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Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale, dopo la motivazione data dall’autore del

perché quelle persone, che si mostrano in seguito ,si siano riunite per ragionare insieme, essendo
regina Pampinea, si narra di quello che più piace a ciascuno.

PRIMA GIORNATA- NOVELLA N.1

Ser Cepparello, con una falsa confessione ,inganna un santo frate e muore; sebbene sia stato un
pessimo uomo in vita, da morto viene ritenuto santo e chiamato san Ciappelletto.

Panfilo iniziò il suo racconto dicendo che si sapeva bene che tutte le cose terrene erano transitorie e
mortali e arrecavano fatica, angoscia e pericoli, dai quali non ci si poteva riparare senza l’aiuto di Dio.
L’aiuto veniva dato da Dio ,non per merito degli uomini ,ma per sua benevolenza, ottenuta grazie alle
preghiere e all’intercessione di coloro che erano morti ed erano diventati beati, seguendo nella vita
terrena i suoi comandamenti. A costoro gli uomini rivolgevano le loro preghiere , non avendo il
coraggio di rivolgersi direttamente a Dio. Avveniva, talvolta, che, ingannati dall’opinione popolare, ci si
rivolgesse a qualcuno che era stato scacciato da Dio in eterno esilio. Nonostante ciò, il Signore
aiutava lo stesso colui che pregava, guardando più alla purezza di chi pregava, che a quella di colui
che intercedeva.
Il che si poteva vedere chiaramente nella novella che egli si accingeva a raccontare.
Si raccontava che il ricchissimo mercante e usuraio Musciatto Franzesi, divenuto in Francia cavaliere,
grazie a traffici poco chiari con la corte del re di Francia Filippo il Bello, fu chiamato da papa Bonifacio
VIII, per il conferimento di una onorificenza. Egli doveva venire in Toscana con Carlo Senzaterra,
fratello di Filippo il Bello, per questo affidò a diverse persone la liquidazione dei suoi affari in Francia.
Gli rimase solo il dubbio su chi scegliere per la riscossione dei suoi crediti in Borgogna. Essendo i
borgognoni uomini litigiosi e sleali, non riusciva a trovare un uomo tanto malvagio che potesse
opporre alla loro malvagità.
Dopo lungo pensare, gli venne in mente ser Cepparello da Prato ,che spesso si rifugiava nella sua
casa di Parigi.
I francesi, poiché costui era piccolo e molto ricercato( manieroso) e affettato , da Cepparello, che
significava “cappello”,”ghirlanda” lo chiamarono non “Ciappello” ma “ Ciappelletto” e con questo nome
era conosciuto da tutti.
Ciappelletto viveva così. Era notaio e provava grandissima vergogna se non faceva atti notarili falsi,
facendosi pagare moltissimo. Diceva , con grande piacere, testimonianze false, richiesto e non
richiesto, e, dandosi grande fiducia in quei tempi, ai giuramenti, egli vinceva moltissime cause,
giurando spudoratamente il falso.
Provava straordinario piacere a provocare inimicizie e scandali tra amici e parenti e qualunque altra
persona, provandone maggiore allegria, quanto più grande era il danno. Invitato a partecipare ad un
omicidio o ad un altro misfatto, volentieri correva e, a volte, ferì o uccise con le proprie mani.
Bestemmiava molto Dio e i Santi e si adirava per ogni piccola cosa. Non andava in chiesa e riteneva
cosa vile i Sacramenti, deridendoli con parole volgari; al contrario, frequentava le taverne e i luoghi
malfamati. Amava le donne come i cani amano i bastoni. Avrebbe imbrogliato e rubato con una
coscienza che avrebbe offeso ogni uomo timorato di Dio.
Era golosissimo e gran bevitore, baro, giocatore di dadi truccati; senza dire altro, era il peggior uomo
che fosse mai nato.
Un tale soggetto fu protetto, nelle sue malefatte ,da messer Musciatto.
Messer Musciatto Franzesi, che conosceva bene la vita di ser Ciappelletto/Ciapparello, pensò che
fosse l’uomo giusto per la malvagità dei borgognoni. Perciò, fattolo chiamare ,gli disse “ Ser
Ciappelletto, come sai, devo allontanarmi da qui e, dovendo riscuotere dei crediti dai borgognoni, che
sono uomini pieni d’inganni, ho pensato di affidare tale incarico a te. Se lo assolverai bene ,ti farò
avere il favore della Corte e ti donerò una parte proporzionata a ciò che riscuoterai”.
Ser Ciappelletto che era ,al momento disoccupato e in cattive acque, subito accettò.
Ricevuta la procura e le lettere favorevoli del re, si recò in Borgogna, dove nessuno lo conosceva,
dopo la partenza di Musciatto. Lì si comportò benignamente e con mansuetudine ,senza adirarsi nello
svolgere il suo compito.
Mentre faceva queste cose ed era ospitato ,per rispetto a messer Musciatto, in casa di due fratelli
fiorentini, che prestavano denaro ad usura, si ammalò.
I due fratelli subito chiamarono un medico e lo assistettero come meglio potevano. Ma ogni aiuto era
inutile, perché l’esattore era già vecchio ed aveva vissuto disordinatamente ; i medici dicevano che
peggiorava di giorno in giorno perché aveva il male della morte.

I due fratelli se ne addoloravano molto e ,un giorno, vicino alla camera in cui ser Ciappelletto giaceva
infermo, cominciarono a discutere tra loro.
Essi dicevano “Che faremo di costui? Mandarlo fuori casa così gravemente ammalato, in procinto di
morire, ci procurerebbe grande biasimo e critiche da parte della gente che l’ha visto ricevere da noi,
prima, un’ottima accoglienza. D’altra parte è stato un pessimo uomo, per cui non si vorrà confessare,
né vorrà prendere alcun sacramento dalla chiesa. Morendo senza confessione ,nessuna chiesa
accoglierà il suo corpo che sarà gettato come quello di un cane. Seppure, poi, vorrà confessarsi, i
suoi peccati sono così orribili che nessun prete o frate lo potrà assolvere e, poiché non assolto, sarà
gettato nei fossi. Il popolo di Borgogna, conoscendo il nostro mestiere di usurai, che appare molto
iniquo, per la volontà di non pagarci, vedendo ciò, comincerà a gridare contro i Lombardi che non
sono stati accolti nella chiesa. Poi correrà alle nostre case, ruberà i nostri averi e ci ucciderà. Per cui,
comunque vada, siamo nei pasticci ,se costui muore”.
Ser Ciappelletto, che giaceva nella stanza accanto, udì quello che dicevano, avendo l’udito fine, per
cui li fece chiamare e disse loro “ Non voglio che possiate avere alcun danno per colpa mia. Ho udito
ciò che temevate, ma le cose non andranno così. Ho fatto tante offese a Dio nella mia vita che una in
più per la mia morte non farà né più ,né meno. Per questo fate venire un frate santo e lasciate fare a
me ; sistemerò così bene le cose che potrete essere contenti”.
I due fratelli, senza troppo fiducia, andarono in convento e chiesero di un frate che udisse la
confessione di un lombardo, che era infermo a casa loro. Fu mandato un frate molto venerabile,
esperto nelle Sacre Scritture, che tutti i cittadini stimavano.
Il frate, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giaceva, si pose a sedere al lato e gli domandò da
quanto tempo non si confessava.
Ser Ciappelletto, che non si era mai confessato in vita sua, rispose “ Padre mio , è mia abitudine
confessarmi almeno una volta alla settimana, alcune settimane anche di più, però, da quando mi sono
ammalato, sono otto giorni che, con mio sommo dispiacere, non mi confesso “.
Dietro le insistenze dell’infermo, che ben disposero la sua mente, il sant’uomo iniziò la confessione, e
cominciò col chiedere se avesse mai peccato di lussuria con alcuna donna.
Il malato, sospirando ,rispose che era vergine ,come uscì dal corpo della madre.
Il frate lo lodò perchè egli aveva evitato il peccato di lussuria, anche se era libero di amare, a
differenza dei religiosi che si abbandonavano alla lussuria, anche se ciò era vietato dalle regole della
religione.
Domandò, poi, se aveva commesso il peccato della gola, al che l’interrogato rispose che si e molte
volte e ,per punirsi, oltre ai digiuni della quaresima, ogni settimana, almeno per tre giorni, aveva
l’abitudine di digiunare a pane ed acqua. Provava grande soddisfazione soprattutto nel bere ,come
facevano i grandi bevitori di vino dopo la fatica di un lungo pellegrinaggio.
Il confessore rispose “Figlio mio ,questi sono peccati naturali e leggieri, ad ogni uomo sembra buono il
mangiare dopo un lungo digiuno e il bere dopo la fatica .
Ma dimmi se hai peccato in avarizia, desiderando più del giusto o tenendo più di quello che dovresti?
“.
E ser Ciappelletto rispose “ Padre mio, non sospettate di me, perché sono in casa di questi usurai. Io
non ci ho niente a che fare, anzi sono venuto per convincerli a lasciare questo abominevole guadagno
e credo che ci sarei riuscito se Dio non mi avesse mandato questo malanno. Dovete sapere che mio
padre, alla sua morte, mi lasciò ricco ed io diedi la maggior parte in elemosine, e poi, per continuare a
vivere dignitosamente e per aiutare i poveri, ho avviato piccoli commerci. Quello che ho guadagnato,
comunque, l’ho sempre diviso a metà con i poveri, cosa che è stata gradita a Dio, che ha fatto
crescere i miei guadagni “.
Il frate chiese, ancora, al malato se si era ,talvolta ,adirato.
E Ciappelletto rispose che sì ,si adirava spesso quando vedeva i giovani inseguire le vanità e
bestemmiare e andare per taverne, non frequentare le chiese e non seguire la via del Signore. Il
sant’uomo rispose che quella era un’ira giusta, ma era sbagliata se lo aveva portato all’omicidio e alla
violenza. Il vecchio negò con convinzione.
Il frate gli diede la benedizione e gli chiese se aveva mai reso falsa testimonianza o aveva parlato
male di qualcuno o aveva rubato. E l’interrogato rispose che solo una volta aveva parlato male , con i
parenti, di un uomo che picchiava la moglie, quando aveva bevuto troppo. Ancora il confessore gli
domandò se , essendo mercante, aveva mai ingannato qualcuno. E Ciappelletto rispose che solo una
volta aveva ingannato un uomo che non conosceva. Costui gli recò i denari per pagare una stoffa che
gli aveva venduto. Il mercante mise i denari in cassa, senza contarli, solo dopo un mese si accorse
che vi erano quattro spiccioli in più del dovuto, aspettò un anno per restituirli, poi li diede in elemosina.
Il frate gli domandò ancora molte altre cose ed il malato si rammaricò di aver ordinato ,una volta, ad
un domestico di spazzare di sabato, a notte inoltrata, quando già era iniziata la domenica, che, per
questo, non era stata onorata come Dio voleva. Confessò, poi, di aver, inavvertitamente, sputato in
chiesa una volta.
Il sant’uomo ,sorridendo, rispose che anche i religiosi vi sputavano tutto il giorno.
Ed infine, come ultima colpa, confessò, con grande pentimento, di aver bestemmiato, quando era
piccolino, la mamma sua e, detto ciò, cominciò a piangere forte. Il confessore disse “ Figlio mio,
questo non è poi un gran peccato, gli uomini ,tutto il giorno, bestemmiano Dio, ma Dio volentieri
perdona chi si pente, tanto grande è la sua misericordia. Se tu fossi stato tra coloro che lo crocifissero
e avessi dimostrato un pentimento così grande ,come stai facendo ora, il Signore, sicuramente, ti
avrebbe perdonato”.
Il religioso gli dette l’assoluzione e la benedizione, ritenendolo uomo santissimo, credendo a tutto ciò
che l’infermo gli aveva detto. E chi non ci avrebbe creduto, udendo un uomo dire così in punto di
morte?
Gli chiese, poi, se, in caso di morte ,voleva essere sepolto in Borgogna.
E il moribondo rispose “ Ebbene si, voglio essere sepolto qui, dopo che mi avete promesso di pregare
Dio per me. Anzi, quando ritornate al convento, disponete di portare da me il Corpo di Cristo per
l’estrema unzione, affinchè ,io che sono vissuto come un peccatore, muoia come un cristiano”.
Il frate, commosso, fece come gli era stato richiesto.
I due fratelli, che ascoltavano di nascosto, quasi scoppiavano dalle risate e dicevano “ Che razza di
uomo è costui che non teme neanche il giudizio di Dio, al cui cospetto si troverà tra poco, timore che
non lo ha indotto a rimuovere la sua malvagità ? ”
Ma, vedendo che tutto quello che aveva detto gli aveva procurato la sepoltura in chiesa, non si
preoccuparono d’altro.
Ser Ciappelletto ,dopo poco, si comunicò e ricevette l’estrema unzione.
I due fratelli chiamarono i frati perché andassero a fare la veglia notturna e predisponessero per la
sepoltura.
Il frate che lo aveva confessato arrivò insieme al priore e, ritenendo il morto un santo uomo, convinse
il suo superiore a seppellire quel corpo con grande riverenza e devozione.
Il priore e gli altri frati creduli, predisposero una grande veglia e un corteo funebre molto solenne,
indossando i paramenti religiosi, con al seguito quasi tutto il popolo. Poi il frate iniziò l’elogio funebre
raccontando della vita, della verginità e di tutte le cose straordinarie che il mercante gli aveva
raccontato in punto di morte.
Ed, infine, si rivolse ai fedeli che lo ascoltavano ,dicendo “ E voi, maledetti da Dio, che per ogni
sciocchezza bestemmiate Dio, la Madonna e tutta la Corte del Paradiso”.
Tutti i fedeli fiduciosi, dopo la celebrazione, presi da una grande devozione, si accalcarono intorno al
feretro, per baciargli i piedi e le mani. Gli stracciarono i panni di dosso per conservarne almeno un
pezzetto, come reliquia. Si decise, allora, di tenerlo esposto per tutto il giorno, affinchè tutti potessero
vederlo.
Poi, sopraggiungendo la notte, fu seppellito in una cappella di marmo.
Il giorno seguente cominciarono ad arrivare le genti per adorarlo, per fare voti, per ottenere una
grazia.
E tanto crebbe la fama della sua santità, che la maggior parte degli abitanti della Borgogna fece voti a
lui e lo chiamò San Ciappelletto.
Così visse e morì Ser Ciappelletto da Prato e divenne santo, come avete udito.
Panfilo concluse la narrazione dicendo “ Non voglio negare che Dio, nella sua infinita misericordia,
abbia potuto riceverlo nel suo regno, ma ritengo che egli dovrebbe essere dannato nelle mani del
diavolo, piuttosto che in Paradiso. Ma il Signore, conoscendo la buona fede degli uomini, spero che
abbia esaudito le preghiere dei borgognoni a lui rivolte, attraverso quell’uomo falso e bugiardo. Anche
noi, che siamo sani e salvi in questa lieta compagnia, ci raccomanderemo a Dio, sicuri di essere
ascoltati “.

commento:
il decameron inizia e si conclude nel nome di dio. questa prassi retorica diventa per il primo
novellatore una occasione per riflettere sul rapporto tra le umane cose e la divina essenza, sui modi di
intendere la divina presenza e fra le contingenze della storia si fonda il dicosrso di panfilo. Per panfilo
tutta la vicenda di ciappelletto è actio di dio: questo paradosso segna di per sè l’intero paradosso
dell’opera, la riduzione della novella a una mera satira dei costumi ecclesiastici, possibile unicamente
se si pongono sotto silenzio linizio e la fine del racconto, lascia cadere dalla lettura del decameron la
radicalmente nuova impostazione del discorso sul sacro, che attraversa invece tutta l’opera, con le
caratteristiche che si definiscono delle priam tre novelle.
Per il narratore esistono due piani della realta: uno impermutabile la cui ratio ed essenza sfuggono al
nostro sguardo, l’altro intramondano, in perenne mutamento. dio è quindi impermutabile creatore del
mondo, dove le cose temporali sono tutte transitorie e mortali.
gli uomini, che vivono "mescolati" alle "cose" poiché sono "parte d'esse", non possono con le sole loro
forze contrastare la mute volezza del mondo e i suoi effetti. La natura permixta della realtà, come
pure del libro che la rappresenta (Concl. dell'Aut., 18), è ibrida di bene e di male, come lo
sono, in sé e fuor di sé appunto, gli uomini tutti. La verità da comprendere, per Panfilo, passa
attraverso il discernimento delle realtà permixtae, al modo stesso in cui il discernimento richiede,
come s'è cominciato ad accennare, uno sguardo acutamente ironico, che sia in grado di cogliere le
contraddizioni della storia senza esserne irretito. : la grazia di Dio, che sola sottrae gli uomini
dal flusso temporale della contingenza e dai suoi effetti, si riverbera in fortezza d'animo e altezza
d'ingegno. Dunque, la grazia si manifesta nella lettura intelligente della storia e nella magnanimità del
carattere.
il merito o il demerito individuale non giustificano, perché non lo determinano, il movimento oblativo
della grazia. Questa indipendenza della grazia dal merito e dal peccato (perfino dei chierici, secondo
una prospettiva che si estende all'opera intera)
Boccaccio, per ragionare sulla santità, muove dalla considerazione della nostra fragilitas, della quale i
santi, come uomini, furono "informati" perché la sperimentarono e la superarono. Gli uomini,
consapevoli di essere fragili e imperfetti, scelgono così di rivolgersi a Dio attraverso alcuni mediatori,
che, come loro, furono coscienti della debolezza umana: la reale bontà o la effettiva malvagità di
costoro, non conosciuta dalle persone che li pregano, nulla toglie alla sincerità della fede degli uomini,
cui Dio guarda, per Panfilo, come pure per Neifile nella novella successiva,
attraverso il Male storico (individuale, come nel caso di Cappelletto, o collettivo).
per ogni fatto umano s'incrociano, nel Decameron, due sguardi: uno, "al quale niuna cosa è occulta"
che è quello di Dio; l'altro, che è quello umano, acuto, intelligente, ironico, ma consapevole della
propria "fragilità". Poiché il primo è insondabile, se ne può cogliere la rifrazione unicamente nella
dimensione terrena del secondo.
Per Dio, non conta tanto il contenuto della preghiera, né l'intercessore che gliela porge, ma la retta
intenzione del fedele.
Sicché Ciappelletto esemplifica l'approccio paradossale, ironico e liberatorio con il quale Boccaccio
esprime il rapporto fra gli uomini e la verità, mediato da un uomo per il quale "Dio è indifferente, non
iguarda, non sa esista o non esista. Quanto più è efficace la rappresentazione di Cappelletto, tanto
più diventa sorprendente per il lettore la modernità di approccio di Panfilo alle "cose mondane"
. Poiché di Dio non si può parlare apertamente, se non sola fide, se ne intuisce la natura attraverso la
considerazione contingente di ciò che Egli non è. La sua "benignità si coglie allora "manifestamente
", nel Decameron. si comprende qualcosa della natura di Dio, per Boccaccio-Panfilo-Teogapen,
parlando degli uomini. Il libro terreno, che "contie ne cento umani "fortunati avvenimenti" 'raccontati
da dieci giovani, suggerisce in absentia, cioè negativamente, la natura divina. Ecco allora che il
paradosso, stru mento conoscitivo indispensabile a una mente ironica che si misura con le
contradizioni della storia, non nega la verità, ma ne costituisce, nel quotidiano teatro del mundus
inversus della storia trecentesca, una modalità di manifestazione storica. Il riso, la beffa di una realtà
religiosa che è, in se stessa, rovesciata rispetto ai suoi medesimi presupposti (come accade ora, nella
seconda novella e lungo tutto il Decameron), non solo non confligge con la verità, ma la manifesta,
perché rivela
le incongruenze e le illusioni, le menzogne e le contraffazioni dell'epoca. Ne con-
segue, sul piano della narrazione, che il linguaggio della realtà è anche, nel Deca-
meron, il linguaggio della prospettiva teologica del Boccaccio (apofatica). Una tale coincidenza
programmatica fra teologia negativa e realismo rappresentativo inserisce senza possibilità di equivoci
il decameron nelle prospettive della teologia poetica, all’interno delle quali occupa tra l'altro un luogo
di primaria consapevolezza.
La fiducia nelle preghiere sta nella capacità di formularle secondo le
premesse dei. La
'spezial grazia" di Dio esaudisce la preghiera di coloro
che chiedono orza e avvedimento per contrastare le presenti avversità", come accade appunto "in
questa compagnia così lieta"
È l'unico caso "in cui alla fine della novella riappaia, in qualche modo, il narratore": caso eccezionale
in t tutto il Decameron, a riprova dell'importanza degli argomenti trattati, che avviano un'opera nella
quale, ove si considerino le dieci novelle della I Giornata, cinque toccano e trattano temi teolo- gici ed
ecclesiastici, mentre le altre cinque indugiano, in diversi modi, sul retaggio del mondo cortese
considerato nelle sue principali qualità: arguzia d'intelletto, eleganza di linguaggio, amicizia, amore,
ospitalità, liberalità, giustizia. La prospettiva religiosa è affrontata sia dal punto di vista speculativo, sia
da quello, per così dire, etico e politico .

GIORNATA 1 NOVELLA 5
NARRATORE: Fiammetta

La marchesa di Monferrato respinge il folle amore del re di Francia con un banchetto a base di galline
e con alcune cortesi parole.

