Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
CAPITOLO I
Inizio del romanzo: i luoghi della vicenda
Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra
due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume,
specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a
valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S.
Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli,
mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città
principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di
un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a
molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non
depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così
come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due
muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo
a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si
ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto
mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e
raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura.
2
I bravi minacciano don Abbondio
Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno
aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno
d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza
di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di
rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo
genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due
figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante.
3
quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il
cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a
difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta
l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena,
benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e
rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su
di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire
ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende
il lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso
Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola
dell'accaduto.
CAPITOLO II
La notte angosciosa di don Abbondio
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi
trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una
piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in
cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune
possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di
dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine
decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto,
confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui
non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il
curato un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è
innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle,
pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno,
anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo,
da fughe e inseguimenti.
4
scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di
lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando
non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può
dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze
con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato
vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il
manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli
conferisce un'aria un po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli
uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che
insospettisce subito Renzo.
5
Perpetua che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le
si avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del
comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del
curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa
sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si
lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un
prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei
superiori del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed
entra nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere
da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando
con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.
6
fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto
per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in
quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta
di tendergli un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre
al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il
pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo
induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver
solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato
all'idea di dover informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo
abbia tenuto all'oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di
sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia,
che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro,
sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano
e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi
per le nozze.
7
finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse
per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.
CAPITOLO III
Il racconto di Lucia: la "scommessa" di don Rodrigo
Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta tra
i singhiozzi cosa è accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla
filanda, era rimasta indietro dalle compagne e aveva incontrato per caso
don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il signorotto
l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva affrettato il passo
per raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che diceva all'altro
signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro,
ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era rimasta in mezzo
alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto al padre
Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo
di non aver voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il timore che
la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre Cristoforo
le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei
aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire questo non può
evitare di arrossire). Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don
Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la giovane sopisce
subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone addirittura di
lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe
infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è da sperare che celebri il
matrimonio o li agevoli in questa decisione.
Renzo va dall'Azzecca-garbugli
I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di
andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano
Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro,
pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese
raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli
suggerisce di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto
cucinare per il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di
buon grado e, presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco,
8
camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le
zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di
sventura. Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui
viene accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non
senza qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore
in persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo
studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino.
9
manipolare la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai
colpevoli e negando alle vittime il riconoscimento dei propri diritti.
10
miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò , perché in
seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri,
come normalmente avviene.
11
CAPITOLO IV
Padre Cristoforo lascia il convento
Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico
(un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e
abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Il
cielo è sereno e il sole illumina il paesaggio, in cui si vedono le foglie di
gelso che cadono a terra e quelle della vite ancora rosseggianti, mentre nei
campi biancheggiano le stoppie dopo la mietitura. Lo spettacolo sembra
lieto, ma in realtà è rattristato dalla presenza di mendicanti lungo la
strada che riveriscono il frate, mentre i contadini spargono i semi nei
campi con parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, e una
ragazza conduce al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che
possono nutrire la sua famiglia (tutto ciò rammenta che è periodo di
carestia). Ma per quale motivo il frate cappuccino ha risposto con tanta
sollecitudine alla chiamata di Agnese e Lucia? E, soprattutto, chi è padre
Cristoforo? Si tratta di un uomo di circa sessant'anni, che conserva ancora
un atteggiamento fiero e inquieto nonostante l'abitudine all'umiltà ; ha una
lunga barba bianca che incornicia un volto scavato dall'astinenza, che per
questo ha acquistato gravità , con due occhi che spesso sono chinati a terra
ma talvolta si levano con improvvisa vivacità , simili a due cavalli domati
dal cocchiere che, a volte, non rinunciano a tentare di ribellarsi ai suoi
comandi.
12
trovandosi assai ricco alla morte del padre, ma quando tenta di mescolarsi
agli altri nobili della sua città viene trattato con disprezzo e si allontana da
loro indispettito. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese
futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di
difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da
parte di quei nobili con cui ha avuto di che ridire. La sua indole è onesta
ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed
è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della
giustizia, il che gli provoca rimorsi di coscienza (tanto che, a volte, è
tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate).
13
noto prepotente, per cui non vogliono che il primo finisca nelle mani della
giustizia o dei parenti del morto: lo conducono allora a un vicino convento
di cappuccini, dove potrà essere curato e sarà al riparo da possibili
ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è
rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è
sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha
assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile,
prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il
male commesso, il che accresce il suo scoramento e il rimorso per quanto
ha fatto. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto,
giungono nei pressi del convento per reclamare la consegna di Lodovico,
cosa che non possono ottenere poiché quello è un luogo sacro e
inviolabile. Il giovane prega i cappuccini di riferire alla vedova di
Cristoforo che provvederà lui alle necessità della famiglia, quindi matura
la decisione di indossare la tonaca come espiazione del male commesso:
annuncia la sua decisione al padre guardiano, il quale lo ammonisce dal
prendere risoluzioni affrettate ma si dichiara disposto ad accoglierlo.
Lodovico in seguito fa donazione di tutti i suoi averi alla vedova di
Cristoforo, mentre la sua scelta di farsi frate toglie i cappuccini
dall'imbarazzo di decidere cosa fare di lui, poiché la famiglia dell'uomo
ucciso pretende vendetta e i frati non possono certo consegnar loro
Lodovico senza rinunciare ai loro privilegi: tuttavia la monacazione del
giovane può sembrare un'espiazione sufficiente per l'omicidio commesso,
dunque la cosa potrà soddisfare i parenti del nobile ucciso (che, del resto,
non piangono la sua morte ma si sentono offesi nell'onore nobiliare).
14
Cristoforo, in modo da ricordarsi sempre del male commesso e accrescere
così l'espiazione di quella morte causata indirettamente da lui. Fra
Cristoforo dovrà compiere il noviziato in un paese a sessanta miglia di
distanza, ma il giovane chiede al padre guardiano di potersi prima recare
dal fratello dell'ucciso a implorare il suo perdono per il gesto compiuto. Il
padre approva l'intenzione e si reca dal gentiluomo a rivolgere tale
richiesta, al che il nobile pensa che questa sarà l'occasione di una pubblica
soddisfazione della famiglia e risponde che Cristoforo potrà venire il
giorno dopo. Il gentiluomo l'indomani fa raccogliere tutti i parenti nel suo
palazzo e attende il novizio circondato da aristocratici in abito da
cerimonia e le spade al fianco, in uno scenario di pompa e magnificenza
tipica dell'aristocrazia di quei tempi.
15
un po' più affabile e meno altero, mentre tutta la sua famiglia ricorderà
questa giornata nel segno del perdono e della riconciliazione.
CAPITOLO V
Agnese e Lucia informano padre Cristoforo dell'accaduto
Padre Cristoforo entra nella casa di Agnese e Lucia e chiede loro il motivo
della chiamata: Lucia scoppia a piangere e la madre racconta in breve al
frate che cos'è successo. Il cappuccino ascolta non senza un profondo
sdegno, quindi consola le due donne e le rassicura dicendo che non farà
mancare il suo aiuto, e di confidare nel soccorso divino. Sedutosi su uno
sgabello, il frate inizia poi a pensare tra sé e a esaminare le possibili vie
d'uscita: scarta l'ipotesi di costringere don Abbondio a celebrare il
matrimonio, poiché è certo che il curato ha più paura delle minacce dei
bravi che non di lui; esclude anche di informare il cardinal Borromeo,
poiché occorrerebbe tempo e comunque, se anche i due promessi si
sposassero, questo potrebbe non bastare a fermare don Rodrigo. Potrebbe
fare intervenire i suoi confratelli, ma, poiché il signorotto si atteggia ad
amico del convento e dei cappuccini, teme che ciò sarebbe addirittura
controproducente. Decide infine di andare al palazzo del nobile ad
affrontarlo di persona, per tentare di farlo recedere dai suoi propositi e, al
16
contempo, valutare la sua ostinazione nel portare a termine i suoi sporchi
progetti.
17
circondato da diversi cani, il quale accoglie padre Cristoforo con deferenza
e lo invita a entrare. L'uomo osserva stupito che la presenza del frate in
quel luogo è sorprendente, anche se si può compiere del bene
dappertutto, quindi conduce Cristoforo attraverso dei salotti in penombra
sino alla porta della sala da pranzo, da cui proviene un gran fracasso di
stoviglie e di voci concitate che si accavallano l'una con l'altra.
CAPITOLO VI
Colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo
Don Rodrigo, appartatosi con padre Cristoforo in una sala del palazzo,
invita il frate a parlare con modi in apparenza ossequiosi, ma che
nascondono una certa impazienza. Il cappuccino sgrana il rosario che
18
tiene alla cintola e, soffocando la propria indignazione per il nobile, lo
informa del fatto che alcuni bravi hanno fatto il suo nome per minacciare
un povero curato e lo prega umilmente di por fine a questa vicenda in
nome della sua coscienza e dell'onore. Don Rodrigo ribatte che il frate gli
parlerà della sua coscienza in confessione, mentre del suo onore è lui
l'unico custode: il frate capisce che il nobile vuole trasformare il discorso
in una contesa e per non irritarlo ulteriormente si affretta a scusarsi e a
ribadire la sua preghiera in favore di due poveri innocenti.
Don Rodrigo reagisce accusando fra Cristoforo di venire a fargli "la spia in
casa", al che il cappuccino trattiene la collera e invoca la potenza di Dio
per indurre il signorotto a recedere dai suoi propositi. Il padrone di casa
ironizza sul fatto che non intende ascoltare una predica e in seguito allude
in modo volgare che al frate sembra "interessare" molto una fanciulla; fa
per andarsene, quando Cristoforo gli si pone davanti, sia pure in modo
rispettoso, e rinnova in nome della misericordia la sua preghiera affinché
don Rodrigo, con una sua parola, faccia cessare la persecuzione di cui la
ragazza in questione è fatta oggetto.
19
gli insulti del signorotto, quindi esce dalla porta che gli viene mostrata dal
padrone di casa e si accinge a lasciare l'edificio.
