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I Promessi Sposi

CAPITOLO 1

Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa
dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui
nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del
personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando
le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in
quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli
sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla
cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di
anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che
sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e
l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi
indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme
ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due
pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da
sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni,
con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li
riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei
bravi.
Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583,
emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene
severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di
qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a
costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo
stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor
più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere
bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne
ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio
1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che
commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di
gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato
da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi
castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel
funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca
di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne
aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627,
quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di
anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi
di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia.
Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno
aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno
d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza
di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di
rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo
genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due
figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante.
Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di
celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi
hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario
comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né
l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco
convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e
minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato
eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don
Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il
bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il
segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie.
Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don
Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare,
mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili
trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio
prende la strada che conduce alla sua abitazione.
Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce
essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a
sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in
salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni,
ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non
senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così
alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi
con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo,
quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il
cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a
difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta
l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena,
benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e
rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su di
sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire
ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il
lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso
Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola
dell’accaduto.
Collegamenti:
Gainsemismo: deriva da Giansenio teologo olandese. sostiene che l’uomo
è portato naturalmente al male e che può essere salvato solo dalla Grazia
divina concesssa a pochi eletti.
Qualche figura retorica: litote cioè l’espressione di un concetto attraverso
la negazione del contrario; ad esempio don abbondio dice che non era nato
con un cuor da leone
Antonomasia: sostituzione di annone proprio con un epiteto o perifrasi che
lo caratterizza: l’Onnipotente-> Dio ma anche la stessa Perpetua.
Perpetua è un personaggio statico ma ci sono degli aspetti che rimandano a
un personaggio dinamico, in essa c’è la zitella pettegola ma ci sono anche
caratteristiche più complesse.
Doppio registro linguistico per confermare da una parte la verosimiglianza
storica ai fatti narrati e a denunciare il governo spagnolo.
Il colore storico è evidente nella rappresentazione dei rapporti di forza in
una società dominata dall’ingiustizia .
Un altro elemento storico è la descrizione accurata dei bravi, e infine la
storia si cala nei personaggi e questi si comportano secondo dinamiche
proprie dell’epoca in cui vivono aumenta il realismo storico.
In Don abbondio c’è la tendenza all’opportunismo e all’egoismo ,
affiancato da una concezione pessimistica, è complice del più forte; il
narratore lo osserva con ironia che rivela la sua coane morale.
Perpetua: vivacità realistica e popolaresca linguaggio immediato e diretto
riferimento a Carlo Maggi nella commedia, ella è l’opposto di don
abbondio che ne fa risaltare la sua piccolezza, secondo altri è la sua spalla
dotata di senso pratico e mette in risalto le confusione di Don Abbondio.

CAPITOLO 2
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi
trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una
piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in
cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune
possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di
dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine
decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto,
confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui
non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato
un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è
innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle,
pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno,
anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo,
da fughe e inseguimenti.
Renzo si reca da don Abbondio
Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi
circa l'ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane
di vent'anni, rimasto orfano dall'adolescenza, che ora esercita la
professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato,
Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla
scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di
lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non
è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire
discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con
giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato vestito
di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il manico del
pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un'aria un
po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il
curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che insospettisce subito
Renzo.
Il curato convince Renzo a rimandare le nozze
Renzo e don Abbondio (ediz. 1840)
Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in
chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa
parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non
può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti
burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che
avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta
ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le
pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le
idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il
giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato
ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo
a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è
alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una
settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio
e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in
parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). Alla
fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una settimana e non
un giorno di più per sposarsi con Lucia.
Renzo parla con Perpetua
F. Gonin, Renzo e Perpetua
Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al
colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le
ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta
quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua
che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le si
avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del
comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del
curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa
sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si
lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un
prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori
del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra
nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei,
torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare
alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.

Renzo costringe il curato a parlare


Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che
si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di
guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l'uscio, mettendosi
la chiave in tasca. In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome
di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul
manico del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza
esitazioni, fa finalmente il nome di don Rodrigo. La reazione di Renzo è
furibonda, ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro
coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di
avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa. Renzo si scusa
debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il
segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va
senza promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce
Perpetua. La domestica accorre dall'orto con un cavolo sotto il braccio e
segue un breve scambio di battute col padrone che l'accusa di aver parlato
e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la
febbre e ordina alla donna di sprangare l'uscio e di non aprire a nessuno,
rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.
Renzo medita di assassinare don Rodrigo
Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l'accaduto e
meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane
pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento
fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto
per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in
quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta
di tendergli un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al
confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il
pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo
induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver
solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato
all'idea di dover informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo
abbia tenuto all'oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di
sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia,
che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro,
sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e
immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per
le nozze.
Renzo informa Lucia dell'accaduto
Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile,
chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le
chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza
che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta
ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce,
con spilli d'argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa
(secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una collana di
pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a fiori, una
gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di seta.
Bettina le si accosta e le dice qualcosa all'orecchio, quindi Lucia si
congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice
subito cos'è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è
sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa,
ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne,
mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice
alle donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è
rimandato, quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese,
raccontando a tutti l'accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per
verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia
dalla finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto
deluse per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.

Temi principali e collegamenti

• Il capitolo si apre con il paragone ironico tra don Abbondio e il


principe di Condé, che suona beffardo non solo per l'accostamento
tra il nobile condottiero e il povero curato, ma anche perché mette a
confronto la celebre battaglia di Rocroi con i guai del religioso, che
deve trovare un pretesto per sottrarsi al suo dovere.
Il vero protagonista dell'episodio è Renzo, che entra in scena nel
romanzo e dimostra subito il suo carattere: giovane impulsivo e
alquanto incline alla collera, intuisce che il curato lo sta
imbrogliando e poi fa abilmente leva sull'ingenuità di Perpetua per
farla parlare; nel secondo confronto con don Abbondio arriva di
fatto a minacciarlo, cosa di cui in seguito si scusa (ottiene
comunque lo scopo di estorcere al curato una confessione). In
seguito progetta di uccidere don Rodrigo, benché poi abbandoni
subito questi pensieri sanguinosi e dimostri di non essere tipo da
abbandonarsi alla violenza (anche se nel cap. VII indurrà Lucia a
tentare il "matrimonio a sorpresa" facendole credere che, in caso
contrario, commetterà una pazzia; e il pensiero di uccidere il
signorotto lo coglierà anche verso la fine del romanzo, nel cap.
XXXV). Lucia è
introdotta verso la fine del capitolo e di lei c'è la celebre descrizione
nel suo abbigliamento da sposa, che in seguito ha influenzato
l'iconografia di questo personaggio: viene subito presentata come
una giovane molto timida, riservata, dotata di una "modesta
bellezza" contadina (non tale, dunque, da giustificare una passione
morbosa da parte di don Rodrigo). La giovane fa poi capire a Renzo
che è a conoscenza dei motivi che hanno spinto il signorotto a
impedire le nozze, per cui l'episodio si chiude con un'atmosfera di
attesa per le rivelazioni che Lucia farà all'inizio del capitolo
seguente.
Nel corso della narrazione il narratore onnisciente fa sentire la sua
voce con un ragguaglio narrativo in cui viene messo a conoscenza il lettore
di fatti che non può sapere.
Anche gli appelli sono un modo simile in cui il narratore si rivolge al
pubblico .Un’altro è l’aggettivazione giudicante: “il buon prete”.
Il cronotopo lett. tempo e spazio, il termine è usato per indicare
l’interconnessione dei rapporti spaziali e temporali, in letteratura significa
che lo spazio è inscindibile dal tempo, si condizionano a vicenda.
Il ritratto di lady rowena è riconducibile a quello di lucia.+
Le due abitazioni focalizzano i due poli contrapposti della vicenda: da un
lato Don Abbondio si comporta come aiutante delle forze del male
dall’altra Renzo e Lucia sono le vittime.
Renzo è un personaggio d’azione, viene presentato col punto di vista di
don Abbondio, ritratto per gradi, a qualificarlo è il cronotopo della strada.
Personaggio d’azione: buono e generoso ma istintivo e impetuoso.
Lucia è l’opposto: un ps domestico ha una forte tempra morale e una
solida formazione religiosa. Lucia esprime i valori religiosi di Manzoni.
c’è un confronto possibile con Enrichetta dato da alcuni elementi come la
bellezza la delicatezza e pudore, l’atto di schermirsi il verecondo amore e
la fede che è la forza delle due donne.

CAPITOLO 3

Il racconto di Lucia: la "scommessa" di don Rodrigo

Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta


tra i singhiozzi cosa è accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla
filanda, era rimasta indietro dalle compagne e aveva incontrato per caso
don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il
signorotto l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva
affrettato il passo per raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che
diceva all'altro signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un
nuovo incontro, ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era
rimasta in mezzo alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto
al padre Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre
dicendo di non aver voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il
timore che la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre
Cristoforo le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze,
motivo per cui lei aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire
questo non può evitare di arrossire). Lucia scoppia in lacrime e Renzo
inveisce contro don Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la
giovane sopisce subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia
propone addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono
sposati e ciò creerebbe infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è
da sperare che celebri il matrimonio o li agevoli in questa decisione.

Renzo va dall'Azzecca-garbugli
I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di
andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano
Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro,
pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese
raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce
di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per
il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di buon grado e,
presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco, camminando
di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le zampe, le quali
si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura.
Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene
accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non senza
qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore in
persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo
studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino.

Colloquio tra Renzo e l'avvocato: l'equivoco


Lo studio dell'avvocato è una grande stanza, che su tre pareti mostra i
ritratti dei dodici Cesari mentre la quarta è occupata da uno scaffale pieno
di libri impolverati; in mezzo c'è un tavolo con sopra gride e documenti
accatastati alla rinfusa, circondato da qualche sedia e dalla poltrona
dell'avvocato, alquanto consunta dall'uso e dal tempo. Il dottore indossa
una toga anch'essa sgualcita dal tempo, che contribuisce a dare
all'ambiente un carattere di trascuratezza e disordine.
L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli
domanda, con qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non
celebri un matrimonio può incorrere in una pena. L'avvocato cade in un
equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto bene
a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo.
Dopo un po' trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla
invitando Renzo a seguirlo (il giovane dice di saper leggere "un pochino"):
la grida commina pene assai severe a coloro che minacciano un curato per
non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e felice
che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un
malfattore, è stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi
il ciuffo, cosa che ovviamente Renzo smentisce affermando di non averlo
mai portato in vita sua, cioè di non essere un bravo. A questo punto
l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui,
lo invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà
tirarlo fuori dai guai: gli prospetta poi il modo in cui lo assisterà, ovvero
invocando la protezione del signore che lo ha incaricato di eseguire le
minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo offeso e
il curato, facendo cioè capire a Renzo che un abile leguleio è in grado di
manipolare la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai
colpevoli e negando alle vittime il riconoscimento dei propri diritti.
Renzo viene cacciato dall'Azzecca-Garbugli
L'avvocato caccia Renzo (ediz. 1840)
Renzo continua ad ascoltare l'avvocato come inebetito, poi comprende
l'equivoco in cui è caduto l'Azzecca-garbugli e svela finalmente la verità,
affermando di non essere un colpevole ma la vittima, e di non aver
minacciato nessuno in quanto è lui la parte lesa nel mancato matrimonio. Il
dottore lo rimprovera per la poca chiarezza, quindi il giovane racconta per
sommi capi la sua vicenda (il fidanzamento con Lucia, le nozze rimandate,
il modo in cui ha fatto confessare il curato...), ma quando fa il nome di don
Rodrigo l'avvocato lo interrompe e inizia a storcere la bocca. L'Azzecca-
garbugli non vuole sentire altro da Renzo e lo accusa di raccontar
fandonie, invitandolo ad andarsene subito dalla sua casa: lo caccia via
senza sentir ragioni, ordinando addirittura alla serva di restituirgli i
capponi, cosa che la domestica fa guardando il giovane come se avesse
combinato qualche grosso guaio. Renzo tenta ancora di difendere le sue
ragioni, ma l'avvocato è irremovibile e al giovane non resta che andarsene
sconsolato, per tornare al paese dalle due donne.

