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La prima giornata si apre con la premessa storico-temporale di Boccaccio che, spiegando alle
donne (il suo pubblico principale) la necessità di dover iniziare in questo modo affinché il racconto
si comprenda meglio e non per provocare loro il dolore del ricordo, illustra nei particolari la
disgrazia che ha colpito Firenze nell’aprile del 1348. La peste arriva dall’Asia ma, a differenza
dell’Oriente in cui si manifesta con l’emorragia nasale, in Italia appare più brutale, con delle
gonfiature chiamate “gavoccioli” che spuntano nell’inguine o sotto le ascelle dalle quali non si
riesce a trovare salvezza (neanche i medici più “specializzati” trovano una cura).
Davanti a questa drammatica situazione i civili (non contagiati) si comportavano in due diversi
modi: chi si riuniva e chiudeva in casa assumendo un comportamento parsimonioso e attento,
riguardandosi dai pericoli esterni, e chi invece usciva fuori lasciandosi andare, girovagando da una
taverna all’altra e abbandonandosi alla lussuria per “godersi l’attimo”; fra questi due estremi c’era
però chi adottava una via di mezzo (senza esagerare nelle sue azioni) e chi anche decideva
direttamente di scappare dalla città, abbandonando tutto e tutti per salvarsi (atto iniquo di
egoismo che può essere punito da Dio). Nonostante ciò, indipendentemente dalla scelta di vita che
le persone adottavano, la morte non risparmia nessuno; ormai, dunque, si arriva allo
sgretolamento totale dei rapporti umani, in cui la sensazione di ribrezzo porta ad abbandonare
amici e familiari, il servire l’un l’altro è solo motivo di avidità e il sentimento di pudore svanisce
travolto dall’istinto di conservazione.
La stessa usanza funeraria viene meno: rispetto a prima in cui i morti venivano visitati alla veglia e
accompagnati fino alla chiesa da amici, parenti e anche solo conoscenti, adesso l’uomo muore
senza nessuno vicino che se ne cura o che se ne ricorda, trasportato nella bara dai becchini e
lasciato nella prima sepoltura vuota; fine ancora peggiore la fa la “Minuta gente”, ovvero i poveri,
morti per strada e ammucchiati in più in una sola bara ai quali si concede un rito freddo e
squallido. Tutto e tutti ormai sono dominati dal completo abbandono e desolazione.
Tranne per il convento di Santa Maria Novella, dove 7 ragazze giovani discutono sulle difficoltà del
loro tempo: la più grande è Pampinea, la quale si sfoga illustrando gli orrori che incombono nella
città, ormai deserta e appestata, e cerca di indurre le sue compagne a differenziarsi dalla massa
che ormai perde ogni controllo e dignità per abbandonarsi a sé stessi, convincendole a scappare in
campagna e scegliere la via della moderazione. Mosse da questo incoraggiamento e dal voler
trascorrere una vita migliore nel tranquillo e piacevole ambiente campagnolo, le ragazze fanno per
alzarsi e incamminarsi, quando Filomena espone il “problema” dell’assenza di guide forti che
possano reggere e condurre il gruppo in questo viaggio: gli uomini.
Ellissa non fa in tempo a dire che è praticamente impossibile trovare o cercare degli uomini( in
quanto sono quasi tutti morti), quando le porte della chiesa si aprono ed entrano Panfilo,
Filostrato e Dioneo. Dopo un attimo di confusione e riflessione, le ragazze decidono univocamente
di presentarsi e di proporgli il loro piano: i ragazzi acconsentono e decidono tutti insieme di partire
l’indomani mattina; si ritroveranno su un prato in mezzo alla natura dove verrà eletta Pampinea
come regina che creerà le articolazioni del gruppo proprio come se si trattasse di una struttura.
NOVELLA I = TEMA LIBERO DELLE
NOVELLE (PANFILO)
(Notevole coerenza tematica delle novelle attorno alla corruzione dei potenti e alla condanna,
non moralistica ma come presa in giro, dei vizi degli strati più elevati della società)
Panfilo iniziò il suo racconto dicendo che si sapeva bene che tutte le cose terrene erano transitorie
e mortali e arrecavano fatica, angoscia e pericoli, dai quali non ci si poteva riparare senza l’aiuto di
Dio. L’aiuto veniva dato da Dio, non per merito degli uomini, ma per sua benevolenza, ottenuta
grazie alle preghiere e all’intercessione di coloro che erano morti ed erano diventati beati,
seguendo nella vita terrena i suoi comandamenti. A costoro gli uomini rivolgevano le loro
preghiere, non avendo il coraggio di rivolgersi direttamente a Dio. Avveniva, talvolta, che,
ingannati dall’opinione popolare, ci si rivolgesse a qualcuno che era stato scacciato da Dio in
eterno esilio. Nonostante ciò, il Signore aiutava lo stesso colui che pregava, guardando più alla
purezza di chi pregasse, che a quella di colui che intercedeva.
Il che si poteva vedere chiaramente nella novella che egli si accingeva a raccontare.
Si raccontava che il ricchissimo mercante e usuraio Musciatto Franzesi, divenuto in Francia
cavaliere, grazie a traffici poco chiari con la corte del re di Francia Filippo il Bello, fu chiamato da
papa Bonifacio VIII, per il conferimento di una onorificenza. Egli doveva venire in Toscana con
Carlo Senzaterra, fratello di Filippo il Bello, per questo affidò a diverse persone la liquidazione dei
suoi affari in Francia; gli rimase solo il dubbio su chi scegliere per la riscossione dei suoi crediti in
Borgogna. Essendo i borgognoni uomini litigiosi e sleali, non riusciva a trovare un uomo tanto
malvagio che potesse opporre alla loro malvagità; dopo lungo pensare, gli venne in mente ser
Cepparello da Prato ,che spesso si rifugiava nella sua casa di Parigi (dove dai francesi veniva
chiamato “Ciappelletto”, in quanto di piccola statura e molto ricercato e manieroso).
Ciappelletto viveva così. Era notaio e provava grandissima vergogna se non faceva atti notarili
falsi, facendosi pagare moltissimo. Diceva, con grande piacere, testimonianze false, richiesto e
non richiesto, e, dandosi grande fiducia in quei tempi, ai giuramenti, egli vinceva moltissime cause,
giurando spudoratamente il falso.Provava straordinario piacere a provocare inimicizie e scandali
tra amici e parenti e qualunque altra persona, provandone maggiore allegria, quanto più grande
era il danno. Invitato a partecipare ad un omicidio o ad un altro misfatto, volentieri correva e, a
volte, ferì o uccise con le proprie mani. Bestemmiava molto Dio e i Santi e si adirava per ogni
piccola cosa. Non andava in chiesa e riteneva cosa vile i Sacramenti, deridendoli con parole volgari;
al contrario, frequentava le taverne e i luoghi malfamati. Amava le donne come i cani amano i
bastoni. Avrebbe imbrogliato e rubato con una coscienza che avrebbe offeso ogni uomo timorato
di Dio.Era golosissimo e gran bevitore, baro, giocatore di dadi truccati; senza dire altro, era il
peggior uomo che fosse mai nato.
Messer Musciatto Franzesi, che conosceva bene la vita di ser Ciappelletto/Ciapparello, pensò che
fosse l’uomo giusto per la malvagità dei borgognoni. Perciò, fattolo chiamare, gli conferì l’incarico
di riscuotere i crediti dai borgognoni con la promessa di premiarlo alla fine del lavoro con il favore
della corte e una parte di denaro dal totale che avrebbe riscosso. Ser Ciappelletto che era, al
momento disoccupato e in cattive acque, subito accettò. Ricevuta la procura e le lettere favorevoli
del re, si recò in Borgogna, dove nessuno lo conosceva, dopo la partenza di Musciatto. Lì si
comportò benignamente e con mansuetudine, senza adirarsi nello svolgere il suo compito.
Mentre faceva queste cose ed era ospitato, per rispetto a messer Musciatto, in casa di due fratelli
fiorentini che prestavano denaro ad usura, si ammalò.
I due fratelli subito chiamarono un medico e lo assistettero come meglio potevano. Ma ogni aiuto
era inutile, perché l’esattore era già vecchio ed aveva vissuto disordinatamente; i medici dicevano
che peggiorava di giorno in giorno perché aveva il male della morte. I due fratelli se ne
addoloravano molto e ,un giorno, vicino alla camera in cui ser Ciappelletto giaceva infermo,
cominciarono a discutere tra loro indecisi e disperati sul da farsi: da una parte non potevano
cacciarlo fuori di casa, dall’altra il suo comportamento gli avrebbe impedito in ogni modo di
essere accolto e santificato dalla Chiesa e dall’altra ancora c’era il rischio della rivolta del popolo
di Borgogna nei loro confronti; in ogni caso, la morte di Ciappelletto avrebbe causato un problema.
Ser Ciappelletto, che giaceva nella stanza accanto, udì quello che dicevano, avendo l’udito fine, per
cui li fece chiamare e disse loro di non preoccuparsi di lui e delle conseguenze della sua salute: li
pregò infatti di chiamare un frate santo, affinché egli potesse risolvere tutto.
I due fratelli, senza troppo fiducia, andarono in convento e chiesero di un frate che udisse la
confessione di un lombardo, che era infermo a casa loro. Fu mandato un frate molto venerabile,
esperto nelle Sacre Scritture, che tutti i cittadini stimavano.
Il frate, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giaceva, si pose a sedere al lato e gli domandò
da quanto tempo non si confessava: a questa domanda l’infermo rispose (come a tutte le altre
che il frate gli avrebbe posto di lì a poco) mentendo spudoratamente, dicendo che era sua
abitudine confessarsi una o più volte a settimana prima che sia ammalasse.
Il sant’uomo allora iniziò la confessione, e cominciò col chiedere se avesse mai peccato di lussuria
con alcuna donna. Il malato, sospirando ,rispose che era vergine ,come uscì dal corpo della madre,
ricevendo la lode del frate poiché aveva evitato il peccato di lussuria, rispetto a molti altri religiosi;
alla domanda se avesse peccato di gola, Ciappelletto rispose che per punirsi, oltre ai digiuni della
quaresima, ogni settimana, almeno per tre giorni, aveva l’abitudine di digiunare a pane ed acqua e
provava grande soddisfazione soprattutto nel bere ,come facevano i grandi bevitori di vino dopo la
fatica di un lungo pellegrinaggio.
Il frate (sempre più contento) chiese allora se avesse peccato di avarizia, sentendosi dire da ser
Ciappelletto che lui con i fratelli usurai non c’entrava nulla e il denaro ereditato dalla sua ricca
famiglia l’aveva sempre diviso a metà con i poveri.
Il sant’uomo chiese, ancora, al malato se si era, talvolta ,adirato: e l’uomo rispose che sì ,si adirava
spesso quando vedeva i giovani inseguire le vanità e bestemmiare e andare per taverne, non
frequentare le chiese e non seguire la via del Signore. Il sant’uomo rispose che quella era un’ira
giusta, ma era sbagliata se lo aveva portato all’omicidio e alla violenza. Il vecchio negò con
convinzione.