20
Agnese allora spiega che per celebrare un matrimonio è necessaria la
presenza del curato, ma non il suo consenso: è sufficiente che i due
promessi pronuncino i voti di fronte a lui e a due testimoni e il gioco è
fatto, a patto naturalmente di cogliere il curato senza dargli il tempo di
scappare. Lucia è perplessa e anche Renzo è incredulo, ma Agnese
ribadisce che le cose stanno proprio così e ai dubbi della figlia, che si
chiede perché non sia venuto in mente a padre Cristoforo, la madre ribatte
che si tratta di un sotterfugio non propriamente cristallino, ma non per
questo meno valido legalmente. Renzo accoglie la proposta con
entusiasmo e quando Agnese gli ricorda la necessità di trovare due
testimoni fidati, il giovane batte il pugno sul tavolo e afferma di aver avuto
un'idea, esponendo il suo piano alle due donne. Lucia tenta debolmente di
opporsi, ma Agnese la zittisce e Renzo esce di casa, deciso a realizzare il
suo progetto.
21
Abbondio, dicendosi pronto a pagarlo al suo posto se gli renderà un certo
servizio; Tonio ne sarebbe ben felice, dal momento che il curato lo
tormenta con continue e pressanti richieste di saldare il debito, (in tal
modo potrà riscattare la collana d'oro della moglie data a garanzia),
quindi Renzo inizia a spiegargli tutto non prima di avergli fatto cenno di
mantenere il più assoluto riserbo. Il giovane espone lo stratagemma del
"matrimonio a sorpresa" e chiede a Tonio di fargli da testimone, cosa che
l'amico accetta di buon grado proponendo poi il fratello Gervaso, uomo
semplice e non troppo intelligente, come secondo testimone. Renzo
accetta e promette di pagare da bere e da mangiare al fratello di Tonio,
quindi i due si danno appuntamento per la sera dopo; Renzo rinnova le
sue richieste di mantenere il segreto e Tonio afferma che non ne parlerà
neppure alla moglie, con la quale è già in debito di parecchie bugie. I due
escono dall'osteria dopo essersi salutati, quindi Tonio torna a casa propria
e Renzo a quella di Agnese e Lucia.
CAPITOLO VII
Padre Cristoforo parla con Renzo e le due donne
22
Padre Cristoforo riferisce a Renzo, Lucia e Agnese l'infelice esito del suo
colloquio con don Rodrigo, invitando tuttavia a confidare nella
Provvidenza che, afferma, ha già dato segno del suo aiuto. Renzo è in
collera e domanda quali giustificazioni abbia dato il signorotto per il suo
comportamento, al che il frate ribatte che le sue parole hanno poco
significato, poiché il nobile non intende rinunciare alla sua prepotenza e,
del resto, non ha certo ammesso di voler esercitare un sopruso ai danni di
Lucia. Il cappuccino ribadisce quindi di nutrire una debole speranza e
raccomanda a Renzo di venire da lui al convento il giorno dopo (dove
attenderà il servitore di don Rodrigo), o di mandare qualcun altro se il
giovane non potesse, raccomandando di avere pazienza e di attendere
pochi giorni senza compiere colpi di testa. Alla fine il frate se ne va
affrettando il passo per giungere al convento prima di notte, al fine di non
incorrere in qualche penitenza che gli impedisca il giorno seguente di
essere pronto al bisogno.
Appena il frate è uscito, Lucia afferma che le sue parole devono indurre ad
aver fiducia nell'aiuto divino, anche se Agnese non è molto convinta e
Renzo, fuori di sé dalla rabbia, torna a proferire minacce contro don
Rodrigo. Le due donne tentano di farlo ragionare, ma il giovane (che forse
accentua la sua reazione per indurre Lucia a acconsentire allo
stratagemma) non vuol sentire ragioni e si dice determinato ad uccidere il
signorotto, incurante delle conseguenze (forse sarà imprigionato o ucciso,
ma almeno, dice, impedirà a don Rodrigo di mettere le mani sulla sua
promessa sposa). Agnese tenta inutilmente di calmare Renzo e Lucia
piange e lo supplica di rinsavire, poiché lei non si è certo promessa a un
assassino o a un poco di buono: alla fine gli si inginocchia di fronte e, per
placarlo, promette che verrà dal curato per tentare il "matrimonio a
sorpresa", al che finalmente Renzo sembra acquietarsi. Il giovane
promette a sua volta che non farà niente di avventato, dunque (dopo aver
preso gli accordi necessari) Renzo lascia a malincuore la casa delle due
donne, le quali poi trascorrono come lui una notte alquanto agitata e
inquieta.
23
Agnese manda Menico al convento. Il "mendicante" e le altre spie
Il mattino dopo Renzo torna di buon'ora a casa delle due donne, per
definire gli ultimi dettagli in vista dello stratagemma che attueranno la
sera. Agnese chiede a Renzo se andrà al convento da padre Cristoforo, ma
il giovane rifiuta in quanto teme che il cappuccino potrebbe intuire cosa
stanno macchinando, quindi la donna decide di mandare là Menico, un
ragazzo di circa dodici anni imparentato con lei. Agnese va a casa del
ragazzo e gli promette due monete d'argento se andrà a Pescarenico a
sentire cos'ha da dire il frate, per poi tornare da loro a riferirglielo, al che
Menico promette che svolgerà la commissione in modo giudizioso.
Nel resto della mattina avvengono alcuni strani fatti che mettono in
agitazione Lucia e Agnese. Prima un bizzarro mendicante entra a casa loro
per chiedere del pane, non sembrando tuttavia così male in arnese come
sono di solito gli accattoni, e una volta ricevuta l'elemosina si trattiene in
casa con pretesti, guardandosi intorno con occhi curiosi. Nelle ore
successive, sino a mezzogiorno, altri strani figuri passano davanti alla casa
e sembrano guardare in modo altrettanto sospetto, finché quella
processione ha finalmente termine. La cosa è accolta con sollievo dalle due
donne, che pure sentono crescere l'inquietudine per ciò che è successo e
sembrano aver perso quel poco di coraggio che hanno in serbo per lo
stratagemma della sera.
24
certa inquietudine. Un servo lo informa che gli ospiti sono usciti insieme al
conte Attilio, quindi don Rodrigo esce a sua volta per una passeggiata con
un ampio seguito di bravi. Il nobile si dirige verso Lecco e gode al vedere
gli artigiani e i contadini che si inchinano al suo passaggio, come pure gli
abitanti più altolocati di quelle terre, mentre non incontra il castellano
spagnolo che sarebbe l'unico a cui anch'egli farebbe un inchino deferente.
Per sgombrare la mente dai brutti pensieri, don Rodrigo entra in una casa
dove è ben accolto (probabilmente un bordello), quindi torna al palazzo
quando è rientrato anche il conte Attilio.
25
nascondiglio per i bravi; l'uomo aggiunge altri dettagli al piano che ha in
mente, dopo di che don Rodrigo suggerisce di infliggere una buona
bastonatura a Renzo se capitasse l'occasione, per indurre il giovane a non
fare storie dopo il rapimento di Lucia e a non rivolgersi alla giustizia. Il
Griso promette che tutto andrà a buon fine e il resto della mattinata è
speso in preparativi e sopralluoghi per l'azione serale, quindi il falso
mendicante che si era introdotto in casa delle due donne altri non era che
il Griso travestito e i falsi passanti erano suoi uomini, i quali si erano poi
ritirati per non destare sospetti con la loro presenza.
È ormai il tramonto quando Renzo va a casa delle due donne dicendo che
andrà a mangiare un boccone all'osteria con Tonio e Gervaso e
promettendo che tornerà a prenderle per attuare lo stratagemma quando
suonerà l'Avemaria. I tre giungono allora all'osteria e trovano in piedi
sull'uscio uno dei tre bravi mandati lì dal Griso, che non si muove dalla sua
posizione e squadra Renzo con un'occhiata maligna. Il giovane entra senza
rivolgergli la parola, dunque i tre nell'osteria vedono gli altri due bravi
seduti a un tavolo che giocano rumorosamente a morra, uno dei quali
scambia un cenno d'intesa con quello alla porta non appena vede Renzo. Il
giovane è insospettito, tuttavia non dice nulla e ordina la cena all'oste,
dopo essersi seduto a un tavolo.
26
Renzo chiede poi all'oste informazioni sui tre individui che ha visto, ma
l'uomo risponde in modo evasivo, dicendo che non li conosce e che gli
sembrano uomini onesti, quindi torna in cucina a prendere delle polpette
senza dare al giovane modo di aggiungere altro. In cucina l'oste è
avvicinato da uno dei bravi, che gli chiede a sua volta informazioni sui tre
nuovi arrivati: l'oste è fin troppo sollecito nel dargli numerosi dettagli sul
loro conto, facendone i nomi e fornendo altre indicazioni, dopodiché torna
a servire le polpette a Renzo e agli altri due. Renzo chiede all'oste come fa
a sapere che quei tre sono uomini onesti e l'uomo spiega che dev'essere
così in quanto pagano il conto e non creano problemi, invitando poi il
giovane a mangiare senza porsi troppe questioni, visto che sta per
sposarsi. L'oste se ne va e l'autore aggiunge considerazioni ironiche circa
la sua condotta con gli avventori della locanda.
Renzo, Tonio e Gervaso cenano in fretta e parlano sottovoce per non dare
nell'occhio, quando a un tratto Gervaso esclama a voce alta che Renzo
deve prender moglie e ha bisogno del loro aiuto, al che il fratello gli intima
di tacere dandogli di gomito. I tre finiscono di cenare ed escono, dopo che
Renzo ha pagato il conto pur avendo mangiato e bevuto meno degli altri, e
giunti in strada il giovane si accorge che due dei tre bravi lo stanno
seguendo e si ferma in attesa delle loro mosse. I due bravi parlano tra loro
e osservano che sarebbe una buona cosa poter dare una solenne
bastonata a Renzo, come suggerito loro dal Griso, tuttavia rinunciano in
quanto non è tarda sera e c'è troppa gente in paese, per cui si ritirano
lasciando che i tre se ne vadano per la loro strada. Nel villaggio gli abitanti
si stanno ritirando dopo la giornata di lavoro e si sente un vociare confuso,
mentre nelle case si accendono i focolari per cucinare delle cene molto
misere a causa della carestia. I tre procedono per il loro cammino e
giungono alla casetta di Lucia e Agnese quando ormai è notte fonda.
