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PROMESSI SPOSI

Riassunto e contenuto dei capitoli

CAPITOLO I
Inizio del romanzo: i luoghi della vicenda
Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra
due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume,
specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a
valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S.
Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli,
mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città
principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di
un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a
molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non
depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così
come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due
muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo
a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si
ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto
mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e
raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura.

Don Abbondio incontra i bravi


Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa
dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui
nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del
personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando
le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in
quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli
sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla
cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di
anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che
sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e
l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi
indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme
ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due
pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da
sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni,
con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li
riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei
bravi.

I bravi, le gride, la giustizia


Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583,
emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene
severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di
qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a
costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo
stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor
più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere
bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne
ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23
maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che
commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di
gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed
emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi
tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore,
quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il
duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne
aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627,
quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di
anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi
di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia.

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I bravi minacciano don Abbondio
Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno
aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno
d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza
di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di
rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo
genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due
figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante.

Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di


celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi
hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario
comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né
l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco
convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e
minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato
eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don
Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il
bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il
segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie.
Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don
Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare,
mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili
trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio
prende la strada che conduce alla sua abitazione.

Don Abbondio e i "pareri" di Perpetua


Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce
essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii del suo padrone, il quale
a sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in
salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni,
ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non
senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così
alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi
con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo,

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quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il
cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a
difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta
l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena,
benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e
rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su
di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire
ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende
il lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso
Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola
dell'accaduto.

CAPITOLO II
La notte angosciosa di don Abbondio
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi
trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una
piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in
cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune
possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di
dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine
decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto,
confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui
non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il
curato un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è
innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle,
pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno,
anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo,
da fughe e inseguimenti.

Renzo si reca da don Abbondio


Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi
circa l'ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane
di vent'anni, rimasto orfano dall'adolescenza, che ora esercita la
professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato,
Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla

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scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di
lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando
non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può
dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze
con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato
vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il
manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli
conferisce un'aria un po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli
uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che
insospettisce subito Renzo.

Il curato convince Renzo a rimandare le nozze


Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in
chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa
parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non
può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti
burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che
avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta
ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le
pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le
idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il
giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato
ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo,
proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del
giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare
almeno una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato
un suo sbaglio e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il
giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte
dal curato). Alla fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una
settimana e non un giorno di più per sposarsi con Lucia.

Renzo parla con Perpetua


Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al
colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le
ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta
quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede

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Perpetua che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le
si avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del
comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del
curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa
sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si
lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un
prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei
superiori del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed
entra nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere
da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando
con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.

Renzo costringe il curato a parlare


Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente
che si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di
guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l'uscio, mettendosi
la chiave in tasca. In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome di
chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico
del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni,
fa finalmente il nome di don Rodrigo. La reazione di Renzo è furibonda,
ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro coi bravi e
sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di avergli
esercitato una forma di violenza nella sua casa. Renzo si scusa debolmente
e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il segreto per il
bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza
promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua. La
domestica accorre dall'orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve
scambio di battute col padrone che l'accusa di aver parlato e lei che nega
di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la febbre e ordina alla
donna di sprangare l'uscio e di non aprire a nessuno, rispondendo dalla
finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.

Renzo medita di assassinare don Rodrigo


Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l'accaduto e
meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane
pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento

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fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto
per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in
quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta
di tendergli un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre
al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il
pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo
induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver
solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato
all'idea di dover informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo
abbia tenuto all'oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di
sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia,
che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro,
sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano
e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi
per le nozze.

Renzo informa Lucia dell'accaduto


Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile,
chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le
chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza
che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta
ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce,
con spilli d'argento infilati che formano una specie di aureola sopra la
testa (secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una
collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a
fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità , calze rosse e due pianelle
di seta. Bettina le si accosta e le dice qualcosa all'orecchio, quindi Lucia si
congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice
subito cos'è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è
sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa,
ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne,
mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice alle
donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato,
quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese, raccontando
a tutti l'accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per verificare se
sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla

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finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse
per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.

CAPITOLO III
Il racconto di Lucia: la "scommessa" di don Rodrigo
Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta tra
i singhiozzi cosa è accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla
filanda, era rimasta indietro dalle compagne e aveva incontrato per caso
don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il signorotto
l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva affrettato il passo
per raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che diceva all'altro
signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro,
ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era rimasta in mezzo
alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto al padre
Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo
di non aver voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il timore che
la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre Cristoforo
le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei
aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire questo non può
evitare di arrossire). Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don
Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la giovane sopisce
subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone addirittura di
lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe
infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è da sperare che celebri il
matrimonio o li agevoli in questa decisione.

Renzo va dall'Azzecca-garbugli
I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di
andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano
Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro,
pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese
raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli
suggerisce di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto
cucinare per il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di
buon grado e, presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco,

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camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le
zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di
sventura. Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui
viene accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non
senza qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore
in persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo
studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino.

Colloquio tra Renzo e l'avvocato: l'equivoco


Lo studio dell'avvocato è una grande stanza, che su tre pareti mostra i
ritratti dei dodici Cesari mentre la quarta è occupata da uno scaffale pieno
di libri impolverati; in mezzo c'è un tavolo con sopra gride e documenti
accatastati alla rinfusa, circondato da qualche sedia e dalla poltrona
dell'avvocato, alquanto consunta dall'uso e dal tempo. Il dottore indossa
una toga anch'essa sgualcita dal tempo, che contribuisce a dare
all'ambiente un carattere di trascuratezza e disordine.

L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli


domanda, con qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non
celebri un matrimonio può incorrere in una pena. L'avvocato cade in un
equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto bene
a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo.
Dopo un po' trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla
invitando Renzo a seguirlo (il giovane dice di saper leggere "un pochino"):
la grida commina pene assai severe a coloro che minacciano un curato per
non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e felice
che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un
malfattore, è stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi
il ciuffo, cosa che ovviamente Renzo smentisce affermando di non averlo
mai portato in vita sua, cioè di non essere un bravo. A questo punto
l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui,
lo invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà
tirarlo fuori dai guai: gli prospetta poi il modo in cui lo assisterà , ovvero
invocando la protezione del signore che lo ha incaricato di eseguire le
minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo offeso e
il curato, facendo cioè capire a Renzo che un abile leguleio è in grado di

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manipolare la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai
colpevoli e negando alle vittime il riconoscimento dei propri diritti.

Renzo viene cacciato dall'Azzecca-Garbugli


Nel frattempo Agnese e Lucia, dopo essersi tolto l'abito della festa e aver
indossato quello da lavoro, stanno pensando al da farsi e Lucia vorrebbe
avvertire il padre Cristoforo dell'accaduto per avere da lui consiglio e
aiuto, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di
Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il
coraggio di andarci). In quel momento si sente bussare alla porta e si
sente qualcuno dire "Deo gratias", per cui Lucia corre ad aprire e compare
fra Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo la sua bisaccia
per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a
prendere le noci per il convento e la ragazza ubbidisce, non prima però di
aver fatto cenno alla madre, senza farsi vedere dal frate, di non dire una
sola parola circa quello che è accaduto quel giorno.

Fra Galdino racconta il "miracolo delle noci"


Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e
la donna, memore dell'ammonimento della figlia, dice che è stato a causa
di una malattia del curato. Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua
raccolta e dichiara che come rimedio per la carestia c'è solo l'elemosina,
come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni prima in un
convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento
c'era un padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il
proprietario di un noce che ordinava ai suoi contadini di abbattere la
pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva frutti, al che il
cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario.
L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci
sarebbe andata al convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una
quantità incredibile di frutti, ma il proprietario era morto prima di
raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era poi
rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un
giorno, però , il giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari,
ridendo dei frati, e li aveva condotti in granaio a vedere le noci: al posto
dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la voce del

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miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò , perché in
seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri,
come normalmente avviene.

Lucia chiede al frate di chiamare padre Cristoforo. Ritorno di Renzo


Poco dopo ritorna Lucia, che porta nel grembiule tante di quelle noci che
la madre le lancia un'occhiata di rimprovero: fra Galdino riempie la sua
bisaccia e ringrazia di cuore, quindi la giovane lo prega di riferire al padre
Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e che lo faccia
venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il
messaggio e se ne va, mentre Lucia è certa che il padre, un frate di grande
autorità e di molto prestigio in quelle contrade, non tarderà a farsi vedere
(i frati cappuccini, del resto, godevano a quei tempi di profondo rispetto
come di disprezzo, essendo votati all'umiltà , alla carità , al servizio del
prossimo).

In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina,


specie in quell'anno di carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto
che in tal modo fra Galdino tornerà subito al convento e compirà
senz'altro l'ambasciata, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci
se ne scorderebbe di certo. Agnese approva la sua decisione, quindi
sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola e riferisce l'infelice
esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli, lasciando nella
costernazione le due donne (Agnese tenta di dire che il giovane non ha
saputo spiegarsi con l'avvocato). Renzo torna a manifestare oscuri
propositi di vendetta, al che le due donne cercano di calmarlo e Lucia
dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno
dopo verrà certamente a visitarle. È ormai il tramonto e Renzo,
sconsolato, lascia la casa della sua promessa continuando a ripetere "a
questo mondo c'è giustizia, finalmente".

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CAPITOLO IV
Padre Cristoforo lascia il convento
Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico
(un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e
abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Il
cielo è sereno e il sole illumina il paesaggio, in cui si vedono le foglie di
gelso che cadono a terra e quelle della vite ancora rosseggianti, mentre nei
campi biancheggiano le stoppie dopo la mietitura. Lo spettacolo sembra
lieto, ma in realtà è rattristato dalla presenza di mendicanti lungo la
strada che riveriscono il frate, mentre i contadini spargono i semi nei
campi con parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, e una
ragazza conduce al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che
possono nutrire la sua famiglia (tutto ciò rammenta che è periodo di
carestia). Ma per quale motivo il frate cappuccino ha risposto con tanta
sollecitudine alla chiamata di Agnese e Lucia? E, soprattutto, chi è padre
Cristoforo? Si tratta di un uomo di circa sessant'anni, che conserva ancora
un atteggiamento fiero e inquieto nonostante l'abitudine all'umiltà ; ha una
lunga barba bianca che incornicia un volto scavato dall'astinenza, che per
questo ha acquistato gravità , con due occhi che spesso sono chinati a terra
ma talvolta si levano con improvvisa vivacità , simili a due cavalli domati
dal cocchiere che, a volte, non rinunciano a tentare di ribellarsi ai suoi
comandi.

Il passato di Cristoforo: Lodovico


L'autore apre a questo punto un ampio flashback in cui racconta il passato
di padre Cristoforo, che prima di diventare frate si chiamava Lodovico (il
nome della città in cui è nato non viene menzionato). Lodovico è figlio di
un ricco mercante, che alla fine della sua vita lascia gli affari e inizia a
vivere come un nobile, vergognandosi delle proprie origini che tenta in
ogni modo di celare: al punto che un giorno, durante un banchetto, un
commensale dice senza malizia che fa "orecchio da mercante", il che è
sufficiente a fare incupire il padrone di casa e a spegnere l'allegria della
brigata (da quel giorno l'incauto ospite non verrà più invitato). Lodovico
viene educato come un aristocratico e acquista abitudini signorili,

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trovandosi assai ricco alla morte del padre, ma quando tenta di mescolarsi
agli altri nobili della sua città viene trattato con disprezzo e si allontana da
loro indispettito. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese
futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di
difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da
parte di quei nobili con cui ha avuto di che ridire. La sua indole è onesta
ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed
è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della
giustizia, il che gli provoca rimorsi di coscienza (tanto che, a volte, è
tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate).

Lodovico uccide un nobile in un duello


Un giorno Lodovico cammina per strada insieme a due bravi e un fedele
servitore di nome Cristoforo, già dipendente del padre e ora suo maestro
di casa, un uomo di cinquant'anni con una numerosa famiglia. Il giovane
incontra un nobile della sua città , noto per la sua arroganza, che procede
circondato anch'egli da quattro bravi: entrambi camminano rasente un
muro, e poiché Lodovico lo sfiora con il fianco destro avrebbe diritto che
l'altro gli cedesse il passo, mentre il nobile potrebbe esigere la stessa cosa
in quanto aristocratico (dunque entrambi, stando ai codici cavallereschi
del tempo, avrebbero ragione). Quando i due si trovano di fronte, il nobile
intima imperiosamente a Lodovico di farlo passare e il giovane rifiuta in
modo sdegnoso; segue un breve scambio di battute in cui i contendenti si
scambiano tipici insulti cavallereschi (il nobile dà a Lodovico del
"meccanico" e gli rinfaccia le sue origini borghesi, l'altro lo accusa di viltà ),
poi nasce un duello cui prendono parte anche i bravi di entrambe le parti.
Lo scontro è molto violento e Lodovico viene ferito, quando il suo
avversario gli piomba addosso con la spada: il servo Cristoforo protegge il
suo padrone e viene colpito a morte, quindi Lodovico uccide a sua volta il
nobile trafiggendolo con la sua lama. A questo punto i bravi di entrambi si
danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, malconcio,
accanto ai corpi di Cristoforo e del suo rivale.

Lodovico si rifugia in convento


Attorno ai tre uomini si raccoglie una piccola folla di spettatori, i quali
conoscono Lodovico come giovane dabbene e il nobile ucciso come un

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noto prepotente, per cui non vogliono che il primo finisca nelle mani della
giustizia o dei parenti del morto: lo conducono allora a un vicino convento
di cappuccini, dove potrà essere curato e sarà al riparo da possibili
ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è
rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è
sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha
assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile,
prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il
male commesso, il che accresce il suo scoramento e il rimorso per quanto
ha fatto. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto,
giungono nei pressi del convento per reclamare la consegna di Lodovico,
cosa che non possono ottenere poiché quello è un luogo sacro e
inviolabile. Il giovane prega i cappuccini di riferire alla vedova di
Cristoforo che provvederà lui alle necessità della famiglia, quindi matura
la decisione di indossare la tonaca come espiazione del male commesso:
annuncia la sua decisione al padre guardiano, il quale lo ammonisce dal
prendere risoluzioni affrettate ma si dichiara disposto ad accoglierlo.
Lodovico in seguito fa donazione di tutti i suoi averi alla vedova di
Cristoforo, mentre la sua scelta di farsi frate toglie i cappuccini
dall'imbarazzo di decidere cosa fare di lui, poiché la famiglia dell'uomo
ucciso pretende vendetta e i frati non possono certo consegnar loro
Lodovico senza rinunciare ai loro privilegi: tuttavia la monacazione del
giovane può sembrare un'espiazione sufficiente per l'omicidio commesso,
dunque la cosa potrà soddisfare i parenti del nobile ucciso (che, del resto,
non piangono la sua morte ma si sentono offesi nell'onore nobiliare).

Lodovico diventa fra Cristoforo


Il padre guardiano si reca dal fratello dell'ucciso e gli comunica la
decisione di Lodovico, indicando la monacazione del giovane come
risarcimento sufficiente per l'onore della famiglia, al che il gentiluomo
protesta il proprio sdegno ma, alla fine, pone come unica condizione che il
novizio lasci immediatamente la città . Il padre acconsente e lascia credere
che si tratti di un gesto d'obbedienza (in realtà ha già preso questa
decisione), per cui la questione viene risolta con soddisfazione di tutti,
specie di Lodovico che in tal modo potrà iniziare una vita di espiazione e
penitenza. Ad appena trent'anni diventa dunque frate e assume il nome di

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Cristoforo, in modo da ricordarsi sempre del male commesso e accrescere
così l'espiazione di quella morte causata indirettamente da lui. Fra
Cristoforo dovrà compiere il noviziato in un paese a sessanta miglia di
distanza, ma il giovane chiede al padre guardiano di potersi prima recare
dal fratello dell'ucciso a implorare il suo perdono per il gesto compiuto. Il
padre approva l'intenzione e si reca dal gentiluomo a rivolgere tale
richiesta, al che il nobile pensa che questa sarà l'occasione di una pubblica
soddisfazione della famiglia e risponde che Cristoforo potrà venire il
giorno dopo. Il gentiluomo l'indomani fa raccogliere tutti i parenti nel suo
palazzo e attende il novizio circondato da aristocratici in abito da
cerimonia e le spade al fianco, in uno scenario di pompa e magnificenza
tipica dell'aristocrazia di quei tempi.

Fra Cristoforo ottiene il perdono del fratello dell'ucciso


Fra Cristoforo giunge al palazzo accompagnato da un altro padre e prova
subito un certo imbarazzo al vedere tanti nobili riuniti, ma poi pensa che
ciò sarà parte della sua espiazione per il delitto commesso. Attraversa una
grande sala piena di gente e si inginocchia ai piedi del fratello del nobile
ucciso, che lo guarda dall'alto con aria altera e sdegnata: il frate parla con
voce sincera e chiede con contrizione perdono per il male commesso,
suscitando un mormorio di approvazione da parte di tutti i presenti.
Anche il gentiluomo padrone di casa è toccato e invita Cristoforo ad
alzarsi, aggiungendo parole di conforto e riconoscendo i torti del fratello
defunto; quindi concede il proprio perdono al frate, che si dice contento di
ciò (anche se, ovviamente, ciò non cancella il male compiuto ai danni
dell'uomo ucciso).

Tutti si felicitano con il novizio, al quale i servitori di casa offrono delicate


vivande; il frate rifiuta con cortesia, limitandosi a chiedere solo un pezzo
di pane con cui potrà rifocillarsi durante il viaggio che lo attende. Il
padrone di casa lo accontenta e un cameriere gli porge su un piatto
d'argento un pane, che il novizio mette nella sporta e di cui conserverà un
pezzo come ricordo di quel memorabile giorno (il cosiddetto "pane del
perdono"). Fra Cristoforo lascia il palazzo riverito da tutti, mentre il
fratello del morto è stupito della sua benevolenza e da quel giorno diventa

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un po' più affabile e meno altero, mentre tutta la sua famiglia ricorderà
questa giornata nel segno del perdono e della riconciliazione.

Padre Cristoforo giunge a casa di Lucia


L'autore non racconta la vita di padre Cristoforo negli anni seguenti, se
non dicendo che il cappuccino esegue con obbedienza i doveri che gli sono
imposti, cioè di predicare e assistere i moribondi, anche se non rinuncia
quando si presenta l'occasione a prendere le difese dei deboli contro le
ingiustizie degli oppressori: l'uomo conserva ancora un barlume
dell'antica fierezza e dell'indole animosa, per cui il suo contegno,
abitualmente umile e posato, può diventare impetuoso e sdegnato quando
assiste a qualche intollerabile ingiustizia. Ciò spiega la sua sollecitudine
nel rispondere alla chiamata di Lucia, che il padre conosce come una
giovane innocente e vittima di un'infame persecuzione da parte di don
Rodrigo: in ansia per lei e per quanto può esserle accaduto, giunge infine
alla casa della giovane e della madre Agnese, le quali accolgono il
cappuccino con una benedizione.

CAPITOLO V
Agnese e Lucia informano padre Cristoforo dell'accaduto
Padre Cristoforo entra nella casa di Agnese e Lucia e chiede loro il motivo
della chiamata: Lucia scoppia a piangere e la madre racconta in breve al
frate che cos'è successo. Il cappuccino ascolta non senza un profondo
sdegno, quindi consola le due donne e le rassicura dicendo che non farà
mancare il suo aiuto, e di confidare nel soccorso divino. Sedutosi su uno
sgabello, il frate inizia poi a pensare tra sé e a esaminare le possibili vie
d'uscita: scarta l'ipotesi di costringere don Abbondio a celebrare il
matrimonio, poiché è certo che il curato ha più paura delle minacce dei
bravi che non di lui; esclude anche di informare il cardinal Borromeo,
poiché occorrerebbe tempo e comunque, se anche i due promessi si
sposassero, questo potrebbe non bastare a fermare don Rodrigo. Potrebbe
fare intervenire i suoi confratelli, ma, poiché il signorotto si atteggia ad
amico del convento e dei cappuccini, teme che ciò sarebbe addirittura
controproducente. Decide infine di andare al palazzo del nobile ad
affrontarlo di persona, per tentare di farlo recedere dai suoi propositi e, al

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contempo, valutare la sua ostinazione nel portare a termine i suoi sporchi
progetti.

Arriva Renzo, che manifesta propositi bellicosi


Mentre padre Cristoforo è assorto nei suoi pensieri sopraggiunge Renzo,
che ovviamente non sa stare lontano dalla casa della sua promessa e che
resta in silenzio per non disturbare il cappuccino. Questi si accorge della
sua presenza e lo saluta, al che il giovane pronuncia parole di accusa verso
don Rodrigo e si lamenta del fatto che gli amici del paese sembrano averlo
abbandonato, nonostante le profferte di aiuto in caso di bisogno per
togliere di mezzo un nemico. Renzo capisce di aver toccato il tasto
sbagliato e infatti padre Cristoforo lo rimprovera e lo esorta a non nutrire
propositi di violenza, a confidare nell'aiuto di Dio e a non meditare
vendetta per risolvere i suoi problemi. Renzo promette che non farà colpi
di testa e il frate comunica la sua intenzione di andare al palazzo di don
Rodrigo, assicurando che sarà di ritorno quanto prima. Consiglia ai tre di
stare in casa e di evitare guai, quindi lascia la casa e torna al convento di
Pescarenico, dove esegue gli uffici di sesta (verso mezzogiorno) e da dove,
dopo un pasto frugale, si dirige al palazzo del signorotto.

