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DECAMERON

La prima giornata si apre con la premessa storico-temporale di Boccaccio che, spiegando alle
donne (il suo pubblico principale) la necessità di dover iniziare in questo modo affinché il racconto
si comprenda meglio e non per provocare loro il dolore del ricordo, illustra nei particolari la
disgrazia che ha colpito Firenze nell’aprile del 1348. La peste arriva dall’Asia ma, a differenza
dell’Oriente in cui si manifesta con l’emorragia nasale, in Italia appare più brutale, con delle
gonfiature chiamate “gavoccioli” che spuntano nell’inguine o sotto le ascelle dalle quali non si
riesce a trovare salvezza (neanche i medici più “specializzati” trovano una cura).
Davanti a questa drammatica situazione i civili (non contagiati) si comportavano in due diversi
modi: chi si riuniva e chiudeva in casa assumendo un comportamento parsimonioso e attento,
riguardandosi dai pericoli esterni, e chi invece usciva fuori lasciandosi andare, girovagando da una
taverna all’altra e abbandonandosi alla lussuria per “godersi l’attimo”; fra questi due estremi c’era
però chi adottava una via di mezzo (senza esagerare nelle sue azioni) e chi anche decideva
direttamente di scappare dalla città, abbandonando tutto e tutti per salvarsi (atto iniquo di
egoismo che può essere punito da Dio). Nonostante ciò, indipendentemente dalla scelta di vita che
le persone adottavano, la morte non risparmia nessuno; ormai, dunque, si arriva allo
sgretolamento totale dei rapporti umani, in cui la sensazione di ribrezzo porta ad abbandonare
amici e familiari, il servire l’un l’altro è solo motivo di avidità e il sentimento di pudore svanisce
travolto dall’istinto di conservazione.

La stessa usanza funeraria viene meno: rispetto a prima in cui i morti venivano visitati alla veglia e
accompagnati fino alla chiesa da amici, parenti e anche solo conoscenti, adesso l’uomo muore
senza nessuno vicino che se ne cura o che se ne ricorda, trasportato nella bara dai becchini e
lasciato nella prima sepoltura vuota; fine ancora peggiore la fa la “Minuta gente”, ovvero i poveri,
morti per strada e ammucchiati in più in una sola bara ai quali si concede un rito freddo e
squallido. Tutto e tutti ormai sono dominati dal completo abbandono e desolazione.

Tranne per il convento di Santa Maria Novella, dove 7 ragazze giovani discutono sulle difficoltà del
loro tempo: la più grande è Pampinea, la quale si sfoga illustrando gli orrori che incombono nella
città, ormai deserta e appestata, e cerca di indurre le sue compagne a differenziarsi dalla massa
che ormai perde ogni controllo e dignità per abbandonarsi a sé stessi, convincendole a scappare in
campagna e scegliere la via della moderazione. Mosse da questo incoraggiamento e dal voler
trascorrere una vita migliore nel tranquillo e piacevole ambiente campagnolo, le ragazze fanno per
alzarsi e incamminarsi, quando Filomena espone il “problema” dell’assenza di guide forti che
possano reggere e condurre il gruppo in questo viaggio: gli uomini.
Ellissa non fa in tempo a dire che è praticamente impossibile trovare o cercare degli uomini( in
quanto sono quasi tutti morti), quando le porte della chiesa si aprono ed entrano Panfilo,
Filostrato e Dioneo. Dopo un attimo di confusione e riflessione, le ragazze decidono univocamente
di presentarsi e di proporgli il loro piano: i ragazzi acconsentono e decidono tutti insieme di partire
l’indomani mattina; si ritroveranno su un prato in mezzo alla natura dove verrà eletta Pampinea
come regina che creerà le articolazioni del gruppo proprio come se si trattasse di una struttura.
NOVELLA I = TEMA LIBERO DELLE
NOVELLE (PANFILO)
(Notevole coerenza tematica delle novelle attorno alla corruzione dei potenti e alla condanna,
non moralistica ma come presa in giro, dei vizi degli strati più elevati della società)
Panfilo iniziò il suo racconto dicendo che si sapeva bene che tutte le cose terrene erano transitorie
e mortali e arrecavano fatica, angoscia e pericoli, dai quali non ci si poteva riparare senza l’aiuto di
Dio. L’aiuto veniva dato da Dio, non per merito degli uomini, ma per sua benevolenza, ottenuta
grazie alle preghiere e all’intercessione di coloro che erano morti ed erano diventati beati,
seguendo nella vita terrena i suoi comandamenti. A costoro gli uomini rivolgevano le loro
preghiere, non avendo il coraggio di rivolgersi direttamente a Dio. Avveniva, talvolta, che,
ingannati dall’opinione popolare, ci si rivolgesse a qualcuno che era stato scacciato da Dio in
eterno esilio. Nonostante ciò, il Signore aiutava lo stesso colui che pregava, guardando più alla
purezza di chi pregasse, che a quella di colui che intercedeva.
Il che si poteva vedere chiaramente nella novella che egli si accingeva a raccontare.
Si raccontava che il ricchissimo mercante e usuraio Musciatto Franzesi, divenuto in Francia
cavaliere, grazie a traffici poco chiari con la corte del re di Francia Filippo il Bello, fu chiamato da
papa Bonifacio VIII, per il conferimento di una onorificenza. Egli doveva venire in Toscana con
Carlo Senzaterra, fratello di Filippo il Bello, per questo affidò a diverse persone la liquidazione dei
suoi affari in Francia; gli rimase solo il dubbio su chi scegliere per la riscossione dei suoi crediti in
Borgogna. Essendo i borgognoni uomini litigiosi e sleali, non riusciva a trovare un uomo tanto
malvagio che potesse opporre alla loro malvagità; dopo lungo pensare, gli venne in mente ser
Cepparello da Prato ,che spesso si rifugiava nella sua casa di Parigi (dove dai francesi veniva
chiamato “Ciappelletto”, in quanto di piccola statura e molto ricercato e manieroso).
Ciappelletto viveva così. Era notaio e provava grandissima vergogna se non faceva atti notarili
falsi, facendosi pagare moltissimo. Diceva, con grande piacere, testimonianze false, richiesto e
non richiesto, e, dandosi grande fiducia in quei tempi, ai giuramenti, egli vinceva moltissime cause,
giurando spudoratamente il falso.Provava straordinario piacere a provocare inimicizie e scandali
tra amici e parenti e qualunque altra persona, provandone maggiore allegria, quanto più grande
era il danno. Invitato a partecipare ad un omicidio o ad un altro misfatto, volentieri correva e, a
volte, ferì o uccise con le proprie mani. Bestemmiava molto Dio e i Santi e si adirava per ogni
piccola cosa. Non andava in chiesa e riteneva cosa vile i Sacramenti, deridendoli con parole volgari;
al contrario, frequentava le taverne e i luoghi malfamati. Amava le donne come i cani amano i
bastoni. Avrebbe imbrogliato e rubato con una coscienza che avrebbe offeso ogni uomo timorato
di Dio.Era golosissimo e gran bevitore, baro, giocatore di dadi truccati; senza dire altro, era il
peggior uomo che fosse mai nato.
Messer Musciatto Franzesi, che conosceva bene la vita di ser Ciappelletto/Ciapparello, pensò che
fosse l’uomo giusto per la malvagità dei borgognoni. Perciò, fattolo chiamare, gli conferì l’incarico
di riscuotere i crediti dai borgognoni con la promessa di premiarlo alla fine del lavoro con il favore
della corte e una parte di denaro dal totale che avrebbe riscosso. Ser Ciappelletto che era, al
momento disoccupato e in cattive acque, subito accettò. Ricevuta la procura e le lettere favorevoli
del re, si recò in Borgogna, dove nessuno lo conosceva, dopo la partenza di Musciatto. Lì si
comportò benignamente e con mansuetudine, senza adirarsi nello svolgere il suo compito.
Mentre faceva queste cose ed era ospitato, per rispetto a messer Musciatto, in casa di due fratelli
fiorentini che prestavano denaro ad usura, si ammalò.
I due fratelli subito chiamarono un medico e lo assistettero come meglio potevano. Ma ogni aiuto
era inutile, perché l’esattore era già vecchio ed aveva vissuto disordinatamente; i medici dicevano
che peggiorava di giorno in giorno perché aveva il male della morte. I due fratelli se ne
addoloravano molto e ,un giorno, vicino alla camera in cui ser Ciappelletto giaceva infermo,
cominciarono a discutere tra loro indecisi e disperati sul da farsi: da una parte non potevano
cacciarlo fuori di casa, dall’altra il suo comportamento gli avrebbe impedito in ogni modo di
essere accolto e santificato dalla Chiesa e dall’altra ancora c’era il rischio della rivolta del popolo
di Borgogna nei loro confronti; in ogni caso, la morte di Ciappelletto avrebbe causato un problema.
Ser Ciappelletto, che giaceva nella stanza accanto, udì quello che dicevano, avendo l’udito fine, per
cui li fece chiamare e disse loro di non preoccuparsi di lui e delle conseguenze della sua salute: li
pregò infatti di chiamare un frate santo, affinché egli potesse risolvere tutto.
I due fratelli, senza troppo fiducia, andarono in convento e chiesero di un frate che udisse la
confessione di un lombardo, che era infermo a casa loro. Fu mandato un frate molto venerabile,
esperto nelle Sacre Scritture, che tutti i cittadini stimavano.
Il frate, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giaceva, si pose a sedere al lato e gli domandò
da quanto tempo non si confessava: a questa domanda l’infermo rispose (come a tutte le altre
che il frate gli avrebbe posto di lì a poco) mentendo spudoratamente, dicendo che era sua
abitudine confessarsi una o più volte a settimana prima che sia ammalasse.
Il sant’uomo allora iniziò la confessione, e cominciò col chiedere se avesse mai peccato di lussuria
con alcuna donna. Il malato, sospirando ,rispose che era vergine ,come uscì dal corpo della madre,
ricevendo la lode del frate poiché aveva evitato il peccato di lussuria, rispetto a molti altri religiosi;
alla domanda se avesse peccato di gola, Ciappelletto rispose che per punirsi, oltre ai digiuni della
quaresima, ogni settimana, almeno per tre giorni, aveva l’abitudine di digiunare a pane ed acqua e
provava grande soddisfazione soprattutto nel bere ,come facevano i grandi bevitori di vino dopo la
fatica di un lungo pellegrinaggio.
Il frate (sempre più contento) chiese allora se avesse peccato di avarizia, sentendosi dire da ser
Ciappelletto che lui con i fratelli usurai non c’entrava nulla e il denaro ereditato dalla sua ricca
famiglia l’aveva sempre diviso a metà con i poveri.
Il sant’uomo chiese, ancora, al malato se si era, talvolta ,adirato: e l’uomo rispose che sì ,si adirava
spesso quando vedeva i giovani inseguire le vanità e bestemmiare e andare per taverne, non
frequentare le chiese e non seguire la via del Signore. Il sant’uomo rispose che quella era un’ira
giusta, ma era sbagliata se lo aveva portato all’omicidio e alla violenza. Il vecchio negò con
convinzione.
Il frate gli chiese molte altre cose (davanti alle quali il Ser si presentò come vittima anche per i
peccati più piccoli e semplici, tipo bestemmiare Dio) e credendo ad ogni risposta, gli dette
l’assoluzione e lo benedisse; riuscì anche a convincere il suo superiore di dedicare a Ciappelletto
una sepoltura degna e devota, alla quale molte persone avrebbero poi assistito.
Così visse e morì Ser Ciappelletto da Prato e divenne santo, come avete udito.
Panfilo concluse la narrazione dicendo “ Non voglio negare che Dio, nella sua infinita misericordia,
abbia potuto riceverlo nel suo regno, ma ritengo che egli dovrebbe essere dannato nelle mani del
diavolo, piuttosto che in Paradiso. Ma il Signore, conoscendo la buona fede degli uomini, spero che
abbia esaudito le preghiere dei borgognoni a lui rivolte, attraverso quell’uomo falso e bugiardo.
Anche noi, che siamo sani e salvi in questa lieta compagnia, ci raccomanderemo a Dio, sicuri di
essere ascoltati “.

NOVELLA II= NEIFILE


Neifile, anche lei bella e cortese, sorridendo, cominciò “Panfilo vi ha mostrato come la bontà di Dio
non guarda ai nostri errori, se essi non sono dovuti a nostre colpe. Io voglio dimostrarvi quanto
questa stessa bontà sopporti pazientemente i difetti degli uomini, che dovrebbero dare prova di
bontà con le loro opere ed, invece, fanno il contrario”.
Ella aggiunse che già da qualche tempo , aveva sentito dire che a Parigi viveva un mercante
chiamato Giangiotto di Civignì, gran brav’uomo, esperto di tessuti e di drappi. Egli era molto amico
di un ricchissimo giudeo, chiamato Abraam, il quale era, anche lui, uomo onesto e leale.
Giangiotto, vedendo l’onestà e la lealtà del giudeo, pensò che si potesse dannare per difetto di
fede non riuscendo dunque a raggiungere, in un prossimo futuro, il premio del Pradiso. Per
questo, amichevolmente, lo cominciò a pregare affinché lasciasse la fede giudaica e ritornasse alla
verità cristiana che il mercante vedeva crescere, perché buona e santa, mentre l’altra diminuiva
sempre più.
Il giudeo, convinto e fedele alla sua religione, diceva che non vi era alcuna fede più giusta e più
santa di quella giudaica, nella quale era nato e nella quale voleva vivere e morire. Il cristiano, dopo
pochi giorni, ritornò alla carica e ,piano piano, le considerazioni che egli faceva sulla religione, o
messe sulla sua bocca dallo Spirito Santo, o per amicizia, cominciarono a piacere molto all’uomo
che ,comunque, rimaneva nelle sue convinzioni; alla fine, dopo un lungo tergiversare, il giudeo,
vinto dalle continue insistenze dell’amico, disse di essere disposto a convertirsi, solo dopo però
essere andato a Roma per vedere il Papa e lo stile di vita dei cardinali (gli unici tali da poterlo
veramente convincere nella sua scelta). Questa cosa rattristò molto Giangiotto che, rattristato,
cercò di dissuadere l’amico dicendogli che il viaggio per andare a Roma sarebbe costato troppo
(quando in verità voleva evitare che egli scoprisse la vita scellerata e corrotta dei religiosi); ma
Abraam era veramente deciso e a nulla valsero le parole dell’amico, che si dovette rassegnare alla
partenza e gli augurò buon viaggio.
Arrivato lì, attento com’era, si accorse personalmente e ricevette informazioni da altri, che, dal
religioso più importante a quello che lo era meno, tutti commettevano il peccato di lussuria, non
solo quella naturale, ma, ancor peggio, quella sodomitica, senza freno né vergogna, sottostando ai
ricatti delle meretrici e dei giovinetti. Oltre a ciò, erano tutti golosi, bevitori, ubriaconi, servendo
più al ventre che allo spirito, come gli animali. E guardando più avanti, li vide tutti avari e avidi di
danaro, per questo vendevano e compravano le cose sacre, facendone un commercio molto
maggiore di quello delle stoffe e delle altre cose che il mercante faceva a Parigi.
Essi denominavano “ procureria” la manifesta simonia e “sostentazione” la golosità, come se
Dio ,conoscendo le cose umane, si potesse lasciare ingannare dalle parole.
Il giudeo, molto dispiaciuto, ritenendo di aver visto abbastanza, decise di ritornare a Parigi .
Giangiotto, sapendo che l’amico era ritornato, non sperando assolutamente che si facesse
cristiano, si recò a trovarlo e fecero gran festa insieme; dopo alcuni giorni, gli domandò che ne
pensava del Santo padre, dei Cardinali e degli altri cortigiani: Abraam gli rispose che Dio doveva
punire tutti quanti perché effettivamente ognuno di loro peccava di qualche male e c’era dunque
bisogno che la religione cristiana si diffondesse e purificasse maggiormente, per evitare di ridursi
in quel modo. Proprio per questo, avrebbe deciso fermamente di convertirsi e sostenere lo Spirito
Santo.
Giangiotto, più stupito e felice che mai, fece battezzare Abraam nella chiesa di Notre Dame.

NOVELLA III= FILOMENA


(Tema della tolleranza religiosa, in una visione del mondo laica e aperta, e dalle doti
fondamentali e libere da vincoli di nascita, fede o ideologia dell’intelligenza e arguzia)
Appena Neifile terminò la sua narrazione, su indicazione della regina, Filomena cominciò a parlare.