Il frate gli chiese molte altre cose (davanti alle quali il Ser si presentò come vittima anche per i
peccati più piccoli e semplici, tipo bestemmiare Dio) e credendo ad ogni risposta, gli dette
l’assoluzione e lo benedisse; riuscì anche a convincere il suo superiore di dedicare a Ciappelletto
una sepoltura degna e devota, alla quale molte persone avrebbero poi assistito.
Così visse e morì Ser Ciappelletto da Prato e divenne santo, come avete udito.
Panfilo concluse la narrazione dicendo “ Non voglio negare che Dio, nella sua infinita misericordia,
abbia potuto riceverlo nel suo regno, ma ritengo che egli dovrebbe essere dannato nelle mani del
diavolo, piuttosto che in Paradiso. Ma il Signore, conoscendo la buona fede degli uomini, spero che
abbia esaudito le preghiere dei borgognoni a lui rivolte, attraverso quell’uomo falso e bugiardo.
Anche noi, che siamo sani e salvi in questa lieta compagnia, ci raccomanderemo a Dio, sicuri di
essere ascoltati “.
Iniziò il racconto dicendo che la stupidità, talvolta, gettò l’uomo da una condizione di benessere
in grande miseria e ,al contrario, il senno evitò al saggio grandi pericoli e lo pose al sicuro. Ciò si
vedeva da molti esempi ed anche quella breve storiella lo avrebbe dimostrato.
Il Saladino che, grazie al suo valore, era diventato il sultano di Babilonia e aveva ottenuto molte
vittorie sui saraceni e sui cristiani, aveva speso nelle guerre tutto il suo tesoro ed aveva bisogno di
molto denaro per un incidente capitatogli. Non avendo come procurarsi così rapidamente il
denaro che gli serviva, si ricordò di un ricco giudeo, di nome Melchisedech, che prestava denaro
ad usura in Alessandria. Pensò di avere da lui il denaro, ma il giudeo era tanto avaro che non lo
avrebbe mai, spontaneamente, accontentato. Costretto dal bisogno cercò una giustificazione che
avesse parvenza di legalità.
Fatto chiamare l’usuraio, lo ricevette familiarmente vicino e gli chiese “Valente uomo, ho saputo
da molti che sei saggio ed esperto nelle cose di Dio, per questo vorrei sapere da te, delle tre leggi,
la giudaica, la saracena e la cristiana, quale reputi la più vera?”.
Il giudeo, da saggio qual era, capì subito che il Saladino voleva metterlo in difficoltà e pensò di
non poter lodare nessuna delle tre religioni, senza favorire l’intento dell’altro.
Aguzzò, dunque, l’ingegno e, subito, gli venne in mente la risposta che doveva dare e disse “ Signor
mio, la questione che mi ponete è bella e vi risponderò con una favoletta.
Ricordo di aver udito molte volte che, nei tempi passati, vi fu un uomo molto ricco che tra i suoi
tesori aveva un anello bellissimo e prezioso, che voleva lasciare in eredità ai suoi discendenti.
Nascose, dunque, l’anello e stabilì che il figlio che l’avesse ritrovato sarebbe divenuto il suo
erede, onorato e riverito come fratello maggiore; colui che ereditò l’anello fece la stessa cosa con i
suoi discendenti e così l’anello passò, di mano in mano, a molti successori. Infine, giunse nelle
mani di un uomo che aveva tre figli belli, virtuosi e obbedienti, che amava in egual misura. I
giovani sapevano della consuetudine dell’anello e, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava
il padre affinché, dopo la morte, gli lasciasse l’anello. Il padre, che amava parimenti i tre figli, non
sapeva decidere a chi lasciare il gioiello. Allora, avendolo promesso a tutti, pensò di voler
accontentare tutti e tre: di nascosto, da un buon orafo, fece fare altri due anelli, tutti somiglianti
al primo ed egli stesso a stento riconosceva quale era quello vero e, sul punto di morte, in segreto,
diede a ciascuno dei figli il suo anello. Dopo la sua morte ciascun figlio, per ottenere l’eredità e gli
onori del padre, mostrò il suo anello. Non si poté riconoscere quale era l’originale, poiché gli anelli
erano del tutto simili. Rimase, pertanto, irrisolta la questione su chi fosse il vero erede del padre;
ed ancora oggi non è stata risolta.
Il Saladino riconobbe che costui aveva saputo uscire abilmente dal tranello che gli aveva teso e,
perciò, gli espose con franchezza le sue necessità, per vedere se poteva aiutarlo, con la stessa
saggezza che aveva dimostrato nella risposta.
Il giudeo, spontaneamente, dette al sovrano tutto il denaro che gli fu chiesto.
Il Saladino ,poi, gli restituì tutto il dovuto, gli fece grandissimi doni, lo considerò sempre suo
amico e lo tenne presso di sè con grandi onori.
NOVELLA V= FIAMMETTA
La novella di Dioneo fece apparire, sul viso delle donne che ascoltavano, un rossore pudico, perché
si vergognavano, ma , guardandosi l’un l’altra, non poterono fare a meno di ridere. Quando
terminò la narrazione, con dolci parole, fecero notare al narratore che simili novelle non si
dovevano raccontare a donne gentili.
La regina, poi, comandò a Fiammetta di continuare: ella, con viso lieto, incominciò dicendo che
avrebbe continuato nel dimostrare che una pronta risposta può avere molta forza. E, come gli
uomini cercano di amare una donna di più alto ceto rispetto a loro, così le donne ritengono di
grande importanza evitare di innamorarsi di un uomo più nobile di loro. Voleva provare come una
gentildonna si fosse difesa da questo pericolo con opere e con parole.
Cominciò a raccontare del Marchese del Monferrato, gonfaloniere di giustizia, che si era recato in
Terrasanta per partecipare alla Crociata, uomo del cui valore si parlava fino alla corte di Filippo il
Guercio, il quale si preparava a partire dalla Francia ed essere presente anche lui alla terza
Crociata per riconquistare la Terrasanta.
Gli fu detto da un cavaliere, che non vi era sotto le stelle una coppia simile a quella del marchese e
della sua sposa, che era la più bella e la più valorosa di tutte le donne del mondo: queste parole
infiammarono tanto l’animo del re di Francia, che egli si innamorò perdutamente della donna,
senza averla mai vista (topos ricorrente).
Decise, allora, di imbarcarsi da Genova con la compagnia di un gruppo di gentiluomini, andando
via terra, in modo da poter passare dal Monferrato per andare a vedere la Marchesa, senza
metterla in difficoltà, data l’assenza del marito; avvicinatosi alle terre del Marchese, un giorno
prima di arrivare, mandò ad avvisare la donna che il giorno seguente avrebbe pranzato a casa sua.
La donna, saggia e prudente, rispose che era un grande onore per lei ricevere il re di Francia, che
era il benvenuto, generalmente, un re non visitava una dama se il marito era assente, tuttavia
ordinò agli uomini di casa di sistemare ogni cosa nel migliore dei modi tranne per il banchetto e le
vivande, alle quali volle pensarci lei.
Senza indugi, fece raccogliere tutte le galline che vi erano nel paese e ordinò ai cuochi che fossero
cucinate in vari modi per il banchetto reale.
Il giorno dopo arrivò il re, che fu ricevuto con grandi onori: egli, non rimanendo per niente deluso,
trovò la donna più bella rispetto a tutte le sue aspettative e se ne invaghì ancora di più. Dopo
essersi riposato in camere arredate con grande raffinatezza, venuta l’ora del desinare, il re e la
marchesa sedettero alla stessa tavola; gli altri, in base ai loro titoli , furono sistemati in altre
mense. Furono portati, in successione, diversi piatti e ottimi vini, ma il re si meravigliò che, anche
se le pietanze erano diverse, erano servite soltanto galline.
Siccome sapeva che nel Monferrato c’era grande varietà di selvaggina, che la marchesa avrebbe
potuto procurarsi per preparare il banchetto, si meravigliò della cosa e le chiese: “ Donna, in
questo paese nascono solo galline, senza nessun gallo?”.
Ed ella, ben comprendendo il senso di quelle parole, rispose coraggiosamente “Mio signore, ma le
femmine , sebbene i loro vestiti e i loro titoli cambino, sono fatte tutte nello stesso modo, sia qui
che altrove”.
Il re, udite queste parole, capì perché gli erano state servite soltanto galline e si rese conto che,
con tale donna, le parole sarebbero state sprecate; terminato il pranzo, rapidamente, senza
svelare le sue cattive intenzioni, la ringraziò per l’onore di essere stato ricevuto nella sua casa ,e,
raccomandatala a Dio, se ne andò da Genova.
vantaggio; Messer Cangrande aveva pensato che ogni cosa che egli donava andasse perduta o,
meglio, gettata nel fuoco, ma di ciò non parlava con nessuno.
Bergamino, dopo alcuni giorni, vedendo che non era chiamato come novellatore, non riceveva
niente e, oltre a ciò, spendendo molto nell’albergo con i suoi cavalli e i suoi servitori, cominciò a
preoccuparsi molto; pure aspettava non ritenendo di far bene a partire senza ordine.
Avendo portato con sé tre belle e ricche vesti (che gli erano state donate da altri signori per
partecipare, vestiti decorosamente , alla festa) per pagare l’oste, gliene diede prima una, poi una
seconda; infine cominciò ad utilizzare la terza, deciso a rimanere finché durava, e partire subito
dopo.
Ora, mentre stava per consumare anche la terza veste, si trovò ,molto triste, davanti a Cangrande,
che mangiava: il grand’uomo, più per prenderlo in giro, crudelmente, che per interesse, gli chiese
perché era così malinconico.
Bergamino, subito, quasi senza pensare, ma per ricavare vantaggi dalla sua situazione, raccontò la
novella di Primasso, uomo di grande cultura e abile verseggiatore, così famoso che tutti ne
avevano sentito parlare per fama, anche se non lo conoscevano di persona. Mentre si trovava a
Parigi(in una condizione un po’ malaticcia) udì parlare dell’abate di Cluny, che era ritenuto il più
ricco prelato che la chiesa di Dio avesse all’infuori del Papa; si dicevano di lui cose straordinarie:
teneva sempre corte e non negava mai a nessuno da mangiare e da bere, bastava solo
chiederglielo. Sentito ciò, Primasso, che amava vedere signori magnifici e generosi, decise di
andare a vederlo e chiese dove abitava; risposagli che si trovava nell’Abazia di Cluny (a circa sei
miglia da Parigi) decise che, partendo al mattino presto, poteva essere sul luogo ad ora di pranzo
ma, temendo di smarrirsi e di non trovare da mangiare, pensò di portare con sé tre pagnotte,
supponendo che l’acqua l’avrebbe potuta trovare in ogni parte.
Il viaggio andò benissimo ed egli giunse all’Abazia proprio all’ora del desinare: entrato nella sala
vide tavole imbandite, una gran cucina e tante altre cose preparate per mangiare e disse tra sé
“Costui è veramente un uomo magnifico, come tutti dicono”.
Mentre si guardava intorno, il siniscalco dell’abate, poiché era ora di pranzare, comandò che si
desse acqua alle mani e che ognuno sedesse al posto assegnatogli.