La novella di Dioneo fece apparire ,sul viso delle donne che ascoltavano, un rossore pudico, perché si
vergognavano, ma , guardandosi l’un l’altra, non poterono fare a meno di ridere.
Quando terminò la narrazione, con dolci parole, fecero notare al narratore che simili novelle non si
dovevano raccontare a donne gentili.
La regina , poi, comandò a Fiammetta di continuare.
Ella, con viso lieto, incominciò dicendo che avrebbe continuato nel dimostrare che una pronta risposta
può avere molta forza. E, come gli uomini cercano di amare una donna di più alto ceto rispetto a loro,
così le donne ritengono di grande importanza evitare di innamorarsi di un uomo più nobile di loro.
Voleva provare come una gentildonna si fosse difesa da questo pericolo con opere e con parole.
E cominciò a raccontare del Marchese del Monferrato, uomo di grande valore, gonfaloniere di
giustizia, che si era recato in Terrasanta, partecipando alla Crociata.
Del suo valore si parlava alla corte di Filippo il Guercio , che si preparava a partire dalla Francia, per
partecipare anche lui alla terza Crociata, per riconquistare la Terrasanta.
Gli fu detto da un cavaliere, che non vi era sotto le stelle una coppia simile a quella del marchese e
della sua sposa, che era la più bella e la più valorosa di tutte le donne del mondo.
Queste parole infiammarono tanto l’animo del re di Francia, che egli si innamorò perdutamente della
donna, senza averla mai vista.
Decise, allora, di imbarcarsi da Genova, andando via terra, in modo da poter passare dal Monferrato
per andare a vedere la Marchesa, senza metterla in difficoltà, data l’assenza del marito.
Mandò avanti tutti gli uomini e ,con un piccolo gruppo di gentiluomini, si mise in cammino.
Avvicinatosi alle terre del Marchese, un giorno prima di arrivare, mandò ad avvisare la donna, che, il
giorno seguente ,avrebbe pranzato a casa sua.
La donna, saggia e prudente, rispose che era un grande onore per lei ricevere il re di Francia, che era
il benvenuto. Pure , ebbe qualche sospetto perché, generalmente, un re non visitava una dama , se il
marito era assente. Tuttavia ordinò agli uomini di casa di sistemare ogni cosa nel migliore dei modi,
ma, al banchetto e alle vivande volle pensare solo lei.
Senza indugiare, fece raccogliere tutte le galline che vi erano nel paese e ordinò ai cuochi che
fossero cucinate in vari modi per il banchetto reale.
Il giorno dopo arrivò il re, che fu ricevuto con grandi onori.
Egli, non rimanendo per niente deluso, trovò la donna più bella rispetto a tutte le sue aspettative e se
ne invaghì ancora di più.
Dopo essersi riposato in camere arredate con grande raffinatezza, venuta l’ora del desinare, il re e la
marchesa sedettero alla stessa tavola; gli altri, in base ai loro titoli , furono sistemati in altre mense.
Furono portati, in successione, diversi piatti e ottimi vini, ma il re si meravigliò che, anche se le
pietanze erano diverse, erano servite soltanto galline.
Siccome sapeva che nel Monferrato c’era grande varietà di selvaggina, che la marchesa avrebbe
potuto procurarsi per preparare il banchetto, si meravigliò della cosa.
Con viso sorridente chiese, allora, alla dama “ Donna, in questo paese nascono solo galline, senza
nessun gallo?”. Ed ella ,ben comprendendo il senso di quelle parole, rispose coraggiosamente “Mio
signore, ma le femmine , sebbene i loro vestiti e i loro titoli cambino, sono fatte tutte nello stesso
modo, sia qui che altrove”.
Il re, udite queste parole, capì perché gli erano state servite soltanto galline e si rese conto che, con
tale donna, le parole sarebbero state sprecate.
Come si era, sventatamente acceso di lei, così, saggiamente, doveva spegnere il fuoco mal
concepito, e, senza più scherzare, temendo le di lei argute risposte, pranzò senza più speranza.
Terminato il pranzo, rapidamente, senza svelare le sue cattive intenzioni, la ringraziò per l’onore di
essere stato ricevuto nella sua casa ,e, raccomandatala a Dio, se ne andò da Genova.

PRIMA GIORNATA NOVELLA 8


narratore: Lauretta
Gugliemo Borsieri ,con garbate parole, colpisce l’avarizia di messere Erminio Grimaldi.

Luaretta, che era seduta accanto a Filostrato, dopo aver sentito lodare l’intelligenza di Bergamino,
cominciò a parlare dicendo che la storiella del cortigiano che aveva colpito l’avarizia del ricco
mercante, ottenendo un buon esito, la spingeva a raccontare un’altra storia.
Nei tempi passati, a Genova, viveva un gentiluomo , chiamato Erminio de’ Grimaldi, che, per le sue
immense ricchezze ,superava tutti i signorotti d’Italia. Come li superava in ricchezza, così li superava
in avarizia ed era più avaro di tutti gli avari.
Manifestava la sua avarizia non solo verso gli altri, ma anche verso sé stesso.
A differenza degli altri genovesi che, pur essendo avari, amavano vestire nobilmente, egli, per non
spendere, sosteneva che il lusso fosse un difetto, così come il mangiare e il bere. Per questo fu
chiamato da tutti “Messere Erminio Avarizia”.
Mentre costui non spendeva e, quindi, le sue ricchezze si moltiplicavano, arrivò a Genova un valente
uomo di corte, elegante e colto, di nome Guglielmo Borsieri, per niente simile ai corrotti cortigiani di
quel tempo, che volevano essere considerati gentiluomini, mentre dovevano, piuttosto, essere
chiamati asini per la bruttura della loro malvagità.
Il mestiere degli uomini di corte, a quei tempi, era di trattare paci, dove erano scoppiate guerre e litigi
tra nobili, combinare matrimoni, stringere amicizie, con piacevoli discorsi rasserenare gli animi
affaticati, rallegrare le riunioni , e, con rimproveri, come padri, rimproverare i difetti, con frasi prudenti.
In quel tempo , invece, i gentiluomini passavano il loro tempo a dire cattiverie e cose tristi, e ,quel che
era peggio, a farle in presenza degli uomini ,accusandosi scambievolmente. Ed era lodato e premiato
dai miseri e scostumati signori colui che diceva e faceva le cose più abominevoli. Era del tutto
evidente che ,in quell’epoca, le virtù avevano lasciato posto ai vizi abbandonando i miseri viventi.
Ma ,ritornando all’inizio, Guglielmo Borsieri fu onorato e ben accolto da tutti i genovesi e avendo
sentito parlare dell’avarizia di messere Erminio, lo volle conoscere.
Messere Erminio, che già aveva sentito parlare di Guglielmo Borsieri, era un uomo di valore e,
sebbene fosse avaro, pure aveva un qualche sprazzo di gentilezza, per cui lo ricevette cortesemente
e lo trattenne con vari ragionamenti.
Conversando piacevolmente, lo portò ,insieme con altri ospiti, a visitare una sua casa nuova, molto
bella.
Dopo avergliela mostrata tutta, disse “ Messer Guglielmo, voi che avete visto e udito molte cose, mi
sapreste insegnare qualche cosa ,non ancora vista da nessuna parte, che possa dipingere nella sala
di questa mia casa?”.
Guglielmo rispose “Signore, non saprei insegnarvi niente che non sia già stato visto, ma, se vi piace,
ve ne insegnerò una che ,credo ,voi non vedeste mai”.
Ed Erminio disse “ Orsù, vi prego, ditemi qual è”, non aspettandosi la risposta che ricevette.
A ciò Guglielmo, prontamente, rispose “ Fateci dipingere la Cortesia”.
Messere Erminio, udita questa parola, fu preso, immediatamente, da una grande vergogna, così che
mutò completamente il suo comportamento e disse “Messer Guglielmo, io la farò dipingere in
maniera che né voi, né altri potranno dire che io non l’ho mai vista né conosciuta”.
Da quel giorno in poi, tanto fu il potere delle parole di Guglielmo che “Messere Erminio Avarizia”
divenne il più cortese e liberale gentiluomo di Genova.

commento:
L’uso delle ricchezze è rappresentato da boccaccio nelle sue premesse e conseguenze sociali. La
cortesia è l’antimodello della declinante società comunale, travolta da crisi politiche e tracolli
finanziari. La cortesia non è più un sistema politico e sociale ma una forma di educazione da proporre
alle èlites della firenze trecentesca. peculiare tratto della cortesia per boccaccio è la capcità di
intelligente e garbata mediazione tra opposti interessi, ricompone i dissidi dell’indidviduo che la
professa, proietta nella società le proprie virtù e si fa per questo motivo portatrice di amicizia e pace.
La mutatio vitae di erminio avviene una volta ancora in questa giornata attraverso l’interpretazione di
una fictio. La virtù di Guglielmo, che rende credibile e pertanto efficace il suo richiamo all’allegoria
della cortesia, suggerisce un altro aspetto che investe l’intero decameron: il carattere esemplare dei
racconti che devono offrire diletto e utile consiglio.

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.9

Il re di Cipro, colpito dalle parole di una donna della Guascogna, da vile che era divenne valoroso.

Elissa, cui toccava raccontare, senza attendere l’ordine della regina, iniziò dicendo che ciò che non
erano riusciti a fare tanti tentativi e tante imprese, poteva ottenere una parola detta per caso,non di
proposito.
Il che si vedeva bene dalla novella raccontata da Lauretta ed ella stessa l’avrebbe dimostrato subito.
E raccontò che al tempo di Guido da Lusignano, primo re di Cipro, dopo che Goffredo di Buglione
aveva conquistato Gerusalemme, nella prima Crociata, una gentildonna di Guascogna, andò in
pellegrinaggio al Santo Sepolcro ; al ritorno, giunta a Cipro, fu oltraggiata da alcuni uomini scellerati.
Poiché non riusciva ad avere consolazione, pensò di andare a denunziare l’accaduto al re. Ma le fu
detto che era del tutto inutile. Infatti il sovrano era così indolente e vile che non solo non applicava la
giustizia alle offese fatte ai suoi sudditi, ma, anzi, sopportava con vergognosa viltà quelle che
facevano a lui, per cui chi non riceveva giustizia, si sfogava offendendolo.
Avendo udito queste cose, la donna, pur non sperando vendetta, volle andare a constatare la viltà del
re e, recatasi, piangendo, al suo cospetto, disse “Maestà, non vengo in tua presenza per avere
vendetta dell’offesa ricevuta, ma per placare il mio dolore. Ti prego, insegnami come tu sopporti le
offese che, ho sentito che ti sono fatte ,in modo che ,imparando da te , posso, pazientemente,
sopportare la mia. Ti donerei volentieri la mia offesa, se potessi, sapendo che tu sai sopportare così
bene”.
Il re, fino a quel momento indolente e pigro, come se si svegliasse da un sogno, duramente punì
l’ingiuria fatta alla donna, e, in seguito, divenne rigidissimo persecutore di tutte le offese fatte all’onore
della sua corona.

commento: La misura della viltà del re è quella di non essere in grado di rendere giustizia a una
donna che ha subito una violenza. Poichè la ministerialità della potestas è il solo ideale che per
boccaccio fattivamente giustifichi la sovranità, il caso della 1-9 è di particolare interesse. Dal
principio alla fine il decameron non discute la sottomissione delle donne agli uomini ma per salvare la
dignità della donna nel contesto ordinato della familia inserisce un rivoluzionario sistema d’allarme a
protezione di quella medesima dignità: quell’ordine vale se e soltanto se l’uomo è come cristo servus
aequitas, cioè se serve onora e tutela la donna. questa, se è offesa o disonorata può legittimamente
ribellarsi rivendicando la propria natural ragione beffando il marito trovando un altro uomo che la ami
e la allieti.
DECAMERON NOVELLA 6 GIORNO 4
Narratore: Panfilo

Trama:
L’Andriuola ama Gabriotto: gli racconta di aver fatto un sogno ed egli racconta a lei di averne fatto un
altro; muore all’improvviso nelle sue braccia; mentre con la sua fantesca lo porta alla casa di lui,
sono prese dalle guardie, ed ella racconta come sono andate le cose: il podestà la vuole possedere,
ma ella non lo sopporta: sentendolo il padre di lei, poiché è innocente la fa liberare, ed ella si fa
monaca di clausura, rifiutando del tutto di stare nel mondo.

La novella raccontata da Filomena fu graditissima alle donne che avevano sentito cantare molte volte
quella canzone, ma, per quanto avessero chiesto, non avevano mai potuto sapere perché era stata
fatta.
Il re diede ordine a Panfilo di continuare.
Il giovane disse che la novella precedente gli dava lo spunto per raccontarne una nella quale si
parlava di due sogni che preannunciarono eventi futuri.
Le sue compagne dovevano, comunque, sapere che era impressione di tutti i viventi che le cose che
apparivano nei sogni fossero verissime, e, una volta svegliatosi, le considerassero alcune vere, altre
verosimili, altre lontane dalla realtà; talvolta esse avvenivano per davvero.
Perciò molti prestavano ai sogni grande fiducia , come se fossero reali e per quelli si rattristarono o si
rallegravano e temevano o speravano; altri , al contrario, non ci credevano per nulla, se non che si
trovavano nei pericoli preannunciati dai sogni.
Panfilo riteneva che i sogni non erano sempre veri e non erano sempre falsi, come dimostrano sia la
novella precedente che quella che stava per raccontare.
Nella città di Brescia viveva un gentiluomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro, che, tra i molti
figli, aveva una figlia che si chiamava Andreuola, giovane, bella e senza marito. Ella si innamorò,
ricambiata, di Gabriotto, uomo di bassa condizione ma bello e garbato.
Con l’aiuto della fantesca , i due, nel bel giardino del padre ,si incontrarono spesse volte.
Divennero , segretamente, marito e moglie, promettendosi che solo la morte li avrebbe separati.
Una notte, mentre continuavano gli incontri furtivi, la giovane sognò di essere nel suo giardino con
Gabriotto.
Mentre egli la teneva fra le braccia, dal corpo di lui uscì una cosa oscura ed orribile, a lei
sconosciuta, che le strappò il giovane dalle braccia e se lo portò sotto terra ,senza che i due
innamorati potessero più rivedersi.
Si svegliò agitata e, sebbene si fosse resa subito conto che si trattava di un sogno, pure ebbe paura.
La notte seguente evitò di incontrarsi con l’innamorato per timore.
Poi, la notte successiva lo ricevette nel suo giardino per evitare sospetti.
Accolto con grandi feste, Gabriotto le chiese perché la notte precedente non aveva voluto
incontrarlo.
La giovane gli raccontò il sogno e il presentimento che l’aveva presa.
Il giovane ,udendo ciò, rise e disse che era una sciocchezza credere nei sogni che si facevano o per
aver mangiato troppo o troppo poco.
Aggiunse che se avesse voluto credere ai sogni non si sarebbe incontrato con lei.
Infatti anch’egli ,la notte prima, ne aveva fatto uno. Aveva sognato di essere in un bel bosco e di aver
catturato una capriola bella come non ce n’erano altre, bianca come la neve. In breve tempo egli
l’aveva addomesticata e, per evitare che si allontanasse, le aveva messo intorno al collo un collare
d’oro, con una catena d’oro.
Una volta, mentre la capriola stava appoggiata con il capo sul suo grembo, uscì all’improvviso una
cagna da caccia, nera come il carbone, spaventosa a vedersi, e andò verso di lui. La cagna lo
aggredì e gli strappò il cuore dal petto per portarselo via.
Egli provò un dolore tanto grande che si svegliò di soprassalto e si mise la mano sul cuore per
vedere se tutto era a posto, non trovando alcun danno rise di sé stesso. Aggiunse che di sogni così e
anche più spaventosi ne aveva già fatti, ma non si erano mai avverate le cose che aveva sognato;
perciò non ci dovevano più pensare e dovevano stare allegri.
La giovane ,udendo il sogno di Gabriotto, si spaventò ancora di più, ma ,per non rattristarlo, nascose
la sua paura e lo baciò e abbracciò teneramente. Non sapendo il perché, si guardava intorno per
vedere se qualche cosa nera apparisse.
Mentre stavano così, all’improvviso Gabriotto ,emettendo un sospiro, le chiese aiuto e, cadendo
sull’erba del prato, morì. La giovane pianse disperatamente e più volte invocò il nome di lui invano.
Poi , accortasi che era del tutto morto, non sapendo che fare, chiamò la sua domestica, che sapeva
tutto, e le rivelò la causa del suo dolore.

Andreuola disse alla fantesca che non voleva più vivere senza il suo amore, ma prima di uccidersi,
pur conservando il segreto, voleva seppellire onorevolmente il corpo dell’uomo.
La donna la scongiurò di non uccidersi perché sarebbe andata all’inferno, dove sicuramente non era
andata l’anima di Gabriotto, che era stato un bravo giovane; meglio era pregare per l’anima di lui.
Bisognava ,invece, pensare a seppellirlo, di nascosto, portarlo fuori dal giardino, sulla strada, dove
qualcuno, l’indomani, l’avrebbe trovato e portato ai suoi parenti per la sepoltura.
La giovane non volle lasciare abbandonato nella strada, come un cane, il corpo del marito, tanto
amato.
Voleva che avesse, oltre le sue lacrime, anche quelle dei suoi parenti. Decise, perciò, cosa fare.
Ordinò alla serva di prendere dal forziere un drappo di seta molto prezioso.
Lo misero per terra e vi posero sopra il corpo del morto, con la testa appoggiata su un cuscino ,con
gli occhi e la bocca chiusa, con una ghirlanda di rose e con tutte rose intorno.
Avvicinandosi il giorno, sollecitata dalla cameriera, si tolse dal dito l’anello con cui Gabriotto l’aveva
sposata e lo mise al dito di lui, come ultimo dono di colei che, in vita, aveva tanto amato. Poi ,per il
gran dolore, svenne sul corpo del giovane.
Riprese le forze, insieme alla fantesca, preso il drappo, su cui giaceva il corpo, uscì dal giardino e si
diresse verso la casa di lui.
Mentre andavano furono catturate dalle guardie della Signoria.
Andreuola, desiderosa più di morire che di vivere, raccontò alle guardie ciò che era successo e
chiese di essere portata davanti al signore. Nessuno, però, doveva toccare il corpo del morto, che
ella portò con sé al palazzo della Signoria.
Il Podestà, udita la cosa, ricevette la donna nella sua stanza e si fece raccontare l’accaduto
I medici, chiamati dal Signore, verificarono che l’uomo non era stato ucciso con il veleno o in altro
modo. Affermarono che era morto perché era stato affogato dal sangue di un ascesso che si era
rotto vicino al cuore.
Il Podestà, udendo che la giovane era innocente, promise di liberarla se avesse acconsentito ai suoi
piaceri.
Non riuscendo a convincerla, tentò di violentarla.
Andreuola, adirata, si difese con grande energia ,cacciandolo via.
Venuto il giorno, queste cose furono riferite a messer Negro, che andò dal podestà per riavere sua
figlia.
Il podestà, per evitare di essere accusato dalla donna ,le fece molte lodi per l’amore e la costanza
dimostrate, e, preso da grande amore, nonostante che ella già aveva sposato un uomo di bassa
condizione, la chiese in moglie al padre.
Frattanto Andreuola giunse al cospetto del padre e gli disse “ Padre mio, è inutile che vi racconti tutta
la mia sciagura, che voi, sicuramente, già conoscete. Vi chiedo perdono di aver preso per marito,
senza il vostro consenso, chi più mi piacque. Questo perdono ve lo chiedo non per aver salva la vita,
ma per morire come vostra figlia, non come vostra nemica”.
Messer Negro ,che era molto vecchio e di natura buono e amorevole, piangendo sollevò in piedi la
figlia e disse “Figlia mia, mi fa soffrire la poca fiducia che hai avuto in me, nascondendomi il tuo
matrimonio ,e ancor di più il fatto che tu abbia perduto tuo marito prima che io l’avessi saputo. Ma
l’onore di accoglierlo ,volentieri, come mio genero, per farti contenta, che non ho potuto concedergli
in vita, glielo concederò per la sua morte”.
Fece ,quindi, preparare a Gabriotto un esequie grande e onorevole.
La voce si diffuse rapidamente e giunsero da ogni parte della città i pareti del morto e tutti gli uomini
e le donne. Non come un plebeo ma come un signore fu portato fuori dal cortile del palazzo pubblico
a spalla dai più nobili cittadini, con grandissimo onore, per la sepoltura.
Dopo alcuni giorni messer Negro chiese alla figlia se voleva sposare il Podestà che l’aveva chiesta in
moglie.
Andreuola non ne volle sapere, ma preferì farsi monaca , insieme con la sua fantesca, in un
monastero molto
famoso per la santità, e lì vissero onestamente per molto tempo.

Commento: pg.528, 529, 530


le donne della brigata non sono soltanto colte ma presentano una sorta di impulso storico critico:
questa inclinazione delle donne a ragionare così profondamente sulle novelle è un ulteriore segno del
ruolo centrale della compagnia e del ruolo che incarna: INTERPRETATIO dell’opera. Questo aspetto
che fa del decameron il racconto di un’esegesi del mondo e la simultanea esegesi di un racconto, è
presentato da e nella brigata, che è il normografo per misurare ciascun racconto.
I sogni= culmine del de casibus. tra il vero e il falso sta la fictio, il finto, l’invenzione, che tra la verità e
la menzogna sceglie la strada dell’invenzione, di una logica combinatoria e simbolica che permette di
trasmettere la verità a condizione di affidarla all’intelligenza interpretativa del fruitore. I sogni per
panfilo, che ne sempre son veri ne ogni volta falsi, sollecitano in panfilo la centralità dell’esegesi del
mondo come unica garanzia di distinguere la natura.Il ragionamento di panfilo argomenta sul
rapporto tra percezione e verità.
Gabbriotto non crede nei sogni e ne da un’interpretazione materialistica, Andreuola invece piu colta
di lui resta in apprensione gravata da funesti presagi. L’incapacità esegetica di gabbriotto lo conduce
alla morte.
riverbero simbolico: sogna una cavriuola - Beritola

Il prologo di questa novella è prezioso per intendere l'ufficio svolto da Panfilo nel Decameron, se non
altro perché quell'ufficio viene a essere per suo tramite una caratteristica dell'intera brigata e, di
conseguenza, delle novelle che essa racconta. Fin dalla novella di Ciappeletto, Panfilo ha insegnato
alla compagnia, non meno che ai lettori, come il nostro "debole acume" come lo sguardo del nostro
"occhio
mortale” possa giudicare di "quello che ne può apparire" . La storia, il linguaggio, la società, la
politica, la religione, i commerci, la cultura: tutto viene scrutato a partire da quel che appare"', per
leggervi
in filigrana, come fa Dio con le dissimulazioni linguistiche dei chierici "nomi delle cose" corrotti, la
intenzione" nascosta nei "nomi delle cose" e nel "significato di vocaboli"
. L'intelligenza operosa nel decifrare le apparenze, l'accettazione ironica della loro disarmonia sono
quanto Panfilo professa sin dall'esordio del Decameron. Con questo sguardo, che percorre e
riguarda le parvenze (storiche e naturali), Panfilo e la brigata si avvezzano e ci avvezzano a conoscere
le forme molteplici della storia. Tutto il suo discorso è un esempio di "onirocritica", per la semplice
ragione che l'esegesi della vita è il dovere che egli assume e che trasmette all'intera compagnia.
NOVELLA 7 GIORNO 4
narratrice: Emilia

La Simona ama Pasquino; mentre sono insieme in un orto, Pasquino si sfrega i denti con una foglia
di salvia e muore; viene catturata Simona che, volendo mostrare al giudice come era morto
Pasquino, si sfrega i denti con quelle foglie e muore anche lei.