Padre Cristoforo raggiunge il palazzo di don Rodrigo


Il palazzo di don Rodrigo sorge su un'altura poco lontano dal paese e da
Pescarenico, ai piedi della quale c'è un piccolo villaggio di contadini
abitato da brutti ceffi simili a bravi (nelle case si intravedono armi da
fuoco) e dove persino i vecchi, le donne e i fanciulli sembrano avere
un'aria bellicosa. Padre Cristoforo attraversa il villaggio e sale al palazzo
lungo una strada tortuosa, che conduce all'edificio simile a una piccola
fortezza squadrata: l'abitazione è talmente silenziosa da sembrare deserta
e infatti la porta è chiusa, come anche le finestre che sono protette da
imposte consunte e da robuste inferriate. Sui due battenti della porta sono
inchiodate le carcasse di due avvoltoi e ai lati, sdraiati su delle panche, ci
sono due bravi che montano la guardia in modo svogliato. Uno di essi si
alza e accoglie in modo benevolo il frate, invitandolo a entrare e facendo
osservazioni sarcastiche circa il rispetto che nutre verso i cappuccini (nel
loro convento, infatti, si è rifugiato varie volte per sfuggire alla legge). Il
bravo picchia all'uscio e questo è aperto da un anziano servitore,

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circondato da diversi cani, il quale accoglie padre Cristoforo con deferenza
e lo invita a entrare. L'uomo osserva stupito che la presenza del frate in
quel luogo è sorprendente, anche se si può compiere del bene
dappertutto, quindi conduce Cristoforo attraverso dei salotti in penombra
sino alla porta della sala da pranzo, da cui proviene un gran fracasso di
stoviglie e di voci concitate che si accavallano l'una con l'altra.

Il banchetto di don Rodrigo


Padre Cristoforo vorrebbe ritrarsi e attendere in un luogo appartato la
fine del pranzo, ma la porta della sala si apre e il conte Attilio chiama
subito il frate, invitandolo a entrare a gran voce. Don Rodrigo, che gli siede
accanto, è allora costretto ad invitare anche lui il cappuccino ad entrare,
anche se farebbe a meno di questa visita; Cristoforo avanza con fare
esitante e rivolge un inchino al padrone di casa, non per ossequio servile
ma a causa della soggezione che il nobile, seduto a tavola e circondato da
amici potenti, inevitabilmente gli incute. Don Rodrigo sta consumando un
banchetto insieme a vari convitati, tra cui (oltre al conte Attilio, suo
cugino) vi sono il podestà di Lecco, il dottor Azzecca-garbugli e altri due
commensali di cui l'anonimo non riferisce il nome, intenti a mangiare e ad
acconsentire a qualunque cosa venga detta da uno degli altri presenti. Il
padre viene fatto sedere e chiede con deferenza al nobile di poter avere un
colloquio riservato con lui, su una faccenda delicata; don Rodrigo
acconsente, ma prima vuole ad ogni costo che venga servito del vino al
frate (questi si schermisce e allora il signorotto afferma sardonico che un
cappuccino deve bere il suo vino, proprio come un creditore insolente
deve essere bastonato con la legna dei suoi boschi). Tutti ridono e padre
Cristoforo, per non irritare il padrone di casa, beve a piccoli sorsi il vino
versato da un'ampolla. Don Rodrigo e la sua compagnia discutono poi di
cavalleria, della guerra e della carestia.

CAPITOLO VI
Colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo
Don Rodrigo, appartatosi con padre Cristoforo in una sala del palazzo,
invita il frate a parlare con modi in apparenza ossequiosi, ma che
nascondono una certa impazienza. Il cappuccino sgrana il rosario che

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tiene alla cintola e, soffocando la propria indignazione per il nobile, lo
informa del fatto che alcuni bravi hanno fatto il suo nome per minacciare
un povero curato e lo prega umilmente di por fine a questa vicenda in
nome della sua coscienza e dell'onore. Don Rodrigo ribatte che il frate gli
parlerà della sua coscienza in confessione, mentre del suo onore è lui
l'unico custode: il frate capisce che il nobile vuole trasformare il discorso
in una contesa e per non irritarlo ulteriormente si affretta a scusarsi e a
ribadire la sua preghiera in favore di due poveri innocenti.

Don Rodrigo reagisce accusando fra Cristoforo di venire a fargli "la spia in
casa", al che il cappuccino trattiene la collera e invoca la potenza di Dio
per indurre il signorotto a recedere dai suoi propositi. Il padrone di casa
ironizza sul fatto che non intende ascoltare una predica e in seguito allude
in modo volgare che al frate sembra "interessare" molto una fanciulla; fa
per andarsene, quando Cristoforo gli si pone davanti, sia pure in modo
rispettoso, e rinnova in nome della misericordia la sua preghiera affinché
don Rodrigo, con una sua parola, faccia cessare la persecuzione di cui la
ragazza in questione è fatta oggetto.

Padre Cristoforo accusa apertamente don Rodrigo


Poiché padre Cristoforo insiste tanto nel voler proteggere questa fanciulla,
don Rodrigo si dichiara disposto ad aiutarla e avanza una proposta al
frate: dovrà consigliare alla ragazza di venire a mettersi sotto la
"protezione" del signorotto, cosicché nessuno oserà più importunarla. A
questa incredibile affermazione, il frate perde le staffe e inizia ad accusare
apertamente il nobile, puntandogli contro l'indice della mano sinistra con
tono risentito e dichiarando di non aver più alcun timore del suo
interlocutore. Questi è quasi attonito per il contegno del frate, il quale
prosegue affermando che Lucia è sotto la protezione di Dio e don Rodrigo
non potrà farle del male a Suo dispetto, in quanto la punizione divina non
ha certo riguardo per il suo palazzo o i suoi bravi. Padre Cristoforo inizia
una minacciosa profezia dicendo "Verrà un giorno...", ma a quel punto don
Rodrigo gli afferra il braccio puntato contro di lui e lo apostrofa con parole
villane, rinfacciando al frate le sue origini non nobili e intimandogli di
uscire subito dalla sua casa, se non vuole ricevere una bastonatura per
l'insolenza dimostrata. Il frate ascolta a capo chino e atteggiamento umile

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gli insulti del signorotto, quindi esce dalla porta che gli viene mostrata dal
padrone di casa e si accinge a lasciare l'edificio.

Il vecchio servitore parla con padre Cristoforo


Mentre esce dalla stanza, padre Cristoforo vede un uomo che striscia
lungo la parete e sembra non voglia rivelare la sua presenza: è il vecchio
servitore che l'aveva ricevuto al palazzo e che vive lì dai tempi del padre
di don Rodrigo, il quale era stato uomo ben diverso da lui. Dopo la sua
morte il nuovo padrone aveva licenziato la vecchia servitù , ma aveva
trattenuto costui per la sua alta opinione della famiglia e la conoscenza del
cerimoniale, anche se l'uomo disapprova la condotta di Rodrigo e, pur non
facendone parola in sua presenza, manifesta talvolta il suo sdegno con gli
altri servi più giovani che per questo lo deridono. Il servo fa cenno al frate
di tacere, quindi lo accompagna in un angolo appartato e gli rivela di
sapere qualcosa di importante, che intende riferirgli l'indomani al
convento dopo averne saputo maggiori dettagli. Padre Cristoforo ringrazia
l'uomo e lo benedice, quindi se ne va non prima di aver fatto promettere al
servo di venire l'indomani a Pescarenico. L'autore aggiunge alcune
osservazioni ironiche circa il fatto che il servo non si è comportato bene
origliando i discorsi del padrone, anche se a questa regola ci sono alcune
eccezioni, per cui il lettore è invitato a riflettere su questo aspetto. Padre
Cristoforo esce dal palazzo di don Rodrigo, lieto in cuor suo per quell'aiuto
inaspettato e convinto che ciò sia un segno della Provvidenza divina; si
avvede che il sole sta ormai tramontando, quindi si affretta a tornare in
paese per parlare con i suoi protetti e poter quindi rientrare al convento
prima di notte, come prescrive la severa regola dei cappuccini.

Agnese propone il "matrimonio a sorpresa"


Intanto, a casa di Agnese e Lucia le due donne si stanno consultando con
Renzo e a un certo punto la madre della giovane propone una sua idea che,
secondo lei, risolverà l'impiccio più presto e meglio di quanto non
saprebbe fare padre Cristoforo, a patto di usare coraggio e destrezza.
Renzo è subito interessato e quando Agnese gli ricorda che, se lui e Lucia
fossero sposati, tutto sarebbe risolto, il giovane ribatte che spesso suo
cugino Bortolo lo ha invitato a trasferirsi nel Bergamasco dove i filatori di
seta sono molto richiesti, cosa che lui non ha mai fatto per via di Lucia.

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Agnese allora spiega che per celebrare un matrimonio è necessaria la
presenza del curato, ma non il suo consenso: è sufficiente che i due
promessi pronuncino i voti di fronte a lui e a due testimoni e il gioco è
fatto, a patto naturalmente di cogliere il curato senza dargli il tempo di
scappare. Lucia è perplessa e anche Renzo è incredulo, ma Agnese
ribadisce che le cose stanno proprio così e ai dubbi della figlia, che si
chiede perché non sia venuto in mente a padre Cristoforo, la madre ribatte
che si tratta di un sotterfugio non propriamente cristallino, ma non per
questo meno valido legalmente. Renzo accoglie la proposta con
entusiasmo e quando Agnese gli ricorda la necessità di trovare due
testimoni fidati, il giovane batte il pugno sul tavolo e afferma di aver avuto
un'idea, esponendo il suo piano alle due donne. Lucia tenta debolmente di
opporsi, ma Agnese la zittisce e Renzo esce di casa, deciso a realizzare il
suo progetto.

Renzo va a casa di Tonio


Renzo ha escogitato un piano molto astuto e si reca a casa di un suo amico
di nome Tonio, trovandolo in cucina intento a mescolare in un paiolo sul
focolare una polenta scura, di grano saraceno di poco prezzo. A tavola
siedono la madre di Tonio, suo fratello Gervaso, la moglie e i figli, i quali
sono accanto al padre e fissano la polenta affamati, consapevoli che la
cena sarà scarsa e che di sicuro non sazieranno il loro appetito (siamo
infatti in tempo di carestia). Renzo saluta tutti mentre il padrone di casa
scodella la polenta sul tagliere e le donne invitano cortesemente Renzo a
mangiar con loro, nonostante la tavola non offra molto visti i tempi di
scarsità . Il giovane declina l'invito e dice di voler parlare a Tonio da solo a
solo, per cui rivolge a sua volta all'amico l'invito a cenare con lui
all'osteria. La proposta è subito accettata dal padrone di casa, riuscendo
gradita anche agli altri che, in questo modo, avranno più cibo a loro
disposizione.

Renzo va all'osteria con Tonio e gli chiede il suo aiuto


Renzo e Tonio vanno dunque all'osteria del paese, poco frequentata visti i
tempi di carestia, e dopo una cena frugale Renzo chiede all'amico se vuol
fargli un favore, al che l'altro si dice pronto a qualunque cosa. Renzo
ricorda a Tonio che quest'ultimo ha un debito di venticinque lire con don

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Abbondio, dicendosi pronto a pagarlo al suo posto se gli renderà un certo
servizio; Tonio ne sarebbe ben felice, dal momento che il curato lo
tormenta con continue e pressanti richieste di saldare il debito, (in tal
modo potrà riscattare la collana d'oro della moglie data a garanzia),
quindi Renzo inizia a spiegargli tutto non prima di avergli fatto cenno di
mantenere il più assoluto riserbo. Il giovane espone lo stratagemma del
"matrimonio a sorpresa" e chiede a Tonio di fargli da testimone, cosa che
l'amico accetta di buon grado proponendo poi il fratello Gervaso, uomo
semplice e non troppo intelligente, come secondo testimone. Renzo
accetta e promette di pagare da bere e da mangiare al fratello di Tonio,
quindi i due si danno appuntamento per la sera dopo; Renzo rinnova le
sue richieste di mantenere il segreto e Tonio afferma che non ne parlerà
neppure alla moglie, con la quale è già in debito di parecchie bugie. I due
escono dall'osteria dopo essersi salutati, quindi Tonio torna a casa propria
e Renzo a quella di Agnese e Lucia.

Renzo torna da Agnese e Lucia. Arriva padre Cristoforo


Renzo torna trionfante da Agnese e Lucia, spiegando di essersi accordato
con Tonio e prendendo poi con Agnese i concerti necessari per la sera
dopo, non badando troppo a Lucia che continua a mostrarsi titubante in
proposito. Agnese ricorda a Renzo che bisognerà pensare a Perpetua,
giacché la domestica del curato non farà certo entrare i due promessi in
casa del suo padrone, ma la donna ha già pensato a come distrarla
toccando un certo tasto che lei sa essere molto sensibile. Resta tuttavia da
convincere Lucia, la quale continua a opporsi a quello che considera un
sotterfugio: Renzo cerca di persuaderla, ma la giovane continua a dire che
sarebbe meglio confidare nell'aiuto di Dio e che non sarebbe buona cosa
tacere tutto al padre Cristoforo. Mentre i tre stanno discutendo, si sentono
alcuni passi di sandali e lo stropicciare di un saio, per cui capiscono che
sta arrivando proprio il frate: Agnese va ad accoglierlo, non prima di aver
intimato a Lucia di non fare parola di quanto hanno progettato.

CAPITOLO VII
Padre Cristoforo parla con Renzo e le due donne

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Padre Cristoforo riferisce a Renzo, Lucia e Agnese l'infelice esito del suo
colloquio con don Rodrigo, invitando tuttavia a confidare nella
Provvidenza che, afferma, ha già dato segno del suo aiuto. Renzo è in
collera e domanda quali giustificazioni abbia dato il signorotto per il suo
comportamento, al che il frate ribatte che le sue parole hanno poco
significato, poiché il nobile non intende rinunciare alla sua prepotenza e,
del resto, non ha certo ammesso di voler esercitare un sopruso ai danni di
Lucia. Il cappuccino ribadisce quindi di nutrire una debole speranza e
raccomanda a Renzo di venire da lui al convento il giorno dopo (dove
attenderà il servitore di don Rodrigo), o di mandare qualcun altro se il
giovane non potesse, raccomandando di avere pazienza e di attendere
pochi giorni senza compiere colpi di testa. Alla fine il frate se ne va
affrettando il passo per giungere al convento prima di notte, al fine di non
incorrere in qualche penitenza che gli impedisca il giorno seguente di
essere pronto al bisogno.

Renzo convince Lucia a tentare lo stratagemma

Appena il frate è uscito, Lucia afferma che le sue parole devono indurre ad
aver fiducia nell'aiuto divino, anche se Agnese non è molto convinta e
Renzo, fuori di sé dalla rabbia, torna a proferire minacce contro don
Rodrigo. Le due donne tentano di farlo ragionare, ma il giovane (che forse
accentua la sua reazione per indurre Lucia a acconsentire allo
stratagemma) non vuol sentire ragioni e si dice determinato ad uccidere il
signorotto, incurante delle conseguenze (forse sarà imprigionato o ucciso,
ma almeno, dice, impedirà a don Rodrigo di mettere le mani sulla sua
promessa sposa). Agnese tenta inutilmente di calmare Renzo e Lucia
piange e lo supplica di rinsavire, poiché lei non si è certo promessa a un
assassino o a un poco di buono: alla fine gli si inginocchia di fronte e, per
placarlo, promette che verrà dal curato per tentare il "matrimonio a
sorpresa", al che finalmente Renzo sembra acquietarsi. Il giovane
promette a sua volta che non farà niente di avventato, dunque (dopo aver
preso gli accordi necessari) Renzo lascia a malincuore la casa delle due
donne, le quali poi trascorrono come lui una notte alquanto agitata e
inquieta.

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Agnese manda Menico al convento. Il "mendicante" e le altre spie

Il mattino dopo Renzo torna di buon'ora a casa delle due donne, per
definire gli ultimi dettagli in vista dello stratagemma che attueranno la
sera. Agnese chiede a Renzo se andrà al convento da padre Cristoforo, ma
il giovane rifiuta in quanto teme che il cappuccino potrebbe intuire cosa
stanno macchinando, quindi la donna decide di mandare là Menico, un
ragazzo di circa dodici anni imparentato con lei. Agnese va a casa del
ragazzo e gli promette due monete d'argento se andrà a Pescarenico a
sentire cos'ha da dire il frate, per poi tornare da loro a riferirglielo, al che
Menico promette che svolgerà la commissione in modo giudizioso.

Nel resto della mattina avvengono alcuni strani fatti che mettono in
agitazione Lucia e Agnese. Prima un bizzarro mendicante entra a casa loro
per chiedere del pane, non sembrando tuttavia così male in arnese come
sono di solito gli accattoni, e una volta ricevuta l'elemosina si trattiene in
casa con pretesti, guardandosi intorno con occhi curiosi. Nelle ore
successive, sino a mezzogiorno, altri strani figuri passano davanti alla casa
e sembrano guardare in modo altrettanto sospetto, finché quella
processione ha finalmente termine. La cosa è accolta con sollievo dalle due
donne, che pure sentono crescere l'inquietudine per ciò che è successo e
sembrano aver perso quel poco di coraggio che hanno in serbo per lo
stratagemma della sera.

La passeggiata di Don Rodrigo. Colloquio col conte Attilio

L'autore a questo punto interrompe la narrazione e torna al giorno prima,


al momento in cui padre Cristoforo ha lasciato don Rodrigo nel suo
palazzo, intento a percorrere a passi rabbiosi la sala dove si è svolto il
colloquio. Alle pareti sono appesi ritratti di suoi antenati, davanti ai quali
il signorotto si ritrova andando avanti e indietro nella stanza: si tratta di
un guerriero bardato di tutto punto con l'armatura e un volto che ispira
terrore ai nemici, di un magistrato famoso per incutere timore in tribunale
e che indossa la toga e l'ermellino (insegna dei senatori), di una
nobildonna temuta dalle sue cameriere, di un abate temuto dai suoi
monaci. La vista di questi personaggi fa salire in lui la rabbia di essere
stato accusato in casa sua da un misero frate e lo spinge a vendicare
l'onore offeso, anche se la profezia monca di fra Cristoforo gli procura una

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certa inquietudine. Un servo lo informa che gli ospiti sono usciti insieme al
conte Attilio, quindi don Rodrigo esce a sua volta per una passeggiata con
un ampio seguito di bravi. Il nobile si dirige verso Lecco e gode al vedere
gli artigiani e i contadini che si inchinano al suo passaggio, come pure gli
abitanti più altolocati di quelle terre, mentre non incontra il castellano
spagnolo che sarebbe l'unico a cui anch'egli farebbe un inchino deferente.
Per sgombrare la mente dai brutti pensieri, don Rodrigo entra in una casa
dove è ben accolto (probabilmente un bordello), quindi torna al palazzo
quando è rientrato anche il conte Attilio.

Durante la cena don Rodrigo è alquanto taciturno e il conte Attilio lo


punzecchia invitandolo a pagare la scommessa, dal momento che gli
sembra evidente che non potrà vincerla. L'altro ribatte che non è ancora
passato il giorno di San Martino, al che Attilio rincara la dose dicendosi
convinto che padre Cristoforo ha addirittura convertito il cugino e
aggiungendo parole di scherno ai danni del signorotto, ma questi tronca la
questione proponendo di raddoppiare la posta della scommessa. Attilio
accetta e rivolge altre domande insistenti a Rodrigo, che tuttavia risponde
in modo elusivo e rimanda al giorno fissato come termine per la
scommessa.

Don Rodrigo ordina al Griso di rapire Lucia

Il giorno dopo don Rodrigo sembra avere scordato le ubbie provocate in


lui dalla profezia di padre Cristoforo ed è ben deciso ad andare fino in
fondo coi suoi sporchi progetti. Fa dunque chiamare a sé il Griso, il temuto
capo dei suoi bravi che, tempo prima, aveva ucciso un uomo in pieno
giorno e si era messo sotto la protezione del signorotto, ponendosi al
riparo da ogni giustizia: ciò gli ha garantito l'impunità e lo ha reso più
feroce esecutore di nuovi delitti, oltre ad aver dimostrato a tutti che don
Rodrigo può farsi beffe delle leggi e della giustizia. Il nobile ordina al Griso
di fare in modo che Lucia la sera stessa sia portata al palazzo, dandogli
carta bianca circa i mezzi e gli uomini da utilizzare e raccomandandogli di
non torcere un solo capello alla ragazza, desiderio che il bravo si impegna
a rispettare. Questi spiega al padrone che la casa di Lucia è in fondo al
paese ed è posta accanto al rudere di un vecchio casolare andato a fuoco,
che i popolani credono abitato dalle streghe e che sarà dunque un ottimo

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nascondiglio per i bravi; l'uomo aggiunge altri dettagli al piano che ha in
mente, dopo di che don Rodrigo suggerisce di infliggere una buona
bastonatura a Renzo se capitasse l'occasione, per indurre il giovane a non
fare storie dopo il rapimento di Lucia e a non rivolgersi alla giustizia. Il
Griso promette che tutto andrà a buon fine e il resto della mattinata è
speso in preparativi e sopralluoghi per l'azione serale, quindi il falso
mendicante che si era introdotto in casa delle due donne altri non era che
il Griso travestito e i falsi passanti erano suoi uomini, i quali si erano poi
ritirati per non destare sospetti con la loro presenza.

Il vecchio servitore va al convento

Intanto il vecchio servitore di don Rodrigo che ha promesso il suo aiuto a


padre Cristoforo sta all'erta e riesce a capire cosa stanno macchinando il
Griso e i suoi bravi: decide di mantenere la parola data ed esce con una
scusa dal palazzo del padrone, diretto a Pescarenico per informare il frate
di quanto ha appreso, anche se è già molto tardi e teme che non farà in
tempo a sventare i piani del signorotto. Intanto il Griso e altri bravi
raggiungono una piccola avanguardia che è già stata mandata al casolare
abbandonato, portando una lettiga che servirà per trasportare Lucia,
dopodiché il capo degli sgherri ne manda tre all'osteria del paese
ordinando loro di osservare e spiare cosa accada in paese, mentre lui e gli
altri restano appostati lì in attesa di entrare in azione.

