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Triora, tria ora, ossia le tre bocche.

Di Cerbero, il terribile cane a tre teste guardiano dell'Ade che fu


posto da Dante a sorvegliare l'ingresso al terzo cerchio dell'Inferno, dove sono puniti i golosi. Un
nome, quello della cittadina imperiese, che ha in sé qualcosa di evocativo, di misterioso, anzi di
ancestrale.
Qui, nel 1587, un gruppo di donne fu accusato di essere responsabile della penuria di cibo che
aveva messo in ginocchio la comunità. Il processo, voluto dal Parlamento locale e condotto dal
vicario del vescovo di Alberga Girolamo Del Pozzo in collaborazione con un vicario
dell’Inquisitore di Genova, portò all'esame e alla tortura di oltre quaranta donne e persino di un
fanciullo. Dopo la morte di alcune imputate, il Consiglio degli Anziani del borgo, contro il volere
del Parlamento locale, decise di scrivere di sua iniziativa – essendosi il loro podestà Stefano
Carrega rifiutato di farlo – al Doge di Genova per chiedere la sospensione del processo, privo ormai
di attendibilità a causa della ferocia dei tormenti inflitti alle accusate. Seguì un'indagine che portò a
Triora l'Inquisitore Capo, inviato a visitare le donne in carcere e a interrogarle di persona. Tutte
tranne una ritrattarono la confessione, ma restarono imprigionate fino al giugno 1588, quando da
Genova giunse il commissario speciale Giulio Scribani, il quale invece di far chiarezza allargò il
processo ai paesi vicini: Castelvittorio, Montalto, Badalucco, Porto Maurizio, persino Sanremo.
Ricevuta la richiesta di condanna a morte per quattro donne, il governo di Genova decise a questo
punto di intervenire cercando di limitare i danni. Anche gli altri giudici inviati dalla Superba,
tuttavia, dopo un'iniziale titubanza convalidarono le accuse dando il via libera al rogo per Peirina di
Badalucco e Gentile di Castelvittorio. Ma fortunatamente intervenne il Padre Inquisitore di Genova,
finora mai coinvolto nel processo, che volle far valere la sua esclusiva competenza in materia di
streghe derivatagli dal suo essere quanto rappresentante dell’Inquisizione di Roma. Le accusate
furono dunque trasferite a Genova nelle carceri governative, essendo quelle dell’Inquisizione tutte
occupate. Alla fine di aprile 1589, la conclusione della vicenda: liberazione per le tredici incarcerate
superstiti (cinque nel frattempo erano morte). Il loro destino ci è ignoto.
Oggi a testimonianza di quelle drammatiche vicende restano in piedi alcuni edifici, il più suggestivo
dei quali è forse la casa del Meggia in piazza San Dalmazio, chiamata dagli abitanti Ca’ de baggiure
(la “casa delle streghe”) o Ca’ di spiriti, con le pesanti inferriate, visibili dal vicino vicolo Rizzetto,
che non riuscivano a trattenere i sospiri delle imputate.

La genesi della caccia alle streghe di Triora è abbastanza tipica. Semplificando ma non troppo, si
può dire che essa si scatenava di solito quando un evento drammatico – in genere una carestia –
creava forti scompensi in una piccola comunità tale da minacciarne la stessa sussistenza. Se le cause
non erano immediatamente ravvisabili, urgeva trovare un capro espiatorio cui attribuire la colpa. E
lo si rinveniva, in genere, perlustrando le categorie più “deboli”, meglio se ai margini della società e
impiegate in lavori particolarmente “sospetti”. Le candidate migliori erano loro, le donne.