Panfilo aveva concluso il suo racconto quando il re fece segno ad Emilia di continuare. Ed ella ,
senza indugio, cominciò dicendo che la sua novella era simile a quella di Andreuola solo nel fatto che
la protagonista perse l’amante nel giardino e fu catturata come Andreuola. Si liberò dell’accusa non
con la forza né con la virtù, ma con la morte.
Come già era stato detto, Amore prediligeva le case dei nobili, ma non disdegnava quelle dei poveri,
nelle quali ugualmente dimostrava la sua forza, come sarebbe apparso dalla sua novella, ambientata
in Firenze.
In Firenze, la loro città, dalla quale si erano allontanate spostandosi in varie parti del mondo, viveva
una bella e leggiadra giovane, figlia di un padre povero, di nome Simona.
Sebbene dovesse lavorare e filare la lana per mangiare, pure accettò l’amore di un giovinetto di umili
condizioni come lei, chiamato Pasquino, che portava la lana a filare per conto di un maestro lanaiolo.
Simona filava e avvolgeva il fuso con mille sospiri, pensando a colui che le aveva dato la lana da
filare.
Dal canto suo, Pasquino andava continuamente a controllare che si filasse bene la lana del suo
maestro e controllava soprattutto e soltanto la lana che filava Simona e la sollecitava più spesso che
le altre filatrici.
Sollecitando l’uno e compiacendosi di essere sollecitata l’altra, i due, superata ogni vergogna, si
unirono per il piacere comune. Continuando così nel procurarsi comune piacere, si innamorarono
ogni giorno di più.
Una volta Pasquino invitò Simona a recarsi in un giardino appartato, dove potevano stare insieme
più tranquilli e la ragazza acconsentì.
Una domenica, dopo pranzo, Simona disse al padre che andava a prendere l’indulgenza a San Gallo,
con la sua compagna, chiamata la Lagina. Con lei si recò al giardino indicato da Pasquino.
Il giovane, dal canto suo, vi andò con un compagno, di nome Puccino, detto lo Stramba. Incontratisi
con le donne sorse un nuovo amorazzo tra lo Stramba e la Lagina. .Per soddisfare i loro desideri
Simona e Pasquino si sistemarono in un angolo del giardino, lo Stramba e la Lagina in un altro.
Nell’angolo dove erano andati Pasquino e Simona c’era un grandissimo e bel cespuglio di salvia.
Volendo fare merenda, Pasquino, dicendo che la salvia puliva bene i denti di ogni cosa ch’era
rimasta attaccata dopo aver mangiato, raccoltane una foglia se la stropicciò sui denti e sulle gengive.
Poi, dopo averli sfregati per un po’, ritornò a parlare della merenda. Mentre parlava, impallidì, perse la
vista e la parola e in breve morì.
Simona, vedendo ciò, cominciò a piangere , a gridare e a chiamare lo Stramba e la sua compagna.
Come lo Stramba vide Pasquino morto, il quale ,nel frattempo, si era gonfiato e riempito di macchie
scure, cominciò a gridare accusando Simona di averlo avvelenato.
Accorsero i vicini ,richiamati dal grande rumore, udirono le accuse . Vedendo Simona quasi uscita di
senno e che non si sapeva spiegare che cosa fosse successo, credettero che fosse come avevano
detto lo Stramba, l’Atticciato e il Malagevole. Per questo ,presa Simona, la portarono al palazzo del
podestà.
Il giudice che esaminò la cosa ,per comprendere l’accaduto, volle vedere il morto. Poi si fece portare
Simona dove il corpo di Pasquino giaceva ancora gonfiato come una botte e le chiese come era
successo.
La donna ,per spiegarsi meglio, fece come aveva fatto Pasquino, sfregandosi i denti con una di
quelle foglie di salvia. Di fronte allo Stramba e ai suoi compagni, che chiedevano per lei la punizione
del rogo, la poveretta, che era confusa per il dolore del perduto amore e per la paura della pena
richiesta, cadde a terra, come prima era caduto Pasquino, con grande meraviglia dei presenti.
O anime fortunate che terminarono insieme la vita mortale e ancora più felici se nell’altra vita
continuarono a stare insieme nello stesso posto.
Fortunata, sicuramente, l’anima di Simona che, a giudizio dei vivi, era risultata innocente, e, liberatasi
dalle accuse dello Stramba, dell’Atticciato e del Malagevole, aveva potuto seguire l’anima tanto
amata del suo Pasquino.
Il giudice ,meravigliato dell’incidente, rimase pensieroso a lungo, poi, ritrovato il senno, aggiunse “
Sembra che questa salvia sia velenosa, il che è insolito. Ma , per evitare che possa danneggiare in
questo modo qualche altro, si tagli fino alla radice e si faccia bruciare”.
Il guardiano del giardino si apprestò a tagliare il cespuglio in presenza del giudice , ed ecco che
apparve la causa della morte dei due amanti.
Sotto il cespuglio di salvia c’era un rospo enorme, dal cui fiato velenoso era diventata velenosa
anche la salvia.
Non avendo nessuno il coraggio di avvicinarsi al rospo, fu ammucchiata intorno al cespuglio una
grandissima catasta di legna.
Qui arsero il rospo con la salvia e finì il processo del giudice per la morte del misero Pasquino.
Il giovane e la sua Simona, gonfi com’erano, furono seppelliti dallo Stramba, dall’Atticciato, da
Guccio Imbrotta e dal Malagevole ,nella chiesa di San Paolo, di cui erano parrocchiani.

commento:
ogni novellatore come di consueto interpreta e interagisce con le novelle altrui. doppia e simultanea
fruizione della brigata: riflette una delle caratteristiche native della letteratura italiana, cioe la
comprsenza della forma tractatus e la forma tractandi.
Emilia è molto legata a firenze (apre similmente anche la novella di tedaldo degli elisei)
La precisione di Boccaccio è somma nel rappresentare la condizione sociale dei protagonisti e le
dinamiche tradizionali dell’innamoramento. “amor ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la
bella persona” ecc
Il giardino non è solo un elemento topico della rappresentazione del diletto amoroso ma la concreta
prova della persuasione di Boccaccio che l’amore andasse vissuto e sperimentato in un contesto
naturale e pertanto con naturalezza
parole e atti semplici ma intensi di fervore avevano alimentato l’amore tra i due ma dinanzi alla
tragedia della morte del giovane la scarsa cultura di simona accresce il dramma: non sapendosi
scusare ella resta sopraffatta dal dolore e da vittima quale è viene sospettata di aver assassinato il
suo amante.
la morte infine libera simona dai soprusi che avrebbe subito al pari di altre donne del decameron, da
vili uomini. Il ragionamento iniziale di emilia non è contraddetto da questa finale sprezzatura:
frequenti sono la cupidigia e l’avarizia tra i ricchi quanto la rozza bramosia di rivalsa tra i poveri.

Firenze trecentesca, che nel lavoro e nel commercio della lana trovava la sua massima prosperità, è
lo sfondo vivo, l'ambiente realistico di questa novella. C'è il maestro che o in proprio o in nome di
una compagnia distribuisce ai filatori\trici la lana purgata e battuta, c’è pasquino discepolo e garzone
incaricato dal maestro di quelle consegne del ritiro della lana filata e della sua distribuzione alle
tessitorie; ci sono i suoi rozzi compagni di lavoro scardassieri, c'è simona, una di quelle filatrici - la
prima delle nostre letterature - che
solitamente abitavano nel contado o fuori delle porte della città" . La radicalizzazione realistica delle
premesse stilnovistiche, che rendono dimora del vero amore il cuore gentile per virtù e non per
nascita o estrazione sociale rende non solo letterario ma politico il discorso di boccaccio. quale sia
dunque la condizione sociale, il peso, dell'amante, l'amore nasce e si mostra attraverso gli atti
piacevoli e le parole. Nel Proemio, Boccaccio ha pensato di scrivere "in soccorso e rifugio di quelle
[dilicate donne] che amano", poiché "all'altre è assai l'ago e 1 fuso e l'arcolaio" , accettando una
distinzione sociale fra le donne (da un lato quelle che amano, dall'altro le lavoratrici), che, via via,
soprattutto dall IV Giornata in poi (tra i prin-cipi di Ghismonda e l'exemplum di Simona), verrà
ripensata. La distinzione resterà, ma non sarà più sociale, bensì d'animo e, quindi, di virtù. Questo
processo è graduale: si annunzia fin dalla I Giornata, dove il disprezzo di Pampinea va alla
milensaggine di certe donne che non sono pronte a contrastare con leggiadri motti le situazioni
sgradevoli nelle quali si possono trovare, per poi crescrere nella II giornata , dove il tema dei
rivolgimenti della Fortuna induce Boccaccio a riflettere sul rapporto fra la sorte avversa e la virtù degli
uomini e delle donne. Quando, nell'Introduzione alla IV Giornata, rispetto agli umanisti che
aspramente lo"mordono
ben provvisti di pane"egli si pone volontariamente all'insegna della frugalitas, il tema della II Giornata
viene assunto a definire la natura dell'opera. La svolta, a que sto punto, è ormai compiuta, attraverso
la figura, fulgida e modesta di simona.

NOVELLA 10 - GIORNATA 4
narratore: Dioneo
La moglie di un medico mette un suo amante, drogato con l’oppio, in una cassa, la quale , con lui
dentro, due usurai portano a casa loro; questi si sveglia ed è scambiato per ladro; la fantesca della
donna racconta alle guardie che ella l’aveva messo nella cassa rubata dagli usurai, così il giovane
evita la forca e gli usurai sono condannati a pagare una somma di denaro per aver rubato la cassa.

Ormai toccava narrare l’ultima novella della giornata solo a Dioneo.


Egli incominciò dicendo che tutti erano stati rattristati dagli infelici amori raccontati in quel giorno e
non vedevano l’ora che si giungesse alla fine. Voleva, perciò, senza tradire il tema, concludere quella
giornata un po’ più lietamente., anticipando la narrazione della giornata successiva.
Non molto tempo addietro, viveva a Salerno un grandissimo chirurgo, il cui nome era maestro
Mazzeo della Montagna. Costui era molto vecchio, ma aveva una moglie bella e gentile, che egli
riforniva di gioielli e ricchi vestiti.
Ella, in verità, era sempre raffreddata, forse perché nel letto era mal coperta dal marito.
Il marito, come Riccardo di Chinzica, di cui si era già detto, che insegnava alla moglie tutte le feste,
diceva alla sua che si faticava molto a riprendersi dopo che si era giaciuti una volta con una donna.
Di ciò la moglie era molto scontenta.
La donna, molto saggiamente, pensò di trovare per strada, quello che voleva risparmiare a casa, e si
impegnò molto in tal senso.
Si accorse di ciò e rivolse a lei tutto il suo amore un giovane, chiamato Ruggieri di Agerola, di nobile
origine ma di pessimi costumi, tanto che non aveva né un parente, né un amico che gli volesse bene.
In tutta Salerno godeva di pessima fama per le sue ruberie ed altre cattiverie.
La donna se ne curò poco perché il giovane le piaceva molto e ,con l’aiuto di una sua domestica,
fece in modo da incontrarlo.
Dopo diversi incontri, la donna iniziò a pregarlo che ,per amor suo, abbandonasse le cattive azioni.
Per venirgli incontro, lo cominciò a rifornire ora di una certa quantità di denaro, ora di un’altra.
Mentre i due continuavano la loro relazione, fu affidato alle cure del medico un infermo con una
gamba malata.
Il maestro, visto il difetto, disse ai parenti che l’osso della gamba era fradicio, bisognava, perciò,
tagliare tutta la gamba, altrimenti sarebbe morto. Aggiunse che l’amputazione della gamba era
l’unica possibilità di salvezza, anche se non poteva garantire nulla ; i parenti diedero il loro consenso.
Il medico, ritenendo che, per sopportare il dolore dell’operazione, l’infermo dovesse essere
addormentato con l’oppio, la mattina preparò una pozione, che , data da bere all’ammalato,
l’avrebbe fatto dormire per tutto il tempo necessario per operarlo. Fece portare il liquido nella sua
camera, senza dire a nessuno che cosa fosse.
Nel pomeriggio ,quando il maestro doveva andare dall’infermo, giunse un messaggio, inviato da
alcuni amici di Amalfi, che lo richiedevano con la massima urgenza, perché lì c’era stata una
grandissima rissa con molti feriti.
Il medico rimandò alla mattina seguente l’operazione alla gamba e, salito su una piccola barca, andò
ad Amalfi.
La donna, sapendo che la notte il marito non sarebbe tornato a casa, come era solita, fece andare, di
nascosto, Ruggieri nella sua camera e lo chiuse dentro in attesa che tutti se ne fossero andati.
Stando il giovane in camera, in attesa della donna, sia per il lavoro fatto durante la giornata, sia
perché aveva mangiato del cibo salato, gli venne una gran sete.
Vista sulla finestra la brocchetta che il medico aveva preparato per l’infermo, credendola acqua da
bere, la portò alla bocca e la bevve tutta. Dopo poco tempo lo prese un gran sonno e cadde
addormentato.
La donna, andata in camera, visto Ruggieri addormentato, tentò di svegliarlo in tutti i modi, prima
con le buone, poi più forte, prendendolo per il naso, tirandolo per la barba. Ma non riuscì a svegliarlo
in nessun modo.
Cominciò a temere che fosse morto, pure lo strinse più fortemente e lo scottò con una candela
accesa; ma non c’era niente da fare. Per cui, ella ,che non era medico come il marito, credette
veramente che fosse morto. Poiché lo amava, lo pianse a lungo, senza far rumore.
Dopo un certo tempo, per non aggiungere al dolore la vergogna, pensò che doveva trovare subito il
modo per portare fuori di casa il morto. Chiamò la domestica e le chiese consiglio. La fantesca ,dopo
aver cercato di rianimarlo, si convinse anch’ella che Ruggieri era morto e consigliò di portarlo fuori
casa. Si ricordò che nella bottega del legnaiuolo loro vicino, c’era una cassa non troppo grande,
proprio adatta ai loro bisogni, per nascondervi il corpo del giovane. Aggiunse che ,data la pessima
fama di cui il giovane godeva, nessuno avrebbe sospettato di loro, ma tutti avrebbero creduto che
era stato ucciso e messo nella cassa da qualche suo nemico.
Il consiglio della serva piacque alla donna, che non volle però ferirlo in alcun modo, dato l’amore che
gli portava. La serva, che era forte e giovane, con l’aiuto della padrona, mise il corpo nella cassa e la
richiuse.
Da qualche giorno erano andati ad abitare in quella zona due giovani usurai che avevano bisogno di
mobili per la casa e volevano spendere poco. Avevano visto quella cassa e avevano deciso di
portarsela a casa nella notte. A mezzanotte, trovata la cassa, senza controllare, anche se sembrava
un po’ pesante, se la portarono a casa.
La sistemarono vicino alla camera dove dormivano le loro mogli e se ne andarono a dormire.
Ruggieri, che aveva dormito molto a lungo e aveva smaltito l’effetto della bevanda, essendo quasi
l’alba, si svegliò. Man mano che riprese conoscenza provò un grave stordimento che gli durò per
molte ore. Si cominciò a chiedere che cosa era successo mentre era nella camera della donna, se
era tornato il marito e per questo l’avesse nascosto. Decise di rimanere tranquillo e di ascoltare se
sentiva qualcosa.
Stando molto scomodo nella cassa che era piccola, gli cominciò a dolere il fianco su cui si
appoggiava. Nel tentativo di girarsi, fece cadere la cassa che, cadendo, provocò un gran rumore,
svegliando le donne, che, per paura, tacquero.
Cadendo la cassa si aprì e Ruggieri ne uscì. Trovandosi in un luogo a lui sconosciuto, cominciò a
brancolare alla ricerca di una scala o di una porta da cui uscire.
Le donne, ormai sveglie, spaventate chiamarono i mariti e gridarono sempre più forte “Al ladro, al
ladro”.
Corsero i vicini, si svegliarono i giovani che catturarono Ruggieri e lo portarono dalle guardie del
magistrato.
Lo sventurato, sotto tortura, confessò di essere andato per rubare nella casa degli usurai, perciò il
magistrato lo condannò all’impiccagione.
La notizia che Ruggieri era stato catturato mentre rubava nella casa degli usurai si diffuse al mattino
per tutta Salerno.
Le due donne, udendo ciò che era accaduto, quasi pensarono di aver sognato ciò che avevano fatto.
Frattanto, poco dopo l’alba, il medico, tornato da Amalfi, cercando la bevanda per l’infermo, trovò la
caraffa vuota e si adirò. La moglie ,sorpresa, lo rimproverò perché faceva tanto chiasso per un po’
d’acqua versata.
Il medico le spiegò, allora, che non si trattava di acqua chiara, ma di un’acqua preparata per far
dormire.
La donna comprese che l’amante doveva averla bevuta e per questo le era sembrato morto.
Il maestro se ne preparò dell’altra mentre la moglie mandava la domestica a chiedere notizie del
giovane.
La fantesca, ritornata, riferì alla padrona che di Ruggieri si diceva ogni male e non c’era nessuno che
lo difendesse; sicuramente il magistrato l’avrebbe fatto impiccare. Aggiunse anche che aveva udito
un litigio tra il legnaiuolo ,loro vicino, e il proprietario della cassa . Il legnaiuolo sosteneva che la
cassa non era stata venduta ma gli era stata rubata. Era chiaro, dunque, per le due donne, come il
giovane era stato trasportato a casa degli usurai e lì era resuscitato.
Bisognava, a quel punto, salvare Ruggieri e conservare l’onore.
Subito la donna mise a punto un piano e ne informò la fantesca, che andò dal medico piangendo e
chiedendo perdono. Gi confessò che era divenuta l’amante del giovane Ruggieri di Agerola e che
l’aveva ricevuto la notte precedente nella sua camera ,sapendo che il padrone non c’era.
Poiché il giovane aveva sete, era andata nella camera del medico ,aveva preso una caraffa che aveva
trovato lì , gliela aveva data a bere, riportando poi la brocca dove l’aveva presa. Confessò, inoltre,
che si era addolorata molto per gli urli che il padrone aveva fatto quando non aveva trovato più
l’acqua .Chiese perdono per tutto quello che ne era seguito e lo pregò di poter aiutare Ruggieri che
stava per essere ucciso..
Il medico la perdonò e scherzò sul fatto che la serva pensava di avere nella notte un amante focoso
e si era trovato nel letto un dormiglione. Le disse, infine , di andare a salvare il suo amante, ma di non
portarlo più a casa sua.
La fantesca, ben soddisfatta, si avviò alla prigione dove circuì tanto il carceriere che egli la lasciò
parlare con il prigioniero. Istruì il giovane su ciò che doveva dire al giudice. Frattanto fu ricevuta dal
giudice ,che, vedendola fresca e gagliarda, prima di ascoltarla , si divertì un pò con lei.
Ella al giudice cominciò a raccontare dall’inizio alla fine tutta la storia : come l’aveva fatto entrare in
casa e gli aveva fatto bere l’acqua con l’oppio, come, credendolo morto, l’aveva messo nella cassa,
come la cassa era stata rubata, come Ruggieri era giunto in casa degli usurai.
Il giudice, per verificare, chiamò, per prima cosa, il medico che confermò che l’acqua era drogata;
poi chiamò il legnaiuolo , il padrone della cassa e gli usurai. Ebbe conferma di tutto e anche del fatto
che i due usurai ,nella notte, avevano rubato la cassa e se la erano portata a casa.
Per ultimo interrogò Ruggieri e gli chiese dove aveva passato la notte precedente.
Egli rispose che era stato a dormire con la servetta di maestro Mazzeo, nella camera di lei aveva
bevuto l’acqua, si era ,poi, risvegliato nella casa degli usurai, in una cassa, senza sapere come.
Il giudice si fece ripetere l’accaduto più volte, divertendosi un mondo.
Alla fine, condannò al pagamento di dieci once d’oro i due usurai che avevano rubato la cassa; liberò
Ruggieri, riconoscendolo innocente, con grande gioia sua , della donna e della domestica.
Fecero tutti e tre insieme gran festa, continuando nel loro piacere di bene in meglio.
Dioneo chiuse la narrazione augurando a sé stesso la stessa sorte, senza ,però, esser messo nella
cassa.

commento:
il caratterevgiocoso della novella si alimenta di un manifesto ricordo della tenzone dantesca con
forese donati
(È costituita da tre sonetti di Dante e tre di Forese Donati (cugino della moglie di Dante morto nel
1296 e fratello di Piccarda e di Corso Donati futuro capo dei Neri) che, come vuole il genere tenzone
si prendono familiarmente in giro e si infamano a vicenda.)

