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“I PROMESSI SPOSI” - MANZONI

Nella «Introduzione», il Manzoni immagina di aver scoperto, in un vecchio


manoscritto anonimo del XVII secolo (quando la Lombardia era sottoposta alla
dominazione spagnola) la storia di due giovani operai innamorati, impediti nel loro
matrimonio dalla prepotenza di un signorotto del tempo. E trascrive il primo passo del
manoscritto, dove l'anonimo autore, nello stile gonfio e ampolloso caratteristico di quel
secolo, esprime tuttavia un proposito nuovo e originale: quello di narrare, sullo sfondo
della grande storia, una semplice storia di gente umile. In questo modo il Manzoni,
nascondendosi dietro l'anonimo autore, afferma la sua adesione al principio romantico (e
rivoluzionario) di rivolgere l'interesse dell'artista verso le classi popolari, a rinnovamento
della letteratura, intesa molto spesso, fino a quel tempo, come specchio delle classi
privilegiate per lettori privilegiati. Trascritto così il primo passo dell'immaginario
manoscritto, il Manzoni ci dice di aver rinunciato ben presto alla fatica di interpretarne le
stranezze stilistiche e l'illeggibile calligrafia e di aver preferito riscriverlo interamente a
modo suo, in un linguaggio nuovo che troverà, nelle pagine stesse dell'opera, la sua
giustificazione.

Capitolo I. È descritto ampiamente il territorio montuoso di Lecco, a ridosso di «quel


ramo del lago di Como», che da Lecco appunto prende nome. L'azione incomincia con
una data precisa, la sera del 7 novembre 1628, quando, in una delle stradicciole sulla
costiera, un parroco di campagna, don Abbondio, incontra due «bravi» (due gorilla, due
killer, diremmo oggi) di un signorotto del tempo, don Rodrigo, che in nome del loro
padrone gli ingiungono di non celebrare il matrimonio, già fissato per il giorno dopo, tra i
due giovani operai Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Il parroco, spaventato, promette
obbedienza. Giunto alla canonica, pressato dalla serva Perpetua, rivela le ragioni del suo
turbamento e va a letto più morto che vivo.

Capitolo II. Al mattino successivo, quando Renzo si reca alla chiesa, apprende che per
alcune formalità il matrimonio deve rinviarsi. Poco convinto, sul punto di allontanarsi,
incontra Perpetua che non può fare a meno di fargli intendere che le ragioni sono ben
altre. Nuovo colloquio tempestoso con don Abbondio, costretto da Renzo a rivelare che
l'impedimento è don Rodrigo, il signorotto del paese. Renzo, disperato, corre alla casa di
Lucia.

Capitolo III. Lucia è in casa con la madre Agnese e le amiche, in attesa dello sposo. A
Renzo, che sopraggiunge ansioso e pretende spiegazioni, essa confessa di essere stata
fermata per strada, di ritorno dal lavoro nella filanda, da don Rodrigo che le ha rivolto
parole poco belle. Aggiunge di aver rivelato la cosa a padre Cristoforo, il suo confessore
e di essere stata consigliata da lui a tacere e affrettare le nozze. Renzo, indignato,
vorrebbe compiere spropositi; ma Agnese lo spinge piuttosto ad andare a Lecco da un
avvocato, il dottor Azzeccagarbugli. Renzo vi si reca, ma l'avvocato, quando apprende
che c'è di mezzo don Rodrigo, lo butta fuori di casa.

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Capitolo IV. Padre Cristoforo, avvertito da Lucia, esce dal suo convento di Pescarenico
e si reca alla casa delle due donne. Il capitolo è in gran parte occupato dalla narrazione
della giovinezza del frate: figlio di un facoltoso mercante, aveva ricevuto una raffinata
educazione. Venuto un giorno a diverbio con un nobile, l'aveva ucciso in duello; quindi,
per espiazione, s'era fatto frate, mutando il nome di Lodovico in quello di Cristoforo.