Renzo, Tonio e Gervaso all'osteria

È ormai il tramonto quando Renzo va a casa delle due donne dicendo che
andrà a mangiare un boccone all'osteria con Tonio e Gervaso e
promettendo che tornerà a prenderle per attuare lo stratagemma quando
suonerà l'Avemaria. I tre giungono allora all'osteria e trovano in piedi
sull'uscio uno dei tre bravi mandati lì dal Griso, che non si muove dalla sua
posizione e squadra Renzo con un'occhiata maligna. Il giovane entra senza
rivolgergli la parola, dunque i tre nell'osteria vedono gli altri due bravi
seduti a un tavolo che giocano rumorosamente a morra, uno dei quali
scambia un cenno d'intesa con quello alla porta non appena vede Renzo. Il
giovane è insospettito, tuttavia non dice nulla e ordina la cena all'oste,
dopo essersi seduto a un tavolo.

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Renzo chiede poi all'oste informazioni sui tre individui che ha visto, ma
l'uomo risponde in modo evasivo, dicendo che non li conosce e che gli
sembrano uomini onesti, quindi torna in cucina a prendere delle polpette
senza dare al giovane modo di aggiungere altro. In cucina l'oste è
avvicinato da uno dei bravi, che gli chiede a sua volta informazioni sui tre
nuovi arrivati: l'oste è fin troppo sollecito nel dargli numerosi dettagli sul
loro conto, facendone i nomi e fornendo altre indicazioni, dopodiché torna
a servire le polpette a Renzo e agli altri due. Renzo chiede all'oste come fa
a sapere che quei tre sono uomini onesti e l'uomo spiega che dev'essere
così in quanto pagano il conto e non creano problemi, invitando poi il
giovane a mangiare senza porsi troppe questioni, visto che sta per
sposarsi. L'oste se ne va e l'autore aggiunge considerazioni ironiche circa
la sua condotta con gli avventori della locanda.

Renzo, Tonio e Gervaso escono dall'osteria

Renzo, Tonio e Gervaso cenano in fretta e parlano sottovoce per non dare
nell'occhio, quando a un tratto Gervaso esclama a voce alta che Renzo
deve prender moglie e ha bisogno del loro aiuto, al che il fratello gli intima
di tacere dandogli di gomito. I tre finiscono di cenare ed escono, dopo che
Renzo ha pagato il conto pur avendo mangiato e bevuto meno degli altri, e
giunti in strada il giovane si accorge che due dei tre bravi lo stanno
seguendo e si ferma in attesa delle loro mosse. I due bravi parlano tra loro
e osservano che sarebbe una buona cosa poter dare una solenne
bastonata a Renzo, come suggerito loro dal Griso, tuttavia rinunciano in
quanto non è tarda sera e c'è troppa gente in paese, per cui si ritirano
lasciando che i tre se ne vadano per la loro strada. Nel villaggio gli abitanti
si stanno ritirando dopo la giornata di lavoro e si sente un vociare confuso,
mentre nelle case si accendono i focolari per cucinare delle cene molto
misere a causa della carestia. I tre procedono per il loro cammino e
giungono alla casetta di Lucia e Agnese quando ormai è notte fonda.

Il gruppo giunge alla casa del curato

Lucia è come stordita e pensa preoccupata allo stratagemma che


dovranno attuare, per cui al bussare di Renzo è colta da una tale paura che
vorrebbe quasi tirarsi indietro e mancare alla promessa fatta; tuttavia,

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quando vede che tutti sono pronti a muoversi, li segue macchinalmente
prendendo il braccio della madre Agnese.

Il gruppo procede silenzioso nella notte e, anziché attraversare il paese,


compie un giro più lungo per non dare nell'occhio, raggiungendo infine la
casa di don Abbondio. Qui i cinque si dividono, in quanto i due promessi
restano nascosti insieme ad Agnese, mentre Tonio e Gervaso picchiano
all'uscio del curato: si affaccia a una finestra Perpetua, che chiede infuriata
chi disturba a quest'ora, al che Tonio spiega di essere venuto a saldare il
debito di venticinque lire con don Abbondio dal momento che ha ricevuto
dei soldi e che l'indomani mattina potrebbe averli già spesi. Perpetua si
ritira dicendo che andrà a chiedere al curato se lui e il fratello possono
entrare, dunque Agnese rincuora Lucia e si unisce ai due fratelli, per
trattenere in seguito Perpetua con chiacchiere e dare modo alla figlia e a
Renzo di introdursi in casa.

CAPITOLO VIII
Perpetua informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio e Gervaso

Don Abbondio è seduto in una stanza al primo piano della sua casa,
intento a leggere un libro in cui è nominato il filosofo Carneade, di cui lui
non sa nulla (il curato si diletta a leggere e un sacerdote suo vicino gli
presta ogni tanto dei libri scelti a caso); quest'opera è un panegirico
scritto in onore di S. Carlo Borromeo, in cui quest'ultimo è paragonato ad
Archimede e al filosofo del II sec. a.C. Perpetua entra ad annunciare la
visita di Tonio e Gervaso, al che don Abbondio si lamenta dell'ora tarda
ma poi accetta di riceverli, ansioso di riavere indietro i suoi soldi. Il curato
chiede alla sua domestica se si sia accertata dell'identità di Tonio,
domanda a cui la donna risponde in modo alquanto stizzito, quindi
Perpetua scende di sotto per fare entrare i due uomini.

Agnese "distrae" Perpetua

Perpetua raggiunge Tonio e Gervaso, trovando anche Agnese che la saluta:


la domestica chiede alla donna da dove viene e Agnese nomina un

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paesetto vicino, aggiungendo che lì ha sentito dei discorsi che possono
interessare Perpetua. La domestica invita i due uomini a entrare, mentre
Agnese dice che secondo alcuni pettegolezzi Perpetua in gioventù non
avrebbe sposato due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo
Lunghigna) perché non l'avevano voluta, al che la donna reagisce stizzita
affermando che nulla di tutto ciò è vero e chiedendo a gran voce chi sia la
fonte di simili menzogne. Agnese finge di voler sapere altri particolari,
quindi inizia a parlare con Perpetua e si allontana dalla casa del curato,
addentrandosi in una viuzza che svolta dietro l'abitazione e da dove non si
può vedere l'uscio. Quando le due donne sono abbastanza lontane, Agnese
tossisce forte e questo segnale fa capire a Renzo e Lucia che è il momento
di entrare in casa: i due promessi si avvicinano con cautela, entrano
nell'andito dove li attendono Tonio e Gervaso, quindi i quattro salgono le
scale con passi silenziosi, badando a non fare rumore per non mettere in
allarme don Abbondio. Quando sono giunti al primo piano, i due promessi
si stringono al muro per non farsi vedere, mentre i due fratelli si
affacciano all'uscio della stanza dove si trova il curato e Tonio lo saluta
con voce ferma, dicendo Deo gratias.

Tonio parla con don Abbondio

Don Abbondio invita i due fratelli ad entrare, al che Tonio e Gervaso fanno
il loro ingresso aprendo la porta e illuminando in parte il pianerottolo
(dove Lucia è nascosta e trasalisce all'idea di essere scoperta), per poi
richiuderla lasciando i due promessi nel buio. Il curato è seduto al suo
scrittoio, alla luce di un debole lume che rischiara la sua faccia bruna e
rugosa, i suoi capelli bianchi, i folti baffi e il pizzo, nonché la papalina che
porta in testa. Egli saluta i due nuovi arrivati, mentre Tonio si scusa per
l'ora tarda e riceve i rimproveri del curato, sia perché è da tempo che deve
pagare il debito, sia perché il sacerdote si dice ammalato (in realtà don
Abbondio è più guarito dalla febbre di quanto non voglia far credere). Il
curato chiede a Tonio perché abbia portato anche il fratello, al che l'uomo
risponde che voleva compagnia e poi consegna a don Abbondio
venticinque berlinghe nuove di zecca, a pagamento del suo debito. Il
religioso conta le monete e le controlla, quindi Tonio chiede indietro la
collana della moglie Tecla data a garanzia del prestito e don Abbondio la

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estrae da un armadio; in seguito Tonio esige una ricevuta e il curato, sia
pur brontolando un poco, si accinge a scriverla su un foglio di carta con
penna e calamaio, ripetendo a voce alta le parole. In quel momento Tonio
e Gervaso si mettono davanti allo scrittoio, coprendo la vista dell'uscio, e
iniziano a sfregare i piedi sul pavimento, per segnalare ai due promessi
che è il momento di entrare. Don Abbondio, tutto preso dalla stesura del
documento, prosegue senza rendersi conto di nulla.

Il "matrimonio a sorpresa" fallisce

Renzo afferra Lucia per un braccio e la conduce con sé, entrando con lei
nella stanza: i due avanzano silenziosi, mettendosi dietro Tonio e Gervaso
che stanno proprio davanti a don Abbondio e gli impediscono di vedere i
due promessi. Il curato ha intanto finito di scrivere la ricevuta, quindi la
rilegge senza alzare gli occhi dal foglio e, toltisi gli occhiali, porge la carta a
Tonio chiedendo se è soddisfatto. Tonio allunga la mano per prendere il
documento e si ritira da un lato, facendo cenno al fratello di fare la stessa
cosa, per cui i due fanno comparire Renzo e Lucia che si parano subito di
fronte a don Abbondio: nel breve tempo che questi, spaventato, pensa al
da farsi, Renzo è lesto a pronunciare la formula del "matrimonio a
sorpresa" ("Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia
moglie"), ma Lucia non fa in tempo a dire "e questo..." che il curato, con
rapida mossa, ha lasciato cadere la carta, ha afferrato con la mano sinistra
il lume e con la destra il tappeto che copre lo scrittoio, gettando il panno in
testa alla giovane che non può dire altro. In seguito il curato lascia cadere
il lume a terra e preme con le mani il tappeto su Lucia, per impedirle di
parlare, mentre con quanto fiato in gola chiama Perpetua in soccorso; il
lume si spegne sul pavimento, per cui la stanza sprofonda nella più totale
oscurità .

Il sagrestano Ambrogio suona le campane

Don Abbondio è lesto a chiudersi dentro una stanza interna, continuando


a chiamare Perpetua in aiuto, mentre Renzo cerca a tastoni la porta e dice
al curato di non fare schiamazzi, Tonio cerca carponi sul pavimento la sua
ricevuta, Lucia prega Renzo di andar via e il povero Gervaso saltella qua e
là come un invasato, cercando l'uscita. Manzoni fa alcune osservazioni
ironiche sul fatto che Renzo sembra esercitare un sopruso sul curato,

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mentre in realtà è lui la vittima, e don Abbondio sembra essere un
oppresso, mentre è lui a fare una prepotenza ai due promessi (così
andavano le cose nel XVII secolo, il che sottintende che vanno spesso allo
stesso modo nel XIX). Il curato si affaccia da una finestra della casa che dà
sulla piazza della chiesa, illuminata quasi a giorno dal chiaro di luna,
gridando aiuto a gran voce e facendosi udire dal sagrestano Ambrogio, che
dorme in uno stanzino sul muro laterale della chiesa. Questi apre una
piccola finestra e chiede al curato cosa succede, al che don Abbondio
risponde che c'è "gente in casa": Ambrogio corre al campanile e inizia a
suonare le campane a martello, per richiamare quanta più gente possibile
e dare così aiuto al padrone. Tutti nel paese sono svegliati dai rintocchi e
molti abitanti afferrano forconi e schioppi, precipitandosi verso la chiesa
da cui provengono i rintocchi.

Il Griso e i bravi penetrano nella casa delle due donne

I rintocchi vengono uditi da Agnese e Perpetua, ma anche dai bravi che


sono impegnati in ben altre faccende: l'autore fa un passo indietro e
spiega che i tre che stavano all'osteria si ritirano a tarda ora e fanno un
giro per il paese, accertandosi che tutti siano andati a dormire, quindi
raggiungono il Griso e gli altri appostati presso il casolare abbandonato. Il
capo dei bravi indossa un cappellaccio e un mantello da pellegrino,
impugna un bastone e si muove seguito dagli altri, avvicinandosi alla casa
delle due donne dalla parte opposta a quella da cui si erano allontanati
Renzo e tutti gli altri. Giunto all'uscio di strada, il Griso ordina a due
sgherri di calarsi oltre il muro di cinta e nascondersi dietro un fico nel
cortile, mentre lui bussa per fingersi un pellegrino smarrito che chiede
ricovero per la notte. Poiché non riceve risposta, fa entrare un terzo bravo
che sconficca il paletto e apre l'uscio, quindi il Griso raggiunge l'uscio della
casa bussando ancora e, ovviamente, non ricevendo alcuna risposta
(intanto gli altri bravi hanno raggiunto i compagni nascosti). Il Griso
sconficca anche questa serratura ed entra con cautela, chiamando con sé i
due bravi nascosti dietro il fico e facendo luce con una debole lanterna, poi
si accerta che al pian terreno non ci sia nessuno; successivamente sale
adagio la scala, accompagnato dal Grignapoco (un bravo originario di
Bergamo che dovrebbe far credere con la sua parlata che la spedizione

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venga da quella contrada) e seguito da altri uomini, giungendo alle stanze
del primo piano. Entra cautamente dentro una di esse, ma trova il letto
intatto, così come avviene quando va a esplorare l'altra stanza; il Griso
pensa che qualcuno abbia fatto la spia, non sapendo spiegarsi l'assenza
delle due donne.

L'arrivo di Menico e le campane a martello

Intanto i due bravi rimasti a sentinella dell'uscio di strada sentono dei


piccoli passi frettolosi che si avvicinano: si tratta di Menico, inviato da
padre Cristoforo ad avvisare Lucia e Agnese di scappare per via del
rapimento e di rifugiarsi al convento. Il ragazzo fa per aprire il paletto
della porta ma lo trova sconficcato, per cui entra titubante ed è subito
afferrato per le braccia dai bravi che gli intimano con tono minaccioso di
far silenzio. Menico caccia un urlo, al che un bravo gli mette una mano
sulla bocca e l'altro tira fuori un coltello per spaventarlo, quando
all'improvviso il silenzio della notte è rotto dai rintocchi delle campane a
martello: i due bravi sono decisamente allarmati, per cui lasciano andare
Menico (che si affretta a fuggire via e a dirigersi verso la chiesa) ed
entrano in casa, dove gli altri complici cercano di guadagnare l'uscita in
modo disordinato. Il Griso cerca di tenerli insieme e di calmarli, come il
cane che fa la guardia a un branco di maiali, quindi il gruppo esce dalla
casa in buon ordine e si allontana dal paese (la casa è posta al fondo di
esso).

Menico raggiunge Renzo e gli altri

L'autore torna ad Agnese e Perpetua, che nel frattempo continuano a


parlare con la prima che cerca in ogni modo di trattenere la seconda e di
non farla tornare verso casa, ravvivando di continuo il discorso con nuove
domande (Agnese si rammarica di non aver concertato con Renzo e Lucia
un segnale che indichi il buon esito dello stratagemma). Quando le due
donne sono a poca distanza dalla casa del curato, si sente all'improvviso il
primo grido di don Abbondio che chiama aiuto, al che Agnese finge
indifferenza; cerca di trattenere Perpetua, la quale però riesce a
divincolarsi e si precipita verso l'uscio, avendo capito che sta accadendo

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qualcosa. Agnese la segue, mentre si sente l'urlo di Menico e quasi
contemporaneamente inizia lo scampanio, quindi raggiungono l'uscio
della casa da cui escono di corsa Renzo e tutti gli altri. Tonio e Gervaso
sono rapidi ad allontanarsi, quindi Perpetua (che ha riconosciuto i due
promessi non senza sorpresa) entra e sale di corsa le scale. Renzo esorta
Agnese e Lucia a tornare subito a casa, ma in quella sopraggiunge Menico
che invita tutti ad andare al convento di padre Cristoforo, poiché "C'è il
diavolo in casa" (il ragazzo allude ai bravi che hanno tentato di ucciderlo);
Renzo raccoglie l'invito e i quattro si allontanano in fretta, dirigendosi al
convento di Pescarenico tagliando per i campi.

I paesani accorrono alla casa del curato

Intanto un gran numero di abitanti del paese, allarmati dalle campane a


martello, raggiungono la chiesa e chiedono ad Ambrogio cosa stia
succedendo, al che il sagrestano risponde che c'è qualcuno in casa del
curato: gli uomini si dirigono subito là , ma trovano l'uscio intatto e chiuso
e tutto sembra tranquillo e in ordine. Don Abbondio sta ancora litigando
con Perpetua che accusa di averlo lasciato solo nel momento del bisogno,
quando i paesani lo chiamano a gran voce: suo malgrado, il curato deve
affacciarsi da una finestra e tranquillizzare tutti, dicendo che gli intrusi
sono fuggiti e invitando i presenti a tornare a casa. La folla sta per
disperdersi, quando arriva trafelato un uomo che abita vicino alla casa di
Agnese e ha visto i bravi armati nel cortile di questa, nonché un pellegrino
(che, in realtà , era il Griso travestito), per cui esorta il gruppo ad andare
subito là : la folla raggiunge la casa e non tarda ad accorgersi che
l'abitazione è stata violata e le due donne sono scomparse, dunque viene
fatta la proposta di gettarsi all'inseguimento dei rapitori. Alcuni sono
titubanti, quando si sparge la voce che Agnese e Lucia si sono messe in
salvo in una casa vicina e poiché la cosa viene creduta la folla si disperde
rapidamente, senza che quella notte accada nient'altro di significativo. Il
mattino dopo il console del paese riceverà la visita di due bravi che gli
intimeranno di non rendere testimonianza su quanto è avvenuto la sera
prima e di non sollevare scandali, se intende morire di malattia e non di
morte violenta.

Renzo, Lucia e Agnese arrivano al convento

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Frattanto Renzo, Agnese e Lucia proseguono la loro fuga insieme a
Menico, finché i quattro raggiungono un campo isolato dove non c'è
nessuno e non si sentono più i lugubri rintocchi delle campane. Renzo
informa Agnese del triste esito dello stratagemma, quindi Menico racconta
dell'avvertimento ricevuto da padre Cristoforo e racconta cosa gli è
successo a casa delle due donne, al che gli altri si guardano l'un l'altro
spaventati e poi accarezzano il ragazzo, per consolarlo del pericolo corso.
Agnese gli dà quattro monete d'argento e Renzo una berlinga, quindi
Menico è invitato a tornare a casa (Renzo gli raccomanda di non dire nulla
di quanto appreso dal frate).

I tre proseguono verso il convento, con Renzo che cammina indietro per
fare la guardia, mentre Lucia, spaventata e turbata da quanto è successo,
cammina appoggiandosi alla madre (questa chiede che ne sarà della loro
casa, ma nessuno risponde). Infine giungono al convento e Renzo ne apre
la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il
laico sagrestano dei cappuccini. Il padre si rallegra che non manchi
nessuno, quindi li fa entrare suscitando le proteste di fra Fazio, che ha da
ridire sulla presenza di due donne nel convento a notte alta: Cristoforo lo
mette a tacere con la frase latina Omnia munda mundis ("tutto è puro per i
puri") e il sagrestano non oppone altre resistenze.

Padre Cristoforo consiglia ai tre di lasciare il paese

Padre Cristoforo spiega ai tre quale avvertimento ha affidato a Menico,


rallegrandosi del fatto che, come egli crede, il ragazzo li abbia trovati
tranquilli nelle loro case: Lucia è turbata all'idea di non rivelare la verità al
frate, ma questa è la "notte degl'imbrogli e de' sotterfugi". Cristoforo
afferma che il paese non è più un posto sicuro per loro e che, per quanto la
cosa sia difficile da accettare, se ne dovranno andare: forse presto
potranno tornare, ma nel frattempo egli provvederà a trovare ai tre un
rifugio sicuro e a soddisfare le loro necessità . Le donne dovranno andare a
Monza, presentando una lettera al padre guardiano del convento dei
cappuccini che penserà a trovar loro una sistemazione. Renzo invece
andrà a Milano, dove presenterà a sua volta una lettera a padre
Bonaventura da Lodi, al convento di Porta Orientale, il quale gli troverà un
lavoro in attesa di tempi migliori. Il frate invita i tre a raggiungere la riva

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del lago, nei pressi dello sbocco del torrente Bione, dove troveranno un
barcaiolo al quale dovranno rivolgersi con un segnale convenuto (essi
diranno "barca" e alla domanda "per chi?", risponderanno "San
Francesco"); questi li trasporterà alla riva opposta, dove un calesse li
porterà sino a Monza. Renzo e Agnese consegnano al frate le chiavi delle
rispettive case, perché qualcuno badi a custodirle in loro assenza, quindi il
frate rivolge una preghiera a Dio perché vegli sui tre fuggitivi e, al
contempo, illumini con la sua grazia don Rodrigo che cerca solo di
compiere il male. A questo punto i tre si congedano da padre Cristoforo,
che si dice certo che si rivedranno presto, quindi raggiungono in fretta la
barca nel luogo indicato.

L'addio di Lucia al paese natio

Renzo, Agnese e Lucia trovano subito il barcaiolo e questi, dopo i segnali


convenuti, li fa salire sull'imbarcazione e si stacca dalla proda, iniziando a
remare verso la riva opposta. Non tira un alito di vento e la superficie del
lago è immobile, illuminata dal chiarore lunare; si sente solo il debole
rumore della risacca sulle rive e dell'acqua che si infrange contro i piloni
del ponte. I tre sono silenziosi e guardano il paesaggio, in cui si distingue il
profilo delle montagne, il paese, il palazzotto di don Rodrigo che domina
tutto dall'alto e assume un aspetto feroce, sinistro. Lucia vede da lontano
la sua casa ed è presa da una grande commozione, piangendo
segretamente: la giovane dice addio ai monti, il cui aspetto le è familiare
come quello delle persone care, ai torrenti, il cui suono le è noto come la
voce di chi ama, alle case che biancheggiano qua e là sul pendio. Colui che
si allontana volontariamente dal paese natio, per fare fortuna altrove,
parte a malincuore e vorrebbe tornare indietro, all'idea di perdersi nelle
tumultuose e caotiche città ; Lucia, che parte costretta da una prepotenza,
che pensava di trascorrere in quel luogo tutta la sua vita, dice tristemente
addio alla sua casa, dove Renzo veniva a trovarla, alla casa del promesso
sposo, in cui pensava di entrare - non senza rossore - come sua moglie,
alla chiesa, dove il rito del matrimonio era stato preparato e si sarebbe
dovuto celebrare nella santità del sacramento. Questi sono i pensieri di
Lucia, forse non espressi con queste parole, mentre quelli degli altri due

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non sono molto differenti (intanto la barca si avvicina alla riva destra
dell'Adda).