27
quando vede che tutti sono pronti a muoversi, li segue macchinalmente
prendendo il braccio della madre Agnese.
CAPITOLO VIII
Perpetua informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio e Gervaso
Don Abbondio è seduto in una stanza al primo piano della sua casa,
intento a leggere un libro in cui è nominato il filosofo Carneade, di cui lui
non sa nulla (il curato si diletta a leggere e un sacerdote suo vicino gli
presta ogni tanto dei libri scelti a caso); quest'opera è un panegirico
scritto in onore di S. Carlo Borromeo, in cui quest'ultimo è paragonato ad
Archimede e al filosofo del II sec. a.C. Perpetua entra ad annunciare la
visita di Tonio e Gervaso, al che don Abbondio si lamenta dell'ora tarda
ma poi accetta di riceverli, ansioso di riavere indietro i suoi soldi. Il curato
chiede alla sua domestica se si sia accertata dell'identità di Tonio,
domanda a cui la donna risponde in modo alquanto stizzito, quindi
Perpetua scende di sotto per fare entrare i due uomini.
28
paesetto vicino, aggiungendo che lì ha sentito dei discorsi che possono
interessare Perpetua. La domestica invita i due uomini a entrare, mentre
Agnese dice che secondo alcuni pettegolezzi Perpetua in gioventù non
avrebbe sposato due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo
Lunghigna) perché non l'avevano voluta, al che la donna reagisce stizzita
affermando che nulla di tutto ciò è vero e chiedendo a gran voce chi sia la
fonte di simili menzogne. Agnese finge di voler sapere altri particolari,
quindi inizia a parlare con Perpetua e si allontana dalla casa del curato,
addentrandosi in una viuzza che svolta dietro l'abitazione e da dove non si
può vedere l'uscio. Quando le due donne sono abbastanza lontane, Agnese
tossisce forte e questo segnale fa capire a Renzo e Lucia che è il momento
di entrare in casa: i due promessi si avvicinano con cautela, entrano
nell'andito dove li attendono Tonio e Gervaso, quindi i quattro salgono le
scale con passi silenziosi, badando a non fare rumore per non mettere in
allarme don Abbondio. Quando sono giunti al primo piano, i due promessi
si stringono al muro per non farsi vedere, mentre i due fratelli si
affacciano all'uscio della stanza dove si trova il curato e Tonio lo saluta
con voce ferma, dicendo Deo gratias.
Don Abbondio invita i due fratelli ad entrare, al che Tonio e Gervaso fanno
il loro ingresso aprendo la porta e illuminando in parte il pianerottolo
(dove Lucia è nascosta e trasalisce all'idea di essere scoperta), per poi
richiuderla lasciando i due promessi nel buio. Il curato è seduto al suo
scrittoio, alla luce di un debole lume che rischiara la sua faccia bruna e
rugosa, i suoi capelli bianchi, i folti baffi e il pizzo, nonché la papalina che
porta in testa. Egli saluta i due nuovi arrivati, mentre Tonio si scusa per
l'ora tarda e riceve i rimproveri del curato, sia perché è da tempo che deve
pagare il debito, sia perché il sacerdote si dice ammalato (in realtà don
Abbondio è più guarito dalla febbre di quanto non voglia far credere). Il
curato chiede a Tonio perché abbia portato anche il fratello, al che l'uomo
risponde che voleva compagnia e poi consegna a don Abbondio
venticinque berlinghe nuove di zecca, a pagamento del suo debito. Il
religioso conta le monete e le controlla, quindi Tonio chiede indietro la
collana della moglie Tecla data a garanzia del prestito e don Abbondio la
29
estrae da un armadio; in seguito Tonio esige una ricevuta e il curato, sia
pur brontolando un poco, si accinge a scriverla su un foglio di carta con
penna e calamaio, ripetendo a voce alta le parole. In quel momento Tonio
e Gervaso si mettono davanti allo scrittoio, coprendo la vista dell'uscio, e
iniziano a sfregare i piedi sul pavimento, per segnalare ai due promessi
che è il momento di entrare. Don Abbondio, tutto preso dalla stesura del
documento, prosegue senza rendersi conto di nulla.
Renzo afferra Lucia per un braccio e la conduce con sé, entrando con lei
nella stanza: i due avanzano silenziosi, mettendosi dietro Tonio e Gervaso
che stanno proprio davanti a don Abbondio e gli impediscono di vedere i
due promessi. Il curato ha intanto finito di scrivere la ricevuta, quindi la
rilegge senza alzare gli occhi dal foglio e, toltisi gli occhiali, porge la carta a
Tonio chiedendo se è soddisfatto. Tonio allunga la mano per prendere il
documento e si ritira da un lato, facendo cenno al fratello di fare la stessa
cosa, per cui i due fanno comparire Renzo e Lucia che si parano subito di
fronte a don Abbondio: nel breve tempo che questi, spaventato, pensa al
da farsi, Renzo è lesto a pronunciare la formula del "matrimonio a
sorpresa" ("Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia
moglie"), ma Lucia non fa in tempo a dire "e questo..." che il curato, con
rapida mossa, ha lasciato cadere la carta, ha afferrato con la mano sinistra
il lume e con la destra il tappeto che copre lo scrittoio, gettando il panno in
testa alla giovane che non può dire altro. In seguito il curato lascia cadere
il lume a terra e preme con le mani il tappeto su Lucia, per impedirle di
parlare, mentre con quanto fiato in gola chiama Perpetua in soccorso; il
lume si spegne sul pavimento, per cui la stanza sprofonda nella più totale
oscurità .
30
mentre in realtà è lui la vittima, e don Abbondio sembra essere un
oppresso, mentre è lui a fare una prepotenza ai due promessi (così
andavano le cose nel XVII secolo, il che sottintende che vanno spesso allo
stesso modo nel XIX). Il curato si affaccia da una finestra della casa che dà
sulla piazza della chiesa, illuminata quasi a giorno dal chiaro di luna,
gridando aiuto a gran voce e facendosi udire dal sagrestano Ambrogio, che
dorme in uno stanzino sul muro laterale della chiesa. Questi apre una
piccola finestra e chiede al curato cosa succede, al che don Abbondio
risponde che c'è "gente in casa": Ambrogio corre al campanile e inizia a
suonare le campane a martello, per richiamare quanta più gente possibile
e dare così aiuto al padrone. Tutti nel paese sono svegliati dai rintocchi e
molti abitanti afferrano forconi e schioppi, precipitandosi verso la chiesa
da cui provengono i rintocchi.
31
venga da quella contrada) e seguito da altri uomini, giungendo alle stanze
del primo piano. Entra cautamente dentro una di esse, ma trova il letto
intatto, così come avviene quando va a esplorare l'altra stanza; il Griso
pensa che qualcuno abbia fatto la spia, non sapendo spiegarsi l'assenza
delle due donne.
32
qualcosa. Agnese la segue, mentre si sente l'urlo di Menico e quasi
contemporaneamente inizia lo scampanio, quindi raggiungono l'uscio
della casa da cui escono di corsa Renzo e tutti gli altri. Tonio e Gervaso
sono rapidi ad allontanarsi, quindi Perpetua (che ha riconosciuto i due
promessi non senza sorpresa) entra e sale di corsa le scale. Renzo esorta
Agnese e Lucia a tornare subito a casa, ma in quella sopraggiunge Menico
che invita tutti ad andare al convento di padre Cristoforo, poiché "C'è il
diavolo in casa" (il ragazzo allude ai bravi che hanno tentato di ucciderlo);
Renzo raccoglie l'invito e i quattro si allontanano in fretta, dirigendosi al
convento di Pescarenico tagliando per i campi.
33
Frattanto Renzo, Agnese e Lucia proseguono la loro fuga insieme a
Menico, finché i quattro raggiungono un campo isolato dove non c'è
nessuno e non si sentono più i lugubri rintocchi delle campane. Renzo
informa Agnese del triste esito dello stratagemma, quindi Menico racconta
dell'avvertimento ricevuto da padre Cristoforo e racconta cosa gli è
successo a casa delle due donne, al che gli altri si guardano l'un l'altro
spaventati e poi accarezzano il ragazzo, per consolarlo del pericolo corso.
Agnese gli dà quattro monete d'argento e Renzo una berlinga, quindi
Menico è invitato a tornare a casa (Renzo gli raccomanda di non dire nulla
di quanto appreso dal frate).
I tre proseguono verso il convento, con Renzo che cammina indietro per
fare la guardia, mentre Lucia, spaventata e turbata da quanto è successo,
cammina appoggiandosi alla madre (questa chiede che ne sarà della loro
casa, ma nessuno risponde). Infine giungono al convento e Renzo ne apre
la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il
laico sagrestano dei cappuccini. Il padre si rallegra che non manchi
nessuno, quindi li fa entrare suscitando le proteste di fra Fazio, che ha da
ridire sulla presenza di due donne nel convento a notte alta: Cristoforo lo
mette a tacere con la frase latina Omnia munda mundis ("tutto è puro per i
puri") e il sagrestano non oppone altre resistenze.
34
del lago, nei pressi dello sbocco del torrente Bione, dove troveranno un
barcaiolo al quale dovranno rivolgersi con un segnale convenuto (essi
diranno "barca" e alla domanda "per chi?", risponderanno "San
Francesco"); questi li trasporterà alla riva opposta, dove un calesse li
porterà sino a Monza. Renzo e Agnese consegnano al frate le chiavi delle
rispettive case, perché qualcuno badi a custodirle in loro assenza, quindi il
frate rivolge una preghiera a Dio perché vegli sui tre fuggitivi e, al
contempo, illumini con la sua grazia don Rodrigo che cerca solo di
compiere il male. A questo punto i tre si congedano da padre Cristoforo,
che si dice certo che si rivedranno presto, quindi raggiungono in fretta la
barca nel luogo indicato.
35
non sono molto differenti (intanto la barca si avvicina alla riva destra
dell'Adda).