Iniziò il racconto dicendo che la stupidità, talvolta, gettò l’uomo da una condizione di benessere
in grande miseria e ,al contrario, il senno evitò al saggio grandi pericoli e lo pose al sicuro. Ciò si
vedeva da molti esempi ed anche quella breve storiella lo avrebbe dimostrato.
Il Saladino che, grazie al suo valore, era diventato il sultano di Babilonia e aveva ottenuto molte
vittorie sui saraceni e sui cristiani, aveva speso nelle guerre tutto il suo tesoro ed aveva bisogno di
molto denaro per un incidente capitatogli. Non avendo come procurarsi così rapidamente il
denaro che gli serviva, si ricordò di un ricco giudeo, di nome Melchisedech, che prestava denaro
ad usura in Alessandria. Pensò di avere da lui il denaro, ma il giudeo era tanto avaro che non lo
avrebbe mai, spontaneamente, accontentato. Costretto dal bisogno cercò una giustificazione che
avesse parvenza di legalità.
Fatto chiamare l’usuraio, lo ricevette familiarmente vicino e gli chiese “Valente uomo, ho saputo
da molti che sei saggio ed esperto nelle cose di Dio, per questo vorrei sapere da te, delle tre leggi,
la giudaica, la saracena e la cristiana, quale reputi la più vera?”.
Il giudeo, da saggio qual era, capì subito che il Saladino voleva metterlo in difficoltà e pensò di
non poter lodare nessuna delle tre religioni, senza favorire l’intento dell’altro.
Aguzzò, dunque, l’ingegno e, subito, gli venne in mente la risposta che doveva dare e disse “ Signor
mio, la questione che mi ponete è bella e vi risponderò con una favoletta.
Ricordo di aver udito molte volte che, nei tempi passati, vi fu un uomo molto ricco che tra i suoi
tesori aveva un anello bellissimo e prezioso, che voleva lasciare in eredità ai suoi discendenti.
Nascose, dunque, l’anello e stabilì che il figlio che l’avesse ritrovato sarebbe divenuto il suo
erede, onorato e riverito come fratello maggiore; colui che ereditò l’anello fece la stessa cosa con i
suoi discendenti e così l’anello passò, di mano in mano, a molti successori. Infine, giunse nelle
mani di un uomo che aveva tre figli belli, virtuosi e obbedienti, che amava in egual misura. I
giovani sapevano della consuetudine dell’anello e, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava
il padre affinché, dopo la morte, gli lasciasse l’anello. Il padre, che amava parimenti i tre figli, non
sapeva decidere a chi lasciare il gioiello. Allora, avendolo promesso a tutti, pensò di voler
accontentare tutti e tre: di nascosto, da un buon orafo, fece fare altri due anelli, tutti somiglianti
al primo ed egli stesso a stento riconosceva quale era quello vero e, sul punto di morte, in segreto,
diede a ciascuno dei figli il suo anello. Dopo la sua morte ciascun figlio, per ottenere l’eredità e gli
onori del padre, mostrò il suo anello. Non si poté riconoscere quale era l’originale, poiché gli anelli
erano del tutto simili. Rimase, pertanto, irrisolta la questione su chi fosse il vero erede del padre;
ed ancora oggi non è stata risolta.
Il Saladino riconobbe che costui aveva saputo uscire abilmente dal tranello che gli aveva teso e,
perciò, gli espose con franchezza le sue necessità, per vedere se poteva aiutarlo, con la stessa
saggezza che aveva dimostrato nella risposta.
Il giudeo, spontaneamente, dette al sovrano tutto il denaro che gli fu chiesto.
Il Saladino ,poi, gli restituì tutto il dovuto, gli fece grandissimi doni, lo considerò sempre suo
amico e lo tenne presso di sè con grandi onori.

NOVELLA IV= DIONEO


Appena Filomena, raccontata la sua novella tacque, Dioneo, senza aspettare il comando della
regina, poiché sapeva che, per l’ordine stabilito, toccava a lui, cominciò a parlare “ Donne piene
d’amore ,ognuno di noi deve raccontare la novella che , pensa, possa recare a tutti maggiore
piacere (…)vi voglio dire come un monaco riuscì ad evitare una gravissima pena”.
E iniziò a raccontare che un tempo , in Lunigiana, in un paese non molto lontano, vi era un
monastero, con molti più monaci di quanti ve ne erano in quel periodo. Tra questi, ve ne era uno
giovane, il cui vigore fisico e la forza giovanile, né i digiuni, né le veglie potevano attenuare. Un
giorno, per caso, a mezzogiorno, andandosene in giro, mentre tutti gli altri dormivano, in un luogo
solitario, vide una giovinetta molto bella, forse figlia di un contadino del posto, che coglieva delle
erbette nei campi; appena l’ebbe vista fu assalito dal desiderio carnale. Avvicinatosi, cominciò a
parlarle, e tanto proseguì la cosa, che la condusse nella sua cella, senza che nessuno se ne
accorgesse.
Mentre i due erano presi dai giochi d’amore, l’abate, che si era appena svegliato, passò davanti
alla cella ed udì degli schiamazzi. Si avvicinò all’uscio e comprese, senza ombra di dubbio, che lì
dentro c’era una femmina. Tentò di aprire, ma non vi riuscì. Poi pensò di fare diversamente.
Rientrò nella sua camera e aspettò che il monaco uscisse.
Il giovane, preoccupato perché aveva sentito uno stropiccio di piedi nel dormitorio, avvicinò
l’occhio ad un piccolo foro e vide chiaramente che l’abate stava ascoltando e, quindi, sapeva che
c’era una donna nella sua cella. Ben sicuro che ciò avrebbe determinato una pesante punizione,
senza dimostrare alcuna preoccupazione, disse alla donna di starsene tranquilla lì dov’era fino al
suo ritorno, perché doveva andare a trovare un modo per farla uscire senza essere vista.
Appena fuori, chiuse la cella con la chiave e si recò nella camera dell’abate, al quale chiese il
permesso di andare nel bosco a raccogliere la legna, che non aveva potuto raccogliere al mattino:
l’abate, pensando che il monaco ignorasse di essere stato scoperto, acconsentì volentieri e prese
la chiave.
Appena il giovane si fu allontanato, cominciò a pensare che cosa gli conveniva fare : se, in
presenza di tutti i monaci, aprire la cella e far vedere la colpa (dando a tutti l’occasione di criticarlo
per la punizione inflitta al compagno) oppure confrontarsi prima con la donna per sapere
l’andamento dei fatti: pensando tra sé che il padre della ragazza non avrebbe voluto subire quella
vergogna, conosciuta da tutti, decise di vedere chi fosse, prima di intervenire.
Tranquillamente, dunque, si recò dal lei, aprì, entrò e l’uscio si richiuse; la giovane, vedendo
l’abate ,si turbò molto, e, per la vergogna, cominciò a piangere. Il religioso, vedendola bella e
fresca, sebbene fosse vecchio, sentì gli stimoli della carne, non meno del giovane monaco, e tra sé,
iniziò a pensare che sprecare un’occasione del genere “mandata dal Signore” per appagare il suo
piacere sarebbe stato stupido; rassicuratosi con il pensiero che “peccato celato è mezzo
perdonato”, si avvicinò alla giovinetta ,confortandola e pregandola di non piangere, palesando il
suo (loro) desiderio tra una parola e l’altra. La giovane molto facilmente si piegò ai piaceri
dell’abate e, salendo sul suo petto, “giocò” con lui per molto tempo.
Il monaco d’altro canto, che non era andato nel bosco ma che si era nascosto nel dormitorio, come
vide l’abate entrare da solo nella sua cella e chiudere a chiave la porta, fu certo di aver raggiunto il
suo scopo. Uscito dal nascondiglio, spiando da un buco, vide ed udì tutto ciò che l’altro fece.
L’abate, dopo che si era trattenuto a lungo con la giovinetta, chiusala nella cella, se ne ritornò nella
sua stanza. Dopo un certo tempo, ritenendo che il monaco fosse ritornato dal bosco, lo fece
chiamare, lo rimproverò con viso severo e comandò che fosse incarcerato, in modo da poter
possedere da solo la giovinetta. Allora il monaco, molto prontamente, disse “Signore, non sono
ancora stato nell’ordine di San Benedetto tanto a lungo da aver imparato le particolarità di questa
regola. Voi non mi avevate ancora detto che cosa i monaci devono fare con le donne, come invece,
mi avevate detto per i digiuni e per le veglie. Ora che me lo avete mostrato, vi prometto, se mi
perdonate per questa volta, di non peccare mai più e di fare come ho visto fare a voi”.
L’abate, che era uomo prudente, comprese subito che il giovane non solo sapeva, ma aveva visto
tutto. Provando rimorso, si vergognò di punire il monaco, per una colpa per la quale, egli stesso
avrebbe meritato una punizione.
Gli perdonò e gli ordinò il silenzio su ciò che aveva visto.
Senza danno per entrambi, fecero uscire la giovinetta, e, tutto fa credere che, in seguito, la
facessero tornare più volte.

NOVELLA V= FIAMMETTA
La novella di Dioneo fece apparire, sul viso delle donne che ascoltavano, un rossore pudico, perché
si vergognavano, ma , guardandosi l’un l’altra, non poterono fare a meno di ridere. Quando
terminò la narrazione, con dolci parole, fecero notare al narratore che simili novelle non si
dovevano raccontare a donne gentili.
La regina, poi, comandò a Fiammetta di continuare: ella, con viso lieto, incominciò dicendo che
avrebbe continuato nel dimostrare che una pronta risposta può avere molta forza. E, come gli
uomini cercano di amare una donna di più alto ceto rispetto a loro, così le donne ritengono di
grande importanza evitare di innamorarsi di un uomo più nobile di loro. Voleva provare come una
gentildonna si fosse difesa da questo pericolo con opere e con parole.
Cominciò a raccontare del Marchese del Monferrato, gonfaloniere di giustizia, che si era recato in
Terrasanta per partecipare alla Crociata, uomo del cui valore si parlava fino alla corte di Filippo il
Guercio, il quale si preparava a partire dalla Francia ed essere presente anche lui alla terza
Crociata per riconquistare la Terrasanta.
Gli fu detto da un cavaliere, che non vi era sotto le stelle una coppia simile a quella del marchese e
della sua sposa, che era la più bella e la più valorosa di tutte le donne del mondo: queste parole
infiammarono tanto l’animo del re di Francia, che egli si innamorò perdutamente della donna,
senza averla mai vista (topos ricorrente).
Decise, allora, di imbarcarsi da Genova con la compagnia di un gruppo di gentiluomini, andando
via terra, in modo da poter passare dal Monferrato per andare a vedere la Marchesa, senza
metterla in difficoltà, data l’assenza del marito; avvicinatosi alle terre del Marchese, un giorno
prima di arrivare, mandò ad avvisare la donna che il giorno seguente avrebbe pranzato a casa sua.
La donna, saggia e prudente, rispose che era un grande onore per lei ricevere il re di Francia, che
era il benvenuto, generalmente, un re non visitava una dama se il marito era assente, tuttavia
ordinò agli uomini di casa di sistemare ogni cosa nel migliore dei modi tranne per il banchetto e le
vivande, alle quali volle pensarci lei.
Senza indugi, fece raccogliere tutte le galline che vi erano nel paese e ordinò ai cuochi che fossero
cucinate in vari modi per il banchetto reale.
Il giorno dopo arrivò il re, che fu ricevuto con grandi onori: egli, non rimanendo per niente deluso,
trovò la donna più bella rispetto a tutte le sue aspettative e se ne invaghì ancora di più. Dopo
essersi riposato in camere arredate con grande raffinatezza, venuta l’ora del desinare, il re e la
marchesa sedettero alla stessa tavola; gli altri, in base ai loro titoli , furono sistemati in altre
mense. Furono portati, in successione, diversi piatti e ottimi vini, ma il re si meravigliò che, anche
se le pietanze erano diverse, erano servite soltanto galline.
Siccome sapeva che nel Monferrato c’era grande varietà di selvaggina, che la marchesa avrebbe
potuto procurarsi per preparare il banchetto, si meravigliò della cosa e le chiese: “ Donna, in
questo paese nascono solo galline, senza nessun gallo?”.
Ed ella, ben comprendendo il senso di quelle parole, rispose coraggiosamente “Mio signore, ma le
femmine , sebbene i loro vestiti e i loro titoli cambino, sono fatte tutte nello stesso modo, sia qui
che altrove”.
Il re, udite queste parole, capì perché gli erano state servite soltanto galline e si rese conto che,
con tale donna, le parole sarebbero state sprecate; terminato il pranzo, rapidamente, senza
svelare le sue cattive intenzioni, la ringraziò per l’onore di essere stato ricevuto nella sua casa ,e,
raccomandatala a Dio, se ne andò da Genova.

NOVELLA VI= EMILIA


Emilia, che sedeva accanto a Fiammetta, dopo i commenti sul garbato rimprovero della marchesa
al re di Francia, appena la regina diede l’assenso, cominciò a raccontare della risposta data da un
uomo astuto ad un religioso avaro.
Vi era, dunque, non molto tempo addietro, in Firenze ,un frate Minore, inquisitore degli eretici, il
quale ostentava santità e fede in tutti i modi possibili, quando in realtà era attento a ricercare sia
chi aveva la borsa piena, sia chi era debole nella fede cristiana. Un bel giorno individuò un uomo,
più ricco di danaro che di senno, il quale, non per mancanza di fede ma perché aveva bevuto
troppo ed era un po’ allegro, aveva detto alla sua brigata che aveva un vino così buono che ne
poteva bere Cristo; fu riferito ciò all’inquisitore, che ben sapeva che quel tale possedeva molte
terre e molti denari. Il religioso ,immediatamente, corse ,con spade e bastoni, a fargli un processo
gravissimo, pensando che gli avrebbe portato un bel po’ di fiorini nelle mani.
Fattolo chiamare, gli chiese se era vero ciò che si era detto contro di lui: il buon uomo rispose di sì
e l’inquisitore, devotissimo di San Giovanni Battista , detto Barbadoro, per la barba bionda, disse “
Dunque, tu hai detto che Cristo è un bevitore, amante degli ottimi vini, come se fosse
Cinciglione(famoso bevitore) o qualche altro ubriacone e amante delle taverne. Ora vuoi
minimizzare la cosa, con le parole. Ma hai commesso un grave peccato, e ,per questo, hai meritato
il fuoco (rogo) e dobbiamo processarti come eretico”.
Parlava con fare molto minaccioso al pover’uomo che, assai spaventato, per mezzo di
intermediari, gli fece avere molte cose da mangiare (affinché potesse essere perdonato)
oltremodo gradite ai frati minori, che ,pur essendo avidissimi, non potevano toccare denari.
La medicina, anche se il medico Galeno non la include nelle sue ricette, fu salutare, e giovò tanto
che il fuoco minacciato, si trasformò in una croce gialla da portare su una veste nera, come una
bandiera, da indossare in viaggio. Il frate ,ricevuti i denari, gli ordinò come penitenza di andare
ogni mattina ad ascoltare la messa nella Chiesa di Santa Croce, e poi di presentarsi davanti a lui
all’ora di pranzo per rimanere, infine, libero per tutto il giorno. Il penitente fece tutto con
diligenza, finchè un giorno ,in chiesa, udì un passo del Vangelo che diceva “voi riceverete per
ognuno cento (per ogni cosa che darete ne riceverete cento), e possederete la vita eterna”.
Essendogli questa frase rimasta in mente, all’ora di pranzo si recò dall’inquisitore, che gli chiese se
quella mattina aveva udito la messa e se c’era stata qualcosa che lo aveva particolarmente colpito
e che voleva chiedere; l’uomo rispose “Si, ho sentito una frase che mi ha fatto provare una
grandissima compassione per voi e per gli altri frati , pensando alla triste condizione in cui vi
troverete nell’altra vita”. Il religioso chiese ,prontamente, quale fosse la parola che lo aveva mosso
a compassione e il buon’uomo rispose “ Signore, fu quel passo del Vangelo che dice- Voi riceverete
per ognuno cento”.
Alla richiesta di chiarimenti sul perché quella frase lo avesse tanto commosso, il furbacchione
rispose: “ O Signore, da quando sono qui, ogni giorno ho visto che voi date alla povera gente
alcune volte una, altre volte due, grandissime caldaie di brodo, che si toglie davanti a voi ,quando
avanza; se ,nell’altra vita, per ognuna ve ne saranno rese cento, ne avrete tanto che voi tutti vi ci
potrete affogare dentro”.
Tutti gli altri, che sedevano alla tavola e mangiavano avidamente, si misero a ridere e si turbarono.
E, se non fosse stato ,in precedenza, molto criticato per il processo che aveva già intentato,
l’inquisitore , subito, gli avrebbe buttato addosso un altro processo per punirlo di quello scherzoso
motto, che aveva provocato l’ilarità dei commensali.
Poi, per l’ira, gli ordinò di fare quello che voleva ,senza farsi più vedere.

NOVELLA VII= FILOSTRATO


Quando i commenti sulla novella di Emilia terminarono, Filostrato, cui toccava narrare, cominciò a
parlare , dicendo che era facile colpire un bersaglio che non si muove e, veramente, tutti coloro
che lo desiderano possono facilmente colpire la vita viziosa e sporca dei religiosi che, infatti, danno
ai poveri quello che dovrebbero dare ai porci o gettare via.
Voleva raccontare dell’improvvisa e insolita avarizia che aveva colpito Cangrande della Scala,
Signore di Verona: Cangrande era conosciutissimo in tutto il mondo, perché fu uno dei più
importanti e magnifici signori ,che vi furono in Italia, dall’imperatore Federico II ai loro tempi.
Egli aveva disposto di fare in Verona una grandissima e splendida festa facendo venire molti
cortigiani ed altra gente da tutte le parti; quando all’improvviso, non si sa per quale motivo,
cambiò idea, risarcendo in parte coloro che erano venuti e licenziandoli.
Solo uno, chiamato Bergamino, svelto ed abile parlatore, non credette a ciò che aveva udito, e non
avendo ricevuto nulla o non essendo stato licenziato, rimase lì, sperando di ottenere qualche

vantaggio; Messer Cangrande aveva pensato che ogni cosa che egli donava andasse perduta o,
meglio, gettata nel fuoco, ma di ciò non parlava con nessuno.
Bergamino, dopo alcuni giorni, vedendo che non era chiamato come novellatore, non riceveva
niente e, oltre a ciò, spendendo molto nell’albergo con i suoi cavalli e i suoi servitori, cominciò a
preoccuparsi molto; pure aspettava non ritenendo di far bene a partire senza ordine.
Avendo portato con sé tre belle e ricche vesti (che gli erano state donate da altri signori per
partecipare, vestiti decorosamente , alla festa) per pagare l’oste, gliene diede prima una, poi una
seconda; infine cominciò ad utilizzare la terza, deciso a rimanere finché durava, e partire subito
dopo.
Ora, mentre stava per consumare anche la terza veste, si trovò ,molto triste, davanti a Cangrande,
che mangiava: il grand’uomo, più per prenderlo in giro, crudelmente, che per interesse, gli chiese
perché era così malinconico.
Bergamino, subito, quasi senza pensare, ma per ricavare vantaggi dalla sua situazione, raccontò la
novella di Primasso, uomo di grande cultura e abile verseggiatore, così famoso che tutti ne

avevano sentito parlare per fama, anche se non lo conoscevano di persona. Mentre si trovava a
Parigi(in una condizione un po’ malaticcia) udì parlare dell’abate di Cluny, che era ritenuto il più
ricco prelato che la chiesa di Dio avesse all’infuori del Papa; si dicevano di lui cose straordinarie:
teneva sempre corte e non negava mai a nessuno da mangiare e da bere, bastava solo