CAPITOLO IX
Il viaggio a Monza

Il barcaiolo fa scendere Renzo, Agnese e Lucia sulla sponda opposta


dell'Adda, quindi si allontana dopo aver ricevuto i ringraziamenti dei tre e
aver rifiutato i pochi soldi che Renzo tenta di mettergli in mano. Il calesse
è lì ad attenderli con il suo conduttore, perciò i tre salgono e l'uomo parte
subito alla volta di Monza. Che la meta del viaggio sia quella città è detto
dall'autore in modo esplicito, anche se l'anonimo tace il nome di quel
luogo perché laggiù Lucia avrà a che fare con una persona potente
coinvolta in un intrigo assai torbido, e appartenente a un'antica famiglia
nobile che Manzoni, benché il casato si sia estinto da tempo, lascerà
innominata.

Il baroccio giunge a Monza poco dopo l'alba e i tre vengono portati dal
conduttore in una locanda, dove possono riposare e rifocillarsi (l'uomo
rifiuta qualsiasi ricompensa come già il barcaiolo). Renzo vorrebbe
trattenersi lì tutto il giorno per essere d'aiuto alle due donne, ma queste lo
esortano a partire subito alla volta di Milano per obbedire alle istruzioni
di padre Cristoforo e per non dare adito a pettegolezzi facendosi vedere in
loro compagnia. Il giovane si congeda dunque da Agnese e Lucia
trattenendo a stento le lacrime, mentre la ragazza piange mostrandosi
addolorata per la separazione, poi Renzo lascia le due donne riprendendo
il cammino.

Agnese e Lucia dal padre guardiano

Il conduttore del calesse conduce Agnese e Lucia al convento dei padri


cappuccini, che si trova poco fuori Monza e dove, una volta arrivati,
l'uomo fa subito chiamare il padre guardiano. Questi si presenta sull'uscio
e legge la lettera scritta da padre Cristoforo, in cui ci sono dettagli sulla

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vicenda che ha come protagonista Lucia, quindi riflette e conclude che
solo la "Signora" potrà essere loro d'aiuto, invitando poi le due donne a
seguirlo al convento delle monache dove le presenterà a questa persona. Il
frate raccomanda tuttavia a Agnese e Lucia di seguirlo a una certa
distanza in strada, per non dare adito a chiacchiere mostrando che il
religioso se ne va in giro in compagnia di due donne, una delle quali è una
"bella giovine". Lucia e Agnese chiedono al conduttore del calesse che le
accompagna chi sia questa "Signora" e l'uomo spiega che si tratta di una
monaca, figlia di un nobile molto potente a Milano e a Monza, per cui la
donna è molto rispettata nel monastero come se fosse la badessa; dunque,
se vorrà accordar loro la sua protezione, potranno essere certe di trovare
un rifugio assolutamente sicuro. Poco dopo il gruppo giunge al monastero,
che sorge non distante dalla porta del borgo, quindi il padre guardiano
prega il conduttore di tornare dopo un paio d'ore a ricevere la risposta e
l'uomo si congeda dalle due donne con saluti e ringraziamenti. Il frate fa
entrare Agnese e Lucia nel cortile del convento e le fa attendere nelle
stanze della fattoressa, mentre lui va a chiedere udienza alla "Signora";
torna poco dopo (intanto la fattoressa ha rivolto alle due donne domande
insistenti) e le accompagna al parlatorio dando loro indicazioni su come
comportarsi con la monaca, che potrebbe prendere a cuore il loro caso.

Agnese e Lucia parlano con Gertrude

Lucia non è mai stata in un convento e, una volta dentro il parlatorio, è


stupita di non scorgere la monaca cui vorrebbe fare il suo inchino: vede
poi il padre guardiano avvicinarsi a una finestrella protetta da una grata
che si apre sulla parete, al di là della quale si presenta in piedi Gertrude, la
"Signora" del monastero. La donna dimostra circa 25 anni e la sua bellezza
è come sfiorita, con qualcosa di lascivo e morboso; indossa un velo nero e
una benda bianca di lino che circonda il viso e la fronte, che si raggrinza
spesso come se esprimesse un qualche dolore segreto. Gli occhi neri
fissano talvolta l'interlocutore con una certa curiosità , talaltra sono chinati
e sembrano chiedere pietà e affetto, mentre in qualche circostanza vi si
può leggere un certo odio e risentimento, quando non il travaglio di pene
nascoste che traspaiono da un'apparente svogliatezza. La donna ha
guance molto pallide e labbra rosse che spiccano sul volto, mentre il suo

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abbigliamento mostra alcuni segni di trascuratezza della regola
monastica, giacché la tonaca è attillata in vita come una veste laica e sotto
il velo spuntano ciocche di lunghi capelli neri, che la suora dovrebbe
tenere sempre corti. Agnese e Lucia non fanno caso a questi particolari e il
padre guardiano presenta alla "Signora" le due donne che si fanno avanti
inchinandosi, mentre Gertrude osserva Lucia con una malcelata curiosità .
La monaca ha parole di apprezzamento per il padre e per i cappuccini,
quindi chiede ulteriori dettagli sulla storia di Lucia: la giovane arrossisce e
Agnese inizia a parlare, ma il frate le lancia un'occhiataccia e spiega poi a
Gertrude che Lucia ha dovuto lasciare il suo paese a causa di imprecisati
pericoli, suscitando la curiosità della monaca che chiede altri particolari. Il
frate si schermisce affermando che si tratta di questioni delicate,
precisando tuttavia che Lucia ha subìto la persecuzione di un nobile
prepotente, al che Gertrude invita Lucia a farsi avanti e a dire se quel
cavaliere era davvero per lei un "persecutore odioso".

Colloquio tra Lucia e Gertrude

Lucia è sconvolta dall'imbarazzo, dal momento che parlare di certe cose


sarebbe per lei difficile anche con una sua pari, figurarsi alla presenza di
quella signora che insinua anche dei dubbi sulla sua vicenda. La giovane
inizia a balbettare senza dir nulla, quando interviene in suo aiuto Agnese
che spiega a Gertrude che la figlia odiava quel cavaliere ed era promessa
sposa a un giovane perbene, di cui sarebbe già la moglie se il curato del
loro paese avesse avuto un po' più di coraggio. Gertrude interrompe
stizzita Agnese e la rimprovera di parlare senza essere interrogata,
mentre il padre guardiano accenna a Lucia che dovrà essere lei a spiegare
alla monaca come stanno le cose: Lucia vince la sua ritrosia e conferma la
versione della madre, dicendo che lei prendeva in marito Renzo di sua
volontà e preferirebbe morire piuttosto che cadere nelle mani di quel
"cavaliere", supplicando poi la "Signora" di concedere loro la sua
protezione. Gertrude crede a Lucia e si dice pronta ad aiutarla, così decide
di ospitare le due donne nell'alloggio lasciato libero dalla figlia della
fattoressa che si è sposata, le cui mansioni saranno ricoperte da loro nei
giorni seguenti. In seguito Gertrude congeda il padre e Agnese,
trattenendo presso di sé Lucia e prendendo gli accordi necessari con la

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badessa, mentre il frate va a scrivere una lettera in cui fornirà ragguagli a
padre Cristoforo su come ha sistemato le due donne (il cappuccino è
piuttosto fiero della facilità con cui, a suo dire, ha trovato un sicuro rifugio
per la giovane e sua madre). Intanto la monaca si apparta con Lucia e,
abbandonato il ritegno che aveva mantenuto alla presenza del padre
guardiano, inizia a fare con la giovane e inesperta contadina dei discorsi
assai strani, su argomenti non molto convenienti a una religiosa.

La storia di Gertrude: la prima infanzia

A questo punto l'autore interrompe la narrazione e inizia un lungo


flashback, in cui narra la storia passata di Gertrude e spiega lo strano
comportamento della monaca: costei è l'ultima figlia di un ricco e potente
principe di Milano, il quale ha deciso che tutti i figli cadetti dovranno
entrare nel clero per non intaccare il patrimonio di famiglia e far sì che
esso vada interamente al primogenito. La bambina è destinata al chiostro
prima ancora di nascere e, una volta venuta al mondo, le viene imposto il
nome Gertrude per volontà del padre, per ricordare immediatamente
l'idea del velo claustrale. I suoi primi giocattoli sono bambole vestite da
monaca e ogni volta che i genitori o il fratello maggiore le vogliono fare un
complimento le dicono sempre: "che madre badessa!", ricordandole che
quando sarà la superiora di un convento potrà comportarsi a suo
piacimento, mentre ora che è bambina deve dominare il suo carattere un
po' ribelle. Nessuno le dice mai in modo esplicito che dovrà farsi monaca,
ma la cosa è sottintesa in tutti i discorsi e tale idea le viene insinuata nella
mente in ogni modo, specie dal principe che, quando parla del futuro dei
suoi figli, assume un contegno imperioso e pieno di orgoglio nobiliare.

Gertrude entra in monastero

A sei anni Gertrude viene mandata come educanda nello stesso monastero
dove poi incontrerà Lucia, posto cioè nella città di Monza della quale il
principe padre è il feudatario: l'uomo sa bene che la badessa e le altre
monache "notabili" del convento saranno ben liete di assecondare i suoi
disegni per ottenere vantaggi politici, infatti Gertrude riceve subito un
trattamento particolare che la distingue dalle altre bambine (viene
chiamata la "signorina", riceve molte attenzioni, gode di infiniti
privilegi...). Non tutte le monache sono complici del padre nel mettere in

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trappola Gertrude, ma molte non sospettano di nulla e altre, pur nutrendo
qualche dubbio, restano in silenzio per non sollevare scandali. Passano gli
anni e Gertrude spesso si vanta con le compagne del destino di monaca e
di badessa che l'attende, senza tuttavia suscitare quell'invidia che si
aspetterebbe: scopre, anzi, che le altre educande sognano di sposarsi e di
condurre una felice vita nel mondo, al che Gertrude comincia a capire che
lei pure si sente inclinata alla vita laica e che, dopotutto, nessuno potrà
costringerla a prendere il velo contro la sua volontà . Si tratta però di
negare il suo consenso al padre, che lo dà ormai per scontato, il che la
porta a coltivare mille paure e ripensamenti: è invidiosa delle compagne e
spesso fa loro dei dispetti, o fa pesare la sua superiorità nel convento,
salvo poi cercare la loro complicità e la loro comprensione; la religione
non è affatto una consolazione per lei, diventa anzi fonte di ulteriori timori
e paure, tanto da indurla a desiderare di chiudersi nel chiostro per espiare
una qualche colpa che sente di aver commessa.

Gertrude scrive la lettera al padre

Il diritto canonico stabilisce che una ragazza, per essere ammessa al


noviziato, deve prima inoltrare una supplica al vicario delle monache che
di lì a un anno dovrà esaminarla per accertare la sincerità della sua
vocazione: la badessa sfrutta uno dei momenti di incertezza di Gertrude
per farle sottoscrivere la supplica, cosa di cui la giovane si pente molto
presto. Dopo un periodo di struggimento interiore, arriva il momento in
cui la ragazza dovrà lasciare il monastero e trascorrere un mese nella casa
paterna, come prescrive la regola per essere ammessa all'esame; Gertrude
vorrebbe cogliere quest'occasione per dire al padre che non intende
prendere i voti, ma poiché non ha il coraggio di farlo apertamente accetta
il consiglio maligno di una compagna, la quale le suggerisce di informare
preventivamente il principe con una lettera. La missiva viene concertata e
scritta con l'aiuto di alcune compagne, quindi fatta pervenire
segretamente al padre, senza tuttavia che arrivi mai una risposta.
Gertrude, anzi, viene un giorno convocata dalla badessa che la informa di
una gran collera del padre, per un qualche misterioso peccato da lei
commesso, anche se potrà far dimenticare tutto comportandosi come si
conviene, al che la giovinetta non osa chiedere ulteriori spiegazioni.

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Gertrude torna a casa del padre. Il biglietto al paggio

Arriva il giorno del ritorno a casa, che Gertrude attende con ansia ma
anche con timore, dal momento che dovrà affrontare il padre e il resto
della famiglia. La giovane pensa che riceverà delle pressioni, nel qual caso
lei opporrà un rispettoso ma netto diniego, oppure verrà presa con le
buone, al che li muoverà a compassione con lacrime e preghiere: ma non
avviene né una cosa né l'altra, dal momento che al suo arrivo a casa è
accolta con estrema freddezza da tutti i familiari, che la trattano come se
fosse colpevole di qualcosa che, pure, non rivelano mai apertamente.
Gertrude è tenuta in una sorta di isolamento, venendo ammessa alla
compagnia dei genitori e del primogenito solo in ore stabilite, mentre
nessuno le rivolge mai il discorso o le mostra un po' dell'affetto che lei
vorrebbe. Oltre a ciò non può mai uscire di casa (neppure per andare in
chiesa, poiché ce n'è una contigua al palazzo) e quando c'è una visita la
ragazza viene mandata in una stanza all'ultimo piano, insieme ad alcune
vecchie servitrici con cui spesso deve anche cenare. I membri della servitù
mostrano verso di lei lo stesso contegno dei suoi familiari, tranne un
giovane paggio il quale mostra un certo rispetto e una forma di
compassione nei suoi confronti, sentimenti che attirano l'interesse di
Gertrude per il ragazzo del quale, molto ingenuamente, finisce per
infatuarsi. Il suo comportamento viene notato da chi le sta intorno e la
giovane viene tenuta d'occhio, finché un giorno è sorpresa da una
cameriera mentre scrive un innocente biglietto d'amore per il paggio, che
le viene strappato di mano e consegnato al padre.

Il principe punisce Gertrude

Il principe non tarda a venire a rimproverare la figlia, la quale al suono dei


suoi passi è colta da un sincero terrore: l'uomo si presenta con il biglietto
in mano e un'aria terribilmente accigliata, dicendole che per punizione
sarà confinata in camera sotto la sorveglianza della cameriera che l'ha
scoperta, lasciando tuttavia intendere che seguirà un altro più grave e
indeterminato castigo. In seguito il principe licenzia il paggio intimandogli
di non rivelare mai nulla dell'accaduto, mentre Gertrude resta a
tormentarsi in compagnia dell'odiata cameriera, che ricambia il suo
malanimo in quanto costretta a sorvegliarla per chissà quanto tempo. La

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ragazza si aspetta di essere di nuovo rinchiusa nel monastero, esposta alla
vergogna per il peccato commesso, mentre maledice se stessa per aver
scritto quel biglietto che, teme, potrebbe essere stato letto anche dalla
madre e dal fratello. La giovane è talmente prostrata che inizia a pensare
che, forse, accettare il velo sarebbe la soluzione a tutti i problemi e
sanerebbe la situazione, anche perché Gertrude è talmente pentita
dell'errore compiuto che la monacazione le appare un mezzo efficace per
espiare la colpa. Inoltre la compagnia forzata della sua carceriera le rende
ancor più odiosa la situazione, giacché la donna non perde occasione per
minacciare il castigo del padre, o per rinfacciarle la colpa che l'ha condotta
a tale punizione: dopo quattro o cinque giorni di prigionia, una mattina,
dopo uno scambio di dispetti con la cameriera, Gertrude decide di porre
fine a tutto questo e si risolve a scrivere una lettera al padre, in cui non
solo chiede perdono per l'errore commesso, ma si dice pronta a fare
qualunque cosa gli piacerà pur di ottenerlo.

CAPITOLO X
Il principe convince Gertrude a entrare in monastero

L'autore osserva che ci sono momenti in cui l'animo dei giovani è


particolarmente vulnerabile e chi intende forzarli ad accettare
un'imposizione può approfittarne per ottenere i propri scopi: il principe,
leggendo la lettera di Gertrude, capisce che l'occasione è propizia e le
ordina di venire da lui, quindi la giovane raggiunge il padre e gli si
inginocchia piangente chiedendo perdono. Il principe risponde che il
perdono va meritato con le azioni e aggiunge che, se mai avesse avuto
intenzione di dare la figlia in sposa a qualcuno, ora il suo comportamento
gli ha fatto capire che ciò sarebbe sconveniente, perciò anche la ragazza
dovrebbe aver capito che la vita laica è troppo piena di insidie e tentazioni
per la sua debole volontà . Gertrude si lascia sfuggire un "sì", che il padre è
abile a interpretare come l'accettazione da parte sua a prendere il velo:
l'uomo scuote un campanello e chiama subito la madre e il fratello
maggiore della giovane, ai quali comunica lietamente che Gertrude è
risoluta a entrare in convento. I due si affrettano a felicitarsi con la
ragazza, la quale ascolta frastornata mentre il padre preannuncia che lei

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sarà la prima monaca del convento e che appena avrà l'età necessaria
diventerà badessa. Il principe vorrebbe addirittura che Gertrude si
recasse al convento di Monza quel giorno stesso, per chiedere alla badessa
di essere ammessa nel chiostro, ma la figlia riesce a ottenere che la cosa
venga rimandata all'indomani, illudendosi di poter cambiare qualcosa nel
frattempo. Il principe si reca poi dal vicario delle monache, per fissare il
giorno dell'esame cui Gertrude dovrà essere sottoposta per accertare la
sincerità della sua vocazione (l'appuntamento sarà di lì a due giorni).

Gertrude si prepara alla visita a Monza

Il resto della giornata vede Gertrude impegnata in molteplici occupazioni,


che non le lasciano un minuto di tregua e le impediscono di raccogliere i
pensieri intorno al passo che sta per compiere in modo irrevocabile: viene
condotta nelle stanze della madre per essere pettinata e acconciata, poi va
a pranzo ricevendo i complimenti della servitù e di alcuni parenti fatti
venire apposta per l'occasione. Tutti la chiamano ormai "sposina",
appellativo che viene dato alle giovani monacande, e dopo pranzo la
giovane esce in compagnia della madre e due zii per una passeggiata in
carrozza, lungo una strada centrale di Milano dove incontrano molti altri
nobili. Al ritorno a palazzo, Gertrude deve sostenere la visita di numerosi
parenti e amici di famiglia che sono convenuti per congratularsi con lei
della sua decisione e ai quali, sia pure a malincuore, la giovane deve
rispondere facendo buon viso a cattiva sorte; al termine della serata
riceve i complimenti anche del principe padre, lieto del suo
comportamento degno del grado e della posizione sociale che ricopre.
Dopo la cena, Gertrude pensa di approfittare della benevolenza che
sembra essersi conquistata pregando il padre di allontanare da lei la
cameriera che le aveva fatto da carceriera, lagnandosi della sua condotta,
e il nobile si mostra fin troppo sollecito ad accogliere le sue lamentele e a
promettere solenni rimproveri alla domestica. A Gertrude viene quindi
assegnata un'altra anziana cameriera e questa non esita a felicitarsi a sua
volta con la giovane per la sua decisione di entrare in convento,
aggiungendo molte cose circa i vantaggi che a lei verranno
dall'appartenere a una delle famiglie più ricche e aristocratiche. La donna
parla ancora mentre Gertrude è già andata a letto e ormai dorme, vinta

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dalla stanchezza della giornata, anche se il sonno è affannoso e turbato da
brutti sogni.

La visita al convento di Monza

Il mattino dopo Gertrude è svegliata assai presto dalla cameriera, che la


invita ad affrettarsi poiché la madre è già in piedi e anche suo fratello la
attende, impaziente come al solito e secondo il suo carattere. La giovane si
alza e si lascia vestire e pettinare, quindi è condotta alla presenza dei
familiari in una sala dove le è offerta una tazza di cioccolata, gesto che
vuol sottolineare la sua raggiunta maturità (si tratta infatti di una bevanda
rara e preziosa). Prima di partire alla volta del convento di Monza, dove la
badessa, preavvertita, attende la visita di Gertrude, il principe si rivolge
alla figlia e la ammonisce a comportarsi bene e a rivolgere la sua supplica
di essere ammessa al convento con fare sicuro, con naturalezza, per non
dare adito a dubbi e incertezze (il nobile rammenta alla figlia il "fallo"
commesso e ricorda che il segreto resterà tale, mentre lei nel chiostro sarà
riverita come una sua pari). In seguito Gertrude parte per Monza in
carrozza, accompagnata dai genitori e dal principino suo fratello, e
l'ingresso in città è accompagnato da un accorrere di gente che si raduna
intorno alla nobile famiglia: Gertrude raggiunge l'ingresso del convento
dove l'attende la madre badessa, attorniata da tutte le monache del
chiostro, dalle converse e da alcune educande sparse qua e là , quindi la
superiora chiede alla giovane cosa sia venuta a chiederle in quel luogo
dove, afferma, non le si può negar nulla. Gertrude è colta da un'incertezza
ed è sul punto di dire una cosa diversa da quella che tutti si attendono, ma
poi lo sguardo severo e impaziente del padre spegne in lei ogni velleità di
ribellione e la ragazza rivolge alla badessa la supplica di essere ammessa a
vestire l'abito monacale in quel convento. La badessa risponde che la
decisione sarà presa di concerto con le altre monache e con i superiori, ma
intanto lei e le consorelle possono complimentarsi con la giovane per la
decisione assunta. Vengono offerti dei dolci alla "sposina" e ai suoi
familiari, quindi la badessa conferisce in privato con il principe e, in modo
imbarazzato, gli ricorda che se mai avesse forzato la figlia a quel passo
incorrerebbe nella scomunica, dicendosi comunque sicura che ciò non sia

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avvenuto. Poco dopo la famiglia si congeda dalle suore e lascia il convento
per rientrare a palazzo, a Milano.