87 (LXXIII)
1. Dante a Forese

Chi udisse tossir la mal fatata


moglie di Bicci vocato Forese, potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata

ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.


Di mezzo agosto la truovi infreddata; or sappi che de’ far d’ogn’altro mese! E nolle val perché dorma
calzata,

merzé del copertoio c’ha cortonese.


La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia

no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi, ma per difetto ch’ella sente al nido.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,


dicendo: «Lassa, che per fichi secchi messa l’avre’ in casa il conte Guido!».

sempre donne che si compiangono della morte degli amati come nella 6 e nella 7

L'ultima, simmetrica novella della I Giornata, ci aveva mostrato un altro medico, ovvero maestro
Alberto da Bologna). Nelle giornate precedenti è celebre, benché giovane, il medico Alberto è il
rappresentante di una scienza che non recide il legame con la natura. Le altre decime novelle (tutte
narrate da Dioneo) hanno sempre messo in scena, sino a questa compresa, personaggi del mondo
della cultura o della religione, i quali, per un mal concepito rigorismo o ascetismo, si chiudono alla
vita e ne restano sopraffatti (il giudice Riccardo di Chinzica, il romito Rustico, ora il medico Mazzeo):
Dioneo, quindi, ricorda opportunamente Riccardo, ponendo in diretta relazione i due racconti (II 10 e
IV 10). Queste novelle di Dioneo sono di indubbia importanza per meglio intendere la prospettiva
antiascetica del Decameron: che investe, con l'eros, ogni forma di chiusura (culturale, religiosa e
sociale) della vita.

INISCE LA QUARTA GIORNATA DEL DECAMERON; INCOMINCIA LA QUINTA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI FIAMMETTA,
SI RAGIONA DI CIÒ CHE AD ALCUNO AMANTE, DOPO ALCUNI FIERI O SVENTURATI ACCIDENTI, FELICEMENTE AVVENISSE.

NOVELLA 1 GIORNATA 5

narratore: panfilo

Cimone diviene saggio per amore e rapisce in mare Efigenia, sua donna: in Rodi è messo in prigione,
da cui lo tira fuori Lisimaco, e nuovamente con lui rapisce Efigenia e Cassandrea, che dovevano
sposarsi fuggendo con loro a Creta; e quindi, divenute loro mogli,con esse ritornano alla propria
casa, richiamati.

Panfilo, nell’iniziare il suo racconto, premise che esso avrebbe avuto felice fine e avrebbe fatto
comprendere alla brigata quanto fossero divine e poderose le forze d’Amore, cosa che avrebbero
dovuto tener presente tutti gli innamorati. Dunque (come si era già detto nelle storie dei ciprioti)
nell’isola di Cipro vi fu un nobilissimo uomo, chiamato Aristippo, ricchissimo, che aveva un solo
problema. Tra tutti i suoi figli, ne aveva uno di grande potenza e bellezza fisica, ma quasi stolto e che
non lasciava sperare niente di buono, che si chiamava Galeso. Ma, poiché né fatica di maestro, né
lusinghe o punizioni del padre o impegno d’altri gli aveva potuto far mettere giudizio, ed egli aveva
una voce grossa e deforme e modi più convenienti ad una bestia che a un uomo , per burla, era
chiamato da tutti Cimone, che, nella loro lingua, come nella nostra, suonava come “bestione”. Il
padre soffriva molto per la sua vita scombinata e , per non avere davanti la causa del suo dolore, gli
comandò di andarsene in campagna e di vivere lì con i suoi contadini. La qualcosa gli riuscì
graditissima perché egli gradiva di più le usanze degli uomini rozzi che quelle cittadine. Standosene,
dunque, Cimone in campagna, impegnato in lavori agricoli, un giorno, dopo mezzogiorno, passando
da un possedimento ad un altro, col bastone in spalla, entrò in un bellissimo boschetto, tutto pieno
di verdi foglie, poiché era il mese di maggio. Andando per il boschetto, giunse in un praticello,
circondato da alberi altissimi. Su uno dei lati c’era una bellissima fontana, al lato della quale ,vide
dormire una bellissima giovane, con addosso un vestito molto sottile, che non nascondeva quasi per
niente le candide carni. Solo dalla cintura in giù era coperta da un manto bianchissimo e sottile ;ai
suoi piedi dormivano due femmine ed un uomo, suoi servi. Cimone, come la vide, cominciò a
guardarla con grandissima ammirazione e, nel rozzo petto, sentì nascere il pensiero di non aver mai
veduto una cosa più bella. Esaminò le varie parti di lei, ammirò i capelli, simili all’oro, la fronte, il
naso e la bocca, la gola, le braccia e, soprattutto, il petto, non molto prosperoso, e, da agricoltore
subito diventato intenditore di bellezza, desiderava di vedere gli occhi, che erano chiusi per il
profondo sonno. Desiderava svegliarla per vederli, ma, poiché era bella più di qualsiasi donna,
pensava che potesse essere una dea ed aveva timore di svegliarla. E anche se gli pareva di
trattenersi troppo, non riusciva ad allontanarsi. Dopo molto tempo, la giovane, il cui nome era
Efigenia, si svegliò prima dei suoi servi e, aperti gli occhi, vide davanti a lei, appoggiato al suo
bastone, Cimone. Meravigliata, riconoscendolo, gli chiese che cosa cercava in quel bosco, a
quell’ora. Egli non rispose ma, fissando negli occhi aperti la giovane, provò una dolcezza che non
aveva mai provato prima. La giovane, temendo la fissità dello sguardo del giovane, lo salutò e,
chiamate le serve, si avviò. Cimone la seguì, senza indugi. Sebbene Efigenia cercasse di allontanarlo,
egli non la lasciò andare finché non l’ebbe accompagnata a casa. Poi si recò dal padre dicendo che
non voleva più ritornare in campagna. Il padre, anche se malvolentieri, lo accontentò, aspettando di
vedere quale fosse la ragione del cambiamento. Ormai nel cuore di Cimone era entrata la saetta
d’Amore per la bellezza di Efigenia. In breve tempo il giovane ebbe un tale cambiamento da far
meravigliare il padre e tutti quelli che lo conoscevano.

Dapprima chiese al padre vestiti eleganti come quelli dei fratelli, poi assunse modi garbati e raffinati,
come si conveniva a gentiluomini e a innamorati. In breve tempo divenne molto colto. Non solo
modificò il rozzo tono della voce, ma divenne maestro di canto e di suono e divenne espertissimo nel
cavalcare e nel combattere sia per mare che per terra. Dopo quattro anni dal giorno del suo
innamoramento egli si trasformò nel più elegante e raffinato giovane dell’isola di Cipro. La forza di
Amore era stata tanto grande da trasformare completamente il giovane. Sebbene Cimone, amando
Efigenia, eccedesse in alcune cose, Aristippo lo assecondava in tutto, considerando che Amore ,da
montone, l’aveva fatto ritornare uomo. Ma Cimone, che rifiutava di essere chiamato Galeso,
ricordandosi che così era stato chiamato da Efigenia, voleva onestamente coronare il suo sogno
d’amore sposando la fanciulla amata. Perciò più volte la fece chiedere in sposa al padre di lei,
Cipseo, che rispose di averla promessa a Pasimunda, giovane nobile di Rodi. Venuto il momento
stabilito per le nozze, Cimone promise ad Efigenia, grazie alla quale era diventato un uomo, di
dimostrarle tutto il suo amore o morire. Ciò detto con alcuni amici fidati preparò una nave e si mise in
mare, attendendo l’imbarcazione che doveva condurre la promessa sposa a Rodi dal marito. La
fanciulla si imbarcò e partì, dopo aver salutato il padre. In mare Cimone raggiunse la nave e chiese ai
marinai di arrendersi, poi, agganciando la nave con un rostro di legno, salì su di essa e in breve
tempo la conquistò. Il giovane spiegò ai marinai che non aveva nulla contro di loro, ma voleva
soltanto Efigenia, da lui amata sopra ogni cosa. Il padre di lei non gliel’aveva voluta concedere come
amico e Amore l’aveva costretto a conquistarla come nemico. Trasportata la donna sulla sua nave
,lasciò andare i rodiani senza prendere alcun bottino ,e, contento della cara preda, consolò lei che
piangeva. Poi, con gli amici, decise di non tornare a Cipro ma di dirigersi verso Creta dove, avendo
tutti parenti e amici, credevano di essere al sicuro. Ma la Fortuna, fino ad allora favorevole a Cimone,
cambiò in amaro pianto, l’allegria del giovane. Erano appena passate quattro ore da quando avevano
lasciato i rodiani ed era appena sopraggiunta la notte che l’innamorato prevedeva la più piacevole di
tutte. All’improvviso sorse una violentissima tempesta, il cielo si riempì di nuvole e un vento
pestilenziale si scatenò sul mare. La nave non si poteva più governare. Tutti ebbero paura di morire,
soprattutto Efigenia, che piangendo malediceva l’amore di Cimone e il suo ardire, che era contrario
alla volontà degli dei. Tra i lamenti sempre più forti della fanciulla, non sapendo dove andassero, i
marinai furono spinti con la nave in una piccola insenatura, dove erano giunti poco prima anche i
rodiani, lasciati liberi da Cimone. Appena spuntò l’alba, si accorsero che erano approdati vicino ai
loro nemici. Cercarono invano di allontanarsi ,ma il vento fortissimo glielo impedì e li spinse a terra.
Appena approdati furono riconosciuti dai rodiani, che ,immediatamente, li catturarono e li
condussero ad un villaggio vicino. Ricopriva, allora, la somma magistratura dei rodiani Lisimaco che
fece condurre in prigione Cimone con i suoi compagni ,come Pasimunda, lagnandosi con il senato di
Rodi, aveva richiesto. In tal modo il misero e innamorato Cimone perse Efigenia, appena conquistata,
senza averle dato nemmeno un bacio. La fanciulla fu accolta e confortata dalle nobildonne di Rodi e
rimase con loro fino al giorno fissato per le nozze. A Cimone e ai compagni, poiché avevano lasciati
liberi i marinai rodiani, fu donata la vita, ma furono condannati alla prigione eterna. Frattanto
Pasimunda faceva di tutto per accelerare il giorno delle nozze. La Fortuna, pentita dell’offesa fatta a
Cimone, decise di salvarlo. Pasimunda aveva un fratello più piccolo d’età, non di valore, di nome
Osmida, che voleva sposare una nobile e bella giovane di Cipro, chiamata Cassandrea, che Lisimaco
amava straordinariamente. Pasimunda decise di celebrare, con un’unica grandissima festa, sia le sue
nozze con Efigenia che quelle del fratello Osmida con Cassandrea, per spendere meno, e anche il
fratello e i suoi parenti furono d’accordo. Diffusasi la notizia, Lisimaco si addolorò moltissimo ,
perché vedeva svanire la speranza di avere la giovane. Da uomo saggio , tenne il dispiacere dentro di
sé e cominciò a pensare di rapirla, non vedendo altra soluzione. Ciò gli sembrò facile per il ruolo che
ricopriva, ma disonesto. Tuttavia ,dopo lunga riflessione, l’onestà lasciò il posto all’amore e decise di
rapirla. Pensando ad un compagno per il rapimento si ricordò di Cimone, che era in prigione con i
suoi uomini, e ritenne di non poter trovare un compagno migliore e più fedele per l’impresa. La notte
seguente, di nascosto, lo fece andare nella sua camera e gli disse “Cimone, gli dei, abili nel provare il
valore degli uomini, hanno voluto sperimentare la tua virtù : prima , nella casa del tuo ricchissimo
padre, quando la forza dell’amore ti fece diventare un uomo da insensato animale che eri, come ho
saputo; poi, attualmente, ti hanno messo a dura prova facendoti stare in prigione, per vedere se il tuo
animo cambiava. Adesso ti preparano una cosa lieta, che io ti illustrerò, se non hai cambiato idea.
Pasimunda, che sperava che tu morissi, si affretta a celebrare le nozze con la tua Efigenia, che la
Fortuna prima ti aveva concesso e poi ti ha tolto. La stessa ingiuria il fratello Osmida si prepara a fare
a me , sposando Cassandrea, che amo sopra ogni cosa. Per evitare questa offesa non vedo altra via
che armarci col cuore e con le spade e tentare tu la tua seconda rapina ed io la prima, in modo da
riavere tu la tua donna ed io la mia”. Queste parole fecero ritornare il coraggio a Cimone , che subito
rispose “ Lisimaco, non potrai trovare un compagno più forte e più fidato di me in questa impresa,
perciò spiegami che cosa dobbiamo fare e vedrai che ti seguirò con grande forza”. Lisimaco gli
spiegò che tre giorni dopo le novelle spose sarebbero entrate nelle case dei loro mariti. Lì loro due
con i compagni le avrebbero rapite e le avrebbero condotte su una nave, preparata in segreto,
uccidendo chiunque li volesse contrastare. Cimone fu d’accordo e rimase, silenzioso, in prigione,
attendendo il momento. Venuto il giorno delle nozze, la casa dei due fratelli si riempì di gente per la
festa. Frattanto Lisimaco, preparata ogni cosa, divise Cimone e i suoi compagni ,con le armi
nascoste sotto i vestiti, in tre gruppi. Un gruppo lo mandò al porto, affinché nessuno potesse
impedire loro di salire sopra la nave al momento opportuno. Gli altri due gruppi andarono alla casa di
Pasimunda; uno rimase alla porta, affinché nessuno dall’interno la potesse chiudere ed impedire loro
l’uscita; con l’ultimo gruppo, insieme con Cimone, salì su per le scale. Giunti nella sala dove le
donne erano sedute per mangiare, fattisi avanti e gettate le tavole per terra, ognuno afferrò la sua
donna e la affidò ai compagni, per condurla subito alla nave, pronta per salpare. La novelle spose
cominciarono a piangere e a gridare insieme a tutti i presenti. Ma Cimone , Lisimaco e i compagni,
tirate fuori le spade, liberarono la strada per la fuga. Mentre scendevano , si fece loro incontro
Pasimunda armato di un grosso bastone. Cimone, coraggiosamente, gli tagliò la testa a metà e lo
fece cadere morto ai suoi piedi. Il povero Osmida, che era corso in aiuto del fratello, fu ucciso
anch’egli da uno dei colpi di Cimone. Gli altri che si interposero furono feriti e respinti dai compagni
dei due innamorati. Lasciata la casa piena di sangue, giunsero alla nave, imbarcatisi con le donne e i
compagni, partirono ,mentre il lido si riempiva di armati. Giunti a Creta furono accolti da parenti e
amici e sposarono le loro donne. Trascorso un lungo periodo, placatisi in Cipro e in Rodi i turbamenti
per le loro imprese, per intercessione dei parenti, Cimone, dopo un lungo esilio, ritornò con Efigenia a
Cipro e, similmente, Lisimaco con Cassandrea a Rodi. E vissero a lungo contenti, ciascuno nella sua
terra.

commento:

Del potere dell’amore e della sua efficacia nello spronare gli uomini a perfezionarsi boccaccio fu
sempre persuaso, del resto la novella e il suo novellatore panfilo riprendono conducendo al più
limpido livello di consapevolezza il tema della coincidenza tra vista e conoscenza che nella latitudine
delle sue umane possibilità è identificativo del decameron, che ragiona fin dalla 1-1 di quello che ne
può apparire. panfilo deve orientare la 5 giornata alla felicità dopom il turbamento subito dalla
precedente sotto il regno di filostrato, e sceglie una novella emblematica: non solo per il tema che
coincide con la forza dell’amore, ma per il metodo, che è quello della conoscenza per visum. L’intera
brigata è consapevole della coerenza argomentativa di panfilo per un’opera che desidera
rappresentare la realtà e che intende per ciò stessoricrearla con la parola nella desolazione causata
dalla pestilenza,il nodo dello sguardo, dell’occhio che vede e conosce il mondo nei limiti della propria
fragilità è essenziale.
Cimone è così bello che trapassa tutti gli altri giovani. non è cattivo. Rude, rozzo, egli si trova in una
candizone analoga a quella del figlio di filippo balducci: una condizione edenica e primordiale, di chi
non conosce il nome delle cose. è senza colpa ne malizia. la sua condizione edenica non è uno stato
immutabile , ma un processo di perfezionamento che si definisce a partire dalla naturale estraneità
della colpa. il perfezionamento passa attraverso la conoscenza della bellezza. La descrizione
naturalistica risponde ai canoni del locus amoenus. La sovrapposizione del locus amoenus di cimone
e quello della brigata rende paradigmatico il caso di questa novella. Dopo la rappresentazione di
varie forme di conoscenza del sacro e dell’amore qui il decameron orienta il lettore alla scoperta della
bellezza. L’amore di Cimone è causato dalla conoscenza e sarà causa di salvezza. Cimone sceglie la
bellezza, e poichè la bellezza è lo strumento con cui la verità attira su di sè lo sguardo dell’uomo
possiamo ben comprendere la sua scelta. La novella di Cimone testimonia la sua complessità
attraverso le due parti che la compongono, nelle quali vediamo galeso passare prima da una vita
inconsapevole ma attiva alle azioni conseguenti alla sua rinascita alla vita spirituale e contemplativa
per poi ritrovarlo consapevolmente attivo, eroico, colto ma intrepido. Per panfilo esiste quindi una
vita attiva vuota e bestiale, come pure nella vita contemplativa astratta nel suo innaturale ascetismo,
allo stesso modo in cui si danno una vita contemplativa operosa e una vita attiva nutrita di
speculazione e in alto grado, d’amore.

Questa relazione tra l’occhio che contempla e la mente che lo conosce è evidente prima
nell’introduzione, quindi nella relazione conosciitva che si instaura tra la brigata e i suoi luoghi. porre
la questione dell’amore per il mundus attraverso l’educazione dello sguardo

NOVELLA 4 - 5 GIORNATA

narratore: Filostrato

Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figlia, la quale egli sposa e col padre
di lei rimane in buona pace.

Mentre le compagne lodavano la novella di Elissa, la regina fece cenno a Filostrato di raccontare la
sua.

Egli, ridendo, iniziò dicendo che, dopo aver rattristato le donne con i suoi crudeli ragionamenti,
adesso voleva rallegrarle con una novelletta breve e a lieto fine.

Non molto tempo addietro viveva in Romagna un cavaliere molto per bene, chiamato messer Lizio da
Valbona,

al quale, ormai vecchio, nacque una figlia dalla moglie, di nome madonna Giacomina.

Ella era bella e gentile ed era molto amata dai genitori che le volevano far fare un buon matrimonio.

Frequentava la casa di messer Lizio un bel giovane, appartenente alla famiglia dei Manardi di
Brettinoro, chiamato Ricciardo. Egli si innamorò ardentemente della bellissima giovane, ma teneva
nascosto il suo amore.

La ragazza se ne accorse e cominciò ad amarlo anch’ella.

Finalmente un giorno Ricciardo le rivolse la parola e le chiese di incontrarsi per non farlo morire
d’amore.

Ella gli rispose di indicarle che cosa poteva fare per incontrarsi. Il giovane ,dopo aver pensato a
lungo, la pregò di andare di notte sul verone che affacciava sul giardino del padre, dove avrebbe
potuto raggiungerla di notte, sebbene il verone fosse molto alto.
Subito Caterina rispose che avrebbe cercato di andare lì a dormire, se il giovane le prometteva che
sarebbe venuto. Ricciardo le assicurò di si, poi si baciarono una sola volta ed andarono via.

Il giorno seguente, essendo quasi la fine di maggio, la giovane si lagnò con la madre che la notte non
aveva potuto dormire per il gran caldo. La madre rispose che non le sembrava che facesse tanto
caldo.

Al che Caterina rispose che le donne giovani sentivano più caldo di quelle attempate e che voleva
mettere un lettino sul verone, al lato della camera del padre, sul suo giardino , per dormire. Aggiunse
che lì avrebbe potuto sentir cantare gli usignuoli e sarebbe stata molto più al fresco che in camera
della madre.

Messer Lizio, poiché era vecchio, era un po’ burbero e disse “ Quale usignuolo è questo dal cui
canto si vuol far addormentare? Io la farò addormentare col canto delle cicale”.

Udendo ciò Caterina la notte seguente non dormì per niente e non fece dormire nemmeno la madre,
lagnandosi per il gran caldo.

Madonna Giacomina, intervenendo presso il marito, affermò che non c’era niente di male se la figlia
voleva dormire sul verone e sentir cantare gli usignuoli e così ottenne il permesso.

La giovane, immediatamente ,si fece preparare un letto e attese a lungo Ricciardo per fargli segno
che la notte seguente sarebbe andata a dormire sul verone.

Messer Lizio, accertatosi che la figlia se ne era andata a letto, chiusa la porta della sua stanza, che
affacciava sul verone, se ne andò a dormire.

Ricciardo, come sentì che tutto era tranquillo, con gran fatica, con una scala, appoggiandosi a delle
sporgenze del muro, arrivò sul balcone, dove fu accolto con grande amore da Caterina.

Trascorsero tutta la notte prendendo piacere l’uno dall’altra, facendo cantare più volte l’usignuolo.

Essendo già vicino il giorno, stanchi per le fatiche d’amore, senza nulla addosso, si addormentarono.

Caterina aveva il braccio destro intorno al collo del giovane, la mano sinistra su quella cosa che le
donne si vergognano di nominare davanti agli uomini.

Mentre così dormivano, giunto il giorno, messer Lizio, svegliatosi, aperta la porta ,volle vedere come
l’usignuolo aveva fatto dormire bene la figlia. Scostata la tenda che circondava il letto, vide i due
giovani nudi e abbracciati, come sopra descritto.

Chiamò la moglie e le disse di andare a vedere che la figlia era talmente desiderosa dell’usignuolo
che se l’era preso e se lo teneva in mano.

Madonna Giacomina corse e , scostata la tenda, poté vedere come la figlia avesse preso l’usignuolo
che tanto desiderava di udir cantare.