chiederglielo. Sentito ciò, Primasso, che amava vedere signori magnifici e generosi, decise di
andare a vederlo e chiese dove abitava; risposagli che si trovava nell’Abazia di Cluny (a circa sei
miglia da Parigi) decise che, partendo al mattino presto, poteva essere sul luogo ad ora di pranzo
ma, temendo di smarrirsi e di non trovare da mangiare, pensò di portare con sé tre pagnotte,
supponendo che l’acqua l’avrebbe potuta trovare in ogni parte.
Il viaggio andò benissimo ed egli giunse all’Abazia proprio all’ora del desinare: entrato nella sala
vide tavole imbandite, una gran cucina e tante altre cose preparate per mangiare e disse tra sé
“Costui è veramente un uomo magnifico, come tutti dicono”.
Mentre si guardava intorno, il siniscalco dell’abate, poiché era ora di pranzare, comandò che si
desse acqua alle mani e che ognuno sedesse al posto assegnatogli.
Per caso, Primasso fu messo a sedere proprio di fronte alla porta della camera da cui il prelato
doveva uscire per andare a mangiare: era usanza in quella corte che non si poteva mangiare
nessuna pietanza ,né bere vino se prima l’abate non si sedeva a tavola.
Il religioso fu avvisato che era tutto pronto per l’inizio del banchetto, se a lui piaceva. L’abate fece
aprire la porta e il primo uomo che vide fu Primasso, che non conosceva e che era assai mal
ridotto. Vedendolo messo così, si lamentò tra sé e sé di averlo come ospite e subito se ne tornò
indietro, fece chiudere la camera e domandò se qualcuno conoscesse quello straccione che sedeva
davanti alla camera. Tutti risposero di no.
Nel frattempo, Primasso, che aveva fame perché aveva camminato molto e non era abituato a
digiunare, vedendo che l’abate non veniva, tirò fuori dal corpetto uno dei tre pani che aveva
portato e cominciò a mangiare; fece poi così per le altre due pagnotte, non vedendolo ancora
giungere a tavola (quando nel frattempo l’abate si stava rifiutando di mangiare davanti e con
Primasso, sperando che finisse il suo cibo e decidesse spontaneamente di andarsene, evitando così
la vergogna nel licenziarlo). Avendo poi saputo che l’uomo aveva terminato il suo cibo, si chiese,
sorpreso improvvisamente da se stesso, cosa mai gli fosse preso, quando fino a quel momento
aveva sempre offerto cibi e bevande a tutti senza giudicare la loro condizione e il loro passato;
riflettendoci poi pensò che se quest’uomo gli aveva appena provocato questa reazione strana,
voleva significare che rappresentava un pezzo grosso: chiese dunque subito chi fosse, e seppe che
era Primasso e che era venuto per conoscerlo, avendo udito della sua fama di uomo munifico e
generoso. L’abate, che aveva ben meritato la sua fama ,si vergognò e, desiderando farsi
perdonare, lo onorò in molti modi.
Dopo averlo fatto mangiare abbondantemente, gli donò ricchi vestiti, danaro e cavalli,
concedendogli di andare e venire ,liberamente, senza il suo permesso. Primasso, contento, lo
ringraziò e ripartì, a cavallo, per ritornare a Parigi”.
Cangrande della Scala, da buon intenditore, senza darne segno, capì perfettamente, quello che
voleva dire il narratore e disse “Bergamino, hai illustrato benissimo i tuoi problemi, il tuo valore, la
mia avarizia e quello che tu da me desideri. E, in verità, prima che nei tuoi confronti, non fui mai
assalito dall’avarizia, ma la scaccerò come mi hai indicato”.
Fece pagare l’oste e donò a Bergamino ricchi vestiti, danari, un cavallo e, per quella volta, gli
consentì di andare e venire come voleva.

NOVELLA VIII= LAURETTA


Nei tempi passati, a Genova, viveva un gentiluomo, chiamato Erminio de’ Grimaldi, che per le sue
immense ricchezze superava tutti i signorotti d’Italia, così come li superava in avarizia,
manifestandola non solo verso gli altri, ma anche verso sé stesso.
A differenza degli altri genovesi, che pur essendo avari amavano vestire nobilmente, egli per non
spendere sosteneva che il lusso fosse un difetto, così come il mangiare e il bere: per questo fu
chiamato da tutti “Messere Erminio Avarizia”.
Mentre costui non spendeva ( e quindi le sue ricchezze si moltiplicavano) arrivò a Genova un
valente uomo di corte, elegante e colto, di nome Guglielmo Borsieri, per niente simile ai corrotti
cortigiani di quel tempo, che volevano essere considerati gentiluomini, mentre dovevano,
piuttosto, essere chiamati asini per la bruttura della loro malvagità; il mestiere degli uomini di
corte, a quei tempi, era di trattare paci dove erano scoppiate guerre e litigi tra nobili, combinare
matrimoni e stringere amicizie con piacevoli discorsi, rasserenare gli animi affaticati, rallegrare le
riunioni e, con rimproveri come i padri, rimproverare i difetti, con frasi prudenti. In quel tempo
invece i gentiluomini passavano il loro tempo a dire cattiverie e cose tristi e quel che era peggio
era farle in presenza degli uomini, accusandosi scambievolmente: evidentemente, in quell’epoca,
le virtù avevano lasciato posto ai vizi abbandonando i miseri viventi.
Ma, ritornando all’inizio, Guglielmo Borsieri fu onorato e ben accolto da tutti i genovesi. Avendo
sentito parlare dell’avarizia di messere Erminio, lo volle conoscere: messere Erminio, che già aveva
sentito parlare di Guglielmo Borsieri, era un uomo di valore e, sebbene fosse avaro, pure aveva un
qualche sprazzo di gentilezza, per cui lo ricevette cortesemente e lo trattenne con vari
ragionamenti.
Conversando piacevolmente, lo portò insieme con altri ospiti a visitare una sua casa nuova, molto
bella. Dopo avergliela mostrata tutta, disse: “Messer Guglielmo, voi che avete visto e udito molte
cose, mi sapreste insegnare qualche cosa, non ancora vista da nessuna parte, che possa dipingere
nella sala di questa mia casa?”. Guglielmo rispose “Signore, non saprei insegnarvi niente che non
sia già stato visto, ma, se vi piace, ve ne insegnerò una che credo voi non vedeste mai”.
Ed Erminio disse “ Orsù, vi prego, ditemi qual è”, non aspettandosi la risposta che ricevette.
A ciò Guglielmo, prontamente, rispose “ Fateci dipingere la Cortesia”.
Messere Erminio, udita questa parola, fu preso, immediatamente, da una grande vergogna, così
che mutò completamente il suo comportamento e disse “Messer Guglielmo, io la farò dipingere in
maniera che né voi, né altri potranno dire che io non l’ho mai vista né conosciuta”.
Da quel giorno in poi, tanto fu il potere delle parole di Guglielmo che “Messere Erminio Avarizia”
divenne il più cortese e liberale gentiluomo di Genova.

NOVELLA IX= ELISSA


Elissa, cui toccava raccontare, senza attendere l’ordine della regina, iniziò dicendo che ciò che non
erano riusciti a fare tanti tentativi e tante imprese, poteva ottenere una parola detta per caso, non
di proposito, il che si vedeva bene dalla novella raccontata da Lauretta ed ella stessa l’avrebbe
dimostrato subito.
E raccontò che al tempo di Guido da Lusignano, primo re di Cipro, dopo che Goffredo di Buglione
aveva conquistato Gerusalemme nella prima Crociata, una gentildonna di Guascogna andò in
pellegrinaggio al Santo Sepolcro e, al ritorno, giunta a Cipro, fu oltraggiata da alcuni uomini
scellerati. Poiché non riusciva ad avere consolazione, pensò di andare a denunziare l’accaduto al
re. Ma le fu detto che era del tutto inutile: infatti il sovrano era così indolente e vile che non solo
non applicava la giustizia alle offese fatte ai suoi sudditi, ma anzi sopportava con vergognosa viltà
quelle che facevano a lui; per cui, chi non riceveva giustizia, si sfogava offendendolo.
Avendo udito queste cose, la donna, pur non sperando vendetta, volle andare a constatare la viltà
del re e, recatasi al suo cospetto chiese disperatamente di insegnarle a sopportare le offese
proprio come faceva lui, in modo che potesse farlo anche per quella ricevuta da lei.
Il re, fino a quel momento indolente e pigro, come se si svegliasse da un sogno, duramente punì
l’ingiuria fatta alla donna, e, in seguito, divenne rigidissimo persecutore di tutte le offese fatte
all’onore della sua corona.

NOVELLA X= PAMPINEA
A Pampinea, la regina toccava di raccontare l’ultima novella della giornata.
Con grazia cominciò a parlare dicendo che i motti erano ornamenti gradevoli nei discorsi,
paragonandoli alle le stelle nel firmamento e, in primavera, i fiori nei verdi prati.
Poiché i motti erano brevi, erano più adatti alle donne che agli uomini, anche se, nella loro epoca,
ce ne erano poche che sapessero comprenderli e raccontarli: ormai le donne moderne prestavano
attenzione principalmente agli ornamenti del corpo (più erano decorate nei vestiti più si sentivano
onorate e rispettate, non pensando che si poteva fare lo stesso discorso per gli asini se avessero
portato ricche bardature) e se ne stavano mute e silenziose, risultando sciocche sia in apparenza
sia nel modo in cui si esprimevano (sembrando incapaci di intraprendere discorsi con gente seria).
Pampinea si vergognava a dire ciò (coinvolgendo tutte le donne tra cui se stessa) ma era
importante, comunque, guardare il tempo e il luogo in cui si parlava: talvolta infatti, avveniva che
un uomo o una donna credeva, con una battuta di spirito, di far arrossire l’interlocutore, quando
invece, non avendo ben misurato le sue forze , quel rossore se lo vedeva ritornare indietro con la
risposta dell’altro.
Affinché evitassero che si dimostrasse fondato il proverbio che le donne ,in ogni cosa, prendevano
sempre il peggio , la regina voleva raccontare un’ultima novella.
Non molti anni prima, a Bologna, visse un medico molto famoso, di nome Maestro Alberto de’
Zancari: nonostante fosse già vecchio (aveva quasi settanta anni) si innamorò ,come un giovinetto,
di una bellissima vedova, Madonna Margherita dei Ghisolieri, dopo averla vista ad una festa.
La notte non riusciva più a dormire, se il giorno prima non aveva visto il delicato viso della donna:
per questo, sia a piedi che a cavallo, cominciò ad andare davanti alla casa della donna; ella e le sue
amiche si accorsero del motivo del suo passare e scherzavano nel vedere un uomo così anziano
uscir di senno per amore, credendo che la passione d’amore dimorasse solo nei giovani.
In un giorno di festa, mentre Margherita sedeva con le altre donne davanti alla porta di casa, vide
venire Maestro Alberto e lo invitò, per deriderlo: le donne lo fecero accomodare in un fresco
cortile, gli offrirono finissimi vini e dolciumi e, infine, con delicate parole , gli domandarono come
era possibile che fosse innamorato della donna ,ben sapendo che era amata da molti giovani belli
e gentili. Il Maestro sorrise e rispose che , nonostante avesse una certa età, allo stesso tempo
aveva fatto esperienza di ciò che significava amare e che la volontà di provare questo sentimento
non veniva tolta a nessuno che lo meritava; in più, conosceva i movimenti e gli usi della donna
tanto da conoscerla abbastanza bene ormai.
La donna, mortificata, rispose “Maestro ,ci avete cortesemente rimproverate per il nostro
scherzo, tuttavia, il vostro amore, poiché proviene da un uomo saggio e di valore, mi è caro e
gradito, purchè sia salva la mia onestà”. Il Maestro, alzatosi con i suoi compagni, ridendo
allegramente, ringraziò la donna e se ne andò. Così la dama, non considerando il valore della
persona che voleva schernire, rimase schernita.

Alla fine dell’intero racconto delle novelle, il ruolo di regina passa da Pampinea a Filomena, la
quale decide di impostare i lavori del giorno successivo, senza perdere tempo: similmente a quello
proposto fino ad ora, si attiene al piano di “andar a sollazzare” divertendosi prima che il sole cala,
poi cenare e dormire (facendo ciò fino a che “per troppa continuanza o per altra cagione non
divenissero noiose”). Il giorno dopo avrebbero proseguito nello stesso ordine, finchè, dopo essersi
svegliati dalla dormita, sarebbero ritornati nello stesso posto di questo giorno per riraccontare
novelle. L’unica (e importante) novità che Filomena prende è quella di scegliere un tema, a
differenza di Filomena che non ci è riuscita.
SECONDA GIORNATA
Come accadde nella giornata precedente, il gruppo di giovani dedicarono il tempo a divertirsi,
mangiare e ballare decorandosi di ghirlande di fiori; giunta la “nona ora”, si posero tutti in cerchio
nel prato intorno alla regina, che affidò il compito di iniziare a narrare alla bella Neifile.
Il tema della seconda giornata sarebbe stato: l’avventura.

NOVELLA I= NEIFILE
Spesso a coloro che si prendono gioco degli altri e delle cose rispettabili accade che non solo non
se ne trae vantaggio, ma se ne resta danneggiati.
Tanto tempo fa infatti, nella città di Trivigi (Treviso), viveva un uomo buono e rispettato da tutti
chiamato Arrigo; alla sua morte, si dice che le campane della chiesa maggiore della città suonarono
da sole, come per miracolo. Egli, dunque, fu definito santo e ogni cittadino si recò
precipitosamente alla veglia, conducendo tutti coloro che avevano un’infermità o qualche difetto,
con la speranza che, toccando quel corpo, potessero guarire.
In tale circostanza arrivarono in città tre fiorentini (Stecchi, Marchese e Martellino) i quali, appresa
la notizia dell’evento miracoloso, vollero a tutti i costi visitare “il santo”. Si resero conto però che
non sarebbero mai riusciti ad attraversare la folla (composta da tedeschi in armi e cittadini)
accalcata perennemente in piazza e nella chiesa: Martellino allora decise di fingersi infermo,
facendosi sostenere dai suoi amici. L’idea piacque e il finto storpio e i due compagni ai suoi lati
arrivarono in chiesa, facendo cenno di far passare e dare precedenza a Martellino, il quale (con
sostegno delle persone che lo guardavano con impressione e pena) fu posto sopra il corpo di
Arrigo; e, proprio come tutti speravano, egli incominciò a distendersi piano piano (come sapeva
fare benissimo) e a “guarire”.
Il destino volle però che nella folla ci fosse un conoscente di Martellino che, avendolo riconosciuto
solo quando si era raddrizzato, affermò a gran voce di come quello fosse solamente un buffone
che amava travestirsi e giocare: a queste parole, i Trevisani incominciarono a insospettirsi e poi a
strappargli i vestiti e menarlo. Stecchi e Marchese rimasero da parte per non subire la stessa sorte.
Quest’ultimo allora, nel tentativo di sottrarlo alla folla infuriata, chiamò le guardie e accusando il
suo amico di avergli rubato il denaro: i cittadini, udendo quest’ulteriore accusa, decisero di unirsi a
Marchese in questa accusa, con lo scopo di far pesare maggiormente la condanna al buffone.
Martellino, che non prendeva sul serio la cosa, subì delle torture di gola da parte del giudice che lo
interrogava, al quale l’accusato disse :”Signor mio, costoro mentono spudoratamente, perché io
sono arrivato da poco. Potete controllare chiedendo all’albergatore e all’ufficiale addetto alla
registrazione dei forestieri”. Marchese e Stecchi intanto, che temevano di aver gettato il
compagno dalla padella nel fuoco, trovato l’oste, gli raccontarono il fatto : egli, ridendo, li
condusse da un certo Sandro Angolanti, che abitava a Treviso ed era molto amico del Signore della
città e gli raccontò ogni cosa. Anche Sandro si divertì molto e andò dal Signore ad intercedere per
la salvezza di Martellino, salvezza che ottenne. Quando andarono a prenderlo, lo trovarono in
camicia, smarrito e morto di paura, davanti al giudice, che non voleva sentire ragione , che, per
odio ai fiorentini, voleva impiccarlo a tutti i costi e per nessuna ragione voleva liberarlo. Alla fine, il
giudice, suo malgrado, fu costretto a lasciarlo andare. Quando Martellino fu al cospetto del
Signore raccontò tutto quello che aveva combinato e lo pregò di lasciarlo andare perché, fino a che
non fosse giunto a Firenze, si sarebbe sentito, sempre col cappio alla gola. Dopo moltissime risate
per l’accaduto, il Signore fece donare un abito ad ognuno e tutti e tre se ne tornarono sani e salvi a
Firenze, usciti dal pericolo oltre ogni speranza.

NOVELLA II= FILOSTRATO


È il momento di Filostrato, che sceglie di narrare una novella, in cui sono mischiate “cose catoliche,
di sciagure e d’amore.
La storia è quella del mercante Rinaldo d’Esti, il quale, mentre tornava a casa dopo essere uscito
da Firenze, si imbatté in tre furfanti che, fingendosi uomini buoni e umili, decisero di
accompagnarlo per la strada (con lo scopo poi di derubarlo). Parlarono di molti argomenti e,
arrivando a quello religioso, alla loro domanda su quali e quante preghiere dicesse, Rinaldo d’Esti
ammise di non essere esperto in materia ma non rinunciava mai a lodare San Giuliano e chiedergli
di trascorre un buon riposo e trovare un buon albergo in ogni suo soggiorno.
A un certo punto però le chiacchiere finirono e i tre ladri lo derubarono di soldi e vestiti: il fante
del mercante intano, atterrito, si rifugiò nel Castel Guglielmo lì vicino; anche il mercante tentò di
entrare lì ma ormai la notte era calata e le porte erano state chiuse.
Il pover uomo, infreddolito e stanco, trovò un piccolo spazio nell’uscio di una casa che sporgeva
dal castello stesso, dolendosi a San Giuliano per questa sventura; ma il santo, avendolo di
riguardo, accontentò le preghiere nonostante le sue basse aspettative: in quella dimora infatti
viveva una bellissima donna, sposa del marchese Azzo ma lasciata da sola per quella sera a causa
di alcuni impegni che avevano portato suo marito ad allontanarsi.
Sentendo dei rumori di sbattimento dei denti, chiese alla sua fante di controllare fuori: ella infatti
vide il povero marchese e, comunicando il tutto alla sua padrona il tutto, le fu ordinato di
accoglierlo dentro casa e di cibarlo e riscaldarlo con nuovi vestiti.
Il marchese e la donna dunque si conobbero e, dopo aver parlato un po’, la confidenza fu tale da
sfociare in una passione amorosa che stava investendo l’animo di entrambi: i due, dunque, non
aspettarono molto per godere l’uno dell’altro e passare una notte d’amore.
Il mattino dopo, la donna lo fece rivestire di abiti vecchi e gli indicò una scorciatoia da cui uscire: il
marchese, andato via, ritrovò il suo fante e, come per miracolo, i tre furfanti vennero trovati e
uccisi nel Castello. A quel punto Rinaldo ringraziò San Giuliano e, riprese tutte le sue cose, ripartì.