La scelta della "madrina"

Durante il viaggio di ritorno Gertrude ripensa alla sua debolezza e alla


difficoltà di recedere dal passo che ormai appare inevitabile, specie al
pensiero della severità del padre. Il resto della giornata trascorre nelle
stesse occupazioni di quella precedente, quindi al termine della cena il
principe inizia a parlare della scelta della madrina, ovvero la dama che
dovrà accompagnare Gertrude sino al momento della monacazione
facendole visitare chiese, monumenti e ville che rappresentano lo
splendore del mondo che lei abbandona. Benché la scelta sia normalmente
assegnata ai genitori, il principe la rimette alla decisione della figlia
fingendo che questa sia una gran concessione: Gertrude indica il nome
della dama che, durante la sera, l'ha lodata e vezzeggiata più delle altre,
scelta che trova d'accordo tutti i suoi familiari (è a lei che ha già pensato il
padre, tanto più che la dama in questione mira a far sposare sua figlia col
principino, dunque ha tutto l'interesse a spingere Gertrude in convento).
Gertrude ha affrontato questo passo ben sapendo che è un ulteriore
progresso verso la sua entrata in convento, pure non ha avuto il coraggio
di deludere le aspettative del padre e del resto della famiglia.

L'esame del vicario

Il giorno dopo Gertrude si sveglia di buon'ora in attesa del vicario delle


monache che verrà ad esaminarla e la giovane sta pensando in che modo
possa sottrarsi a quel passo decisivo, quando il padre la fa chiamare a sé. Il
principe la esorta abilmente a completare l'opera tanto bene intrapresa e
a non guastare tutto mostrandosi esitante col vicario o, peggio, facendogli
capire che la sua vocazione non è sincera: ciò getterebbe discredito
sull'onore della famiglia e del principe stesso, il quale sarebbe costretto a
quel punto a rivelare a tutti il "fallo" commesso da Gertrude (la ragazza, al
solo sentirne parlare, diventa rossa dall'imbarazzo). L'uomo aggiunge altri
suggerimenti e rinnova le promesse di una vita piena di privilegi nel
monastero, quindi arriva il vicario e la ragazza viene lasciata sola con lui.
Il vicario è già abbastanza convinto delle intenzioni di Gertrude, dal
momento che il principe ne ha tanto lodato la vocazione, pure il prete

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inizia a chiederle se per caso non abbia subìto minacce o lusinghe per
essere forzata alla monacazione. Gertrude pensa subito a come stanno
realmente le cose e vorrebbe dire la verità al vicario, ma per far questo
dovrebbe scendere in dettagli che la imbarazzano troppo, quindi risponde
che si fa monaca per sua volontà e senza subire costrizioni. In seguito dice
di aver sempre avuto questo desiderio e nega che a spingerla a ciò sia
qualche disgusto o delusione passeggera per la vita mondana, senza
lasciare trasparire il turbamento che quelle menzogne provocano nel suo
animo. Gertrude sa bene che il vicario potrebbe forse impedirle di entrare
in convento, ma non potrebbe far nulla per proteggerla dalla collera del
padre all'interno di quella casa, dunque continua a mentire e alla fine
convince il prete della bontà della sua vocazione. Il vicario, uscendo dalla
stanza del colloquio, si imbatte nel principe che sembra passare di lì per
caso e si congratula con il nobile per la buona disposizione d'animo in cui
ha trovato la figlia. Ciò solleva il principe dall'incertezza in cui era rimasto
sino a quel momento, perciò l'uomo si precipita a complimentarsi con
Gertrude e a riempirla di lodi e promesse, manifestando una gioia che,
paradossalmente, in questo momento è sincera.

Gertrude diventa monaca

Nei giorni seguenti Gertrude è impegnata in una girandola senza fine di


visite, di ricevimenti, di spettacoli che sono per lei occasione di mille
ripensamenti e di molta sofferenza, specie al pensiero che a quella vita
dovrà rinunciare per sempre andando a rinchiudersi in un freddo e
solitario chiostro: tuttavia non ha il coraggio di arrestare la macchina che
la conduce a diventar monaca, soprattutto perché non ha la forza di
affrontare il padre. Intanto si svolge il capitolo delle monache che devono
decidere se accettare Gertrude nel convento e, come previsto, la votazione
ha esito positivo. La giovane chiede a quel punto di entrare nel convento
prima possibile, per porre fine a quello strazio di feste e divertimenti che
sono per lei ragione di sofferenza, e il suo desiderio è presto esaudito:
dopo dodici mesi di noviziato giunge il momento di pronunciare
solennemente i voti e, dunque, di dire un no più scandaloso che mai,
oppure di ripetere un sì già detto tante volte. Gertrude sceglie questa
seconda e più facile possibilità , diventando così monaca per sempre. La

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religione cristiana è tale, spiega l'autore, che ha la facoltà di dare
consolazione a chiunque si rivolga ad essa con animo puro, quindi
Gertrude potrebbe diventare una monaca santa e devota comunque lo sia
diventata, se solo accettasse con rassegnazione e fortezza d'animo la
condizione in cui essa si trova. Ma la giovane, una volta indossato il velo,
prova avversione e ripulsa per la vita che è costretta a fare, invidiando la
sorte di qualunque altra donna che, liberamente, possa godere dei doni
della vita; inoltre detesta le consorelle che hanno avuto una parte nel
complotto che l'ha condotta al convento, verso le quali usa numerosi
dispetti e sgarbi, mentre disprezza le altre che si mostrano amabili verso
di lei, ignorando che esse nel capitolo hanno votato contro il suo ingresso
nel chiostro. Poca soddisfazione trae infine dall'essere riverita da tutti in
monastero e nell'esser chiamata la "Signora", non trovando peraltro
neppure grande conforto nella religione da cui il suo orgoglio nobiliare
non fa che allontanarla.

Gertrude maestra delle educande

Poco dopo il suo ingresso in monastero, Gertrude diventa maestra delle


educande: la donna pensa con stizza al fatto che molte di loro sono
destinate a quella vita nel mondo che a lei è stata negata, perciò le
tiranneggia e le tratta duramente, quasi a far loro scontare in anticipo la
lieta esistenza che le attenderà un giorno. In altre occasioni la monaca è
presa da uno stato d'animo affatto opposto, dettato dall'orrore per il
chiostro e per la regola monastica, e in quei momenti eccita la chiassosità
delle sue allieve, si mescola ai loro passatempi, ne diventa la confidente e
la complice; arriva a imitare la madre badessa come in una commedia,
oppure a farsi beffe di altre consorelle, ridendo in modo sguaiato (anche
se tutto ciò non le dà molte consolazioni e la lascia paradossalmente più
infelice e abbattuta di prima).

La relazione con Egidio e l'assassinio della conversa

Gertrude trascorre così alcuni anni, non trovando altri diversivi alla vita
nel chiostro che lei tanto odia, finché un giorno le si presenta un'occasione
ben più insidiosa. La monaca ha il privilegio di alloggiare in un quartiere a
parte del convento, che da quel lato è attiguo a una casa laica dove vive
Egidio, un giovane scapestrato che si circonda di sgherri e si fa beffe delle

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leggi e della giustizia grazie alle sue amicizie potenti. Costui da una
finestrella che dà sul chiostro un giorno nota Gertrude che passeggia
solitaria in un piccolo cortile, avendo l'ardire di rivolgerle il discorso
senza provare timore per l'empietà dell'impresa: la sventurata risponde a
quel giovane, iniziando in seguito con lui una relazione clandestina.
Gertrude prova molta felicità per la sua nuova condizione e molte
consorelle notano un cambiamento nei suoi modi, una maggiore
tranquillità che invero è solo una forma di ipocrisia per celare la terribile
verità (infatti questi modi gentili lasciano ben presto luogo ai soliti
comportamenti bisbetici della "Signora", che vengono attribuiti al suo
carattere indocile). Un giorno, però , Gertrude ha una violenta discussione
con una conversa e la maltratta in modo eccessivo: la donna si lascia
sfuggire il fatto che lei è a conoscenza di un segreto sulla monaca,
manifestando l'intenzione di svelare tutto al momento opportuno.
Gertrude ne è molto turbata e non molto tempo dopo la conversa svanisce
nel nulla, finché non viene scoperta una buca nel muro dell'orto che lascia
pensare a tutti che la donna sia scappata da lì; le ricerche a Monza e a
Meda, donde la conversa è originaria, non approdano a nulla e forse,
osserva l'autore, anziché cercare tanto lontano si sarebbe dovuto scavare
vicino (la conversa è stata uccisa da Egidio con la complicità di Gertrude e
il corpo è stato sepolto nel convento). In seguito si sparge la voce che la
conversa è forse fuggita in Olanda e non si parla più di lei, anche se
Gertrude è spesso tormentata dal ricordo della donna e preferirebbe
trovarsela viva davanti, piuttosto che sentirne la voce nella sua mente che
la rimprovera e la minaccia per il delitto commesso, senza lasciarle mai un
solo attimo di pace.

Agnese e Lucia al convento

È trascorso circa un anno da quei terribili avvenimenti, quando Agnese e


Lucia sono state presentate a Gertrude: nel suo colloquio privato con
Lucia, la "Signora" moltiplica le domande riguardo alla persecuzione di
don Rodrigo e trova strano il ribrezzo che la giovane mostra per il
signorotto, con un atteggiamento che sembra davvero singolare a Lucia
visto che una monaca non dovrebbe avere familiarità con simili
argomenti. Appena può parlare con la madre, Lucia le confida l'imbarazzo

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per quelle domande ed Agnese le spiega che i signori, chi più chi meno,
sono tutti un po' matti, per cui la figlia non deve farci troppo caso e
pensare che, quando conoscerà il mondo, non tarderà a capire che la cosa
non è poi troppo strana. Gertrude in realtà è molto ben disposta verso
Lucia ed è davvero intenzionata a proteggerla, perciò lei e la madre
vengono alloggiate nelle stanze lasciate libere dalla figlia della fattoressa e
adibite al servizio del monastero. Agnese e Lucia sono ben contente di
aver trovato questa protezione e vorrebbero che la loro presenza lì
rimanesse segreta, ma questo non può avvenire per la caparbia volontà di
don Rodrigo di ritrovare Lucia, quindi l'autore torna a mostrarci il
signorotto quando, la sera prima, attende al palazzotto l'esito della
spedizione che doveva portare al rapimento della giovane.

CAPITOLO XI
Il Griso e i bravi tornano al palazzo di don Rodrigo

Il Griso e i bravi fanno ritorno al palazzotto di don Rodrigo, la notte in cui


hanno tentato vanamente di rapire Lucia, simili a un branco di segugi con i
musi bassi e la coda tra le zampe. Il signorotto cammina nervosamente in
una sala all'ultimo piano, buia, mentre attende con impazienza l'esito della
spedizione: rassicura se stesso circa le possibili conseguenze dell'atto
scellerato, dicendosi certo che né Renzo, né tanto meno padre Cristoforo o
Agnese verranno a cercare Lucia nel suo palazzo e, quanto alla giustizia,
egli può contare sull'appoggio del podestà di Lecco. Don Rodrigo già
pregusta la soddisfazione di vincere la scommessa sul conte Attilio e
pensa alle infami lusinghe che rivolgerà a Lucia prigioniera, quando sente
dei passi in strada e, affacciatosi dalla finestra, vede con sorpresa che i
bravi sono tutti rientrati senza la bussola. Il Griso va subito a fargli
rapporto e il nobile, che lo attende in cima alle scale, lo apostrofa con
parole dure e di scherno per il fallimento dell'impresa, al che il Griso
riferisce fedelmente al padrone tutto quanto è avvenuto nelle ore
precedenti, incluso ovviamente il fatto che Lucia e Agnese non si
trovavano in casa. Don Rodrigo sospetta che ci possa essere una spia a
palazzo, come del resto pensa anche il bravo, il quale rassicura tuttavia il

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padrone sul fatto che, come spera, lui e i suoi uomini non sono stati
riconosciuti. Il signorotto ordina al Griso di provvedere il mattino dopo a
mandare due sgherri a minacciare il console del paese (cosa che l'autore
ha già narrato nelle pagine precedenti), di provvedere a portar via la
bussola dal casolare vicino alla casa delle due donne, e infine di
sguinzagliare altri uomini nel villaggio per scoprire cosa sia accaduto la
notte prima. A questo punto sia don Rodrigo sia il Griso vanno a dormire,
quest'ultimo (osserva con ironia l'autore) stanco per i rischi corsi e
avendo ricevuto ingiusti rimproveri.

Colloquio tra don Rodrigo e il conte Attilio

Il mattino seguente don Rodrigo cerca il conte Attilio e questi lo prende in


giro ricordandogli che è S. Martino e che ormai la scommessa è perduta. Il
cugino gli rivela cosa è accaduto la notte scorsa e Attilio, con fare serio,
osserva che padre Cristoforo è certamente coinvolto, rimproverando tra
l'altro Rodrigo di non aver fatto bastonare il frate quando due giorni
prima lo aveva affrontato nel suo palazzo. Il conte promette che penserà
lui a punire come si deve il cappuccino, rivolgendosi al conte zio del
Consiglio Segreto di Milano dove Attilio si recherà di lì a due giorni,
benché l'altro lo preghi di non peggiorare le cose. In seguito i due fanno
colazione e il padrone di casa si dice certo di non avere problemi con la
giustizia, tanto più che (come ricorda Attilio) il podestà è dalla sua parte,
anche se Rodrigo accusa il cugino di provocare di continuo il magistrato
mettendo lui in una posizione scomoda. Attilio osserva che don Rodrigo
sembra avere un po' di paura, quindi lo rassicura e promette che presto
andrà dal podestà a portargli i suoi ossequi e a far sentire il peso del suo
potere. Il conte esce poi dal palazzo per andare a caccia, mentre don
Rodrigo attende il ritorno del Griso con le informazioni raccolte sulla
notte precedente.

La reazione del paese alla scomparsa di Renzo, Lucia, Agnese

La confusione in paese della notte precedente è stata troppa perché coloro


che ne sono informati non si lascino sfuggire qualche dettaglio, a
cominciare da Perpetua che rivela a molte persone il fatto che Renzo,
Agnese e Lucia hanno tentato il "matrimonio a sorpresa" ai danni di don
Abbondio, benché la donna taccia il fatto di essere stata raggirata da

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Agnese. Anche Gervaso è eccitato all'idea di rivelare ciò a cui ha preso
parte e che lo fa sembrare un uomo come gli altri, incurante del fatto che il
fratello Tonio lo minacci perché non dica nulla, e del resto Tonio stesso si
lascia scappare qualche ammissione con la moglie che a sua volta ne parla
in giro. Solo Menico osserva il silenzio, in quanto i suoi genitori, atterriti
all'idea che il ragazzo abbia sventato una trama di don Rodrigo, lo tengono
chiuso in casa per alcuni giorni, salvo poi essere loro stessi a rivelare ai
compaesani dettagli di quella vicenda, incluso quello molto importante
che i tre scomparsi si sono rifugiati a Pescarenico.

Gli abitanti del villaggio non sanno tuttavia spiegare l'incursione dei bravi
nella casa di Agnese e Lucia, né la presenza degli altri all'osteria (il cui
padrone è abile a eludere qualsiasi domanda), mentre il pellegrino visto
da due paesani confonde le idee a tutti, poiché ovviamente nessuno
sospetta che si trattasse del Griso travestito. Quest'ultimo riesce poi a
mettere insieme i pezzi della vicenda grazie a tutte queste informazioni
raccolte da lui stesso e dai suoi bravi, così all'ora di pranzo raggiunge don
Rodrigo al suo palazzo e gli fa una relazione abbastanza precisa
dell'accaduto: riferisce lo stratagemma tentato dai due promessi, che
spiega l'assenza di Agnese e Lucia smentendo l'ipotesi di una spia, quindi
afferma che i tre si sono rifugiati a Pescarenico, dove evidentemente
hanno avuto l'assistenza di padre Cristoforo. Il signorotto è furibondo per
la fuga dei due giovani e per la parte avuta dal frate, perciò manda subito il
Griso a Pescarenico a raccogliere altre più dettagliate informazioni,
promettendogli denaro e la sua protezione.

Don Rodrigo manda il Griso a Monza

L'autore osserva con una certa ironia che l'amicizia è una gran
consolazione, specie perché consente di rivelare ad altri dei segreti, ma
poiché gli amici non formano coppie come gli sposi è abbastanza ovvio che
questi segreti vengano ampiamente diffusi tra un gran numero di persone.
Così il conduttore di calesse che ha portato i tre fuggitivi a Monza confida
la cosa a un amico fidato, e questi fa la stessa cosa ad altri, finché il
"segreto", passando di bocca in bocca, giunge all'orecchio del Griso che
può rivelare a don Rodrigo, a tarda sera, che Agnese e Lucia si sono
rifugiate in un convento a Monza e Renzo ha proseguito per Milano. Il

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signorotto si rallegra della separazione dei due giovani e il giorno
seguente chiama subito il Griso, dandogli il denaro promesso e
ordinandogli di recarsi a Monza per raccogliere ulteriori notizie sulle due
donne. Il bravo si mostra esitante e chiede al padrone di mandare qualcun
altro a Monza, poiché egli ha in quella città una taglia di cento scudi sopra
la sua testa e teme quindi di finire nei guai con la giustizia, cosa che
ovviamente non rischia in paese in quanto è protetto dal nobile e dal
podestà . Don Rodrigo lo rimprovera aspramente della sua vigliaccheria e
gli dice che non dovrà certo andare da solo a Monza e che potrà farsi
accompagnare dallo Sfregiato e dal Tiradritto (due bravi al suo servizio),
dicendosi certo che il suo nome è abbastanza noto anche in quella città
per assicurargli una certa protezione. Il Griso parte dunque per la sua
missione, non senza una certa vergogna, simile a un lupo affamato che
scende dai monti innevati in cerca di preda, mentre annusa l'aria
sospettoso (l'autore cita un verso di un poema ancora inedito di Tommaso
Grossi, amico di Manzoni che egli loda con bonaria ironia).

In seguito don Rodrigo pensa alla maniera per sbarazzarsi di Renzo


usando la giustizia, magari inducendo il podestà a farlo arrestare o
bandire dallo Stato per il tentativo fatto in casa del curato,
ripromettendosi di parlarne al dottor Azzecca-garbugli. Il signorotto,
tuttavia, non può immaginare che Renzo nel frattempo si sta comportando
in modo tale da mettersi da solo nei guai con la legge, senza bisogno di
alcun intervento da parte sua.

Digressione dell'autore

Manzoni interrompe la narrazione e afferma, non senza una certa ironia,


di aver visto più volte un "caro fanciullo" tentare senza successo di
radunare i suoi porcellini d'India che ha lasciato correre liberi per il
giardino, poiché gli animali gli sfuggivano da ogni parte e non si lasciavano
ricondurre al coperto: alla fine il ragazzo finiva per spingere dentro il
recinto quelli più vicini all'uscio, andando poi a recuperare gli altri a
seconda di dove si trovassero. L'autore dovrà fare qualcosa di simile con i
personaggi del romanzo, poiché, dopo aver lasciato Agnese e Lucia per
parlare di don Rodrigo, dovrà ora tornare a Renzo che è in cammino verso
Milano.

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Renzo giunge in vista di Milano

Renzo percorre la strada che da Monza conduce a Milano, pieno di


pensieri cupi e di rabbia verso don Rodrigo che lo ha costretto a lasciare il
paese e Lucia, anche se il ricordo della preghiera recitata con padre
Cristoforo lo raddolcisce e lo induce a inginocchiarsi in preghiera ogni
volta che trova un'immagine votiva (l'autore osserva ironicamente che,
durante il viaggio, uccide e resuscita col pensiero il signorotto varie volte).
Il giovane percorre una strada infossata tra due rive nel terreno, per poi
salire in posizione più elevata grazie a un sentiero a scalini più ripido: da lì
scorge a un tratto la sagoma del duomo di Milano, restando meravigliato
di fronte a quel monumento di cui ha tanto sentito parlare fin da bambino.
In seguito Renzo si volta e vede le sue montagne, tra cui il Resegone che ha
dovuto lasciare, quindi prosegue e giunge in prossimità della città , di cui
vede ormai case ed edifici. Si avvicina a un distinto viandante e gli chiede
con cortesia quale strada conduca al convento di padre Bonaventura:
l'uomo, che si allontana di fretta da Milano a causa del tumulto che è in
atto, dice con altrettanta cortesia a Renzo che per indirizzarlo dovrebbe
sapere di che convento si tratta, al che il giovane gli mostra la lettera avuta
da fra Cristoforo. L'uomo legge "Porta Orientale" e mostra a Renzo la via
per arrivarci, dicendogli di costeggiare il fossato che circonda il lazzaretto
fino ad arrivare alla porta, superata la quale troverà il convento molto
facilmente. L'uomo si congeda con grande gentilezza e Renzo rimane
stupito dei modi garbati dei Milanesi, non sapendo che in quella giornata
tutti i signori si mostrano gentili con i popolani a causa della rivolta.

Renzo trova i pani per terra. Il tumulto

Renzo segue le indicazioni e giunge presto a Porta Orientale, che all'epoca


è costituita da due pilastri sormontati da una tettoia e con accanto la
casupola che ospita i gabellieri. La strada che conduce entro le mura della
città è tortuosa, con al centro un piccolo fossato che la divide in due e che
si perde in una fogna presso la via del Borghetto (lì vicino c'è una grande
croce detta di S. Dionigi, posta su di una colonna). Renzo passa attraverso
la porta senza che i gabellieri si interessino a lui, cosa che lo stupisce
molto ricordando i racconti di chi era stato a Milano e aveva riferito dei
controlli minuziosi che aveva dovuto subire. La strada è deserta e la città

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pare disabitata, salvo il fatto che in lontananza si sente un vocio confuso.
Renzo prosegue il cammino e, a un tratto, vede sul terreno delle lunghe
strisce bianche che sembrano di neve, cosa impossibile anche per la
stagione dell'anno; il giovane osserva con più attenzione e scopre, con
enorme sorpresa, che si tratta di farina. Renzo pensa che a Milano debba
regnare l'abbondanza, visto che la farina viene sciupata in questo modo,
ma poco dopo, giunto vicino alla colonna di S. Dionigi, vede sugli scalini
del piedistallo delle cose simili a pagnotte e, incuriosito, ne raccoglie una:
si tratta proprio di un pane tondo e soffice, bianchissimo, il che riempie il
giovane di meraviglia e lo induce a pensare che questo sia il "paese di
cuccagna", visto che il pane viene gettato via così e per di più in tempo di
carestia. Renzo riflette sul da farsi e poi decide di raccogliere alcuni pani,
dal momento che sono stati buttati per terra, ripromettendosi di pagarli al
proprietario se mai lo incontrasse. Ne raccoglie due e ne mangia un terzo,
proseguendo il cammino e desideroso di capire cosa stia succedendo in
questa città .