Capitolo V. Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da
don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del
signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il
padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti
del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si
brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili
questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.

Capitolo VI. Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa
il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio. Don Rodrigo scaccia il
frate che prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che
sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia,
Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don
Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi.
Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante;
Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di
pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.

Capitolo VII. Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua
missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si
vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con
l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire
Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni
s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.

Capitolo VIII. È il capitolo della «notte degli imbrogli», che comincia col fallimento del
tentativo di matrimonio «a sorpresa»; don Abbondio, con furia inusitata, si libera degli
intrusi e dà l'allarme: il campanaro Ambrogio, credendo la canonica invasa dai ladri,
suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna,
altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno
trovato vuota la sua casa. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo,
avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di
correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo
lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i
fuggitivi di recarsi al convento.

Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a
capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove
trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle
minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di
lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in
piena notte attraversano il lago.
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Capitolo IX. A Monza, mentre Renzo prosegue per Milano, Lucia e Agnese vengono
ospitate nel convento di una «Signora» (la monaca di Monza). di cui l'Autore ci narra la
storia. Il suo nome è Gertrude; figlia di un principe milanese, è stata monacata dai suoi
con crudele determinazione, nonostante il suo temperamento lontano da ogni vocazione
religiosa.

Capitolo X. Continua l'affascinante storia di Gertrude: costretta al convento, essa ha


segretamente allacciato una relazione amorosa con un giovane, Egidio, «scellerato di
professione», che abita nella casa confinante col giardino interno del monastero. La
relazione dura già da tempo e circa un anno prima ha avuto un momento drammatico,
quando Gertrude. con l'aiuto dell'amante, ha fatto scomparire una conversa, che aveva
scoperto la loro tresca.

Capitolo XI. Al paese intanto i bravi, fallita la missione, hanno riferito a don Rodrigo la
fuga delle due donne. Il cugino di lui, il conte Attilio, fiutando nello smacco la mano di
padre Cristoforo, promette di fargli avere una lezione dai suoi superiori. Il Griso, a sua
volta, scopre che Lucia è a Monza e che Renzo è stato indirizzato a Milano, dove lo
troviamo infatti alla ricerca del convento cui l'ha inviato padre Cristoforo.

Capitolo XII. La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di
una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di
San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica
inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così
nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».

Capitolo XIII. Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione,


cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo
palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.

Capitolo XIV. Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente,
fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in
borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del
tutto ubriaco, Renzo va a dormire.

Capitolo XV. Al mattino è svegliato dalle guardie che tentano di condurlo al palazzo di
giustizia con la pesante accusa di sedizione pubblica. Ma per strada la folla minacciosa
circonda gli sbirri e Renzo può così sfuggire dalle loro mani.

Capitolo XVI. Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo,


dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A
Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno
la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e
capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il
rischio gravissimo che ha corso.

Capitolo XVII. Giunge in piena notte all'Adda, allora confine tra gli Stati di Milano e di
Venezia. All'alba, un barcaiolo lo porta di là dal fiume, in salvo. A Bergamo, il cugino gli
promette lavoro.

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Capitolo XVIII. Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo
apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia,
pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza.

Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove
apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.

Capitolo XIX. Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a
convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei
cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo
agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia,
l'Innominato.

Capitolo XX. Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi
bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude,
sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati
dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.

Capitolo XXI. Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote
l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano.
Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà
liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma
all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il
capitolo della giustamente famosa «conversione dell'Innominato».

Capitolo XXII. Viene riferito al signore che il cardinale Federigo Borromeo è in visita
pastorale. L'Innominato decide di andare da lui. Gran parte del capitolo è occupata in
una biografia del grande cardinale milanese.

Capitolo XXIII. Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il


cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli
altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza.
Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.

Capitolo XXIV. Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un


buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le
loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo
servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.

Capitolo XXV. Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima
d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al
quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna
Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché
non abbia celebrato le nozze dei due giovani.