Per caso, Primasso fu messo a sedere proprio di fronte alla porta della camera da cui il prelato
doveva uscire per andare a mangiare: era usanza in quella corte che non si poteva mangiare
nessuna pietanza ,né bere vino se prima l’abate non si sedeva a tavola.
Il religioso fu avvisato che era tutto pronto per l’inizio del banchetto, se a lui piaceva. L’abate fece
aprire la porta e il primo uomo che vide fu Primasso, che non conosceva e che era assai mal
ridotto. Vedendolo messo così, si lamentò tra sé e sé di averlo come ospite e subito se ne tornò
indietro, fece chiudere la camera e domandò se qualcuno conoscesse quello straccione che sedeva
davanti alla camera. Tutti risposero di no.
Nel frattempo, Primasso, che aveva fame perché aveva camminato molto e non era abituato a
digiunare, vedendo che l’abate non veniva, tirò fuori dal corpetto uno dei tre pani che aveva
portato e cominciò a mangiare; fece poi così per le altre due pagnotte, non vedendolo ancora
giungere a tavola (quando nel frattempo l’abate si stava rifiutando di mangiare davanti e con
Primasso, sperando che finisse il suo cibo e decidesse spontaneamente di andarsene, evitando così
la vergogna nel licenziarlo). Avendo poi saputo che l’uomo aveva terminato il suo cibo, si chiese,
sorpreso improvvisamente da se stesso, cosa mai gli fosse preso, quando fino a quel momento
aveva sempre offerto cibi e bevande a tutti senza giudicare la loro condizione e il loro passato;
riflettendoci poi pensò che se quest’uomo gli aveva appena provocato questa reazione strana,
voleva significare che rappresentava un pezzo grosso: chiese dunque subito chi fosse, e seppe che
era Primasso e che era venuto per conoscerlo, avendo udito della sua fama di uomo munifico e
generoso. L’abate, che aveva ben meritato la sua fama ,si vergognò e, desiderando farsi
perdonare, lo onorò in molti modi.
Dopo averlo fatto mangiare abbondantemente, gli donò ricchi vestiti, danaro e cavalli,
concedendogli di andare e venire ,liberamente, senza il suo permesso. Primasso, contento, lo
ringraziò e ripartì, a cavallo, per ritornare a Parigi”.
Cangrande della Scala, da buon intenditore, senza darne segno, capì perfettamente, quello che
voleva dire il narratore e disse “Bergamino, hai illustrato benissimo i tuoi problemi, il tuo valore, la
mia avarizia e quello che tu da me desideri. E, in verità, prima che nei tuoi confronti, non fui mai
assalito dall’avarizia, ma la scaccerò come mi hai indicato”.
Fece pagare l’oste e donò a Bergamino ricchi vestiti, danari, un cavallo e, per quella volta, gli
consentì di andare e venire come voleva.
NOVELLA X= PAMPINEA
A Pampinea, la regina toccava di raccontare l’ultima novella della giornata.
Con grazia cominciò a parlare dicendo che i motti erano ornamenti gradevoli nei discorsi,
paragonandoli alle le stelle nel firmamento e, in primavera, i fiori nei verdi prati.
Poiché i motti erano brevi, erano più adatti alle donne che agli uomini, anche se, nella loro epoca,
ce ne erano poche che sapessero comprenderli e raccontarli: ormai le donne moderne prestavano
attenzione principalmente agli ornamenti del corpo (più erano decorate nei vestiti più si sentivano
onorate e rispettate, non pensando che si poteva fare lo stesso discorso per gli asini se avessero
portato ricche bardature) e se ne stavano mute e silenziose, risultando sciocche sia in apparenza
sia nel modo in cui si esprimevano (sembrando incapaci di intraprendere discorsi con gente seria).
Pampinea si vergognava a dire ciò (coinvolgendo tutte le donne tra cui se stessa) ma era
importante, comunque, guardare il tempo e il luogo in cui si parlava: talvolta infatti, avveniva che
un uomo o una donna credeva, con una battuta di spirito, di far arrossire l’interlocutore, quando
invece, non avendo ben misurato le sue forze , quel rossore se lo vedeva ritornare indietro con la
risposta dell’altro.
Affinché evitassero che si dimostrasse fondato il proverbio che le donne ,in ogni cosa, prendevano
sempre il peggio , la regina voleva raccontare un’ultima novella.
Non molti anni prima, a Bologna, visse un medico molto famoso, di nome Maestro Alberto de’
Zancari: nonostante fosse già vecchio (aveva quasi settanta anni) si innamorò ,come un giovinetto,
di una bellissima vedova, Madonna Margherita dei Ghisolieri, dopo averla vista ad una festa.
La notte non riusciva più a dormire, se il giorno prima non aveva visto il delicato viso della donna:
per questo, sia a piedi che a cavallo, cominciò ad andare davanti alla casa della donna; ella e le sue
amiche si accorsero del motivo del suo passare e scherzavano nel vedere un uomo così anziano
uscir di senno per amore, credendo che la passione d’amore dimorasse solo nei giovani.
In un giorno di festa, mentre Margherita sedeva con le altre donne davanti alla porta di casa, vide
venire Maestro Alberto e lo invitò, per deriderlo: le donne lo fecero accomodare in un fresco
cortile, gli offrirono finissimi vini e dolciumi e, infine, con delicate parole , gli domandarono come
era possibile che fosse innamorato della donna ,ben sapendo che era amata da molti giovani belli
e gentili. Il Maestro sorrise e rispose che , nonostante avesse una certa età, allo stesso tempo
aveva fatto esperienza di ciò che significava amare e che la volontà di provare questo sentimento
non veniva tolta a nessuno che lo meritava; in più, conosceva i movimenti e gli usi della donna
tanto da conoscerla abbastanza bene ormai.
La donna, mortificata, rispose “Maestro ,ci avete cortesemente rimproverate per il nostro
scherzo, tuttavia, il vostro amore, poiché proviene da un uomo saggio e di valore, mi è caro e
gradito, purchè sia salva la mia onestà”. Il Maestro, alzatosi con i suoi compagni, ridendo
allegramente, ringraziò la donna e se ne andò. Così la dama, non considerando il valore della
persona che voleva schernire, rimase schernita.
Alla fine dell’intero racconto delle novelle, il ruolo di regina passa da Pampinea a Filomena, la
quale decide di impostare i lavori del giorno successivo, senza perdere tempo: similmente a quello
proposto fino ad ora, si attiene al piano di “andar a sollazzare” divertendosi prima che il sole cala,
poi cenare e dormire (facendo ciò fino a che “per troppa continuanza o per altra cagione non
divenissero noiose”). Il giorno dopo avrebbero proseguito nello stesso ordine, finchè, dopo essersi
svegliati dalla dormita, sarebbero ritornati nello stesso posto di questo giorno per riraccontare
novelle. L’unica (e importante) novità che Filomena prende è quella di scegliere un tema, a
differenza di Filomena che non ci è riuscita.
SECONDA GIORNATA
Come accadde nella giornata precedente, il gruppo di giovani dedicarono il tempo a divertirsi,
mangiare e ballare decorandosi di ghirlande di fiori; giunta la “nona ora”, si posero tutti in cerchio
nel prato intorno alla regina, che affidò il compito di iniziare a narrare alla bella Neifile.
Il tema della seconda giornata sarebbe stato: l’avventura.
NOVELLA I= NEIFILE
Spesso a coloro che si prendono gioco degli altri e delle cose rispettabili accade che non solo non
se ne trae vantaggio, ma se ne resta danneggiati.
Tanto tempo fa infatti, nella città di Trivigi (Treviso), viveva un uomo buono e rispettato da tutti
chiamato Arrigo; alla sua morte, si dice che le campane della chiesa maggiore della città suonarono
da sole, come per miracolo. Egli, dunque, fu definito santo e ogni cittadino si recò
precipitosamente alla veglia, conducendo tutti coloro che avevano un’infermità o qualche difetto,
con la speranza che, toccando quel corpo, potessero guarire.
In tale circostanza arrivarono in città tre fiorentini (Stecchi, Marchese e Martellino) i quali, appresa
la notizia dell’evento miracoloso, vollero a tutti i costi visitare “il santo”. Si resero conto però che
non sarebbero mai riusciti ad attraversare la folla (composta da tedeschi in armi e cittadini)
accalcata perennemente in piazza e nella chiesa: Martellino allora decise di fingersi infermo,
facendosi sostenere dai suoi amici. L’idea piacque e il finto storpio e i due compagni ai suoi lati
arrivarono in chiesa, facendo cenno di far passare e dare precedenza a Martellino, il quale (con
sostegno delle persone che lo guardavano con impressione e pena) fu posto sopra il corpo di
Arrigo; e, proprio come tutti speravano, egli incominciò a distendersi piano piano (come sapeva
fare benissimo) e a “guarire”.
Il destino volle però che nella folla ci fosse un conoscente di Martellino che, avendolo riconosciuto
solo quando si era raddrizzato, affermò a gran voce di come quello fosse solamente un buffone
che amava travestirsi e giocare: a queste parole, i Trevisani incominciarono a insospettirsi e poi a
strappargli i vestiti e menarlo. Stecchi e Marchese rimasero da parte per non subire la stessa sorte.
Quest’ultimo allora, nel tentativo di sottrarlo alla folla infuriata, chiamò le guardie e accusando il
suo amico di avergli rubato il denaro: i cittadini, udendo quest’ulteriore accusa, decisero di unirsi a
Marchese in questa accusa, con lo scopo di far pesare maggiormente la condanna al buffone.
Martellino, che non prendeva sul serio la cosa, subì delle torture di gola da parte del giudice che lo
interrogava, al quale l’accusato disse :”Signor mio, costoro mentono spudoratamente, perché io
sono arrivato da poco. Potete controllare chiedendo all’albergatore e all’ufficiale addetto alla
registrazione dei forestieri”. Marchese e Stecchi intanto, che temevano di aver gettato il
compagno dalla padella nel fuoco, trovato l’oste, gli raccontarono il fatto : egli, ridendo, li
condusse da un certo Sandro Angolanti, che abitava a Treviso ed era molto amico del Signore della
città e gli raccontò ogni cosa. Anche Sandro si divertì molto e andò dal Signore ad intercedere per
la salvezza di Martellino, salvezza che ottenne. Quando andarono a prenderlo, lo trovarono in
camicia, smarrito e morto di paura, davanti al giudice, che non voleva sentire ragione , che, per
odio ai fiorentini, voleva impiccarlo a tutti i costi e per nessuna ragione voleva liberarlo. Alla fine, il
giudice, suo malgrado, fu costretto a lasciarlo andare. Quando Martellino fu al cospetto del
Signore raccontò tutto quello che aveva combinato e lo pregò di lasciarlo andare perché, fino a che
non fosse giunto a Firenze, si sarebbe sentito, sempre col cappio alla gola. Dopo moltissime risate
per l’accaduto, il Signore fece donare un abito ad ognuno e tutti e tre se ne tornarono sani e salvi a
Firenze, usciti dal pericolo oltre ogni speranza.