CAPITOLO IX
Il viaggio a Monza
Il baroccio giunge a Monza poco dopo l'alba e i tre vengono portati dal
conduttore in una locanda, dove possono riposare e rifocillarsi (l'uomo
rifiuta qualsiasi ricompensa come già il barcaiolo). Renzo vorrebbe
trattenersi lì tutto il giorno per essere d'aiuto alle due donne, ma queste lo
esortano a partire subito alla volta di Milano per obbedire alle istruzioni
di padre Cristoforo e per non dare adito a pettegolezzi facendosi vedere in
loro compagnia. Il giovane si congeda dunque da Agnese e Lucia
trattenendo a stento le lacrime, mentre la ragazza piange mostrandosi
addolorata per la separazione, poi Renzo lascia le due donne riprendendo
il cammino.
36
vicenda che ha come protagonista Lucia, quindi riflette e conclude che
solo la "Signora" potrà essere loro d'aiuto, invitando poi le due donne a
seguirlo al convento delle monache dove le presenterà a questa persona. Il
frate raccomanda tuttavia a Agnese e Lucia di seguirlo a una certa
distanza in strada, per non dare adito a chiacchiere mostrando che il
religioso se ne va in giro in compagnia di due donne, una delle quali è una
"bella giovine". Lucia e Agnese chiedono al conduttore del calesse che le
accompagna chi sia questa "Signora" e l'uomo spiega che si tratta di una
monaca, figlia di un nobile molto potente a Milano e a Monza, per cui la
donna è molto rispettata nel monastero come se fosse la badessa; dunque,
se vorrà accordar loro la sua protezione, potranno essere certe di trovare
un rifugio assolutamente sicuro. Poco dopo il gruppo giunge al monastero,
che sorge non distante dalla porta del borgo, quindi il padre guardiano
prega il conduttore di tornare dopo un paio d'ore a ricevere la risposta e
l'uomo si congeda dalle due donne con saluti e ringraziamenti. Il frate fa
entrare Agnese e Lucia nel cortile del convento e le fa attendere nelle
stanze della fattoressa, mentre lui va a chiedere udienza alla "Signora";
torna poco dopo (intanto la fattoressa ha rivolto alle due donne domande
insistenti) e le accompagna al parlatorio dando loro indicazioni su come
comportarsi con la monaca, che potrebbe prendere a cuore il loro caso.
37
abbigliamento mostra alcuni segni di trascuratezza della regola
monastica, giacché la tonaca è attillata in vita come una veste laica e sotto
il velo spuntano ciocche di lunghi capelli neri, che la suora dovrebbe
tenere sempre corti. Agnese e Lucia non fanno caso a questi particolari e il
padre guardiano presenta alla "Signora" le due donne che si fanno avanti
inchinandosi, mentre Gertrude osserva Lucia con una malcelata curiosità .
La monaca ha parole di apprezzamento per il padre e per i cappuccini,
quindi chiede ulteriori dettagli sulla storia di Lucia: la giovane arrossisce e
Agnese inizia a parlare, ma il frate le lancia un'occhiataccia e spiega poi a
Gertrude che Lucia ha dovuto lasciare il suo paese a causa di imprecisati
pericoli, suscitando la curiosità della monaca che chiede altri particolari. Il
frate si schermisce affermando che si tratta di questioni delicate,
precisando tuttavia che Lucia ha subìto la persecuzione di un nobile
prepotente, al che Gertrude invita Lucia a farsi avanti e a dire se quel
cavaliere era davvero per lei un "persecutore odioso".
38
badessa, mentre il frate va a scrivere una lettera in cui fornirà ragguagli a
padre Cristoforo su come ha sistemato le due donne (il cappuccino è
piuttosto fiero della facilità con cui, a suo dire, ha trovato un sicuro rifugio
per la giovane e sua madre). Intanto la monaca si apparta con Lucia e,
abbandonato il ritegno che aveva mantenuto alla presenza del padre
guardiano, inizia a fare con la giovane e inesperta contadina dei discorsi
assai strani, su argomenti non molto convenienti a una religiosa.
A sei anni Gertrude viene mandata come educanda nello stesso monastero
dove poi incontrerà Lucia, posto cioè nella città di Monza della quale il
principe padre è il feudatario: l'uomo sa bene che la badessa e le altre
monache "notabili" del convento saranno ben liete di assecondare i suoi
disegni per ottenere vantaggi politici, infatti Gertrude riceve subito un
trattamento particolare che la distingue dalle altre bambine (viene
chiamata la "signorina", riceve molte attenzioni, gode di infiniti
privilegi...). Non tutte le monache sono complici del padre nel mettere in
39
trappola Gertrude, ma molte non sospettano di nulla e altre, pur nutrendo
qualche dubbio, restano in silenzio per non sollevare scandali. Passano gli
anni e Gertrude spesso si vanta con le compagne del destino di monaca e
di badessa che l'attende, senza tuttavia suscitare quell'invidia che si
aspetterebbe: scopre, anzi, che le altre educande sognano di sposarsi e di
condurre una felice vita nel mondo, al che Gertrude comincia a capire che
lei pure si sente inclinata alla vita laica e che, dopotutto, nessuno potrà
costringerla a prendere il velo contro la sua volontà . Si tratta però di
negare il suo consenso al padre, che lo dà ormai per scontato, il che la
porta a coltivare mille paure e ripensamenti: è invidiosa delle compagne e
spesso fa loro dei dispetti, o fa pesare la sua superiorità nel convento,
salvo poi cercare la loro complicità e la loro comprensione; la religione
non è affatto una consolazione per lei, diventa anzi fonte di ulteriori timori
e paure, tanto da indurla a desiderare di chiudersi nel chiostro per espiare
una qualche colpa che sente di aver commessa.
40
Gertrude torna a casa del padre. Il biglietto al paggio
Arriva il giorno del ritorno a casa, che Gertrude attende con ansia ma
anche con timore, dal momento che dovrà affrontare il padre e il resto
della famiglia. La giovane pensa che riceverà delle pressioni, nel qual caso
lei opporrà un rispettoso ma netto diniego, oppure verrà presa con le
buone, al che li muoverà a compassione con lacrime e preghiere: ma non
avviene né una cosa né l'altra, dal momento che al suo arrivo a casa è
accolta con estrema freddezza da tutti i familiari, che la trattano come se
fosse colpevole di qualcosa che, pure, non rivelano mai apertamente.
Gertrude è tenuta in una sorta di isolamento, venendo ammessa alla
compagnia dei genitori e del primogenito solo in ore stabilite, mentre
nessuno le rivolge mai il discorso o le mostra un po' dell'affetto che lei
vorrebbe. Oltre a ciò non può mai uscire di casa (neppure per andare in
chiesa, poiché ce n'è una contigua al palazzo) e quando c'è una visita la
ragazza viene mandata in una stanza all'ultimo piano, insieme ad alcune
vecchie servitrici con cui spesso deve anche cenare. I membri della servitù
mostrano verso di lei lo stesso contegno dei suoi familiari, tranne un
giovane paggio il quale mostra un certo rispetto e una forma di
compassione nei suoi confronti, sentimenti che attirano l'interesse di
Gertrude per il ragazzo del quale, molto ingenuamente, finisce per
infatuarsi. Il suo comportamento viene notato da chi le sta intorno e la
giovane viene tenuta d'occhio, finché un giorno è sorpresa da una
cameriera mentre scrive un innocente biglietto d'amore per il paggio, che
le viene strappato di mano e consegnato al padre.
41
ragazza si aspetta di essere di nuovo rinchiusa nel monastero, esposta alla
vergogna per il peccato commesso, mentre maledice se stessa per aver
scritto quel biglietto che, teme, potrebbe essere stato letto anche dalla
madre e dal fratello. La giovane è talmente prostrata che inizia a pensare
che, forse, accettare il velo sarebbe la soluzione a tutti i problemi e
sanerebbe la situazione, anche perché Gertrude è talmente pentita
dell'errore compiuto che la monacazione le appare un mezzo efficace per
espiare la colpa. Inoltre la compagnia forzata della sua carceriera le rende
ancor più odiosa la situazione, giacché la donna non perde occasione per
minacciare il castigo del padre, o per rinfacciarle la colpa che l'ha condotta
a tale punizione: dopo quattro o cinque giorni di prigionia, una mattina,
dopo uno scambio di dispetti con la cameriera, Gertrude decide di porre
fine a tutto questo e si risolve a scrivere una lettera al padre, in cui non
solo chiede perdono per l'errore commesso, ma si dice pronta a fare
qualunque cosa gli piacerà pur di ottenerlo.
CAPITOLO X
Il principe convince Gertrude a entrare in monastero
42
sarà la prima monaca del convento e che appena avrà l'età necessaria
diventerà badessa. Il principe vorrebbe addirittura che Gertrude si
recasse al convento di Monza quel giorno stesso, per chiedere alla badessa
di essere ammessa nel chiostro, ma la figlia riesce a ottenere che la cosa
venga rimandata all'indomani, illudendosi di poter cambiare qualcosa nel
frattempo. Il principe si reca poi dal vicario delle monache, per fissare il
giorno dell'esame cui Gertrude dovrà essere sottoposta per accertare la
sincerità della sua vocazione (l'appuntamento sarà di lì a due giorni).
43
dalla stanchezza della giornata, anche se il sonno è affannoso e turbato da
brutti sogni.
44
avvenuto. Poco dopo la famiglia si congeda dalle suore e lascia il convento
per rientrare a palazzo, a Milano.
45
inizia a chiederle se per caso non abbia subìto minacce o lusinghe per
essere forzata alla monacazione. Gertrude pensa subito a come stanno
realmente le cose e vorrebbe dire la verità al vicario, ma per far questo
dovrebbe scendere in dettagli che la imbarazzano troppo, quindi risponde
che si fa monaca per sua volontà e senza subire costrizioni. In seguito dice
di aver sempre avuto questo desiderio e nega che a spingerla a ciò sia
qualche disgusto o delusione passeggera per la vita mondana, senza
lasciare trasparire il turbamento che quelle menzogne provocano nel suo
animo. Gertrude sa bene che il vicario potrebbe forse impedirle di entrare
in convento, ma non potrebbe far nulla per proteggerla dalla collera del
padre all'interno di quella casa, dunque continua a mentire e alla fine
convince il prete della bontà della sua vocazione. Il vicario, uscendo dalla
stanza del colloquio, si imbatte nel principe che sembra passare di lì per
caso e si congratula con il nobile per la buona disposizione d'animo in cui
ha trovato la figlia. Ciò solleva il principe dall'incertezza in cui era rimasto
sino a quel momento, perciò l'uomo si precipita a complimentarsi con
Gertrude e a riempirla di lodi e promesse, manifestando una gioia che,
paradossalmente, in questo momento è sincera.