NOVELLA III= PAMPINEA


Pampinea si ricollega al tema della Fortuna per raccontare la sua storia: questa infatti non deve
essere oggetto di meraviglia, se si pensa che ogni aspetto e evento della vita degli uomini è da lei
regolato e mosso, senza che i mortali ne sappiano veramente il perché.
Iniziò dunque a narrare la storia dei tre fratelli Fiorentini Lamberto, Tebaldo e Agolante, figli di un
ricco cavaliere che aveva servito famiglie importanti e che, alla sua morte, aveva lasciato tutta la
sua eredità (tra denari e possedimenti) a loro; questi però non seppero usarli responsabilmente,
approfittando della loro spropositata ricchezza per spendere tutto e subito, finendo presto in un
vero e proprio stato di povertà.
Lamberto dunque cercò una soluzione e propose ai fratelli di vendere quello che gli era rimasto e
partire via. Così fecero, arrivando in Inghilterra, dove comprarono una casetta e cominciarono a
prestare ad usura: molto presto e in poco tempo guadagnarono una grandissima quantità di soldi,
tanto da ritornare a Firenze per rifarsi una nuova vita, con nuovi possedimenti e una famiglia.
Continuarono a prestare i soldi in Inghilterra per mano di un loro nipote chiamato Alessandro:
tutto andava bene, finché un forte dissidio tra il re e il principe inglese portò a una guerra che
divise l’isola in due, causando la perdita di tutti i castelli dei baroni del ragazzo; questo infatti non
riuscì ad aiutare gli zii, i quali (non avendo imparato dai propri errori) vennero imprigionati per
debiti e le loro famiglie costrette a vivere nella povertà.
Alessandro dunque, persa ogni speranza di pace, decise di ritornare piano piano a casa e, appena
uscito da Burges, incontrò una carovana al seguito di un abate (accompagnato da monaci, servi e
due cavalieri) che si dirigeva a Roma; decise dunque di proseguire con loro e, alla domanda sul
perché viaggiassero proprio per raggiungere quella meta, uno dei due cavalieri spiegò che c’era
bisogno dell’autorizzazione del Santo Padre per confermare l’incarico dell’abate (ragazzo ancora
troppo giovane), azione che sarebbe avvenuta nel totale silenzio.
Il presunto abate intanto si era accorto di Alessandro, del suo bel carattere e aspetto; parlando tra
di loro, i due si piacquero molto. Appena arrivati a un albergo di un villaggio lì vicino, mangiarono,
si rilassarono e i presero posto nelle camere per coricarsi; il giovane chiese all’albergatore dove
potersi mettere per dormire e l’unica possibilità era quella di alcuni granai nella camera dell’abate.
Arrangiandosi, non volendo disturbare in alcun modo, si posizionò con cautela, ma il prelato era
sveglio dai pensieri d’amore che, senza troppa esitazione, rivolse poi ad Alessandro, confessando
di esser donna e di voler raggiungere il Papa per farsi sposare; il giovane comprese e se ne invaghì
anche lui all’istante, passando con lei una notte d’amore.
Il giorno dopo, giunti davanti al Santo Padre, la ragazza confessò tutto: era scappata per non
sposare il vecchissimo re di Scozia (per volere di suo padre) temendo per il destino del paese
(l’Inghilterra) e, nel viaggio, aveva incontrato quello che per lei doveva essere suo marito. Il
giovane si meravigliò della parentela a cui la sua sposa era legata, come per i cavalieri e il Papa
che, arrivati a quel punto, decise di maritarli. Fece celebrare nozze solenni, e poi licenziò gli sposi
con la sua benedizione. I due sposi si recarono poi a Firenze, dove l’uomo pagò i debiti, fece
liberare i tre fratelli e li rimise con le loro donne nei possedimenti riacquistati. Frattanto, i due
cavalieri andarono in Inghilterra e riuscirono a convincere il re ad accogliere i due sposi. Il Re li
ricevette con grandissima festa e, poco dopo, nominò Alessandro cavaliere e gli donò la contea di
Cornovaglia. Alessandro visse felicemente con la sua donna e, secondo quanto si dice, con l’aiuto
del suocero, conquistò la Scozia e fu incoronato re.

NOVELLA IV= LAURETTA


La storia era ambientata nel litorale che andava da Reggio Calabria a Gaeta; lungo di esso, nei
pressi di Salerno, vi era la costiera di Amalfi: tra le piccole città che la componevano ve ne era una
chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo mercante, il quale,
desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita , insieme con le
ricchezze. Costui, come era usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave, la
caricò di molte mercanzie, comprate con i suoi soldi, e anche di donne e partì per Cipro. Lì giunto,
trovò molti altri mercanti, provenienti da tutte le parti del mondo, che parimenti commerciavano.
Dovette, dunque, svendere le sue mercanzie, dandole quasi per niente, e per questo andò in
rovina: essendo come sue due ultime possibilità la morte o la vita da ladro, vendette la nave per
comprarne una piccola e agile, che armò e navigò da vero e proprio corsaro.
Dopo circa un anno rubò e catturò tante navi dei turchi, non solo recuperando tutte le ricchezze
che aveva perduto facendo il mercante, ma raddoppiandole completamente: decise dunque che
quello che aveva gli doveva bastare e che voleva ritornare a casa sua.
Era già giunto nell’Arcipelago Egeo, quando ,una sera, si alzò lo scirocco, che, non solo gli impediva
di navigare, ma rendeva così agitato il mare che la sua nave non avrebbe potuto sopportarlo: si
rifugiò, allora, in una insenatura del mare protetta da un’isoletta, decidendo di aspettare lì il
momento più propizio al viaggio. Nella stessa zona giunsero a fatica (sempre per proteggersi) due
cocche Genovesi che venivano da Costantinopoli che, vedendo la piccola nave e capendo di chi
fosse, essendo anche loro ladri, decisero di derubarlo; e così accadde: armati e protetti, si
appropriarono dei beni della barchetta, catturarono Landolfo e poi la affondarono.
Il giorno dopo, mutatosi il vento, le cocche fecero vela verso ponente, viaggiando per tutta la
giornata favorevolmente . Sul far della sera, il vento cambiò, diventando fortissimo e gonfiando
oltremodo il mare, dividendo le due navi. Accadde il putiferio: la cocca su cui si trovava Landolfo si
sgretolò e tutti i suoi componenti cercarono disperatamente di salvarsi dalle onde aggrappandosi
alle prime cose che trovavano. Tra questi il povero Landolfo, avendo più volte invocato la morte
preferendo quella piuttosto che ritornare povero e malandato a casa, quando se la vide vicina ne
ebbe paura e ,come tutti gli altri, si aggrappò ad una tavola, ringraziando Dio che gliel’aveva
mandata, per impedire che affogasse. A cavallo di quella si mantenne come meglio poteva fino
all’alba, finché osservò (con paura) una cassa che veniva spinta verso di lui: nonostante gli sforzi
per allontanarla, quella colpì la tavola gettando il giovane in mare, il quale si ritrovò ad arrancare
fino ad aggrapparsi saldamente alla stessa cassa.
Il giorno dopo ,come piacque a Dio e al vento, diventato quasi una spugna, giunse alla spiaggia
dell’isola di Corfù, dove una povera donnetta lavava i piatti con l’acqua salata e la sabbia. Come
costei vide qualcosa che si avvicinava, cominciò a gridare spaventata. Landolfo non riusciva
nemmeno a parlare, ma non ce ne era bisogno: la donna lo aiutò e lo portò con sé (insieme a tutta
la cassa) nel villaggio, dove lo accudì curandolo e sfamandolo.
Il giovane pian piano si riprese; un giorno, mentre la donna non era in casa, decise di aprire la
cassa (senza molte aspettative) e in essa trovò un vero tesoro : molte pietre preziose, alcune
montate, altre sciolte, delle quali era buon intenditore. Vedendole, provò un grande conforto,
lodando Dio che non lo aveva voluto abbandonare. Poi, con molta prudenza, come uno che , in
poco tempo e per ben due volte aveva subito i colpi della fortuna, temendo che potesse essercene
anche una terza, si organizzò per potersi portare a casa sua quei tesori.
Avvolte le pietre in alcuni stracci, come meglio poté, disse alla buona donna che non aveva più
bisogno della cassa e che gliela donava in cambio di un sacco, se era possibile. La donna
l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì .
Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni
suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma,
prudentemente, non accennò alla cassa. Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e lo
rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare, dandogli una compagnia.
Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e
guardò, con più attenzione, le pietre che vi erano contenute. Le vide belle e preziose sopra ogni
sua aspettativa e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe
diventato ricco il doppio di quando era partito. Vendute le pietre, mandò fino a Corfù una buona
quantità di denaro alla donna che lo aveva salvato dalle acque del mare e lo stesso fece per coloro
che a Trani lo avevano aiutato. Si tenne il resto senza voler più fare il mercante e così visse
onorevolmente fino alla fine.

NOVELLA V= FIAMMETTA
Viveva a Perugia un giovane chiamato Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli, il quale, avendo
udito che a Napoli si vendevano degli ottimi cavalli, con nella borsa 500 fiorini d’oro, senza mai
essere uscito di casa, partì con altri mercanti.
Arrivato a destinazione, vide nella piazza del Mercato molti bei cavalli: iniziò dunque a trattare e,
per mostrare di essere in grado di pagare, mostrava in giro la sua borsa piena di denari, in quel
momento passò di lì una giovane siciliana bellissima, di facili costumi , che, senza essere notata,
vide bene la borsa e subito pensò che sarebbe stata meglio nelle sue mani.
Era con lei una vecchia anch’essa siciliana, la quale, come vide Andreuccio, gli corse incontro e lo
abbracciò affettuosamente, la giovane notò tutto ma rimase in silenzio. Andreuccio le fece una
gran festa, la invitò al suo albergo e se ne andò. La ragazza che aveva seguito tutta la scena,
pensando ad un piano per impadronirsi del denaro, si avvicinò alla vecchia e, cautamente,
cominciò a domandare chi fosse e da dove veniva il giovane, che cosa faceva lì e come lo
conosceva. La donna spiegò che era stata a lungo in Sicilia col padre di lui e poi aveva vissuto a
Perugia.
La giovane, dunque, si ingegnò per occupare di faccende la signora (affinché non andasse dal
ragazzo) per poi mandarla all’albergo (insieme a una servetta) dove Andreuccio sostava e dirgli che
lo voleva conoscere e lo aspettava a casa sua. Così avvenne: egli, lusingato, si guardò allo specchio
e, ritenendosi un bel ragazzo, pensò che la donna si era innamorata di lui, come se a Napoli non ci
fossero bei ragazzi; subito accettò l’invito e seguì la servetta, senza dire niente, all’albergo.
Appena arrivati alla casa (nella via malfamata di “Malpertugia”), la fantesca gridò “Ecco
Andreuccio”. La donna era sulla scala ad aspettarlo, era giovane, alta, con un viso bellissimo, con
abiti distinti. Gli corse incontro scendendo le scale, con le braccia aperte, piangendo, gli baciò la
fronte e ,con voce rotta dall’emozione, disse “ Andreuccio mio, tu sii il benvenuto”.
Egli fu molto sorpreso per l’accoglienza. La donna gli prese la mano e lo condusse prima in sala e
poi nella sua camera, piena di fiori, profumata, con un letto di lusso, molti abiti e ricchi arredi, per
cui ,il poverino credette di trovarsi alla presenza di una gran dama.
Postasi a sedere vicino al letto, tra lacrime e carezze, la donna gli raccontò che era sua sorella, ed
era felice di aver ritrovato uno dei suoi fratelli prima di morire: gli parlo delle peripezie del padre
Pietro (aggiungendo anche dettagli che includevano i familiari per rendere la storia più vera
possibile) che a Palermo aveva conosciuto quella che sarebbe diventata su madre, la quale,
insieme alla bambina, sarebbe stata lasciata in città senza più traccia del marito.
Successivamente la ragazza (per volere della madre) venne data in marito a un uomo di Agrigento,
con il quale scappò a Napoli (a causa delle guerre in Sicilia) dove entrambi vennero accolti e
ricompensati da Re Carlo. Il giovane, udendo il racconto tanto preciso e ricordandosi che,
veramente, il padre era stato per un certo tempo a Palermo, conoscendo i costumi dei giovani,
vedendo le lacrime, gli abbracci e gli onesti baci, ritenne ciò che la donna diceva assolutamente
vero. Meravigliato, dichiarò che mai il padre aveva accennato di lei e della madre. Pure era
felicissimo di aver trovato a Napoli dov’era solo e senza compagnia, un sorella così raffinata,
mentre lui era un piccolo mercante. Chiese, comunque, come aveva saputo chi era. Ella rispose
che la mattina glielo aveva detto una donna che aveva vissuto, per molto tempo, con il padre a
Palermo e poi era andata a vivere a Perugia.
Passarono poi le ore successive a chiacchierare e a mangiare finché, al momento del congedo,
astutamente ella sconsigliò al giovane di avventurarsi per le strade di Napoli, che erano malsicure
soprattutto per un forestiero, e lo invitò a dormire nella sua camera.
Rimasto solo, Andreuccio, per il gran caldo , si svestì ,e poggiò i suoi abiti ai piedi del letto,
rimanendo in gilè. Dovendo andare in bagno, chiese ad un fanciullo dove si trovava il gabinetto.
Seguendo le indicazioni, senza alcun sospetto, entrò e pose il piede su una tavola che si capovolse
facendolo cadere di sotto, dove si raccoglievano i liquami delle feci. Era caduto in un buco, come
ce ne sono spesso tra due case, su cui erano poste due travi, dove sedeva la gente che doveva
defecare. Trovandosi, dunque, nel buco, cominciò a chiamare lo scugnizzo che, invece, era andato
ad avvisare la donna.
Cercò più volte e disperatamente di rientrare in casa (bussando violentemente alla porta) ma,
ottenendo come unico risultato le minacce del vicinato infastidito, se ne andò senza meta.
Sentendo un gran puzzo provenire da sé stesso, desideroso di gettarsi in mare per lavarsi, girò a
sinistra e andò per la via Catalana. Per sfuggire a due uomini che venivano verso di lui con una
lanterna, si rifugiò in un casolare. Purtroppo, anche i due entrarono nel casolare. Uno si tolse di
dosso alcuni attrezzi che teneva sulle spalle e si guardò intorno, per individuare da dove proveniva
il gran puzzo che si sentiva. Trovato il poveretto, gli venne chiesto chi fosse e, quello, gli raccontò
tutta la sua disavventura: immediatamente capirono che si trattava di Buttafuoco, lo scarafaggio, e
gli dissero di rallegrarsi perché, se era vero che in quella notte aveva perso i denari, si era
comunque salvato la vita perché non era stato ammazzato da Buttafuoco, che era un furfante
matricolato. Mossi a compassione, lo invitarono ad unirsi a loro per aiutarli in ciò che dovevano
fare: gli spiegarono che in quel giorno era stato seppellito nel Duomo di Napoli l’arcivescovo
Filippo Minutolo, con ricchissimi ornamenti e con al dito un anello che valeva molto più dei suoi
500 fiorini , con un rubino che i due malandrini volevano rubare. Rivelarono il loro piano ad
Andreuccio e lo convinsero a collaborare.
Arrivati lì, decisero di far scendere Andreuccio nel pozzo accanto al Duomo per lavarlo e, con un
segnale, poi l’avrebbero fatto risalire su; mentre ciò accadeva però, due guardie si avvicinarono
per rinfrescarsi e i ladri, intimoriti, fuggirono lasciando il poveretto sotto. Al segnale di risalire, i
gendarmi, pensando che il secchio si fosse riempito, lo tirarono su, dando la possibilità al ragazzo
di uscire dal pozzo: per lo spavento, gli uomini fuggirono e Andreuccio raggiunse i compagni.
A mezzanotte, di soppiatto, andarono al Duomo, entrarono facilmente e si avvicinarono al
sepolcro che era di marmo e molto grande. Sollevarono il coperchio che era pesantissimo, in modo
che vi potesse entrare un uomo, e lo puntellarono. Bisognava che uno di loro entrasse nell’arca e
Andreuccio fu costretto ad entrarvi con le minacce ma, temendo che una volta portati fuori i
gioielli dell’arcivescovo i compagni sarebbero fuggiti lasciandolo nell’arca senza niente,
ricordandosi del prezioso anello, lo sfilò dal dito del religioso e lo infilò al suo; poi spogliò il morto
completamente e dette ai due tutto il resto, dicendo che non c’era più niente.
I ladroni allora (mentre insistevano) tirarono via il puntello facendo chiudere l’arca e lasciando il
ragazzo dentro, il quale, disperato, incominciò a piangere pensando alla morte che lo incombeva
Mentre si lamentava, sentì molte voci di gente che, come pensava, veniva a fare quello che aveva
già fatto con i suoi compagni. Anche costoro, una volta aperta e puntellata la tomba, cominciarono
a discutere su chi dovesse entrare, allora un prete, non temendo i morti, che riteneva inoffensivi,
si offrì volontario, si sporse sul bordo e mise le gambe giù, per potersi calare: Andreuccio dunque
approfittò della situazione per afferrare le gambe dell’uomo che, gridando, corse a gambe levate
insieme ai compagni, lasciando aperta la tomba. Il giovane, dunque, risalì e uscì dalla chiesa per la
via da cui era venuto. All’alba, con al dito l’anello di rubini, giunse, per caso, alla marina e al suo
albergo, dove trovò i suoi compagni e l’albergatore che, tutta la notte, erano stati in ansia per lui,
ai quali raccontò la sua avventura, senza accennare al rubino. L’oste gli consigliò di partire
immediatamente.Giunto a Perugia, vendette l’anello, dicendo che a Napoli, dove era andato a
comprare dei cavalli, aveva investito i suoi denari nell’acquisto di un anello.