NOVELLA V= FIAMMETTA
Viveva a Perugia un giovane chiamato Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli, il quale, avendo
udito che a Napoli si vendevano degli ottimi cavalli, con nella borsa 500 fiorini d’oro, senza mai
essere uscito di casa, partì con altri mercanti.
Arrivato a destinazione, vide nella piazza del Mercato molti bei cavalli: iniziò dunque a trattare e,
per mostrare di essere in grado di pagare, mostrava in giro la sua borsa piena di denari, in quel
momento passò di lì una giovane siciliana bellissima, di facili costumi , che, senza essere notata,
vide bene la borsa e subito pensò che sarebbe stata meglio nelle sue mani.
Era con lei una vecchia anch’essa siciliana, la quale, come vide Andreuccio, gli corse incontro e lo
abbracciò affettuosamente, la giovane notò tutto ma rimase in silenzio. Andreuccio le fece una
gran festa, la invitò al suo albergo e se ne andò. La ragazza che aveva seguito tutta la scena,
pensando ad un piano per impadronirsi del denaro, si avvicinò alla vecchia e, cautamente,
cominciò a domandare chi fosse e da dove veniva il giovane, che cosa faceva lì e come lo
conosceva. La donna spiegò che era stata a lungo in Sicilia col padre di lui e poi aveva vissuto a
Perugia.
La giovane, dunque, si ingegnò per occupare di faccende la signora (affinché non andasse dal
ragazzo) per poi mandarla all’albergo (insieme a una servetta) dove Andreuccio sostava e dirgli che
lo voleva conoscere e lo aspettava a casa sua. Così avvenne: egli, lusingato, si guardò allo specchio
e, ritenendosi un bel ragazzo, pensò che la donna si era innamorata di lui, come se a Napoli non ci
fossero bei ragazzi; subito accettò l’invito e seguì la servetta, senza dire niente, all’albergo.
Appena arrivati alla casa (nella via malfamata di “Malpertugia”), la fantesca gridò “Ecco
Andreuccio”. La donna era sulla scala ad aspettarlo, era giovane, alta, con un viso bellissimo, con
abiti distinti. Gli corse incontro scendendo le scale, con le braccia aperte, piangendo, gli baciò la
fronte e ,con voce rotta dall’emozione, disse “ Andreuccio mio, tu sii il benvenuto”.
Egli fu molto sorpreso per l’accoglienza. La donna gli prese la mano e lo condusse prima in sala e
poi nella sua camera, piena di fiori, profumata, con un letto di lusso, molti abiti e ricchi arredi, per
cui ,il poverino credette di trovarsi alla presenza di una gran dama.
Postasi a sedere vicino al letto, tra lacrime e carezze, la donna gli raccontò che era sua sorella, ed
era felice di aver ritrovato uno dei suoi fratelli prima di morire: gli parlo delle peripezie del padre
Pietro (aggiungendo anche dettagli che includevano i familiari per rendere la storia più vera
possibile) che a Palermo aveva conosciuto quella che sarebbe diventata su madre, la quale,
insieme alla bambina, sarebbe stata lasciata in città senza più traccia del marito.
Successivamente la ragazza (per volere della madre) venne data in marito a un uomo di Agrigento,
con il quale scappò a Napoli (a causa delle guerre in Sicilia) dove entrambi vennero accolti e
ricompensati da Re Carlo. Il giovane, udendo il racconto tanto preciso e ricordandosi che,
veramente, il padre era stato per un certo tempo a Palermo, conoscendo i costumi dei giovani,
vedendo le lacrime, gli abbracci e gli onesti baci, ritenne ciò che la donna diceva assolutamente
vero. Meravigliato, dichiarò che mai il padre aveva accennato di lei e della madre. Pure era
felicissimo di aver trovato a Napoli dov’era solo e senza compagnia, un sorella così raffinata,
mentre lui era un piccolo mercante. Chiese, comunque, come aveva saputo chi era. Ella rispose
che la mattina glielo aveva detto una donna che aveva vissuto, per molto tempo, con il padre a
Palermo e poi era andata a vivere a Perugia.
Passarono poi le ore successive a chiacchierare e a mangiare finché, al momento del congedo,
astutamente ella sconsigliò al giovane di avventurarsi per le strade di Napoli, che erano malsicure
soprattutto per un forestiero, e lo invitò a dormire nella sua camera.
Rimasto solo, Andreuccio, per il gran caldo , si svestì ,e poggiò i suoi abiti ai piedi del letto,
rimanendo in gilè. Dovendo andare in bagno, chiese ad un fanciullo dove si trovava il gabinetto.
Seguendo le indicazioni, senza alcun sospetto, entrò e pose il piede su una tavola che si capovolse
facendolo cadere di sotto, dove si raccoglievano i liquami delle feci. Era caduto in un buco, come
ce ne sono spesso tra due case, su cui erano poste due travi, dove sedeva la gente che doveva
defecare. Trovandosi, dunque, nel buco, cominciò a chiamare lo scugnizzo che, invece, era andato
ad avvisare la donna.
Cercò più volte e disperatamente di rientrare in casa (bussando violentemente alla porta) ma,
ottenendo come unico risultato le minacce del vicinato infastidito, se ne andò senza meta.
Sentendo un gran puzzo provenire da sé stesso, desideroso di gettarsi in mare per lavarsi, girò a
sinistra e andò per la via Catalana. Per sfuggire a due uomini che venivano verso di lui con una
lanterna, si rifugiò in un casolare. Purtroppo, anche i due entrarono nel casolare. Uno si tolse di
dosso alcuni attrezzi che teneva sulle spalle e si guardò intorno, per individuare da dove proveniva
il gran puzzo che si sentiva. Trovato il poveretto, gli venne chiesto chi fosse e, quello, gli raccontò
tutta la sua disavventura: immediatamente capirono che si trattava di Buttafuoco, lo scarafaggio, e
gli dissero di rallegrarsi perché, se era vero che in quella notte aveva perso i denari, si era
comunque salvato la vita perché non era stato ammazzato da Buttafuoco, che era un furfante
matricolato. Mossi a compassione, lo invitarono ad unirsi a loro per aiutarli in ciò che dovevano
fare: gli spiegarono che in quel giorno era stato seppellito nel Duomo di Napoli l’arcivescovo
Filippo Minutolo, con ricchissimi ornamenti e con al dito un anello che valeva molto più dei suoi
500 fiorini , con un rubino che i due malandrini volevano rubare. Rivelarono il loro piano ad
Andreuccio e lo convinsero a collaborare.
Arrivati lì, decisero di far scendere Andreuccio nel pozzo accanto al Duomo per lavarlo e, con un
segnale, poi l’avrebbero fatto risalire su; mentre ciò accadeva però, due guardie si avvicinarono
per rinfrescarsi e i ladri, intimoriti, fuggirono lasciando il poveretto sotto. Al segnale di risalire, i
gendarmi, pensando che il secchio si fosse riempito, lo tirarono su, dando la possibilità al ragazzo
di uscire dal pozzo: per lo spavento, gli uomini fuggirono e Andreuccio raggiunse i compagni.
A mezzanotte, di soppiatto, andarono al Duomo, entrarono facilmente e si avvicinarono al
sepolcro che era di marmo e molto grande. Sollevarono il coperchio che era pesantissimo, in modo
che vi potesse entrare un uomo, e lo puntellarono. Bisognava che uno di loro entrasse nell’arca e
Andreuccio fu costretto ad entrarvi con le minacce ma, temendo che una volta portati fuori i
gioielli dell’arcivescovo i compagni sarebbero fuggiti lasciandolo nell’arca senza niente,
ricordandosi del prezioso anello, lo sfilò dal dito del religioso e lo infilò al suo; poi spogliò il morto
completamente e dette ai due tutto il resto, dicendo che non c’era più niente.
I ladroni allora (mentre insistevano) tirarono via il puntello facendo chiudere l’arca e lasciando il
ragazzo dentro, il quale, disperato, incominciò a piangere pensando alla morte che lo incombeva
Mentre si lamentava, sentì molte voci di gente che, come pensava, veniva a fare quello che aveva
già fatto con i suoi compagni. Anche costoro, una volta aperta e puntellata la tomba, cominciarono
a discutere su chi dovesse entrare, allora un prete, non temendo i morti, che riteneva inoffensivi,
si offrì volontario, si sporse sul bordo e mise le gambe giù, per potersi calare: Andreuccio dunque
approfittò della situazione per afferrare le gambe dell’uomo che, gridando, corse a gambe levate
insieme ai compagni, lasciando aperta la tomba. Il giovane, dunque, risalì e uscì dalla chiesa per la
via da cui era venuto. All’alba, con al dito l’anello di rubini, giunse, per caso, alla marina e al suo
albergo, dove trovò i suoi compagni e l’albergatore che, tutta la notte, erano stati in ansia per lui,
ai quali raccontò la sua avventura, senza accennare al rubino. L’oste gli consigliò di partire
immediatamente.Giunto a Perugia, vendette l’anello, dicendo che a Napoli, dove era andato a
comprare dei cavalli, aveva investito i suoi denari nell’acquisto di un anello.