Capitolo XXVI. Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi,
anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di
cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto

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fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di
pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione
con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato
filanda.

Capitolo XXVII. "È Renzo che riesce a mettersi in comunicazione con Agnese, dalla
quale riceve il denaro e la notizia della rinuncia di Lucia. Egli è sorpreso e amareggiato
dalla rivelazione e Lucia, a sua volta, stenta a dimenticarlo, anche perché donna
Prassede, per toglierglielo dalla mente, non fa che parlare di lui.

Capitolo XXVIII. A Milano, superata apparentemente la carestia, giunge la notizia di un


nuovo flagello: la calata dei lanzichenecchi, truppe tedesche venute a dar mano
all'assedio di Casale Monferrato.

Capitolo XXIX. Nel paese di Lucia, per sfuggire ai saccheggi, don Abbondio, Perpetua e
Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta,
la gente della zona.

Capitolo XXX. Accolti amorevolmente dal signore, i tre attendono il passaggio dei
lanzichenecchi; quindi ritornano alle loro case, che trovano orribilmente saccheggiate
dalle orde dei soldati.

Capitoli XXXI e XXXII. Il passaggio delle milizie straniere ha lasciato la peste che
comincia a imperversare a Milano e nel contado. In città la confusione è grande. Il
cardinale ordina una processione espiatoria che non fa che accrescere il contagio.
Dovunque si parla di untori, cioè di agenti del nemico incaricati di spargere la peste
ungendo le porte e i muri delle case. Si istituiscono anche «infami» processi contro
innocenti, accusati dall'isterismo popolare.

Capitolo XXXIII. Tra i colpiti dalla peste è don Rodrigo, tradito dal Griso e consegnato
ai monatti, i raccoglitori dei morti e dei contagiati. Renzo, che ha superato la malattia,
ora che nessuno si cura più di lui, si mette in cerca di Lucia, e si reca al paese, dove
trova la desolazione; da don Abbondio apprende che Perpetua è morta insieme con molti
altri, che Agnese è presso parenti a Pasturo e che Lucia è a Milano, presso la famiglia di
don Ferrante.

Capitolo XXXIV. Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del
morbo e della desolazione. Assiste all'episodio patetico della madre di Cecilia, la bambina
morta di peste. Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al
lazzaretto, l'ospedale degli appestati.

Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita,


saltando su di un carro di monatti.

Capitolo XXXV. Nel lazzaretto, trova padre Cristoforo, tornato da Rimini a curare gli
appestati, che gli mostra don Rodrigo morente. Superati i propositi vendicativi, lo
perdona.

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Capitolo XXXVI. Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la
riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che
scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha
presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della
figliola.

Capitolo XXXVII. Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che
porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è
di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a
ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro
la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.

Capitolo XXXVIII. Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare
i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora
occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di
Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare
Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove
la famiglia e gli affari prosperano.

Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata
a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso
perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli
lontani...».

LA TEMATICA DEL ROMANZO

La storia

Nell'« Introduzione » ai Promessi sposi, Manzoni definisce la storia « una guerra


illustre contro il tempo »: la storia, cioè, richiama in vita il passato. E se gli storici si
limitano a narrare le gesta dei grandi personaggi, Manzoni, invece, ritiene che
soprattutto le vicende della gente umile, di chi soffre e patisce i soprusi dei potenti,
siano degne di essere ricordate e descritte. Proprio per questo Manzoni scrive un
romanzo storico, ambienta cioè le avventure di Renzo e Lucia nel secolo XVII, durante la
dominazione spagnola in Italia. A fianco dei personaggi nati dalla fantasia dell'autore si
muovono così personaggi storici veri e propri (il governatore di Milano don Gonzalo
Fernandez, il cancelliere Antonio Ferrer, il cardinal Federigo Borromeo) oppure
personaggi realmente esistiti a cui Manzoni si ispira per crearne dei nuovi (la monaca di
Monza, l'Innominato). Solo in questo modo la storia di Renzo e Lucia diventa vera. Non
si deve infatti dimenticare che per Manzoni, come egli stesso scrive in una sua lettera, «
l'essenza della poesia non consiste nell'inventar dei fatti», ma nel far uscire, proprio
dalla storia, i sentimenti e « le passioni che hanno tormentato gli uomini », cioè « ogni
segreto dell'anima umana».