La famiglia dei rivoltosi

Renzo prosegue e dopo un po' vede arrivare gente, a cominciare da una


donna, un uomo e un ragazzo: tutti e tre portano un carico pesante, sono
infarinati e sembrano pesti, doloranti. L'uomo regge sulle spalle un gran
sacco che perde farina, mentre la donna regge i lembi della gonna che
contiene anch'essa farina, in quantità tale che ne vola via un po' a ogni
passo. Il ragazzo porta sulla testa una cesta di pani e, nel tentativo di
tenere il passo dei genitori, fa cadere ogni tanto alcune pagnotte a terra.
La madre lo rimprovera aspramente e, muovendosi, fa cadere anche lei un
buon quantitativo di farina. Il marito invita ad andare via in fretta, mentre
alcuni nuovi arrivati da fuori città chiedono ai tre dove si va a prendere il
pane: la donna risponde di andare più avanti e poi osserva con l'uomo che
i contadini finiranno per depredare tutti i forni di Milano, mentre il marito
la invita a pensare che finalmente c'è abbondanza per tutti. Renzo ha
capito che è in corso un tumulto popolare e che i rivoltosi saccheggiano i
forni per rubare il pane, cosa che gli fa istintivamente piacere sia per le
ingiustizie da lui sofferte, sia per la convinzione (generalmente diffusa)
che la carestia sia causata dagli incettatori di pane e che per questo sia

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giusto, all'occasione, impadronirsi di ciò che viene negato al popolo
affamato. Decide comunque, per il momento, di tenersi fuori dalla
sommossa e si affretta a raggiungere il convento dove è stato indirizzato.

Renzo arriva al convento, poi si avvicina al tumulto

Renzo raggiunge il convento dei cappuccini, che sorge in una piazzetta con
quattro grandi olmi davanti: mette via il pane che stava mangiando,
prepara la lettera di padre Cristoforo e tira il campanello. Si apre uno
sportello con una grata e il frate portinaio gli domanda cosa voglia: Renzo
dice di dover consegnare al padre Bonaventura una lettera di padre
Cristoforo, al che il frate gli domanda di darla a lui. Il giovane rifiuta e
afferma di doverla dare in mano a padre Bonaventura, ma il portinaio gli
dice che è assente e rifiuta di fare entrare Renzo, consigliandogli di
attendere in chiesa il ritorno del padre. Lo sportello si richiude e il
giovane, dopo essersi incamminato verso la chiesa, è poi attratto dall'idea
di vedere da vicino il tumulto: si dirige pertanto verso il vociare del
popolo, incuriosito, mentre sbocconcella la mezza pagnotta che gli è
rimasta. L'autore interrompe il racconto per spiegare le cause e le origini
di quella sommossa popolare.

CAPITOLO XI
Le ragioni della carestia

L'autore apre una digressione storica per spiegare le ragioni della


carestia, che ha fatto seguito a un anno di raccolta scarsa (il 1627) in cui le
scorte precedenti hanno in parte attenuato la penuria, mentre il 1628 è
stato un anno ancora più scarso per colpa del cattivo tempo e dell'azione
degli uomini. Tutto è da ricondurre all'insensata guerra di Mantova e del
Monferrato accennata in precedenza, a causa della quale sono state
imposte tasse troppo alte e si sono sottoposte le terre alle devastazioni
delle truppe alloggiate nei paesi (spesso i contadini sono costretti ad
abbandonarle e andare a mendicare il pane come miseri accattoni). Lo
scarso raccolto dell'annata non è stato ancora riposto nei granai che
subito esso è depredato dalle tasse e dalla cupidigia delle soldatesche, il

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che inasprisce ancor di più la penuria: e, sottolinea l'autore, la
conseguenza inevitabile e tuttavia salutare di essa è il rincaro, ovvero
l'aumento del prezzo del grano e del pane. Quando però il rincaro è
ingente nasce nel popolo (e anche fra i nobili e gli intellettuali) l'idea che
la causa di tutto non sia la scarsezza di grano, ma gli accaparratori che ne
fanno incetta per rivenderlo a prezzo maggiorato: fornai e proprietari
terrieri vengono accusati un po' da tutti di far questo, molti credono di
sapere dove siano i magazzini ricolmi di frumento, altri affermano che il
grano viene spedito in paesi stranieri. Il popolo di Milano chiede a gran
voce ai magistrati dei provvedimenti contro i presunti incettatori e
qualcosa viene fatto, come fissare il prezzo massimo di alcune merci,
imporre a tutti di vendere, ma questo ovviamente non risolve il problema
della carestia e non fa saltare fuori il grano che non c'è. Il popolo reclama
altri provvedimenti più incisivi e purtroppo trova un uomo disposto ad
assecondare i suoi voleri.

Ferrer impone il calmiere sul prezzo del pane

Il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, è


impegnato nell'assedio di Casale e in sua vece la città è amministrata da
Antonio Ferrer, gran cancelliere spagnolo. Egli pensa che sia giusto far sì
che il pane abbia un prezzo ribassato, quindi fissa per legge un calmiere
(un tetto massimo) sul prezzo del grano, come se questo si vendesse a 33
lire il moggio, mentre in realtà di vende sino a 80 lire: agisce come una
donna non più giovane, che spera di ringiovanire alterando la carta
d'identità . In altre occasioni un provvedimento così insensato rimarrebbe
lettera morta, ma questa volta il popolo affamato ne pretende l'immediata
esecuzione e accorre in massa ai forni, per acquistare il pane a prezzo
ribassato. I fornai ovviamente protestano, ma le pene minacciate dai
magistrati e l'assillo della folla li obbligano a produrre pane in
continuazione, anche perché i popolani intuiscono che tale legge è
contraria alle dinamiche del mercato e non durerà a lungo. I fornai
tentano di far capire ai magistrati che la cosa prima o poi sarà impossibile
per la penuria del grano e della farina e chiedono che il calmiere venga
revocato, minacciando di smettere di produrre il pane, ma Ferrer (per
incompetenza, testardaggine o semplice convinzione di essere nel giusto)

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non intende acconsentire e il prezzo del pane resta ribassato in forza di
legge. I decurioni, magistrati cittadini che si occupano di queste faccende,
informano per lettera don Gonzalo e invocano il suo intervento per
risolvere la situazione che sta diventando insostenibile.

Il calmiere viene revocato. Scoppia la rivolta

Il governatore, impegnato più mai negli affari della guerra, nomina una
commissione di magistrati alla quale dà il compito di fissare il giusto
prezzo al pane: i deputati si riuniscono e, dopo una seduta in cui
prevalgono i complimenti e le discussioni oziose, prendono l'unica
decisione logica, ovvero rincarare il pane secondo le leggi di mercato. La
cosa acquieta i fornai, ma fa imbestialire il popolo, che la sera del 10
novembre 1628, prima dell'arrivo di Renzo, si riversa in strada dove si
formano gruppi spontanei, tutti uniti dalla rabbia e dall'avversione per la
revoca del calmiere. Molti improvvisati oratori fanno discorsi con cui
spingono la folla a fare qualcosa di violento e molti mestatori di popolo
ascoltano compiaciuti, decisi a intorbidire le acque quando il tumulto sarà
scoppiato. Infatti il giorno seguente (S. Martino, l'11 novembre) le strade
si riempiono nuovamente di popolo brulicante e irritato, in cerca di
un'occasione per dare inizio alla sommossa. Alle prime luci del giorno i
garzoni escono dalle botteghe dei fornai con le gerle di pane sulle spalle,
per portarlo nelle case dei nobili, e un ragazzo viene notato dalla folla che
subito inveisce contro di lui accusando i fornai di nascondere il pane.
Alcuni lo strattonano e tentano di afferrare la gerla, al che il garzone se ne
libera e si dà alla fuga, mentre i popolani afferrano le pagnotte ancora
fragranti e le distribuiscono ai presenti; quelli a cui non tocca nulla vanno
in cerca di altri garzoni, che subiscono lo stesso trattamento. Il bottino è
comunque assai misero e sono ancora molti quelli rimasti a bocca asciutta,
per cui il popolo in rivolta si muove deciso a dare l'assalto ai forni della
città .

L'assalto al forno delle Grucce. Il capitano di giustizia

Nella strada chiamata Corsia dei Servi c'è un forno che ai tempi dell'autore
ha ancora lo stesso nome, ovvero il forno delle Grucce (questo è il nome in
toscano, mentre quello in milanese, osserva con ironia Manzoni, è formato
da parole dal suono sgradevole). Il popolo in tumulto corre verso questa

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bottega, dove il garzone è appena tornato privo del suo carico, e ben
presto chi è all'interno sente l'urlo orrendo della folla che si avvicina. I
proprietari si affrettano a sprangare porte e finestre e qualcuno va a
chiedere l'intervento del capitano di giustizia, mentre intanto il popolo
urla all'esterno "pane! aprite!" Poco dopo sopraggiunge con una squadra
di alabardieri al comando del capitano di giustizia, che tenta invano di
disperdere la folla e di indurre i presenti a tornare a casa: l'ufficiale e i
soldati si appostano di fronte all'uscio del forno, ma gli inviti del capitano
ad avere giudizio e ad andarsene non valgono a nulla, anche perché la folla
si ingrossa ogni momento e preme contro la porta della bottega. Il
capitano dà ordine di respingere i rivoltosi senza far male a nessuno e
intanto picchia alla porta, gridando che aprano e lo facciano entrare; la
porta si apre, così lui e gli alabardieri riescono a entrare nella bottega e il
capitano sale al piano di sopra, affacciandosi a una finestra.

Il forno viene saccheggiato dalla folla

Il capitano si rivolge alla folla e tenta di placarla con parole diplomatiche,


invitando i rivoltosi a tornare a casa in cambio del perdono giudiziario, ma
quelli intanto stanno già sconficcando la porta e togliendo le inferriate
dalle finestre. Alcuni di loro lanciano pietre contro il capitano e una lo
colpisce alla fronte, per cui l'ufficiale muta d'improvviso il tono del suo
discorso e grida improperi alla folla. L'uomo si ritira all'interno e poco
dopo i proprietari del forno iniziano a gettare di sotto delle pietre che
hanno raccolto in precedenza, colpendo più di un rivoltoso (due ragazzi
muoiono nella calca): ciò accresce ulteriormente il furore della folla, che
riesce a penetrare nella bottega mentre quelli all'interno si rifugiano in
soffitta o escono dagli abbaini sui tetti. I popolani saccheggiano il forno
portando via il pane, oppure rubando il denaro dalla cassa, mentre altri
afferrano i sacchi di farina spargendone una gran quantità in terra e
sciupandola. Nel trambusto generale si solleva in aria una nube bianca di
farina e all'esterno della bottega si formano ben presto due processioni di
persone, una che esce dal forno col bottino e l'altra che vi entra per
saccheggiarlo a sua volta.

Renzo assiste all'assalto al forno delle Grucce

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Mentre la folla in tumulto dà l'assalto al forno delle Grucce, molte altre
botteghe a Milano sono bersaglio della rivolta, ma qui le cose vanno
diversamente in quanto i proprietari respingono i malintenzionati con
l'aiuto di altri uomini, oppure distribuiscono pane ottenendo
l'allontanamento dei pochi convenuti, senza contare che i soldati e le forze
di polizia si fanno vedere in qualche punto della città . Ciò spinge i
popolani che non hanno potuto partecipare alla sommossa a radunarsi al
forno delle Grucce, in quanto lì la folla è più numerosa e non incontra
resistenza, ed è proprio in questo momento che Renzo arriva
sgranocchiando il pane che aveva trovato in terra, al suo ingresso in città .
Il giovane osserva incuriosito il tumulto e ascolta vari discorsi della folla,
che inveisce contro il governo di Milano accusandolo di nascondere il
grano e il pane, mentre altri dicono che tutto è inutile e il pane verrà
avvelenato dai nobili per sterminare la povera gente. Un altro rivoltoso si
allontana reggendo sulle spalle un enorme sacco di farina e un altro
ancora scappa via per prudenza, dicendosi certo che in mezzo alla folla ci
sono poliziotti travestiti che prendono nota dei presenti, per arrestarli alla
fine della rivolta. Alcuni popolani iniziano anche ad accusare il vicario di
Provvisione, ovvero il magistrato che sovrintende all'approvvigionamento
della città , affermando che la colpa della scarsezza di grano e della carestia
è sua; altri prendono le difese del gran cancelliere Ferrer, considerato al
contrario un benefattore del popolo in quanto ha imposto il calmiere sul
prezzo del pane.

Renzo ascolta questi discorsi e giunge finalmente al forno delle Grucce,


che ormai è semidistrutto dal furore della folla: il giovane contadino trova
la cosa inopportuna, dal momento che i forni sono l'unico posto dove è
possibile produrre il pane, poi vede molti rivoltosi che escono dalla
bottega ciascuno con in mano un pezzo del mobilio o una suppellettile,
dirigendosi tutti nella stessa direzione. Renzo è curioso e decide di
seguirli, quindi vede che vanno tutti lungo la strada che costeggia il duomo
e sbocca nella piazza dove altri popolani hanno acceso un gran falò , nel
quale ognuno getta ciò che ha in mano per bruciarlo. Tutti i rivoltosi
saltano e gridano attorno alle fiamme, inneggiando all'abbondanza e
protestando contro la carestia e la Provvisione.

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La folla si dirige alla casa del vicario di Provvisione

L'autore osserva con amara ironia che distruggere i forni non è il mezzo
migliore per produrre il pane, ma questo è un pensiero troppo sottile per
la folla in tumulto: anche Renzo ovviamente lo pensa, benché si tenga
certe idee per sé temendo che i rivoltosi possano reagire in modo violento.
Intanto il falò si spegne lentamente e si sparge d'improvviso la voce che
nella piazza del Cordusio si dà l'assalto a un altro forno, per cui la massa
dei rivoltosi inizia a dirigersi in quella direzione a piccoli gruppi. Renzo
pensa dapprima se non sia meglio tornare al convento a cercare il padre
Bonaventura, poi prevale la curiosità e il giovane decide di seguire la
sommossa per osservare da una certa distanza gli avvenimenti (tira fuori
dalla tasca il secondo pane raccolto e inizia a sbocconcellare anche
questo).

Il gruppo dei rivoltosi ha imboccato la strada di Pescheria Vecchia ed è


entrato nella piazza dei Mercanti, dove passa di fronte alla statua che
raffigura re Filippo II che ha il braccio teso e l'atteggiamento minaccioso,
tanto che i popolani non possono fare a meno di guardarlo (l'autore spiega
che quella statua ai suoi tempi non c'è più , essendo stata alterata durante
il periodo rivoluzionario e in seguito distrutta). Dalla piazza la folla si
dirige per la via dei Fustagnai e sbocca infine al Cordusio, ma qui rimane
delusa in quanto il forno è ben chiuso e protetto da gente armata
all'interno, per cui i rivoltosi restano per qualche tempo incerti sul da farsi
ed esitanti; a un tratto qualcuno propone a gran voce di dirigersi alla casa
del vicario di Provvisione, che si trova poco distante, per assediarla e
linciare il povero funzionario. Tutti accolgono la proposta come se fosse
una decisione già presa in precedenza e la folla si mette subito in
cammino.

CAPITOLO XIII
La folla assalta la casa del vicario di Provvisione

Il vicario di Provvisione è a casa sua, intento a digerire un magro pasto


consumato senza pane fresco, quando alcuni cittadini giungono a

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informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo
avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così
sprangano porte e finestre mentre si sente l'urlo della sommossa che si
avvicina minacciosamente. Il pover'uomo è in preda al terrore e si rifugia
in soffitta, da dove si affaccia da un pertugio nella parete e scorge la folla
che si avvicina, per poi rannicchiarsi in un angolo appartato e sperare
vanamente che i disordini cessino. Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la
porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in
mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta
deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia
non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur
essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è
inorridito all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di
dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I più esagitati nel
frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando
con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel
muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di
impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia
l'autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un'opera ne siano
poi l'impedimento principale).

L'arrivo dei soldati

I magistrati di Milano che sono stati informati dell'accaduto avvertono a


loro volta il comandante della guarnigione del Castello Sforzesco, presso
porta Giovia, il quale invia sul posto alcuni soldati: al loro arrivo, tuttavia,
essi trovano la casa del vicario cinta d'assedio dai rivoltosi e si fermano a
una certa distanza, mentre l'ufficiale che li guida riflette sul da farsi.
Sparare sulla folla sarebbe crudele e pericoloso, poiché aizzerebbe i più
violenti contro i soldati; del resto anche tentare di disperdere i rivoltosi è
rischioso, in quanto i soldati potrebbero non mantenere i ranghi serrati ed
essere facilmente sopraffatti da quella massa di esagitati. L'esitazione
dell'ufficiale viene interpretata come paura e così i popolani più vicini ai
soldati li provocano con grida di scherno e un atteggiamento di
noncuranza, mentre quelli più vicini alla casa non si accorgono neppure

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della loro presenza e proseguono imperterriti la loro opera di
scardinamento della porta.

Il vecchio mal vissuto

Tra gli esagitati si nota un vecchio dall'aspetto trasandato e lo sguardo


pieno di odio, il quale agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi
coi quali dice di voler attaccare il corpo del vicario a un battente della
porta, quando il funzionario sarà stato ucciso. Renzo è inorridito da tali
parole e, vedendo che altri sembrano condividere la sua disapprovazione,
si lascia sfuggire delle esclamazioni con cui incita i rivoltosi a non
abbandonarsi ad atti insensati di violenza, contrari alla volontà di Dio. Uno
dei rivoltosi vicino a lui sente le sue parole e lo accusa con rabbia di essere
un traditore, mentre in men che non si dica si diffonde tra la folla la voce
che lì in mezzo c'è una spia del vicario, o un suo servo, o addirittura il
vicario che scappa travestito da contadino. Renzo vorrebbe sparire ed è
protetto da alcuni che si trovano vicini a lui, quando a un tratto si sente
gridare qualcuno che chiede alla folla di fare spazio, il che salva
probabilmente il giovane dalla reazione inferocita degli altri popolani.

La scala a pioli. Si sparge la voce dell'arrivo di Ferrer

Alcuni rivoltosi stanno portando sulle spalle una lunga e pesante scala a
pioli, con cui intendono arrampicarsi per entrare nella casa del vicario da
una finestra: l'operazione è tuttavia assai difficile, poiché nell'avanzare tra
la folla la scala sfugge di mano a chi la trasporta e picchia sulle spalle e le
costole degli altri, così essa (paragonata ironicamente dall'autore a una
macchina da assedio) si avvicina molto lentamente alla casa. Renzo
approfitta della confusione per sgomitare e allontanarsi dal punto in cui si
trova, onde evitare rappresaglie da parte di quelli che lo hanno sentito
difendere il vicario. A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta
arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e
l'iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto
indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e
da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di
trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato

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con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane. Ben
presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per
portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque
favorevoli all'arrivo dell'alto funzionario di Stato, mentre altri sono
contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il
malcapitato vicario di Provvisione.

Digressione dell'autore sui tumulti popolari

L'autore osserva che nelle rivolte popolari c'è sempre un certo numero di
esagitati, che per i motivi più vari (perché eccitati dagli eventi, o per
fanatismo, o ancora per scelleratezza o semplice gusto del soqquadro)
cercano di tirare le cose al peggio e vogliono rinnovare i disordini non
appena questi sembrino acquietarsi: ci sono tuttavia anche coloro che si
adoperano con altrettanto impegno per ottenere l'effetto contrario, per
vicinanza alle persone minacciate o soltanto per sincero orrore verso
qualunque atto di violenza. In ciascuna delle due fazioni si crea subito un
comune sentire e un'identità d'intenti, mentre nel grosso della folla ci
sono uomini di diverse idee e sentimenti che possono inclinare all'uno o
all'altro partito, in quanto bisognosi di credere a qualcosa e facili dunque
ad essere persuasi ad appoggiare un'idea o quella opposta. I rivoltosi sono
come delle banderuole che si muovono senza volontà propria e possono
essere usati per i fini altrui, e poiché hanno una grande forza ci sono
sempre nei tumulti degli abili oratori in grado di tirarli dalla loro parte,
istigandoli a fare qualcosa di bene o di male, e di suscitare in loro speranze
e timori, paure e sentimenti vari.

Ferrer è acclamato dalla folla

L'arrivo di Ferrer, da solo e senza alcuna scorta né apparato in mezzo a


quella folla tumultuante, suscita la viva approvazione di molti che lo
acclamano come un benefattore del popolo e ridà forza a coloro che
stanno cercando di rabbonire i rivoltosi, perché non commettano atti di
violenza. Si diffonde anche la convinzione che egli voglia portare in
prigione il vicario di Provvisione, per cui i suoi sostenitori si danno da fare
per far passare la carrozza tra la folla e ripetono a tutti le sue parole,
ricordando che il gran cancelliere è colui che ha messo il pane a buon
mercato. Poco alla volta prevale il partito favorevole a Ferrer e alcuni

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rivoltosi allontanano con modi bruschi quelli che stanno ancora
sconficcando la porta e il muro della casa, dicendo a coloro che stanno
all'interno di tenersi pronti a fare uscire il vicario (è chiaro che il vero
scopo del cancelliere è condurlo in salvo e la cosa non sfugge ad alcuni dei
presenti).

Renzo chiede se si tratti di quel Ferrer che"aiuta a far le gride", poiché si


rammenta della sua firma che ha visto sotto la grida mostratagli dal dottor
Azzecca-garbugli, e dopo che la cosa gli viene confermata si convince che il
gran cancelliere è un galantuomo venuto a castigare il vicario, per cui il
giovane decide di dare una mano e, a forza di urti e spinte, arriva di fianco
alla carrozza dove si adopera per fare stare indietro la folla e consentire al
veicolo di passare.