NOVELLA X= DIONEO
Un giudice pisano di nome Ricciardo di Chinzica era uomo fisicamente gracile. Piuttosto ricco di
famiglia, volle sposarsi una donna molto giovane e bella di nome Bartolomea Gualandi. La festa
nuziale fu fastosa, ma già dall'inizio questo marito mostrò scarsa propensione a frequentare la
moglie. Il giudice, allora, sentendosi a disagio, cominciò a spiegare alla moglie come certi giorni del
calendario vietassero le intimità coniugali; ad essi aggiungeva i giorni di digiuno, le vigilie di
apostoli e altri santi; i venerdì, i sabati e la domenica, tutta quanta la quaresima e persino i giorni
in cui la luna occupava determinate posizioni. Tutto questo rattristava la sposa, che era anche
attentamente sorvegliata dal marito, il quale temeva che qualche altro uomo le insegnasse un
calendario senza tutte quelle feste. Ora, un giorno estivo di grande calura, il giudice Ricciardo
organizzò una bella gita di pesca; su una barca salirono Ricciardo e i pescatori, mentre sopra
un'altra si sistemarono alcune donne assieme alla giovane Bartolomea. Nell'entusiasmo per la
pesca si allontanarono un po' troppo dalla riva e furono sorpresi dalla nave corsara di Paganino da
Mare che, bloccata la barca dove erano le donne, e, notata la bella Bartolomea, la sequestrò sotto
gli occhi di messer Ricciardo che non poté far nulla per evitare la cattura della moglie. Tornato a
Pisa il giudice si diede molto da fare per avere notizie della moglie scomparsa, ma nulla. Costei, nel
frattempo, era stata portata afflitta e piangente fino a Monaco, sulla Costa Azzurra, che era
appunto la sede dei pirati. Paganino, intanto, cercava di consolarla e tanto bene vi riuscì che la
sera stessa Bartolomea dimenticò il giudice e le sue leggi e cominciò a vivere lietamente con
Paganino il pirata. Dopo qualche tempo messer Ricciardo venne finalmente a sapere dove si
trovava la moglie e, imbarcatosi, raggiunse Monaco nella ferma speranza di poter riavere la
moglie, pagando anche un costosissimo riscatto. Incontratosi con Paganino, messer Ricciardo
venne presto al dunque e Paganino disse che, se veramente la donna che lui aveva sequestrato nel
mare di Pisa era sua moglie, pagando il riscatto da lui deciso, messer Ricciardo, poteva
riprendersela liberamente. Ricciardo accettò, sicuro che la moglie, rivedendolo, gli avrebbe certo
gettato le braccia al collo; invece, giunti in casa di Paganino, Bartolomea guardò il marito facendo
finta di non riconoscerlo. Lo stupefatto Ricciardo, colpito da quell'indifferenza, insistette con la
donna affinché riconoscesse in lui il suo legittimo marito, ma lei rispose che sarebbe stato poco
conveniente guardare troppo un uomo sconosciuto, ma che, per quanto guardasse, non
riconosceva nessun marito. Ricciardo allora pensò che la donna facesse così perché temeva
Paganino che era lì presente e perciò pregò il padrone di casa di farlo parlare con la moglie a
quattrocchi. Paganino acconsentì e i due andarono nella camera della donna dove Ricciardo, con
tono appassionato e affettuoso, insistette perché la moglie lo riconoscesse. Bartolomea
inizialmente rise in seguito gli rivelò di averlo riconosciuto da subito, ma gli rimproverò anche
sfrontatamente il fatto che lui, con la storia delle vigilie, della quaresima e delle altre festività,
l'aveva costantemente ignorata, gli ricordò, inoltre, che, se avesse imposto tante festività a coloro
che lavoravano le sue terre, non avrebbe raccolto neanche un chicco di grano. E gli disse anche
che si era imbattuta in un uomo gagliardo che non conosceva festività di sorta, che era sempre
presente con la sua donna e che lei era ben lieta di vivere così; i digiuni e le festività religiose le
avrebbe rispettate quando fosse stata vecchia. Messer Ricciardo, scandalizzato da tanta
franchezza, provò a insistere ancora, ricordandole i doveri di moglie e le promise che, se fosse
tornata a Pisa con lui, avrebbe trovato un marito del tutto diverso, capace di farla contenta.
Bartolomea rispose che il suo onore era affar suo e si chiese anche come avrebbe potuto mai
cambiare suo marito, visto che era un uomo freddo, indifferente alla sua sposa e che, per quanto
si fosse ingegnato, sarebbe stato sempre un disastro. Lei se ne sarebbe stata col suo Paganino e,
se poi fosse stata abbandonata, a Pisa non sarebbe tornata di sicuro, perché, tanto, qualunque
soluzione sarebbe stata sempre più vantaggiosa di quella di un ritorno al talamo maritale; di
conseguenza lo invitava a ripartirsene per Pisa da dove era venuto. Ricciardo se ne tornò così a
Pisa dove gli venne una specie di fissazione e, quando incontrava qualche conoscente, si
lamentava con lui, che una giovane donna non vuole mai rispettare le solennità religiose; questo
stato d'animo lo fece ammalare di un male che lo portò presto a morte. Paganino, saputa la cosa,
fu così lieto di sposare regolarmente la vedova e i due, finché poterono, non rispettarono mai le
festività religiose.
TERZA
GIORNATA
Neifile, dopo aver svegliato tutti e averli sollecitati a prepararsi, si mise in cammino insieme ai suoi
compagni e compagne, conducendoli in un bellissimo palazzo posto su una piccola altura: lì, un
maggiordomo, aveva disposto su una tavolata (situata sulla terrazza) un grande banchetto di cibi e
bevande deliziose. La brigata era estasiata da tutto ciò, ma niente fu a confronto con lo spettacolo
che avrebbero visto di lì a poco: venne fatto aprire infatti un giardino che costeggiava l’intera
struttura, pieno di bellissimi colori, alberi, fiori e animali. I giovani lo paragonarono al Paradiso.
A mattinata inoltrata, fecero mettere delle tavole intorno alla fontana e, dopo aver cantato e
ballato, andarono a mangiare; poi, poiché faceva caldo, alcuni andarono a riposare e altri
preferirono trattenersi in giardino a leggere o a giocare a scacchi.
Verso le tre del pomeriggio, lavatisi il viso con l’acqua fredda, riunitisi intorno alla fontana,
aspettarono il comando della regina per cominciare a raccontare.
Tema della terza giornata= chi con abilità riesce a ottenere una cosa desiderata o ne recupera
una perduta.
NOVELLA I = FILOSTRATO
Esisteva (e attualmente esiste) un monastero molto famoso per la gran religiosità, all’interno del
quale vi erano solamente 8 donne con la loro badessa e un giardiniere; quest’ultimo, insoddisfatto
del proprio salario, se ne tornò a casa. Questa notizia fu appresa da varie persone tra cui un bel
giovane di nome Masetto che, volendo sapere più dettagli, chiese all’uomo il motivo della sua
decisione, sentendosi come risposta che la causa principale era il comportamento antipatico e
maleducato delle suore. Sapendo ciò e intuendo del bisogno di un nuovo giardiniere nel
monastero, decise di partire e (per evitare che il suo gradevole aspetto potesse non giovare) si
finse muto. Così fu assunto e le monache, solite a prenderlo in giro, scherzavano tra di loro sulla
sua mutezza dicendo cose spregevoli (pensando di non essere capite).
Un giorno però, mentre Masetto lavorava, una di loro confessò ad una sua compagna che quel
giovane la faceva riflettere su quanto aveva sentito dire riguardo il piacere dell’atto sessuale tra
l’uomo e la donna, invogliandola a sperimentare e capire cosa si provasse proprio con l’ortolano.
Così dunque accadde e, non solo per la prima monaca, ma per tutte le altre. Il giovane lasciava
tranquillamente fare finché, una mattina, stanco dall’aver praticato per tutta la notte, decise di
riposarsi all’ombra di un albero: la badessa, passando di lì, lo vide disteso con il vento che gli
muoveva i vestiti e, improvvisamente, venne presa anche lei dal desiderio che fino a quel
momento le sue compagne avevano appagato abbondantemente.
Anche loro due consumarono ma Masetto, stanco e incapace di soddisfare tutte quante, confessò
alla donna che non era muto (il dono della parola gli sarebbe riapparso in quel momento) minacciò
di fare uno scandalo se non lo avessero promosso castaldo: così successe e tutto venne svelato
solo dopo la morte della badessa, quando il giovane era ormai diventato vecchio e ricco.
NOVELLA II = PAMPINEA
Nella città di Pavia governava il re dei Longobardi Agilulf, affiancato dalla moglie Teodolinda
(vedova del re Autari); di quest’ultima se ne innamorò perdutamente il loro palafreniere, il quale,
pur di volersi avvicinare alla donna consapevole di non avere speranze, decise di giocare d’astuzia.
Spiò il re per molte notti e vide che andava dalla regina con un mantello nero e una torcia sempre
alla stessa ora, così una notte si vestì come il re, andò dalla regina un po’ prima del solito ed ebbe
un rapporto con lei. Quando il suo vero compagno tornò, la regina chiese perché fosse ritornato:
lui rispose di non averlo fatto, capendo che c’era stato un tradimento e volendo scoprire a tutti i
costi chi fosse stato. Immaginando che il colpevole aveva ancora il cuore che gli batteva forte
dall’emozione, entrò nel dormitorio e testò a tutti il battito: il palafreniere temeva di essere
beccato e, di conseguenza, di essere punito mortalmente. Quando il re gli si avvicinò e senti i
battiti veloci, gli tagliò una ciocca di capelli così da riconoscerlo l’indomani. Ma l’uomo, giocando
nuovamente d’astuzia, decise di tagliare allo stesso modo i capelli di tutti gli altri servitori, così da
riuscire a scampare e non essere sgamato.
NOVELLA IV = PANFILO
Un uomo chiamato Puccio di Rinieri era molto devoto al Signore e dal momento che non poteva
avere figli volle farsi terziario dell’ordine francescano: andava sempre in chiesa a seguire le messe
e le preghiere. La moglie Isabetta, donna molto bella, era al suo fianco ma non riceveva attenzioni
tali da essere soddisfatta dalla presenza del marito, che parlava solo di Dio e della religione.
Don Puccio un giorno conobbe un monaco di nome Don Felice, con cui, avendo stretto una certa
amicizia, spesso condivideva pranzi e cene invitandolo a casa propria. I due religiosi passavano
tanto tempo insieme, a tal punto che Don Felice, vedendo spesso Isabetta che preparava loro la
cena e li serviva, se ne invaghì. Pian piano egli le se avvicinò e la sedusse, intuendo che la donna si
sarebbe lasciata andare alle sue movenze; dunque escogitò un piano per far si che i due amanti
potessero passare le notti insieme: il monaco disse a Puccio che poteva indicargli una penitenza
(che facevano anche il papa e i prelati) per raggiungere il Paradiso più velocemente e cioè stare in
preghiera tutta la notte in una stessa stanza della casa da dove si vedesse il cielo, sdraiato per terra
e con le mani a guisa di crocifisso. Quest’ultimo scioccamente accettò, dando via libera ai due di
sollazzare tutte le notti, ridendo e scherzando dell’ingenuità di Puccio.
NOVELLA V = ELLISSA
A Pistoia viveva un uomo ricco ma avarissimo chiamato messer Francesco. Dovendo partire per
Milano e essendo lui un cavaliere, si informò su chi potesse essere il miglior rifornitore di cavalli,
avendo bisogno di un bel garzone; fu scelto un giovane (di umile origine ma ricco) di nome
Riccardo, chiamato “Il Zima”. Quest’ultimo venne contattato da messer Francesco per ottenere
l’animale: a questa richiesta il giovane acconsentì, chiedendogli in cambio però la possibilità di
parlare con sua moglie (di cui era follemente innamorato). Il colloquio doveva avvenire alla
presenza del marito, ma separatamente, così che il Zima potesse essere ascoltato solo da lei: il
cavaliere, spinto dall’avarizia, sperando di ingannare il giovane, andò dalla moglie ,le spiegò tutto e
le impose di ascoltare, ma di non rispondere assolutamente alle parole dell’uomo.
La donna gradì poco la cosa, ma acconsentì per compiacere il marito e lo seguì per udire ciò che
costui voleva dirle. Il Zima le si sedette accanto e le confessò tutto il suo amore, dichiarandosi suo
umile servitore e affermando che se non fosse stato ricambiato sarebbe morto e lei sarebbe stata
un’omicida. Lei non poteva dire nulla, ma dal suo sguardo il giovane capì che ricambiava i
sentimenti e allora, per riuscire a comunicare comunque, seguì un nuovo sistema: lui parlò per lei,
dicendo che se avesse voluto incontrarlo, avrebbe dovuto aspettare che il marito fosse partito per
Milano per poi stendere dalla finestra della camera due asciugamani.