NOVELLA VI= EMILIA


Dopo la morte di Federico II, imperatore del regno delle due Sicilie, fu incoronato al suo posto
Manfredi; questo, costretto a partire per combattere Carlo, affidò il regno ad Arrighetto Capece,
un nobile di Napoli, il quale, venuto a conoscenza della morte del re, non fidandosi della fedeltà
dei Siciliani, decise di fuggire dall’isola con la moglie incinta Beritola Caracciolo e il figlio Giuffredi,
ma i Siciliani lo scoprirono e lo imprigionano insieme ad altri servitori del vecchio re. Tuttavia, la
moglie riuscì a salvarsi a Lipari, dove partorì un altro maschio e lo chiamò Scacciato; da lì decisa a
ritornare a Napoli dalla sua famiglia, la donna si imbarcò su una nave con i figli e una balia, ma
sfortunatamente un forte vento li spinse a Ponza, dove decisero di rimanere finché non si fossero
placate le acque. Sull’isola Madama Beritola passò il tempo a piangere il marito ma, non appena si
allontanò dai suoi cari per questo, una galea di corsari genovesi rapì i suoi figli e la balia e rubò la
loro barca. Mentre Madama Beritola continuava le ricerche dei suoi cari, arrivò la sera e, per
rifugiarsi, entrò nella caverna dove era solita lamentarsi; la mattina dopo entrarono in quel luogo
una capriola con i suoi due figlioletti. Intenerita dai cuccioli, gli donò il suo latte anchora presente
dal recente parto e decise di convivere con loro finché non sarebbe morta su quell’isola.
Alcuni mesi più tardi, approdò sull’isola una nave pisana, sulla quale viaggiava Currado dei
Malaspina. Durante una battuta di caccia, questo inseguì i due caprioli fino alla grotta dove trovò
la donna che gli raccontò ciò che le era accaduto: allora Currado decise di imbarcarla con i caprioli
sulla sua nave, soprannominandola “Capriola” e tenendosela come damigella di sua moglie.
I corsari intanto avevano portato i figli di Beritola e la balia a Genova, dove erano stati dati come
bottino a Guasparin Doria. La balia, temendo per la vita dei bambini, gli ordinò di fingersi suoi figli
e cambiò il nome del più grande in Giannotto da Procida affinché non fosse riconosciuto. Raggiunti
i sedici anni, Giannotto iniziò ad imbarcarsi sulle galee del suo. Un giorno arrivò in Lunigiana e lì si
mise al servizio di Currado Malaspina della cui figlia ben presto si innamorò; ma dopo lunghi mesi
furono scoperti da Currado che, grazie alle preghiere di sua moglie, invece di ucciderli, li incarcerò.
Mentre ciò accadeva, il re Pietro d’Aragona liberò la Siciliane, venutolo a sapere Giannotto, decise
di rivelare la sua vera identità al carceriere, che subito raccontò tutto a Currado. Quest’ultimo,
memore del racconto di Beritola, liberò il ragazzo e la figlia e permise loro di sposarsi. Dopo che
Beritola ebbe riconosciuto il figlio, Currado mandò due ambasciatori a Genova e in Sicilia per aver
notizie di Scacciato e di Arrighetto. Quando arrivò a Genova, l’ambasciatore rivelò la vera identità
di Scacciato a Guasparin Doria, il quale, gli diede in moglie la figlia per scusarsi per averlo trattato
come un servo. Riunitisi tutti da Currado per festeggiare i ritrovati parenti e le nozze dei due
fratelli, arrivò durante il pasto, l’altro ambasciatore e raccontò che Arrighetto era vivo e che era
stato liberato dai Siciliani una volta scacciato Carlo d’Angiò. Dopo i festeggiamenti, partirono tutti
per Palermo dove, accolti da Arrighetto fecero una grande festa e vissero lì felici per anni.

NOVELLA VII= PANFILO


Il sultano di Babilonia Beminedab, per ringraziare il re del Garbo di averlo soccorso durante una
battaglia, decise di dargli in sposa la sua bellissima figlia Alatiel. Per questo, la imbarcò insieme ad
altre damigelle su una nave che partiva da Alessandria. Erano quasi giunte a termine del loro
viaggio, quando dei forti venti spinsero la nave fuori rotta tanto da farla arenare vicino Maiorca.
Alatiel, la mattina seguente fu fortunatamente aiutata da Pericon da Visalgo che, subito
s’innamorò della bella fanciulla e la portò nel suo palazzo dove la fece ubriacare. E così trascorse
con la giovine una felice nottata. Anche il fratello di Pericon, Marato, s’innamorò della ragazza.
Essendo approdata sull’isola una nave di due fratelli genovesi, si accordò con loro per rapirla,
uccidere il fratello e poi fuggire con la ragazza. Così accadde. Anche i due fratelli però
s’innamorarono di Alatiel e, gettato Marato in mare, cominciarono a litigare violentemente e così
combatterono fino alla morte di uno dei due. Alatiel e il genovese sopravissuto giunsero così a
Chiarenza dove presto si sparse la notizia della bellezza della ragazza, tanto che il principe
dell’Acaia la rapì e la portò nel suo palazzo. Anche il duca d’Atene volle vederla e se ne innamorò.
Il principe però, non disposto a lasciare al duca la ragazza, si accordò con un certo Cuiriaci per
uccidere il principe e rapire Alatiel. Soltanto due giorni dopo la fuga del duca e della ragazza ad
Atene, fu ritrovato il corpo del principe insieme a quello di Cuiriaci. Fu così che il fratello del
principe organizzò un piccolo esercito e dichiarò guerra al duca. Allora quest’ultimo chiese aiuto
all’Imperatore di Costantinopoli, che inviò oltre al suo esercito i suoi figli: Costanzio e Manovello.
Anche Costanzio si innamorò di Alatiel e, lasciato il campo di battaglia, fuggì con la ragazza su una
piccola nave a Chios dove rimasero fintantoché la ragazza si innamorò di Costanzio. Ma Osbech, re
dei Turchi, rapì Alatiel per sposarla. Saputo questo, l’Imperatore di Costantinopoli chiese aiuto al
re della Cappadocia che uccise Osbech in battaglia. Alora Antioco, essendo stato raccomandato
dall’amico Osbech, di proteggere Alatiel, fuggì con questa e un suo amico a Rodi. Lì però Antioco si
ammalò e in punto di morte chiese al giovane di proteggere la sua donna. Trasferitisi a Cipro,
Alatiel riconobbe Antigono di Famagosta, servo del sultano di Babilonia suo padre. Si accordò con
questo per tornare in patria da suo padre al quale disse che dopo il naufragio in Provenza, era
stata soccorsa da quattro cavalieri che l’avevano portata in un monastero di benedettine dove era
rimasta per molto tempo fingendo di esser figlia di un mercante di Cipro per paura di essere
cacciata a causa della sua religione. Alla fine, però era riuscita ad aggregarsi ad un gruppo di
pellegrini diretti a Gerusalemme e avendo fatto scalo a Baffa aveva incontrato Antigono e con lui
era ritornata a Babilonia. Il sultano, udite queste parole, accolse felicemente la figlia e la fece
sposare con il principe del Garbo come d’accordo inizialmente; la prima notte di nozze, Alatiel gli
fece credere di essere ancora vergine.
NOVELLA VIII= ELISSA
Durante la guerra tra Germani e Francesi, il re di Francia lasciò il comando a Gualtieri conte
d’Anversa. Col tempo la regina s’innamorò molto del Conte e un giorno, si dichiarò. Ma, essendo il
conte molto fedele al re, rifiutò la donna, che, per vendicarsi, si stracciò i vestiti e gridò fingendo
che il conte stesse abusando di lei. Il conte fu allora costretto a fuggire insieme ai figli Luigi e
Violante in Inghilterra. Lì, una nobile signora moglie di un maresciallo del re d’Inghilterra notò la
piccola Violante, che, per paura della taglia che il re aveva posto su loro, era stata chiamata
Giannetta, e chiese al conte di poterla portare in casa sua per crescerla e averla come damigella. Il
padre anche se a malincuore acconsentì e si separò dalla figlia, mentre con Perroto, così era stato
rinominato il figlio, andò elemosinando in Galles. Lì, presso un maresciallo del re, assistevano agli
allenamenti d’equitazione dei ragazzi. Un giorno il maresciallo, propose al conte di prender con sé
Perotto e farlo crescere come suo erede. Allora il conte si trasferì in Irlanda presso un cavaliere e lì
visse molto tempo servendolo come garzone. Nel frattempo Giacchetto, il figlio dei signori presso
cui Giannetta lavorava, si innamorò perdutamente della fanciulla. Ma quando Giannetta raggiunse
l’età giusta per sposarsi, la madre del ragazzo, non conoscendo i sentimenti del figlio, cominciò a
darsi da fare per trovare un buon marito alla ragazza, al ché il figlio si ammalò. Nessun medico
riusciva a capire ciò che causasse il malore del ragazzo, ma un giorno, mentre un medico tastava il
polso dell’ammalato, Giannetta entrò nella stanza e subito i battiti del ragazzo aumentarono. Il
medico intuì ciò di cui soffriva il ragazzo e lo raccontò alla madre, che, acconsentì alle nozze dei
due ragazzi. Il che avvenne dopo poco tempo. In Galles, invece si abbatté una pestilenza e
fortunatamente Perotto riuscì a salvarsi insieme con una contadina, ma il maresciallo e il resto
della famiglia morì lasciando a lui tutti i possedimenti. Allora Perotto, innamoratosi della contadina
la sposò e ottenne dal re il titolo di maresciallo. Passati 18 anni da quando si era trasferito in
Irlanda, il conte decise di andare a vedere come stavano i figli. Andò prima in Galles dove, senza
farsi riconoscere, scoprì la felice situazione del figlio Luigi poi, si recò a Londra dalla figlia, anche lì
non facendosi riconoscere, dove scoprì che Violante aveva avuto dei bei bambini. Un giorno
elemosinando davanti la loro casa fu accolto dentro per riscaldarsi e subito i figli di Giannetta lo
abbracciarono e lo coccolarono pur non sapendo chi fosse veramente. Con la morte del vecchio re
di Francia e l’ascesa del nuovo, la guerra tra le due potenze si inasprì a tal punto che il monarca
francese dovette chiedere aiuto al re d’Inghilterra, il quale inviò in guerra i suoi marescialli.
Dunque Perotto, Giacchetto e il conte che serviva il genero in qualità di scudiero furono costretti a
partire. Mentre la guerra infuriava, la regina di Francia si ammalò e in punto di morte chiamò il
vescovo per l’ultima confessione, al quale rivelò il crudele gesto che aveva compiuto contro il
conte d’Anversa. Questa notizia giunse rapidamente al nuovo re che proclamò una grida nella
quale si diceva che chiunque avesse riportato al cospetto del re il conte e i suoi figli, avrebbe avuto
come ricompensa una grande somma di denaro. Saputo ciò il conte subito rivelò a Giannetto e
Perotto la sua identità e disse a Giacchetto di portarlo dal re perché ricevesse la ricompensa come
dote per la figlia. E così fu: Giacchetto ricevette il denaro e al conte furono restituite le proprie
terre insieme ad altri doni.

NOVELLA IX= FILOMENA


A Parigi in una locanda vi erano molti mercanti italiani che discorrevano sui loro affari e sul fatto
che, se avessero avuto l’occasione, non avrebbero esitato a tradire le proprie mogli con una
“scappatella”, poiché essi ritenevano che anch’esse lo facessero. Soltanto uno, di nome Bernabò
Lomellin da Genova non concordava su ciò: infatti, si fidava ciecamente ed era così innamorato di
sua moglie Ginevra (Zinevra nel testo) che non l’avrebbe mai tradita e che lei avrebbe fatto
altrettanto. Udendo questo, un altro mercante, Ambruogiuolo da Piacenza, volle dimostrare che,
come tutte le donne, anche Ginevra era volubile, scommettendo con Bernabò che l’avrebbe
sedotta in tre mesi e che gli avrebbe portato le prove di ciò che aveva fatto; la posta era 5000
fiorini d’oro se avrebbe vinto, altrimenti ne avrebbe dati 1000 a Bernabò. Fatto ciò, subito partì
per Genova e trovò la casa della donna. Accordatosi con una domestica, si nascose in un baule e si
fece portare nella stanza da letto di Ginevra. La notte, usciva dal baule, memorizzava la stanza,
rubava alcuni anelli e vestiti della donna. Una sera, uscito come suo solito dal baule, scoprì Ginevra
e notò che sotto la mammella sinistra aveva un neo un po’ grande con dei peli biondi intorno;
essendo questo sufficiente per vincere la scommessa, la mattina seguente uscì dal baule e ritornò
di corsa a Parigi, dove, raccontato ciò che aveva visto e mostrato a Bernabò ciò che aveva rubato,
non gli rimase che intascare la posta. A quel punto al povero Bernabò non rimase che ritornare a
Genova e, gonfio d’ira, stando da alcuni suoi parenti incaricare un suo amico di uccidere Ginevra
per punirla così dell’adulterio che non aveva commesso. Secondo gli ordini di Bernabò, quello
condusse Ginevra in un luogo isolato e stava per ucciderla ma sotto le preghiere della donna, gli
raccontò l’accaduto e non la uccise; si fece però dare i suoi vestiti per portarli a Bernabò in modo
da fargli credere che l’aveva uccisa. Ginevra subito fuggì da Genova, si travestì da maschio
tagliandosi i capelli e schiacciando il seno e si imbarcò sulla nave del catalano En Cararh come
marinaio, facendosi chiamare Sicuran de Finale. Ben presto riuscì ad accattivarsi il capitano ed ad
avere incarichi più importanti. Un giorno la sua nave approdò ad Alessandria per consegnare un
suo carico al sultano, al quale, piacendogli molto le capacità di Silurano, convinse En Cararh a
lasciarglielo ai suoi ordini. Dopo poco tempo, a Silurano fu affidato il compito di vigilare durante i
mercati tra cristiani e arabi in Acri; mentre perlustrava i mercati, notò che un mercante
(Ambruogiuolo da Piacenza) aveva dei vestiti che le appartenevano, subito gli chiese come faceva
ad averli; Ambruogiuolo rise e gli raccontò ciò che aveva già raccontato a Bernabò. Allora Silurano,
fingendo di apprezzare quella storia, portò Ambruogiuolo affinché la raccontasse al sultano e fece
anche convocare Bernabò, anch’egli lì per affari. Allora smascherò l’inganno del mercante
facendolo minacciare dal sultano e rivelando la sua vera identità al marito e agli altri. Il sultano
allora obbligò Ambruogiuolo a risarcire Bernabò e inoltre regalò alla coppia ritrovata ori, gioielli e
molti 10000 denari: la coppia poté così ritornare a Genova. Ambruogiuolo fu invece cosparso di
miele, legato ad un palo e lasciato nel deserto alla mercé degli insetti.

NOVELLA X= DIONEO
Un giudice pisano di nome Ricciardo di Chinzica era uomo fisicamente gracile. Piuttosto ricco di
famiglia, volle sposarsi una donna molto giovane e bella di nome Bartolomea Gualandi. La festa
nuziale fu fastosa, ma già dall'inizio questo marito mostrò scarsa propensione a frequentare la
moglie. Il giudice, allora, sentendosi a disagio, cominciò a spiegare alla moglie come certi giorni del
calendario vietassero le intimità coniugali; ad essi aggiungeva i giorni di digiuno, le vigilie di
apostoli e altri santi; i venerdì, i sabati e la domenica, tutta quanta la quaresima e persino i giorni
in cui la luna occupava determinate posizioni. Tutto questo rattristava la sposa, che era anche
attentamente sorvegliata dal marito, il quale temeva che qualche altro uomo le insegnasse un
calendario senza tutte quelle feste. Ora, un giorno estivo di grande calura, il giudice Ricciardo
organizzò una bella gita di pesca; su una barca salirono Ricciardo e i pescatori, mentre sopra
un'altra si sistemarono alcune donne assieme alla giovane Bartolomea. Nell'entusiasmo per la
pesca si allontanarono un po' troppo dalla riva e furono sorpresi dalla nave corsara di Paganino da
Mare che, bloccata la barca dove erano le donne, e, notata la bella Bartolomea, la sequestrò sotto
gli occhi di messer Ricciardo che non poté far nulla per evitare la cattura della moglie. Tornato a
Pisa il giudice si diede molto da fare per avere notizie della moglie scomparsa, ma nulla. Costei, nel
frattempo, era stata portata afflitta e piangente fino a Monaco, sulla Costa Azzurra, che era
appunto la sede dei pirati. Paganino, intanto, cercava di consolarla e tanto bene vi riuscì che la
sera stessa Bartolomea dimenticò il giudice e le sue leggi e cominciò a vivere lietamente con
Paganino il pirata. Dopo qualche tempo messer Ricciardo venne finalmente a sapere dove si
trovava la moglie e, imbarcatosi, raggiunse Monaco nella ferma speranza di poter riavere la
moglie, pagando anche un costosissimo riscatto. Incontratosi con Paganino, messer Ricciardo
venne presto al dunque e Paganino disse che, se veramente la donna che lui aveva sequestrato nel
mare di Pisa era sua moglie, pagando il riscatto da lui deciso, messer Ricciardo, poteva
riprendersela liberamente. Ricciardo accettò, sicuro che la moglie, rivedendolo, gli avrebbe certo
gettato le braccia al collo; invece, giunti in casa di Paganino, Bartolomea guardò il marito facendo
finta di non riconoscerlo. Lo stupefatto Ricciardo, colpito da quell'indifferenza, insistette con la
donna affinché riconoscesse in lui il suo legittimo marito, ma lei rispose che sarebbe stato poco
conveniente guardare troppo un uomo sconosciuto, ma che, per quanto guardasse, non
riconosceva nessun marito. Ricciardo allora pensò che la donna facesse così perché temeva
Paganino che era lì presente e perciò pregò il padrone di casa di farlo parlare con la moglie a
quattrocchi. Paganino acconsentì e i due andarono nella camera della donna dove Ricciardo, con
tono appassionato e affettuoso, insistette perché la moglie lo riconoscesse. Bartolomea
inizialmente rise in seguito gli rivelò di averlo riconosciuto da subito, ma gli rimproverò anche
sfrontatamente il fatto che lui, con la storia delle vigilie, della quaresima e delle altre festività,
l'aveva costantemente ignorata, gli ricordò, inoltre, che, se avesse imposto tante festività a coloro
che lavoravano le sue terre, non avrebbe raccolto neanche un chicco di grano. E gli disse anche
che si era imbattuta in un uomo gagliardo che non conosceva festività di sorta, che era sempre
presente con la sua donna e che lei era ben lieta di vivere così; i digiuni e le festività religiose le
avrebbe rispettate quando fosse stata vecchia. Messer Ricciardo, scandalizzato da tanta
franchezza, provò a insistere ancora, ricordandole i doveri di moglie e le promise che, se fosse
tornata a Pisa con lui, avrebbe trovato un marito del tutto diverso, capace di farla contenta.
Bartolomea rispose che il suo onore era affar suo e si chiese anche come avrebbe potuto mai
cambiare suo marito, visto che era un uomo freddo, indifferente alla sua sposa e che, per quanto
si fosse ingegnato, sarebbe stato sempre un disastro. Lei se ne sarebbe stata col suo Paganino e,
se poi fosse stata abbandonata, a Pisa non sarebbe tornata di sicuro, perché, tanto, qualunque
soluzione sarebbe stata sempre più vantaggiosa di quella di un ritorno al talamo maritale; di
conseguenza lo invitava a ripartirsene per Pisa da dove era venuto. Ricciardo se ne tornò così a
Pisa dove gli venne una specie di fissazione e, quando incontrava qualche conoscente, si
lamentava con lui, che una giovane donna non vuole mai rispettare le solennità religiose; questo
stato d'animo lo fece ammalare di un male che lo portò presto a morte. Paganino, saputa la cosa,
fu così lieto di sposare regolarmente la vedova e i due, finché poterono, non rispettarono mai le
festività religiose.