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La Provvidenza

Renzo è riuscito a fuggire all'arresto del notaio criminale, ha raggiunto l'Adda, l'ha
attraversata ed è giunto finalmente nel territorio di San Marco, là dove il mandato di
cattura contro di lui non conta più. Può allora entrare in un'osteria «a ristorarsi lo
stomaco» e all'uscita incontra un gruppo di mendicanti, «tutti del color della morte »,
che chiedono la carità. Renzo non esita ad offrire a quei poveri i pochi soldi rimastigli e
Manzoni commenta: « Certo, dall'essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto
più di confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti.
Perché, se a sostenere in quel giorno quei poverini [...], la Provvidenza aveva tenuti in
serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo [...]; chi poteva credere che volesse poi
lasciare in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così
vivo di se stessa, così efficace, così risoluto? ». In questo passo Manzoni chiarisce il
tema, tanto importante nel romanzo, della Provvidenza: di quel preciso disegno divino
che regola lo svolgersi di tutte le vicende, della vita e della storia, rendendole utili per
l'avvenire, tanto più quando siano dolorose e difficili. I disegni della Provvidenza però
non sempre possono apparire chiari all'uomo. Allora, soltanto la fiducia in Dio «
raddolcisce » i guai che, « o per colpa o senza colpa », si incontrano nel cammino della
vita: e questa è proprio la morale, « il sugo di tutta la storia », come scrive Manzoni nel
finale del romanzo.

La carestia

Fra Cristoforo lascia il suo convento per recarsi a casa di Lucia. Il paesaggio è quello
di un lieto tramonto autunnale, ma gli uomini che popolano questo paesaggio rattristano
« lo sguardo e il pensiero»: appaiono «mendichi laceri e macilenti»; «lavoratori sparsi
ne' campi » che spingono « la vanga come a stento », « gettando le semente, rade, con
risparmio »; una « fanciulla scarna» che porta al pascolo «una vaccherella magra,
stecchita». Questo scenario è il preludio della carestia, un argomento della storia
milanese del secolo XVII, analizzato da Manzoni con cura e documentazione di studioso.
L'attenzione rivolta alla storia, come sempre accade, anche in questo caso non soffoca
l'interesse per l'uomo. La carità « ardente e versatile » del cardinal Federigo, che
distribuisce « ogni mattina duemila scodelle di minestra di riso », che spedisce « ai
luoghi più bisognosi della diocesi » viveri e soccorsi diventa infatti, nelle pagine tristi e
crudeli della carestia, un vivo esempio di carità cristiana, dell'amore dell'uomo per il suo
prossimo.

La religione

Esistono nei Promessi sposi tre figure di religiosi, don Abbondio, fra Cristoforo, il
cardinal Federigo, che esprimono tre diversi modi di vivere e operare religiosamente.
Don Abbondio, che «non era nato con un cuor di leone», non trova spazio nella società
del suo tempo e accetta di farsi prete per « scansar tutti i contrasti » di quel triste
momento storico. Il ministero sacerdotale diventa quindi per don Abbondio l'unico
sistema per assicurarsi un quieto vivere, in un mondo violento e corrotto: e il curato
infatti si fa prete per mettersi in salvo e in pace. Fra Cristoforo è invece l'immagine del
religioso che opera nel mondo, fino ad opporsi, anche con aggressività, ai mali della
società secentesca. È il predicatore che crede che la parola di Dio abbia creato il mondo:
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perciò le sue parole non restano soltanto parole, ma diventano azioni concrete (fra
Cristoforo affronta don Rodrigo, va a servire gli appestati, scioglie il voto di castità di
Lucia, per esempio). La figura del cardinal Federigo, infine, è quella che più si avvicina al
modo di intendere la religione da parte di Manzoni. A differenza di fra Cristoforo, il
cardinal Borromeo non solo opera nel mondo, ma lo scavalca con il suo esempio: sa
dunque opporre alla falsità del mondo un modello di verità che è proprio la verità della
parola di Dio.

