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Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra due catene

montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume, specie nel punto dove le due
rive sono unite dal ponte di
Lecco. Poco più a valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S. Martino
e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli, mentre tutt'intorno vi sono vigne
e campi coltivati. Lecco è la città principale di questa regione ed è sede, al tempo della
vicenda narrata, di un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a
molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non depredano i raccolti della
vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così come tra le varie colline, si snodano strade
che talvolta scendono fra due muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni,
consentendo a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si
ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto mostrano il profilo variabile
delle cime dei monti che tempera e raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura.

Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata
don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui nome non è citato dall'anonimo, così
come non è specificato il casato del personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare
svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in
quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada.
Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un
tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: qui, con sua grande
sorpresa, vede due uomini che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul
muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi indossano una
reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme ciuffo che cade loro sul volto; portano
lunghi baffi arricciati all'insù e due pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per
la polvere da sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni, con
una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li riconosce immediatamente
come individui appartenenti alla specie dei bravi.

Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal
governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi
che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze,
intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso
funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti
quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore
fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23
maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi,
ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato
5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi
tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era
forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la
Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e
1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei
fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c'erano ancora
molti bravi in Lombardia.

Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal
momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si
guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia
mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere;
non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due figuri, atteggiando il volto a
un sorriso rassicurante.
Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di celebrare l'indomani il
matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che
i due promessi hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario
comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e
don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco convincenti, finché l'altro figuro interviene
con parole ingiuriose e minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il
curato eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don Abbondio di
terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine impartito e
intima al religioso di mantenere il segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno
rappresaglie.
Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don Rodrigo, quindi i due
bravi se ne vanno cantando una canzone volgare, mentre il curato vorrebbe proseguire il
colloquio entrando in improbabili trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto
don Abbondio prende la strada che conduce alla sua abitazione.

Il curato, evidentemente, non è un uomo molto coraggioso e questa è una misera condizione
in tempi come quelli in cui gli tocca vivere, in cui la legge e la giustizia non offrono alcuna
protezione contro i soprusi. Le leggi non mancano e sono anzi sovrabbondanti, ma non
vengono praticamente mai applicate e l'impunità è profondamente radicata nella società: i
malfattori trovano asilo nei conventi, sono protetti dai loro padroni e dai privilegi nobiliari,
cosicché le gride minacciano pene che non trovano esecuzione e i delitti si moltiplicano. Gli
uomini chiamati a far rispettare le leggi sono impotenti, pavidi o spesso conniventi con i
criminali che dovrebbero contrastare, per cui accade non di rado che siano gli uomini onesti e
tranquilli ad essere perseguitati dalla giustizia.
Alcuni si riuniscono in leghe, associazioni e corporazioni, per scopi leciti o illeciti, ma queste
non hanno sempre un grande potere e, specie nelle campagne, un signorotto circondato da
una masnada di bravi senza scrupoli può esercitare un dominio quasi tirannico sul paese.
Don Abbondio non è ricco, né nobile, né coraggioso, quindi ha accettato volentieri in gioventù
di diventare prete come volevano i suoi genitori, non per sincera vocazione ma per entrare in
una classe agiata e dotata di alcuni privilegi. Non prende mai parte alle contese e, se costretto
a prendere posizione, si schiera sempre col più forte; deve ingoiare molti bocconi amari e a
volte sfoga il suo malanimo contro gli individui più deboli da cui non ha nulla da temere,
criticando sempre aspramente quei religiosi che si battono contro le ingiustizie e le vessazioni.
L'incontro coi bravi lo ha sconvolto e ora, mentre torna a casa, pensa come uscire d'impiccio:
dovrà dare spiegazioni a Renzo, che sa essere una testa calda, e tra sé inveisce contro lui e
Lucia che, a suo dire, hanno il torto di volersi sposare e di metterlo nei pasticci. È irritato anche
contro don Rodrigo, che conosce solo di vista e che ha spesso difeso e definito un nobile
cavaliere, ma contro il quale ora in cuor suo emette giudizi assai meno lusinghieri. Mentre è
immerso nei suoi pensieri, il curato giunge alla sua casa in fondo al paese ed entra
richiudendo subito la porta.

Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce essendo rimasta zitella
e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a sua volta subisce i suoi.
Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in salotto e Perpetua capisce subito che è
sconvolto: gli chiede spiegazioni, ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva
gli dà non senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così alla fine
il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi con qualcuno; Perpetua
inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo, quindi suggerisce al padrone di informare di
tutto con una lettera il cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a
difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta l'idea adducendo il timore
di ricevere una schioppettata nella schiena, benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso
minacciano a vuoto e rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su
di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire ragioni, quindi
decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il lume e sale le scale, poi, prima di
entrare nella sua stanza, si volta verso Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire
parola dell'accaduto.
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi trascorse una notte di
placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una piena di pensieri e tormenti,
nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia.
Il curato esamina alcune possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude
anche di dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese.
Alla fine decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto,
confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui non si possono
celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato un periodo di respiro. Don
Abbondio si rende conto che Renzo è innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di
rimetterci la pelle, pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno,
anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo, da fughe e
inseguimenti.

Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi circa l'ora in cui lui e
Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane di vent'anni, rimasto orfano
dall'adolescenza, che ora esercita la professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione
del mercato, Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla scarsità di
operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di lavoro.
Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non è impegnato come
filatore, per cui la sua condizione economica si può dire discretamente agiata (specie perché
egli amministra le sue sostanze con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia).
Si presenta dal curato vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il
manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un'aria un po'
spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo
con fare un po' reticente, il che insospettisce subito Renzo.

Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa, ma il curato
finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa parla: il giovane gli ricorda delle nozze e
don Abbondio ribatte che non può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi
impedimenti burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che avrebbe
dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta ai due promessi di sposarsi,
mentre per il suo buon cuore ha affrettato le pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere
conto e, per confondere le idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il
giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato ribadisce che si tratta di
rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La
reazione del giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno
una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio e a gettare la
colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto
delle ragioni esposte dal curato). Alla fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà
una settimana e non un giorno di più per sposarsi con Lucia.

Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al colloquio appena
avuto col curato e si convince sempre di più che le ragioni accampate da don Abbondio
suonano strane e incomprensibili. Sta quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni,
quando vede Perpetua che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le si
avvicina.
Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del comportamento del suo padrone,
e Perpetua accenna subito ai segreti del curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo
capisce che c'è qualcosa sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la
domestica si lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un prepotente,
per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori del curato. Perpetua rifiuta di
rispondere ad altre domande ed entra nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza
farsi vedere da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare
alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.

Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che si oppone alle sue
nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di guadagnare la porta, ma il giovane lo
precede e chiude l'uscio, mettendosi la chiave in tasca. In seguito Renzo chiede nuovamente
al curato il nome di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico
del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni, fa finalmente il
nome di don Rodrigo. La reazione di Renzo è furibonda, ma a questo punto don Abbondio
descrive il terribile incontro coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il
giovane di avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa.
Renzo si scusa debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il
segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza promettere
nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua.
La domestica accorre dall'orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve scambio di
battute col padrone che l'accusa di aver parlato e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato
si mette a letto con la febbre e ordina alla donna di sprangare l'uscio e di non aprire a
nessuno, rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.

Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l'accaduto e meditando vendetta
contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane pacifico che non commetterebbe mai
violenze, ma in questo momento fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al
suo palazzotto per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in
quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta di tendergli
un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al confine e mettersi in salvo
riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il pensiero della sua promessa sposa tronca questi
pensieri sanguinosi e lo induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di
aver solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato all'idea di dover
informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo abbia tenuto all'oscuro di qualche
cosa, il che lo riempie di dubbi e di sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e
raggiunge quella di Lucia, che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo
muro, sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e immagina
che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per le nozze.

Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile, chiamandolo a gran voce,
ma il giovane le impone di fare silenzio e le chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire
al pian terreno senza che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che
sta ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce, con spilli
d'argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa (secondo la moda delle
contadine milanesi); al collo porta una collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto
di broccato a fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di
seta. Bettina le si accosta e le dice qualcosa all'orecchio, quindi Lucia si congeda dalle donne
e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice subito cos'è successo e fa il nome di
don Rodrigo, al che la giovane è sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a
conoscenza della cosa, ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne,
mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice alle donne che il
curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato, quindi le sue compagne vanno via
e si spargono per il paese, raccontando a tutti l'accaduto. Alcune vanno alla casa di don
Abbondio per verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla
finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse per non poter
spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.
Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta tra i singhiozzi cosa è
accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla filanda, era rimasta indietro dalle compagne
e aveva incontrato per caso don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il
signorotto l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva affrettato il passo per
raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che diceva all'altro signore "scommettiamo".
Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro, ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi
bassi ed era rimasta in mezzo alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto al
padre Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo di non aver
voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il timore che la donna, alquanto pettegola,
rivelasse la cosa in paese.
Il padre Cristoforo le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei
aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire questo non può evitare di arrossire).
Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don Rodrigo, manifestando propositi bellicosi
che però la giovane sopisce subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone
addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe
infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è da sperare che celebri il matrimonio o li
agevoli in questa decisione.

I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di andare a Lecco, per
rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano Azzecca-garbugli e che la donna descrive
come un uomo alto, magro, pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia.
Agnese raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce di
portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per il banchetto nuziale
della domenica. Il giovane accetta di buon grado e, presi i capponi, si reca subito nella vicina
cittadina di Lecco, camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le
zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura.
Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene accolto dalla serva in
cucina, alla quale consegna i capponi non senza qualche esitazione (il giovane vorrebbe
addirittura darli al dottore in persona).
Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo studio dopo che il giovane si è
prodotto in un profondo inchino.