Poi Zima riandò dal messere e gli consegnò il cavallo come previsto. La donna, nel frattempo,
rifletté su ciò che il giovane gli aveva detto e pensò che non era il caso di perdere la sua giovinezza
nell’attesa di un marito che era andato a Milano, sarebbe ritornato dopo sei mesi e l’avrebbe
risarcita da vecchia; inoltre, difficilmente avrebbe trovato un amante come Zima, era tutta sola,
nessuno avrebbe saputo nulla, ed ,infine, era meglio fare una cosa e pentirsi ,piuttosto che non
farla e pentirsene lo stesso.
Dopo queste riflessioni, pose due asciugamani alla finestra che affacciava sul giardino, come Zima
aveva detto. Vedendoli, lietissimo, la notte seguente, l’uomo andò alla porta del giardino, la trovò
aperta, entrò in casa dove trovò la gentildonna che lo aspettava e che lo ricevette con grandissima
festa. Abbracciandola e baciandola centomila volte, Zima la seguì per le scale e, senza indugio, si
coricarono e fecero l’amore appassionatamente. E quella fu la prima, ma non l’ultima volta,
perché si incontrarono, con gran piacere reciproco, molte altre volte, sia quando il marito era a
Milano, sia dopo che era tornato.
NOVELLA VI = FIAMMETTA
A Napoli, città antichissima, la più allegra, certamente, di tutta l’Italia, viveva un giovane di nobile
origine , il cui nome era Ricciardo Minutolo. Egli, sebbene avesse una moglie giovane e bella, si
innamorò follemente di un’altra donna, che superava in bellezza tutte le altre donne napoletane:
si chiamava Catella ed era moglie di un gentiluomo di nome Filippello Sighinolfi, da lei molto
amato. Inizialmente era disperato in quanto lei fosse del tutto irraggiungibile ma, in seguito,
conoscendo il profondo tratto di gelosia che contraddistingueva la donna, mise a punto un piano:
quando si ritrovarono a una festa estiva tipica napoletana, Ricciardo fece una battuta scherzosa su
un certo amore di Filippello, il marito di Catella, la quale, rosa dalla gelosia, pregò il giovane di
essere più chiaro. Egli si fece giurare che non avrebbe rivelato nulla né al marito, né ad altri. Poi le
confessò che sapeva che Filippello voleva possedere sua moglie, come lei stessa gli aveva rivelato.
Quella stessa mattina aveva visto la moglie parlare con una femmina, mandata da Filippello, per
fissarle un appuntamento ad un bagno al mare, pregandola vivamente di andare.
Ricciardo invitava, dunque, Catella, se ne aveva voglia, ad andare, verso le tre del pomeriggio,
quando la gente dormiva, a quel bagno, dove sua moglie aveva convenuto di incontrarsi con
Filippello: con il divieto di Ricciardo nei confronti della moglie di andare nel luogo prestabilito, si
sarebbe invece presentata Catella, mettendo in forte imbarazzo Filippello.
NOVELLA IX = NEIFILE
Nel regno di Francia visse un gentiluomo, chiamato Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, poiché
era malato, aveva sempre con sé un medico, di nome Gerardo di Nerbona.; il conte aveva un
figlioletto, Beltramo, bellissimo e simpatico, il quale veniva allevato con altri fanciulli tra cui
Giletta, figlia del medico, la quale fin da piccola provò per lui un grandissimo amore.
Il conte, morendo, affidò al re il figlio: la fanciulla dunque dovette vedere il suo amore allontanarsi
finché, rimasta anche lei sola e udendo la notizia che al Re serviva un medico capace di curare una
fistole, ne approfittò subito per partire e rincontrare Beltramo.
Arrivata lì e presentatasi come infermiera e, soprattutto, figlia del famoso medico Gerardo,
assicurò il re di poterlo guarire in 8 giorni e che, se ci fosse riuscito, lui le avrebbe dovuto
promettere come premio un marito: egli, vedendola bella e giovane, accettò la richiesta.
L’operazione avvenne con successo e Giletta chiese in sposo Beltramo: quest’ultimo riteneva che
lei fosse una ragazza graziosa, ma di rango inferiore; non potendo però rifiutare fli ordini del suo
re, acconsentì al matrimonio e, poco dopo le nozze, partì per Firenze con l’esercito.
La donna, rimasta da sola per un po’ di tempo, chiese sue notizie e i suoi sudditi le raccontarono
che lui avrebbe accolto una nuova moglie (perché ormai lei non la amava più) solo se questa
avesse indossato un anello magico che lui non si toglieva mai e gli avesse donato un figlio.
Giletta dunque arrivò in Toscana, scoprendo l’identità della donna (povera) di cui Beltramo era
innamorato, la convinse a sedurlo per ottenere l’anello e passare una notte insieme: il piano di
Giletta era dunque quello di recuperare l’accessorio attraverso la poveretta e di scambiarsi con lei
nel moneto in cui sarebbe dovuta andarci a letto, riuscendo così a ingravidarsi.
Tutto andò nel verso giusto e il conte, avendo riconosciuto l’audacia di Giletta, la risposò.
NOVELLA X = DIONEO
Nella città di Capsa, in Barberia (odierna Tunisia), viveva un ricchissimo uomo, che aveva tra i suoi
figli una figlioletta bella e gentile di nome Alibech; ella non era cristiana, ma udendo da alcuni
cristiani lodare la fede cristiana e il servire Dio, chiese come si poteva fare: le fu risposto che
bisognava fuggire le cose del mondo, come facevano coloro che se ne andavano in solitudine, nei
deserti dell’Egitto. La giovane che aveva solo quattordici anni ed era molto ingenua, non per un
proposito meditato, ma per un impulso giovanile, di nascosto, una mattina tutta sola, se ne andò
verso il deserto intorno a Tebe.
Giunta faticosamente in un luogo solitario, con grande appetito, vide in lontananza una casetta e vi
si diresse. Trovò sull’uscio un sant’uomo (Rustico) che le chiese che cosa cercava.
La ragazza spiegò che voleva essere al servizio di Dio e cercava chi le insegnasse come si faceva:
l’uomo, vedendola giovane e bella, temendo che il demonio lo tentasse, le diede da mangiare e da
bere e la mandò da un uomo più santo di lui, che sarebbe stato miglior maestro. Le spiegò che il
modo più indicato per servire Dio era rimettere il diavolo nell’inferno e questo voleva dire che
dovevano avere un rapporto. Alibech, da ragazza ingenua e devota al Signore, accettò:
inizialmente ne fu un po’ turbata ma, successivamente, ne incominciò a prendere gusto tanto da
volerne sempre di più. Ma il Diavolo di Rustico non “rispondeva” più a quell’azione e lei dovette
rassegnarsi; finchè, essendo rimasta orfana e piena delle ricchezze ereditate dal padre, giunse un
giovane chiamato Neerbale il quale, avendo sprecato e perso tutti i suoi averi, la trovò e la sposò.
Infine Alibech, interrogata dalle donne su che cosa facesse nel deserto per servire Dio, rispose ,
precisando con parole ed atti, che lo serviva rimettendo il Diavolo in Inferno. Accusava Neerbale di
aver commesso un gran peccato togliendola da quel servizio ma, quando le donne capirono che
tipo di servizio ella faceva, tra grandi risate, la tranquillizzarono dicendo che anche suo marito
sapeva servire bene il Signore Iddio.
QUARTA
GIORNATA
La quarta giornata inizia con un intervento da parte dello stesso Boccaccio, che decide di
rispondere a tutte quelle persone che hanno criticato la presenza esuberante del personaggio
femminile nelle “novellette” (così le chiama l’autore, essendo per lui opere assai umili e non
propense al suscitare scalpore o polemiche), affermando che il piacere e lodare troppo le donne
fosse sbagliato o che, vista l’età dell’uomo, fosse stolto andare ancora appresso a tali smancerie,
quando il suo vero obiettivo sarebbe dovuto essere il fare poesia e guadagnare da ciò. Alcuni dati
suggeriscono che questi “richiami” derivino dal fatto che almeno le prime tre giornate (con le
rispettive novelle) circolassero già prima della stesura definitiva dell’intera opera, e che quindi
queste critiche dovessero essere rivolte alle primissime novelle.
Ma Boccaccio riesce a “zittire” tutte queste dicerie contro di lui con un piccolo racconto sospeso,
in cui narra che un giovane figlio di un uomo fiorentino (chiamato Filippo Balducci, diventato prete
dopo aver perso la moglie) mentre era con il padre a fare delle commissioni e a conoscere dei suoi
amici a Firenze, osservò per la prima volta un gruppo di ragazze e ne rimase affascinato: a questo
punto, rivolgendosi di nuovo al suo pubblico iniziale (le donne) giustifica la sua azione affermando
che “ se la loro bellezza e la loro leggiadria colpì un giovane eremita che non le aveva mai viste,
come ciò non doveva avvenire a me che ,fin da fanciullo, avevo provato la dolcezza degli amori
giovanili”.
Nonostante il suo intento primario non fosse stato quello di comporre un’opera di alto o nobile
livello, sottolinea lo sprezzante e costante bisogno delle persone di commentare e di dover per
forza “ridire” su tutto (solo i poveri non provano invidia): aggiunge inoltre che le stesse Muse del
monte Parnaso a cui lui e tutti gli altri poeti (che anche da vecchi provavano sensazioni d’amore,
come Cavalcanti o Dante) si ispiravano sono effettivamente creature femminili, le quali hanno
contribuito enormemente alla fama degli artisti.
Infine risponde ai suoi “critici” dicendo che, dopo aver ascoltato le loro calunnie (che non hanno
una base o una prova) ora sarà ancora più ispirato e intenzionato a compiacere le donne.
Tema della quarta giornata = storie di amori infelici.
NOVELLA I = FIAMMETTA
Tancredi, principe di Salerno, fu un signore umano e di indole buona, se non si fosse macchiato,
nella vecchiaia, le mani di sangue. Egli ebbe una sola figlia e meglio sarebbe stato se non l’avesse
avuta. Costei fu amata dal padre più di qualsiasi altra figlia. Non volendo allontanarla da sé, fino ad
età avanzata non l’aveva maritata. Alla fine, la diede in sposa ad un figlio del duca di Padova, che,
poco dopo, morì: ella, rimasta vedova, ritornò dal padre e, avendo compreso che egli non aveva
intenzione di risposarla, pensò di procurarsi di nascosto, un valoroso amante. Tra gli uomini della
corte di suo padre vi era un giovane valletto, di nome Guiscardo, di umili origini, ma nobile per
costumi e indole; la donna si innamorò ardentemente ed anche il giovane, essendosene accorto, la
ricambiò appassionatamente, non riuscendo più a pensare ad altro che a lei.
I due si incontravano praticamente sempre nella camera di lei grazie una grotta abbandonata, buia
e scavata nel monte al lato del palazzo nella quale si poteva scendere per una scala segreta, che
era in una delle camere occupate dalla donna, sebbene fosse chiusa da una porta fortissima.
Nessuno se ne ricordava più, perché non era stata usata da moltissimi anni, ma Amore acuì
l’ingegno della donna che riuscì ad aprire l’uscio, dando la possibilità ai due di raggiungersi.
Una sera però il padre decise di aspettare sua figlia nella camera da letto, appoggiato a uno
sgabello seminascosto; gli calò il sonno, che però fu improvvisamente interrotto dal rumore dei
due manati che si divertivano nel letto, non essendosi accordi della presenza dell’uomo nella
penombra. Tancredi avrebbe voluto agire d’istinto, ma pianificò una vendetta più raffinata.