La peste

Il XXXI e il XXXII capitolo dei Promessi sposi sono capitoli di pura trattazione storica,
in cui tutta l'attenzione di Manzoni sembra rivolta allo studio della peste a Milano del
1630. L'autore dimostra un'accurata conoscenza del fenomeno, documentata sui testi
più autorevoli di quel tempo. L'analisi storica offre tuttavia a Manzoni l'occasione per
indagare nel cuore degli uomini. Allora nelle sue pagine compaiono gli esempi di grande
carità cristiana (primo fra tutti quello del cardinal Federigo), di quanti, « nella furia del
contagio », visitano gli ammalati per dare il loro conforto e il loro aiuto. « Ma di fronte a
queste sublimazioni di virtù » non mancano anche gli esempi di « perversità » di coloro
« sui quali l'attrattiva della rapina » è più forte del timore della malattia. Questi uomini
entrano da padroni nelle case degli infermi, maltrattano, rubano e saccheggiano senza
pietà. Quello della peste diventa dunque un nuovo quadro dell'umanità, descritta da
Manzoni in tutti i suoi aspetti.

I PERSONAGGI

Renzo "era, fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione
di filatore di seta"; possedeva inoltre "un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli
stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi
agiato". "Era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni
insidia; ma, in que' momenti, si figurava di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro
una siepe, aspettando se mai, se mai don Rodrigo venisse a passar solo".

Anima semplice ed ottimista, Renzo conosce il male del mondo nei soprusi degli uomini
potenti, ma non è disposto a lasciarsi piegare da loro. Di fronte alle sopraffazioni e alle
violenze, il suo animo pacifico non pensa che alla vendetta e all'omicidio. Ma da questo
lo terranno sempre lontano la sua innata onestà ed il forte sentimento religioso.
Anch'egli, infatti, come Lucia, trova nella fede la guida della vita ed il conforto della
sventura. Renzo è un ingenuo che conosce poco del mondo e quindi facile ad esser preso
dagli avvenimenti esterni, ma nello stesso tempo è abbastanza accorto ed intelligente
per cavarsi d'impaccio o mettersi in salvo. Ma ciò che colpisce è la sua bontà e la sua
generosità. Egli, infatti, si commuove davanti ai poveri e dà loro quello che ha; si
commuove e prega di fronte alla madre di Cecilia e davanti a don Rodrigo agonizzante,
perdonandogli tutto il male ricevuto. Magistralmente Renzo è anche ritratto nel suo
amore per Lucia, a cui è legato da una fedeltà assoluta, da una dedizione totale. E
proprio nel dipingere quest'amore, il Manzoni raggiunge alcune delle espressioni più alte
della sua poesia. L'autore ama il suo Renzo, si immedesima in lui e ne fa una delle
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creazioni più grandi della nostra letteratura per il candore e la fede, per la semplicità e la
bontà, per il cuore giovanile e ardente.

"Lucia s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine,
facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi neri
sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso".