Fra Galdino va a casa di Agnese e Lucia


Nel frattempo Agnese e Lucia, dopo essersi tolto l'abito della festa e aver
indossato quello da lavoro, stanno pensando al da farsi e Lucia vorrebbe
avvertire il padre Cristoforo dell'accaduto per avere da lui consiglio e
aiuto, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di
Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il
coraggio di andarci). In quel momento si sente bussare alla porta e si sente
qualcuno dire "Deo gratias", per cui Lucia corre ad aprire e compare fra
Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo la sua bisaccia
per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a
prendere le noci per il convento e la ragazza ubbidisce, non prima però di
aver fatto cenno alla madre, senza farsi vedere dal frate, di non dire una
sola parola circa quello che è accaduto quel giorno.

Fra Galdino racconta il "miracolo delle noci"


Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e
la donna, memore dell'ammonimento della figlia, dice che è stato a causa
di una malattia del curato. Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua
raccolta e dichiara che come rimedio per la carestia c'è solo l'elemosina,
come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni prima in un
convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento
c'era un padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il
proprietario di un noce che ordinava ai suoi contadini di abbattere la
pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva frutti, al che il
cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario.
L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci
sarebbe andata al convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una
quantità incredibile di frutti, ma il proprietario era morto prima di
raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era poi
rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un
giorno, però, il giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari,
ridendo dei frati, e li aveva condotti in granaio a vedere le noci: al posto
dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la voce del
miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò, perché in
seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri,
come normalmente avviene.
Lucia chiede al frate di chiamare padre Cristoforo. Ritorno di Renzo
Poco dopo ritorna Lucia, che porta nel grembiule tante di quelle noci che
la madre le lancia un'occhiata di rimprovero: fra Galdino riempie la sua
bisaccia e ringrazia di cuore, quindi la giovane lo prega di riferire al padre
Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e che lo faccia
venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il
messaggio e se ne va, mentre Lucia è certa che il padre, un frate di grande
autorità e di molto prestigio in quelle contrade, non tarderà a farsi vedere (i
frati cappuccini, del resto, godevano a quei tempi di profondo rispetto
come di disprezzo, essendo votati all'umiltà, alla carità, al servizio del
prossimo).
In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina,
specie in quell'anno di carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto
che in tal modo fra Galdino tornerà subito al convento e compirà senz'altro
l'ambasciata, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci se ne
scorderebbe di certo. Agnese approva la sua decisione, quindi
sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola e riferisce l'infelice
esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli, lasciando nella
costernazione le due donne (Agnese tenta di dire che il giovane non ha
saputo spiegarsi con l'avvocato). Renzo torna a manifestare oscuri
propositi di vendetta, al che le due donne cercano di calmarlo e Lucia
dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno dopo
verrà certamente a visitarle. È ormai il tramonto e Renzo, sconsolato,
lascia la casa della sua promessa continuando a ripetere "a questo mondo
c'è giustizia, finalmente".

Temi principali e collegamenti

• All'inizio del capitolo Lucia racconta l'antefatto del suo incontro


con don Rodrigo, che l'autore sintetizza in un breve discorso
indiretto: apprendiamo che all'origine di tutto è una scommessa
fatta per gioco con un altro nobile (ci verrà detto nel cap. V che si
tratta del cugino, il conte Attilio), dunque una prepotenza usata da
un aristocratico contro una povera contadina, che non nasce certo da
una torbida passione o da un'ossessione di natura amorosa. In
seguito scopriremo che il termine per la scommessa è il giorno di
San Martino, l'11 novembre (cap. VII), e che don Rodrigo vorrà
vincerla a tutti i costi soprattutto per una questione di puntiglio
cavalleresco, per non sfigurare di fronte ad Attilio e agli altri amici
nobili.

• L'avvocato Azzecca-garbugli è il vero protagonista dell'episodio:


personaggio farsesco e degno di una commedia, cade in un
grossolano equivoco scambiando Renzo per un bravo venuto a
cercare assistenza legale e mostra al povero giovane che le gride e
le leggi non assicurano minimamente la giustizia alle vittime,
poiché esse si prestano ad essere aggirate da chi ha denaro, agganci
politici e amici influenti. Attraverso di lui l'autore rivolge una dura
polemica contro le storture dei sistemi giudiziari, più accentuate
negli Stati politicamente decadenti (è il caso della Lombardia del
'600, ma la critica di Manzoni non risparmia neppure le istituzioni
giudiziarie dell'800, ben lontane dall'assicurare la giustizia ai più
deboli).

• All'inizio del capitolo viene citato il padre Cristoforo e il


cappuccino è poi direttamente chiamato in causa alla fine,
attraverso la figura di fra Galdino: questi rappresenta l'uomo
semplice che nutre una fiducia cieca e un po' ingenua nel potere
della carità, esemplificata attraverso l'apologo del "miracolo delle
noci". Il racconto è un intermezzo narrativo edificante che fa da
diversivo nella trama del romanzo, ma serve anche a introdurre le
figure dei cappuccini che della carità e del servizio al prossimo
facevano la loro ragion d'essere; val la pena, inoltre, di osservare
come la storia del figlio degenere del proprietario del noce ricordi
vagamente quella di don Rodrigo, il cui padre era stato di tempra
ben diversa (cap. VI) mentre lui, ora che gli è succeduto, si dà ai
bagordi e alle soperchierie non diversamente dal protagonista del
racconto. La morale dell'apologo, naturalmente, è che la carità vince
sulla malvagità umana e questo si rivelerà vero per lo stesso don
Rodrigo.
• Sono divenuti proverbiali i "capponi di Renzo", a indicare
l'atteggiamento dei compagni di sventura i quali, anziché aiutarsi a
vicenda, spesso disputano tra loro come le povere bestie che si
beccano l'una con l’altra.
• Il racconto del miracolo delle noci è da considerarsi come un
apologo, ossia una breve narrazione con un fine educativo. Nel
racconto di fra Galdino si può anche notare la presenza di un
narratore di II grado.
• Solo all’inizio del capitolo III Lucia dice l’antefatto della vicenda,
condotto in analisi nella forma prevalente di discorso indiretto
riferisce con la reticenza adeguata al personaggi.
• il divario tra gli sposi e Agnese è dato da una diversa visione della
giustizia umana e divina: Renzo azione, Lucia Provvidenza. Agnese
media con la saggezza popolare prodotta dall’esperienza concreta
della vita.
• Realismo e pluristilismo: il racconto del frate è coerente con la
personalità ingenua e apologetica del personaggio. Quanto allo stile,
il racconto di fra Galdino riflette il linguaggio delle prediche
religiose rivolte al popolo di cui accoglie le modalità semplici di
espressione gli artifici volti a catturare l’attenzione gli apologhi: Fra
Galdino racconta in maniera elementare.
• Per Manzoni vendicarsi non è giustizia, non c’è giustizia in questo
modo ma solo in quello dei cieli.

CAPITOLO 4

Padre Cristoforo lascia il convento


B. Bezzi, Veduta di Pescarenico
Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico
(un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e
abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Il
cielo è sereno e il sole illumina il paesaggio, in cui si vedono le foglie di
gelso che cadono a terra e quelle della vite ancora rosseggianti, mentre nei
campi biancheggiano le stoppie dopo la mietitura. Lo spettacolo sembra
lieto, ma in realtà è rattristato dalla presenza di mendicanti lungo la strada
che riveriscono il frate, mentre i contadini spargono i semi nei campi con
parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, e una ragazza conduce
al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che possono nutrire la
sua famiglia (tutto ciò rammenta che è periodo di carestia).
Ma per quale motivo il frate cappuccino ha risposto con tanta sollecitudine
alla chiamata di Agnese e Lucia? E, soprattutto, chi è padre Cristoforo? Si
tratta di un uomo di circa sessant'anni, che conserva ancora un
atteggiamento fiero e inquieto nonostante l'abitudine all'umiltà; ha una
lunga barba bianca che incornicia un volto scavato dall'astinenza, che per
questo ha acquistato gravità, con due occhi che spesso sono chinati a terra
ma talvolta si levano con improvvisa vivacità, simili a due cavalli domati
dal cocchiere che, a volte, non rinunciano a tentare di ribellarsi ai suoi
comandi.

Il passato di Cristoforo: Lodovico


L'autore apre a questo punto un ampio flashback in cui racconta il passato
di padre Cristoforo, che prima di diventare frate si chiamava Lodovico (il
nome della città in cui è nato non viene menzionato). Lodovico è figlio di
un ricco mercante, che alla fine della sua vita lascia gli affari e inizia a
vivere come un nobile, vergognandosi delle proprie origini che tenta in
ogni modo di celare: al punto che un giorno, durante un banchetto, un
commensale dice senza malizia che fa "orecchio da mercante", il che è
sufficiente a fare incupire il padrone di casa e a spegnere l'allegria della
brigata (da quel giorno l'incauto ospite non verrà più invitato). Lodovico
viene educato come un aristocratico e acquista abitudini signorili,
trovandosi assai ricco alla morte del padre, ma quando tenta di mescolarsi
agli altri nobili della sua città viene trattato con disprezzo e si allontana da
loro indispettito. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese
futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di
difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da
parte di quei nobili con cui ha avuto di che ridire. La sua indole è onesta
ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed
è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della
giustizia, il che gli provoca rimorsi di coscienza (tanto che, a volte, è
tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate).

Lodovico uccide un nobile in un duello


Un giorno Lodovico cammina per strada insieme a due bravi e un fedele
servitore di nome Cristoforo, già dipendente del padre e ora suo maestro di
casa, un uomo di cinquant'anni con una numerosa famiglia. Il giovane
incontra un nobile della sua città, noto per la sua arroganza, che procede
circondato anch'egli da quattro bravi: entrambi camminano rasente un
muro, e poiché Lodovico lo sfiora con il fianco destro avrebbe diritto che
l'altro gli cedesse il passo, mentre il nobile potrebbe esigere la stessa cosa
in quanto aristocratico (dunque entrambi, stando ai codici cavallereschi del
tempo, avrebbero ragione). Quando i due si trovano di fronte, il nobile
intima imperiosamente a Lodovico di farlo passare e il giovane rifiuta in
modo sdegnoso; segue un breve scambio di battute in cui i contendenti si
scambiano tipici insulti cavallereschi (il nobile dà a Lodovico del
"meccanico" e gli rinfaccia le sue origini borghesi, l'altro lo accusa di
viltà), poi nasce un duello cui prendono parte anche i bravi di entrambe le
parti. Lo scontro è molto violento e Lodovico viene ferito, quando il suo
avversario gli piomba addosso con la spada: il servo Cristoforo protegge il
suo padrone e viene colpito a morte, quindi Lodovico uccide a sua volta il
nobile trafiggendolo con la sua lama. A questo punto i bravi di entrambi si
danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, malconcio,
accanto ai corpi di Cristoforo e del suo rivale.