46
religione cristiana è tale, spiega l'autore, che ha la facoltà di dare
consolazione a chiunque si rivolga ad essa con animo puro, quindi
Gertrude potrebbe diventare una monaca santa e devota comunque lo sia
diventata, se solo accettasse con rassegnazione e fortezza d'animo la
condizione in cui essa si trova. Ma la giovane, una volta indossato il velo,
prova avversione e ripulsa per la vita che è costretta a fare, invidiando la
sorte di qualunque altra donna che, liberamente, possa godere dei doni
della vita; inoltre detesta le consorelle che hanno avuto una parte nel
complotto che l'ha condotta al convento, verso le quali usa numerosi
dispetti e sgarbi, mentre disprezza le altre che si mostrano amabili verso
di lei, ignorando che esse nel capitolo hanno votato contro il suo ingresso
nel chiostro. Poca soddisfazione trae infine dall'essere riverita da tutti in
monastero e nell'esser chiamata la "Signora", non trovando peraltro
neppure grande conforto nella religione da cui il suo orgoglio nobiliare
non fa che allontanarla.
Gertrude trascorre così alcuni anni, non trovando altri diversivi alla vita
nel chiostro che lei tanto odia, finché un giorno le si presenta un'occasione
ben più insidiosa. La monaca ha il privilegio di alloggiare in un quartiere a
parte del convento, che da quel lato è attiguo a una casa laica dove vive
Egidio, un giovane scapestrato che si circonda di sgherri e si fa beffe delle
47
leggi e della giustizia grazie alle sue amicizie potenti. Costui da una
finestrella che dà sul chiostro un giorno nota Gertrude che passeggia
solitaria in un piccolo cortile, avendo l'ardire di rivolgerle il discorso
senza provare timore per l'empietà dell'impresa: la sventurata risponde a
quel giovane, iniziando in seguito con lui una relazione clandestina.
Gertrude prova molta felicità per la sua nuova condizione e molte
consorelle notano un cambiamento nei suoi modi, una maggiore
tranquillità che invero è solo una forma di ipocrisia per celare la terribile
verità (infatti questi modi gentili lasciano ben presto luogo ai soliti
comportamenti bisbetici della "Signora", che vengono attribuiti al suo
carattere indocile). Un giorno, però , Gertrude ha una violenta discussione
con una conversa e la maltratta in modo eccessivo: la donna si lascia
sfuggire il fatto che lei è a conoscenza di un segreto sulla monaca,
manifestando l'intenzione di svelare tutto al momento opportuno.
Gertrude ne è molto turbata e non molto tempo dopo la conversa svanisce
nel nulla, finché non viene scoperta una buca nel muro dell'orto che lascia
pensare a tutti che la donna sia scappata da lì; le ricerche a Monza e a
Meda, donde la conversa è originaria, non approdano a nulla e forse,
osserva l'autore, anziché cercare tanto lontano si sarebbe dovuto scavare
vicino (la conversa è stata uccisa da Egidio con la complicità di Gertrude e
il corpo è stato sepolto nel convento). In seguito si sparge la voce che la
conversa è forse fuggita in Olanda e non si parla più di lei, anche se
Gertrude è spesso tormentata dal ricordo della donna e preferirebbe
trovarsela viva davanti, piuttosto che sentirne la voce nella sua mente che
la rimprovera e la minaccia per il delitto commesso, senza lasciarle mai un
solo attimo di pace.
48
per quelle domande ed Agnese le spiega che i signori, chi più chi meno,
sono tutti un po' matti, per cui la figlia non deve farci troppo caso e
pensare che, quando conoscerà il mondo, non tarderà a capire che la cosa
non è poi troppo strana. Gertrude in realtà è molto ben disposta verso
Lucia ed è davvero intenzionata a proteggerla, perciò lei e la madre
vengono alloggiate nelle stanze lasciate libere dalla figlia della fattoressa e
adibite al servizio del monastero. Agnese e Lucia sono ben contente di
aver trovato questa protezione e vorrebbero che la loro presenza lì
rimanesse segreta, ma questo non può avvenire per la caparbia volontà di
don Rodrigo di ritrovare Lucia, quindi l'autore torna a mostrarci il
signorotto quando, la sera prima, attende al palazzotto l'esito della
spedizione che doveva portare al rapimento della giovane.
CAPITOLO XI
Il Griso e i bravi tornano al palazzo di don Rodrigo
49
padrone sul fatto che, come spera, lui e i suoi uomini non sono stati
riconosciuti. Il signorotto ordina al Griso di provvedere il mattino dopo a
mandare due sgherri a minacciare il console del paese (cosa che l'autore
ha già narrato nelle pagine precedenti), di provvedere a portar via la
bussola dal casolare vicino alla casa delle due donne, e infine di
sguinzagliare altri uomini nel villaggio per scoprire cosa sia accaduto la
notte prima. A questo punto sia don Rodrigo sia il Griso vanno a dormire,
quest'ultimo (osserva con ironia l'autore) stanco per i rischi corsi e
avendo ricevuto ingiusti rimproveri.
50
Agnese. Anche Gervaso è eccitato all'idea di rivelare ciò a cui ha preso
parte e che lo fa sembrare un uomo come gli altri, incurante del fatto che il
fratello Tonio lo minacci perché non dica nulla, e del resto Tonio stesso si
lascia scappare qualche ammissione con la moglie che a sua volta ne parla
in giro. Solo Menico osserva il silenzio, in quanto i suoi genitori, atterriti
all'idea che il ragazzo abbia sventato una trama di don Rodrigo, lo tengono
chiuso in casa per alcuni giorni, salvo poi essere loro stessi a rivelare ai
compaesani dettagli di quella vicenda, incluso quello molto importante
che i tre scomparsi si sono rifugiati a Pescarenico.
Gli abitanti del villaggio non sanno tuttavia spiegare l'incursione dei bravi
nella casa di Agnese e Lucia, né la presenza degli altri all'osteria (il cui
padrone è abile a eludere qualsiasi domanda), mentre il pellegrino visto
da due paesani confonde le idee a tutti, poiché ovviamente nessuno
sospetta che si trattasse del Griso travestito. Quest'ultimo riesce poi a
mettere insieme i pezzi della vicenda grazie a tutte queste informazioni
raccolte da lui stesso e dai suoi bravi, così all'ora di pranzo raggiunge don
Rodrigo al suo palazzo e gli fa una relazione abbastanza precisa
dell'accaduto: riferisce lo stratagemma tentato dai due promessi, che
spiega l'assenza di Agnese e Lucia smentendo l'ipotesi di una spia, quindi
afferma che i tre si sono rifugiati a Pescarenico, dove evidentemente
hanno avuto l'assistenza di padre Cristoforo. Il signorotto è furibondo per
la fuga dei due giovani e per la parte avuta dal frate, perciò manda subito il
Griso a Pescarenico a raccogliere altre più dettagliate informazioni,
promettendogli denaro e la sua protezione.
L'autore osserva con una certa ironia che l'amicizia è una gran
consolazione, specie perché consente di rivelare ad altri dei segreti, ma
poiché gli amici non formano coppie come gli sposi è abbastanza ovvio che
questi segreti vengano ampiamente diffusi tra un gran numero di persone.
Così il conduttore di calesse che ha portato i tre fuggitivi a Monza confida
la cosa a un amico fidato, e questi fa la stessa cosa ad altri, finché il
"segreto", passando di bocca in bocca, giunge all'orecchio del Griso che
può rivelare a don Rodrigo, a tarda sera, che Agnese e Lucia si sono
rifugiate in un convento a Monza e Renzo ha proseguito per Milano. Il
51
signorotto si rallegra della separazione dei due giovani e il giorno
seguente chiama subito il Griso, dandogli il denaro promesso e
ordinandogli di recarsi a Monza per raccogliere ulteriori notizie sulle due
donne. Il bravo si mostra esitante e chiede al padrone di mandare qualcun
altro a Monza, poiché egli ha in quella città una taglia di cento scudi sopra
la sua testa e teme quindi di finire nei guai con la giustizia, cosa che
ovviamente non rischia in paese in quanto è protetto dal nobile e dal
podestà . Don Rodrigo lo rimprovera aspramente della sua vigliaccheria e
gli dice che non dovrà certo andare da solo a Monza e che potrà farsi
accompagnare dallo Sfregiato e dal Tiradritto (due bravi al suo servizio),
dicendosi certo che il suo nome è abbastanza noto anche in quella città
per assicurargli una certa protezione. Il Griso parte dunque per la sua
missione, non senza una certa vergogna, simile a un lupo affamato che
scende dai monti innevati in cerca di preda, mentre annusa l'aria
sospettoso (l'autore cita un verso di un poema ancora inedito di Tommaso
Grossi, amico di Manzoni che egli loda con bonaria ironia).
Digressione dell'autore
52
Renzo giunge in vista di Milano
53
pare disabitata, salvo il fatto che in lontananza si sente un vocio confuso.
Renzo prosegue il cammino e, a un tratto, vede sul terreno delle lunghe
strisce bianche che sembrano di neve, cosa impossibile anche per la
stagione dell'anno; il giovane osserva con più attenzione e scopre, con
enorme sorpresa, che si tratta di farina. Renzo pensa che a Milano debba
regnare l'abbondanza, visto che la farina viene sciupata in questo modo,
ma poco dopo, giunto vicino alla colonna di S. Dionigi, vede sugli scalini
del piedistallo delle cose simili a pagnotte e, incuriosito, ne raccoglie una:
si tratta proprio di un pane tondo e soffice, bianchissimo, il che riempie il
giovane di meraviglia e lo induce a pensare che questo sia il "paese di
cuccagna", visto che il pane viene gettato via così e per di più in tempo di
carestia. Renzo riflette sul da farsi e poi decide di raccogliere alcuni pani,
dal momento che sono stati buttati per terra, ripromettendosi di pagarli al
proprietario se mai lo incontrasse. Ne raccoglie due e ne mangia un terzo,
proseguendo il cammino e desideroso di capire cosa stia succedendo in
questa città .