La carrozza avanza tra la folla

La carrozza avanza con estrema lentezza e spesso deve fermarsi,


occasione in cui Ferrer si affaccia dallo sportello e, atteggiandosi all'umiltà
e alla benevolenza, con l'espressione che ha tenuto in serbo per l'incontro
con re Filippo IV, si rivolge ai rivoltosi cercando di quietarli e dicendo nel
chiasso infernale qualche parola. Il gran cancelliere manda baci alla folla,
chiede con la mano di fare spazio e silenzio, quindi dice di voler fare
"giustizia" e promette pane e abbondanza, un po' intimorito dalla calca
tremenda intorno alla sua carrozza. Egli aggiunge di essere venuto a
portare il vicario in prigione, anche se precisa in spagnolo "si es culpable"
(se è colpevole), poi sollecita il cocchiere Pedro a procedere tra la folla se
gli è possibile. Pedro sorride anche lui ai rivoltosi con fare manierato e
chiede gentilmente che facciano passare la carrozza, mentre alcuni
popolani ricacciano indietro gli altri e fanno un po' di spazio in cui, pur
con grande fatica, essa riesce ad avanzare. Tra questi è particolarmente
attivo anche Renzo, il quale ha deciso di aiutare Ferrer nella sua opera e
non intende andar via finché l'uomo non sarà riuscito a portare con sé il
vicario, per cui il giovane si dà un gran da fare con urti e spintoni ed è
talmente suggestionato dagli eventi che gli sembra quasi di aver stretto un
legame di amicizia col gran cancelliere.

Le parole di Ferrer alla folla

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La carrozza continua a procedere lentamente e a fermarsi di quando in
quando, ostacolata dalla folla che ondeggia intorno ad essa come un mare
in tempesta e fa sembrare un percorso assai lungo le poche decine di
metri che la separano dalla casa del vicario. Ferrer continua a rivolgersi
alla folla cercando di capire cosa dicano i rivoltosi e dando le risposte più
gradite alle loro orecchie, ripetendo cioè le parole "pane" e "giustizia" e
promettendo di portare il vicario in prigione, mentre la folla si tira
indietro a fatica e qualche popolano rischia seriamente di essere
schiacciato da una delle ruote della carrozza. Finalmente il veicolo giunge
vicino alla casa del vicario e qui, proprio di fronte alla porta, si è creato
uno spazio vuoto grazie all'opera incessante dei partigiani favorevoli a
Ferrer, tra i quali Renzo che si trova in prima fila, in mezzo a una delle due
ali di folla che accompagnano la carrozza sino alla porta dell'abitazione. Il
gran cancelliere vede la porta mezza scardinata e un po' di spazio libero di
fronte ad essa, quindi si affretta ad uscire dalla carrozza e si sofferma per
qualche istante sul predellino, acclamato dai presenti a cui rivolge un
profondo inchino promettendo "pane e giustizia"

Ferrer entra nella casa e ne porta fuori il vicario

Ferrer si affretta a scendere dalla carrozza e ad avvicinarsi all'uscio


sconficcato della casa, che nel frattempo è stato aperto da coloro che si
trovano all'interno: il gran cancelliere sguscia rapidamente in mezzo ai
battenti semichiusi, preoccupandosi che la sua toga non venga strappata,
quindi scompare alla vista dei rivoltosi (l'autore lo paragona, non senza
sarcasmo, a una serpe che si infila in un buco per sfuggire agli inseguitori).
All'interno il vicario scende le scale mezzo morto dalla paura e si rianima
un poco alla vista di Ferrer, che si affretta a riempire di ringraziamenti: il
gran cancelliere lo rassicura e lo invita a seguirlo, informandolo che è sua
intenzione condurlo via sulla sua carrozza, quindi lo accompagna verso la
porta, invocando tra sé l'aiuto di Dio per affrontare quel passo pericoloso
e difficile.

I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino
piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li
aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della
moltitudine: quest'ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella

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carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude
all'indirizzo di Ferrer e impreca contro l'odiato funzionario. La carrozza si
allontana dalla casa e questa volta riesce ad avanzare più celermente, sia
perché tutti sono abbastanza favorevoli a lasciare andare in prigione il
vicario, sia perché si è ormai creato un corridoio in mezzo alla folla che
agevola il passaggio del veicolo.

La carrozza si allontana dalla folla

Ferrer raccomanda al vicario di stare ben nascosto sul fondo della


carrozza per non farsi vedere dalla folla, mentre il gran cancelliere si
affaccia ora all'uno ora all'altro sportello rivolgendosi ai popolani e
cercando di blandirli con parole accorte, promettendo cioè pane e
giustizia, nonché di portare il vicario alle prigioni dove sarà castigato. Ogni
tanto, tuttavia, si volta verso l'interno e parla in spagnolo al vicario,
spiegandogli che dice quelle cose solo per rabbonire i rivoltosi: così
facendo riesce a tenere a bada la folla e intanto la carrozza si allontana dal
cuore del tumulto, raggiungendo infine i soldati spagnoli che sono rimasti
inerti e che rappresentano per il cancelliere una sorta di "soccorso di
Pisa". L'uomo politico risponde con ironia al saluto dell'ufficiale in
comando, che capisce di essere in torto e si stringe nelle spalle, quindi il
cocchiere Pedro si rianima alla vista delle armi dei "micheletti" e sprona a
dovere i cavalli, facendo imboccare alla carrozza la strada che conduce al
Castello Sforzesco.

Ferrer esorta il vicario a rialzarsi, dal momento che il pericolo è cessato,


così il funzionario si rianima e inizia a coprire di ringraziamenti il suo
salvatore: il gran cancelliere è in realtà preoccupato degli sviluppi della
vicenda, nonché delle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de
Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna, di
fronte allo sconquasso provocato dalla rivolta di quella giornata. Dal canto
suo il vicario esprime il proposito di dimettersi dalla sua carica e di
ritirarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano dalla folla
inferocita dei Milanesi, ma il Ferrer gli risponde con tono grave che lui
dovrà fare ciò che sarà più conveniente per il servizio al re, benché il
vicario non sembri molto convinto di questa affermazione. La carrozza

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raggiunge il Castello Sforzesco e l'anonimo non dice quale sia poi il
destino del vicario di Provvisione.

CAPITOLO XIV
La folla dei rivoltosi inizia a disperdersi

La folla in tumulto inizia a disperdersi e molti tornano alle proprie case,


mentre un gruppo di facinorosi più violenti, insoddisfatti della
conclusione della rivolta senza spargimento di sangue, si trattiene presso
la porta della casa del vicario di Provvisione per vedere se si possa tentare
ancora qualcosa: tuttavia i soldati spagnoli prendono posizione accanto
alla casa e i rivoltosi se ne vanno, alcuni con passo più spedito e altri
facendo finta di nulla. Lì intorno le strade sono ancora piene di drappelli
di popolani, che si formano spontaneamente e dove tutti sembrano avere
qualcosa da dire su quella giornata: alcuni sono contenti che la cosa sia
finita bene e lodano il comportamento di Ferrer, pronosticando seri guai
per il vicario, mentre altri (più astuti) osservano che il gran cancelliere ha
preso in giro i rivoltosi e che al vicario non succederà nulla, poiché i
signori si proteggono l'un l'altro. Intanto il sole sta tramontando e i
popolani, stanchi di tutti gli avvenimenti della giornata, iniziano ad
allontanarsi.

Renzo arringa la folla con un discorso

Renzo nel frattempo si è sottratto alla calca e inizia a sentire il bisogno di


sfamarsi e di riposare, ancora agitato per le molte emozioni vissute
durante la giornata. Sta cercando un'insegna di osteria dove alloggiare, dal
momento che è troppo tardi per tornare al convento, quando si imbatte in
un capannello di popolani intenti a discutere e, ancora eccitato per tutto
ciò che ha visto in precedenza, decide di dire anche lui la sua opinione,
convinto che basti manifestare un proposito di fronte alla folla perché
questo venga subito messo in opera. Renzo inizia a dire che, secondo lui, la
faccenda del pane a buon mercato non è la sola che meriti l'attenzione del

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popolo, giacché ci sono dei tiranni che opprimono la povera gente ed
esercitano contro di essa degli autentici soprusi: egli è certo che ci siano
dei signori prepotenti a Milano come in campagna e una voce gli dà
prontamente ragione. Renzo aggiunge che le gride ci sono, stampate in
bella evidenza, ma non vengono applicate e non viene fatta giustizia ai
poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'uno con l'altro,
anche se il re e gli altri uomini di governo vorrebbero che i malvagi
venissero puniti per i loro delitti. Il giovane propone di recarsi tutti il
giorno dopo da Ferrer, che si è dimostrato un galantuomo, per fargli
sapere come stanno le cose e invocare il suo aiuto: Renzo rammenta la sua
triste esperienza dal dottor Azzecca-garbugli, dove ha visto coi suoi occhi
una grida firmata da Ferrer in persona e che riguardava proprio un caso
simile al suo, anche se non ha potuto ottenere soddisfazione. Il gran
cancelliere non potrà certo andare in giro in carrozza ad arrestare tutti i
birboni, ma potrà comandare ai giudici e ai podestà di applicare la legge e
dare la giusta punizione a chi sgarra, con l'aiuto dei popolani che saranno
pronti a darsi da fare come è accaduto in questa giornata. L'uditorio ha
ascoltato con interesse le sue parole e molti alla fine si complimentano e
applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i
montanari vorranno dir la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio
per i poveri.

Il poliziotto conduce Renzo all'osteria

Renzo chiede a qualcuno della folla di indicargli un'osteria dove


ricoverarsi, al che un tale, che ha ascoltato attentamente il suo discorso
senza dir nulla, si fa avanti dicendosi pronto ad accompagnarlo in una
locanda di cui conosce il padrone e dove il giovane starà benissimo. Renzo
accetta volentieri e, dopo aver stretto molte mani di sconosciuti, si
incammina con l'estraneo che in realtà non è altri che un poliziotto
travestito, che ha intenzione di condurlo al palazzo di giustizia. Infatti
l'uomo finge di discorrere alla buona col giovane, chiedendogli da dove
viene e osservando che al suo paese deve aver subìto molte angherie, al
che Renzo ribatte con naturale prudenza dicendo solo di venire dal
territorio di Lecco. Il giovane è molto stanco e non intende camminare
oltre, perciò quando vede un'insegna di osteria con sopra il simbolo della

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Luna Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo
oltre, adducendo come pretesto che in quella locanda non si troverebbe
bene, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale, seguito dal
poliziotto che non intende lasciarlo (Renzo lo invita a bere un bicchiere e
l'altro accetta con fare manierato). Il poliziotto, che sembra pratico del
luogo, lo guida all'interno dell'osteria attraverso un piccolo cortile,
entrando poi in un ampio locale illuminato dalla debole luce di due lumi
che pendono dal soffitto e dove c'è una lunga tavola con due panche ai lati,
con piatti, fiaschi, carte e dadi dappertutto. Molti avventori sono intenti a
giocare e a bare, facendo un gran chiasso, mentre sulla tavola ci sono
molte monete che, probabilmente, sono il frutto di ruberie avvenute in
quella giornata di tumulto.

Renzo mostra il pane gli avventori

L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale,
poi si alza e si avvicina ai due nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e
imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando meno lo
vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una
sua preda e da come il giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai
due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino, quindi il giovane si
siede su una panca di fronte al poliziotto e, quando l'oste porta il vino, ne
beve subito un sorso. Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non
potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle pagnotte che
aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano,
mostrandola agli avventori e dicendo a voce alta che si tratta del pane
della Provvidenza. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane gratis, ma si
affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a
pagarlo al proprietario qualora lo incontrasse (le sue parole suscitano una
risata generale). Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel
pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre lo sbirro dice all'oste
che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina
con in mano un foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli
nome, cognome e città di provenienza, così come prescrive una grida agli
osti che diano ricovero a un forestiero nella loro locanda (l'oste nel dir
questo guarda fisso in volto il poliziotto).

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L'oste mostra la grida a Renzo

Renzo non intende dire il proprio nome all'oste e, bevendo un altro


bicchiere di vino, impreca contro tutte le gride e le leggi scritte: l'oste va a
prendere un esemplare della grida di cui ha parlato e la mostra al giovane,
che per tutta risposta pronuncia frasi irriguardose all'indirizzo dello
stemma del governatore in cui campeggia il volto di un re moro incatenato
per la gola. Renzo aggiunge che quella grida non è certo in grado di
aiutarlo ad avere giustizia riguardo al suo matrimonio mandato a monte
da un prepotente, quindi non ha intenzione di dire il suo nome a qualcuno
che non sia un frate cappuccino da cui sia andato a confessarsi. L'oste non
sa che fare e chiede indicazioni al poliziotto, il quale gli suggerisce di non
insistere oltre, tanto più che Renzo ha attirato l'attenzione di tutti gli
avventori che applaudono alle sue parole contro le gride. L'oste si
allontana, dopo che Renzo gli ha consegnato il fiasco vuoto e gli ha chiesto
di portargliene un altro con lo stesso vino: mentre si allontana, l'oste
impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che è finito nelle mani della
giustizia e si sta mettendo nei guai senza neppure rendersene conto,
rischiando di causare fastidi anche a lui. Renzo torna a predicare contro
l'abitudine dei potenti di usare sempre la penna e la parola scritta,
suscitando la battuta sarcastica di un avventore secondo il quale ciò
dipende dal fatto che i signori mangiano oche e si ritrovano dunque con
tante penne di cui non sanno che fare. Tutti ridono e Renzo osserva che
chi ha parlato è un poeta, cioè un cervello balzano, aggiungendo poi che la
parola scritta è un inganno usato dai potenti per esercitare soprusi contro
i più deboli, specie quando parlano in latino per confondere le idee a un
povero contadino che a malapena capisce il volgare.

Il poliziotto estorce a Renzo il suo nome

Il poliziotto si trattiene ancora in compagnia di Renzo, ricominciando a un


tratto il discorso del pane a buon mercato e dicendo di avere un suo
progetto grazie al quale sarebbe possibile assicurare a tutti il giusto
quantitativo di pane. Renzo ascolta con attenzione, anche se la sua mente
è annebbiata dai fumi dell'alcool, e l'uomo afferma che si dovrebbe
imporre un prezzo massimo che vada bene per tutti, badando a distribuire
il pane a seconda delle necessità di ogni famiglia. Per ottenere questo

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bisognerebbe dare a ciascuno un biglietto, con scritto il nome, la
professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare
il pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare
uno con scritto "Ambrogio Fusella, professione spadaio, una moglie e
quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere
scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi
Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato e dunque senza figli, al che il
poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da
Renzo e dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa.

Renzo, ubriaco, diventa lo zimbello degli avventori

Renzo tenta invano di trattenere il poliziotto e di fargli bere un altro


bicchiere di vino, ma l'uomo si libera di lui con uno strattone e si affretta a
uscire in strada: il giovane fissa il bicchiere che ha riempito e, dopo aver
detto alcune frasi sconclusionate al garzone dell'osteria, lo vuota d'un
fiato. L'autore osserva che sarà necessario un grande amore per la verità a
proseguire nel racconto in cui il protagonista della vicenda non farà una
gran figura, anche se a sua parziale scusante va ricordato che Renzo non è
avvezzo al bere e quei pochi bicchieri sono stati sufficienti a dargli alla
testa, specie in quella giornata in cui ha vissuto forti emozioni. Il giovane
tenta ancora di parlare al suo improvvisato uditorio, ma l'alcool gli
annebbia il cervello e formulare le frasi diventa via via più difficile, cosa
per cui beve ancora dell'altro vino; si abbandona poi a un discorso
confuso, in cui accusa ancora l'oste di avergli voluto estorcere il nome per
scriverlo su un foglio e gli ricorda che sono i popolani a venire a bere nella
sua locanda, non certo i signori come Ferrer che si tengono lontani da
certi posti (un vicino ricorda che essi bevono acqua per mantenersi lucidi
e poter mentire alla povera gente). Il giovane rievoca ancora in modo
confuso gli eventi della giornata e allude, senza fare nomi, alla sua vicenda
personale, ricordando il suono delle campane a martello la "notte degli
imbrogli", quando non era riuscito a sposare la sua promessa.

Così facendo, Renzo diventa lo zimbello di tutti gli avventori dell'osteria,


che fanno a gara a prenderlo in giro e a stuzzicarlo con domande
canzonatorie, alle quali il giovane montanaro talvolta risponde in modo
sconclusionato, senza tuttavia mai fare i nomi delle persone conosciute (la

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sbornia non gli ha tolto del tutto la naturale prudenza contadina). Per
buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome di
Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da
parte di quegli ubriaconi.

CAPITOLO XV
L'oste porta Renzo a dormire

L'oste vede che le ciance di Renzo e degli altri avventori durano per le
lunghe, quindi si avvicina e prega gli altri clienti di lasciarlo stare,
ripetendo al giovane che è il momento di andare a dormire. Renzo
riacquista un barlume di lucidità nonostante la sbornia, quindi tenta di
alzarsi, barcollando, ed è sorretto dall'oste che lo aiuta a lasciare la tavola,
conducendolo verso una scaletta che porta alla camera che gli ha
destinato. Il giovane saluta la compagnia facendo gesti sconnessi con la
mano, quindi è condotto dall'oste nella camera e, vedendo il letto,
manifesta in modo bizzarro la sua contentezza al padrone della locanda.
Questi pensa di approfittare del poco di lucidità che è rimasta a Renzo,
invitandolo una buona volta a dirgli il suo nome come prescrive la grida,
per fare un piacere a lui che vuole solo rispettare la legge: Renzo si irrita e
ricomincia a inveire contro l'oste, il quale, per evitare che il giovane attiri
l'attenzione degli altri avventori, si affretta a dire di avere scherzato.
Renzo sembra soddisfatto e cade bocconi sul letto, completamente
stremato. L'oste aiuta Renzo a togliersi il farsetto e lo tasta bene per
trovare la borsa col denaro: chiede al giovane di saldare il conto, cosa che
avviene non senza fatica e pazienza da parte del locandiere. In seguito
aiuta Renzo a finire di spogliarsi e gli rimbocca amorevolmente le coperte,
augurandogli la buonanotte quando l'altro già russa.

L'oste esce dalla locanda

L'oste alza un momento il lume su Renzo addormentato, osservandolo con


attenzione come Psiche nell'atto di contemplare il dio Amore, pensando in
cuor suo che il giovane si è comportato con grande stupidità e il giorno
dopo si pentirà di essere stato tanto ingenuo. A quel punto esce dalla

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stanza, chiudendone la porta a chiave, poi chiama la moglie per dirle di
scendere in cucina a badare all'osteria, mentre lui dovrà uscire a sbrigare
una faccenda urgente. L'uomo spiega le sue preoccupazioni relative a
Renzo, quindi aggiunge molte raccomandazioni all'ostessa circa il modo in
cui dovrà comportarsi con gli avventori (badare cioè che tutti paghino,
non contraddire nessuno, non mostrare interesse per le chiacchiere di
politica e di sommosse che faranno tra loro, onde evitare guai in
avvenire). Sceso in cucina con la moglie, l'oste indossa il mantello e
prende un robusto bastone, uscendo dalla locanda dopo aver dato
un'occhiata veloce a quanto sta avvenendo nel locale.

L'oste pensa fra sé in strada

Uscito in strada, l'oste cammina ripensando tra sé alla stupidità mostrata


dal povero Renzo: lo accusa di essere un ingenuo montanaro, che venendo
alla sua osteria in compagnia di un poliziotto ha rischiato di metterlo nei
guai in quella giornata così pericolosa. L'uomo scansa una pattuglia di
soldati che gira nelle strade in cui ci sono ancora gruppi di popolani,
quindi pensa che Renzo ha dimostrato tutta la sua inesperienza credendo
che il chiasso fatto dai rivoltosi durante il giorno sia sufficiente a cambiare
le cose, mentre con la sua condotta finirà per mettersi in guai seri,
nonostante lui abbia tentato di salvarlo. L'oste pensa che ha voluto, sì,
sapere il nome di Renzo, ma non certo per sua curiosità , dal momento che
le gride che impongono obblighi agli osti sono applicate e prevedono pene
molto severe, ad esempio un'ammenda di trecento scudi che devono
essere versati in parte al fisco, in parte a chi abbia denunciato alle autorità
l'oste trasgressore (anche lui detesta le gride, ma non è certo così ingenuo
da manifestarlo a parole facendo chiasso come ha fatto Renzo nella sua
osteria). Alla fine del suo soliloquio l'oste entra nel palazzo di giustizia.

L'oste rende testimonianza al notaio criminale

Qui c'è un'attività frenetica, poiché gli esponenti dell'autorità pubblica


cercano di prevenire ulteriori disordini di piazza il giorno seguente: si
dispone una accurata sorveglianza intorno alla casa del vicario di
Provvisione, viene ordinato ai fornai di vendere di nuovo il pane a buon
mercato (facendone venire appositamente dal contado), e soprattutto si
cerca di arrestare qualche popolano accusato di essere fra i capi della

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sommossa per dare l'esempio alla folla con una condanna esemplare. Il
capitano di giustizia, ancora dolorante per la ferita alla testa rimediata
quella mattina, è molto interessato alla questione e ha sguinzagliato in
città i suoi sbirri per cercare di prendere qualche caporione della rivolta: il
sedicente Ambrogio Fusella incontrato da Renzo era appunto uno di
questi, che lo aveva notato mentre arringava la folla e aveva deciso di
approfittare della sua ingenuità , tentando addirittura di condurlo subito in
carcere con la scusa di portarlo in una locanda. Il poliziotto è riuscito
comunque a riferire il nome di Renzo, così, quando l'oste va a rendere la
sua deposizione a un notaio criminale, questi ne sa già più di lui. L'oste è
stupito del fatto che la giustizia sappia il nome del suo avventore, quindi il
notaio lo accusa di non dire tutta la verità : gli rammenta che Renzo ha
portato nella sua osteria un pane rubato durante i saccheggi e che ha
proferito parole ingiuriose nei confronti delle gride e dello stemma del
governatore. L'oste ribatte che il suo solo interesse è mandare avanti il
suo locale e non ha il tempo di badare a tutte le chiacchiere degli
avventori, quindi il notaio gli ricorda che presto i rivoltosi avranno il fatto
loro e gli chiede notizie di Renzo: l'oste riferisce che il giovane sta
dormendo e il magistrato gli ordina di non lasciarlo scappare, cosa che
irrita non poco il padrone della taverna (il quale, tuttavia, non dice né sì né
no). Dopo alcune raccomandazioni del notaio, l'oste può finalmente
tornare alla sua locanda.