Lodovico si rifugia in convento


F. Gonin, Lodovico ferito
Attorno ai tre uomini si raccoglie una piccola folla di spettatori, i quali
conoscono Lodovico come giovane dabbene e il nobile ucciso come un
noto prepotente, per cui non vogliono che il primo finisca nelle mani della
giustizia o dei parenti del morto: lo conducono allora a un vicino convento
di cappuccini, dove potrà essere curato e sarà al riparo da possibili
ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è
rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è
sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha
assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile,
prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il
male commesso, il che accresce il suo scoramento e il rimorso per quanto
ha fatto. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto,
giungono nei pressi del convento per reclamare la consegna di Lodovico,
cosa che non possono ottenere poiché quello è un luogo sacro e
inviolabile.
Il giovane prega i cappuccini di riferire alla vedova di Cristoforo che
provvederà lui alle necessità della famiglia, quindi matura la decisione di
indossare la tonaca come espiazione del male commesso: annuncia la sua
decisione al padre guardiano, il quale lo ammonisce dal prendere
risoluzioni affrettate ma si dichiara disposto ad accoglierlo. Lodovico in
seguito fa donazione di tutti i suoi averi alla vedova di Cristoforo, mentre
la sua scelta di farsi frate toglie i cappuccini dall'imbarazzo di decidere
cosa fare di lui, poiché la famiglia dell'uomo ucciso pretende vendetta e i
frati non possono certo consegnar loro Lodovico senza rinunciare ai loro
privilegi: tuttavia la monacazione del giovane può sembrare un'espiazione
sufficiente per l'omicidio commesso, dunque la cosa potrà soddisfare i
parenti del nobile ucciso (che, del resto, non piangono la sua morte ma si
sentono offesi nell'onore nobiliare).

Lodovico diventa fra Cristoforo


Il padre guardiano si reca dal fratello dell'ucciso e gli comunica la
decisione di Lodovico, indicando la monacazione del giovane come
risarcimento sufficiente per l'onore della famiglia, al che il gentiluomo
protesta il proprio sdegno ma, alla fine, pone come unica condizione che il
novizio lasci immediatamente la città. Il padre acconsente e lascia credere
che si tratti di un gesto d'obbedienza (in realtà ha già preso questa
decisione), per cui la questione viene risolta con soddisfazione di tutti,
specie di Lodovico che in tal modo potrà iniziare una vita di espiazione e
penitenza. Ad appena trent'anni diventa dunque frate e assume il nome di
Cristoforo, in modo da ricordarsi sempre del male commesso e accrescere
così l'espiazione di quella morte causata indirettamente da lui.
Fra Cristoforo dovrà compiere il noviziato in un paese a sessanta miglia di
distanza, ma il giovane chiede al padre guardiano di potersi prima recare
dal fratello dell'ucciso a implorare il suo perdono per il gesto compiuto. Il
padre approva l'intenzione e si reca dal gentiluomo a rivolgere tale
richiesta, al che il nobile pensa che questa sarà l'occasione di una pubblica
soddisfazione della famiglia e risponde che Cristoforo potrà venire il
giorno dopo. Il gentiluomo l'indomani fa raccogliere tutti i parenti nel suo
palazzo e attende il novizio circondato da aristocratici in abito da
cerimonia e le spade al fianco, in uno scenario di pompa e magnificenza
tipica dell'aristocrazia di quei tempi.

Fra Cristoforo ottiene il perdono del fratello dell'ucciso

Fra Cristoforo giunge al palazzo accompagnato da un altro padre e prova


subito un certo imbarazzo al vedere tanti nobili riuniti, ma poi pensa che
ciò sarà parte della sua espiazione per il delitto commesso. Attraversa una
grande sala piena di gente e si inginocchia ai piedi del fratello del nobile
ucciso, che lo guarda dall'alto con aria altera e sdegnata: il frate parla con
voce sincera e chiede con contrizione perdono per il male commesso,
suscitando un mormorio di approvazione da parte di tutti i presenti. Anche
il gentiluomo padrone di casa è toccato e invita Cristoforo ad alzarsi,
aggiungendo parole di conforto e riconoscendo i torti del fratello defunto;
quindi concede il proprio perdono al frate, che si dice contento di ciò
(anche se, ovviamente, ciò non cancella il male compiuto ai danni
dell'uomo ucciso).
Tutti si felicitano con il novizio, al quale i servitori di casa offrono delicate
vivande; il frate rifiuta con cortesia, limitandosi a chiedere solo un pezzo
di pane con cui potrà rifocillarsi durante il viaggio che lo attende. Il
padrone di casa lo accontenta e un cameriere gli porge su un piatto
d'argento un pane, che il novizio mette nella sporta e di cui conserverà un
pezzo come ricordo di quel memorabile giorno (il cosiddetto "pane del
perdono"). Fra Cristoforo lascia il palazzo riverito da tutti, mentre il
fratello del morto è stupito della sua benevolenza e da quel giorno diventa
un po' più affabile e meno altero, mentre tutta la sua famiglia ricorderà
questa giornata nel segno del perdono e della riconciliazione.

Padre Cristoforo giunge a casa di Lucia


L'arrivo di padre Cristoforo (ediz. 1840)
L'autore non racconta la vita di padre Cristoforo negli anni seguenti, se
non dicendo che il cappuccino esegue con obbedienza i doveri che gli sono
imposti, cioè di predicare e assistere i moribondi, anche se non rinuncia
quando si presenta l'occasione a prendere le difese dei deboli contro le
ingiustizie degli oppressori: l'uomo conserva ancora un barlume dell'antica
fierezza e dell'indole animosa, per cui il suo contegno, abitualmente umile
e posato, può diventare impetuoso e sdegnato quando assiste a qualche
intollerabile ingiustizia. Ciò spiega la sua sollecitudine nel rispondere alla
chiamata di Lucia, che il padre conosce come una giovane innocente e
vittima di un'infame persecuzione da parte di don Rodrigo: in ansia per lei
e per quanto può esserle accaduto, giunge infine alla casa della giovane e
della madre Agnese, le quali accolgono il cappuccino con una benedizione.

Temi principali e collegamenti

• Le tre immagini dei mendicanti dei contadini che seminano


svogliatamente e della fanciulla scarna che contende le erbe alla
vaccherella condotta al pascolo sono disposte in maniera scendente
e sottolineano il dramma crescente della carestia.
• In qeusto capitolo le ossessione del padre di Ludovico sono messe
in relazione a quelle di Macbet protagonista dell’omonima tragedia
shakespeariana .
• In questo capitolo è evidente il corso alla forma
mimetica(riproduzione ps con battute di dialogo no voce narrante)
nell’episodio del duello tra Lodovico e il nobile signore compare in
scena per la prima volta nel romanzo la folla commenta l’accaduto.
La vivacità del parlato popolare diviene parte integrante della
scrittura letteraria: le battue appaiono riportate in modo direi e
Cesena l’intervento del narratore così che si susseguono nel testo
gli interventi degli astanti a Lodovico ferito.
• Il seicento si incarna in alcuni punti in questo capitolo: nel gusto
della teatralità il puntiglio(ragione del duello tra Lodovico e il
nobile), il rispetto delle apparenze , il formalismo, l’arte della
diplomazia e della politica accomunano il padre guardiano e il
fratello dell’ucciso i rapporti reali e le questioni di sostanza sono
rovesciati.
• Cristoforo mira a far coincidere parole e fatti parlando un
linguaggio schietto e autentico della verità e tornando a dare ai gesti
e ai riti della religione il loro significato profondo, è portatore di
un’esigenza di autenticità. In questo episodio essa(ontrapposizione
reale ideale) viene risolta attraverso l’inserimento vittorioso
dell’ideale nel reale.
• Il carattere di Padre Cristoforo: tende a esigere la giustizia su questa
terra e a ribellarsi ai potenti, vi è un elemento romantico di
opposizione alla società. Ed è in un certo senso il doppio di renzo
ma anche il padre, cioè colui che lo induce alla pazienza.

CAPITOLO 5

Agnese e Lucia informano padre Cristoforo dell'accaduto


G. B. Galizzi, L'arrivo di padre Cristoforo
Padre Cristoforo entra nella casa di Agnese e Lucia e chiede loro il motivo
della chiamata: Lucia scoppia a piangere e la madre racconta in breve al
frate che cos'è successo. Il cappuccino ascolta non senza un profondo
sdegno, quindi consola le due donne e le rassicura dicendo che non farà
mancare il suo aiuto, e di confidare nel soccorso divino. Sedutosi su uno
sgabello, il frate inizia poi a pensare tra sé e a esaminare le possibili vie
d'uscita: scarta l'ipotesi di costringere don Abbondio a celebrare il
matrimonio, poiché è certo che il curato ha più paura delle minacce dei
bravi che non di lui; esclude anche di informare il cardinal Borromeo,
poiché occorrerebbe tempo e comunque, se anche i due promessi si
sposassero, questo potrebbe non bastare a fermare don Rodrigo. Potrebbe
fare intervenire i suoi confratelli, ma, poiché il signorotto si atteggia ad
amico del convento e dei cappuccini, teme che ciò sarebbe addirittura
controproducente. Decide infine di andare al palazzo del nobile ad
affrontarlo di persona, per tentare di farlo recedere dai suoi propositi e, al
contempo, valutare la sua ostinazione nel portare a termine i suoi sporchi
progetti.

Arriva Renzo, che manifesta propositi bellicosi

L'arrivo di Renzo (ediz. 1840)

Mentre padre Cristoforo è assorto nei suoi pensieri sopraggiunge Renzo,


che ovviamente non sa stare lontano dalla casa della sua promessa e che
resta in silenzio per non disturbare il cappuccino. Questi si accorge della
sua presenza e lo saluta, al che il giovane pronuncia parole di accusa verso
don Rodrigo e si lamenta del fatto che gli amici del paese sembrano averlo
abbandonato, nonostante le profferte di aiuto in caso di bisogno per
togliere di mezzo un nemico. Renzo capisce di aver toccato il tasto
sbagliato e infatti padre Cristoforo lo rimprovera e lo esorta a non nutrire
propositi di violenza, a confidare nell'aiuto di Dio e a non meditare
vendetta per risolvere i suoi problemi. Renzo promette che non farà colpi
di testa e il frate comunica la sua intenzione di andare al palazzo di don
Rodrigo, assicurando che sarà di ritorno quanto prima. Consiglia ai tre di
stare in casa e di evitare guai, quindi lascia la casa e torna al convento di
Pescarenico, dove esegue gli uffici di sesta (verso mezzogiorno) e da dove,
dopo un pasto frugale, si dirige al palazzo del signorotto.
Padre Cristoforo raggiunge il palazzo di don Rodrigo
Il palazzo di don Rodrigo sorge su un'altura poco lontano dal paese e da
Pescarenico, ai piedi della quale c'è un piccolo villaggio di contadini
abitato da brutti ceffi simili a bravi (nelle case si intravedono armi da
fuoco) e dove persino i vecchi, le donne e i fanciulli sembrano avere
un'aria bellicosa. Padre Cristoforo attraversa il villaggio e sale al palazzo
lungo una strada tortuosa, che conduce all'edificio simile a una piccola
fortezza squadrata: l'abitazione è talmente silenziosa da sembrare deserta e
infatti la porta è chiusa, come anche le finestre che sono protette da
imposte consunte e da robuste inferriate. Sui due battenti della porta sono
inchiodate le carcasse di due avvoltoi e ai lati, sdraiati su delle panche, ci
sono due bravi che montano la guardia in modo svogliato. Uno di essi si
alza e accoglie in modo benevolo il frate, invitandolo a entrare e facendo
osservazioni sarcastiche circa il rispetto che nutre verso i cappuccini (nel
loro convento, infatti, si è rifugiato varie volte per sfuggire alla legge). Il
bravo picchia all'uscio e questo è aperto da un anziano servitore,
circondato da diversi cani, il quale accoglie padre Cristoforo con deferenza
e lo invita a entrare. L'uomo osserva stupito che la presenza del frate in
quel luogo è sorprendente, anche se si può compiere del bene dappertutto,
quindi conduce Cristoforo attraverso dei salotti in penombra sino alla porta
della sala da pranzo, da cui proviene un gran fracasso di stoviglie e di voci
concitate che si accavallano l'una con l'altra.