Da sempre, si sa, il sospetto che il sesso debole sia collegato al demonio e sia da lui utilizzato per
tentare l'uomo è molto forte. “Più amara della morte è la donna”, si legge d'altronde nel libro biblico
dell'Ecclesiaste (7,26). E su tale argomento Umberto Eco, nel Nome della rosa, fa pronunciare al
francescano Ubertino da Casale un'efficace sintesi del pensiero che secoli fa andava per la
maggiore: “Se la guardi perché è bella, e ne sei turbato (ma so che sei turbato, perché il peccato di
cui la si sospetta te la rende ancora più affascinante), se la guardi e provi desiderio, perciostesso
essa è una strega. Stai in guardia, figlio mio... La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli
uomini vedessero quello che è sotto la pelle, così come accade con la lince di Beozia,
rabbrividirebbero alla visione della donna. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di
umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà
che lordume. E se ti ripugna toccare il muco o lo sterco con la punta del dito, come mai potremmo
desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo sterco?”. La pietra tombale sul gentil sesso,
però, la misero, nel 1486, i due inquisitori domenicani Sprenger & Kramer, autori come si vedrà
del celeberrimo Malleus maleficarum: per loro la femina è per natura predisposta a cedere alle
tentazioni del demonio. Il motivo? Nomen omen: la parola stessa deriva da fe-minus, ossia “minore
quanto a fede”. A causa del suo intelletto inferiore e della sua connaturata debolezza, ha dunque
meno fede e quindi fatalmente cade preda di Satana che la utilizza per farne ciò che vuole.

Guaritrici, levatrici, nubili, zitelle o vedove. Magari vivevano un po' discoste dal centro abitato. In
comune avevano la conoscenza, tramandata oralmente di generazione in generazione, delle virtù
delle erbe. Si diceva sapessero controllare gli elementi naturali, che invocavano usando formule
magiche in una lingua arcana. A loro si ricorreva per sanare le ferite, per guarire dai mali più
diversi, per fare innamorare qualcuno, per restare incinte, per abortire, per infondere fuoco a lombi
maschili ormai esausti. Perché loro “sapevano”. Avevano, però, un “peccato originale”. Per le loro
pratiche si rivolgevano a qualcosa di “altro” e di “misterioso”, che non era riconosciuto
dall'Autorità, fosse quella politica del regnante oppure quella spirituale (e dunque anche politica)
della Chiesa. Erano imbevute di religiosità popolare, l'antiqua religio o, se si vuole, di quella che
viene chiamata Western tradition. Comunque sia, non erano controllabili.

L’antropologia ha da tempo messo in luce come la stregoneria altro non sia che una delle tante
forme di persistenza di culti e credenze precristiani, che affondano le loro radici nella notte dei
tempi1. Esse possiedono tutti gli elementi della sapienza tipica, ad esempio, dei druidi. Ora, finché
la società resta cristallizzata nei suoi ordini gerarchici immutabili, ossia per quasi tutto il Medioevo,
queste categorie (come altre) sono viste con sospetto ma non fanno paura. Ne fanno, e molta di più,
gli eretici, che invece proprio l'ordine sociale vogliono sovvertire predicando ora la corruzione e
l'inaffidabilità delle gerarchie ecclesiastiche, ora la povertà assoluta della Chiesa, saldando
all'esigenza moralizzatrice anche - sovente – la richiesta di una rappresentanza politica ed
economica maggiore per quei ceti in ascesa di cui sono espressione pulsante. Ecco perché, al
contrario di quanto si pensa, nei “secoli bui” le streghe sono rare.

Ci sono, anzi, condanne ufficiali da parte delle autorità sia ecclesiastiche che politiche contro la
superstizione delle streghe. Bastino due documenti. Il primo: il cosiddetto “Primo Sinodo di san
Patrizio”, documento irlandese del VII secolo, stabiliva all'articolo 16 addirittura la scomunica per
chiunque credesse nell'esistenza delle streghe e, in base a questo, accusasse qualcuno di esserlo. Il
secondo, ancora precedente: l'Editto emanato dal re longobardo Rotari il 22 novembre 643, che
stigmatizza (articolo 197) chi accusa una ragazza o una donna libera di essere una “strigam, quid est
mascam” e condanna chi uccide un'aldia (ossia una semilibera) o una serva “come se fosse una
strega” (“quasi strigam”) a pagare una composizione pecuniaria proporzionale al rango della
vittima. E questo perché “per menti cristiane non è in alcun modo credibile, né possibile, che una
donna possa interiormente divorare un uomo vivo (art.376). A tale pena viene condannato anche il
giudice che avesse, eventualmente, ordinato di perpetrare quest'azione malvagia (“opus malum”).

