglio.
Tutti coloro che riescono a guarire, e che quindi sono immuni, vengono impiegati nella raccolta dei
cadaveri e dei malati: sono gli apparitori e i monatti, uomini che ben presto inizieranno a rubare e
comportarsi in modo violento. Molti ecclesiastici che si dedicano all’assistenza dei malati
muoiono. Il Cardinale Federigo, nonostante si rechi periodicamente in visita al lazzaretto, non
viene contagiato. Intanto untori, monatti e apparitori seminano il panico in città al punto che
anche il medico Tadino, tra i primi a diagnosticare la malattia, e il Cardinale Federigo stesso
finiscono col dare credito alle credenze popolari secondo cui gli untori agiscono di proposito. È
questo infatti il periodo in cui si giunge addirittura ad intentare processi contro questi ultimi. //
Siamo alla fine dell’agosto del 1630 e Don Rodrigo, che non è più tornato da Milano, inizia ad
avvertire una strana sensazione di caldo e di fiacchezza. Dopo aver passato la notte tormentato
dagli incubi scopre, al mattino, di aver contratto la peste e manda a chiamare il dottore. Il Griso,
invece, avverte i monatti e, dopo aver svuotato la casa di tutto quello che poteva portare con sé,
lo abbandona portandosi via il suo bottino.  Il morbo però non risparmia nessuno e il bravo
muore il giorno dopo sul carro che lo sta trasportando al lazzaretto. La peste contagia anche
Renzo che sopravvive grazie alla sua tempra e, ormai non più ricercato, torna a lavorare insieme a
suo cugino Bortolo. La malattia fa sorgere in lui una forte nostalgia di Lucia e, così, decide di
partire per Milano. Lungo la via, si ferma al suo paese dove incontra Tonio, reso idiota dalla peste,
e Don Abbondio, anche lui provato dalla malattia.  Proprio dal curato ottiene le informazioni che
desidera: Lucia è a Milano, Agnese dai suoi parenti a Pasturo, Fra Cristoforo, invece, dopo essere
stato allontanato non è più tornato.  Il parroco, preoccupato dalla presenza del giovane, cerca poi
di convincerlo a ripartire elencandogli i nomi delle vittime della peste tra cui c’è anche Perpetua. Il
ragazzo decide comunque di trattenersi. Trovata la sua casa invasa dai topi e la sua vigna coperta
da erbacce, si fa ospitare per la notte da un suo amico che gli rivela sia della fuga di Don Rodrigo a
Milano, che il casato di Don Ferrante. Il mattino seguente Renzo si mette in cammino e dopo un
solo giorno arriva a Milano, tra Porta Orientale e Porta Nuova. //
Nonostante non abbia il permesso necessario, Renzo riesce ad entrare a Milano e si dirige verso
il Naviglio dove cerca di ottenere informazioni da un passante che, credendolo un untore,
preferisce ignorarlo. Lungo il cammino il giovane si imbatte in diverse scene dense di pathos. In
una casa vi è una donna con i suoi bambini che è stata chiusa dentro da coloro che la credevano
un’untrice. Renzo le regala due pani acquistati lungo il cammino e la segnala ad un prete da cui
riesce anche ad ottenere le indicazioni per recarsi da Don Ferrante. Dolore, morte e abbandono
sono ovunque. In piazza Duomo un convoglio di carri trasporta cadaveri e dappertutto trionfa
l’abbandono. Il cuore del ragazzo rimane particolarmente colpito da una scena: una madre
consegna davanti ai suoi occhi la figlia ai monatti, una bimba di nove anni vestita con l’abito della
festa. La donna, una volta rientrata in casa, prende in braccio la figlia minore, anch’essa malata.
Giunto finalmente a destinazione Renzo apprende da Don Ferrante che Lucia si è ammalata ed è
stata portata al lazzaretto. Nel frattempo, però, una vecchia lo scambia per un untore e lo
costringe a fuggire su un carro di monatti diretto proprio al lazzaretto la cui entrata è
letteralmente invasa dagli ammalati. Il lazzaretto ospita ben sedicimila appestati. In mezzo a
questa folla Renzo inizia a cercare Lucia ma si accorge di essere nel reparto degli uomini. Intanto
cala la nebbia e, in lontananza, si ode il rumore di alcuni tuoni che preannunciano un temporale.