Il banchetto di don Rodrigo


Padre Cristoforo vorrebbe ritrarsi e attendere in un luogo appartato la fine
del pranzo, ma la porta della sala si apre e il conte Attilio chiama subito il
frate, invitandolo a entrare a gran voce. Don Rodrigo, che gli siede
accanto, è allora costretto ad invitare anche lui il cappuccino ad entrare,
anche se farebbe a meno di questa visita; Cristoforo avanza con fare
esitante e rivolge un inchino al padrone di casa, non per ossequio servile
ma a causa della soggezione che il nobile, seduto a tavola e circondato da
amici potenti, inevitabilmente gli incute. Don Rodrigo sta consumando un
banchetto insieme a vari convitati, tra cui (oltre al conte Attilio, suo
cugino) vi sono il podestà di Lecco, il dottor Azzecca-garbugli e altri due
commensali di cui l'anonimo non riferisce il nome, intenti a mangiare e ad
acconsentire a qualunque cosa venga detta da uno degli altri presenti. Il
padre viene fatto sedere e chiede con deferenza al nobile di poter avere un
colloquio riservato con lui, su una faccenda delicata; don Rodrigo
acconsente, ma prima vuole ad ogni costo che venga servito del vino al
frate (questi si schermisce e allora il signorotto afferma sardonico che un
cappuccino deve bere il suo vino, proprio come un creditore insolente deve
essere bastonato con la legna dei suoi boschi). Tutti ridono e padre
Cristoforo, per non irritare il padrone di casa, beve a piccoli sorsi il vino
versato da un'ampolla.

La disputa cavalleresca
Tra il conte Attilio e il podestà è in corso una disputa su una questione
cavalleresca, che concerne la bastonatura che un nobile ha riservato al
messaggero latore di una sfida: Attilio sostiene che essa è legittima, mentre
il podestà afferma il contrario in ossequio al diritto romano e all'usanza per
cui l'ambasciatore è persona inviolabile. Don Rodrigo, volendo troncare la
discussione, propone di fare arbitro di essa padre Cristoforo, cosa che
trova Attilio d'accordo mentre il podestà è perplesso: il frate si dichiara
incompetente a dirimere la questione, ma don Rodrigo fa alcune pesanti
allusioni al suo passato di laico, lasciando intendere che sa che in gioventù
aveva ucciso un uomo proprio in un duello. Il padrone di casa illustra il
fatto, che riguarda una sfida a duello mandata da un cavaliere spagnolo a
uno milanese, la quale era stata recapitata da un servo al fratello dello
sfidato che, irritato, l'aveva fatto bastonare. I due contendenti riprendono a
discutere e mentre il podestà cita il diritto degli antichi Romani, il conte
Attilio ribatte che è pieno diritto per un nobile far bastonare un plebeo,
anche perché questo non è certo un atto proditorio come vorrebbe il suo
avversario. L'Azzecca-garbugli, chiamato in causa da Attilio, si sottrae
ricordando che l'arbitro designato è appunto il frate, il quale, dopo aver
tentato anch'egli di schermirsi, è costretto a dire il suo parere: padre
Cristoforo afferma che, secondo lui, non dovrebbero esserci né sfide, né
duelli, né bastonature e ovviamente le sue dichiarazioni suscitano la viva
sorpresa di Attilio, che ribatte che un mondo simile sarebbe per lui "alla
rovescia", senza cioè il "punto d'onore" e la possibilità di punire i
"mascalzoni". Anche l'avvocato sostiene che il parere del frate non ha
valore secondo le leggi del mondo e il cappuccino non ribatte nulla a un
simile ragionamento.
I commensali discutono della guerra e della carestia

Don Rodrigo cambia improvvisamente argomento di conversazione e,


alludendo alla guerra per il possesso di Mantova che è in corso tra la
Francia di Luigi XIII e la Spagna di Filippo IV, dice di aver sentito a Mi-
lano che potrebbe esserci un trattato di pace. Il conte Attilio si dice
d'accordo, ma il podestà ribatte che ha saputo dal castellano spagnolo di
Lecco che le cose non stanno così e il padrone di casa lancia un'occhiata al
cugino, invitandolo a non insistere oltre per non irritare il suo ospite (il cui
appoggio, ovviamente, gli è prezioso per non avere guai con la legge). Il
podestà inizia allora un bizzarro e sconclusionato discorso di elogio al
conte-duca Olivares, primo ministro spagnolo che, a suo dire, è un fine
politico in grado di mettere nel sacco tutti i suoi avversari, a cominciare
dal cardinale Richelieu, primo ministro francese (il podestà dimostra una
certa vanagloria e una discreta ignoranza, per cui il suo elogio verso
l'Olivares suona piuttosto ridicolo e privo di senso). Per porre fine alla
discussione, don Rodrigo fa portare dell'altro vino con cui il podestà fa un
solenne brindisi in onore del conte-duca, al quale è costretto ad unirsi lo
stesso padre Cristoforo. Chiamato in causa, l'Azzecca-garbugli si produce
in un goffo elogio della bontà del vino, i cui fumi lo hanno evidentemente
inebriato, quindi loda il padrone di casa che offre splendidi pranzi mentre
fuori infuria la carestia. L'accenno a questa induce i presenti ad accusare
gli incettatori di grano e i fornai, rei di nascondere il pane, per cui più
d'uno invoca processi sommari contro di essi. Padre Cristoforo assiste alla
scena in silenzio, senza mostrare di volersene andare prima di aver parlato
con don Rodrigo: questi, per liberarsi di lui e non potendolo mandar via
per ossequio formale ai cappuccini, a un certo punto si alza da tavola
(imitato dai suoi ospiti) e fa accomodare il frate in una sala appartata, dove
i due potranno parlare.

Temi principali e collegamenti


• L'espressione "signor dottor delle cause perse", con cui Renzo indica
sarcasticamente l'Azzecca-garbugli, è diventata proverbiale a
designare un avvocato modesto e di scarso valore.
• Il palazzotto di Don Rodrigo e correlazione con lui.
• E’ stato presente come un’incombente realtà nemica sin dai primi
capitoli, intorno a questo personaggio si è creata un’attesa; ma no
descrizione aspetto o carattere o vita. Vivacemente messo in
evidenza palazzotto e paesaggio. Condizione tenebrosa vs contro
quella di Pescarenico, non ha nulla in comune con la gente della
campagna, spira un senso di violenza di cui viene descritto la facciata
. In questo ambiente c’è già tutto della psicologia di Don Rodrigo.
Lo spazio che lo circonda è abitato da contadini bravi e al servizio
del potente, donne= facce maschie, vecchi= grugni, ragazzi=cattivi,
avvoltoi inchiodati alla porta=romanzo gotico, quindi alterazione costumi
e mescolanza e confusione. Porta e inferriata è spia della chiusura e
dell’isolamento. L’interno presenta caratteristiche infernali.
• Tre nuclei: dialogo tra Cristoforo e Renzo che vorrebbe farsi giustizia da
solo 2)palazzotto don rodrigo=topos 3)discussione alla tavola che pone
in luce i caratteri di fondo dei ps di autorità e la diversa mentalità di Fra
Cristoforo.
• La discussione alla tavolata vede contrapposto il podestà preposto ad
amministrare la giustizia e il come attilio per il podestà conta il
formalismo giuridico per Don attilio conta il potere nobiliare e la legge
della violenza, di Don rodrigo non si può dire che sia privo di una
moralità o una coscienza del male che sta per commettere. Don rodrigo è
neutrale mentre azzecca dà ragione a tutti; A. e il podestà hanno in
comune il rispetto per le forme e apparenze.
• Problemi della politica data dalla guerra di secessione di Mantova e
Monferrato, viene introdotto da Don Rodrigo A. e il podestà dicono la
loro podestà esibisce l’amicizia con il castellano spagnolo A. esibisce le
conoscenze milanesi, la presunzione non cancella la totale ignoranza in
materia per cui Wallenstein viene più volte storpiato dal podestà.
• Alla fine Don rodrigo offre un brindisi che dà spunto per la carestia.

CAPITOLO 6
Colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo
Don Rodrigo, appartatosi con padre Cristoforo in una sala del palazzo,
invita il frate a parlare con modi in apparenza ossequiosi, ma che
nascondono una certa impazienza. Il cappuccino sgrana il rosario che tiene
alla cintola e, soffocando la propria indignazione per il nobile, lo informa
del fatto che alcuni bravi hanno fatto il suo nome per minacciare un povero
curato e lo prega umilmente di por fine a questa vicenda in nome della sua
coscienza e dell'onore. Don Rodrigo ribatte che il frate gli parlerà della sua
coscienza in confessione, mentre del suo onore è lui l'unico custode: il
frate capisce che il nobile vuole trasformare il discorso in una contesa e
per non irritarlo ulteriormente si affretta a scusarsi e a ribadire la sua
preghiera in favore di due poveri innocenti.
Don Rodrigo reagisce accusando fra Cristoforo di venire a fargli "la spia in
casa", al che il cappuccino trattiene la collera e invoca la potenza di Dio
per indurre il signorotto a recedere dai suoi propositi. Il padrone di casa
ironizza sul fatto che non intende ascoltare una predica e in seguito allude
in modo volgare che al frate sembra "interessare" molto una fanciulla; fa
per andarsene, quando Cristoforo gli si pone davanti, sia pure in modo
rispettoso, e rinnova in nome della misericordia la sua preghiera affinché
don Rodrigo, con una sua parola, faccia cessare la persecuzione di cui la
ragazza in questione è fatta oggetto.

Padre Cristoforo accusa apertamente don Rodrigo


Poiché padre Cristoforo insiste tanto nel voler proteggere questa fanciulla,
don Rodrigo si dichiara disposto ad aiutarla e avanza una proposta al frate:
dovrà consigliare alla ragazza di venire a mettersi sotto la "protezione" del
signorotto, cosicché nessuno oserà più importunarla. A questa incredibile
affermazione, il frate perde le staffe e inizia ad accusare apertamente il
nobile, puntandogli contro l'indice della mano sinistra con tono risentito e
dichiarando di non aver più alcun timore del suo interlocutore. Questi è
quasi attonito per il contegno del frate, il quale prosegue affermando che
Lucia è sotto la protezione di Dio e don Rodrigo non potrà farle del male a
Suo dispetto, in quanto la punizione divina non ha certo riguardo per il suo
palazzo o i suoi bravi. Padre Cristoforo inizia una minacciosa profezia
dicendo "Verrà un giorno...", ma a quel punto don Rodrigo gli afferra il
braccio puntato contro di lui e lo apostrofa con parole villane, rinfacciando
al frate le sue origini non nobili e intimandogli di uscire subito dalla sua
casa, se non vuole ricevere una bastonatura per l'insolenza dimostrata. Il
frate ascolta a capo chino e atteggiamento umile gli insulti del signorotto,
quindi esce dalla porta che gli viene mostrata dal padrone di casa e si
accinge a lasciare l'edificio.