Quando, allora, l'Europa si popolò di “streghe” portando all'apoteosi il triste fenomeno


dell'Inquisizione per il quale papa Giovanni Paolo II, nel 2001, chiese pubblicamente scusa? Fu alla
fine del Medioevo, e il processo seguì di pari passo il progressivo disfacimento della società feudale
e alla crisi dei suoi valori. Allora le “streghe” furono accusate di scatenare le tempeste e invocare la
furia degli elementi naturali, di provocare epidemie, dialogare con divinità occulte, produrre filtri
prodigiosi in grado di guarire ma anche di portare alla morte. Di partecipare ai Sabba, unirsi
carnalmente col demonio, divorare carne umana e rapire i neonati per cibarsi del loro sangue e della
loro carne.
Michela Zucca, in questo libro, delinea come la caccia alle streghe fu un tentativo di ristabilire
l'ordine minacciato dai cambiamenti sociali: “Con la distruzione di milioni di streghe si libera la
possibilità di nascita di centinaia di milioni di schiavi pronti a servire i nuovi padroni, nelle officine
e sui campi di battaglia, che divorano senza sosta giovani vite, sacrificate non più al povero Diavolo
campagnolo ma al Dio dei Soldi. Disciplinato, pronto a far l'amore solo nei giorni e nei tempi
1
La loro menzione c'è già nella remota antichità. Le streghe venivano chiamate in vari modi a seconda delle
tradizioni: empuse, lamie, ecc., e venivano sovente accostate ai vampiri.
stabiliti, puntuale, staccato dai suoi compagni e individualizzato nelle sue responsabilità, lavoratore,
timoroso del peccato e pieno di sensi di colpa per azioni impure confessate e penitenze inflitte solo
nel buio di un confessionale, controllato. Custode del buon nome, della modestia e della verecondia
della sua donna, che deve accettare per forza un sesso riproduttivo per il bene del padrone, e privo
di piacere per se stessa. Se no è una puttana”.
Nella sua documentata ma nel contempo agile carrellata di donne medievali (aristocratiche laiche,
vergini consacrate, popolane, contadine e selvatiche) ci mostra come la figura femminile nei
cosiddetti “secoli bui” in realtà sia stata tutt'altro che marginale. Le castellane assistevano i mariti
negli affari economici e politici avendo voce in capitolo, le badesse attingevano i frutti ai più alti
rami del sapere, le donne del popolo – specie in luoghi appartati come le comunità rurali o montane
– erano ciò che restava in vita del paganesimo, eredi di un sapere antico che non conosceva
l'ossequio delle auctoritates, culturali o religiose che fossero. Per questo erano pericolose, per
questo furono perseguitate. Per le loro pratiche inoltre, si ponevano in concorrenza con i medici, che
proprio a cavallo del passaggio dal Medioevo all'età moderna andavano conoscendo
un'affermazione sociale ed economica importante. Anche per loro, le guaritrici erano una categoria
scomoda da eliminare.

A decretarne la “soluzione finale” fu però il Concilio di Trento (1545-1563). Da allora, sia nei Paesi
della cosiddetta Controriforma sia di più ancora in quelli che alla Riforma aderirono, quell'Europa
che intorno al Mille, come scrisse il celebre cronista Rodolfo il Glabro, si era rivestita di un bianco
manto di cattedrali si illuminò dei sinistri bagliori dei roghi. Il ricorso a tale forma di esecuzione era
avallato dall'interpretazione di un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 15,6), laddove si dice che
“chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi viene raccolto per essere
gettato via e bruciato”. E fu una sorta, aggiungiamo noi, di tragico contrappasso, se si considera
l'abitudine presso le popolazioni pagane (ma che troviamo ancora oggi come sopravvivenza nel
folklore) di ricorrere al fuoco come elemento di purificazione: basti pensare ai roghi accesi dai Celti
in occasione della ricorrenza di Imbolc (inizio febbraio), passata al Cristianesimo come la
Candelora; ai falò di sant'Antonio, alla festa brianzola della Giubiana e alla “sagra della
segavecchia” di Forlimpopoli, nelle quali si brucia apotropaicamente un fantoccio che ha le
sembianze di un'anziana.
Ma c'è di più. Negli anni Novanta ebbi modo di assistere alle lezioni, all'Università degli Studi di
Milano, del compianto Luciano Parinetto, che allora insegnava Filosofia morale e spesso parlava (e
scriveva) di streghe. Bastino questi titoli: I lumi e le streghe. Una polemica intorno al 1750,
Solilunio: erano donne le streghe?, Streghe e potere (edizione ampliata dei precedenti Streghe e
politica e La traversata delle streghe). Per lui le streghe erano – insieme ad altre categorie – dei
“diversi”, soprattutto politici. Non solo donne, come ha dimostrato, ma anche uomini, bambini,
persino animali. Accomunati dal fatto di non appartenere (o aderire) alle categorie “classiche” della
società “borghese”. La “streghizzazione”, secondo Parinetto, era dunque una strategia attuata dalle
“normalità” contro il “diverso”, perseguitato in quanto fuori da ogni controllo (e quindi pericoloso)
da parte del potere. Del resto, chiosa ancora la Zucca, “la strega, con la sua corte di spiriti infernali
tante volte rappresentati sui muri delle chiese per terrorizzare la gente (che invece li trovava carini,
ridicoli e familiari, tanto da trascinarseli in casa appena poteva) era la quintessenza del ribelle,
proprio come il Diavolo, che aveva cominciato la sua malvagia carriera con una atto di
insubordinazione contro il Padre Eterno”.