TERZA
GIORNATA
Neifile, dopo aver svegliato tutti e averli sollecitati a prepararsi, si mise in cammino insieme ai suoi
compagni e compagne, conducendoli in un bellissimo palazzo posto su una piccola altura: lì, un
maggiordomo, aveva disposto su una tavolata (situata sulla terrazza) un grande banchetto di cibi e
bevande deliziose. La brigata era estasiata da tutto ciò, ma niente fu a confronto con lo spettacolo
che avrebbero visto di lì a poco: venne fatto aprire infatti un giardino che costeggiava l’intera
struttura, pieno di bellissimi colori, alberi, fiori e animali. I giovani lo paragonarono al Paradiso.
A mattinata inoltrata, fecero mettere delle tavole intorno alla fontana e, dopo aver cantato e
ballato, andarono a mangiare; poi, poiché faceva caldo, alcuni andarono a riposare e altri
preferirono trattenersi in giardino a leggere o a giocare a scacchi.
Verso le tre del pomeriggio, lavatisi il viso con l’acqua fredda, riunitisi intorno alla fontana,
aspettarono il comando della regina per cominciare a raccontare.
Tema della terza giornata= chi con abilità riesce a ottenere una cosa desiderata o ne recupera
una perduta.

NOVELLA I = FILOSTRATO
Esisteva (e attualmente esiste) un monastero molto famoso per la gran religiosità, all’interno del
quale vi erano solamente 8 donne con la loro badessa e un giardiniere; quest’ultimo, insoddisfatto
del proprio salario, se ne tornò a casa. Questa notizia fu appresa da varie persone tra cui un bel
giovane di nome Masetto che, volendo sapere più dettagli, chiese all’uomo il motivo della sua
decisione, sentendosi come risposta che la causa principale era il comportamento antipatico e
maleducato delle suore. Sapendo ciò e intuendo del bisogno di un nuovo giardiniere nel
monastero, decise di partire e (per evitare che il suo gradevole aspetto potesse non giovare) si
finse muto. Così fu assunto e le monache, solite a prenderlo in giro, scherzavano tra di loro sulla
sua mutezza dicendo cose spregevoli (pensando di non essere capite).
Un giorno però, mentre Masetto lavorava, una di loro confessò ad una sua compagna che quel
giovane la faceva riflettere su quanto aveva sentito dire riguardo il piacere dell’atto sessuale tra
l’uomo e la donna, invogliandola a sperimentare e capire cosa si provasse proprio con l’ortolano.
Così dunque accadde e, non solo per la prima monaca, ma per tutte le altre. Il giovane lasciava
tranquillamente fare finché, una mattina, stanco dall’aver praticato per tutta la notte, decise di
riposarsi all’ombra di un albero: la badessa, passando di lì, lo vide disteso con il vento che gli
muoveva i vestiti e, improvvisamente, venne presa anche lei dal desiderio che fino a quel
momento le sue compagne avevano appagato abbondantemente.
Anche loro due consumarono ma Masetto, stanco e incapace di soddisfare tutte quante, confessò
alla donna che non era muto (il dono della parola gli sarebbe riapparso in quel momento) minacciò
di fare uno scandalo se non lo avessero promosso castaldo: così successe e tutto venne svelato
solo dopo la morte della badessa, quando il giovane era ormai diventato vecchio e ricco.

NOVELLA II = PAMPINEA
Nella città di Pavia governava il re dei Longobardi Agilulf, affiancato dalla moglie Teodolinda
(vedova del re Autari); di quest’ultima se ne innamorò perdutamente il loro palafreniere, il quale,
pur di volersi avvicinare alla donna consapevole di non avere speranze, decise di giocare d’astuzia.
Spiò il re per molte notti e vide che andava dalla regina con un mantello nero e una torcia sempre
alla stessa ora, così una notte si vestì come il re, andò dalla regina un po’ prima del solito ed ebbe
un rapporto con lei. Quando il suo vero compagno tornò, la regina chiese perché fosse ritornato:
lui rispose di non averlo fatto, capendo che c’era stato un tradimento e volendo scoprire a tutti i
costi chi fosse stato. Immaginando che il colpevole aveva ancora il cuore che gli batteva forte
dall’emozione, entrò nel dormitorio e testò a tutti il battito: il palafreniere temeva di essere
beccato e, di conseguenza, di essere punito mortalmente. Quando il re gli si avvicinò e senti i
battiti veloci, gli tagliò una ciocca di capelli così da riconoscerlo l’indomani. Ma l’uomo, giocando
nuovamente d’astuzia, decise di tagliare allo stesso modo i capelli di tutti gli altri servitori, così da
riuscire a scampare e non essere sgamato.

NOVELLA III = FILOMENA


Filomena cominciò dicendo che voleva raccontare una beffa che una bella donna fece ad un
religioso importante. Considerò, inizialmente, che talvolta i religiosi erano i più stolti tra gli uomini
e credevano di sapere più degli altri. Erano avidi, andavano dove potevano trovare da mangiare e
potevano essere beffati non soltanto dagli uomini ma anche da qualcuna delle donne.
Continuò poi raccontando di una donna nobile di Firenze aveva sposato un artigiano della lana
ricchissimo dal quale, però, non riceveva abbastanza attenzioni (parlando solo di come si
producevano i tessuti) e, stimandolo anche inferiore a lei per il diverso rango, era intenzionata a
conoscere qualcun altro: avvenne infatti che si innamorò di un uomo di mezz’età della zona.
Avendo notato che lui era amico di un frate, decise di sfruttare il ruolo di quest’ultimo per
mandare i segnali del suo interesse all’uomo: il giorno dopo questa andò dal religioso a confessarsi
e disse che questo suo amico la importunava anche se lei era sposata; quando il frate rivide
l'uomo, lo redarguì per il gesto ma egli si meravigliò perché non aveva mai fatto una cosa di simile
e così andò sotto casa della donna a chiedere spiegazioni e quella si scusò e mostrò a lui tutto il
suo interesse e provò a sedurlo. Una volta tornato a casa, la donna ripropose di nuovo la stessa
storiella, questa volta però lamentandosi con il religioso che quello gli aveva mandato una servetta
con in dono una borsa e una cintura… come se lei non ne avesse già abbastanza!
Li diede dunque al frate affinchè potesse crederle ma, soprattutto, affinché quest’ultimo
rimproverasse nuovamente l’uomo e, così, contribuisse a facilitare le comunicazioni e gli scambi
dei due amanti. Infine, la signora si raggiunse e si sfogò (per l’ultima volta) con il chierico dicendo
che quell’uomo si era persino arrampicato sull’albero vicino alla sua finestra per spiarla e, quando
l’amante fu richiamato nuovamente dal frate per la solita tiritera, gli chiese come mai si stesse
adirando tanto, ottenendo tutte le informazioni che gli servivano per raggiungere l’amata.
E così fu: i due si incontrarono quella stessa notte e passarono tanto tempo (e tante altre serate) a
sollazzare insieme, ridendo della stupidità del religioso.

NOVELLA IV = PANFILO
Un uomo chiamato Puccio di Rinieri era molto devoto al Signore e dal momento che non poteva
avere figli volle farsi terziario dell’ordine francescano: andava sempre in chiesa a seguire le messe
e le preghiere. La moglie Isabetta, donna molto bella, era al suo fianco ma non riceveva attenzioni
tali da essere soddisfatta dalla presenza del marito, che parlava solo di Dio e della religione.
Don Puccio un giorno conobbe un monaco di nome Don Felice, con cui, avendo stretto una certa
amicizia, spesso condivideva pranzi e cene invitandolo a casa propria. I due religiosi passavano
tanto tempo insieme, a tal punto che Don Felice, vedendo spesso Isabetta che preparava loro la
cena e li serviva, se ne invaghì. Pian piano egli le se avvicinò e la sedusse, intuendo che la donna si
sarebbe lasciata andare alle sue movenze; dunque escogitò un piano per far si che i due amanti
potessero passare le notti insieme: il monaco disse a Puccio che poteva indicargli una penitenza
(che facevano anche il papa e i prelati) per raggiungere il Paradiso più velocemente e cioè stare in
preghiera tutta la notte in una stessa stanza della casa da dove si vedesse il cielo, sdraiato per terra
e con le mani a guisa di crocifisso. Quest’ultimo scioccamente accettò, dando via libera ai due di
sollazzare tutte le notti, ridendo e scherzando dell’ingenuità di Puccio.

NOVELLA V = ELLISSA
A Pistoia viveva un uomo ricco ma avarissimo chiamato messer Francesco. Dovendo partire per
Milano e essendo lui un cavaliere, si informò su chi potesse essere il miglior rifornitore di cavalli,
avendo bisogno di un bel garzone; fu scelto un giovane (di umile origine ma ricco) di nome
Riccardo, chiamato “Il Zima”. Quest’ultimo venne contattato da messer Francesco per ottenere
l’animale: a questa richiesta il giovane acconsentì, chiedendogli in cambio però la possibilità di
parlare con sua moglie (di cui era follemente innamorato). Il colloquio doveva avvenire alla
presenza del marito, ma separatamente, così che il Zima potesse essere ascoltato solo da lei: il
cavaliere, spinto dall’avarizia, sperando di ingannare il giovane, andò dalla moglie ,le spiegò tutto e
le impose di ascoltare, ma di non rispondere assolutamente alle parole dell’uomo.
La donna gradì poco la cosa, ma acconsentì per compiacere il marito e lo seguì per udire ciò che
costui voleva dirle. Il Zima le si sedette accanto e le confessò tutto il suo amore, dichiarandosi suo
umile servitore e affermando che se non fosse stato ricambiato sarebbe morto e lei sarebbe stata
un’omicida. Lei non poteva dire nulla, ma dal suo sguardo il giovane capì che ricambiava i
sentimenti e allora, per riuscire a comunicare comunque, seguì un nuovo sistema: lui parlò per lei,
dicendo che se avesse voluto incontrarlo, avrebbe dovuto aspettare che il marito fosse partito per
Milano per poi stendere dalla finestra della camera due asciugamani.
Poi Zima riandò dal messere e gli consegnò il cavallo come previsto. La donna, nel frattempo,
rifletté su ciò che il giovane gli aveva detto e pensò che non era il caso di perdere la sua giovinezza
nell’attesa di un marito che era andato a Milano, sarebbe ritornato dopo sei mesi e l’avrebbe
risarcita da vecchia; inoltre, difficilmente avrebbe trovato un amante come Zima, era tutta sola,
nessuno avrebbe saputo nulla, ed ,infine, era meglio fare una cosa e pentirsi ,piuttosto che non
farla e pentirsene lo stesso.
Dopo queste riflessioni, pose due asciugamani alla finestra che affacciava sul giardino, come Zima
aveva detto. Vedendoli, lietissimo, la notte seguente, l’uomo andò alla porta del giardino, la trovò
aperta, entrò in casa dove trovò la gentildonna che lo aspettava e che lo ricevette con grandissima
festa. Abbracciandola e baciandola centomila volte, Zima la seguì per le scale e, senza indugio, si
coricarono e fecero l’amore appassionatamente. E quella fu la prima, ma non l’ultima volta,
perché si incontrarono, con gran piacere reciproco, molte altre volte, sia quando il marito era a
Milano, sia dopo che era tornato.

NOVELLA VI = FIAMMETTA
A Napoli, città antichissima, la più allegra, certamente, di tutta l’Italia, viveva un giovane di nobile
origine , il cui nome era Ricciardo Minutolo. Egli, sebbene avesse una moglie giovane e bella, si
innamorò follemente di un’altra donna, che superava in bellezza tutte le altre donne napoletane:
si chiamava Catella ed era moglie di un gentiluomo di nome Filippello Sighinolfi, da lei molto
amato. Inizialmente era disperato in quanto lei fosse del tutto irraggiungibile ma, in seguito,
conoscendo il profondo tratto di gelosia che contraddistingueva la donna, mise a punto un piano:
quando si ritrovarono a una festa estiva tipica napoletana, Ricciardo fece una battuta scherzosa su
un certo amore di Filippello, il marito di Catella, la quale, rosa dalla gelosia, pregò il giovane di
essere più chiaro. Egli si fece giurare che non avrebbe rivelato nulla né al marito, né ad altri. Poi le
confessò che sapeva che Filippello voleva possedere sua moglie, come lei stessa gli aveva rivelato.
Quella stessa mattina aveva visto la moglie parlare con una femmina, mandata da Filippello, per
fissarle un appuntamento ad un bagno al mare, pregandola vivamente di andare.
Ricciardo invitava, dunque, Catella, se ne aveva voglia, ad andare, verso le tre del pomeriggio,
quando la gente dormiva, a quel bagno, dove sua moglie aveva convenuto di incontrarsi con
Filippello: con il divieto di Ricciardo nei confronti della moglie di andare nel luogo prestabilito, si
sarebbe invece presentata Catella, mettendo in forte imbarazzo Filippello.

NOVELLA VII = EMILIA


C’era a Firenze un giovane di nome Tedaldo che amava Monna Ermellina, moglie di Aldobrandino
Palermini, la quale ricambiava questo amore però un giorno non ne volle più sapere di lui. Tedaldo
non capendo il perché, se ne rattristò molto e fuggì ad Ancona al servizio di un signore, però
sentendo cantare una canzone che lui una volta aveva dedicato alla sua amata, gli tornarono in
mente i bei ricordi e tornò a Firenze. Nel frattempo, si era sparsa la voce della sua morte e lui capì
che si trattava di Faziuolo al quale somigliava molto, allora si travestì da pellegrino per non essere
riconosciuto e introdottosi in casa di lei si fece credere religioso e la costrinse a confessare perché
aveva costretto all’esilio Tedaldo. Quando questa gli disse che era colpa di un frate che le aveva
detto di on tradire il marito, questi gli rispose con abile discorso che era molto più grave mandare
in esilio una persona che tradire, e vedendola pentita si tolse il mantello e si manifestò a lei e dopo
le spiegazioni dovute si riconciliarono e ritornarono amanti come una volta.
NOVELLA VIII = LAURETTA
Ci fu un tempo e c’era ancora in Toscana, una badia ,in un luogo poco frequentato, di cui era abate
un monaco, santissimo in tutto, fuorché nelle donne, per le quali aveva un debole, che nessuno
sospettava, tanta era la sua discrezione. Costui, divenuto molto amico di un ricchissimo contadino
di nome Ferondo, entrò con lui in grande familiarità. Frequentando il villico, l’abate conobbe la
bellissima moglie di lui, se ne innamorò follemente e pensava a lei giorno e notte.
Ma Ferondo, che era nelle altre cose un sempliciotto, era attentissimo nel sorvegliare la moglie;
pure l’abate condusse i discorsi in tal modo che alla donna venne il desiderio di confessarsi da lui e
il marito acconsentì. Andata dal religioso per confessarsi, la donna, sedutasi ai piedi di lui, si
cominciò a lagnare della stoltezza e della gelosia del marito, il quale era così insopportabile che
non poteva più vivere con lui, e voleva un consiglio.
L’abate rispose che se era difficile avere per marito un matto, lo era ancora di più averne uno
geloso: dunque la soluzione sarebbe stata quella di farlo morire, purificarsi in Purgatorio e dopo
con determinate preghiere sarebbe ritornato in vita, però in cambio del segreto lei doveva donare
al frate il suo amore; la donna era titubante inizialmente ma poi, riuscendo a fidarsi delle sue
parole, accettò. Intanto il marito fu drogato, svestito dai suoi abiti scambiati con quelli dell’abate e
lasciato in una caverna per un certo periodo, in cui, nel frattempo, i due amanti si divertivano
molto.
Quando si risvegliò, il monaco lo andò a trovare per donargli il cibo (dicendogli che erano le offerte
che la moglie gli aveva posto sulla tomba) e per castigarlo con delle frustate, spiegandogli che il
motivo della sua punizione era perché Dio gli aveva ordinato di farlo, in quanto era stato un marito
malvagio; tutto questo durò 10 mesi, finche la donna non rimase incinta del religioso.
Solo a questo punto, per evitare drammi, si decise di “riportare in vita” il marito: il frate dunque
andò da lui comunicandogli che; sempre per volere di Dio, egli doveva ritornare sulla terra, dove lo
avrebbe aspettato la moglie con un altro figlio e lui sarebbe stato un uomo migliore.
Lui felicissimo ritornò a casa, dove per un attimo lo scambiarono per fantasma: successivamente
però tutto andò per il meglio e i due non smisero mai di ringraziare il frate

NOVELLA IX = NEIFILE
Nel regno di Francia visse un gentiluomo, chiamato Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, poiché
era malato, aveva sempre con sé un medico, di nome Gerardo di Nerbona.; il conte aveva un
figlioletto, Beltramo, bellissimo e simpatico, il quale veniva allevato con altri fanciulli tra cui
Giletta, figlia del medico, la quale fin da piccola provò per lui un grandissimo amore.
Il conte, morendo, affidò al re il figlio: la fanciulla dunque dovette vedere il suo amore allontanarsi
finché, rimasta anche lei sola e udendo la notizia che al Re serviva un medico capace di curare una
fistole, ne approfittò subito per partire e rincontrare Beltramo.
Arrivata lì e presentatasi come infermiera e, soprattutto, figlia del famoso medico Gerardo,
assicurò il re di poterlo guarire in 8 giorni e che, se ci fosse riuscito, lui le avrebbe dovuto
promettere come premio un marito: egli, vedendola bella e giovane, accettò la richiesta.
L’operazione avvenne con successo e Giletta chiese in sposo Beltramo: quest’ultimo riteneva che
lei fosse una ragazza graziosa, ma di rango inferiore; non potendo però rifiutare fli ordini del suo
re, acconsentì al matrimonio e, poco dopo le nozze, partì per Firenze con l’esercito.
La donna, rimasta da sola per un po’ di tempo, chiese sue notizie e i suoi sudditi le raccontarono
che lui avrebbe accolto una nuova moglie (perché ormai lei non la amava più) solo se questa
avesse indossato un anello magico che lui non si toglieva mai e gli avesse donato un figlio.
Giletta dunque arrivò in Toscana, scoprendo l’identità della donna (povera) di cui Beltramo era
innamorato, la convinse a sedurlo per ottenere l’anello e passare una notte insieme: il piano di
Giletta era dunque quello di recuperare l’accessorio attraverso la poveretta e di scambiarsi con lei
nel moneto in cui sarebbe dovuta andarci a letto, riuscendo così a ingravidarsi.
Tutto andò nel verso giusto e il conte, avendo riconosciuto l’audacia di Giletta, la risposò.