Il vecchio servitore parla con padre Cristoforo


Il frate benedice il servitore (ediz. 1840)
Mentre esce dalla stanza, padre Cristoforo vede un uomo che striscia lungo
la parete e sembra non voglia rivelare la sua presenza: è il vecchio
servitore che l'aveva ricevuto al palazzo e che vive lì dai tempi del padre di
don Rodrigo, il quale era stato uomo ben diverso da lui. Dopo la sua morte
il nuovo padrone aveva licenziato la vecchia servitù, ma aveva trattenuto
costui per la sua alta opinione della famiglia e la conoscenza del
cerimoniale, anche se l'uomo disapprova la condotta di Rodrigo e, pur non
facendone parola in sua presenza, manifesta talvolta il suo sdegno con gli
altri servi più giovani che per questo lo deridono. Il servo fa cenno al frate
di tacere, quindi lo accompagna in un angolo appartato e gli rivela di
sapere qualcosa di importante, che intende riferirgli l'indomani al convento
dopo averne saputo maggiori dettagli. Padre Cristoforo ringrazia l'uomo e
lo benedice, quindi se ne va non prima di aver fatto promettere al servo di
venire l'indomani a Pescarenico.
L'autore aggiunge alcune osservazioni ironiche circa il fatto che il servo
non si è comportato bene origliando i discorsi del padrone, anche se a
questa regola ci sono alcune eccezioni, per cui il lettore è invitato a
riflettere su questo aspetto. Padre Cristoforo esce dal palazzo di don
Rodrigo, lieto in cuor suo per quell'aiuto inaspettato e convinto che ciò sia
un segno della Provvidenza divina; si avvede che il sole sta ormai
tramontando, quindi si affretta a tornare in paese per parlare con i suoi
protetti e poter quindi rientrare al convento prima di notte, come prescrive
la severa regola dei cappuccini.

Agnese propone il "matrimonio a sorpresa"


Intanto, a casa di Agnese e Lucia le due donne si stanno consultando con
Renzo e a un certo punto la madre della giovane propone una sua idea che,
secondo lei, risolverà l'impiccio più presto e meglio di quanto non
saprebbe fare padre Cristoforo, a patto di usare coraggio e destrezza.
Renzo è subito interessato e quando Agnese gli ricorda che, se lui e Lucia
fossero sposati, tutto sarebbe risolto, il giovane ribatte che spesso suo
cugino Bortolo lo ha invitato a trasferirsi nel Bergamasco dove i filatori di
seta sono molto richiesti, cosa che lui non ha mai fatto per via di Lucia.
Agnese allora spiega che per celebrare un matrimonio è necessaria la
presenza del curato, ma non il suo consenso: è sufficiente che i due
promessi pronuncino i voti di fronte a lui e a due testimoni e il gioco è
fatto, a patto naturalmente di cogliere il curato senza dargli il tempo di
scappare. Lucia è perplessa e anche Renzo è incredulo, ma Agnese
ribadisce che le cose stanno proprio così e ai dubbi della figlia, che si
chiede perché non sia venuto in mente a padre Cristoforo, la madre ribatte
che si tratta di un sotterfugio non propriamente cristallino, ma non per
questo meno valido legalmente. Renzo accoglie la proposta con
entusiasmo e quando Agnese gli ricorda la necessità di trovare due
testimoni fidati, il giovane batte il pugno sul tavolo e afferma di aver avuto
un'idea, esponendo il suo piano alle due donne. Lucia tenta debolmente di
opporsi, ma Agnese la zittisce e Renzo esce di casa, deciso a realizzare il
suo progetto.

Renzo va a casa di Tonio


Renzo ha escogitato un piano molto astuto e si reca a casa di un suo amico
di nome Tonio, trovandolo in cucina intento a mescolare in un paiolo sul
focolare una polenta scura, di grano saraceno di poco prezzo. A tavola
siedono la madre di Tonio, suo fratello Gervaso, la moglie e i figli, i quali
sono accanto al padre e fissano la polenta affamati, consapevoli che la cena
sarà scarsa e che di sicuro non sazieranno il loro appetito (siamo infatti in
tempo di carestia). Renzo saluta tutti mentre il padrone di casa scodella la
polenta sul tagliere e le donne invitano cortesemente Renzo a mangiar con
loro, nonostante la tavola non offra molto visti i tempi di scarsità. Il
giovane declina l'invito e dice di voler parlare a Tonio da solo a solo, per
cui rivolge a sua volta all'amico l'invito a cenare con lui all'osteria. La
proposta è subito accettata dal padrone di casa, riuscendo gradita anche
agli altri che, in questo modo, avranno più cibo a loro disposizione.

Renzo va all'osteria con Tonio e gli chiede il suo aiuto


Renzo e Tonio vanno dunque all'osteria del paese, poco frequentata visti i
tempi di carestia, e dopo una cena frugale Renzo chiede all'amico se vuol
fargli un favore, al che l'altro si dice pronto a qualunque cosa. Renzo
ricorda a Tonio che quest'ultimo ha un debito di venticinque lire con don
Abbondio, dicendosi pronto a pagarlo al suo posto se gli renderà un certo
servizio; Tonio ne sarebbe ben felice, dal momento che il curato lo
tormenta con continue e pressanti richieste di saldare il debito, (in tal
modo potrà riscattare la collana d'oro della moglie data a garanzia), quindi
Renzo inizia a spiegargli tutto non prima di avergli fatto cenno di
mantenere il più assoluto riserbo. Il giovane espone lo stratagemma del
"matrimonio a sorpresa" e chiede a Tonio di fargli da testimone, cosa che
l'amico accetta di buon grado proponendo poi il fratello Gervaso, uomo
semplice e non troppo intelligente, come secondo testimone. Renzo accetta
e promette di pagare da bere e da mangiare al fratello di Tonio, quindi i
due si danno appuntamento per la sera dopo; Renzo rinnova le sue
richieste di mantenere il segreto e Tonio afferma che non ne parlerà
neppure alla moglie, con la quale è già in debito di parecchie bugie. I due
escono dall'osteria dopo essersi salutati, quindi Tonio torna a casa propria
e Renzo a quella di Agnese e Lucia.

Renzo torna da Agnese e Lucia. Arriva padre Cristoforo


Renzo torna trionfante da Agnese e Lucia, spiegando di essersi accordato
con Tonio e prendendo poi con Agnese i concerti necessari per la sera
dopo, non badando troppo a Lucia che continua a mostrarsi titubante in
proposito. Agnese ricorda a Renzo che bisognerà pensare a Perpetua,
giacché la domestica del curato non farà certo entrare i due promessi in
casa del suo padrone, ma la donna ha già pensato a come distrarla
toccando un certo tasto che lei sa essere molto sensibile. Resta tuttavia da
convincere Lucia, la quale continua a opporsi a quello che considera un
sotterfugio: Renzo cerca di persuaderla, ma la giovane continua a dire che
sarebbe meglio confidare nell'aiuto di Dio e che non sarebbe buona cosa
tacere tutto al padre Cristoforo. Mentre i tre stanno discutendo, si sentono
alcuni passi di sandali e lo stropicciare di un saio, per cui capiscono che sta
arrivando proprio il frate: Agnese va ad accoglierlo, non prima di aver
intimato a Lucia di non fare parola di quanto hanno progettato.

Temi principali e collegamenti

• Secondo la lettura di un critico sullo sfondo del colloquio di fra crisi


e Don rodrigo risuona nella memoria di Manzoni anche l’eco del
dialogo fra don Giovanni la statua del commendatore da lui invitata
cinicamente a casa. Don Giovanni si presenta mentre pranzava come
Don Rodrigo, la Statua vuole indurlo al pentimento ma invano, su
questa scena si chiude l’opera di Mozart che manzoni conosceva e
amava tanto da citarla in un passo del FL.
• Diventa perturbante tutto ciò che è stato negato; lo spavento di Don
Rodrigo dato dalla citazione biblica del frate tratta da un Salmo non è
razionalizzabile. La minaccia avverte nel profondo un terrore vago e
indefinito.
• Ironia Manzoniana: Don abbondio è paragonato a Proteo intento a
liberarsi da coloro che volevano costringerlo a vaticinare; P. è una
divinità marina in grado di cambiare la sua forma. Proteo= persona
inaffidabile che cambia continuamente, ciò distingue il narratore dai
ps poichè la citazione appartiene a un registro colto.
• La provvidenza: da frate che aiuta un vecchio servitore, che risulterà
inutile, Manzoni non crede nella provvidenza, infatti il suo Dio è
nascosto, che non si rivela nella vita ma che si rivela nell’anima
umana sotto forma di turbamento. Provida sventura in Adelchi e 5
Maggio e provvidenza dei promessi sposi che è una presenza
inafferrabile ma reale. La previdenza circola nei PS come sentimento
che hanno i ps deus et machina.
• Cristoforo e Don Rodrigo= come bene al male Cristoforo è l’eroe
positivo che lotta per introdurre i valori cristiano l’altro è negativo.
Vengono messe in risalto due psicologie di anime turbate, in
Cristoforo si contrappongono turbamento e temperanza e di Don
Rodrigo quello tra una moralità nascosta e tracotanza. Il duello si
svolge sia fra di loro che dentro di loro.
• Agnese e Lucia= diversissime, Lucia segue la legge del dover essere
senza cedimenti. Agnese=saggezza popolare, di una vita vissuta.
Manzoni nasconde un sentimento di ironica superiorità, infatti
Gramsci denuncia manzoni che secondo lui adotta un esclusivo
atteggiamento di aristocratico paternalismo nei confronti degli umili,
simile ad Agnese. Linguaggio di Agnese= semplice ed elementare
diverso da quello di Fra Cristoforo

CAPITOLO 7

Padre Cristoforo parla con Renzo e le due donne


Padre Cristoforo riferisce a Renzo, Lucia e Agnese l'infelice esito del suo
colloquio con don Rodrigo, invitando tuttavia a confidare nella
Provvidenza che, afferma, ha già dato segno del suo aiuto. Renzo è in
collera e domanda quali giustificazioni abbia dato il signorotto per il suo
comportamento, al che il frate ribatte che le sue parole hanno poco
significato, poiché il nobile non intende rinunciare alla sua prepotenza e,
del resto, non ha certo ammesso di voler esercitare un sopruso ai danni di
Lucia. Il cappuccino ribadisce quindi di nutrire una debole speranza e
raccomanda a Renzo di venire da lui al convento il giorno dopo (dove
attenderà il servitore di don Rodrigo), o di mandare qualcun altro se il
giovane non potesse, raccomandando di avere pazienza e di attendere
pochi giorni senza compiere colpi di testa. Alla fine il frate se ne va
affrettando il passo per giungere al convento prima di notte, al fine di non
incorrere in qualche penitenza che gli impedisca il giorno seguente di
essere pronto al bisogno.