In genere, la Chiesa era abbastanza inerte e tollerante. Tendeva, cioè, a vivere e a lasciar vivere,
optando per il sincretismo e senza intervenire con il pugno di ferro contro le antiche credenze
fintanto che esse rimanevano nell'alveo della legalità, o non scoppiava qualche disordine eclatante.
Ma c'erano delle eccezioni. Una di esse fu Carlo Borromeo (1538-1584), arcivescovo di Milano e
campione della Controriforma. Documenti finora inediti, recentemente scoperti da Paolo Portone
nell'Archivio Segreto del Vaticano e nell'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede ex
Sant'Uffizio, hanno rivelato il ruolo di primo piano da lui svolto durante la persecuzione delle
streghe nelle diocesi di Como e di Milano. Nel 1569, ad esempio, volendo applicare rigorosamente
i decreti tridentini emanati per sradicare la superstizione, fece processare cinque donne di Lecco con
l'accusa di stregoneria. Si salvarono solo perché, su pressione di alcuni influenti esponenti del
Senato milanese, intervenne la Congregazione del Sant’Uffizio, che per mezzo del cardinale Scipio
Rebiba richiese la ricerca del corpus delicti, cioè la prova dell'effettivo compimento del reato, in
assenza del quale non si sarebbe potuto procedere contro le imputate. L'anno prima a Dumenza,
appartenente al vicariato di Luino, il Borromeo aveva chiesto la cattura di una certa “Domenica di
Scappi, stria, ditta la Gioggia, denontiata al officio della sanctissima Inquisitione per stria notoria”,
ne aveva ottenuto la condanna da parte dell'Inquisizione e la consegna “al brazo secularo” per
essere arsa. L'anno prima di morire, nel 1583, si recò in visita pastorale in Val Mesolcina.
Nonostante le Diete di Ilanz del 1524 e del 1526 avessero proclamato la libertà di culto nella
Repubblica delle Tre Leghe in Svizzera, il Borromeo inviò un inquisitore che fece processare e
torturare per stregoneria ben 162 persone. Di queste, undici donne e il prevosto, che non avevano
ritrattato, furono arsi sul rogo a testa in giù. Né, a quanto pare, l'arcivescovo di Milano era contrario
alle torture, come suggerisce una sua lettera del 12 settembre 1569 (conservata nell'archivio della
Biblioteca Ambrosiana), in cui mostra di conoscere molto bene le “tecniche” con cui le imputate
venivano costrette a confessare. Leggiamo cosa scrive a proposito monsignor Angelo Paredi,
prefetto della Biblioteca Ambrosiana dal 1970 al 1980: “Intanto la delegazione delle autorità
milanesi esponeva in varie sedi romane le lamentele e invocava rimedi alle "perturbazioni" causate
dai provvedimenti del santo arcivescovo. In queste requisitorie presentate in quell'occasione dai
rappresentanti dei decurioni milanesi i rilievi sull'eccessivo rigore dei tribunali arcivescovili di
Milano la dicono lunga: ‘Si procede con tormenti (cioè torture) exquisiti, dalli quali molti ne sono
stati storpiati e talvolta ancora morti’. Si capisce che, come il cardinale Morone nel Cinquecento,
così anche oggi storici cattolici, come Hubert Jedin, non risparmiano a san Carlo l'accusa di
eccessivo rigorismo”2.

