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CAPITOLO 1
Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa
dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui
nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del
personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando
le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in
quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli
sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla
cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di
anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che
sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e
l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi
indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme
ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due
pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da
sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni,
con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li
riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei
bravi.
Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583,
emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene
severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di
qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a
costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo
stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor
più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere
bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne
ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio
1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che
commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di
gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato
da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi
castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel
funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca
di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne
aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627,
quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di
anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi
di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia.
Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno
aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno
d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza
di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di
rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo
genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due
figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante.
Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di
celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi
hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario
comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né
l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco
convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e
minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato
eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don
Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il
bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il
segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie.
Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don
Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare,
mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili
trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio
prende la strada che conduce alla sua abitazione.
Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce
essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a
sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in
salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni,
ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non
senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così
alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi
con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo,
quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il
cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a
difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta
l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena,
benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e
rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su di
sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire
ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il
lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso
Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola
dell’accaduto.
Collegamenti:
Gainsemismo: deriva da Giansenio teologo olandese. sostiene che l’uomo
è portato naturalmente al male e che può essere salvato solo dalla Grazia
divina concesssa a pochi eletti.
Qualche figura retorica: litote cioè l’espressione di un concetto attraverso
la negazione del contrario; ad esempio don abbondio dice che non era nato
con un cuor da leone
Antonomasia: sostituzione di annone proprio con un epiteto o perifrasi che
lo caratterizza: l’Onnipotente-> Dio ma anche la stessa Perpetua.
Perpetua è un personaggio statico ma ci sono degli aspetti che rimandano a
un personaggio dinamico, in essa c’è la zitella pettegola ma ci sono anche
caratteristiche più complesse.
Doppio registro linguistico per confermare da una parte la verosimiglianza
storica ai fatti narrati e a denunciare il governo spagnolo.
Il colore storico è evidente nella rappresentazione dei rapporti di forza in
una società dominata dall’ingiustizia .
Un altro elemento storico è la descrizione accurata dei bravi, e infine la
storia si cala nei personaggi e questi si comportano secondo dinamiche
proprie dell’epoca in cui vivono aumenta il realismo storico.
In Don abbondio c’è la tendenza all’opportunismo e all’egoismo ,
affiancato da una concezione pessimistica, è complice del più forte; il
narratore lo osserva con ironia che rivela la sua coane morale.
Perpetua: vivacità realistica e popolaresca linguaggio immediato e diretto
riferimento a Carlo Maggi nella commedia, ella è l’opposto di don
abbondio che ne fa risaltare la sua piccolezza, secondo altri è la sua spalla
dotata di senso pratico e mette in risalto le confusione di Don Abbondio.
CAPITOLO 2
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi
trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una
piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in
cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune
possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di
dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine
decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto,
confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui
non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato
un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è
innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle,
pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno,
anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo,
da fughe e inseguimenti.
Renzo si reca da don Abbondio
Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi
circa l'ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane
di vent'anni, rimasto orfano dall'adolescenza, che ora esercita la
professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato,
Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla
scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di
lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non
è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire
discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con
giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato vestito
di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il manico del
pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un'aria un
po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il
curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che insospettisce subito
Renzo.
Il curato convince Renzo a rimandare le nozze
Renzo e don Abbondio (ediz. 1840)
Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in
chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa
parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non
può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti
burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che
avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta
ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le
pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le
idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il
giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato
ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo
a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è
alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una
settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio
e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in
parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). Alla
fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una settimana e non
un giorno di più per sposarsi con Lucia.
Renzo parla con Perpetua
F. Gonin, Renzo e Perpetua
Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al
colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le
ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta
quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua
che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le si
avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del
comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del
curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa
sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si
lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un
prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori
del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra
nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei,
torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare
alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.
CAPITOLO 3
Renzo va dall'Azzecca-garbugli
I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di
andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano
Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro,
pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese
raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce
di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per
il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di buon grado e,
presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco, camminando
di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le zampe, le quali
si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura.
Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene
accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non senza
qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore in
persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo
studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino.