Renzo convince Lucia a tentare lo stratagemma


Appena il frate è uscito, Lucia afferma che le sue parole devono indurre ad
aver fiducia nell'aiuto divino, anche se Agnese non è molto convinta e
Renzo, fuori di sé dalla rabbia, torna a proferire minacce contro don
Rodrigo. Le due donne tentano di farlo ragionare, ma il giovane (che forse
accentua la sua reazione per indurre Lucia a acconsentire allo
stratagemma) non vuol sentire ragioni e si dice determinato ad uccidere il
signorotto, incurante delle conseguenze (forse sarà imprigionato o ucciso,
ma almeno, dice, impedirà a don Rodrigo di mettere le mani sulla sua
promessa sposa). Agnese tenta inutilmente di calmare Renzo e Lucia
piange e lo supplica di rinsavire, poiché lei non si è certo promessa a un
assassino o a un poco di buono: alla fine gli si inginocchia di fronte e, per
placarlo, promette che verrà dal curato per tentare il "matrimonio a
sorpresa", al che finalmente Renzo sembra acquietarsi. Il giovane promette
a sua volta che non farà niente di avventato, dunque (dopo aver preso gli
accordi necessari) Renzo lascia a malincuore la casa delle due donne, le
quali poi trascorrono come lui una notte alquanto agitata e inquieta.

Agnese manda Menico al convento. Il "mendicante" e le altre spie


Il mattino dopo Renzo torna di buon'ora a casa delle due donne, per
definire gli ultimi dettagli in vista dello stratagemma che attueranno la
sera. Agnese chiede a Renzo se andrà al convento da padre Cristoforo, ma
il giovane rifiuta in quanto teme che il cappuccino potrebbe intuire cosa
stanno macchinando, quindi la donna decide di mandare là Menico, un
ragazzo di circa dodici anni imparentato con lei. Agnese va a casa del
ragazzo e gli promette due monete d'argento se andrà a Pescarenico a
sentire cos'ha da dire il frate, per poi tornare da loro a riferirglielo, al che
Menico promette che svolgerà la commissione in modo giudizioso.
Nel resto della mattina avvengono alcuni strani fatti che mettono in
agitazione Lucia e Agnese. Prima un bizzarro mendicante entra a casa loro
per chiedere del pane, non sembrando tuttavia così male in arnese come
sono di solito gli accattoni, e una volta ricevuta l'elemosina si trattiene in
casa con pretesti, guardandosi intorno con occhi curiosi. Nelle ore
successive, sino a mezzogiorno, altri strani figuri passano davanti alla casa
e sembrano guardare in modo altrettanto sospetto, finché quella
processione ha finalmente termine. La cosa è accolta con sollievo dalle due
donne, che pure sentono crescere l'inquietudine per ciò che è successo e
sembrano aver perso quel poco di coraggio che hanno in serbo per lo
stratagemma della sera.

La passeggiata di Don Rodrigo. Colloquio col conte Attilio


L'autore a questo punto interrompe la narrazione e torna al giorno prima, al
momento in cui padre Cristoforo ha lasciato don Rodrigo nel suo palazzo,
intento a percorrere a passi rabbiosi la sala dove si è svolto il colloquio.
Alle pareti sono appesi ritratti di suoi antenati, davanti ai quali il signorotto
si ritrova andando avanti e indietro nella stanza: si tratta di un guerriero
bardato di tutto punto con l'armatura e un volto che ispira terrore ai nemici,
di un magistrato famoso per incutere timore in tribunale e che indossa la
toga e l'ermellino (insegna dei senatori), di una nobildonna temuta dalle
sue cameriere, di un abate temuto dai suoi monaci. La vista di questi
personaggi fa salire in lui la rabbia di essere stato accusato in casa sua da
un misero frate e lo spinge a vendicare l'onore offeso, anche se la profezia
monca di fra Cristoforo gli procura una certa inquietudine. Un servo lo
informa che gli ospiti sono usciti insieme al conte Attilio, quindi don
Rodrigo esce a sua volta per una passeggiata con un ampio seguito di
bravi. Il nobile si dirige verso Lecco e gode al vedere gli artigiani e i
contadini che si inchinano al suo passaggio, come pure gli abitanti più
altolocati di quelle terre, mentre non incontra il castellano spagnolo che
sarebbe l'unico a cui anch'egli farebbe un inchino deferente. Per sgombrare
la mente dai brutti pensieri, don Rodrigo entra in una casa dove è ben
accolto (probabilmente un bordello), quindi torna al palazzo quando è
rientrato anche il conte Attilio.
Durante la cena don Rodrigo è alquanto taciturno e il conte Attilio lo
punzecchia invitandolo a pagare la scommessa, dal momento che gli
sembra evidente che non potrà vincerla. L'altro ribatte che non è ancora
passato il giorno di San Martino, al che Attilio rincara la dose dicendosi
convinto che padre Cristoforo ha addirittura convertito il cugino e
aggiungendo parole di scherno ai danni del signorotto, ma questi tronca la
questione proponendo di raddoppiare la posta della scommessa. Attilio
accetta e rivolge altre domande insistenti a Rodrigo, che tuttavia risponde
in modo elusivo e rimanda al giorno fissato come termine per la
scommessa.

Don Rodrigo ordina al Griso di rapire Lucia


Il giorno dopo don Rodrigo sembra avere scordato le ubbie provocate in
lui dalla profezia di padre Cristoforo ed è ben deciso ad andare fino in
fondo coi suoi sporchi progetti. Fa dunque chiamare a sé il Griso, il temuto
capo dei suoi bravi che, tempo prima, aveva ucciso un uomo in pieno
giorno e si era messo sotto la protezione del signorotto, ponendosi al riparo
da ogni giustizia: ciò gli ha garantito l'impunità e lo ha reso più feroce
esecutore di nuovi delitti, oltre ad aver dimostrato a tutti che don Rodrigo
può farsi beffe delle leggi e della giustizia. Il nobile ordina al Griso di fare
in modo che Lucia la sera stessa sia portata al palazzo, dandogli carta
bianca circa i mezzi e gli uomini da utilizzare e raccomandandogli di non
torcere un solo capello alla ragazza, desiderio che il bravo si impegna a
rispettare. Questi spiega al padrone che la casa di Lucia è in fondo al paese
ed è posta accanto al rudere di un vecchio casolare andato a fuoco, che i
popolani credono abitato dalle streghe e che sarà dunque un ottimo
nascondiglio per i bravi; l'uomo aggiunge altri dettagli al piano che ha in
mente, dopo di che don Rodrigo suggerisce di infliggere una buona
bastonatura a Renzo se capitasse l'occasione, per indurre il giovane a non
fare storie dopo il rapimento di Lucia e a non rivolgersi alla giustizia. Il
Griso promette che tutto andrà a buon fine e il resto della mattinata è speso
in preparativi e sopralluoghi per l'azione serale, quindi il falso mendicante
che si era introdotto in casa delle due donne altri non era che il Griso
travestito e i falsi passanti erano suoi uomini, i quali si erano poi ritirati per
non destare sospetti con la loro presenza.
Il vecchio servitore va al convento

Intanto il vecchio servitore di don Rodrigo che ha promesso il suo aiuto a


padre Cristoforo sta all'erta e riesce a capire cosa stanno macchinando il
Griso e i suoi bravi: decide di mantenere la parola data ed esce con una
scusa dal palazzo del padrone, diretto a Pescarenico per informare il frate
di quanto ha appreso, anche se è già molto tardi e teme che non farà in
tempo a sventare i piani del signorotto. Intanto il Griso e altri bravi
raggiungono una piccola avanguardia che è già stata mandata al casolare
abbandonato, portando una lettiga che servirà per trasportare Lucia,
dopodiché il capo degli sgherri ne manda tre all'osteria del paese
ordinando loro di osservare e spiare cosa accada in paese, mentre lui e gli
altri restano appostati lì in attesa di entrare in azione.

Renzo, Tonio e Gervaso all'osteria


È ormai il tramonto quando Renzo va a casa delle due donne dicendo che
andrà a mangiare un boccone all'osteria con Tonio e Gervaso e
promettendo che tornerà a prenderle per attuare lo stratagemma quando
suonerà l'Avemaria. I tre giungono allora all'osteria e trovano in piedi
sull'uscio uno dei tre bravi mandati lì dal Griso, che non si muove dalla sua
posizione e squadra Renzo con un'occhiata maligna. Il giovane entra senza
rivolgergli la parola, dunque i tre nell'osteria vedono gli altri due bravi
seduti a un tavolo che giocano rumorosamente a morra, uno dei quali
scambia un cenno d'intesa con quello alla porta non appena vede Renzo. Il
giovane è insospettito, tuttavia non dice nulla e ordina la cena all'oste,
dopo essersi seduto a un tavolo.
Renzo chiede poi all'oste informazioni sui tre individui che ha visto, ma
l'uomo risponde in modo evasivo, dicendo che non li conosce e che gli
sembrano uomini onesti, quindi  torna in cucina a prendere delle polpette
senza dare al giovane modo di aggiungere altro. In cucina l'oste è
avvicinato da uno dei bravi, che gli chiede a sua volta informazioni sui tre
nuovi arrivati: l'oste è fin troppo sollecito nel dargli numerosi dettagli sul
loro conto, facendone i nomi e fornendo altre indicazioni, dopodiché torna
a servire le polpette a Renzo e agli altri due. Renzo chiede all'oste come fa
a sapere che quei tre sono uomini onesti e l'uomo spiega che dev'essere
così in quanto pagano il conto e non creano problemi, invitando poi il
giovane a mangiare senza porsi troppe questioni, visto che sta per sposarsi.
L'oste se ne va e l'autore aggiunge considerazioni ironiche circa la sua
condotta con gli avventori della locanda.
Renzo, Tonio e Gervaso escono dall'osteria
Renzo, Tonio e Gervaso cenano in fretta e parlano sottovoce per non dare
nell'occhio, quando a un tratto Gervaso esclama a voce alta che Renzo
deve prender moglie e ha bisogno del loro aiuto, al che il fratello gli intima
di tacere dandogli di gomito. I tre finiscono di cenare ed escono, dopo che
Renzo ha pagato il conto pur avendo mangiato e bevuto meno degli altri, e
giunti in strada il giovane si accorge che due dei tre bravi lo stanno
seguendo e si ferma in attesa delle loro mosse. I due bravi parlano tra loro
e osservano che sarebbe una buona cosa poter dare una solenne bastonata a
Renzo, come suggerito loro dal Griso, tuttavia rinunciano in quanto non è
tarda sera e c'è troppa gente in paese, per cui si ritirano lasciando che i tre
se ne vadano per la loro strada. Nel villaggio gli abitanti si stanno ritirando
dopo la giornata di lavoro e si sente un vociare confuso, mentre nelle case
si accendono i focolari per cucinare delle cene molto misere a causa della
carestia. I tre procedono per il loro cammino e giungono alla casetta di
Lucia e Agnese quando ormai è notte fonda.