La donna stava per gridare e inveire contro Ricciardo, che l’aveva ingannata, ma il marito le disse di
tacere perché la figlia l’aveva preso e se lo sarebbe tenuto. Ricciardo era un giovane gentile e ricco e
poteva essere un buon marito. Se si voleva allontanare con le buone doveva prima sposarla, dopo
aver messo l’usignuolo nella gabbia di lei e non di altre.

La donna, vedendo il marito sereno e la figlia tranquilla per aver passato una buona notte, avendo
preso l’usignuolo, tacque.
Ricciardo, al risveglio, accortosi che era giorno, temendo di morire, chiamò Caterina, le chiese come
dovevano fare.

Il padre, scostando la tenda, rimproverò il giovane, che si scusava e chiedeva perdono, tremando per
la paura, accusandolo di aver tradito la fiducia che aveva in lui. Aggiunse che ,tuttavia, comprendeva
che era stato trasportato dalla giovinezza e che , per salvare la situazione, doveva prendere Caterina
come legittima sposa e tenerla sempre con sé; solo in questo modo avrebbe potuto salvarsi, in caso
contrario ,poteva raccomandare l’anima a Dio.

Mentre si dicevano tali cose, Caterina lasciò l’usignuolo e cominciò a piangere, pregando sia il padre
di perdonare il giovane, sia Ricciardo di accontentare il padre, in modo da poter avere altre notti
come quella.

Ma non ci fu bisogno di molte preghiere perché Ricciardo, sia per la paura di morire, sia per
l’ardente amore e il desiderio per la donna, subito accettò la proposta di messer Lizio.

Il padre, fattosi dare da madonna Giacomina uno dei suoi anelli, senza muoversi, sposò Caterina con
Ricciardo.

Fatto ciò , i due genitori si allontanarono, lasciando soli i giovani, che si abbracciarono e
ricominciarono a fare l’amore per altre due volte, fino a tardi..

Poi si alzarono e presero accordi con messer Lizio per il matrimonio che fu celebrato, con grande
festa, in presenza di parenti e amici, pochi giorni dopo.

E vissero in pace a lungo, andando a caccia di usignuoli, di giorno e di notte, come vollero.

commento:

la parola è lo strumento che edifica la pace (lauretta)

Lizio comprende nel Decameron cio che altri padri non comprendono affatto, cioè il diritto che la
giovinezza porta con sè. lizio così facendo mostra al lettore come il garbo l’ironia e la parola siano
elementi di concordia.

GIORNATA 5 - NOVELLA 7

narratore: lauretta

Teodoro ,innamorato della Violante, figliuola di messer Amerigo, suo signore, la ingravida ed
è condannato alle forche; alle quali è condotto, mentre è frustato , viene riconosciuto dal
padre e, liberato, sposa la Violante.

Le donne si rallegrarono che i due amanti non erano stati arsi e lodarono Iddio.

La regina diede incarico alla Lauretta di proseguire.

Ella iniziò a parlare dicendo che, al tempo in cui Guglielmo il Buono era re di Sicilia, vi era nell’isola
un gentiluomo ,chiamato messer Amerigo Abate da Trapani, il quale aveva molti figli, oltre che molte
ricchezze.

Costui, avendo bisogno di servitori, comperò dai corsari genovesi, che venivano dall’Armenia, dei
fanciulli, credendo che fossero turchi. Tra questi ve ne era uno ,di nome Teodoro, che si distingueva
da tutti gli altri per il suo aspetto gentile. Egli crebbe insieme con i figli di messere Amerigo nella sua
casa e piacque tanto al suo padrone che lo affrancò. Credendo che fosse turco, lo fece battezzare col
nome di Pietro e gli affidò l’amministrazione dei suoi affari, fidandosi molto di lui.

Messere Amerigo, tra i tanti suoi figli, aveva anche una figlia, chiamata Violante, bella e delicata, che
il padre tardava a maritare, la quale si innamorò di Pietro. Anche Pietro, dal canto suo, guardandola di
nascosto, se ne era innamorato e si sentiva bene solo quando la vedeva, anche se, per prudenza,
cercava di nascondere il suo amore. Violante se ne accorse e fu contentissima.

In questa situazione passò diverso tempo, perché entrambi avevano paura di svelarsi il loro amore,
anche se ardevano, parimenti accesi.

Ma la fortuna trovò il modo di allontanare il timore.

Messer Amerigo aveva, a circa un miglio da Trapani, una proprietà molto bella, dove la moglie , con la
figlia ed altre donne, si recava di solito per svagarsi. Mentre si trovavano lì, per il gran caldo, avendo
portato Pietro con sé, all’improvviso, come spesso accade, il cielo si riempì di oscuri nuvoloni.

Tutta la compagnia si affrettò ,il più rapidamente possibile, lungo la strada, volendo tornare a Trapani,
per evitare il maltempo.

Pietro ed anche Violante, spinti dalla gioventù , dall’amore e dalla paura del temporale, precedevano
di molto la madre e le altre donne.

Dopo molti tuoni, cadde giù una grandinata fortissima, per cui la donna con la sua compagnia, si
rifugiò nella casa di un contadino.

Pietro e la giovane, a loro volta, si rifugiarono in una chiesetta antica diroccata, dove non c’era
nessuno. In essa si ripararono sotto un po’ di tetto che era rimasto, stringendosi l’uno all’altro,
toccandosi per necessità.

Il toccamento fu causa del rivelarsi dei desideri amorosi.

Pietro, per primo, si augurò che quella grandine non finisse mai ed anche la giovane espresse lo
stesso desiderio. Subito dopo cominciarono a baciarsi e ad abbracciarsi ,mentre continuava a
grandinare.

E il tempo non si calmò finché essi non conobbero i più intimi piaceri dell’amore e non ebbero preso
accordi per potersi incontrare in segreto.

Cessato il temporale, aspettata la madre, ritornarono a casa insieme a lei.

A Trapani, di nascosto, si incontrarono altre volte con grande conforto di entrambi, finché la giovane
non rimase incinta. Violante tentò n tutti i modi di abortire senza riuscirvi. Pietro, temendo per la sua
vita, voleva fuggire ma Violante glielo impedì minacciando di uccidersi. Ella gli promise che mai
avrebbe rivelato il suo nome.

Non potendo più nascondere la gravidanza, per il crescere del suo corpo, piangendo la giovane
confessò il suo stato alla madre, nascondendo la verità per evitare che Pietro fosse punito.

La donna, dopo molti rimproveri, per celare la condizione della figlia, se ne andò in un suo
possedimento.

Colà, giunto il momento di partorire, Violante, come fanno tutte le donne, gridava per il dolore.

La madre non si accorse che messere Amerigo, che non andava mai in quella proprietà, trovandosi a
passare di là, al ritorno dalla caccia, aveva sentito la figlia gridare; per questo entrò e domandò che
cosa fosse.
La moglie gli raccontò tutto quello che era accaduto alla figlia. Il padre, meno credulone della donna,
non credette al fatto che la ragazza non sapesse chi l’aveva ingravidata. Disse che voleva sapere chi
era il padre e forse l’avrebbe perdonata, altrimenti l’avrebbe fatta morire. La madre non ottenne dalla
figlia alcuna risposta. Messere Amerigo, infuriato, corse allora dalla figlia con la spada sguainata.

Mentre il padre gridava, Violante aveva partorito un figlio maschio, temendo di essere uccisa, rotta la
promessa fatta a Pietro, raccontò tutto al padre.

Il cavaliere, sdegnato, rimontato a cavallo, corse a Trapani e a messer Corrado, capitano del re di
Sicilia, raccontò l’ingiuria ricevuta da Pietro.

Il giovane fu catturato e, sotto tortura, confessò ogni cosa . Fu condannato alla frusta e
all’impiccagione.

Poi, poiché alla stessa ora morissero i due amanti e il loro figlioletto, messere Amerigo, che non era
soddisfatto di aver fatto condannare Pietro, mandò da un servo a Violante una bottiglia di vino ,in cui
aveva versato del veleno, e un pugnale. Disse al servo di riferirle che doveva scegliere di morire o col
veleno o col ferro, altrimenti l’avrebbe fatta ardere in piazza, davanti a tutti i cittadini.

Ordinò, ancora, al servo di uccidere il bambino appena nato ,sbattendolo con la testa contro il muro, e
di gettarlo in pasto ai cani; poi andò via.

Frattanto Pietro, mentre veniva condotto dai servi alla forca, frustato, passò davanti ad un albergo
dove alloggiavano tre nobili rumeni, che erano stati mandati dal re dell’Armenia a Roma per trattare
col papa di affari di grande importanza. Si erano fermati a Trapani per riposarsi ed erano stati accolti
con grandi onori dai nobili del luogo, tra cui messere Amerigo.

Costoro, sentendo passare quelli che conducevano Pietro, si affacciarono alla finestra per vedere.

Pietro era nudo, con le mani legate indietro. Uno dei tre ambasciatori, chiamato Fineo, guardandolo,
gli vide sul petto una gran macchia vermiglia, non tinta, ma naturale, di quelle che le donne del luogo
chiamavano “rose”. Appena vide la macchia pensò a suo figlio, che , quindici anni prima , era stato
catturato dai corsari presso la marina di Laiazzo e non ne aveva potuto più avere notizie. Vista l’età
dello sventurato, pensò che ,se era vivo, suo figlio doveva avere la stessa età del giovane. Si avvicinò
e lo chiamò “ Teodoro”. Pietro ,udendo quel nome, subito sollevò il capo e , interrogato in lingua
rumena su chi fosse, rispose che era nato in Armenia, era figlio di un certo Fineo ed era stato rapito
da piccolo.

Fineo, udendo ciò, riconobbe in lui il figlio perduto, e, piangendo, scese giù per abbracciarlo e gli gettò
addosso il ricchissimo mantello che aveva sulle spalle. Dopo aver saputo il motivo della condanna,
pregò colui che doveva eseguire la sentenza di morte di attendere fino a nuovo ordine.

Poi, rapidamente, andò da messere Corrado, capitano del re, e gli rivelò che Pietro era un uomo
libero, non un servo, era suo figlio ed era disposto a prendere in moglie colei che aveva privato della
verginità. Chiedeva di sospendere l’esecuzione per sapere se la donna voleva Pietro per marito.

Messer Corrado, udendo che il giovane era figlio di Fineo, lo liberò e lo mandò da messere Amerigo
per raccontargli come erano andate le cose.

Messer Amerigo , udito il racconto, temendo che la figlia e il bambino fossero già morti, si addolorò
molto; ciononostante, mandò ,immediatamente, a disdire l’ordine, se non era stato ancora eseguito.

Il messaggero trovò il servitore che aveva posto davanti a Violante il veleno e il coltello e attendeva
che la donna si decidesse. Avuto il contrordine, ritornò dal padrone e gli riferì tutto.

Amerigo, ben lieto, si recò da Fineo, si scusò per come erano andati i fatti, e disse che era ben
contento di dare la figlia in moglie a Teodoro , se la voleva. In pieno accordo

Fineo e Amerigo si recarono da Teodoro ancora spaventato per il pericolo corso e lieto di aver
ritrovato il padre.Gli chiesero, senza indugi, se voleva prendere in moglie Violante.
Teodoro, sentendo che se voleva, Violante sarebbe diventata sua moglie, felice pensò di essere
saltato dall’Inferno in Paradiso e disse subito di si.

I due genitori mandarono a chiedere il parere di Violante. Ella, udendo ciò che era avvenuto a
Teodoro, si rallegrò e rispose che era lietissima di diventare la moglie del giovane , ma che avrebbe
fatto quello che suo padre comandava.

Dunque, con l’accordo di tutti, si celebrò il matrimonio con gran festa.

La giovane, riprese le forze e affidato il bambino alla nutrice ,ritornò più bella che mai e trattò con il
rispetto dovuto a un padre Fineo, ritornato da Roma.

Egli , contento di una nuora così bella, la ricevette e la tenne come una figlia.

Dopo alcuni giorni ,imbarcatosi su una nave ,portò con sé a Laiazzo il figlio, la nuora e il nipotino,
dove vissero

per tutta la durata della loro vita.

commento: il lettore assistendo alla scelta di amerigo di far giustiziare la figlia sperimenta una pietas
che per il decameron è superiore alla giustizia positiva. boccaccio avverte in anticipo sui tempi la
tensione storica dei valori in conflitto: la giustizia, una giustizia rigorosa, è per alcuni un valore
assoluto, ma non è sempre compatibile con la pietà e la misericordia nelle vicende reali, cioè con quei
valori che possono essere altrettanto assoluti negli occhi di quelle stesse persone. La giustizia
positiva se applicata contro l’aequitas naturalis che nel decameron è legge suprema, può rivelare la
sua disumanità, che la rende incapace di conciliarsi con la compassione degli afflitti

Messer currado che biasima il peccato della fortuna è lo specchio di una società violenta: le donne
sono in balia dei potenti così come lo sono i poveri e i bambini. Currado finisce per identificare la
dignità di teodoro con il livello sociale di suo padre. Boccaccio strenuo sostenitore della tradizione
cortese, affida al decameron una rappresentazione dell’umanità fondata sul primato della regalità
naturale degli individui radicalizzando le premesse stilnovistiche della sua prospettiva. nella lirica
duecentesca la gentilezz era sempre un segno di aristocrazia che a sua volta presupponeva i contesti
sociali ceh consentivano di acquisirla e perfezionarla. Boccaccio parte da lì ma arriva a riconoscere
analoghe verità per personaggi di condizione inferiore, ammettendone ad esempio l’ingegno e
l’acume.

Una società chiusa come quella ritratta in questa novella, di cui amerigo è un compiuto esempio,
avverte la necessità di emendare l’ingiustizia della sorte, che qui nella fattispecie ha nascosto teodoro
sotto i panni umili di Pietro, soltanto quando si avvede della sconvenienza sociale cui andrebbe
incontro se siconducesse diversamente: Pietro si salva solo perche è teodoro.

NOVELLA 8- GIORNATA 5

narratore: Filomena

Nastagio degli Onesti, amando una donna dei Traversari, spende tutte le sue ricchezze senza essere
amato; se ne va, su invito dei suoi, a Chiassi ;qui vede una giovane inseguita e uccisa da un
cavaliere, divorata da due cani; invita i suoi parenti e la donna amata a pranzo da lui, la quale vede
sbranare la stessa giovane, e , temendo che ciò possa accadere anche a lei, prende come marito
Nastagio.

Come la Lauretta tacque, al comando della regina, Filomena cominciò a raccontare precisando che
la divina giustizia si vendicava della crudeltà, come avrebbe dimostrato con la sua novella.
In Ravenna, antichissima città della Romagna, viveva un gentiluomo ,chiamato Nastagio degli Onesti,
che, dopo la morte del padre e dello zio, rimase con infinite ricchezze.

Egli, come avveniva per i giovani, non avendo moglie, si innamorò di una figlia di messer Paolo
Traversaro, molto più nobile di lui, sperando con le sue opere di spingerla ad amarlo.

Per quante cose belle e degne di lode il giovane potesse fare non riuscì a trarne giovamento, tanto la
giovinetta amata gli si mostrava crudele e ostile, forse per la sua bellezza o per la superbia dovuta
alla sua nobiltà.

Né Nastagio ,né le cose che faceva le piacevano.

Il gentiluomo soffriva molto per questo e ,più volte,gli venne il desiderio di uccidersi.

Decise molte volte di lasciarla stare, cercò di odiarla come ella odiava lui, senza riuscirvi. Anzi,
quanto più perdeva la speranza ,tanto più aumentava il suo amore.

Perseverando il giovane nell’amore e nello spendere smisuratamente, parenti e amici gli


consigliarono di andarsene da Ravenna, perché, facendo in tal modo, sarebbero diminuiti l’amore e
le spese.

A seguito delle insistenze Nastagio decise di partire.

Fece preparare molte cose per il viaggio, come se volesse andare in Francia o in Spagna o in un altro
luogo lontano. In realtà, accompagnato da molti amici, partì da Ravenna e si fermò in un luogo a
circa tre miglia da Ravenna , che si chiamava Chiassi. Posti padiglioni e tende, si sistemò in quel
posto, mentre quelli che lo avevano accompagnato se ne tornarono a Ravenna.

Anche lì il giovane cominciò a fare la bella vita, invitando or questi or quelli a pranzo e a cena,
com’era sua abitudine.

In una bellissima giornata, agli inizi di Maggio, pensando alla sua crudele donna, ordinò a tutti i suoi
servitori che lo lasciassero solo, per poter pensare. Camminando lentamente, quasi a mezzogiorno,
si inoltrò nella pineta, dimenticandosi di mangiare e di ogni altra cosa.

All’improvviso gli parve di udire i pianti e gli altissimi lamenti di una donna, alzò il capo per vedere e
si meravigliò di essere nella pineta.

Vide venire ,correndo attraverso un boschetto fitto di alberelli, una bellissima giovane nuda,
scapigliata e tutta graffiata dagli sterpi, la quale piangeva e gridava. Ai suoi fianchi la inseguivano due
grandi e feroci mastini, che spesso crudelmente la mordevano; dietro di lei veniva, su un cavallo
nero, un cavaliere, col viso cupo, con una spada in mano, che la minacciava di morte con parole
spaventose.

Nastagio, provando nello stesso tempo meraviglia e spavento, ma ,soprattutto, compassione per la
sventurata donna, desiderò, se gli fosse possibile, di aiutarla.

Non avendo armi, prese un ramo, come se fosse un bastone, per andare contro i cani e contro il
cavaliere.

Ma il cavaliere, come vide ciò, gli gridò da lontano “ Nastagio, non ti impicciare, lascia fare ai cani e a
me quello che questa donna malvagia ha meritato”.

Frattanto i cani avevano fermato la donna e il cavaliere era smontato da cavallo.


Nastagio, sorpreso, gli chiese come mai lo conoscesse. Aggiunse che era una gran viltà da parte di
un cavaliere uccidere una donna nuda, dopo averle messo alle costole i cani, come una belva
selvatica, e che egli l’avrebbe difesa ,per quanto poteva.

Il cavaliere rispose che proveniva da Ravenna, dove era vissuto quando Nastagio era ancora
bambino, e si

Chiamava messer Guido degli Anastagi, innamorato di una donna ,molto più di quanto lo era
Nastagio della donna dei Traversari, che per la sua superbia e crudeltà causò la sua rovina. Egli
,disperato, con la spada che aveva in mano si uccise e fu condannato alle pene eterne.

Poco dopo la morte di lui, per la quale aveva molto gioito, la donna morì, senza essersi pentita della
sua crudeltà e della gioia provata per le sofferenze causate allo sventurato Guido, non pensando di
aver commesso alcun peccato. Anch’ella fu condannata alle pene dell’Inferno.

Come scese nell’Inferno fu data come pena a lei di fuggire davanti a lui e a lui, che tanto l’aveva
amata, di

inseguirla come mortale nemica e non come donna amata.

Tutte le volte che la raggiungeva doveva aprirle la schiena con la spada e trarne fuori il cuore duro e
freddo, nel quale non era mai entrato né amore né pietà, e, insieme alle altre interiora, gettarlo in
pasto ai cani.

Dopo poco tempo ella, come voleva la giustizia e la potenza di Dio, come se non fosse stata uccisa,
si sarebbe rialzata e avrebbe ripreso la dolorosa fuga, inseguita dai cani e dal cavaliere.

Tutto ciò avveniva ogni venerdì alla stessa ora in quel luogo, mentre negli altri giorni, la scena si
ripeteva nei luoghi nei quali la donna aveva crudelmente operato contro il cavaliere.

Guido chiese, dunque, a Nastagio di lasciargli compiere la giustizia divina e di non volersi opporre.

Nastagio, con i capelli arruffati dalla paura, si fece da parte e rimase a guardare che cosa sarebbe
accaduto.

Il cavaliere, dopo aver parlato, come un cane rabbioso, con la spada, corse addosso alla donna che,
inginocchiata, tenuta ferma dai due mastini, chiedeva pietà, e ,con tutta forza, la colpì nel petto,
trapassandola da parte a parte.

Il cavaliere, preso il coltello, le aprì la schiena ,ne trasse fuori il cuore e le interiora e le gettò ai cani,
che, affamatissimi, immediatamente, li mangiarono.

Dopo poco la giovane, come se non fosse successo niente, si alzò in piedi e cominciò a fuggire
verso il mare.

I cani corsero dietro di lei, mordendola, e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripresa la spada,
ricominciò ad inseguirla e, in poco tempo, scomparvero dalla vista del giovane.

Nastagio stette un po’ spaventato ed impietosito, poi gli venne in mente che quella scena, che
accadeva ogni venerdì, poteva essergli utile.

Segnato il luogo, tornò dai suoi familiari e, chiamati parenti e amici, disse loro di invitare per il venerdì
successivo messere Paolo Traversari ,la moglie, la figlia e tutte le donne loro parenti a pranzo da lui.

Aggiunse che avrebbero compreso durante il pranzo il perché di quell’invito.


Ai parenti sembrò una cosa semplice da farsi. Tornati a Ravenna, invitarono tutti quelli che Nastagio
voleva.

La cosa più difficile fu condurre a pranzo la giovane da lui amata, pure vi riuscirono.

Nastagio fece imbandire uno splendido banchetto sotto i pini, dove era avvenuto lo scempio della
donna crudele. Fece sedere la giovane amata dirimpetto al luogo dove doveva avvenire il fatto.

Quando i commensali erano giunti all’ultima portata, cominciarono ad udire le urla disperate della
giovane inseguita. Tutti, chiedendosi che cosa stava succedendo, si alzarono in piedi e videro la
giovane dolente, il cavaliere e i cani, che subito furono tra loro.

Molti si fecero avanti per aiutare la donna. Ad essi il cavaliere parlò come aveva parlato a Nastagio e
non solo

li fece indietreggiare ma li riempì di spavento e meraviglia. E, facendo quello che aveva fatto l’altra
volta, turbò tutte le donne che erano lì e che erano state parenti della sventurata donna e del
cavaliere. Esse ,infatti, ben si ricordavano dell’amore e della morte di lui.