Il notaio e i birri vanno ad arrestare Renzo

Il mattino dopo Renzo sta ancora dormendo profondamente, quando si


sente afferrare per le braccia ed è svegliato da qualcuno che lo chiama col
nome di "Lorenzo Tramaglino". Apre gli occhi e vede ai piedi del letto il
notaio criminale in cappa nera (lo stesso che la sera prima ha interrogato
l'oste) e al suo fianco due birri armati, che gli intimano di alzarsi senza
indugio. Renzo, ancora stordito per la sbornia della sera prima, tenta di
chiedere spiegazioni e di chiamare l'oste in aiuto, ma il notaio gli ordina di
alzarsi e vestirsi, perché dovrà essere condotto dal capitano di giustizia.

Il giovane cerca debolmente di discolparsi dicendo di essere un


galantuomo e infine inizia a vestirsi raccogliendo i panni sparsi sul letto,
chiedendo al notaio di essere condotto da Ferrer: in altre circostanze il

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magistrato riderebbe di gusto a una simile domanda, ma si affretta a dire a
Renzo che la sua richiesta sarà esaudita e lo invita a vestirsi in fretta. Il
notaio ha visto infatti per le strade dei movimenti sospetti, il radunarsi di
gruppi di persone che lasciano presagire nuovi tumulti, quindi il suo
intento è portar via Renzo senza indurlo a far resistenza ed evitare così
che il giovane possa trovare l'aiuto di altri popolani una volta in strada.
Per questo il notaio fa cenno ai birri di non fare incollerire Renzo, il quale
dal canto suo si veste con lentezza, per prendere tempo e raccogliere le
idee nella sua mente, tanto più che dalla strada si sente provenire un
ronzio confuso di popolo che si sta radunando. Il giovane si dice pronto a
spiegare tutto al notaio, nel quale legge una certa preoccupazione, e il
magistrato gli parla con fare manierato, dichiarando che se dipendesse da
lui lo rilascerebbe all'istante, ma la legge gli impone di portarlo al palazzo
di giustizia (una volta lì, tuttavia, le formalità saranno presto sbrigate e
Renzo tornerà subito libero). Il giovane chiede se passeranno per la piazza
del duomo, dove aveva preso appuntamento con altri popolani il giorno
prima, e il notaio dice che percorreranno la via più breve.

Il notaio cerca di blandire Renzo

Il notaio maledice la sua sfortuna giacché, in circostanze più favorevoli,


approfitterebbe dell'inesperienza di Renzo per indurlo ad ammissioni
compromettenti, invece la situazione gli impone di agire in fretta: egli
sente un gran chiasso in strada, per cui si affaccia dalla finestra e vede un
gruppo di popolani che ignora le intimazioni di una pattuglia di soldati,
segno evidente che la giornata promette disordini. Per un attimo pensa di
lasciare Renzo coi due birri per tornare a riferire al capitano di giustizia,
poi decide di andare fino in fondo per non apparire un incapace.

Renzo intanto si è vestito e, tastando nel farsetto che tiene in mano, si


accorge che mancano il denaro e la lettera di padre Cristoforo, che
reclama a gran voce al notaio: questi tenta debolmente di dirgli che riavrà
tutto dopo le formalità , ma Renzo insiste e il magistrato per evitare guai
gli restituisce ogni cosa, al che il giovane fa osservazioni poco lusinghiere
sulle cattive abitudini che lui e i birri hanno preso dai ladri. Il notaio fa
cenno ai birri di non reagire e promette fra sé che Renzo pagherà cara la
sua insolenza, quando sarà in suo potere.

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I birri mettono i "manichini" a Renzo

Renzo indossa il farsetto e il cappello, quindi il notaio ordina a uno dei


birri di precederlo giù per le scale e poi si avvia dietro all'altro birro e al
prigioniero. Una volta giunti in cucina, mentre Renzo ingenuamente cerca
l'oste, i birri obbediscono a un cenno del notaio e mettono i "manichini"
intorno ai polsi del giovane: si tratta di due cordicelle con nodi che
avvolgono i polsi dell'arrestato, con due stanghette di legno alle estremità
che vengono tenute tra il medio e l'anulare dei birri, i quali possono, al
bisogno, stringere la corda per procurare dolore al prigioniero. Renzo
protesta col notaio, il quale però si affretta a dire che è una pura formalità
e che se dipendesse da lui ne farebbe a meno, ma è necessario agire in
questa maniera. Invita Renzo ad aver pazienza e gli raccomanda, una volta
che saranno usciti in strada, di camminare diritto senza guardare in giro,
per non mostrare di essere arrestato e non guastare il proprio onore,
mentre ai birri intima di trattare Renzo con rispetto, dal momento che è
un giovane perbene che sarà presto libero. Renzo naturalmente ha capito
che il notaio teme che possa trovare aiuto da parte di qualche popolano in
strada, per cui non crede neppure a una parola di quanto detto dal
magistrato e si ripromette, una volta uscito dalla locanda, di far tutto il
contrario di quanto raccomandatogli. L'autore aggiunge alcune
osservazioni ironiche circa il fatto che i furbi di professione, come il notaio
che è ben conosciuto dall'anonimo autore del manoscritto, nei momenti di
fretta e angustia non sono in grado di usare tutta l'astuzia di cui sono
capaci nelle normali circostanze, ed è questo il motivo per il notaio finisce
per fare quella figura così meschina e ridicola agli occhi del lettore.

La fuga di Renzo

Una volta che i quattro sono usciti in strada, dunque, Renzo inizia a
voltarsi da una parte e dall'altra, in cerca di un aiuto da parte della folla:
non ci sono disordini in atto e molti passanti tirano dritto senza fermarsi,
mentre il notaio si affretta a suggerire a Renzo di non dare nell'occhio, di
osservare un contegno che non sia per lui disonorevole. A un tratto però
Renzo vede arrivare tre popolani che parlano di farina nascosta, di forni,
di giustizia, perciò inizia a tossire in modo insistente per attirare la loro

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attenzione: i tre si fermano e si uniscono a loro altri passanti, mentre il
notaio raccomanda vanamente a Renzo di non dare nell'occhio benché il
giovane, intanto, faccia di tutto per farsi notare. I birri danno una stretta ai
"manichini" e Renzo urla di dolore, attirando infine una piccola folla che
circonda con fare minaccioso la comitiva: il notaio dice che si tratta di un
ladro colto sul fatto, ma Renzo, che ha visto i birri impallidire, coglie al
volo l'occasione e grida che è portato in prigione perché il giorno prima ha
gridato "pane e giustizia", chiedendo infine l'aiuto dei popolani.

I birri dapprima chiedono alla folla di lasciarli passare, poi però , vista la
mala parata, lasciano andare i "manichini" e cercano di allontanarsi,
mescolandosi ai rivoltosi. Il notaio cerca di fare lo stesso, ma la cappa nera
che indossa gli rende difficile passare inosservato: cerca di fingere
indifferenza e di sottrarsi alla calca, finché un popolano lo indica come un
"corvaccio" (un magistrato) e aizza la folla contro di lui, anche se il notaio
riesce per miracolo a scappare e a evitare il linciaggio.

CAPITOLO XVI
Renzo si allontana in fuga

Renzo approfitta della confusione per allontanarsi, mentre la folla lo incita


a rifugiarsi in una chiesa o in un convento nelle vicinanze: il giovane ha
invece deciso di lasciare Milano e di uscire addirittura dallo Stato, dal
momento che la giustizia è in possesso del suo nome e può quindi
arrestarlo in qualunque momento. Renzo progetta di rifugiarsi nel
Bergamasco, dove il cugino Bortolo l'ha spesso invitato in passato a
trasferirsi, anche se ignora da quale porta della città si esca per dirigersi
nella giusta direzione e non sa neppure come arrivarci. Pensa sulle prime
di chiedere indicazioni a qualcuno dei suoi liberatori, ma il ricordo del
poliziotto travestito che lo ha beffato lo induce a una maggiore prudenza
(anche lì potrebbe essercene qualcuno mescolato alla folla), così ringrazia
i popolani che l'hanno aiutato e si allontana in tutta fretta, deciso a
chiedere lumi a qualcuno che non sappia chi sia e in quale situazione si
trovi. Renzo corre via senza sapere dove sta andando, finché, quando gli

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sembra di essere abbastanza lontano, rallenta il passo per non destare
sospetti. Inizia dunque a osservare i visi delle persone che popolano le
strade, per decidere a chi sia meglio chiedere indicazioni sulla via da
percorrere, incalzato dal pensiero che i birri nel frattempo saranno già
sulle sue tracce per arrestarlo di nuovo.

Renzo chiede indicazioni a un passante

Renzo cerca di capire chi sia la persona più adatta a cui rivolgere la
domanda: sulla porta di una bottega c'è il proprietario, un uomo
grassoccio con l'aria di un tipo curioso che farebbe molte interrogazioni
prima di dare un'indicazione; un passante procede guardando fisso di
fronte a sé, mostrando di conoscere a malapena la propria strada; un
ragazzo ha l'aria furba e maliziosa e forse si divertirebbe a dare
indicazioni sbagliate per sviare un forestiero. Alla fine Renzo vede un
passante che cammina alla svelta come pressato da qualche affare
urgente, quindi pensa che risponderà senza fare storie: gli si avvicina e gli
chiede con cortesia da quale porta di Milano si esca per andare a Bergamo,
al che l'altro risponde che si passa per Porta Orientale, aggiungendo poi
indicazioni per raggiungere la piazza del duomo. Renzo ringrazia per
l'informazione e si rimette in marcia con passo svelto, cosa che induce il
passante a pensare che quel giovane ha subìto qualche brutto tiro, o ne ha
lui uno in mente.

Renzo esce da Porta Orientale

Renzo raggiunge in fretta la piazza del duomo, dove vede gli avanzi del
falò acceso dai rivoltosi il giorno prima, passa davanti al forno delle
Grucce semidistrutto e sorvegliato dai soldati, quindi vede il convento dei
cappuccini e la chiesa dove gli era stato consigliato di attendere, e dove
ora rimpiange di non essere andato invece di cacciarsi nel tumulto. Arriva
finalmente a Porta Orientale, che vede sorvegliata da diversi soldati, e
pensa che sarebbe rischioso cercare di attraversarla, mentre potrebbe
ottenere asilo nel convento usando la lettera di padre Cristoforo che ha
ancora con sé; poi però riflette sul fatto che nessuno lo conosce, che i birri
non possono attenderlo a tutte le porte e che, soprattutto, è meglio essere
"uccel di bosco" piuttosto che rinchiudersi in un asilo. Si fa coraggio e si
avvicina con fare indifferente alla porta, dove i numerosi gabellieri e i

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soldati spagnoli sono attenti a non fare entrare nessuno dall'esterno,
mentre badano poco a quelli che lasciano la città . Renzo esce dalla porta
senza dare nell'occhio e senza che nessuno gli dica nulla, quindi, una volta
lasciata la città , imbocca una stradina secondaria per evitare quella
principale e si mette in cammino, senza voltarsi indietro per parecchio
tempo.

Renzo giunge all'osteria della vecchia

Renzo prosegue il suo cammino e procede per molte ore, passando


accanto a cascine e villaggi di cui ignora persino il nome; ogni tanto si
guarda indietro per esser certo che nessuno lo segua, mentre i polsi sono
ancora indolenziti per i "manichini" messigli dai birri quella mattina. Il
giovane ha l'animo ancora turbato per i recenti avvenimenti e ripensa a
quanto avvenuto la sera prima, rammentando in modo confuso di aver
detto il proprio nome al sedicente Ambrogio Fusella; è quasi certo che
questi fosse un poliziotto travestito, mentre non ricorda quasi nulla delle
chiacchiere fatte con gli altri avventori, sotto i fumi dell'alcool. È anche
incerto e preoccupato dell'avvenire, rispetto al quale è pieno di dolorosi
dubbi.

Dopo un po' si rende conto che non è in grado di trovare da solo la strada
per Bergamo, così, pur riluttante, decide di chiedere un'indicazione a un
viandante: questi lo informa che è fuori strada e gli spiega come tornare
sulla via maestra, cosa di cui Renzo lo ringrazia ma col proposito di non
avvicinarsi troppo alla strada principale, per evitare brutti incontri con
soldati o birri. La cosa è in realtà molto difficile e infatti Renzo,
camminando a zig-zag per restare su sentieri fuori mano, percorre circa
dodici miglia senza allontanarsi da Milano per più di sei, non
avvicinandosi in modo significativo al confine col Bergamasco. Alla fine
decide che la cosa migliore sia di chiedere indicazioni per raggiungere un
paesetto posto vicino al confine, raggiungibile tramite strade secondarie e
senza dover chiedere di Bergamo dando l'impressione di essere un
fuggiasco. A un tratto vede una frasca fuori da una casupola che la indica
come un'osteria, quindi decide di entrare e di ristorarsi, chiedendo al
contempo le informazioni che gli servono. Nella casa c'è solo una vecchia
intenta a filare, dalla quale Renzo accetta dello stracchino e rifiuta

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cortesemente il vino, memore della sbornia presa la sera prima. La donna
inizia a fargli molte domande su Milano e il tumulto del giorno prima, alle
quali Renzo si schermisce per poi chiedere a sua volta indicazioni per
raggiungere un paese vicino al confine dei due Stati, di cui finge di non
ricordare il nome. La vecchia indica Gorgonzola e Renzo chiede se si possa
raggiungere per viottole secondarie, adducendo come pretesto il voler
evitare la polvere della via principale. La donna dice di sì e gli spiega come
fare, quindi Renzo esce con un pezzo di pane ben diverso da quelli raccolti
il giorno prima a Milano, deciso ad arrivare molto presto a Gorgonzola.

Renzo all'osteria di Gorgonzola

Dopo aver attraversato molti paesi, Renzo giunge a Gorgonzola prima di


sera e qui decide di cenare in un'altra osteria, per captare qualche notizia
relativa all'Adda e al modo per arrivarvi (fin dalla sua infanzia infatti ha
appreso che il fiume per un tratto fa da confine naturale ai due Stati, il
ducato di Milano e la Repubblica di Venezia). Il suo intento è attraversare
il fiume in qualche modo e, se non potrà arrivarci quel giorno, ci arriverà il
mattino seguente dopo aver pernottato alla meglio in qualche posto,
purché non in un'osteria.

Entrato in paese, vede un'insegna di osteria e vi entra, chiedendo all'oste


un boccone con poco vino e pregandolo di fare in fretta, per evitare
domande inopportune e non dare l'impressione di volersi fermare a
dormire. Il giovane si siede in fondo alla tavola, vicino alla porta, mentre
altri avventori del locale discutono dei fatti avvenuti a Milano il giorno
prima, lamentandosi di non poter sapere notizie. Uno di loro si avvicina a
Renzo e gli chiede se venga da Milano, al che il giovane risponde in modo
evasivo dicendo di non sapere molto di quella città e aggiungendo di
provenire da Liscate, uno dei paesi attraversati per arrivare fin lì. Renzo
tronca in breve la discussione e poco dopo si riavvicina l'oste, al quale il
giovane chiede con simulata indifferenza quanto manchi da lì per
raggiungere l'Adda: l'oste domanda se l'altro voglia attraversare il fiume
nei punti dove di solito affrontano il guado i galantuomini e aggiunge poi
che la distanza è di circa sei miglia, cosa che stupisce non poco Renzo.
Questi vorrebbe rivolgere altre domande al padrone della locanda, ma
temendo che l'uomo diventi troppo curioso decide di non insistere oltre,

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maledicendo poi tra sé gli osti come portatori di guai; inizia poi a
mangiare, simulando il più totale disinteresse per le chiacchiere degli
avventori anche se ascolta con grande attenzione le loro parole, per
scoprire se tra questi ci sia qualcuno cui chiedere informazioni senza
pericolo.

L'arrivo del mercante all'osteria

Gli avventori dell'osteria discutono del tumulto di Milano,


rammaricandosi di non avervi partecipato e augurandosi che i rivoltosi
ottengano concessioni anche per le popolazioni rurali, che soffrono la
fame tanto quanto quelle di città . Uno di loro inizia a parlare del grano
nascosto, quando si sente avvicinarsi un cavallo ed escono tutti dal locale,
andando incontro a un uomo che si avvicina alla locanda: è un mercante
milanese, che è solito pernottare in quell'osteria quando si reca a Bergamo
per i suoi commerci e che pertanto conosce tutti gli avventori abituali.
Questi lo salutano con calore e gli chiedono notizie dei fatti di Milano, al
che il mercante affida il cavallo a un garzone ed entra nel locale, dicendosi
pronto a informare gli altri delle novità intervenute quel giorno. L'uomo
ordina all'oste da mangiare e il suo solito letto, quindi si siede attorniato
dagli avventori che gli chiedono con insistenza notizie della rivolta a
Milano, poiché non è passato nessuno che ne sapesse qualcosa: il
mercante beve un sorso di vino, quindi si accinge a raccontare ciò che sa
ottenendo l'attenzione di tutti i presenti, incluso Renzo che ascolta ogni
cosa simulando indifferenza, mentre continua il suo pasto seduto all'altro
capo del tavolo.

Il racconto del mercante: l'assalto al forno del Cordusio

Il mercante spiega che quel giorno ha rischiato di essere peggiore del


precedente, tanto che lui aveva quasi deciso di non lasciare Milano per
sorvegliare la sua bottega: infatti i rivoltosi del giorno prima si sono
trovati ai posti convenuti, intenzionati a compiere nuovi disordini, quindi
si sono diretti alla casa del vicario di Provvisione raccogliendo altri
facinorosi lungo la strada, per tentare un nuovo assalto. Il mercante
sottolinea l'innocenza del vicario, che lui conosce perché rifornisce di
panni la sua casa, dunque spiega che i rivoltosi hanno trovato la strada
sbarrata da carri e soldati, per cui hanno deciso di tornare indietro. Poiché

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tuttavia erano decisi a menare le mani, hanno assaltato il forno del
Cordusio cui il giorno prima non si erano potuti avvicinare, arraffando a
man bassa il pane che alcuni nobili stavano distribuendo al popolo in
ottemperanza a una nuova grida. La folla ha asportato molte suppellettili
dal forno e ne ha fatto un gran falò sulla piazza del duomo, quindi alcuni
hanno proposto di dare fuoco al forno, cosa che per poco non è avvenuta:
fortunatamente, spiega il mercante, un uomo del vicinato si è affacciato da
una finestra e ha esposto un crocifisso tra due ceri, inducendo i facinorosi
a recedere dai propositi violenti, e poco dopo i monsignori del duomo
hanno sfilato in processione, invitando tutti ad andarsene e informando la
folla che il pane è di nuovo a buon mercato, come dimostrano le gride
affisse sulle cantonate. Infatti il pane costa nuovamente un soldo ogni otto
once e gli avventori dell'osteria chiedono se qualche provvedimento sia
stato emanato anche per il contado, al che il mercante risponde che ciò
che è avvenuto in Milano riguarda la città soltanto.

Il racconto del mercante: l'arresto dei capi della sommossa

Il mercante aggiunge che i disordini a Milano sono terminati e che la


giustizia ha già arrestato molti rivoltosi, i capi dei quali verranno presto
impiccati: l'uomo aggiunge che la cosa è giusta, poiché molti popolani
avevano preso l'abitudine di rubare impunemente nelle botteghe e la
giustizia sommaria è necessaria per ristabilire l'ordine in città , specie per
proteggere gli interessi dei commercianti. L'uomo spiega poi che tutto il
tumulto è nato dalle trame del cardinal Richelieu, per dar briga al re di
Spagna nell'ambito della guerra, e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che tra
i rivoltosi c'erano molti forestieri che non si erano mai visti in città . Tra
questi, prosegue il mercante, ne era stato arrestato uno in un'osteria, che
certamente era fra i capi della sommossa: Renzo, che sa bene che si sta
parlando di lui, ha un fremito anche se riesce a controllarsi, senza far
capire a nessuno che è il protagonista di quel racconto (tutti sono attenti
alle parole del mercante). Costui racconta che il fantomatico rivoltoso
aveva incitato la folla a uccidere tutti i signori ed era poi stato arrestato
dalla giustizia che gli aveva trovato un fascio di lettere, ma il giovane è
stato liberato dai suoi compagni ed è riuscito a fuggire senza lasciare
traccia di sé. Le lettere, secondo lo scombinato resoconto del mercante,

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sono ora nelle mani della giustizia e in esse è descritta tutta la trama della
sommossa, mentre l'uomo aggiunge che i fornai sono certamente
colpevoli di nascondere il grano, ma bisogna impiccarli con processi
regolari e tocca comunque al governo della città combattere gli incettatori,
mentre le rivolte non possono che portare guai a chi fa il suo lavoro come i
bottegai.

Renzo lascia l'osteria

Renzo ascolta tutto con attenzione ed è tentato all'idea di andarsene


subito dal locale, anche se poi si trattiene per non destare sospetti: aspetta
che il mercante cambi discorso e infatti poco dopo gli avventori iniziano a
rallegrarsi di non essere andati a Milano, anche se prima avevano idee del
tutto diverse. Il giovane coglie l'occasione per chiamare l'oste e saldare in
fretta il conto, senza troppo discutere anche se i quattrini iniziano a
scarseggiare, quindi va dritto alla porta ed esce dal locale, imboccando
una strada che conduce nella direzione opposta a quella per cui è arrivato
poco prima.

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