54
giusto, all'occasione, impadronirsi di ciò che viene negato al popolo
affamato. Decide comunque, per il momento, di tenersi fuori dalla
sommossa e si affretta a raggiungere il convento dove è stato indirizzato.
Renzo raggiunge il convento dei cappuccini, che sorge in una piazzetta con
quattro grandi olmi davanti: mette via il pane che stava mangiando,
prepara la lettera di padre Cristoforo e tira il campanello. Si apre uno
sportello con una grata e il frate portinaio gli domanda cosa voglia: Renzo
dice di dover consegnare al padre Bonaventura una lettera di padre
Cristoforo, al che il frate gli domanda di darla a lui. Il giovane rifiuta e
afferma di doverla dare in mano a padre Bonaventura, ma il portinaio gli
dice che è assente e rifiuta di fare entrare Renzo, consigliandogli di
attendere in chiesa il ritorno del padre. Lo sportello si richiude e il
giovane, dopo essersi incamminato verso la chiesa, è poi attratto dall'idea
di vedere da vicino il tumulto: si dirige pertanto verso il vociare del
popolo, incuriosito, mentre sbocconcella la mezza pagnotta che gli è
rimasta. L'autore interrompe il racconto per spiegare le cause e le origini
di quella sommossa popolare.
CAPITOLO XI
Le ragioni della carestia
55
che inasprisce ancor di più la penuria: e, sottolinea l'autore, la
conseguenza inevitabile e tuttavia salutare di essa è il rincaro, ovvero
l'aumento del prezzo del grano e del pane. Quando però il rincaro è
ingente nasce nel popolo (e anche fra i nobili e gli intellettuali) l'idea che
la causa di tutto non sia la scarsezza di grano, ma gli accaparratori che ne
fanno incetta per rivenderlo a prezzo maggiorato: fornai e proprietari
terrieri vengono accusati un po' da tutti di far questo, molti credono di
sapere dove siano i magazzini ricolmi di frumento, altri affermano che il
grano viene spedito in paesi stranieri. Il popolo di Milano chiede a gran
voce ai magistrati dei provvedimenti contro i presunti incettatori e
qualcosa viene fatto, come fissare il prezzo massimo di alcune merci,
imporre a tutti di vendere, ma questo ovviamente non risolve il problema
della carestia e non fa saltare fuori il grano che non c'è. Il popolo reclama
altri provvedimenti più incisivi e purtroppo trova un uomo disposto ad
assecondare i suoi voleri.
56
non intende acconsentire e il prezzo del pane resta ribassato in forza di
legge. I decurioni, magistrati cittadini che si occupano di queste faccende,
informano per lettera don Gonzalo e invocano il suo intervento per
risolvere la situazione che sta diventando insostenibile.
Il governatore, impegnato più mai negli affari della guerra, nomina una
commissione di magistrati alla quale dà il compito di fissare il giusto
prezzo al pane: i deputati si riuniscono e, dopo una seduta in cui
prevalgono i complimenti e le discussioni oziose, prendono l'unica
decisione logica, ovvero rincarare il pane secondo le leggi di mercato. La
cosa acquieta i fornai, ma fa imbestialire il popolo, che la sera del 10
novembre 1628, prima dell'arrivo di Renzo, si riversa in strada dove si
formano gruppi spontanei, tutti uniti dalla rabbia e dall'avversione per la
revoca del calmiere. Molti improvvisati oratori fanno discorsi con cui
spingono la folla a fare qualcosa di violento e molti mestatori di popolo
ascoltano compiaciuti, decisi a intorbidire le acque quando il tumulto sarà
scoppiato. Infatti il giorno seguente (S. Martino, l'11 novembre) le strade
si riempiono nuovamente di popolo brulicante e irritato, in cerca di
un'occasione per dare inizio alla sommossa. Alle prime luci del giorno i
garzoni escono dalle botteghe dei fornai con le gerle di pane sulle spalle,
per portarlo nelle case dei nobili, e un ragazzo viene notato dalla folla che
subito inveisce contro di lui accusando i fornai di nascondere il pane.
Alcuni lo strattonano e tentano di afferrare la gerla, al che il garzone se ne
libera e si dà alla fuga, mentre i popolani afferrano le pagnotte ancora
fragranti e le distribuiscono ai presenti; quelli a cui non tocca nulla vanno
in cerca di altri garzoni, che subiscono lo stesso trattamento. Il bottino è
comunque assai misero e sono ancora molti quelli rimasti a bocca asciutta,
per cui il popolo in rivolta si muove deciso a dare l'assalto ai forni della
città .
Nella strada chiamata Corsia dei Servi c'è un forno che ai tempi dell'autore
ha ancora lo stesso nome, ovvero il forno delle Grucce (questo è il nome in
toscano, mentre quello in milanese, osserva con ironia Manzoni, è formato
da parole dal suono sgradevole). Il popolo in tumulto corre verso questa
57
bottega, dove il garzone è appena tornato privo del suo carico, e ben
presto chi è all'interno sente l'urlo orrendo della folla che si avvicina. I
proprietari si affrettano a sprangare porte e finestre e qualcuno va a
chiedere l'intervento del capitano di giustizia, mentre intanto il popolo
urla all'esterno "pane! aprite!" Poco dopo sopraggiunge con una squadra
di alabardieri al comando del capitano di giustizia, che tenta invano di
disperdere la folla e di indurre i presenti a tornare a casa: l'ufficiale e i
soldati si appostano di fronte all'uscio del forno, ma gli inviti del capitano
ad avere giudizio e ad andarsene non valgono a nulla, anche perché la folla
si ingrossa ogni momento e preme contro la porta della bottega. Il
capitano dà ordine di respingere i rivoltosi senza far male a nessuno e
intanto picchia alla porta, gridando che aprano e lo facciano entrare; la
porta si apre, così lui e gli alabardieri riescono a entrare nella bottega e il
capitano sale al piano di sopra, affacciandosi a una finestra.
58
Mentre la folla in tumulto dà l'assalto al forno delle Grucce, molte altre
botteghe a Milano sono bersaglio della rivolta, ma qui le cose vanno
diversamente in quanto i proprietari respingono i malintenzionati con
l'aiuto di altri uomini, oppure distribuiscono pane ottenendo
l'allontanamento dei pochi convenuti, senza contare che i soldati e le forze
di polizia si fanno vedere in qualche punto della città . Ciò spinge i
popolani che non hanno potuto partecipare alla sommossa a radunarsi al
forno delle Grucce, in quanto lì la folla è più numerosa e non incontra
resistenza, ed è proprio in questo momento che Renzo arriva
sgranocchiando il pane che aveva trovato in terra, al suo ingresso in città .
Il giovane osserva incuriosito il tumulto e ascolta vari discorsi della folla,
che inveisce contro il governo di Milano accusandolo di nascondere il
grano e il pane, mentre altri dicono che tutto è inutile e il pane verrà
avvelenato dai nobili per sterminare la povera gente. Un altro rivoltoso si
allontana reggendo sulle spalle un enorme sacco di farina e un altro
ancora scappa via per prudenza, dicendosi certo che in mezzo alla folla ci
sono poliziotti travestiti che prendono nota dei presenti, per arrestarli alla
fine della rivolta. Alcuni popolani iniziano anche ad accusare il vicario di
Provvisione, ovvero il magistrato che sovrintende all'approvvigionamento
della città , affermando che la colpa della scarsezza di grano e della carestia
è sua; altri prendono le difese del gran cancelliere Ferrer, considerato al
contrario un benefattore del popolo in quanto ha imposto il calmiere sul
prezzo del pane.
59
La folla si dirige alla casa del vicario di Provvisione
L'autore osserva con amara ironia che distruggere i forni non è il mezzo
migliore per produrre il pane, ma questo è un pensiero troppo sottile per
la folla in tumulto: anche Renzo ovviamente lo pensa, benché si tenga
certe idee per sé temendo che i rivoltosi possano reagire in modo violento.
Intanto il falò si spegne lentamente e si sparge d'improvviso la voce che
nella piazza del Cordusio si dà l'assalto a un altro forno, per cui la massa
dei rivoltosi inizia a dirigersi in quella direzione a piccoli gruppi. Renzo
pensa dapprima se non sia meglio tornare al convento a cercare il padre
Bonaventura, poi prevale la curiosità e il giovane decide di seguire la
sommossa per osservare da una certa distanza gli avvenimenti (tira fuori
dalla tasca il secondo pane raccolto e inizia a sbocconcellare anche
questo).
CAPITOLO XIII
La folla assalta la casa del vicario di Provvisione
60
informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo
avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così
sprangano porte e finestre mentre si sente l'urlo della sommossa che si
avvicina minacciosamente. Il pover'uomo è in preda al terrore e si rifugia
in soffitta, da dove si affaccia da un pertugio nella parete e scorge la folla
che si avvicina, per poi rannicchiarsi in un angolo appartato e sperare
vanamente che i disordini cessino. Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la
porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in
mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta
deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia
non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur
essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è
inorridito all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di
dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I più esagitati nel
frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando
con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel
muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di
impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia
l'autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un'opera ne siano
poi l'impedimento principale).
61
della loro presenza e proseguono imperterriti la loro opera di
scardinamento della porta.
Alcuni rivoltosi stanno portando sulle spalle una lunga e pesante scala a
pioli, con cui intendono arrampicarsi per entrare nella casa del vicario da
una finestra: l'operazione è tuttavia assai difficile, poiché nell'avanzare tra
la folla la scala sfugge di mano a chi la trasporta e picchia sulle spalle e le
costole degli altri, così essa (paragonata ironicamente dall'autore a una
macchina da assedio) si avvicina molto lentamente alla casa. Renzo
approfitta della confusione per sgomitare e allontanarsi dal punto in cui si
trova, onde evitare rappresaglie da parte di quelli che lo hanno sentito
difendere il vicario. A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta
arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e
l'iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto
indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e
da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di
trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato
62
con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane. Ben
presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per
portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque
favorevoli all'arrivo dell'alto funzionario di Stato, mentre altri sono
contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il
malcapitato vicario di Provvisione.