Tutte piangevano come se fosse stato fatto a loro stesse quello che era stato fatto alla giovane.

Più di tutte si spaventò la crudele giovane amata da Nastagio , ricordandosi della crudeltà da lei
sempre usata contro il gentiluomo. Le sembrava già di fuggire inseguita da lui e dai mastini.

E tanta fu la paura che provò che, per evitare che ciò avvenisse, la stessa sera, avendo trasformato
l’odio in amore, mandò segretamente a Nastagio una cameriera per dirgli che era pronta a fare tutto
ciò che egli volesse.

Il giovane rispose che voleva prenderla in moglie, con onore di lei.

La donna, che sapeva che le sventure di Nastagio erano dipese soltanto da lei, che non aveva voluto
essere sua moglie, gli fece rispondere che le piaceva.

Poi, di persona, disse al padre e alla madre che voleva essere la sposa di Nastagio, anch’essi furono
molto contenti.

La domenica seguente furono celebrate le nozze, e il gentiluomo visse con la sua sposa a lungo
lietamente.

Quella paura fece sì che tutte le donne di Ravenna, paurose, divenissero ,da allora, più arrendevoli ai
piaceri degli uomini ,di quanto non lo fossero state prima.

commento:

vendetta= non un tema generico ma una delle realya drammatiche della storia politica cittadina
medievale

suggestioni dantesche

la scena si manifesta quasi come un’allucinazione : la tragedia infernale è tangibile come una
tragedia terrena ma non mancano i segni che evidenziano la sua natura e lo spettatore che non sa di
cosa si tratti segue la scena con tensioneù

la fictio che suggerisce uno sguardo sulla verità. la luttuosa rappresentazione architettata da nastagio
ha il fine di consentire alla donna la mutatio vitae. L’intellogenza della donna legge il significato
morale della rappresentazione e comprende che cosa esso significhi in relazione alla sua vita
individuale.

In questa vicenda si possono rilevare gli echi di una tradizione ben attestata nel Medioevo: la caccia
selvaggia. Anche se in tono minore rispetto ad altre attestazioni che parlano di masnade e di interi
eserciti che tornano sulla terra, il tema delle anime che vagano senza trovare requie è quanto mai
evidente.

L’apparizione dei dannati ha anche un valore di exemplum. La visione infatti permette al protagonista
di conoscere il destino dei suicidi. La pena destinata a chi si toglie la vita è stigmatizzato anche da
Dante nel XIII canto dell’Inferno; nella Commedia questi peccatori sono inseguiti, cacciati e sbranati
da cagne feroci.

L’esempio però non serve solo a Nastagio ma viene esteso a tutta Ravenna (città dove si svolge la
vicenda) e in particolare alle donne che, riportando le parole di Boccaccio: E non fu questa paura
cagione solamente di questo bene, anzi si tutte le ravignane (ravennati n.d.r.) donne paurose ne
divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono, che prima state non
erano.

giornata 6 tema: chi con alcun leggiadro motto tentato si riscotesse, o con pronta risposta o
avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.9

Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e si rovina spendendo in cortesia, gli rimane solo
un falcone, il quale, non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venutagli in casa; la quale,
saputo ciò, mutata d’animo, lo prende per marito e lo fa ricco.

Filomena aveva già smesso di parlare, quando la regina, ricordando che Dioneo era l’unico che non
aveva ancora narrato la sua novella, disse che toccava a lei narrare.

Sorridendo, aggiunse che avrebbe raccontato una novella in parte simile a quella precedente.

Invitò, poi, le donne a non lasciarsi guidare sempre dalla fortuna ,che ,spesso, si muove senza
discernimento, ma a donare personalmente ai loro innamorati.

Iniziò dicendo che in Firenze viveva forse ancora un tale Coppo di Borghese Domenichi, di grande
autorità, per virtù e per costumi, più che per nobiltà di sangue.

Essendo ormai pieno di anni, spesse volte si dilettava a ragionare con i vicini delle cose passate, con
un modo molto elegante di esporre.

Era solito raccontare, tra le tante belle cose, che un tempo visse in Firenze un giovane chiamato
Federigo, figlio di Filippo Alberighi, conosciuto per l’abilità nelle armi e per la cortesia più di ogni altro
giovane in Toscana.

Egli, come avviene per i gentiluomini, si innamorò di una gentildonna, chiamata monna Giovanna,
ritenuta tra le più belle donne che ci fossero in quel tempo a Firenze.

Per poter conquistare l’amore di lei giostrava, gareggiava nelle armi, faceva feste e spendeva senza
alcun ritegno.

Ma la donna, onesta quanto bella, non si curava per niente di quelle cose, né di colui che le faceva.
Ben presto Alberigo, spendendo molto e niente acquistando, consumò tutte le sue ricchezze e
divenne povero.

Gli rimase soltanto un piccolo poderetto, nel quale poveramente viveva e, altre a questo, un falcone, il
migliore del mondo. Ritenendo di non poter più vivere a Firenze come desiderava, se ne andò a
vivere a Campi, nel suo poderetto, dove sopportava pazientemente la sua povertà, andando a caccia
da solo.

Frattanto avvenne che il marito di monna Giovanna si ammalò e, prima di morire, fece testamento.

Essendo ricchissimo, lasciò suo erede il figlio, già grandicello e, dopo di lui, se il figlio per caso
morisse senza erede legittimo, nominò, in sostituzione, erede sua moglie, che aveva molto amato, e
morì.

Rimasta, dunque, vedova, monna Giovanna ,com’era usanza delle donne fiorentine, d’estate, se ne
andava col figlio in campagna, , in un suo possedimento, vicino al poderetto di Federigo.

Il fanciullo divenne amico di Federigo , avendo la stessa passione per gli uccelli e per i cani.

Avendolo visto molte volte volare, gli cominciò a piacere molto il falcone del gentiluomo.

Il ragazzo desiderava di averlo, ma non osava chiederlo, perché vedeva che era molto caro al suo
padrone.

Stando così le cose ,il ragazzo si ammalò.

La madre, che lo amava straordinariamente, standogli vicino, per confortarlo, spesso gli domandava
che cosa desiderava. Il giovinetto, infine, le rispose “ Madre mia, se voi farete in modo che io abbia il
falcone di Federigo, io credo di poter presto guarire”.

La donna, udendo ciò, rimase pensierosa, ben sapendo quanto l’uomo fosse legato al falcone, che
era il migliore del mondo. Ella sapeva anche quanto Federico l’avesse amata, come non l’avesse
degnato nemmeno di uno sguardo, lasciando che, per amor suo, si riducesse in miseria, tenendo per
sé soltanto quell’uccello, come sua unica gioia.

Infine, fu tanto forte l’amore per il figlio che gli disse che sarebbe andata da Federigo a chiedergli il
falcone.

Lo stesso giorno il fanciullo ,lieto, mostrò un miglioramento.

La mattina seguente, in compagnia di un’altra donna, si recò nella modesta casa del giovane.

Lo trovò nell’orto a fare alcuni lavoretti. Egli la salutò, meravigliato.

Monna Giovanna, andandogli incontro, gli disse che, per farsi perdonare dei danni che gli aveva
causato per amore, era venuta a pranzare con lui insieme alla compagna.

Federigo, riconfermandole il suo amore e la gioia per la sua presenza, la ricevette nella sua casa e la
condusse nel giardino. L’affidò alla compagnia della moglie del fattore, non avendo altri. Si recò, poi,
in casa per far mettere la tavola.

La sua povertà non gli era mai pesata, ma , quella mattina, non trovando niente per poter onorare la
donna, si mortificò molto. Non aveva denari, né oggetti da impegnare, l’ora era tarda e grande il
desiderio di accogliere degnamente la gentildonna. Non volendo chiedere nulla al suo lavorante, gli
corse l’occhio al suo falcone che se ne stava appollaiato sul trespolo. Lo prese, lo trovò bello grasso e
pensò che era degna vivanda per una tale donna. Senza più pensare, gli tirò il collo, lo fece pelare da
una domestica e lo fece arrostire per bene allo spiedo.
Fatta apparecchiare la tavola con una tovaglia bianchissima ,che ancora aveva, ritornò in giardino
dalla donna e le disse che il pranzo era pronto.

Le donne, alzatesi, andarono a tavola e, senza sapere che cosa mangiassero, insieme a Federigo,
mangiarono il buon falcone.

Alzatisi da tavola, dopo aver conversato un po’ piacevolmente,, monna Lisa, ritenne che fosse venuto
il tempo di fare la sua richiesta. Cominciò a parlare dolcemente, ricordando i tempi passati , l’amore
che il giovane aveva provato per lei, la sua onestà, ritenuta da Federico durezza e crudeltà.

Infine, per amore del figlio, che se ne era invaghito a tal punto che se non l’avesse avuto ne sarebbe
morto, gli chiese in dono il falcone.

Federigo, udendo ciò che la donna domandava e sapendo di non poterla accontentare perché le
aveva dato da mangiare il falcone, cominciò a piangere, senza poter rispondere.

La donna credette che il pianto fosse dovuto al dolore del giovane per doversi separare dall’uccello,
pure, trattenutasi, aspettò la risposta di Federigo.

Infine , egli rispose che la fortuna gli era stata avversa perché non gli aveva concesso l’amore di lei;
pure, tutto era poco rispetto allo scherzo che gli aveva fatto quel giorno, scherzo per il quale non
avrebbe potuto più rappacificarsi con la fortuna.

Purtroppo non poteva accontentarla e non poteva donarle il falcone perché , come molte persone
usavano, aveva reputato il falcone degno cibo per lei , l’aveva fatto arrostire e glielo aveva servito nel
tagliere.

Vedendo che ella lo desiderava in altro modo ,non se ne sarebbe mai dato pace.

Detto questo, a testimonianza di ciò, le fece gettare avanti le penne, i piedi e il becco.

La donna, vedendo e udendo come erano andati i fatti, prima lo biasimò perché ,per dare da
mangiare ad una donna, aveva ucciso un così bel falcone, poi apprezzò la grandezza del suo animo,
che la povertà non aveva piegato.

Persa la speranza di avere il falcone per la salvezza del figlio, tutta malinconica se ne andò,
ritornando dal ragazzo. Il giovinetto, per il dolore di non aver potuto avere il falcone o per la malattia,
dopo pochi giorni morì con gran dolore della madre.

Monna Giovanna ,addoloratissima per la morte del figlio, essendo rimasta ricchissima ed essendo
ancora giovane, fu costretta dai fratelli a rimaritarsi.

Ella, ricordandosi di Federigo e della sua generosità, rispose ai fratelli che non avrebbe sposato
nessun’altro se non Federigo degli Alberighi.

I fratelli si meravigliarono, ben conoscendo la povertà del giovane.

A loro Giovanna rispose “ Fratelli miei, so bene che egli è povero, ma voglio piuttosto un uomo che
abbia bisogno di ricchezza, che ricchezza che abbia bisogno di un uomo”.

I fratelli, udendo ciò, conoscendolo, sebbene fosse povero, gli donarono lei con tutte le sue ricchezze.

Federigo, che aveva avuto in moglie la donna tanto amata e ,oltre a ciò, era divenuto ricchissimo,
visse il resto della sua vita come ottimo amministratore delle loro ricchezze.

commento: spendere senza limite. la mezura cavalleresca è una piena rispondenza in atti all’ideale
cortese, sia nella coscienza del miles sia nei suoi rapporti sociali con il mondo. Questa misura non
perde mai di vista la cura sollecita della propria perfezione. Federigo si ravvede di quanto sarebbe
stato necessario che non così disordinatamente spendesse, ma questa nuova coscienza che gli
prospetta le virtù della masserizia e del risparmio, che sono virtu borghesi per eccellenza, non nasce
da un pentimento che investa l’ethos cavalleresco, ma dal desiderio di poterlo inverare e compiere
ancora con la consueta generosità. Su un piano ideologico- politico Federigo prospetta la possibile
unione di etica cavalleresca ed etica borghese, che in fin dei conti è ciò che rappresenta la brigata.

Il pasto è rituale e sacrificale: l’uomo cavaliere si offre in cibo attraverso il suo falcone. la sacralità
della scena è tuttuno col suo erotism, poiche il falcone è anche simbolo di virilita

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.3

Madonna Nonna dei Pulci con una risposta adatta impone silenzio al motto scortese del
vescovo di Firenze.

Quando Pampinea finì di raccontare la novella, tutti apprezzarono la risposta di Cisti.

La regina invitò Lauretta a continuare ed ella iniziò dicendo che avevano detto il vero Pampinea e
Filomena, quando parlavano della bellezza dei motti. La loro natura doveva essere tale da mordere
l’uditore come mordeva una pecora, non come mordeva un cane: perché se il motto avesse morso
come un cane non sarebbe stato un motto, ma una villania. Così fecero le parole di madonna Oretta e
la risposta di Cisti.

In verità, se chi rispondeva mordeva come un cane, voleva dire che prima era stato morso come da
un cane. Perciò bisognava guardare come, quando, con chi e dove si motteggiava.

A tale proposito voleva raccontare come, prestando a queste cose poca attenzione, un loro prelato
aveva ricevuto un morso non inferiore a quello che aveva dato.

Mentre era vescovo di Firenze Antonio d’Orso, valoroso e saggio prelato, venne a Firenze un
gentiluomo catalano, chiamato messer Diego della Ratta, ufficiale di re Roberto d’Aragona, bellissimo
di corpo e gran conquistatore di donne. Tra le donne fiorentine gliene piacque una, che era assai
bella ed era la nipote del fratello del vescovo. Avendo sentito che il marito di lei era avarissimo e
cattivo, sebbene fosse di buona famiglia, concordò con lui che gli avrebbe dato 500 fiorini d’oro, se
l’avesse lasciato giacere una notte con la moglie.

Poi, fatte dorare delle monete di poco valore gliele diede, dopo aver giaciuto con la donna, sebbene
contro la volontà di lei.

Saputasi la cosa, al marito malvagio rimasero il danno e le beffe.

Il vescovo, saggiamente, finse di non aver sentito niente.

Essendo divenuti molto amici, il vescovo e l’ufficiale, il giorno di San Giovanni, mentre cavalcavano
uno accanto all’altro, videro, nella strada dove si correva il palio, delle donne. Tra esse vi era una
giovane, che la pestilenza successivamente ,ormai anziana, aveva ucciso, che si chiamava madonna
Nonna dei Pulci, fresca, bella e di grande spirito. Il vescovo che, poco tempo prima, aveva celebrato
le sue nozze in Porta San Pietro, la mostrò all’ufficiale. Poi le si avvicinò e le chiese “Nonna, che ti
sembra di costui? Crederesti che egli ti possa vincere?”.

A madonna Nonna sembrò che quelle parole offendessero la sua onestà alla presenza di tante
persone che l’avevano udito. Perciò, volendo ricambiare colpo su colpo, rispose prontamente “
Messere, forse egli non vincerebbe me, ma vorrei essere pagata con una moneta vera, non falsa”.
Udite queste parole, il capitano e il vescovo, ugualmente colpiti, l’uno perché aveva ingannato la
nipote del vescovo, l’altro perché aveva finto di ignorare l’offesa fatta alla nipote del proprio fratello,
senza guardarsi, vergognosi e in silenzio, se ne andarono, senza dirle più niente.

Così, dunque, la giovane, essendo stata morsa, non evitò di mordere gli altri, rispondendo con un
motto.

commento: la natura dei motti , che è frutto di civiltà, deve essere argutamente delicata, deve
mordere il vizio o l'insipienza con garbo e cortesia, senza eccedere (come la pecora, no come il
cane).

lo squallore della vicenda che fa solo da sfondo al motto di nonna de pulci giustifica l’acerba trafittura
dei suoi interlocutori. la novella inscena di nuovo lo sfruttamento, non di rado perpetrato da
rappresentanti del potere, che le donne possono subire e tale rimarrà fino a griselda

discorso di pampinea: a proposito della legittima difesa che le donne possono compiere per la
conservazione del proprio onore

NOVELLA 5 - GIORNATA 6

narratore: panfilo

Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto , pittore, venendo dal Mugello, l’uno punge
motteggiando l’aspetto smunto dell’altro.

Come Neifile tacque ,le donne mostrarono di essersi molto divertite per la risposta di Chichibio.

Subito Panfilo ,per volere della regina, si rivolse alle donne. Disse che spesso come la Fortuna
nascondeva grandissimi tesori sotto vili arti, così la Natura nascondeva sotto uomini di aspetto
bruttissimo meravigliosi ingegni. Il che si vedeva chiaramente in due cittadini fiorentini dei quali
Panfilo voleva parlare.

L’uno si chiamava messer Forese da Rabatta, piccolo e sformato nel corpo, col viso piatto e
cagnesco, che sarebbe sembrato orribile anche per uno qualsiasi dei Baronci, ma così esperto nelle
leggi che fu ritenuto da molti uomini di cultura un vero pozzo di scienze.

L’altro, di nome Giotto, fu dotato di un ingegno tanto eccellente che sapeva dipingere ogni cosa data
dalla natura ,creatrice e madre, con lo stilo o la penna o il pennello del tutto simile, che anzi
sembrava proprio quella, tanto che quando gli uomini vedevano le cose dipinte da lui pensavano che
fossero vere.

Giotto poteva essere ritenuto, a ragione, una delle luci della gloria fiorentina.

Aveva, infatti, ridato splendore all’arte del dipingere che , per molti secoli, era rimasta sepolta sotto
gli errori di alcuni, che dipingevano per dilettare gli occhi degli ignoranti e non l’intelletto dei saggi.
Era ancora più meritevole perché ottenne la gloria con grandissima umiltà, sempre rifiutando di
essere chiamato maestro. Tale titolo, sebbene rifiutato, risplendeva in lui, mentre era desiderato e
ambito da tanti altri che sapevano meno di lui. Ma, sebbene la sua arte fosse grandissima, egli non
era nel corpo e nell’aspetto più bello di messer Forese.
Panfilo proseguì dicendo che , avendo messer Forese e Giotto dei possedimenti nel Mugello, messer
Forese era andato a vedere i suoi, nel periodo estivo, durante le ferie.

Per caso, mentre andava su un ronzino, incontrò Giotto, il quale, avendo visitato le sue terre, se ne
tornava a Firenze. Tutti e due, mal conciati, sia per la cavalcatura che per il resto, come due vecchi
se ne andavano insieme, facendosi compagnia.

All’improvviso scoppiò un temporale, per sfuggire alla pioggia, più velocemente che potevano, si
rifugiarono nella casa di un contadino loro amico e conoscente.

Dopo un certo tempo, poiché non smetteva di piovere e dovevano essere in giornata a Firenze, fattisi
prestare due mantellacci vecchi e due cappelli molto consumati, ché migliori non ve ne erano,
cominciarono a camminare. Camminarono per un po’ e si inzupparono tutti di fango per gli schizzi
che i ronzini facevano con gli zoccoli, andando nelle pozzanghere; la qual cosa non accrebbe la loro
rispettabilità.

Rischiaratosi il tempo, dopo un lungo silenzio, ricominciarono a parlare.

Messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, che era un ottimo conversatore, cominciò a
guardare il maestro dal capo ai piedi, dappertutto. Vedendolo così brutto e malridotto, senza pensare
al proprio aspetto, cominciò a ridere e disse “ Giotto, tu pensi che, se, per caso, ci venisse incontro
un forestiero che non ti avesse mai visto, crederebbe che tu sei il migliore pittore del mondo, come
,in realtà, sei?”.

E Giotto, prontamente, gli rispose “Messere, forse che egli, guardando voi, potrebbe credere che
sapete l’abicì?”. Udendo ciò messer Forese riconobbe il suo errore e si vide ripagato con la stessa
moneta.

commento: lo stilo di giotto nel decameron è veicolo di un atto di comprensione intellettuale. la


bellezza ne esprime la perfezione intrinseca attraendo su di sè l’occhio degli intendenti e distraendo
invece quello degli ignorant. il senso dell’immagine non sta nella sua froma ma nel rapporto tra
questa e la verità, cioè in un rapporto in cui la prima forma è il modod di manifestarsi per irradiazione
della secondA. LA novità dell’arte di giotto che rappresentava una luce rispetto agli errori di altri
pittori riposava sulla cposcienza di dover compiacere l’intelletto dei saggi. la bellezza delle sue
immagini ha quindi attribuito alla pittura valore conoscitivo e ne ha fatto un’arte intelletuale. Panfilo
avev anarrato anche la storia di cimone in questa propsettiva : in cui lo sguardo conoscitivo si
traduce in un percorso di perfezionamento

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 7

Madonna Filippa , dal marito col suo amante trovata,chiamata in giudizio, con una pronta e
piacevole risposta libera sé stessa, e fa modificare la legge.

Già Fiammetta taceva e ognuno ancora rideva per l’argomento originale con cui lo Scalza aveva
nobilitato i Baronci, quando la regina fece cenno a Filostrato di iniziare la narrazione.

E Filostrato, rivolto alle donne, cominciò dicendo che era, senz’altro, una cosa bella saper parlare in
ogni circostanza, ma era bellissimo saperlo fare quando le circostanze lo richiedevano.
Così seppe fare, appunto, la donna di cui avrebbe parlato, la quale, con la sua risposta, non solo
divertì tutti gli ascoltatori, ma si liberò dai lacci di una morte vergognosa.

Nella terra di Prato era in vigore uno statuto, in verità biasimevole e crudele, che ordinava che fosse
arsa la donna che fosse colta dal marito in flagrante adulterio con l’amante, al pari di una prostituta,
che fosse stata per denari con qualunque uomo.

Mentre vigeva questa legge, avvenne che una gentildonna bella e molto innamorata, di nome
madonna Filippa, una notte fu trovata da Rinaldo dei Pugliesi, suo marito, nelle braccia di Lazzarino
dei Guazzagliotri, giovane nobile e bello di Prato, che l’amava nella stessa misura.