Il giorno seguente catturò il giovane e poi andò dalla figlia per dirle che aveva scoperto la sua
tresca amorosa e che Guiscardo era suo prigioniero. La fanciulla disse che si sarebbe suicidata se il
suo amato fosse morto, perché per tutto quel tempo suo padre si era dimenticata che lei era
anche fatta di carne e che quindi poteva (e ne aveva già avuto esperienza in quanto già sposata)
compiere atti e provare sentimenti amorosi.
Nonostante queste parole forti, Tancredi ordinò di uccidere Guiscardo dopo il colloquio e inviò
alla figlia, in una coppa d’oro, il cuore dell’amante che la fanciulla baciò più volte. La fanciulla
bevendo una pozione velenosa si suicidò e fu sepolta dal padre nel sepolcro di Guiscardo.
NOVELLA II = PAMPINEA
Visse, dunque, ad Imola, in uomo scellerato e corrotto, chiamato Berto della Massa, le cui opere
malvagie erano conosciute da tutti e gli imolesi non gli credevano sia che dicesse la bugia che la
verità. Non potendo più vivere ad Imola, si trasferì a Venezia, che accoglieva tutti gli scarti umani.
Qui, pentito di tutte le cattive azioni commesse, pervaso da grande umiltà, divenuto religioso, si
fece frate minore col nome di Alberto da Imola, facendo penitenza e astinenza e né mangiava
carne, né beveva vino, quando non ne aveva di buono: riuscì dunque a ottenere la fiducia di tutti i
cittadini. Tutto ciò però non durò troppo tempo: un giorno una donna sciocca e scema, di nome
madonna Lisetta, della famiglia dei Quirini, si andò a confessare da lui e gli raccontò tutti i fatti
suoi, da veneziana chiacchierona qual era. Frate Alberto le chiese se aveva un amante ed ella
rispose in malo modo che, se avesse voluto, ne avrebbe trovati troppi di amanti, perché era bella
come una del Paradiso; continuò poi, a dire tante altre cose sulla sua bellezza e il frate, capendo
che era scema e adatta a lui, se ne innamorò. Dopo averla rimproverata per la sua vanità ed averla
confessata, la lasciò andar via con le altre donne ma, tempo qualche giorno, la andò a trovare a
casa dicendole che l’angelo Gabriele era giunto su di lui la notte dandogli tante bastonate perché
lui era innamorato di Lisetta e il frate stesso non poteva permettersi di dire quelle cose; inoltre,
l’angelo voleva passare una notte con l’amata e, per farlo, avrebbe preso le sembianze di Berto.
La donna, stupida e ingenua, fu felice di questa notizia e accettò: il religioso ne fu ancora di più e,
preparatosi con l’aiuto di una complice, passò molte notti con Lisetta.
Un giorno però discorrendo con un’amica e vantandosi sempre della sua bellezza, la donna le
rivelò che c’era un uomo che la considerava celestiale e che questo era proprio San Gabriele:
dicendo ciò, la notizia si diffuse e la famiglia della ragazza si incominciò ad appostare per vedere
chi fosse questo amante. Presto lo seppe anche frate Alberto il quale una sera, andando dalla
donna per rimproverarla, trovò tutti i parenti appostati ed egli, nudo si gettò dalla finestra che
dava sul Canal Grande; nuotò e si rifugiò nella casa di un signore il quale, avendo capito che
l’uomo era il misterioso angelo, prima si fece pagare per non consegnarlo ai cognati e poi,
facendolo travestire, lo portò ad una festa in piazza dove il signore lo smascherò e rivelò l’identità
del frate, che fu imprigionato.
NOVELLA III = LAURETTA
La novella parla di tre sorelle di nome Ninetta, Magdalena e Bertella. Ninetta si innamorò di un
giovane di umili origini; Magdalena e Bertella si innamorarono di due giovani di nome Folco e
Ughetto che a causa della morte dei genitori erano molto ricchi. Restagnone, dopo aver stretto
amicizia con Folco e Ughetto, chiese loro di prestargli qualche soldo e propose loro di partire
insieme alle tre sorelle. Le tre coppie partirono verso Creta ove costruirono numerosi palazzi
signorili. Restagnone non amava più Ninetta come prima e si innamorò di una giovane fanciulla di
corte: Ninetta accortasi di ciò, accecata dalla gelosia avvelenò il suo compagno che morì. La
giovane confessò il delitto al duca di Creta al quale si concesse Magdalena per far scampare la
sorella dalla morte. Allora durante la notte quando Folco e Ughetto uscirono il duca rimandò a
casa Ninetta e passò la notte con Magdalena. Folco, la mattina seguente , non si spiegava come
Ninetta potesse essere in casa e allora iniziò a sospettare della relazione tra Magdalena e il duca.
Quindi Folco la uccise scappò con Ninetta. Le guardie incolparono dell’omicidio Ughetto e Bertella
che le corruppero e scapparono a Rodi ove vissero in miseria.
NOVELLA IV = ELISSA
Questa novella parla dell’amore tra Gerbino e la figlia del re di Tunisi. Guglielmo II, re di Sicilia,
ebbe due figli: Ruggero e Costanza. Ruggero ebbe un figlio di nome Gerbino, che cresciuto dal
nonno divenne molto bello e famoso per la sua cortesia e bravura. Questa fama giunse presso la
figlia del re di Tunisi che si innamorò di lui. Anche Gerbino si innamorò della fanciulla che era
molto bella ma il re di Tunisi aveva promesso in sposa sua figlia al figlio del re di Granata, perciò,
Gerbino non poteva sposare la fanciulla. Guglielmo, senza sapere dell’amore di suo nipote promise
fedeltà e sicurezza al re di Tunisi e gli inviò un guanto segno di impegno assoluto. La nave su cui
viaggiava la fanciulla per andare a Granata venne raggiunta e assaltata dalle due navi di Gerbino,
ma la fanciulla fu uccisa e gettata in mare dai marinai della sua stessa nave. Ciò provocò l’ira di
Gerbino che, salito sulla nave avversaria uccise molti uomini. Il re di Tunisi venuto a conoscenza
dell’episodio, fece decapitare Gerbino in presenza di suo nonno Guglielmo come simbolo della
fedeltà che egli gli aveva promesso.
NOVELLA V = FILOMENA
Nella città di Messina vi abitavano tre fratelli, ricchi mercanti, con la sorella minore Elisabetta,
fanciulla molto bella che loro non avevano ancora maritato. Questa si innamorò di un giovane di
nome Lorenzo che lavorava presso il fondaco dei tre fratelli. Anche Lorenzo si innamorò di
Elisabetta e i due incominciarono frequentarsi segretamente. Il fratello maggiore accortosi della
relazione ne parlò agli altri due fratelli e tutti e tre, dopo aver portato Lorenzo in luogo solitario lo
uccisero e lo seppellirono. Una notte comparve in sogno a Elisabetta Lorenzo che le diceva di
essere stato ucciso dai suoi fratelli e le rivelò dove era seppellito. La fanciulla vi si recò, scavò e
taglio la testa dal corpo che dopo averla fasciata mise in un vaso e ricoprì di terra e vi piantò delle
piante. Spesso la fanciulla riversava lacrime sul vaso e i fratelli avvertiti dai vicini, le tolsero il vaso
e scoperta la testa la sotterrarono. Dopo i tre fratelli partirono per Napoli affinché non si sapesse
la storia e la sorella continuando a versare amare lacrime morì.
NOVELLA VI = PANFILO
Messer Negro da Pontecarraro aveva una figlia di nome Andreuola, giovane e molto bella, la quale
era innamorata di Gabriotto, un uomo di bassa condizione. I due, scoprendosi innamorati, si
sposarono segretamente. Una notte, Andreuola sognò la morte di Gabriotto. Così il giorno dopo,
lei cercò di convincerlo a rinunciare al loro incontro segreto, ma lui non l’ascoltò. Una volta
insieme, Andreuola gli disse del sogno, ma lui la confortò, dicendole che non doveva porre fede
nei sogni e raccontò il suo anche lui, spiegandole che se avesse dovuto credere ai sogni quella
notte non avrebbero proprio dovuto incontrarsi. Andreuola, spaventata, lo abbracciò e lo baciò e
lui improvvisamente morì tra le sue braccia. Disperata e piangendo, la ragazza chiamò la sua fante,
che le consigliò di portare il corpo davanti alla porta della casa di Gabriotto, per consegnarlo ai
parenti. E così fecero. Ma mentre camminavano, incontrarono il podestà per strada, che trovatele
con un morto, le portò davanti alla signoria. Qui, esaminato il corpo, si pensò che la ragazza lo
avesse affogato e fu ritenuta colpevole, ma il podestà le disse che l‘avrebbe lasciata andare, se
avesse acconsentito di diventare sua moglie, e lei rifiutò. Messer Negro, saputa la cosa, corse a
liberare la figlia. Tornati a casa, messer Negro ordinò che fossero preparati i funerali per Gabriotto.
Passati alcuni giorni, il podestà continuò ad insistere sulla proposta fatta alla figlia, ma lei, insieme
alla sua fante, decise di farsi monaca.
NOVELLA IX = FILOSTRATO
Messer Guiglielmo Rossiglione e messer Guiglielmo Guardastagno erano due nobili cavalieri di
Provenza. A entrambi piacevano le armi e amavano molto sfidarsi in gare o tornei. Nonostante
abitassero molto distanti l’uno dall’altro, Guardastagno si innamorò della moglie di Rossiglione e
dopo diversi incontri fece in modo che questa se ne accorgesse. Lei, conoscendolo, cominciò ad
innamorarsene, e quando il marito se ne accorse, pensò ad una maniera per vendicarsi e uccidere
il rivale. L’occasione si presentò con un torneo in Francia. Rossiglione invitò Guardastagno ad
andarci insieme. Mentre Guardastagno si stava avvicinando al castello, disarmato ma
accompagnato da due servitori, l’altro cavaliere sbucò all’improvviso da un cespuglio, lo uccise e
gli strappò il cuore. La sera, lo dette al cuoco affinché lo cucinasse e una volta pronto la moglie lo
mangiò di gran gusto. A quel punto il marito confessò alla moglie che quello che aveva appena
mangiato era il cuore del suo amato Guardastagno. La donna, in preda al disgusto e alla
disperazione, si gettò dalla finestra e morì. Il giorno dopo la cosa si seppe per tutto il paese e i due
furono seppelliti insieme nel castello di Rossiglione
NOVELLA X = DIONEO
Un chirurgo, Mazzeo della Montagna, che viveva a Salerno, aveva finalmente deciso di sposarsi. Si
sposò con una affascinante ragazza. Essa però sentendosi trascurata dal marito, ebbe molti amanti
finchè si innamorò di uno di loro, Ruggeri d’Aieroli, uomo mal visto in città. Un giorno fu affidato al
medico un paziente al quale doveva essere operata la gamba e avendo deciso di operarlo la sera,
preparò l’acqua con una soluzione che lo addormentasse e la posò nella sua stanza. Poi partì per
Amalfi. La donna, approfittando dell’assenza del marito, invitò Ruggeri a passare la notte con lei.