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
La disputa cavalleresca
Tra il conte Attilio e il podestà è in corso una disputa su una questione
cavalleresca, che concerne la bastonatura che un nobile ha riservato al
messaggero latore di una sfida: Attilio sostiene che essa è legittima, mentre
il podestà afferma il contrario in ossequio al diritto romano e all'usanza per
cui l'ambasciatore è persona inviolabile. Don Rodrigo, volendo troncare la
discussione, propone di fare arbitro di essa padre Cristoforo, cosa che
trova Attilio d'accordo mentre il podestà è perplesso: il frate si dichiara
incompetente a dirimere la questione, ma don Rodrigo fa alcune pesanti
allusioni al suo passato di laico, lasciando intendere che sa che in gioventù
aveva ucciso un uomo proprio in un duello. Il padrone di casa illustra il
fatto, che riguarda una sfida a duello mandata da un cavaliere spagnolo a
uno milanese, la quale era stata recapitata da un servo al fratello dello
sfidato che, irritato, l'aveva fatto bastonare. I due contendenti riprendono a
discutere e mentre il podestà cita il diritto degli antichi Romani, il conte
Attilio ribatte che è pieno diritto per un nobile far bastonare un plebeo,
anche perché questo non è certo un atto proditorio come vorrebbe il suo
avversario. L'Azzecca-garbugli, chiamato in causa da Attilio, si sottrae
ricordando che l'arbitro designato è appunto il frate, il quale, dopo aver
tentato anch'egli di schermirsi, è costretto a dire il suo parere: padre
Cristoforo afferma che, secondo lui, non dovrebbero esserci né sfide, né
duelli, né bastonature e ovviamente le sue dichiarazioni suscitano la viva
sorpresa di Attilio, che ribatte che un mondo simile sarebbe per lui "alla
rovescia", senza cioè il "punto d'onore" e la possibilità di punire i
"mascalzoni". Anche l'avvocato sostiene che il parere del frate non ha
valore secondo le leggi del mondo e il cappuccino non ribatte nulla a un
simile ragionamento.
I commensali discutono della guerra e della carestia
CAPITOLO 6
Colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo
Don Rodrigo, appartatosi con padre Cristoforo in una sala del palazzo,
invita il frate a parlare con modi in apparenza ossequiosi, ma che
nascondono una certa impazienza. Il cappuccino sgrana il rosario che tiene
alla cintola e, soffocando la propria indignazione per il nobile, lo informa
del fatto che alcuni bravi hanno fatto il suo nome per minacciare un povero
curato e lo prega umilmente di por fine a questa vicenda in nome della sua
coscienza e dell'onore. Don Rodrigo ribatte che il frate gli parlerà della sua
coscienza in confessione, mentre del suo onore è lui l'unico custode: il
frate capisce che il nobile vuole trasformare il discorso in una contesa e
per non irritarlo ulteriormente si affretta a scusarsi e a ribadire la sua
preghiera in favore di due poveri innocenti.
Don Rodrigo reagisce accusando fra Cristoforo di venire a fargli "la spia in
casa", al che il cappuccino trattiene la collera e invoca la potenza di Dio
per indurre il signorotto a recedere dai suoi propositi. Il padrone di casa
ironizza sul fatto che non intende ascoltare una predica e in seguito allude
in modo volgare che al frate sembra "interessare" molto una fanciulla; fa
per andarsene, quando Cristoforo gli si pone davanti, sia pure in modo
rispettoso, e rinnova in nome della misericordia la sua preghiera affinché
don Rodrigo, con una sua parola, faccia cessare la persecuzione di cui la
ragazza in questione è fatta oggetto.
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
Perpetua informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio e Gervaso
Don Abbondio è seduto in una stanza al primo piano della sua casa, intento
a leggere un libro in cui è nominato il filosofo Carneade, di cui lui non sa
nulla (il curato si diletta a leggere e un sacerdote suo vicino gli presta ogni
tanto dei libri scelti a caso); quest'opera è un panegirico scritto in onore di
S. Carlo Borromeo, in cui quest'ultimo è paragonato ad Archimede e al
filosofo del II sec. a.C. Perpetua entra ad annunciare la visita di Tonio e
Gervaso, al che don Abbondio si lamenta dell'ora tarda ma poi accetta di
riceverli, ansioso di riavere indietro i suoi soldi. Il curato chiede alla sua
domestica se si sia accertata dell'identità di Tonio, domanda a cui la donna
risponde in modo alquanto stizzito, quindi Perpetua scende di sotto per
fare entrare i due uomini.