L'autore osserva che nelle rivolte popolari c'è sempre un certo numero di
esagitati, che per i motivi più vari (perché eccitati dagli eventi, o per
fanatismo, o ancora per scelleratezza o semplice gusto del soqquadro)
cercano di tirare le cose al peggio e vogliono rinnovare i disordini non
appena questi sembrino acquietarsi: ci sono tuttavia anche coloro che si
adoperano con altrettanto impegno per ottenere l'effetto contrario, per
vicinanza alle persone minacciate o soltanto per sincero orrore verso
qualunque atto di violenza. In ciascuna delle due fazioni si crea subito un
comune sentire e un'identità d'intenti, mentre nel grosso della folla ci
sono uomini di diverse idee e sentimenti che possono inclinare all'uno o
all'altro partito, in quanto bisognosi di credere a qualcosa e facili dunque
ad essere persuasi ad appoggiare un'idea o quella opposta. I rivoltosi sono
come delle banderuole che si muovono senza volontà propria e possono
essere usati per i fini altrui, e poiché hanno una grande forza ci sono
sempre nei tumulti degli abili oratori in grado di tirarli dalla loro parte,
istigandoli a fare qualcosa di bene o di male, e di suscitare in loro speranze
e timori, paure e sentimenti vari.
63
rivoltosi allontanano con modi bruschi quelli che stanno ancora
sconficcando la porta e il muro della casa, dicendo a coloro che stanno
all'interno di tenersi pronti a fare uscire il vicario (è chiaro che il vero
scopo del cancelliere è condurlo in salvo e la cosa non sfugge ad alcuni dei
presenti).
64
La carrozza continua a procedere lentamente e a fermarsi di quando in
quando, ostacolata dalla folla che ondeggia intorno ad essa come un mare
in tempesta e fa sembrare un percorso assai lungo le poche decine di
metri che la separano dalla casa del vicario. Ferrer continua a rivolgersi
alla folla cercando di capire cosa dicano i rivoltosi e dando le risposte più
gradite alle loro orecchie, ripetendo cioè le parole "pane" e "giustizia" e
promettendo di portare il vicario in prigione, mentre la folla si tira
indietro a fatica e qualche popolano rischia seriamente di essere
schiacciato da una delle ruote della carrozza. Finalmente il veicolo giunge
vicino alla casa del vicario e qui, proprio di fronte alla porta, si è creato
uno spazio vuoto grazie all'opera incessante dei partigiani favorevoli a
Ferrer, tra i quali Renzo che si trova in prima fila, in mezzo a una delle due
ali di folla che accompagnano la carrozza sino alla porta dell'abitazione. Il
gran cancelliere vede la porta mezza scardinata e un po' di spazio libero di
fronte ad essa, quindi si affretta ad uscire dalla carrozza e si sofferma per
qualche istante sul predellino, acclamato dai presenti a cui rivolge un
profondo inchino promettendo "pane e giustizia"
I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino
piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li
aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della
moltitudine: quest'ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella
65
carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude
all'indirizzo di Ferrer e impreca contro l'odiato funzionario. La carrozza si
allontana dalla casa e questa volta riesce ad avanzare più celermente, sia
perché tutti sono abbastanza favorevoli a lasciare andare in prigione il
vicario, sia perché si è ormai creato un corridoio in mezzo alla folla che
agevola il passaggio del veicolo.
66
raggiunge il Castello Sforzesco e l'anonimo non dice quale sia poi il
destino del vicario di Provvisione.
CAPITOLO XIV
La folla dei rivoltosi inizia a disperdersi
67
popolo, giacché ci sono dei tiranni che opprimono la povera gente ed
esercitano contro di essa degli autentici soprusi: egli è certo che ci siano
dei signori prepotenti a Milano come in campagna e una voce gli dà
prontamente ragione. Renzo aggiunge che le gride ci sono, stampate in
bella evidenza, ma non vengono applicate e non viene fatta giustizia ai
poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'uno con l'altro,
anche se il re e gli altri uomini di governo vorrebbero che i malvagi
venissero puniti per i loro delitti. Il giovane propone di recarsi tutti il
giorno dopo da Ferrer, che si è dimostrato un galantuomo, per fargli
sapere come stanno le cose e invocare il suo aiuto: Renzo rammenta la sua
triste esperienza dal dottor Azzecca-garbugli, dove ha visto coi suoi occhi
una grida firmata da Ferrer in persona e che riguardava proprio un caso
simile al suo, anche se non ha potuto ottenere soddisfazione. Il gran
cancelliere non potrà certo andare in giro in carrozza ad arrestare tutti i
birboni, ma potrà comandare ai giudici e ai podestà di applicare la legge e
dare la giusta punizione a chi sgarra, con l'aiuto dei popolani che saranno
pronti a darsi da fare come è accaduto in questa giornata. L'uditorio ha
ascoltato con interesse le sue parole e molti alla fine si complimentano e
applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i
montanari vorranno dir la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio
per i poveri.
68
Luna Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo
oltre, adducendo come pretesto che in quella locanda non si troverebbe
bene, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale, seguito dal
poliziotto che non intende lasciarlo (Renzo lo invita a bere un bicchiere e
l'altro accetta con fare manierato). Il poliziotto, che sembra pratico del
luogo, lo guida all'interno dell'osteria attraverso un piccolo cortile,
entrando poi in un ampio locale illuminato dalla debole luce di due lumi
che pendono dal soffitto e dove c'è una lunga tavola con due panche ai lati,
con piatti, fiaschi, carte e dadi dappertutto. Molti avventori sono intenti a
giocare e a bare, facendo un gran chiasso, mentre sulla tavola ci sono
molte monete che, probabilmente, sono il frutto di ruberie avvenute in
quella giornata di tumulto.
L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale,
poi si alza e si avvicina ai due nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e
imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando meno lo
vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una
sua preda e da come il giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai
due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino, quindi il giovane si
siede su una panca di fronte al poliziotto e, quando l'oste porta il vino, ne
beve subito un sorso. Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non
potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle pagnotte che
aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano,
mostrandola agli avventori e dicendo a voce alta che si tratta del pane
della Provvidenza. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane gratis, ma si
affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a
pagarlo al proprietario qualora lo incontrasse (le sue parole suscitano una
risata generale). Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel
pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre lo sbirro dice all'oste
che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina
con in mano un foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli
nome, cognome e città di provenienza, così come prescrive una grida agli
osti che diano ricovero a un forestiero nella loro locanda (l'oste nel dir
questo guarda fisso in volto il poliziotto).
69
L'oste mostra la grida a Renzo
70
bisognerebbe dare a ciascuno un biglietto, con scritto il nome, la
professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare
il pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare
uno con scritto "Ambrogio Fusella, professione spadaio, una moglie e
quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere
scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi
Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato e dunque senza figli, al che il
poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da
Renzo e dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa.
71
sbornia non gli ha tolto del tutto la naturale prudenza contadina). Per
buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome di
Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da
parte di quegli ubriaconi.
CAPITOLO XV
L'oste porta Renzo a dormire
L'oste vede che le ciance di Renzo e degli altri avventori durano per le
lunghe, quindi si avvicina e prega gli altri clienti di lasciarlo stare,
ripetendo al giovane che è il momento di andare a dormire. Renzo
riacquista un barlume di lucidità nonostante la sbornia, quindi tenta di
alzarsi, barcollando, ed è sorretto dall'oste che lo aiuta a lasciare la tavola,
conducendolo verso una scaletta che porta alla camera che gli ha
destinato. Il giovane saluta la compagnia facendo gesti sconnessi con la
mano, quindi è condotto dall'oste nella camera e, vedendo il letto,
manifesta in modo bizzarro la sua contentezza al padrone della locanda.
Questi pensa di approfittare del poco di lucidità che è rimasta a Renzo,
invitandolo una buona volta a dirgli il suo nome come prescrive la grida,
per fare un piacere a lui che vuole solo rispettare la legge: Renzo si irrita e
ricomincia a inveire contro l'oste, il quale, per evitare che il giovane attiri
l'attenzione degli altri avventori, si affretta a dire di avere scherzato.
Renzo sembra soddisfatto e cade bocconi sul letto, completamente
stremato. L'oste aiuta Renzo a togliersi il farsetto e lo tasta bene per
trovare la borsa col denaro: chiede al giovane di saldare il conto, cosa che
avviene non senza fatica e pazienza da parte del locandiere. In seguito
aiuta Renzo a finire di spogliarsi e gli rimbocca amorevolmente le coperte,
augurandogli la buonanotte quando l'altro già russa.
72
stanza, chiudendone la porta a chiave, poi chiama la moglie per dirle di
scendere in cucina a badare all'osteria, mentre lui dovrà uscire a sbrigare
una faccenda urgente. L'uomo spiega le sue preoccupazioni relative a
Renzo, quindi aggiunge molte raccomandazioni all'ostessa circa il modo in
cui dovrà comportarsi con gli avventori (badare cioè che tutti paghino,
non contraddire nessuno, non mostrare interesse per le chiacchiere di
politica e di sommosse che faranno tra loro, onde evitare guai in
avvenire). Sceso in cucina con la moglie, l'oste indossa il mantello e
prende un robusto bastone, uscendo dalla locanda dopo aver dato
un'occhiata veloce a quanto sta avvenendo nel locale.
73
sommossa per dare l'esempio alla folla con una condanna esemplare. Il
capitano di giustizia, ancora dolorante per la ferita alla testa rimediata
quella mattina, è molto interessato alla questione e ha sguinzagliato in
città i suoi sbirri per cercare di prendere qualche caporione della rivolta: il
sedicente Ambrogio Fusella incontrato da Renzo era appunto uno di
questi, che lo aveva notato mentre arringava la folla e aveva deciso di
approfittare della sua ingenuità , tentando addirittura di condurlo subito in
carcere con la scusa di portarlo in una locanda. Il poliziotto è riuscito
comunque a riferire il nome di Renzo, così, quando l'oste va a rendere la
sua deposizione a un notaio criminale, questi ne sa già più di lui. L'oste è
stupito del fatto che la giustizia sappia il nome del suo avventore, quindi il
notaio lo accusa di non dire tutta la verità : gli rammenta che Renzo ha
portato nella sua osteria un pane rubato durante i saccheggi e che ha
proferito parole ingiuriose nei confronti delle gride e dello stemma del
governatore. L'oste ribatte che il suo solo interesse è mandare avanti il
suo locale e non ha il tempo di badare a tutte le chiacchiere degli
avventori, quindi il notaio gli ricorda che presto i rivoltosi avranno il fatto
loro e gli chiede notizie di Renzo: l'oste riferisce che il giovane sta
dormendo e il magistrato gli ordina di non lasciarlo scappare, cosa che
irrita non poco il padrone della taverna (il quale, tuttavia, non dice né sì né
no). Dopo alcune raccomandazioni del notaio, l'oste può finalmente
tornare alla sua locanda.