Gli atti del Simposio internazionale sull'Inquisizione che si tenne nel 1998 a Roma per volere dello
stesso papa Wojtyla, un pesante volume di ben 788 pagine che presenta i contributi di una trentina
di studiosi di diversa estrazione, hanno ridimensionato la “leggenda nera” della Santa Inquisizione.
Nessuno conoscerà mai le cifre esatte del fenomeno. Un'enorme mole di documenti è andata
perduta, tra cui moltissimi resoconti di processi. E basti il solo esempio del rogo che nell'estate del
1788 distrusse, nel cortile del convento di S. Maria delle Grazie, tutte le carte prodotte
dall'Inquisizione milanese tra il 1314 e il 1764. Comunque sia, negli Atti del Simposio il curatore
del volume, Agostino Borromeo, riferisce che su 125mila processi celebrati dall'Inquisizione
spagnola i condannati a morte furono meno di 1300, ossia circa l'l1 per cento. Tra Spagna, Italia e
Portogallo, le streghe mandate al rogo da Torquemada e dai suoi colleghi sarebbero non più di un
centinaio. Molto più spietati, invece, i tribunali civili, con almeno la metà delle sentenze eseguite:
50mila su 100mila processi. Al punto che si preferiva essere giudicato dai tribunali ecclesiastici
perché considerati meno severi di quelli civili.

Certo, la fama dell'Inquisizione resta sinistra anche a causa di alcuni uomini che legarono il loro
nome ad una serie di testi che insegnavano, passo per passo, a reprimere senza pietà qualsiasi
sospetto di stregoneria. I più celebri furono i due domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Kramer
detto Institor, autori di quel Malleus Maleficarum (“Il martello delle streghe”) che dal 1486, anno
in cui fu pubblicato, sarebbe stato per due secoli il “manuale” per eccellenza del perfetto
inquisitore. Tanto più che a “sollecitarlo”, se così si può dire, fu papa Innocenzo VIII, che con la
bolla Summis desiderantes affectibus aveva incaricato i due frati di estirpare l'eresia e la stregoneria
nella valle del Reno. Due anni dopo, la bolla papale veniva da loro stampata come “prefazione” al
Malleus, che riceveva così, indirettamente, l'imprimatur della Santa Sede.

2
Citato in A. Ganugi, "Monte San Francesco Sopra Velate. La cancellazione repentina di una storia millenaria - Parte
II. Intervista a Paolo Portone su Carlo Borromeo e sulla Controriforma", in "InStoria", rivista online di storia &
informazione, n. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)
Prima di loro si erano cimentati nel campo il domenicano tedesco Johannes Nider, autore nel 1435
del Formicarius (il cui quinto libro, avente come oggetto “De maleficis et eorum deceptionibus”, fu
usato da Sprenger & Kramer come fonte) e prima ancora il catalano Nicolas Eymerich col suo
Directorium inquisitorum (1376) e il limosino Bernardo Gui con la Practica inquisitionis heretice
pravitatis (1323 circa, ma pubblicata integralmente solo nel 1886). Tuttavia trentaquattro edizioni
del Malleus e oltre trentacinquemila copie impresse anche in edizione tascabile ne testimoniano il
successo senza precedenti, al punto da renderlo il secondo libro stampato in quegli anni dopo la
Bibbia.