Oltre all'ornamento particolare del giorno delle nozze, "Lucia aveva quello quotidiano
d'una modesta bellezza, rilevato allora e accresciuto dalle varie affezioni che le si
dipingevano sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido
accoramento che si mostra di quando in quando sul volto della sposa, e, senza scompor
la bellezza, le dà un carattere particolare": Lucia è il personaggio più amato dal Manzoni,
quello per cui l'autore dice di sentire "un po' di affetto e di reverenza". Una creatura,
quindi, che il poeta ha voluto presentarci sotto una luce ideale, pur mantenendola nella
realtà dei sentimenti e degli atteggiamenti di una giovane contadina, semplice ed
intelligente, religiosa ed innamorata. Il lavoro, la preghiera ed il pianto sono gli
atteggiamenti più poetici di Lucia. Lavora nel suo paese, lavora nel monastero a Monza,
lavora nel palazzo di donna Prassede. Prega assiduamente ed intensamente, quando
ogni speranza terrena sembra crollare, ogni aiuto umano scomparire; la preghiera è il
porto sicuro, è la riconquista della calma e della fiducia. Piange, ed il pianto è la sua
arma, e le sue lacrime sono più eloquenti di ogni parola. C'è in Lucia anche un altro
motivo stupendamente umano e poetico: la lotta, o meglio l'accordo, fra il dovere
religioso ed il legittimo sentimento d'amore. Ella ama il suo promesso sposo con amore
intenso, vivissimo. Un amore che dopo il voto si rivela ancor più insopprimibile, quando
la volontà vorrebbe dimenticare ed il cuore corre alla persona amata.

"Don Abbondio non era nato con un cuore di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva
dovuto comprendere che la peggior condizione a que' tempi, era quella d'un animale
senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato". "...
non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto... d'essere, in quella
società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di
ferro".

Don Abbondio è senz'altro il personaggio più popolare dei Promessi Sposi. E' la figura
con cui il Manzoni ha dispiegato, nelle forme più varie, tutta la sua virtù comica, la sua
capacità ritrattistica, le sue doti fantastiche ed umane. Trovatosi a vivere in una società
retta da prepotenti, don Abbondio si è fatto prete senza riflettere sugli obblighi e sugli
scopi della missione sacerdotale, badando soltanto a procurarsi una vita agiata e
tranquilla. Ciò che governa la sua condotta è la paura, che, unita alla coscienza della
propria debolezza e ad un morboso attaccamento alla vita, lo rende egoista ed
irragionevole. Per la paura non vede più la luce della verità, non ode più la voce del
cuore e della mente, non segue la via del dovere. Uomo angusto, soggiogato dal terrore
e dal sospetto, vive schiavo delle minuzie della vita; privo di volontà, cede a tutti, dopo
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breve resistenza; incapace per natura a compiere il male, per viltà si fa complice e
strumento dei violenti. E' privo di cultura, è attaccato al denaro, è diffidente di tutti.....
Eppure, da questo spirito così meschino, il Manzoni ha ricavato il suo personaggio più
attraente. Il ritratto sapiente ed arguto è splendido di note fisiche e spirituali, di colori
etici e storici, sicchè, per mezzo di don Abbondio, non solo l'autore delinea con profonda
psicologia una figura eterna di uomo, ma penetra ad indagare gli aspetti più vari di
un'età perversa e violenta.

"Era Perpetua la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire
e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del
padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che divenivano di giorno in giorno più
frequenti. Aveva da tempo passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per
aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai
trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche".

Perpetua rappresenta un complemento indispensabile del più attraente dei personaggi


maggiori: don Abbondio. Perpetua, la governante, è davvero la protettrice del curato.
Quanto più egli rivela la sua nullità, tanto più pronta, decisa, sicura è lei. Ma la serva
non è solo il sostegno morale del suo padrone. Lo è anche artisticamente, perchè le
tonalità della figura di don Abbondio sono sempre sottolineate, accentuate dall'ombra
costante, dall'antitesi sicura di Perpetua: lui discute e lei agisce; lui non sa a che santo
rivolgersi e lei ha pronti i suoi pareri; lui è sempre disposto alla soggezione e lei, nel
buon senso di popolana, è ribelle, energica, sbrigativa.

"Agnese, co' i suoi difettucci, era una gran brava donna, e si sarebbe, come si dice,
buttata nel fuoco per quell'unica figlia, Lucia, in cui aveva riposta la sua compiacenza".
Al nome riverito del Padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. "Hai fatto bene",
disse, "ma perchè non raccontar tutto anche a tua madre?" Lucia aveva avute due
buone ragioni: l'una, di non contristare nè spaventare la buona donna...; l'altra, di non
mettere a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente
sepolta".