NOVELLA X = DIONEO
Nella città di Capsa, in Barberia (odierna Tunisia), viveva un ricchissimo uomo, che aveva tra i suoi
figli una figlioletta bella e gentile di nome Alibech; ella non era cristiana, ma udendo da alcuni
cristiani lodare la fede cristiana e il servire Dio, chiese come si poteva fare: le fu risposto che
bisognava fuggire le cose del mondo, come facevano coloro che se ne andavano in solitudine, nei
deserti dell’Egitto. La giovane che aveva solo quattordici anni ed era molto ingenua, non per un
proposito meditato, ma per un impulso giovanile, di nascosto, una mattina tutta sola, se ne andò
verso il deserto intorno a Tebe.
Giunta faticosamente in un luogo solitario, con grande appetito, vide in lontananza una casetta e vi
si diresse. Trovò sull’uscio un sant’uomo (Rustico) che le chiese che cosa cercava.
La ragazza spiegò che voleva essere al servizio di Dio e cercava chi le insegnasse come si faceva:
l’uomo, vedendola giovane e bella, temendo che il demonio lo tentasse, le diede da mangiare e da
bere e la mandò da un uomo più santo di lui, che sarebbe stato miglior maestro. Le spiegò che il
modo più indicato per servire Dio era rimettere il diavolo nell’inferno e questo voleva dire che
dovevano avere un rapporto. Alibech, da ragazza ingenua e devota al Signore, accettò:
inizialmente ne fu un po’ turbata ma, successivamente, ne incominciò a prendere gusto tanto da
volerne sempre di più. Ma il Diavolo di Rustico non “rispondeva” più a quell’azione e lei dovette
rassegnarsi; finchè, essendo rimasta orfana e piena delle ricchezze ereditate dal padre, giunse un
giovane chiamato Neerbale il quale, avendo sprecato e perso tutti i suoi averi, la trovò e la sposò.
Infine Alibech, interrogata dalle donne su che cosa facesse nel deserto per servire Dio, rispose ,
precisando con parole ed atti, che lo serviva rimettendo il Diavolo in Inferno. Accusava Neerbale di
aver commesso un gran peccato togliendola da quel servizio ma, quando le donne capirono che
tipo di servizio ella faceva, tra grandi risate, la tranquillizzarono dicendo che anche suo marito
sapeva servire bene il Signore Iddio.

QUARTA
GIORNATA
La quarta giornata inizia con un intervento da parte dello stesso Boccaccio, che decide di
rispondere a tutte quelle persone che hanno criticato la presenza esuberante del personaggio
femminile nelle “novellette” (così le chiama l’autore, essendo per lui opere assai umili e non
propense al suscitare scalpore o polemiche), affermando che il piacere e lodare troppo le donne
fosse sbagliato o che, vista l’età dell’uomo, fosse stolto andare ancora appresso a tali smancerie,
quando il suo vero obiettivo sarebbe dovuto essere il fare poesia e guadagnare da ciò. Alcuni dati
suggeriscono che questi “richiami” derivino dal fatto che almeno le prime tre giornate (con le
rispettive novelle) circolassero già prima della stesura definitiva dell’intera opera, e che quindi
queste critiche dovessero essere rivolte alle primissime novelle.
Ma Boccaccio riesce a “zittire” tutte queste dicerie contro di lui con un piccolo racconto sospeso,
in cui narra che un giovane figlio di un uomo fiorentino (chiamato Filippo Balducci, diventato prete
dopo aver perso la moglie) mentre era con il padre a fare delle commissioni e a conoscere dei suoi
amici a Firenze, osservò per la prima volta un gruppo di ragazze e ne rimase affascinato: a questo
punto, rivolgendosi di nuovo al suo pubblico iniziale (le donne) giustifica la sua azione affermando
che “ se la loro bellezza e la loro leggiadria colpì un giovane eremita che non le aveva mai viste,
come ciò non doveva avvenire a me che ,fin da fanciullo, avevo provato la dolcezza degli amori
giovanili”.
Nonostante il suo intento primario non fosse stato quello di comporre un’opera di alto o nobile
livello, sottolinea lo sprezzante e costante bisogno delle persone di commentare e di dover per
forza “ridire” su tutto (solo i poveri non provano invidia): aggiunge inoltre che le stesse Muse del
monte Parnaso a cui lui e tutti gli altri poeti (che anche da vecchi provavano sensazioni d’amore,
come Cavalcanti o Dante) si ispiravano sono effettivamente creature femminili, le quali hanno
contribuito enormemente alla fama degli artisti.
Infine risponde ai suoi “critici” dicendo che, dopo aver ascoltato le loro calunnie (che non hanno
una base o una prova) ora sarà ancora più ispirato e intenzionato a compiacere le donne.
Tema della quarta giornata = storie di amori infelici.

NOVELLA I = FIAMMETTA
Tancredi, principe di Salerno, fu un signore umano e di indole buona, se non si fosse macchiato,
nella vecchiaia, le mani di sangue. Egli ebbe una sola figlia e meglio sarebbe stato se non l’avesse
avuta. Costei fu amata dal padre più di qualsiasi altra figlia. Non volendo allontanarla da sé, fino ad
età avanzata non l’aveva maritata. Alla fine, la diede in sposa ad un figlio del duca di Padova, che,
poco dopo, morì: ella, rimasta vedova, ritornò dal padre e, avendo compreso che egli non aveva
intenzione di risposarla, pensò di procurarsi di nascosto, un valoroso amante. Tra gli uomini della
corte di suo padre vi era un giovane valletto, di nome Guiscardo, di umili origini, ma nobile per
costumi e indole; la donna si innamorò ardentemente ed anche il giovane, essendosene accorto, la
ricambiò appassionatamente, non riuscendo più a pensare ad altro che a lei.
I due si incontravano praticamente sempre nella camera di lei grazie una grotta abbandonata, buia
e scavata nel monte al lato del palazzo nella quale si poteva scendere per una scala segreta, che
era in una delle camere occupate dalla donna, sebbene fosse chiusa da una porta fortissima.
Nessuno se ne ricordava più, perché non era stata usata da moltissimi anni, ma Amore acuì
l’ingegno della donna che riuscì ad aprire l’uscio, dando la possibilità ai due di raggiungersi.
Una sera però il padre decise di aspettare sua figlia nella camera da letto, appoggiato a uno
sgabello seminascosto; gli calò il sonno, che però fu improvvisamente interrotto dal rumore dei
due manati che si divertivano nel letto, non essendosi accordi della presenza dell’uomo nella
penombra. Tancredi avrebbe voluto agire d’istinto, ma pianificò una vendetta più raffinata.
Il giorno seguente catturò il giovane e poi andò dalla figlia per dirle che aveva scoperto la sua
tresca amorosa e che Guiscardo era suo prigioniero. La fanciulla disse che si sarebbe suicidata se il
suo amato fosse morto, perché per tutto quel tempo suo padre si era dimenticata che lei era
anche fatta di carne e che quindi poteva (e ne aveva già avuto esperienza in quanto già sposata)
compiere atti e provare sentimenti amorosi.
Nonostante queste parole forti, Tancredi ordinò di uccidere Guiscardo dopo il colloquio e inviò
alla figlia, in una coppa d’oro, il cuore dell’amante che la fanciulla baciò più volte. La fanciulla
bevendo una pozione velenosa si suicidò e fu sepolta dal padre nel sepolcro di Guiscardo.

NOVELLA II = PAMPINEA
Visse, dunque, ad Imola, in uomo scellerato e corrotto, chiamato Berto della Massa, le cui opere
malvagie erano conosciute da tutti e gli imolesi non gli credevano sia che dicesse la bugia che la
verità. Non potendo più vivere ad Imola, si trasferì a Venezia, che accoglieva tutti gli scarti umani.
Qui, pentito di tutte le cattive azioni commesse, pervaso da grande umiltà, divenuto religioso, si
fece frate minore col nome di Alberto da Imola, facendo penitenza e astinenza e né mangiava
carne, né beveva vino, quando non ne aveva di buono: riuscì dunque a ottenere la fiducia di tutti i
cittadini. Tutto ciò però non durò troppo tempo: un giorno una donna sciocca e scema, di nome
madonna Lisetta, della famiglia dei Quirini, si andò a confessare da lui e gli raccontò tutti i fatti
suoi, da veneziana chiacchierona qual era. Frate Alberto le chiese se aveva un amante ed ella
rispose in malo modo che, se avesse voluto, ne avrebbe trovati troppi di amanti, perché era bella
come una del Paradiso; continuò poi, a dire tante altre cose sulla sua bellezza e il frate, capendo
che era scema e adatta a lui, se ne innamorò. Dopo averla rimproverata per la sua vanità ed averla
confessata, la lasciò andar via con le altre donne ma, tempo qualche giorno, la andò a trovare a
casa dicendole che l’angelo Gabriele era giunto su di lui la notte dandogli tante bastonate perché
lui era innamorato di Lisetta e il frate stesso non poteva permettersi di dire quelle cose; inoltre,
l’angelo voleva passare una notte con l’amata e, per farlo, avrebbe preso le sembianze di Berto.
La donna, stupida e ingenua, fu felice di questa notizia e accettò: il religioso ne fu ancora di più e,
preparatosi con l’aiuto di una complice, passò molte notti con Lisetta.
Un giorno però discorrendo con un’amica e vantandosi sempre della sua bellezza, la donna le
rivelò che c’era un uomo che la considerava celestiale e che questo era proprio San Gabriele:
dicendo ciò, la notizia si diffuse e la famiglia della ragazza si incominciò ad appostare per vedere
chi fosse questo amante. Presto lo seppe anche frate Alberto il quale una sera, andando dalla
donna per rimproverarla, trovò tutti i parenti appostati ed egli, nudo si gettò dalla finestra che
dava sul Canal Grande; nuotò e si rifugiò nella casa di un signore il quale, avendo capito che
l’uomo era il misterioso angelo, prima si fece pagare per non consegnarlo ai cognati e poi,
facendolo travestire, lo portò ad una festa in piazza dove il signore lo smascherò e rivelò l’identità
del frate, che fu imprigionato.
NOVELLA III = LAURETTA
La novella parla di tre sorelle di nome Ninetta, Magdalena e Bertella. Ninetta si innamorò di un
giovane di umili origini; Magdalena e Bertella si innamorarono di due giovani di nome Folco e
Ughetto che a causa della morte dei genitori erano molto ricchi. Restagnone, dopo aver stretto
amicizia con Folco e Ughetto, chiese loro di prestargli qualche soldo e propose loro di partire
insieme alle tre sorelle. Le tre coppie partirono verso Creta ove costruirono numerosi palazzi
signorili. Restagnone non amava più Ninetta come prima e si innamorò di una giovane fanciulla di
corte: Ninetta accortasi di ciò, accecata dalla gelosia avvelenò il suo compagno che morì. La
giovane confessò il delitto al duca di Creta al quale si concesse Magdalena per far scampare la
sorella dalla morte. Allora durante la notte quando Folco e Ughetto uscirono il duca rimandò a
casa Ninetta e passò la notte con Magdalena. Folco, la mattina seguente , non si spiegava come
Ninetta potesse essere in casa e allora iniziò a sospettare della relazione tra Magdalena e il duca.
Quindi Folco la uccise scappò con Ninetta. Le guardie incolparono dell’omicidio Ughetto e Bertella
che le corruppero e scapparono a Rodi ove vissero in miseria.

NOVELLA IV = ELISSA
Questa novella parla dell’amore tra Gerbino e la figlia del re di Tunisi. Guglielmo II, re di Sicilia,
ebbe due figli: Ruggero e Costanza. Ruggero ebbe un figlio di nome Gerbino, che cresciuto dal
nonno divenne molto bello e famoso per la sua cortesia e bravura. Questa fama giunse presso la
figlia del re di Tunisi che si innamorò di lui. Anche Gerbino si innamorò della fanciulla che era
molto bella ma il re di Tunisi aveva promesso in sposa sua figlia al figlio del re di Granata, perciò,
Gerbino non poteva sposare la fanciulla. Guglielmo, senza sapere dell’amore di suo nipote promise
fedeltà e sicurezza al re di Tunisi e gli inviò un guanto segno di impegno assoluto. La nave su cui
viaggiava la fanciulla per andare a Granata venne raggiunta e assaltata dalle due navi di Gerbino,
ma la fanciulla fu uccisa e gettata in mare dai marinai della sua stessa nave. Ciò provocò l’ira di
Gerbino che, salito sulla nave avversaria uccise molti uomini. Il re di Tunisi venuto a conoscenza
dell’episodio, fece decapitare Gerbino in presenza di suo nonno Guglielmo come simbolo della
fedeltà che egli gli aveva promesso.

NOVELLA V = FILOMENA
Nella città di Messina vi abitavano tre fratelli, ricchi mercanti, con la sorella minore Elisabetta,
fanciulla molto bella che loro non avevano ancora maritato. Questa si innamorò di un giovane di
nome Lorenzo che lavorava presso il fondaco dei tre fratelli. Anche Lorenzo si innamorò di
Elisabetta e i due incominciarono frequentarsi segretamente. Il fratello maggiore accortosi della
relazione ne parlò agli altri due fratelli e tutti e tre, dopo aver portato Lorenzo in luogo solitario lo
uccisero e lo seppellirono. Una notte comparve in sogno a Elisabetta Lorenzo che le diceva di
essere stato ucciso dai suoi fratelli e le rivelò dove era seppellito. La fanciulla vi si recò, scavò e
taglio la testa dal corpo che dopo averla fasciata mise in un vaso e ricoprì di terra e vi piantò delle
piante. Spesso la fanciulla riversava lacrime sul vaso e i fratelli avvertiti dai vicini, le tolsero il vaso
e scoperta la testa la sotterrarono. Dopo i tre fratelli partirono per Napoli affinché non si sapesse
la storia e la sorella continuando a versare amare lacrime morì.
NOVELLA VI = PANFILO
Messer Negro da Pontecarraro aveva una figlia di nome Andreuola, giovane e molto bella, la quale
era innamorata di Gabriotto, un uomo di bassa condizione. I due, scoprendosi innamorati, si
sposarono segretamente. Una notte, Andreuola sognò la morte di Gabriotto. Così il giorno dopo,
lei cercò di convincerlo a rinunciare al loro incontro segreto, ma lui non l’ascoltò. Una volta
insieme, Andreuola gli disse del sogno, ma lui la confortò, dicendole che non doveva porre fede
nei sogni e raccontò il suo anche lui, spiegandole che se avesse dovuto credere ai sogni quella
notte non avrebbero proprio dovuto incontrarsi. Andreuola, spaventata, lo abbracciò e lo baciò e
lui improvvisamente morì tra le sue braccia. Disperata e piangendo, la ragazza chiamò la sua fante,
che le consigliò di portare il corpo davanti alla porta della casa di Gabriotto, per consegnarlo ai
parenti. E così fecero. Ma mentre camminavano, incontrarono il podestà per strada, che trovatele
con un morto, le portò davanti alla signoria. Qui, esaminato il corpo, si pensò che la ragazza lo
avesse affogato e fu ritenuta colpevole, ma il podestà le disse che l‘avrebbe lasciata andare, se
avesse acconsentito di diventare sua moglie, e lei rifiutò. Messer Negro, saputa la cosa, corse a
liberare la figlia. Tornati a casa, messer Negro ordinò che fossero preparati i funerali per Gabriotto.
Passati alcuni giorni, il podestà continuò ad insistere sulla proposta fatta alla figlia, ma lei, insieme
alla sua fante, decise di farsi monaca.

NOVELLA VII = EMILIA


Una giovane e bella ragazza, chiamata Simona viveva a Firenze ed era innamorata di un ragazzo di
nome Pasquino. I due si conoscevano perché lui vendeva la lana e lei la filava per il suo maestro. I
ragazzi, anche se molto timidi, riuscirono a fissare un incontro in un giardino per poter stare
insieme. Così lei, accompagnata dalla sua amica Lagina, e lui ,accompagnato dal suo amico
Puccino, si incontrarono e nacque un nuovo amore anche tra i due amici. Pasquino e Simona, dopo
aver mangiato, andarono a sedersi vicino ad un cesto pieno di salvia, perchè Pasquino voleva
strofinarsene un po’ sui denti per renderli più puliti, e così fatto, il ragazzo all’improvviso morì.
Sentendo le urla, Lagina e Puccino corsero a vedere cosa fosse successo e visto Pasquino a terra e
senza vita, il ragazzo cominciò ad accusare Simona di averlo avvelenato e fu portata dal podestà.
Ma questo volle vedere il corpo e il luogo in cui era avvenuto il fatto. Così Simona cominciò a
raccontare e quando fece vedere cosa aveva fatto Pasquino con la salvia(strofinandosela sui denti)
cadde a terra senza vita anche lei. Il podestà, stupefatto, prese la salvia e capì che era stata
avvelenata. I due furono seppelliti insieme nella chiesa di San Paolo.