Il gruppo giunge alla casa del curato


Lucia è come stordita e pensa preoccupata allo stratagemma che dovranno
attuare, per cui al bussare di Renzo è colta da una tale paura che vorrebbe
quasi tirarsi indietro e mancare alla promessa fatta; tuttavia, quando vede
che tutti sono pronti a muoversi, li segue macchinalmente prendendo il
braccio della madre Agnese.
Il gruppo procede silenzioso nella notte e, anziché attraversare il paese,
compie un giro più lungo per non dare nell'occhio, raggiungendo infine la
casa di don Abbondio. Qui i cinque si dividono, in quanto i due promessi
restano nascosti insieme ad Agnese, mentre Tonio e Gervaso picchiano
all'uscio del curato: si affaccia a una finestra Perpetua, che chiede infuriata
chi disturba a quest'ora, al che Tonio spiega di essere venuto a saldare il
debito di venticinque lire con don Abbondio dal momento che ha ricevuto
dei soldi e che l'indomani mattina potrebbe averli già spesi. Perpetua si
ritira dicendo che andrà a chiedere al curato se lui e il fratello possono
entrare, dunque Agnese rincuora Lucia e si unisce ai due fratelli, per
trattenere in seguito Perpetua con chiacchiere e dare modo alla figlia e a
Renzo di introdursi in casa.
Temi principali e collegamenti

Due complotti contrapposti=per il matrimonio e no matrimonio.


• nelle prime due parti lo scorrimento del tempo corre lo stesso spazio
cronologico. Nella prima parte come è impiegato da Renzo nel
secondo come è trascorso da don Rodrigo; nella terza il tempo è
quello che intercorre tra il calar del sole e i primi momenti della
notte; i fatti riguardanti i due complotti sono narrati in parallelo. I
momenti di snodo sono gestiti con l’analisi o inserti metanarrativi
che giustificano le ellissi.
• Mentre nelle prime due parti il lettore ricostruisce i fatti, nella terza
la fornisce il narratore.
• primo momento(pm 9 novembre): Cristoforo a casa di Lucia, Don
Rodrigo nella galleria. Secondo momento(mattina 10 novembre)
accordi di renzo con Agnese accordi di Don rodrigo con il Griso.
Terzo momento(tramonto 10 novembre) renzo Tonio e Gervaso
all’osteria.
• il cronotopo del castello, riprendendo il palazzotto di Don Rodrigo:
posizione di assoluto isolamento, luogo chiuso e claustrofobia,
dall’arte gotica si dà forma all’incubo e al delirio.
• Rimozione studiata dalla psicoanalisi è quando un soggetto forza la
rimozione di un ricordo traumatico.
• Don Rodrigo rimuove la minaccia di Fra Cristoforo attraverso tre
momenti: 1) il confronto con le immagini degli antenati. 2)la
cerimonia della passeggiata in abito da parata. 3) la visita alla casa
di malaffare, quindi la rimozione è progressiva.
• pausa dedicata all’atmosfera del villaggio: i paesani si apprestano
alla quiete, la fede contadina si esprime nella preghiera, in
un’atmosfera di raccoglimento e di pace; in questa pausa lirica il
villaggio non è più lo stesso, una topografia, ma un ambiente umano
e morale.

CAPITOLO 8
Perpetua informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio e Gervaso
Don Abbondio è seduto in una stanza al primo piano della sua casa, intento
a leggere un libro in cui è nominato il filosofo Carneade, di cui lui non sa
nulla (il curato si diletta a leggere e un sacerdote suo vicino gli presta ogni
tanto dei libri scelti a caso); quest'opera è un panegirico scritto in onore di
S. Carlo Borromeo, in cui quest'ultimo è paragonato ad Archimede e al
filosofo del II sec. a.C. Perpetua entra ad annunciare la visita di Tonio e
Gervaso, al che don Abbondio si lamenta dell'ora tarda ma poi accetta di
riceverli, ansioso di riavere indietro i suoi soldi. Il curato chiede alla sua
domestica se si sia accertata dell'identità di Tonio, domanda a cui la donna
risponde in modo alquanto stizzito, quindi Perpetua scende di sotto per
fare entrare i due uomini.

Agnese "distrae" Perpetua


Perpetua raggiunge Tonio e Gervaso, trovando anche Agnese che la saluta:
la domestica chiede alla donna da dove viene e Agnese nomina un paesetto
vicino, aggiungendo che lì ha sentito dei discorsi che possono interessare
Perpetua. La domestica invita i due uomini a entrare, mentre Agnese dice
che secondo alcuni pettegolezzi Perpetua in gioventù non avrebbe sposato
due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna) perché non
l'avevano voluta, al che la donna reagisce stizzita affermando che nulla di
tutto ciò è vero e chiedendo a gran voce chi sia la fonte di simili
menzogne. Agnese finge di voler sapere altri particolari, quindi inizia a
parlare con Perpetua e si allontana dalla casa del curato, addentrandosi in
una viuzza che svolta dietro l'abitazione e da dove non si può vedere
l'uscio. Quando le due donne sono abbastanza lontane, Agnese tossisce
forte e questo segnale fa capire a Renzo e Lucia che è il momento di
entrare in casa: i due promessi si avvicinano con cautela, entrano
nell'andito dove li attendono Tonio e Gervaso, quindi i quattro salgono le
scale con passi silenziosi, badando a non fare rumore per non mettere in
allarme don Abbondio. Quando sono giunti al primo piano, i due promessi
si stringono al muro per non farsi vedere, mentre i due fratelli si affacciano
all'uscio della stanza dove si trova il curato e Tonio lo saluta con voce
ferma, dicendo Deo gratias.
Tonio parla con don Abbondio

Don Abbondio invita i due fratelli ad entrare, al che Tonio e Gervaso


fanno il loro ingresso aprendo la porta e illuminando in parte il
pianerottolo (dove Lucia è nascosta e trasalisce all'idea di essere scoperta),
per poi richiuderla lasciando i due promessi nel buio. Il curato è seduto al
suo scrittoio, alla luce di un debole lume che rischiara la sua faccia bruna e
rugosa, i suoi capelli bianchi, i folti baffi e il pizzo, nonché la papalina che
porta in testa. Egli saluta i due nuovi arrivati, mentre Tonio si scusa per
l'ora tarda e riceve i rimproveri del curato, sia perché è da tempo che deve
pagare il debito, sia perché il sacerdote si dice ammalato (in realtà don
Abbondio è più guarito dalla febbre di quanto non voglia far credere). Il
curato chiede a Tonio perché abbia portato anche il fratello, al che l'uomo
risponde che voleva compagnia e poi consegna a don Abbondio
venticinque berlinghe nuove di zecca, a pagamento del suo debito. Il
religioso conta le monete e le controlla, quindi Tonio chiede indietro la
collana della moglie Tecla data a garanzia del prestito e don Abbondio la
estrae da un armadio; in seguito Tonio esige una ricevuta e il curato, sia
pur brontolando un poco, si accinge a scriverla su un foglio di carta con
penna e calamaio, ripetendo a voce alta le parole. In quel momento Tonio
e Gervaso si mettono davanti allo scrittoio, coprendo la vista dell'uscio, e
iniziano a sfregare i piedi sul pavimento, per segnalare ai due promessi che
è il momento di entrare. Don Abbondio, tutto preso dalla stesura del
documento, prosegue senza rendersi conto di nulla.

Il "matrimonio a sorpresa" fallisce


Renzo afferra Lucia per un braccio e la conduce con sé, entrando con lei
nella stanza: i due avanzano silenziosi, mettendosi dietro Tonio e Gervaso
che stanno proprio davanti a don Abbondio e gli impediscono di vedere i
due promessi. Il curato ha intanto finito di scrivere la ricevuta, quindi la
rilegge senza alzare gli occhi dal foglio e, toltisi gli occhiali, porge la carta
a Tonio chiedendo se è soddisfatto. Tonio allunga la mano per prendere il
documento e si ritira da un lato, facendo cenno al fratello di fare la stessa
cosa, per cui i due fanno comparire Renzo e Lucia che si parano subito di
fronte a don Abbondio: nel breve tempo che questi, spaventato, pensa al da
farsi, Renzo è lesto a pronunciare la formula del "matrimonio a sorpresa"
("Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia moglie"), ma
Lucia non fa in tempo a dire "e questo..." che il curato, con rapida mossa,
ha lasciato cadere la carta, ha afferrato con la mano sinistra il lume e con la
destra il tappeto che copre lo scrittoio, gettando il panno in testa alla
giovane che non può dire altro. In seguito il curato lascia cadere il lume a
terra e preme con le mani il tappeto su Lucia, per impedirle di parlare,
mentre con quanto fiato in gola chiama Perpetua in soccorso; il lume si
spegne sul pavimento, per cui la stanza sprofonda nella più totale oscurità.

Il sagrestano Ambrogio suona le campane


Don Abbondio è lesto a chiudersi dentro una stanza interna, continuando a
chiamare Perpetua in aiuto, mentre Renzo cerca a tastoni la porta e dice al
curato di non fare schiamazzi, Tonio cerca carponi sul pavimento la sua
ricevuta, Lucia prega Renzo di andar via e il povero Gervaso saltella qua e
là come un invasato, cercando l'uscita. Manzoni fa alcune osservazioni
ironiche sul fatto che Renzo sembra esercitare un sopruso sul curato,
mentre in realtà è lui la vittima, e don Abbondio sembra essere un
oppresso, mentre è lui a fare una prepotenza ai due promessi (così
andavano le cose nel XVII secolo, il che sottintende che vanno spesso allo
stesso modo nel XIX). Il curato si affaccia da una finestra della casa che dà
sulla piazza della chiesa, illuminata quasi a giorno dal chiaro di luna,
gridando aiuto a gran voce e facendosi udire dal sagrestano Ambrogio, che
dorme in uno stanzino sul muro laterale della chiesa. Questi apre una
piccola finestra e chiede al curato cosa succede, al che don Abbondio
risponde che c'è "gente in casa": Ambrogio corre al campanile e inizia a
suonare le campane a martello, per richiamare quanta più gente possibile e
dare così aiuto al padrone. Tutti nel paese sono svegliati dai rintocchi e
molti abitanti afferrano forconi e schioppi, precipitandosi verso la chiesa
da cui provengono i rintocchi.

Il Griso e i bravi penetrano nella casa delle due donne


I rintocchi vengono uditi da Agnese e Perpetua, ma anche dai bravi che
sono impegnati in ben altre faccende: l'autore fa un passo indietro e spiega
che i tre che stavano all'osteria si ritirano a tarda ora e fanno un giro per il
paese, accertandosi che tutti siano andati a dormire, quindi raggiungono il
Griso e gli altri appostati presso il casolare abbandonato. Il capo dei bravi
indossa un cappellaccio e un mantello da pellegrino, impugna un bastone e
si muove seguito dagli altri, avvicinandosi alla casa delle due donne dalla
parte opposta a quella da cui si erano allontanati Renzo e tutti gli altri.
Giunto all'uscio di strada, il Griso ordina a due sgherri di calarsi oltre il
muro di cinta e nascondersi dietro un fico nel cortile, mentre lui bussa per
fingersi un pellegrino smarrito che chiede ricovero per la notte. Poiché non
riceve risposta, fa entrare un terzo bravo che sconficca il paletto e apre
l'uscio, quindi il Griso raggiunge l'uscio della casa bussando ancora e,
ovviamente, non ricevendo alcuna risposta (intanto gli altri bravi hanno
raggiunto i compagni nascosti). Il Griso sconficca anche questa serratura
ed entra con cautela, chiamando con sé i due bravi nascosti dietro il fico e
facendo luce con una debole lanterna, poi si accerta che al pian terreno non
ci sia nessuno; successivamente sale adagio la scala, accompagnato dal
Grignapoco (un bravo originario di Bergamo che dovrebbe far credere con
la sua parlata che la spedizione venga da quella contrada) e seguito da altri
uomini, giungendo alle stanze del primo piano. Entra cautamente dentro
una di esse, ma trova il letto intatto, così come avviene quando va a
esplorare l'altra stanza; il Griso pensa che qualcuno abbia fatto la spia, non
sapendo spiegarsi l'assenza delle due donne.