Giunto ad un assito scheggiato, dove sono ricoverati piccoli allattati da balie o da capre, il giovane
scorge Fra Cristoforo con in mano una scodella che si avvia verso la capanna. Qui Manzoni con un
flash back ci racconta cosa gli è accaduto durante tutti quei mesi. Il frate dopo l’arrivo della peste
ha infatti chiesto di essere trasferito a Milano per poter assistere gli ammalati e la sua domanda è
stata accolta sia per via della morte del conte zio, sia perché, data la situazione, c’era più bisogno
di infermieri che di politici. Il portamento del frate è stentato e il suo volto appare provato, eppure
nei suoi occhi la scintilla di un tempo non si è spenta: la carità vi accende un fuoco più potente di
quello che l’infermità sta tentando di spegnere. Cristoforo accoglie Renzo con gioia, lo nutre e,
dopo aver ascoltato la sua storia, gli indica il reparto delle donne consigliandogli di recarsi prima
alla cappella al centro dell’edificio, dove Padre Felice sta per radunare tutti coloro che sono guariti
per farli uscire in processione. Il giovane viene allora colto da un attacco d’ira al pensiero che
Lucia non sia tra i sopravvissuti e promette che, in caso, si vendicherà su Don Rodrigo. Lo scatto
gli frutta un rimprovero da parte del frate che lo invita a riflettere sul dolore che li circonda e, poi,
lo conduce in una capanna dove giace Don Rodrigo, reso irriconoscibile dalla peste. Dopo aver
pregato per lui i due si separano.
Nella cappella, dove Padre Felice sta esortando i sopravvissuti a ringraziare il Signore e a fare
buon uso della vita avuta salva, Renzo non trova Lucia e, quindi, si incammina verso il reparto
delle donne. Qui sente la voce dell’amata provenire da una capanna e, una volta entrato, vede la
giovane china su una vedova divenuta sua amica. Dopo il tanto sospirato incontro, il ragazzo
vorrebbe che le cose tornassero come erano in precedenza ma Lucia vuole rimanere fedele al voto
fatto. Renzo torna allora da Padre Cristoforo e, dopo avergli raccontato tutto, lo conduce da Lucia.
Sarà lui a spiegarle che non si può offrire in voto la volontà di un altro e a scioglierla dalla
promessa fatta. Il frate allora, dopo aver consegnato il pane del perdono come pegno a Lucia, si
congeda da lei e, accompagnato da Renzo, si allontana. I due uomini dopo poco prendono
direzioni diverse.
IL CARD. BORROMEO
Federigo Borromeo è uno dei personaggi storici di maggior rilevanza all’interno del romanzo.
Il Cardinale viene presentato come un modello da seguire, al contrario di don Abbondio che non
rappresenta un buon esempio. Federigo fin da piccolo ha cercato di trovare il modo di rendere
utile la sua vita. Nel 1580 è entrato in collegio ed ha cercato di soddisfare tutti i suoi doveri nel
modo migliore possibile. Ha inoltre insegnato la dottrina religiosa ai “rozzi” del paese ed ha
soccorso gli infermi. Ha intrapreso la carriera religiosa, seguendo la sua vocazione, perché voleva
fare del bene e ad aiutare le persone in difficoltà. Quando l’Innominato si reca dal Cardinale per
confessarsi, questi lo accoglie con benevolenza e lo aiuta nella sua conversione come avrebbe
fatto con ogni altra persona che avesse chiesto il suo aiuto. Discende da una nobile famiglia, non
ha mai badato ai privilegi che dava la chiesa, ha sempre vestito umilmente, non ha mai voluto
avere privilegi ed ha caricato il suo mantenimento e quello dei suoi servi sulle proprie entrate. Il
cardinale è sempre disposto ad aiutare chiunque ne abbia bisogno, che sia un ex criminale o un
poveretto. Manzoni lo paragona ad "un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza
ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel
fiume”.
L’INNOMINATO
L`Innominato è una delle figure più complesse di tutto il romanzo. Pur essendo una persona
realmente esistita, riceve da Manzoni una ulteriore elaborazione. Manzoni non lo presenta come
malvagio, obietto e ripugnante perché l'Innominato serba, pur nella sua posizione di ribelle,
qualcosa di regale, essendo sempre stato fedele a se stesso e avendo sempre difeso con coraggio
estremo anche cause ingiuste. Per questo l'Innominato è grande anche nel male, superiore alla
bassa malvagità di Don Rodrigo. Ha un animo negato a ogni compromesso, incapace di vie di
mezzo e per questo la crisi interiore che avrà lo porterà a una profonda rivoluzione spirituale.
Quando Manzoni lo presenta, la sua crisi è già iniziata e si manifesta con sentimenti di disgusto e
di fastidio per una vita di violenze e di complotti, passati inesorabilmente in solitudine. "L'uggia
delle sue scelleratezze" si faranno a poco a poco coscienza, prima quando vede Lucia nella
carrozza e si rende conto di non poterla consegnare a Don Rodrigo e poi nella famosa notte
durante la quale il rimorso del suo violento passato gli giunge in una dimensione insopportabile.
Egli vorrebbe redimere questo passato sanguinoso ma si sente impotente poiché, anche se
liberasse Lucia, si limiterebbe soltanto a dare giustizia all'ultimo di una lunga catena di delitti. Di
fronte al Dio misericordioso, l'uomo potentissimo abituato a imprese rischiose e a delitti
sanguinosi, si sente finalmente sollevato poiché intravede finalmente la possibilità di salvezza.
Dopo questa conversione lo spirito dell'Innominato rimane intatto, perché non è il suo
temperamento a subire una trasformazione, ma la sua coscienza: dal male passa al bene
ricominciando una nuova vita.

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