NOVELLA VIII = NEIFILE


Girolamo abitava a Firenze ed era il figlio di un grandissimo mercante. Crescendo insieme a
Salvestra, la figlia di un sarto, questo a poco a poco si innamorò di lei. La madre di Girolamo si
accorse di questo amore e subito non fu d’accordo così decise di far allontanare il figlio da quella
ragazza, dicendo ai tutori di convincere il ragazzo a partire per Parigi…e insistettero così tanto che
alla fine il ragazzo acconsentì. Lo fecero stare a Parigi molti anni e alla fine, ritornato più
innamorato di prima, trovò Salvestra già sposata. Girolamo decise di parlarle, ed entrato di notte
in casa di nascosto, dopo essersi assicurato che il marito dormisse, andò da lei. Spaventata, la
donna stava per gridare ma non appena si accorse che era Girolamo, lo pregò di andarsene ma lui
non volle e cominciò a dormire vicino a lei. Ma l’uomo, quella notte, morì per il gran dolore. La
donna, accortasi dopo poco tempo che il giovane era morto, andò dal marito e gli confessò tutto.
Preso dal panico, l’uomo pensò che sarebbe stato meglio riportare il corpo a casa e così fecero. Il
giorno del funerale, i due decisero di andarci, coperti in modo che nessuno li avrebbe riconosciuti,
per capire se qualcuno sospettava di loro. Ma la donna non appena vide il corpo morto, a viso
scoperto si gettò su di lui per piangere e morì di crepa cuore. Le donne che andarono a prenderla
per consolarla, la riconobbero e la trovarono morta. La notizia arrivò anche al marito di Salvestra
che pianse molto e raccontò la verità, così tutti capirono il motivo della morte dei due ragazzi e
furono seppelliti insieme.

NOVELLA IX = FILOSTRATO
Messer Guiglielmo Rossiglione e messer Guiglielmo Guardastagno erano due nobili cavalieri di
Provenza. A entrambi piacevano le armi e amavano molto sfidarsi in gare o tornei. Nonostante
abitassero molto distanti l’uno dall’altro, Guardastagno si innamorò della moglie di Rossiglione e
dopo diversi incontri fece in modo che questa se ne accorgesse. Lei, conoscendolo, cominciò ad
innamorarsene, e quando il marito se ne accorse, pensò ad una maniera per vendicarsi e uccidere
il rivale. L’occasione si presentò con un torneo in Francia. Rossiglione invitò Guardastagno ad
andarci insieme. Mentre Guardastagno si stava avvicinando al castello, disarmato ma
accompagnato da due servitori, l’altro cavaliere sbucò all’improvviso da un cespuglio, lo uccise e
gli strappò il cuore. La sera, lo dette al cuoco affinché lo cucinasse e una volta pronto la moglie lo
mangiò di gran gusto. A quel punto il marito confessò alla moglie che quello che aveva appena
mangiato era il cuore del suo amato Guardastagno. La donna, in preda al disgusto e alla
disperazione, si gettò dalla finestra e morì. Il giorno dopo la cosa si seppe per tutto il paese e i due
furono seppelliti insieme nel castello di Rossiglione

NOVELLA X = DIONEO
Un chirurgo, Mazzeo della Montagna, che viveva a Salerno, aveva finalmente deciso di sposarsi. Si
sposò con una affascinante ragazza. Essa però sentendosi trascurata dal marito, ebbe molti amanti
finchè si innamorò di uno di loro, Ruggeri d’Aieroli, uomo mal visto in città. Un giorno fu affidato al
medico un paziente al quale doveva essere operata la gamba e avendo deciso di operarlo la sera,
preparò l’acqua con una soluzione che lo addormentasse e la posò nella sua stanza. Poi partì per
Amalfi. La donna, approfittando dell’assenza del marito, invitò Ruggeri a passare la notte con lei.
Quella sera, la donna ebbe ospiti e così rinchiuse il suo amante nella sua stanza. Essendo assetato,
l’uomo bevve l’acqua lasciata la sera prima dal marito, e cadde in un sonno talmente profondo che
quando la donna rientrò, pensò che quello fosse morto e chiamando la sua fante, insieme decisero
di portarlo in un arca di un legnaiuolo là vicino. Quando Ruggeri si svegliò, muovendosi
rumorosamente fu scambiato per un ladro e portato dal rettore, dove decisero di impiccarlo.
Finalmente il medico rientrò dal suo viaggio ma corse subito dalla moglie a lamentarsi che l’acqua
per far addormentare il suo pazienta non c’era più…la donna capì tutto.Inoltre la fante le disse che
aveva saputo che avrebbero impiccato Ruggeri. Così la donna mandò la fante a visitare il
prigioniero, e arrivata là, fu dimostrata allo stradicò (giudice criminale napoletano) l’innocenza di
Ruggeri. L’uomo così fu liberato.
QUINTA GIORNATA
Quando il sole con la sua luce aveva portato il nuovo giorno, Fiametta, svegliata dai canti degli
uccelli, si alzò e fece svegliare le altre donne e i tre giovani. Ciò che venne fatto nei giorni
precedenti, venne fatto anche in questa giornata. La brigata, dopo essersi svegliata, passò il tempo
a divertirsi in giardino. Giunta l’ora di pranzo, si riunirono per pranzare. Dopo aver pranzato,
qualcuno andò nella propria camera per riposare un po’, altri preferirono restare nel giardino.
All’ora nona, giunti su un prato, si riunirono per iniziare a raccontare nuove novelle, e Fiammetta,
regina della giornata, ordinò a Panfilo di incominciare.
Tema della quinta giornata: la felicità raggiunta dagli amanti dopo avventure straordinarie.

NOVELLA I = PANFILO
Cimone, figlio molto bello ma putroppo rozzo di Aristippo, ama Efigenia, promessa sposa a
Pasimunda, giovane ricco di Rodi, e per lei diventa un uomo nuovo, ben vestito, abile lavoratore
nonché filosofo. Così la rapisce ma naufraga a Rodi a causa di una terribile tempesta e
immediatamente viene imprigionato da Lisimaco, somma magistratura di Rodi, e condannato
assieme ai suoi compagni alla prigione perpetua. Anche Lisimaco è però follemente innamorato di
una donna, la sorella di Efigenia, Cassandrea, promessa sposa a Ormisda; ed è proprio per questo
motivo che decide di accordarsi con il prigioniero. Il piano è molto semplice: rapiscono insieme le
due amate poco prima del loro matrimonio e fuggono a Creti, dove sono al sicuro grazie ad alcuni
amici. La situazione dopo un periodo di tempo non precisato torna normale e così entrambe le
coppie possono tornare ai loro paesi originari, Cimone e Efigenia a Cipri, mentre Lisimaco e
Cassandrea a

NOVELLA II = EMILIA
Nell’isola di Lipari Martuccio Comito, giovane povero, s’innamora di Gostanza, donna molto bella e
ricca. Lui, non potendola sposare a causa di un secco rifiuto da parte del padre di lei, si fa corsaro.
Dopo un po’ di tempo, Martuccio viene rapito assieme ai suoi uomini dai Saraceni e viene
imprigionato in Barberia. Lei, per farla finita dato che a Lipari era giunta la notizia della morte del
suo amato, si butta in mare su un barca e si lascia trasportare dal vento; anch’essa però giunge in
Barberia, precisamente a Susa, dove comincia a lavorare la lana in casa di un’anziana ma molto
caritatevole signora, che la ricondurrà assieme a Carapresa, donna che aiutava i pescatori cristiani,
dal suo innamorato. Martuccio, intanto, con uno stratagemma fa vincere la guerra al re di Tunisi,
Meriabdela, il quale per riconoscenza lo libera e lo ricopre di ricchezze. Libero e ricco il giovane
tornerà in Italia con Gostanza, dove si sposeranno e vivranno felicemente.

NOVELLA III = ELLISSA


Pietro Boccamazza, uomo nobile, ama Agnolella, che ricambia il sentimento ma che purtroppo è
povera. I due giovani, avendo i genitori di lui impedito il matrimonio, decidono di fuggire verso la
cittadina di Anagni; Pietro non sa bene la strada, così si perdono e vengono assaliti da dodici fanti.
Fortunatamente però riescono a sfuggire ai ladroni e successivamente lui si perde in una selva,
all’interno della quale alcuni lupi gli mangeranno il cavallo. Lei intanto trova ricovero da due
vecchietti nel bosco, sfugge a una razzia di briganti e viene portata in un castello, che si scoprirà
essere di alcuni suoi amici; i due si ritrovano e tornano a Roma dove si sposeranno.

NOVELLA IV = FILOSTRATO
Lizio da Valbona ebbe una sola figlia, Caterina, che ben presto ricambiò l’amore di un certo
Ricciardo Manardi, frequentatore della casa del padre; l’unico problema era il luogo dove potersi
incontrare e la soluzione venne in mente al giovane innamorato…. I due si videro per la prima volta
sul balcone della casa di lei e, dopo molti baci, passarono la notte assieme. Sfortunatamente però
si addormentarono nudi e, quando si fece giorno, Lizio li scoprì; questo, uomo molto costumato,
non fece alcuna scenata, anzi acconsentì il loro amore purché si fossero sposati. E così avvenne.

NOVELLA V = NEIFILE
Nella città di Fano l’ormai attempato Guidotto da Cremona, sul punto di morire, affida la giovane
Agnesa al suo coetaneo Giacomin da Pavia, affinché la crescesse e la educasse ; ben presto questa
divenne la più bella della città così che due concittadini, Giannole e Manghino, se ne
innamorarono. Giannole decise di introdursi, grazie al fante Crivello, nella casa della fanciulla per
rapirla ma, due informatori, riferirono la cosa a Minghino che, grazie ad un servitore, si introdusse
anch’egli nella casa di Agnesa. Non riuscendo i due innamorati a porre fine alla discussione, la lite
sfociò in una rissa. La fanciulla fu messa in salvo in casa mentre i contendenti furono arrestati.
Crivello e Giacomino decisero di maritare la fanciulla con Giannole; quando i parenti dei due sposi
chiesero a Giacomino cosa voleva per ricompensa, egli spiegò tutta la storia e si venne a
conoscenza del fatto che la fanciulla era figlia di Barnabuccio e quindi sorella di Giannole. Tutti
fecero pace e la fanciulla si sposò con Minghino.

NOVELLA VI = PAMPINEA
Nell’Isola di Ischia viveva marin Bulgaro con la sua bellissima figlia Restituta. Gianni, abitante di
procida si innamorò perdutamente della bella Restituta e andava tutti i giorni a Ischia persino a
nuoto pur di vederla. Un giorno però ella venne rapita da un gruppo di ragazzi che la portarono al
re Federigo d’Aragona che la chiuse nel palazzo arabo-normanno che ha nome Cuba. Sulle tracce
della donna amata, Gianni arrivò a Palermo e intravide Restituta dietro una finestra del palazzo.
Durante la notte Federigo scoprì i due amanti addormentati e ordinò che fossero legati ed esposti
nudi sulla pubblica piazza, prima di essere arsi vivi. Grazie alla testimonianza dell’ammiraglio
Ruggeri di Lauria, i due giovani furono perdonati, perché identificati come il nipote di Gian di
Procida, un partigiano degli Aragonesi e uno dei capi della rivolta dei Vespri (1282), e come la figlia
del famoso Marin Bòlgaro.
NOVELLA VII = LAURETTA
Teodoro, battezzato come Pietro da messer Amerigo che l’aveva comprato dai pirati mentre era
ancora fanciullo, una volta cresciuto si innamora di Violante figlia dello stesso messer Amerigo e in
una occasione la mette incinta. Saputo l’accaduto, Pietro viene condannato a morte finchè non si
presenta nella storia il suo vero padre, ambasciatore dell’Armenia che lo riconosce e risolve la
situazione parlando con messer Amerigo. Infine Violante e Pietro si sposano e vivono felici con un
figlio.

NOVELLA VIII = FILOMENA


Un nobile ravennate, Nastagio degli Onesti, nonostante fosse ancora molto giovane, si ritrovò
ricchissimo in seguito alla morte del padre e dello zio; presto s'innamorò di una ragazza di
un'ancora più nobile famiglia, quella dei Traversa, e per attirare la sua attenzione, cominciò a
spendere smisuratamente in banchetti e feste. La giovane però non si mostrò mai interessata
all'amore del ragazzo, e per questo lui più volte si propose di suicidarsi, di odiarla o di lasciarla
stare, ma mai riuscì nei suoi propositi. Vedendo che, seguendo questo suo sogno, Nastagio si stava
consumando nella persona e nel patrimonio, i suoi amici e parenti gli consigliarono allora di
andarsene da Ravenna, in modo che riuscisse poi a dimenticare il suo amore inappagato; il
ragazzo, non potendo continuare ad ignorare questo consiglio, si trasferì a Classe, poco lontano
dalla sua città. Un venerdì all'inizio di Maggio, Nastagio, addentratosi nella pineta, vide una
ragazza correre nuda e in lacrime, inseguita da due cani che la mordevano e da un cavaliere nero
che la minacciava di morte: lui si schierò a difesa della fanciulla ma l'uomo a cavallo, dopo essersi
presentato come Guido degli Anastagi, disse a Nastagio di lasciarlo fare in quanto, essendo in
realtà già morto per essersi suicidato, stava solo scontando la propria pena infernale, accanendosi
su colei che disprezzando il suo amore lo aveva portato a togliersi la vita. Rassegnatosi al volere
divino, assisté allo strazio del corpo della giovane da parte del cavaliere, al termine del quale i due
furono costretti a ricominciare da capo il loro inseguimento, fino a fuggire dalla vista di Nastagio. Il
ragazzo decise allora di approfittare di questa situazione, e perciò invitò i propri parenti e la sua
amata con i suoi genitori a banchettare in quel luogo il venerdì seguente. Come Nastagio aveva
previsto, alla fine del pranzo si ripeté la scena straziante alla quale lui aveva assistito una
settimana prima, e questa ebbe l'effetto sperato, infatti, la giovane Traversa, ricordandosi di come
aveva sempre calpestato l'amore che il padrone di casa provava nei suoi confronti, per paura di
subire la stessa condanna acconsentì immediatamente a sposare Nastagio, tramutando il proprio
odio in amore.

NOVELLA IX = FIAMMETTA
Federico degli Alberighi, un ricchissimo nobile di Firenze si innamorò di monna Giovanna, una delle
donne più belle della Toscana. Per sedurla organizzò feste in suo onore e le fece doni fino a
sperperare tutti i suoi averi e senza suscitare in lei nessuna attrazione. Si ridusse così a possedere
solo un piccolo podere ed un falcone, uno dei migliori del mondo che gli permettevano di
sopravvivere. Avvenne però che il marito di monna Giovanna morì e questa andò a trascorrere
l'estate con il figlio in una tenuta vicino a quella di Federico. Questo e il ragazzo fecero presto la
conoscenza, grazie al grande interesse del giovane per il falcone. Il figlio di Giovanna si ammalò e
quando gli chiese cosa lui desiderasse, quello rispose che se avesse avuto l'uccello di Federico
sarebbe sicuramente guarito. Il giorno dopo la madre si recò da Federico con una altra donna, non
senza vergogna di andare a chiedere a lui che a causa sua si era ridotto in miseria una cosa così
preziosa. L'accoglienza fu calda, le donne dissero che si sarebbero fermate per la colazione, ma
l'uomo non trovando niente da cucinare tirò il collo al falcone e lo servì a tavola. Il pasto trascorre
piacevolmente, fino a quando monna Giovanna, raccolto il coraggio, chiede il falcone per il figlio
moribondo. Federico scoppia a piangere davanti a lei e le spiega che glielo avrebbe donato
volentieri se non lo avesse usato come vivanda per la colazione uccidendolo proprio perché non
aveva niente altro di adatto ad una donna come lei. Giovanna torna a casa commossa per il gesto
dell'uomo ma sconsolata e nel giro di pochi giorni il suo unico figlio muore, forse per la malattia,
forse per il mancato desiderio dell'uccello. Essendo però ancora giovane viene spinta dai fratelli a
rimaritarsi per dare un erede ai beni acquisiti dal defunto marito. La donna non vorrebbe altre
bozze, ma essendo obbligata sceglie come sposo Federico per la sua generosità, facendolo
finalmente ricco, felice e più accorto nelle questioni finanziarie.

NOVELLA X = DIONEO
Pietro di Vinciolo è omosessuale, ma per nasconderlo, si sposa. Sua moglie non è soddisfatta della
loro vita matrimoniale, ma capisce che l'unico modo per ricevere soddisfazioni è tradire il
marito.La moglie chiede consiglio ad una donna ritenuta santa che le dà ragione e che la aiuta a
trovarsi gli amanti.Una sera Pietro va a cena da un suo amico, Ercolano, e la moglie fa venire a casa
sua uno degli amanti, ma, quando stanno per cominciare la cena, Pietro torna a casa e la donna
nasconde l'amante nella stalla. Pietro racconta alla moglie di essere tornato così presto perché,
prima di mettersi a tavola, Ercolano ha trovato l'amante della moglie nascosto in un ripostiglio e la
cena è andata a monte.La moglie di Pietro biasima il comportamento della moglie di Ercolano, ma
proprio in quel momento un asino calpesta le dita del suo amante che lancia un grido di dolore.
Pietro va nella stalla e trova l'amante della moglie che era un garzone che piaceva anche a lui e alla
richiesta di spiegazioni del marito, la donna dice chiaramente i motivi del suo comportamento e lui
non trova nulla da obiettare perché sa che la moglie ha pienamente ragione. Pietro decide di non
interferire più nella “vita sentimentale” della moglie, fa servire la cena per il garzone, la moglie e
lui e poi i tre passano la notte insieme.

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