Quella sera, la donna ebbe ospiti e così rinchiuse il suo amante nella sua stanza. Essendo assetato,
l’uomo bevve l’acqua lasciata la sera prima dal marito, e cadde in un sonno talmente profondo che
quando la donna rientrò, pensò che quello fosse morto e chiamando la sua fante, insieme decisero
di portarlo in un arca di un legnaiuolo là vicino. Quando Ruggeri si svegliò, muovendosi
rumorosamente fu scambiato per un ladro e portato dal rettore, dove decisero di impiccarlo.
Finalmente il medico rientrò dal suo viaggio ma corse subito dalla moglie a lamentarsi che l’acqua
per far addormentare il suo pazienta non c’era più…la donna capì tutto.Inoltre la fante le disse che
aveva saputo che avrebbero impiccato Ruggeri. Così la donna mandò la fante a visitare il
prigioniero, e arrivata là, fu dimostrata allo stradicò (giudice criminale napoletano) l’innocenza di
Ruggeri. L’uomo così fu liberato.
QUINTA GIORNATA
Quando il sole con la sua luce aveva portato il nuovo giorno, Fiametta, svegliata dai canti degli
uccelli, si alzò e fece svegliare le altre donne e i tre giovani. Ciò che venne fatto nei giorni
precedenti, venne fatto anche in questa giornata. La brigata, dopo essersi svegliata, passò il tempo
a divertirsi in giardino. Giunta l’ora di pranzo, si riunirono per pranzare. Dopo aver pranzato,
qualcuno andò nella propria camera per riposare un po’, altri preferirono restare nel giardino.
All’ora nona, giunti su un prato, si riunirono per iniziare a raccontare nuove novelle, e Fiammetta,
regina della giornata, ordinò a Panfilo di incominciare.
Tema della quinta giornata: la felicità raggiunta dagli amanti dopo avventure straordinarie.
NOVELLA I = PANFILO
Cimone, figlio molto bello ma putroppo rozzo di Aristippo, ama Efigenia, promessa sposa a
Pasimunda, giovane ricco di Rodi, e per lei diventa un uomo nuovo, ben vestito, abile lavoratore
nonché filosofo. Così la rapisce ma naufraga a Rodi a causa di una terribile tempesta e
immediatamente viene imprigionato da Lisimaco, somma magistratura di Rodi, e condannato
assieme ai suoi compagni alla prigione perpetua. Anche Lisimaco è però follemente innamorato di
una donna, la sorella di Efigenia, Cassandrea, promessa sposa a Ormisda; ed è proprio per questo
motivo che decide di accordarsi con il prigioniero. Il piano è molto semplice: rapiscono insieme le
due amate poco prima del loro matrimonio e fuggono a Creti, dove sono al sicuro grazie ad alcuni
amici. La situazione dopo un periodo di tempo non precisato torna normale e così entrambe le
coppie possono tornare ai loro paesi originari, Cimone e Efigenia a Cipri, mentre Lisimaco e
Cassandrea a
NOVELLA II = EMILIA
Nell’isola di Lipari Martuccio Comito, giovane povero, s’innamora di Gostanza, donna molto bella e
ricca. Lui, non potendola sposare a causa di un secco rifiuto da parte del padre di lei, si fa corsaro.
Dopo un po’ di tempo, Martuccio viene rapito assieme ai suoi uomini dai Saraceni e viene
imprigionato in Barberia. Lei, per farla finita dato che a Lipari era giunta la notizia della morte del
suo amato, si butta in mare su un barca e si lascia trasportare dal vento; anch’essa però giunge in
Barberia, precisamente a Susa, dove comincia a lavorare la lana in casa di un’anziana ma molto
caritatevole signora, che la ricondurrà assieme a Carapresa, donna che aiutava i pescatori cristiani,
dal suo innamorato. Martuccio, intanto, con uno stratagemma fa vincere la guerra al re di Tunisi,
Meriabdela, il quale per riconoscenza lo libera e lo ricopre di ricchezze. Libero e ricco il giovane
tornerà in Italia con Gostanza, dove si sposeranno e vivranno felicemente.
NOVELLA IV = FILOSTRATO
Lizio da Valbona ebbe una sola figlia, Caterina, che ben presto ricambiò l’amore di un certo
Ricciardo Manardi, frequentatore della casa del padre; l’unico problema era il luogo dove potersi
incontrare e la soluzione venne in mente al giovane innamorato…. I due si videro per la prima volta
sul balcone della casa di lei e, dopo molti baci, passarono la notte assieme. Sfortunatamente però
si addormentarono nudi e, quando si fece giorno, Lizio li scoprì; questo, uomo molto costumato,
non fece alcuna scenata, anzi acconsentì il loro amore purché si fossero sposati. E così avvenne.
NOVELLA V = NEIFILE
Nella città di Fano l’ormai attempato Guidotto da Cremona, sul punto di morire, affida la giovane
Agnesa al suo coetaneo Giacomin da Pavia, affinché la crescesse e la educasse ; ben presto questa
divenne la più bella della città così che due concittadini, Giannole e Manghino, se ne
innamorarono. Giannole decise di introdursi, grazie al fante Crivello, nella casa della fanciulla per
rapirla ma, due informatori, riferirono la cosa a Minghino che, grazie ad un servitore, si introdusse
anch’egli nella casa di Agnesa. Non riuscendo i due innamorati a porre fine alla discussione, la lite
sfociò in una rissa. La fanciulla fu messa in salvo in casa mentre i contendenti furono arrestati.
Crivello e Giacomino decisero di maritare la fanciulla con Giannole; quando i parenti dei due sposi
chiesero a Giacomino cosa voleva per ricompensa, egli spiegò tutta la storia e si venne a
conoscenza del fatto che la fanciulla era figlia di Barnabuccio e quindi sorella di Giannole. Tutti
fecero pace e la fanciulla si sposò con Minghino.
NOVELLA VI = PAMPINEA
Nell’Isola di Ischia viveva marin Bulgaro con la sua bellissima figlia Restituta. Gianni, abitante di
procida si innamorò perdutamente della bella Restituta e andava tutti i giorni a Ischia persino a
nuoto pur di vederla. Un giorno però ella venne rapita da un gruppo di ragazzi che la portarono al
re Federigo d’Aragona che la chiuse nel palazzo arabo-normanno che ha nome Cuba. Sulle tracce
della donna amata, Gianni arrivò a Palermo e intravide Restituta dietro una finestra del palazzo.
Durante la notte Federigo scoprì i due amanti addormentati e ordinò che fossero legati ed esposti
nudi sulla pubblica piazza, prima di essere arsi vivi. Grazie alla testimonianza dell’ammiraglio
Ruggeri di Lauria, i due giovani furono perdonati, perché identificati come il nipote di Gian di
Procida, un partigiano degli Aragonesi e uno dei capi della rivolta dei Vespri (1282), e come la figlia
del famoso Marin Bòlgaro.
NOVELLA VII = LAURETTA
Teodoro, battezzato come Pietro da messer Amerigo che l’aveva comprato dai pirati mentre era
ancora fanciullo, una volta cresciuto si innamora di Violante figlia dello stesso messer Amerigo e in
una occasione la mette incinta. Saputo l’accaduto, Pietro viene condannato a morte finchè non si
presenta nella storia il suo vero padre, ambasciatore dell’Armenia che lo riconosce e risolve la
situazione parlando con messer Amerigo. Infine Violante e Pietro si sposano e vivono felici con un
figlio.
NOVELLA IX = FIAMMETTA
Federico degli Alberighi, un ricchissimo nobile di Firenze si innamorò di monna Giovanna, una delle
donne più belle della Toscana. Per sedurla organizzò feste in suo onore e le fece doni fino a
sperperare tutti i suoi averi e senza suscitare in lei nessuna attrazione. Si ridusse così a possedere
solo un piccolo podere ed un falcone, uno dei migliori del mondo che gli permettevano di
sopravvivere. Avvenne però che il marito di monna Giovanna morì e questa andò a trascorrere
l'estate con il figlio in una tenuta vicino a quella di Federico. Questo e il ragazzo fecero presto la
conoscenza, grazie al grande interesse del giovane per il falcone. Il figlio di Giovanna si ammalò e
quando gli chiese cosa lui desiderasse, quello rispose che se avesse avuto l'uccello di Federico
sarebbe sicuramente guarito. Il giorno dopo la madre si recò da Federico con una altra donna, non
senza vergogna di andare a chiedere a lui che a causa sua si era ridotto in miseria una cosa così
preziosa. L'accoglienza fu calda, le donne dissero che si sarebbero fermate per la colazione, ma
l'uomo non trovando niente da cucinare tirò il collo al falcone e lo servì a tavola. Il pasto trascorre
piacevolmente, fino a quando monna Giovanna, raccolto il coraggio, chiede il falcone per il figlio
moribondo. Federico scoppia a piangere davanti a lei e le spiega che glielo avrebbe donato
volentieri se non lo avesse usato come vivanda per la colazione uccidendolo proprio perché non
aveva niente altro di adatto ad una donna come lei. Giovanna torna a casa commossa per il gesto
dell'uomo ma sconsolata e nel giro di pochi giorni il suo unico figlio muore, forse per la malattia,
forse per il mancato desiderio dell'uccello. Essendo però ancora giovane viene spinta dai fratelli a
rimaritarsi per dare un erede ai beni acquisiti dal defunto marito. La donna non vorrebbe altre
bozze, ma essendo obbligata sceglie come sposo Federico per la sua generosità, facendolo
finalmente ricco, felice e più accorto nelle questioni finanziarie.
NOVELLA X = DIONEO
Pietro di Vinciolo è omosessuale, ma per nasconderlo, si sposa. Sua moglie non è soddisfatta della
loro vita matrimoniale, ma capisce che l'unico modo per ricevere soddisfazioni è tradire il
marito.La moglie chiede consiglio ad una donna ritenuta santa che le dà ragione e che la aiuta a
trovarsi gli amanti.Una sera Pietro va a cena da un suo amico, Ercolano, e la moglie fa venire a casa
sua uno degli amanti, ma, quando stanno per cominciare la cena, Pietro torna a casa e la donna
nasconde l'amante nella stalla. Pietro racconta alla moglie di essere tornato così presto perché,
prima di mettersi a tavola, Ercolano ha trovato l'amante della moglie nascosto in un ripostiglio e la
cena è andata a monte.La moglie di Pietro biasima il comportamento della moglie di Ercolano, ma
proprio in quel momento un asino calpesta le dita del suo amante che lancia un grido di dolore.
Pietro va nella stalla e trova l'amante della moglie che era un garzone che piaceva anche a lui e alla
richiesta di spiegazioni del marito, la donna dice chiaramente i motivi del suo comportamento e lui
non trova nulla da obiettare perché sa che la moglie ha pienamente ragione. Pietro decide di non
interferire più nella “vita sentimentale” della moglie, fa servire la cena per il garzone, la moglie e
lui e poi i tre passano la notte insieme.