Rinaldo vedendo ciò, adirato, si trattenne a fatica dal gettarsi loro addosso e dall’ucciderli e, se non
avesse temuto di essere condannato, seguendo l’impeto d’ira, li avrebbe uccisi.

Trattenutosi, dunque, pretese di ottenere la morte della sua donna, come prevedeva lo statuto di
Prato.

Perciò trovò dei testimoni e, venuto il giorno, senza riflettere ulteriormente, accusata la donna, la fece
chiamare in tribunale.

La donna, che era di animo generoso, come erano ,di solito, le donne molto innamorate, sebbene
sconsigliata da parenti e amici, decise di comparire in giudizio e di confessare la verità. Preferiva
morire coraggiosamente, piuttosto che vivere fuggendo vilmente e vivere in esilio, condannata in
contumacia, indegna di un amante valoroso, come era colui, nelle cui braccia era stata la notte
passata.

Accompagnata da un folto gruppo di donne e di uomini, che le consigliavano di negare, giunta davanti
al podestà, gli chiese, con coraggio, di essere interrogata.

Il podestà, vedendola bellissima e molto garbata, e, come dimostravano le sue parole, di gran valore,
cominciò ad avere compassione di lei. Temeva che ella potesse confessare qualche cosa per cui, nel
rispetto della legge, dovesse condannarla a morte.

Dovendo, dunque, interrogarla in relazione a ciò di cui era accusata, le disse che Rinaldo, suo marito,
l’aveva denunziata, perché diceva che l’aveva trovata in adulterio con un altro uomo ; chiedeva ,come
previsto dallo statuto, che fosse punita con la morte.

Il giudice precisava che non poteva condannarla se ella non confessava, perciò la invitava a riflettere
bene a ciò che rispondeva e a dire se era vero quello di cui il marito l’accusava.

La donna, senza scomporsi, con voce dolce rispose che era vero che Rinaldo, suo marito, l’aveva
trovata, la notte passata, nelle braccia di Lazzarino, nelle quali, per l’amore grande che gli portava,
era stata molte volte, né l’avrebbe mai negato.

Ma aggiunse che, come tutti sapevano, le leggi dovevano essere uguali per tutti e dovevano essere
fatte con il consenso di coloro cui riguardavano.

Per quella legge non era avvenuto così, infatti essa puniva solo le donne, meschine, le quali
potrebbero soddisfare molti uomini. Inoltre, mai nessuna donna aveva approvato tale legge, né era
stata chiamata a farlo. Per quel motivo tale legge era ingiusta e crudele.

Proseguì dicendo che il giudice poteva applicarla con danno del corpo di lei e della propria anima. Ma
lo pregava, prima di emettere il giudizio, di chiedere al marito se si era mai rifiutata di concedersi a lui,
con tutta sé stessa, ogni volta che glielo aveva chiesto.

Rinaldo, senza aspettare che il podestà glielo chiedesse, rispose che la donna, senza alcun dubbio,
gli aveva concesso tutta sé stessa per il suo piacere ogni volta che glielo aveva chiesto.
Allora la donna, prontamente, chiese al podestà “ Se mio marito ogni volta che ne ha avuto bisogno e
gli è piaciuto si è preso tutto quello che ha voluto, di quello che è avanzato che cosa io ne avrei
dovuto fare? Forse gettarlo ai cani? Non è stato molto meglio offrirlo ad un gentiluomo che amo,
invece di lasciarlo perdere o guastare? “.

Tutti i pratesi lì accorsi, udendo la donna, risero e, immediatamente, quasi ad una voce, gridarono che
la donna aveva ragione e diceva bene.

Prima di allontanarsi, con il parere favorevole del podestà, modificarono lo statuto crudele e
lasciarono che esso si applicasse solo alle donne che tradissero i mariti per denaro.

In conclusione Rinaldo, molto confuso, si allontanò dal giudizio, mentre la donna ,libera e lieta per
aver aver evitato di essere arsa, se ne tornò trionfante a casa sua.

commento: la compassione di una afflitta determina qui una svolta nel racconto: il pdestà che dinanzi
a una donna indifes aprova compassione si differenzia dai suoi antecedenti nell’opera che non di rado
sono stati colti dal desiderio di approfittare di una donna vulnerabile. dunque la compassione è
premessa della giustizia.

le leggi devono essere uguali per tutti: principio costituzionale non scontato per l’epoca: vi risuona la
ministerialità del potere politico, che era uno degli assunti della brigata

discorso in cui filippa si giustifica: principio antiascetico informato dalla generosità della passione e
dell’amore nelle donne

il diritto naturale dell’amore poichè è appunto un diritto naturale si riallaccia al diritto alla
conservazione della nostra vita.

SESTA GIORNATA – CONCLUSIONE

La novella appena narrata offrì alla brigata grandissimo divertimento e fece ridere tutti di frate Cipolla,
del suo pellegrinaggio e delle reliquie. La regina, sentendo che era finita, alzatasi, si tolse la corona e
la mise sul capo di Dioneo esortandolo a reggere e a guidare le donne, in modo che, al termine della
sua reggenza, esse lo potessero lodare. Dioneo, presa la corona, ridendo, rispose che egli non era
prezioso come il re degli scacchi, che tutti ben conoscevano, ma avrebbe fatto del suo meglio per
accontentarle. Poi , fatto venire il siniscalco, ordinò tutto quello che doveva esser fatto nel periodo
della sua signoria. Rivolgendosi, infine, alle donne disse loro che la presenza di donna Licisca gli
aveva suggerito il tema delle novelle del giorno seguente. Ella aveva detto che non c’era stata una
fanciulla che fosse andata vergine al matrimonio e che conosceva tutte le beffe che le maritate
facevano ai mariti. Perciò, ritenendo che donna Licisca ne avesse fornito il motivo, stabiliva che
l’indomani si sarebbe narrato delle beffe che, per amore o per salvarsi, le donne avevano fatto ai loro
mariti, sia che essi se ne fossero accorti, sia che non se ne fossero accorti. Alcune donne, che non
erano d’accordo ,temendo che fosse un argomento sconveniente per loro, lo pregarono affinché
cambiasse la proposta. Dioneo rispose che ben comprendeva la difficoltà del tema trattato, ma non
avrebbe cambiato idea, ritenendo che, in tempi come quelli, ogni discorso era consentito agli uomini
e alle donne che evitavano di comportarsi disonestamente. Esse sapevano che, per la pestilenza di
quel tempo, i giudici avevano abbandonato i tribunali, le leggi divine e umane tacevano e ,per
sopravvivere ,era concessa ad ognuno massima libertà di costumi .Perciò se si era un po’ più liberi e
spinti nel raccontare, non per fare cose sconvenienti ,ma solo per divertire loro e gli altri, non vedeva
alcun motivo valido per essere rimproverati ,in futuro, da qualcuno. Del resto la loro brigata, fino a
quel momento, non si era macchiata di alcun atto sconcio e non se ne sarebbe macchiata in seguito,
con l’aiuto di Dio. Aggiunse che tutti conoscevano l’onestà delle donne presenti, che non poteva
essere sminuita né da discorsi divertenti, né dal terrore della morte. E, in verità, riteneva che chi
avesse saputo che non avevano voluto discutere di quelle stupidaggini, avrebbe potuto sospettare
che avessero peccato in tal senso, perciò non ne volevano parlare. Egli, senza discutere, aveva
accettato tutti gli argomenti proposti, mentre, avendolo fatto loro re, volevano imporgli ciò che non
doveva dire, Lasciassero, dunque, ogni scrupolo e serenamente ciascuno pensasse alla novella da
raccontare. Le donne, udito ciò, non obiettarono più. Poi il re lasciò ognuno libero di fare ciò che
volesse, fino all’ora di cena. Il sole era ancora molto alto, perché le novelle narrate erano state brevi,
perciò Dioneo si mise a giocare a tavole. Elissa, chiamate le altre donne, disse loro che voleva
condurle, cosa che aveva desiderato da quando erano lì, in un luogo che nessuna conosceva,
chiamato la Valle delle Donne. Il momento opportuno le sembrava proprio quello, perché era ancora
alto il sole. Le donne risposero che erano pronte e, chiamate le fantesche, senza dire niente ai
giovani, si avviarono. Dopo poco più di un miglio giunsero alla Valle delle Donne. Entrarono in essa
attraverso un sentiero assai stretto, che era bagnato ,su un lato, da un fiumicello. Trovarono la valle
assai bella e gradevole specialmente in quel periodo di un caldo inimmaginabile. Come ognuna riferì,
nellaValle c’era una pianura, così rotonda, come se fosse stata fatta con un compasso. Essa era
contornata da sei montagnette, non troppo alte, e sulla sommità di ognuna vi era un palazzo simile a
un bel castello. I declivi di quelle montagnette scendevano verso la pianura, come si vedevano nei
teatri, dalla sommità fino ai gradini più bassi, ordinatamente , stringendo il cerchio. I declivi che erano
rivolti a mezzogiorno erano tutti pieni di vigne, di ulivi, di mandorli, di ciliegi, di fichi e di ogni altro
genere di alberi da frutta, senza che rimanesse scoperto nemmeno un po’ di terreno. Quelli esposti a
Nord erano tutti boschetti di querce, di frassini, e di altri alberi verdissimi e dritti. La pianura
successiva era piena di abeti, di cipressi, di allori e di alcuni pini così ordinati che sembrava fossero
stati piantati dal miglior artista del mondo. Fra i loro rami filtrava poco sole, solo quando era in alto.
Oltre a quello, offriva grande piacere un fiumicello che da una delle valli ,che divideva due di quelle
piccole montagne, scorreva giù su rocce di pietra viva. Cadendo provocava un rumore molto
gradevole e sembrava argento vivo. Quando l’acqua giungeva alla pianura si raccoglieva in un bel
canaletto e giungeva velocissima al centro della pianura, dove formava un bel laghetto, come i vivai
che si vedevano nei giardini di Firenze. Il laghetto non era molto profondo, mostrava chiarissimo il
fondo, con una ghiaia piccolissima, i cui ciottoli si sarebbero potuti contare. Non si vedeva nell’acqua
soltanto il fondo, ma tanti piccoli pesci che andavano di qua e di là, come se chiacchierassero, cosa
straordinaria. Sull’altra riva ,il laghetto era chiuso dal suolo del prato, tanto più verde, quanto più era
umido. L’acqua in eccesso finiva in un altro canaletto , che uscendo dalla valle, correva verso le parti
più basse. Lì giunte, le donne, dopo aver ammirato il luogo, poiché faceva molto caldo, vedendo il
laghetto, senza timore di esser viste, decisero di bagnarsi. Dopo aver comandato alla fantesca di
rimanere sulla strada e di avvisarle se arrivava qualcuno, tutte e sette si spogliarono ed entrarono in
esso. Il lago era così trasparente che nascondeva i loro corpi come un bicchiere di vetro una rosa
rossa. Esse, senza provare alcuna vergogna, cominciarono ad inseguire i pesci, cercando di prenderli
con le mani. Dopo essersi trattenute in acqua per un certo tempo ed aver catturato alcuni pesci,
essendo ormai giunta l’ora di ritornare a casa, uscirono dall’acqua e si misero in cammino a passo
lento, parlando della bellezza del luogo. Giunte presto al palazzo, trovarono i giovani che stavano
giocando dove li avevano lasciati. Pampinea disse loro che li avevano ingannati e raccontò da dove
venivano, com’era il luogo e a quale distanza si trovava. Il re, sentendo parlare della bellezza del
luogo, desideroso di vederlo, ordinò rapidamente la cena. Dopo aver cenato, i tre giovani, con i loro
servi ,lasciate le donne, andarono alla valle, che ritennero una delle più belle del mondo. Poi, dopo
che si furono bagnati e rivestiti, tornarono a casa, dove trovarono le donne che danzavano su un’aria
cantata da Fiammetta. Con loro lodarono la bellezza della Valle delle Donne. Subito dopo il re ordinò
al siniscalco che la mattina seguente apparecchiasse nella Valle e facesse portare anche qualche
letto, se qualcuno volesse dormire o riposare fino al pomeriggio. Ordinò. Inoltre, di accendere i lumi e
di portare vino e dolci. Dopo essersi rifocillati, il re ordinò ai giovani di ballare e chiese ad Elissa di
cantare una canzone. Elissa, sorridendo, con dolce voce cominciò a cantare una canzone in cui
chiedeva ad Amore, suo signore, che l’aveva imprigionata con le sue catene, di liberarla dalle pene
d’amore. Soltanto così avrebbe potuto rimuovere il dolore e ritrovare tutta la sua bellezza. Ella
terminò il canto con un sospiro. Tutti si meravigliarono delle parole, ma nessuno poté comprendere il
motivo di tale canto. Il re, molto allegro, fece chiamare Tindaro e gli comandò di prendere la sua
cornamusa e suonare mentre le danze proseguivano. Trascorsa buona parte della notte, disse a tutti
di andare a dormire.
Amor, s’io posso uscir de’ tuoi artigli,
appena creder posso
che alcuno altro uncin mai piú mi pigli.
Io entrai giovanetta en la tua guerra,
quella credendo somma e dolce pace,
e ciascuna mia arme posi in terra,
come sicuro chi si fida face;
tu, disleal tiranno aspro e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e co’ crudel roncigli.
Poi, circondata delle tue catene,
a quel che nacque per la morte mia,
piena d’amare lagrime e di pene
presa mi desti, ed hammi in sua balia;
ed è sí cruda la sua signoria,
che giá mai non l’ha mosso
sospir né pianto alcun che m’assottigli.

Li prieghi miei tutti glien porta il vento:


nullo n’ascolta né ne vuole udire;
per che ognora cresce il mio tormento,
onde ’l viver m’è nòi né so morire;
deh! dolgati, signor, del mio languire;
fa’ tu quel ch’io non posso:
dálmi legato dentro a’ tuoi vincigli.
Se questo far non vuogli, almeno sciogli
i legami annodati da speranza;
deh! io ti priego, signor, che tu vogli:
ché, se tu ’l fai, ancor porto fidanza
di tornar bella qual fu mia usanza,
ed il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e di vermigli.

commento: Dioneo difendela libertà, che per lui è fondata sull’onestà della condotta della
brigata, , del “ragionare”. se si è innocenti, se non si agisce disonestamente è permessa
qualsiasi libertà narrativa. l’ethos è la premessa e la condizione della libertà del comico. di tutto
si ride e si può ridere perchè di nulla si è colpevoli. L’eros radicato nell’agape della brigata è
liberatorio perchè narrato da una compagnia che non lo valica. Alla perversità del periodo
corrisponde per rovesciamentol’onestà della brigata. La prima si puo rappresentare solo a
partire dall’antropologia della seconda. I racconti dilettano e offrono utile consiglio, perche
narrati da una brigata che trae piacere non solo dalla bellezza del mondo e dalla varietà delle
passioni e dell’acume dell’ingegno ma, prima di tutto dalla propria condotta. Vi è quindi un riso
della brigata e un riso dei suoi personaggi. per la brigata l’ethos non è solo la premessa ma la
giustificazione del riso. Se il decameron avesse limitato la sua libertà narrativa avrebbe limitato
l’etica della brigata ì, che la rende possibile. Dioneo, dismesso per un istante l’abito
carnevalesco, si fa esegeta della comicità dell’opera. Quanto piu il libro è audace tanto più
chiede un lettore che non abbia una corrotta mente.

valle: la notizia di una tale perfezione naturale è giunta a boccaccio da una delle donne della
brigata. L’istanza di verità dell’opera, che muove dalla storia, è stata comprovata
nell’introduzione da testimoni affidabili. Da queste testimonianze Boccaccio trae il filo di una
narrazione, della quale apprendiamo ora un ulteriore aspettp: tra le donne della compagnia ce
n’è una che Boccaccio conosce direttamente e dalla quale ha avuto notizie dirette. Nel punto
all’interno dell’antropologia edenica dei giardini, che potrebbe apparire meno verosimile per il
livello di perfezione simbolica cui boccaccio adegua il realismo rappresentativo del decameron,
ecco che il narratore insserisce abilmente un segno di verità, un referto di certezza testimoniale.
La perfezione naturale della valle è artificio della natura rispetto a quella dell’introduzione della
terza giornata che era tutta “manuale”, questa è artifatto di dio. La dimensione allegorica dei
giardini narrativi trova dalla 3 alla 6 la sua piu inequivocabile rappresentazione. Nel vivaio, nel
laghetto, si bagnano le donne. la scena edenica conferma la prospettiva annunciata da dioneo:
per raccontare tutto occorre essere innocenti.
settima giornata:
RE: DIONEO
SI RAGIONA DELLE BEFFE CHE PER AMORE O PER NECESSITA LE DONNE HANNO FATTO
AI PROPRI MARITI SENZA CHE LORO SE NE ACCORGESSERO O MENO

SETTIMA GIORNATA NOVELLA 2


narratore: filostrato

Peronella, poiché il marito è tornato a casa, mette l’amante in una botte, che il marito ha
venduta; ella dice che ha venduto la botte ad uno che è dentro di essa per controllare se è
intera. Costui, saltatone fuori, la fa pulire dal marito e poi se la porta a casa sua.

La novella di Emilia fu ascoltata da tutti con grandi risate.


Quando fu terminata, il re comandò a Filostrato di continuare.
E il giovane incominciò col dire che erano tanti gli inganni che gli uomini e soprattutto i mariti
facevano alle donne, che, quando capitava che una donna ingannava il marito, non solo
dovevano essere contente di udirlo da qualcuno, ma esse stesse dovevano dirlo dappertutto,
affinché gli uomini sapessero ciò che già sapevano e anche le donne sapevano. Indubbiamente
gli uomini, sapendo che anche le donne potevano ingannarli, sarebbero potuti diventare più
cauti.
Dunque, egli voleva raccontare cosa fece al marito una giovinetta di umile condizione, con
grande rapidità, per salvarsi.
Viveva a Napoli un pover’uomo, che aveva sposato una bella e gentile giovinetta, chiamata
Peronella.
Egli era muratore ed ella filava, guadagnando molto poco, vivevano come meglio potevano.
Un giorno un giovane perditempo vide Peronella e si innamorò di lei; tanto la corteggiò che ella
cedette.
Per poter stare insieme si accordarono che, quando il marito al mattino presto fosse uscito per
andare a lavorare o a cercar lavoro, il giovane, dopo averlo visto uscire, si recasse a casa della
donna, in contrada Avorio, molto solitaria. E così fecero per molte volte.
Un giorno il buon uomo era uscito e Giannello Scrignario, così si chiamava il giovane, era
entrato in casa e si intratteneva con Peronella.
Imprevedibilmente il marito, che di solito rimaneva fuori tutto il giorno, ritornò a casa e, trovata la
porta chiusa, bussò ripetutamente. Dopo aver bussato, si rallegrò tra sé e sé, perché ,benché
Dio l’avesse fatto povero, gli aveva dato una moglie tanto onesta che, quando egli usciva, si
chiudeva in casa per impedire che potesse entrare qualcuno per darle noia.
Peronella, riconosciuto il marito che bussava, morta di paura, temendo che l’uomo avesse
scoperto la tresca, chiese a Giannello di entrare in una botte che era lì.
Il giovane entrò nella botte, mentre la donna andò ad aprire.
Peronella, aperta la porta, accolse in malo modo il marito, rimproverandolo perché era ritornato
troppo presto a casa e non aveva voglia di lavorare. Si chiedeva come avrebbero fatto a vivere
se non lavorava, si sarebbe forse dovuta impegnare i vestiti e avrebbe dovuto filare tutta la
notte. Così poteva avere almeno tanto olio per far ardere la lucerna, mentre il marito se ne
tornava a casa con le mani penzolanti, invece di stare a lavorare.
Così detto ,cominciò a piangere e a ripetere che era proprio una sventurata. Infatti le altre donne
si davano alla pazza gioia con gli amanti e non ce n’era nessuna che non ne avesse almeno due
o anche tre.
Ella ,invece, misera, non era adatta a quelle cose, non si prendeva amanti, anche se aveva
avuto molte proposte, con ricche offerte di denari e di gioielli. Non era figlia di una donna di tal
genere, ma il marito non sapeva apprezzarla e se ne tornava a casa, quando doveva essere a
lavorare.
Il marito le rispose che non si doveva preoccupare, perché era andato a lavorare, ma non
sapeva che era il giorno di santo Galeone e non si lavorava, perciò era tornato a casa a
quell’ora. Ma aveva trovato il modo di avere il pane per più di un mese. Infatti aveva venduto
all’amico che era con lui la botte che ingombrava tutta la casa, al prezzo di cinque monete.
Allora Peronella rispose che anche quel fatto l’addolorava perché, mentre il marito, dopo aver
girato tutt’intorno, aveva venduto la botte per cinque monete, ella ,che non usciva mai dalla
porta, vedendo l’impiccio che la botte dava in casa, l’aveva venduta, per sette monete ad un
buon uomo.
Mentre il marito ritornava, l’uomo vi era entrato dentro per vedere se era tutta intera.
Quando il marito udì come erano andate le cose, ben lieto licenziò l’uomo che era con lui, che
se ne andò, augurandogli una buona sorte.
Peronella chiamò vicino a sé il marito e lo incaricò, visto che era lì, di concludere le trattative.
Giannello che stava con le orecchie tese per capire che cosa doveva fare, udite le parole della
donna, rapidamente uscì dalla botte e, come se non si fosse accorto del ritorno del marito, la
chiamò.
Si presentò, allora, il marito che lo invitò a trattare con lui l’acquisto.
Giannello disse che la botte gli pareva solida, ma sembrava che ci avessero tenuto dentro della
vinaccia, che si era indurita.
Peronella prontamente rispose che l’affare non sarebbe andato a vuoto perché il marito
l’avrebbe pulita tutta per bene. L’uomo fu d’accordo e, presi i suoi ferri, toltosi il camicione,
acceso un lume e preso un raschietto, entrato nella botte, cominciò a raschiare.
Peronella per vedere ciò che faceva mise il capo nella bocca della botte, che non era molto
grande e, poggiando la spalla sul braccio della botte, diceva al marito dove raschiare per pulirla
al meglio.
Mentre stava così e guidava il marito, Giannello, che quella mattina non aveva soddisfatto i suoi
desideri, per l’arrivo dell’uomo, si diede da fare come meglio poteva. Si avvicinò a lei che teneva
la testa infilata nella bocca della botte e, come i cavalli sfrenati e caldi d’amore assalivano le
cavalle della Partia, assalì la donna e soddisfece il suo desiderio giovanile. L’orgasmo raggiunse
il culmine proprio quando la botte fu pulita completamente. Peronella tirò fuori la testa dalla
botte e il marito ne uscì .
La donna, rivolta a Giannello, gli disse di controllare con il lume se la botte era pulita a suo
gusto.
Il giovane, guardandovi dentro, disse che stava bene ed era contento; gli dette le sette monete e
si fece portare a casa la botte.
commento: Filostrato ribadisce qui , come filomena nella novella di zinevra, il rilievo della
conoscenza nell’evitare di subire inganni e soprusi, così una volta di più l’intelligenza si ritrova al
centro del decameron e della sua intenzione di rivelare le maschere della storia. La povertà e
l’umile condizione sociale non inibiscono affatto la manifestazione dell'ingegno, in questo caso
di un’astuzia sagace, sensuale, allegra.