74
magistrato riderebbe di gusto a una simile domanda, ma si affretta a dire a
Renzo che la sua richiesta sarà esaudita e lo invita a vestirsi in fretta. Il
notaio ha visto infatti per le strade dei movimenti sospetti, il radunarsi di
gruppi di persone che lasciano presagire nuovi tumulti, quindi il suo
intento è portar via Renzo senza indurlo a far resistenza ed evitare così
che il giovane possa trovare l'aiuto di altri popolani una volta in strada.
Per questo il notaio fa cenno ai birri di non fare incollerire Renzo, il quale
dal canto suo si veste con lentezza, per prendere tempo e raccogliere le
idee nella sua mente, tanto più che dalla strada si sente provenire un
ronzio confuso di popolo che si sta radunando. Il giovane si dice pronto a
spiegare tutto al notaio, nel quale legge una certa preoccupazione, e il
magistrato gli parla con fare manierato, dichiarando che se dipendesse da
lui lo rilascerebbe all'istante, ma la legge gli impone di portarlo al palazzo
di giustizia (una volta lì, tuttavia, le formalità saranno presto sbrigate e
Renzo tornerà subito libero). Il giovane chiede se passeranno per la piazza
del duomo, dove aveva preso appuntamento con altri popolani il giorno
prima, e il notaio dice che percorreranno la via più breve.
75
I birri mettono i "manichini" a Renzo
La fuga di Renzo
Una volta che i quattro sono usciti in strada, dunque, Renzo inizia a
voltarsi da una parte e dall'altra, in cerca di un aiuto da parte della folla:
non ci sono disordini in atto e molti passanti tirano dritto senza fermarsi,
mentre il notaio si affretta a suggerire a Renzo di non dare nell'occhio, di
osservare un contegno che non sia per lui disonorevole. A un tratto però
Renzo vede arrivare tre popolani che parlano di farina nascosta, di forni,
di giustizia, perciò inizia a tossire in modo insistente per attirare la loro
76
attenzione: i tre si fermano e si uniscono a loro altri passanti, mentre il
notaio raccomanda vanamente a Renzo di non dare nell'occhio benché il
giovane, intanto, faccia di tutto per farsi notare. I birri danno una stretta ai
"manichini" e Renzo urla di dolore, attirando infine una piccola folla che
circonda con fare minaccioso la comitiva: il notaio dice che si tratta di un
ladro colto sul fatto, ma Renzo, che ha visto i birri impallidire, coglie al
volo l'occasione e grida che è portato in prigione perché il giorno prima ha
gridato "pane e giustizia", chiedendo infine l'aiuto dei popolani.
I birri dapprima chiedono alla folla di lasciarli passare, poi però , vista la
mala parata, lasciano andare i "manichini" e cercano di allontanarsi,
mescolandosi ai rivoltosi. Il notaio cerca di fare lo stesso, ma la cappa nera
che indossa gli rende difficile passare inosservato: cerca di fingere
indifferenza e di sottrarsi alla calca, finché un popolano lo indica come un
"corvaccio" (un magistrato) e aizza la folla contro di lui, anche se il notaio
riesce per miracolo a scappare e a evitare il linciaggio.
CAPITOLO XVI
Renzo si allontana in fuga
77
sembra di essere abbastanza lontano, rallenta il passo per non destare
sospetti. Inizia dunque a osservare i visi delle persone che popolano le
strade, per decidere a chi sia meglio chiedere indicazioni sulla via da
percorrere, incalzato dal pensiero che i birri nel frattempo saranno già
sulle sue tracce per arrestarlo di nuovo.
Renzo cerca di capire chi sia la persona più adatta a cui rivolgere la
domanda: sulla porta di una bottega c'è il proprietario, un uomo
grassoccio con l'aria di un tipo curioso che farebbe molte interrogazioni
prima di dare un'indicazione; un passante procede guardando fisso di
fronte a sé, mostrando di conoscere a malapena la propria strada; un
ragazzo ha l'aria furba e maliziosa e forse si divertirebbe a dare
indicazioni sbagliate per sviare un forestiero. Alla fine Renzo vede un
passante che cammina alla svelta come pressato da qualche affare
urgente, quindi pensa che risponderà senza fare storie: gli si avvicina e gli
chiede con cortesia da quale porta di Milano si esca per andare a Bergamo,
al che l'altro risponde che si passa per Porta Orientale, aggiungendo poi
indicazioni per raggiungere la piazza del duomo. Renzo ringrazia per
l'informazione e si rimette in marcia con passo svelto, cosa che induce il
passante a pensare che quel giovane ha subìto qualche brutto tiro, o ne ha
lui uno in mente.
Renzo raggiunge in fretta la piazza del duomo, dove vede gli avanzi del
falò acceso dai rivoltosi il giorno prima, passa davanti al forno delle
Grucce semidistrutto e sorvegliato dai soldati, quindi vede il convento dei
cappuccini e la chiesa dove gli era stato consigliato di attendere, e dove
ora rimpiange di non essere andato invece di cacciarsi nel tumulto. Arriva
finalmente a Porta Orientale, che vede sorvegliata da diversi soldati, e
pensa che sarebbe rischioso cercare di attraversarla, mentre potrebbe
ottenere asilo nel convento usando la lettera di padre Cristoforo che ha
ancora con sé; poi però riflette sul fatto che nessuno lo conosce, che i birri
non possono attenderlo a tutte le porte e che, soprattutto, è meglio essere
"uccel di bosco" piuttosto che rinchiudersi in un asilo. Si fa coraggio e si
avvicina con fare indifferente alla porta, dove i numerosi gabellieri e i
78
soldati spagnoli sono attenti a non fare entrare nessuno dall'esterno,
mentre badano poco a quelli che lasciano la città . Renzo esce dalla porta
senza dare nell'occhio e senza che nessuno gli dica nulla, quindi, una volta
lasciata la città , imbocca una stradina secondaria per evitare quella
principale e si mette in cammino, senza voltarsi indietro per parecchio
tempo.
Dopo un po' si rende conto che non è in grado di trovare da solo la strada
per Bergamo, così, pur riluttante, decide di chiedere un'indicazione a un
viandante: questi lo informa che è fuori strada e gli spiega come tornare
sulla via maestra, cosa di cui Renzo lo ringrazia ma col proposito di non
avvicinarsi troppo alla strada principale, per evitare brutti incontri con
soldati o birri. La cosa è in realtà molto difficile e infatti Renzo,
camminando a zig-zag per restare su sentieri fuori mano, percorre circa
dodici miglia senza allontanarsi da Milano per più di sei, non
avvicinandosi in modo significativo al confine col Bergamasco. Alla fine
decide che la cosa migliore sia di chiedere indicazioni per raggiungere un
paesetto posto vicino al confine, raggiungibile tramite strade secondarie e
senza dover chiedere di Bergamo dando l'impressione di essere un
fuggiasco. A un tratto vede una frasca fuori da una casupola che la indica
come un'osteria, quindi decide di entrare e di ristorarsi, chiedendo al
contempo le informazioni che gli servono. Nella casa c'è solo una vecchia
intenta a filare, dalla quale Renzo accetta dello stracchino e rifiuta
79
cortesemente il vino, memore della sbornia presa la sera prima. La donna
inizia a fargli molte domande su Milano e il tumulto del giorno prima, alle
quali Renzo si schermisce per poi chiedere a sua volta indicazioni per
raggiungere un paese vicino al confine dei due Stati, di cui finge di non
ricordare il nome. La vecchia indica Gorgonzola e Renzo chiede se si possa
raggiungere per viottole secondarie, adducendo come pretesto il voler
evitare la polvere della via principale. La donna dice di sì e gli spiega come
fare, quindi Renzo esce con un pezzo di pane ben diverso da quelli raccolti
il giorno prima a Milano, deciso ad arrivare molto presto a Gorgonzola.
80
maledicendo poi tra sé gli osti come portatori di guai; inizia poi a
mangiare, simulando il più totale disinteresse per le chiacchiere degli
avventori anche se ascolta con grande attenzione le loro parole, per
scoprire se tra questi ci sia qualcuno cui chiedere informazioni senza
pericolo.
81
tuttavia erano decisi a menare le mani, hanno assaltato il forno del
Cordusio cui il giorno prima non si erano potuti avvicinare, arraffando a
man bassa il pane che alcuni nobili stavano distribuendo al popolo in
ottemperanza a una nuova grida. La folla ha asportato molte suppellettili
dal forno e ne ha fatto un gran falò sulla piazza del duomo, quindi alcuni
hanno proposto di dare fuoco al forno, cosa che per poco non è avvenuta:
fortunatamente, spiega il mercante, un uomo del vicinato si è affacciato da
una finestra e ha esposto un crocifisso tra due ceri, inducendo i facinorosi
a recedere dai propositi violenti, e poco dopo i monsignori del duomo
hanno sfilato in processione, invitando tutti ad andarsene e informando la
folla che il pane è di nuovo a buon mercato, come dimostrano le gride
affisse sulle cantonate. Infatti il pane costa nuovamente un soldo ogni otto
once e gli avventori dell'osteria chiedono se qualche provvedimento sia
stato emanato anche per il contado, al che il mercante risponde che ciò
che è avvenuto in Milano riguarda la città soltanto.
82
sono ora nelle mani della giustizia e in esse è descritta tutta la trama della
sommossa, mentre l'uomo aggiunge che i fornai sono certamente
colpevoli di nascondere il grano, ma bisogna impiccarli con processi
regolari e tocca comunque al governo della città combattere gli incettatori,
mentre le rivolte non possono che portare guai a chi fa il suo lavoro come i
bottegai.
83