Ragionando su tutto ciò mi viene in mente la canzone che il grande cantautore Ivano Fossati,
nell'album Discanto (1990), ha dedicato al celebre processo alle streghe di Nogaredo, avvenuto
nell'aprile 1647, e mi chiedo come mai, lui che è ligure, affrontando l'argomento non abbia pensato
a Triora ma a Trento. Il titolo è Lunario di settembre. Ascoltiamo la voce di una delle imputate
mentre risponde al suo torturatore: “Ahi signore, / se potesse tutto il male che mi consuma / mutare
la spada tua in un giro di scale armoniche ascendenti, / o in una strada / che via mi conducesse. /
Ma non vale niente che io faccia, / che resista o che cada: / tu non capisci, / è questo il grande lutto
/ che oscura le mie vesti. / Ma voglio dirti la verità / dal lato brutto a cui non si rimedia: / tu non
capisci, / è questo il grande male. / Io non ti amo, / è questa la tragedia”.
“Tu non capisci”. La non comprensione di un mondo “diverso”, “arcaico”, “naturale”,
“tradizionale” nel senso proprio del termine. In una parola, “vero”. Allora le vittime, decapitate
davanti ai contadini che furono obbligati ad assistere al supplizio, si chiamavano Lucia Caveden,
Domenica, Isabetta e Polonia Graziadei, Caterina Baroni, Ginevra Chemola e Valentina Andrei.
Quel che restava di loro, dopo il rogo, fu sepolto alle Giare, “in terra maledetta”, e i loro beni
vennero confiscati. Stavolta, le streghe erano Franchetta Borelli, Isotta Stella, Caterina Capponi,
Bianchina, Battistina e Antonina Vivaldi-Scarella, Luchina Rossi, e altre di cui non si conosce
neppure il nome. Eppure alcune, nonostante siano donne del popolo, umili e ignoranti, assumono
una grandezza sconvolgente, quasi titanica. E' il caso di Franchetta: spogliata, rasata
completamente in ogni parte del corpo e vestita di una semplice tunica, resistette eroicamente alla
tortura del cavalletto per 23 ore di seguito. E al giudice Scribani, impassibile davanti alle sue
suppliche (“Giudicame signor, aggiutame Signor Dio Grande mandame aggiuto e conforto, signor
Dio mi aggiuterà, signor calatemi che la verità l'ho detta, ah signor delle false testimonianze,
giudicame signor, tu che sai chi sono, che li giudici del mondo non lo possono sapere”) dirà, in un
moto di disperato e cinico orgoglio, “Io stringo li denti e poi diranno che rido”.

Come scrive Gianluca Padovan nelle pagine che leggerete, “un popolo senza storia, privato della
propria memoria, non è un popolo ma una massa globalizzata e priva di connotati su cui graveranno
parassiti d’ogni genere. Occorre impegnarsi per mantenere, per documentare, per rendere onore a
chi ci ha preceduto vivendo consapevolmente la propria terra”. Le streghe di Triora, le loro vicende
e i luoghi che le videro protagoniste rivivono in queste pagine, da lui curate insieme a Maria
Antonietta Breda e Ippolito Edmondo Ferrario, rendendo nel contempo giustizia alle tante altre
disgraziate che invece sono state dimenticate dalla storia. E la cui voce solo di rado, e sempre
casualmente, riemerge dall'oblìo.

Pochi anni fa, a Palermo, durante alcuni lavori di restauro nell’antico Palazzo di Piazza Marina, un
tempo sede del Tribunale del Sant'Uffizio, sono riemersi i graffiti che le condannate al rogo, per
quasi due secoli (dal 1601 al 1782) hanno inciso sulle pareti delle celle del carcere mentre
attendevano l'esecuzione della sentenza. “Sento freddo e caldo, mi ha preso la febbre terzana, mi
tremano le budella, il cuore e l’anima mi diventano piccoli piccoli”, scrive con un punteruolo una
“strega” senza nome in dialetto siciliano. Terribili voci dal passato, che vanno ad affiancarsi a quelle
già riascoltate dallo storico Giuseppe Pitrè nel 1906, in altre tre stanze del palazzo. Un luogo
sinistro. Vi fu rinchiuso anche Diego La Matina, il frate che uccise il suo aguzzino e a cui Leonardo
Sciascia dedicò il libro “Morte dell’Inquisitore”. E si possono ancora vedere i solchi lasciati dalle
due gabbie appese alla parte alta della facciata, dove per secoli restarono esposte le teste dei baroni
che si erano ribellati al Carlo V (1516-1554) all’inizio del suo Regno. Rimasero lì fino
all’abolizione dell’Inquisizione, nel 1782 per volontà del vicerè Domenico Caracciolo. Fino a quel
momento avevano servito da monito per chi si schierava, per dirla con Sciascia, “dalla parte degli
infedeli”. Ora, finalmente, avevano esaurito il loro compito.

Elena Percivaldi

Monza, nel giorno dell'Epifania 2010.

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