Lo studio dell'avvocato è una grande stanza, che su tre pareti mostra i ritratti dei dodici Cesari
mentre la quarta è occupata da uno scaffale pieno di libri impolverati; in mezzo c'è un tavolo
con sopra gride e documenti accatastati alla rinfusa, circondato da qualche sedia e dalla
poltrona dell'avvocato, alquanto consunta dall'uso e dal tempo.
Il dottore indossa una toga anch'essa sgualcita dal tempo, che contribuisce a dare all'ambiente
un carattere di trascuratezza e disordine.
L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli domanda, con
qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non celebri un matrimonio può incorrere
in una pena.
L'avvocato cade in un equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto
bene a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo. Dopo un po'
trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla invitando Renzo a seguirlo (il
giovane dice di saper leggere "un pochino"): la grida commina pene assai severe a coloro che
minacciano un curato per non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e
felice che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un malfattore, è
stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi il ciuffo, cosa che ovviamente
Renzo smentisce affermando di non averlo mai portato in vita sua, cioè di non essere un
bravo.
A questo punto l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui, lo
invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà tirarlo fuori dai guai: gli
prospetta poi il modo in cui lo assisterà, ovvero invocando la protezione del signore che lo ha
incaricato di eseguire le minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo
offeso e il curato, facendo cioè capire a Renzo che un abile leguleio è in grado di manipolare
la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai colpevoli e negando alle vittime il
riconoscimento dei propri diritti.

Renzo continua ad ascoltare l'avvocato come inebetito, poi comprende l'equivoco in cui è
caduto l'Azzecca-garbugli e svela finalmente la verità, affermando di non essere un colpevole
ma la vittima, e di non aver minacciato nessuno in quanto è lui la parte lesa nel mancato
matrimonio. Il dottore lo rimprovera per la poca chiarezza, quindi il giovane racconta per
sommi capi la sua vicenda (il fidanzamento con Lucia, le nozze rimandate, il modo in cui ha
fatto confessare il curato...), ma quando fa il nome di don Rodrigo l'avvocato lo interrompe e
inizia a storcere la bocca. L'Azzecca-garbugli non vuole sentire altro da Renzo e lo accusa di
raccontar fandonie, invitandolo ad andarsene subito dalla sua casa: lo caccia via senza sentir
ragioni, ordinando addirittura alla serva di restituirgli i capponi, cosa che la domestica fa
guardando il giovane come se avesse combinato qualche grosso guaio. Renzo tenta ancora di
difendere le sue ragioni, ma l'avvocato è irremovibile e al giovane non resta che andarsene
sconsolato, per tornare al paese dalle due donne.

Nel frattempo Agnese e Lucia, dopo essersi tolto l'abito della festa e aver indossato quello da
lavoro, stanno pensando al da farsi e Lucia vorrebbe avvertire il padre Cristoforo dell'accaduto
per avere da lui consiglio e aiuto, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di
Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il coraggio di
andarci).
In quel momento si sente bussare alla porta e si sente qualcuno dire "Deo gratias", per cui
Lucia corre ad aprire e compare fra Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo
la sua bisaccia per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a
prendere le noci per il convento e la ragazza ubbidisce, non prima però di aver fatto cenno alla
madre, senza farsi vedere dal frate, di non dire una sola parola circa quello che è accaduto
quel giorno.

Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e la donna, memore
dell'ammonimento della figlia, dice che è stato a causa di una malattia del curato.
Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua raccolta e dichiara che come rimedio per la
carestia c'è solo l'elemosina, come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni
prima in un convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento c'era un
padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il proprietario di un noce che
ordinava ai suoi contadini di abbattere la pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva
frutti, al che il cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario.
L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci sarebbe andata al
convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una quantità incredibile di frutti, ma il
proprietario era morto prima di raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era
poi rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un giorno, però, il
giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari, ridendo dei frati, e li aveva condotti in
granaio a vedere le noci: al posto dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la
voce del miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò, perché in seguito
ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri, come normalmente avviene.

Poco dopo ritorna Lucia, che porta nel grembiule tante di quelle noci che la madre le lancia
un'occhiata di rimprovero: fra Galdino riempie la sua bisaccia e ringrazia di cuore, quindi la
giovane lo prega di riferire al padre Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e
che lo faccia venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il messaggio e se
ne va, mentre Lucia è certa che il padre, un frate di grande autorità e di molto prestigio in
quelle contrade, non tarderà a farsi vedere (i frati cappuccini, del resto, godevano a quei tempi
di profondo rispetto come di disprezzo, essendo votati all'umiltà, alla carità, al servizio del
prossimo).
In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina, specie in quell'anno di
carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto che in tal modo fra Galdino tornerà subito al
convento e compirà senz'altro l'ambasciata, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci
se ne scorderebbe di certo.
Agnese approva la sua decisione, quindi sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola
e riferisce l'infelice esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli, lasciando nella costernazione
le due donne (Agnese tenta di dire che il giovane non ha saputo spiegarsi con l'avvocato).
Renzo torna a manifestare oscuri propositi di vendetta, al che le due donne cercano di
calmarlo e Lucia dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno dopo
verrà certamente a visitarle.
È ormai il tramonto e Renzo, sconsolato, lascia la casa della sua promessa continuando a
ripetere "a questo mondo c'è giustizia, finalmente".

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