L'arrivo di Menico e le campane a martello


Intanto i due bravi rimasti a sentinella dell'uscio di strada sentono dei
piccoli passi frettolosi che si avvicinano: si tratta di Menico, inviato da
padre Cristoforo ad avvisare Lucia e Agnese di scappare per via del
rapimento e di rifugiarsi al convento. Il ragazzo fa per aprire il paletto
della porta ma lo trova sconficcato, per cui entra titubante ed è subito
afferrato per le braccia dai bravi che gli intimano con tono minaccioso di
far silenzio. Menico caccia un urlo, al che un bravo gli mette una mano
sulla bocca e l'altro tira fuori un coltello per spaventarlo, quando
all'improvviso il silenzio della notte è rotto dai rintocchi delle campane a
martello: i due bravi sono decisamente allarmati, per cui lasciano andare
Menico (che si affretta a fuggire via e a dirigersi verso la chiesa) ed
entrano in casa, dove gli altri complici cercano di guadagnare l'uscita in
modo disordinato. Il Griso cerca di tenerli insieme e di calmarli, come il
cane che fa la guardia a un branco di maiali, quindi il gruppo esce dalla
casa in buon ordine e si allontana dal paese (la casa è posta al fondo di
esso).

Menico raggiunge Renzo e gli altri


L'autore torna ad Agnese e Perpetua, che nel frattempo continuano a
parlare con la prima che cerca in ogni modo di trattenere la seconda e di
non farla tornare verso casa, ravvivando di continuo il discorso con nuove
domande (Agnese si rammarica di non aver concertato con Renzo e Lucia
un segnale che indichi il buon esito dello stratagemma). Quando le due
donne sono a poca distanza dalla casa del curato, si sente all'improvviso il
primo grido di don Abbondio che chiama aiuto, al che Agnese finge
indifferenza; cerca di trattenere Perpetua, la quale però riesce a
divincolarsi e si precipita verso l'uscio, avendo capito che sta accadendo
qualcosa. Agnese la segue, mentre si sente l'urlo di Menico e quasi
contemporaneamente inizia lo scampanio, quindi raggiungono l'uscio della
casa da cui escono di corsa Renzo e tutti gli altri. Tonio e Gervaso sono
rapidi ad allontanarsi, quindi Perpetua (che ha riconosciuto i due promessi
non senza sorpresa) entra e sale di corsa le scale. Renzo esorta Agnese e
Lucia a tornare subito a casa, ma in quella sopraggiunge Menico che invita
tutti ad andare al convento di padre Cristoforo, poiché "C'è il diavolo in
casa" (il ragazzo allude ai bravi che hanno tentato di ucciderlo); Renzo
raccoglie l'invito e i quattro si allontanano in fretta, dirigendosi al convento
di Pescarenico tagliando per i campi.

I paesani accorrono alla casa del curato


Intanto un gran numero di abitanti del paese, allarmati dalle campane a
martello, raggiungono la chiesa e chiedono ad Ambrogio cosa stia
succedendo, al che il sagrestano risponde che c'è qualcuno in casa del
curato: gli uomini si dirigono subito là, ma trovano l'uscio intatto e chiuso
e tutto sembra tranquillo e in ordine. Don Abbondio sta ancora litigando
con Perpetua che accusa di averlo lasciato solo nel momento del bisogno,
quando i paesani lo chiamano a gran voce: suo malgrado, il curato deve
affacciarsi da una finestra e tranquillizzare tutti, dicendo che gli intrusi
sono fuggiti e invitando i presenti a tornare a casa. La folla sta per
disperdersi, quando arriva trafelato un uomo che abita vicino alla casa di
Agnese e ha visto i bravi armati nel cortile di questa, nonché un pellegrino
(che, in realtà, era il Griso travestito), per cui esorta il gruppo ad andare
subito là: la folla raggiunge la casa e non tarda ad accorgersi che
l'abitazione è stata violata e le due donne sono scomparse, dunque viene
fatta la proposta di gettarsi all'inseguimento dei rapitori. Alcuni sono
titubanti, quando si sparge la voce che Agnese e Lucia si sono messe in
salvo in una casa vicina e poiché la cosa viene creduta la folla si disperde
rapidamente, senza che quella notte accada nient'altro di significativo. Il
mattino dopo il console del paese riceverà la visita di due bravi che gli
intimeranno di non rendere testimonianza su quanto è avvenuto la sera
prima e di non sollevare scandali, se intende morire di malattia e non di
morte violenta.
Renzo, Lucia e Agnese arrivano al convento
Frattanto Renzo, Agnese e Lucia proseguono la loro fuga insieme a
Menico, finché i quattro raggiungono un campo isolato dove non c'è
nessuno e non si sentono più i lugubri rintocchi delle campane. Renzo
informa Agnese del triste esito dello stratagemma, quindi Menico racconta
dell'avvertimento ricevuto da padre Cristoforo e racconta cosa gli è
successo a casa delle due donne, al che gli altri si guardano l'un l'altro
spaventati e poi accarezzano il ragazzo, per consolarlo del pericolo corso.
Agnese gli dà quattro monete d'argento e Renzo una berlinga, quindi
Menico è invitato a tornare a casa (Renzo gli raccomanda di non dire nulla
di quanto appreso dal frate).
I tre proseguono verso il convento, con Renzo che cammina indietro per
fare la guardia, mentre Lucia, spaventata e turbata da quanto è successo,
cammina appoggiandosi alla madre (questa chiede che ne sarà della loro
casa, ma nessuno risponde). Infine giungono al convento e Renzo ne apre
la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il
laico sagrestano dei cappuccini. Il padre si rallegra che non manchi
nessuno, quindi li fa entrare suscitando le proteste di fra Fazio, che ha da
ridire sulla presenza di due donne nel convento a notte alta: Cristoforo lo
mette a tacere con la frase latina Omnia munda mundis ("tutto è puro per i
puri") e il sagrestano non oppone altre resistenze.

Padre Cristoforo consiglia ai tre di lasciare il paese


Padre Cristoforo spiega ai tre quale avvertimento ha affidato a Menico,
rallegrandosi del fatto che, come egli crede, il ragazzo li abbia trovati
tranquilli nelle loro case: Lucia è turbata all'idea di non rivelare la verità al
frate, ma questa è la "notte degl'imbrogli e de' sotterfugi". Cristoforo
afferma che il paese non è più un posto sicuro per loro e che, per quanto la
cosa sia difficile da accettare, se ne dovranno andare: forse presto potranno
tornare, ma nel frattempo egli provvederà a trovare ai tre un rifugio sicuro
e a soddisfare le loro necessità. Le donne dovranno andare a Monza,
presentando una lettera al padre guardiano del convento dei cappuccini che
penserà a trovar loro una sistemazione. Renzo invece andrà a Milano, dove
presenterà a sua volta una lettera a padre Bonaventura da Lodi, al convento
di Porta Orientale, il quale gli troverà un lavoro in attesa di tempi migliori.
Il frate invita i tre a raggiungere la riva del lago, nei pressi dello sbocco del
torrente Bione, dove troveranno un barcaiolo al quale dovranno rivolgersi
con un segnale convenuto (essi diranno "barca" e alla domanda "per chi?",
risponderanno "San Francesco"); questi li trasporterà alla riva opposta,
dove un calesse li porterà sino a Monza. Renzo e Agnese consegnano al
frate le chiavi delle rispettive case, perché qualcuno badi a custodirle in
loro assenza, quindi il frate rivolge una preghiera a Dio perché vegli sui tre
fuggitivi e, al contempo, illumini con la sua grazia don Rodrigo che cerca
solo di compiere il male. A questo punto i tre si congedano da padre
Cristoforo, che si dice certo che si rivedranno presto, quindi raggiungono
in fretta la barca nel luogo indicato.

L'addio di Lucia al paese natio


Renzo, Agnese e Lucia trovano subito il barcaiolo e questi, dopo i segnali
convenuti, li fa salire sull'imbarcazione e si stacca dalla proda, iniziando a
remare verso la riva opposta. Non tira un alito di vento e la superficie del
lago è immobile, illuminata dal chiarore lunare; si sente solo il debole
rumore della risacca sulle rive e dell'acqua che si infrange contro i piloni
del ponte. I tre sono silenziosi e guardano il paesaggio, in cui si distingue il
profilo delle montagne, il paese, il palazzotto di don Rodrigo che domina
tutto dall'alto e assume un aspetto feroce, sinistro. Lucia vede da lontano la
sua casa ed è presa da una grande commozione, piangendo segretamente:
la giovane dice addio ai monti, il cui aspetto le è familiare come quello
delle persone care, ai torrenti, il cui suono le è noto come la voce di chi
ama, alle case che biancheggiano qua e là sul pendio. Colui che si
allontana volontariamente dal paese natio, per fare fortuna altrove, parte a
malincuore e vorrebbe tornare indietro, all'idea di perdersi nelle
tumultuose e caotiche città; Lucia, che parte costretta da una prepotenza,
che pensava di trascorrere in quel luogo tutta la sua vita, dice tristemente
addio alla sua casa, dove Renzo veniva a trovarla, alla casa del promesso
sposo, in cui pensava di entrare - non senza rossore - come sua moglie, alla
chiesa, dove il rito del matrimonio era stato preparato e si sarebbe dovuto
celebrare nella santità del sacramento. Questi sono i pensieri di Lucia,
forse non espressi con queste parole, mentre quelli degli altri due non sono
molto differenti (intanto la barca si avvicina alla riva destra dell'Adda).

TEMI E COLLEGAMENTI PRINCIPALI


• l’organizzazione del capitolo ricalca quella precedente si presentano
nella prima parte i movimenti di Renzo, Agnese e Lucia e nella seconda
con un ritorno all’indietro nel tempo quelli del Griso e dei suoi bravi. Il
gioco delle simmetrie è dato dalla contemporeanea irruzione nelle due
diverse case dell’alternarsi di spazi aperti e chiusi ecc… Gli elementi
comici umoristici e ironici del capitolo non sottolineano solo una
pantomima ridicola di gesti falliti ma illuminano l’impotenza umana e il
carattere paradossale dell’esistenza.
• La folla si comporta in modo ingenuo e istintivo è attraversata da
sentimenti contrapposti e finisce per obbedire alle esigenze egoistiche e
opportunistiche. Emerge il pessimismo Manzoniano circa la natura
umana in cui spontaneamente tendono a prevalere gli aspetti egoistici e
opportunistici.
• L’addio ai monti. la conclusione del romanzo ha la stessa funzione dei
cori nelle tragedie: è il cantuccio che l’autore si riserva per esprimere il
proprio sentimento lirico e morale. Mentre nel FL il commento lirico era
riservato unicamente all’autore che interveniva anche con pesanti
considerazioni morali nell’edizione finale queste ultime vengono ridotte
e il punto di vista è dichiaratamente quello di Lucia, seppur rielaborato.
Bisgna notare infine che le pagine finali non hanno solo funzione lirica
ne hanno una anche compositiva e strutturale. Esse segnano l’addio al
primo nucleo narrativo, finisce ora il romanzo paesino e comincia un
altro dove i promessi sono separati.

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