Agnese viene rappresentata dal Manzoni come un'esperta conoscitrice del mondo e del
genere umano. E' lei, infatti, che escogita alcune delle soluzioni più ingegnose, come
quella di mandare Renzo da Azzeccagarbugli, o di celebrare il matrimonio clandestino.
Accorta e giudiziosa, pronta e sicura, sa dare giuste risposte a tutti. Agnese è ben
lontana dai sentimenti delicati e dalla rettitudine della figlia, ed il Manzoni è attento ed
abilissimo nel creare giochi di contrasto fra la madre impulsiva e pratica e la figlia
delicata e piena di timor di Dio. Eppure sono quegli umani difetti che fanno Agnese
vicina a noi, attraente e simpatica: la sua incapacità di tacere, la superficialità di certe
valutazioni morali, l'impulsività nel risentimento e nella stizza, la vanità e la
testardaggine. E' un personaggio amabile proprio perchè ritratta dal Manzoni con i colori
più attraenti e simpatici nella sua spontaneità comaresca e popolana.

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"Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, don Rodrigo uscì, e andò
passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente
al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva".

Don Rodrigo è il tipo comune del signorotto prepotente e spregiudicato che, pur di
soddisfare puntigli e passioni, si considera padrone di far tutto ciò che vuole e giudica
tutti a sè sottoposti. Un tipo di uomo di ogni tempo, ma che in quel secolo, quando la
legge era incapace di proteggere l'oppresso e di colpire l'oppressore, circondato di bravi,
adulato e riverito da coloro che avrebbero dovuto essere i naturali esecutori della legge,
cinico e volgare, privo di ogni freno morale e religioso, poteva commettere le violenze
che voleva. Ha gli stessi difetti della gente del suo rango: l'orgoglio smisurato, l'ozio, la
mania dei banchetti, della caccia e delle passeggiate, il gusto delle avventure galanti,
preferibilmente nel proprio ambiente, ma con qualche escursione nell'ambiente plebeo,
per ammazzare la noia. Tuttavia il comportamento di don Rodrigo, se può trovare una
giustificazione storica, non merita nessuna scusa sul piano morale. Eppure, forse per i
buoni sentimenti che esistono naturalmente in ogni uomo e che, nel caso del signorotto,
erano sedimentati nel fondo della sua coscienza, quando è colpito a morte dalla peste, il
Manzoni lo fa ricoverare sotto le grandi ali del perdono di Dio, perdonato da Renzo e
assolto da chi era stato da lui chiamato "villano temerario, poltrone incappucciato".

"Il Padre Cristoforo era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo
capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava attorno, secondo il rito
cappuccino, s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un
non so che d'altero e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà".

Padre Cristoforo è la figura che personifica l'ideale cristiano della carità e del sacrificio.
Tutta la sua esistenza è dominata dall'amore, che lo fa sollecito verso gli umili,
ardimentoso di fronte ai violenti, vedendo, negli uni e negli altri, creature da avviare a
vita eterna dopo il breve cammino terreno. Per il trionfo della giustizia, Padre Cristoforo
non si limita a dare consigli, ma agisce continuamente. Per questo motivo è uno dei
personaggi più ricchi di vicende e di atteggiamenti. Dal duello alla conversione, dalla
protezione di Lucia all'affronto di don Rodrigo, dall'ubbidienza ai superiori alla missione
nel lazzaretto, fra Cristoforo è al centro del grande motivo della lotta fra il bene e il
male, e più di ogni altro agisce per avviarlo a soluzione. Il messaggio di perdono e di
amore del cristianesimo, accompagnato dalla fede nell'opera assidua della Provvidenza,
non poteva trovare banditore più eloquente, convincente ed efficace.

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