NOVELLA 4 GIORNATA 7
NARRATORE: LAURETTA

Tofano una notte chiude la moglie fuori di casa, ella non potendo rientrare malgrado le
preghiere, finge di gettarsi in un pozzo, invece vi getta una gran pietra; Tofano esce di
casa e corre là, ella se ne entra in casa e chiude lui fuori e, sgridandolo, lo insulta.

Il re, come sentì che la novella di Elissa era finita, senza indugio, si rivolse alla Lauretta
invitandola a proseguire.
Ed ella incominciò col dire che grandi erano le forze di Amore, grandi i suoi accorgimenti, quali
nessun filosofo e nessun artista avrebbe mai potuto pensare. La dottrina di chiunque altro era
inferiore alla sua, come si poteva comprendere dalle cose fino ad allora mostrate. Ed ella voleva
aggiungerne ancora una ,messa in atto da una donna umile, guidata da Amore.
Vi fu, dunque, in Arezzo un ricco uomo, chiamato Tofano. A costui fu data per moglie una
bellissima donna ,il cui nome era Ghita. Egli divenne, senza motivo, follemente geloso di lei;
della qual cosa ella si sdegnò moltissimo. Decise, perciò, di farlo morire del male del quale egli
aveva paura , senza ragione, cioè di gelosia.
Essendosi accorta che un giovane, a suo giudizio, molto per bene, la desiderava, cominciò ad
intendersi con lui, con discrezione. Si erano già scambiati molte parole e le cose erano tanto
avanti che bisognava soltanto passare dalle parole ai fatti; la donna pensò a come fare.
Sapendo che al marito piaceva bere, astutamente lo sollecitò a farlo molto più spesso. Ogni
volta che le piaceva lo spingeva a bere, fino ad ubriacarsi; quando lo vedeva ben ebbro, lo
metteva a dormire e si incontrava con il suo amante.
Aveva tanta fiducia nell’ebbrezza del marito che, non solo aveva l’ardire di portarsi l’amante in
casa, ma , addirittura, alcune volte se ne andava a dormire nella casa di lui, che non era molto
lontana.
Le cose andarono avanti così per un certo tempo. Ad un certo punto il marito malvagio si
accorse che ella, nello spingere lui a bere, non beveva mai. Sospettò, perciò, che la donna lo
facesse ubriacare per poter fare il suo comodo, mentre era addormentato. E, volendo provare
che ciò era vero, senza aver bevuto durante il giorno, la sera finse di essere l’uomo più ubriaco
che fosse mai possibile, sia nel parlare che nei modi.
La donna, vedendo ciò, ritenendo che non fosse il caso di farlo bere di più, lo mise subito a
dormire.
Fatto ciò, come era solita fare, uscita di casa, se ne andò alla casa del suo amante, dove rimase
fino a mezzanotte.
Tofano, come non sentì più la donna, si alzò, andò alla porta , la chiuse dall’interno e si pose alla
finestra, per attendere il ritorno di lei e palesarle che si era accorto delle sue macchinazioni.
Aspettò finché non ritornò la donna, la quale, trovandosi chiusa fuori, si rammaricò molto e tentò
di aprire la porta con la forza.
Dopo aver sopportato per un po’ di tempo, Tofano disse “ Donna ,ti affatichi inutilmente, perché
non potrai più tornare qui dentro. Torna dove sei stata fino ad ora. Sappi per certo che non
tornerai qui finché non avrò informato di questa cosa i tuoi parenti e i vicini”.
La donna cominciò a pregarlo che le aprisse ,per amor di Dio, dicendo che non veniva da dove
egli pensava, ma era andata a vegliare con una sua vicina, perché le notti erano lunghe ,non
riusciva a dormire e non voleva rimanere in casa da sola a vegliare.
Ma le preghiere non servivano a nulla perché quella bestia voleva che tutti gli aretini
conoscessero la loro vergogna. La donna, vedendo che il pregare non le serviva, cominciò a
minacciare che ,se non apriva, avrebbe fatto di lui l’uomo più malvagio tra i viventi.
Tofano le chiese che cosa gli voleva fare, ed ella, alla quale Amore aveva aguzzato l’ingegno,
rispose che si sarebbe gettata in un pozzo, che era lì vicino. Chi l’avesse trovata là dentro morta,
sicuramente avrebbe pensato che ce l’aveva gettata il marito, in stato di ubriachezza.. Così gli
sarebbe toccato di fuggire, di perdere tutto ciò che aveva e di essere messo al bando ,oppure gli
avrebbero tagliata la testa come suo assassino, come meritava.
Non avendo smosso Tofano dalla sua sciocca idea, la moglie, chiedendo perdono a Dio per il
dolore che l’uomo le provocava, si diresse verso il pozzo.
La notte era molto buia e nella via non si poteva distinguere un uomo dall’altro.
Presa una grandissima pietra ,che era vicino al pozzo, gridando “Iddio, perdonami”, la lasciò
cadere nel pozzo.
La pietra, cadendo nell’acqua, fece un grandissimo rumore, udendo il quale, Tofano credette
veramente che la moglie si fosse gettata nel pozzo.
Prese subito un secchio con una fune e, uscito di casa, corse al pozzo per aiutarla.
La donna che era nascosta presso l’uscio di casa, come lo vide correre al pozzo, entrò in casa e
si chiuse dentro. Andata alla finestra, cominciò a dire che il vino si doveva annacquare quando
uno lo beveva e non dopo.
Tofano, comprendendo che era stato giocato, tornò all’uscio e ,non potendo entrare, chiese alla
moglie che gli aprisse. Ella, quasi gridando, cominciò a dire che non gli avrebbe aperto la porta
quella notte, che non ne poteva più dei suoi modi da ubriacone. Voleva che ogni uomo vedesse
chi era suo marito e a che ora ritornava a casa la notte.
Tofano, dal canto suo, cominciò a dire volgarità e a gridare, svegliando per il rumore tutti i vicini,
che si alzarono e si affacciarono alle finestre per vedere che cosa fosse accaduto.
La donna, piangendo, spiegò che il marito la sera tornava sempre ubriaco a casa oppure si
addormentava nelle taverne tornando a casa a notte fonda. Ella aveva a lungo sofferto di ciò,
non aveva ottenuto alcun miglioramento e non poteva più sopportare tale situazione. Allora
l’aveva chiuso fuori di casa per vedere se otteneva qualcosa.
Tofano bestia continuava, gridando, a dire come erano andati i fatti e a minacciarla.
La donna ,da parte sua, diceva con i vicini “Vedete che razza di uomo è. Che direste voi se io
fossi nella strada ed egli in casa ,come me ora? Credereste che egli dica il vero? Egli dice che io
ho fatto quello che credo che egli abbia fatto. Credette di spaventarmi gettando non so che cosa
nel pozzo, ma volesse Iddio che ci si fosse gettato per davvero e affogato, sicché il vino ,che ha
bevuto di soperchio, si fosse ben bene annacquato”.
I vicini, sia gli uomini che le donne, cominciarono a rimproverare Tofano e a dare la colpa a lui di
ciò che diceva contro la donna.
La notizia, in breve, andò di bocca in bocca finché non giunse ai parenti della donna, i quali
presero Tofano e gli dettero tante botte che lo ammaccarono tutto. Poi, andati nella casa di
Tofano, presero le cose della donna e con lei ritornarono a casa loro, minacciando il malcapitato.
Tofano, vedendosi mal ridotto, considerando dove l’aveva portato la gelosia, siccome voleva
molto bene alla sua donna, mise alcuni amici come mediatori.
Tanto fece che riebbe a casa sua la moglie, alla quale promise che non sarebbe stato geloso mai
più.
Le diede, inoltre, il permesso di fare tutto ciò che volesse, ma con prudenza, in modo che egli
non se ne accorgesse.
E così, come il villano matto, dopo il danno fece il patto.
E la narratrice concluse inneggiando all’amore e all’allegra brigata.

commento: Questo prologo di lauretta cosi altamente atteggiato a fronte della vicenda giocosa
che segue non stride affatto con essa, ma ironicamente vi si conforma, dacchè l’ironia è la
froma cognitiva dell’autentico realismo rispetto a un mondo colmo di contraddizioni e inganni, e
rispetta pertanto le ambivalenze della realtà senza pretendere di ricondurle a un’inesistente
uniformità. Il prologo di lauretta, orientato a introdurre una novella il cui tema è la gelosia, ricorda
opportunamente al lettore che questa giornata è da legare in modo particolare al proemio alle
quali si riallaccia per la buona ragione che essa inscena situazioni storiche tali da rappresentare
icasticamente le ristrettezze inflitte alle donne secondo le pagine introduttive del decameron: la
costrizione domestica, considerata soprattutto sotto l’aspetto della gelosia) è anche costrizione
sociale, perchè alla donna vengono negate le occasioni di vita sociale che al marito geloso
sembrano essere in quanto tali aperte prove della colpevolezza della moglie.

SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N.5


NARRATORE: Fiammetta

Un geloso sotto l’aspetto di un prete confessa la moglie ,che gli fa credere che ama un
prete il quale va da lei ogni notte; allora il marito geloso di nascosto si pone a guardia
dell’uscio, mentre la donna fa passare il suo amante dal tetto e con lui giace.

Lauretta aveva finito il suo racconto e tutte le donne avevano commentato che la donna aveva
fatto bene, come era conveniente nei confronti di un uomo malvagio.
Il re, per non perdere tempo, si rivolse alla Fiammetta e ,con garbo, le ordinò di continuare.
Ed ella incominciò dicendo che la novella precedente la spingeva a parlare di un altro marito
geloso, ritenendo che quello che aveva fatto la moglie di lui era ben fatto, soprattutto per la
gelosia senza motivo.
Aggiunse che se i legislatori avessero ben guardato ogni cosa, avrebbero dato alle donne
l’attenuante della legittima difesa, come facevano per gli uomini che assalivano per difendersi.
Infatti i gelosi insidiavano la vita delle giovani donne e ricercavano la morte di esse con grande
diligenza.
Esse stavano tutta la settimana rinchiuse, occupandosi delle faccende familiari e domestiche,
desiderando nel giorno di festa un po’ di riposo, un po’ di divertimento, così come facevano i
contadini, i governanti e i magistrati, come fece Dio che il settimo giorno si riposò da tutte le sue
fatiche.
Così volevano le leggi religiose e civili che, tenendo conto dell’onore di Dio e del bene comune,
avevano distinto i giorni del lavoro da quelli del riposo.
Il che non consentivano i gelosi, anzi , nei giorni in cui tutte le altre donne erano liete, tenevano
le proprie mogli ancora più rinchiuse e prigioniere, facendole soffrire di più. Solo chi l’aveva
provata poteva comprendere la sofferenza delle poverine..
Concluse dicendo che ciò che una donna faceva a un marito a torto geloso non doveva essere
condannato, ma apprezzato.
Vi fu , dunque, a Rimini, un mercante assai ricco di possedimenti e di denari il quale, avendo per
moglie una bellissima donna, ne divenne molto geloso. Non aveva altra ragione che il suo amore
e il ritenerla molto bella.
Siccome conosceva tutto l’impegno che ella metteva nel piacergli, pensava che tutti gli uomini
l’amassero e che ella si impegnasse a piacere agli altri, come faceva con lui (pensieri di uomo
diffidente).
Così ingelosito la sorvegliava tanto strettamente che nemmeno i condannati alla pena capitale
erano controllati così attentamente.
La donna non poteva andare ad un matrimonio o ad una festa o in chiesa o mettere il piede fuori
di casa per nessuna ragione, ma non osava nemmeno avvicinarsi ad una finestra, né guardar
fuori di casa per nessun motivo. Perciò la sua vita era pessima ; tanto più sopportava
malvolentieri questa noia, quanto meno si sentiva colpevole.
Vedendosi ingiuriata a torto dal marito, decise di consolarsi facendogli, se avesse potuto trovare
qualcuno, quel torto di cui era ingiustamente accusata.
Anche se non poteva avvicinarsi alla finestra, sapeva che nella casa confinante con la sua
viveva un giovane bello e garbato. Pensò che, se avesse trovato nel muro, che divideva le due
case, un buco, avrebbe potuto, attraverso quello, parlare con il giovane e donargli il suo amore,
se egli l’avesse voluto.
Pensò anche di trovare un modo per incontrarsi con lui qualche volta, così da passare quella
triste vita, finché quella malattia non abbandonasse il marito.
Quando il marito non c’era, guardava continuamente il muro della casa.
Finalmente vide che ,in un punto molto nascosto, il muro era aperto da una fessura.
Guardando attraverso di essa, anche se non si poteva vedere bene, si accorse che la fessura si
apriva in una camera; fu ben lieta di ciò, sperando che fosse la camera di Filippo. Con l’aiuto di
una fantesca ,che si occupava di lei, seppe che quella era veramente la camera dove il giovane
dormiva tutto solo. Dalla fessura cominciò a buttare pietrucce e fuscelli, tanto che il giovane
,incuriosito, si avvicinò per vedere che cosa fosse.
Ella lo chiamò e Filippo rispose, riconoscendo la sua voce.
Brevemente la donna gli aprì tutto il suo animo.
Il giovane fu molto contento e allargò un po’ di più il buco, senza che nessuno se ne accorgesse.
Attraverso di esso spesso parlavano e si toccavano ,ma di più non potevano per la stretta
sorveglianza del marito geloso.
Avvicinandosi la festa di Natale, la donna disse al marito che, col suo permesso, voleva andare
la mattina della festa a confessarsi e comunicarsi, come facevano tutti gli altri cristiani.
Il marito geloso le chiese che peccati avesse fatto ,che si dovesse confessare.
La donna rispose che aveva commesso dei peccati come tutte le altre persone, sebbene la
tenesse chiusa, ma che non voleva dirli a lui ,che non era prete.
Il geloso a quelle parole si insospettì ,volle sapere che peccati avesse commesso la moglie e
pensò al modo di poterli conoscere.
Dunque le ordinò di andare alla loro cappella, non in un’altra chiesa, a prima mattina, di
confessarsi con il loro cappellano o con un altro prete da lui mandato e di tornare a casa
immediatamente.
La donna assicurò che così avrebbe fatto.
Venuta la mattina della festa, ella si alzò all’alba e se ne andò alla chiesa impostale dal marito.
Il geloso andò alla stessa chiesa prima della moglie.
Avendo già avvisato il prete delle sue intenzioni, indossato il mantello del prete con un gran
cappuccio che gli copriva le gote, come lo portavano i religiosi, dopo esserselo tirato un po’ più
avanti, si mise a sedere nel coro.
La donna, giunta in chiesa, chiese il prete per la confessione.
Il prete giunse e, udita la richiesta, rispose che egli non poteva ,ma avrebbe mandato un suo
compagno.
Andatosene, mandò il geloso. Egli, sebbene avesse messo il cappuccio davanti agli occhi, non
riuscì ad ingannare la donna, che lo riconobbe immediatamente e pensò al modo di ingannarlo.
Fingendo di non conoscerlo, si inginocchiò ai piedi di lui.
Messer geloso si era messo in bocca alcune pietrucce , che gli impedissero alquanto di parlare,
in modo che la moglie non lo riconoscesse, ed era convinto che la donna non lo avesse
riconosciuto.
Venendo alla confessione, la donna gli disse, tra l’altro, che era sposata e che era innamorata di
un prete che ogni notte andava a giacere con lei.
Quando il geloso udì ciò, gli parve come se avesse ricevuto un colpo al cuore e, se non fosse
stato per la volontà di saperne di più, avrebbe abbandonata la confessione e se ne sarebbe
andato.
Chiese, dunque, alla donna se il marito dormiva accanto a lei. Alla risposta affermativa domandò
come era possibile che il prete giacesse con lei.
E la donna spiegò che il prete aveva la grande abilità di aprire, con un solo tocco, la porta di
casa, anche se era ben chiusa. E, quando arrivava alla porta della sua camera, prima di aprirla,
diceva alcune parole che facevano addormentare, immediatamente, il marito. Come sentiva che
il marito si era addormentato, apriva la porta, entrava in camera e stava con lei. Ed in ciò non
sbagliava mai.
Il geloso disse che quella cosa era malfatta e non si doveva più ripetere, altrimenti le avrebbe
negato l’assoluzione.
La donna rispose che amava troppo il prete e temeva di non riuscire ad allontanarlo da lei.
Il geloso le assicurò che avrebbe rivolto a Dio, in nome di lei, alcune preghiere speciali, che forse
le avrebbero giovato. Le avrebbe mandato, di tanto in tanto, un chierichetto per sapere se le
erano giovate, per procedere.
La donna lo pregò di non mandare nessuno a casa sua perché il marito era molto geloso e non
le avrebbe dato pace per tutto l’anno. Il falso prete le promise il segreto.
Terminata la confessione, presa la penitenza, la donna andò ad ascoltare la messa, mentre il
geloso si spogliò dei panni del prete e se ne tornò a casa , pensando al modo di scoprire la
moglie e il religioso insieme e far loro un brutto scherzo.
La donna si accorse dal viso del marito di avergli rovinato la festa.
Il geloso decise che la notte seguente avrebbe aspettato l’arrivo del prete davanti all’uscio di
casa.
Disse alla moglie che quella sera sarebbe andato a cenare e a dormire fuori, perciò le ordinò di
chiudere a chiave tutte le porte di casa e di andarsene a dormire.
Appena le fu possibile, la donna andò alla buca, fece il segnale a Filippo, che si avvicinò subito
,gli disse quello che aveva fatto la mattina e quello che il marito, dopo pranzo ,le aveva detto.
Aggiunse che, sicuramente, il marito si sarebbe messo a guardia della porta, per cui il giovane
poteva andare da lei la notte attraverso il tetto, per stare un po’ insieme. Il giovane, ben
contento, assentì.
Venuta la notte il geloso si nascose nella camera a pianterreno.
La donna chiuse a chiave tutte le porte e soprattutto quella a metà scala, in modo che il marito
non potesse più salire. Quando giunse il giovane, se ne andò con lui a letto, dandosi piacere l’un
l’altro per molto tempo. Venuto il giorno l’amante se ne tornò a casa sua.
Il geloso, triste e digiuno, morto di freddo, stette quasi tutta la notte, con le armi al lato, vicino
all’uscio ad aspettare che il prete venisse. Avvicinatosi il giorno, non potendo più resistere, si
addormentò nella camera a pianterreno. Verso le nove si svegliò, la porta di casa era già aperta
ed egli, fingendo di venire da fuori, salì in casa e mangiò.
Poco dopo mandò alla moglie un ragazzino, come se fosse stato il chierichetto del prete che
l’aveva confessata, a chiedere se il prete amante fosse andato da lei quella notte.
La donna, che conosceva bene il ragazzo, rispose che quella notte il prete non era andato da lei,
e che, continuando così, forse se ne sarebbe dimenticato, anche se lei se ne doleva.
Il geloso stette molte notti davanti all’uscio di casa in attesa di veder giungere il prete, mentre la
donna si dava da fare con il suo amante.
Alla fine domandò alla moglie che cosa ella aveva detto al confessore la mattina che si era
confessata.
La donna rifiutò di rispondergli.
Allora il geloso inveì contro di lei e la minacciò, rivelandole che egli sapeva ciò che aveva detto al
confessore e cioè che era innamorata di un prete e tutte le notti si incontrava con lui.
La donna negò e , alle insistenze del marito, rispose che avrebbe potuto sapere ciò che ella
aveva detto in confessione solo se fosse stato presente.
Dopo molte discussioni la donna cominciò a sorridere e rivelò al marito, chiamandolo sciocco,
montone con le corna, bestia, gelosone, che ella l’aveva subito riconosciuto, durante la
confessione. Perciò, per punirlo di aver tentato di carpire con l’inganno i suoi segreti, aveva detto
di amare un prete. Ed aveva detto il vero, perché non era forse egli ,in quel momento, un prete?
Aveva detto che nessuna porta della sua casa gli si poteva tenere chiusa mentre giaceva con lei,
ed era vero, perché le porte della casa erano tutte aperte a lui che era il padrone, quando voleva
andare da lei; aveva detto che il prete giaceva ogni notte con lei e non era forse vero che il
marito giaceva ogni notte con lei?. Solo uno stupido come lui, accecato dalla gelosia, non
avrebbe capito tutto. E se era stato in casa la notte a far da guardia alla porta, facendo credere
di essere fuori a cena e a dormire.
Era giunto, ormai, il momento di ravvedersi e di ritornare uomo, com’era prima, evitando che gli
altri lo schernissero. Doveva smetterla di sorvegliarla come faceva perché, lo giurava su Dio, se
avesse voluto mettergli le corna, ci sarebbe riuscita senza che se ne accorgesse, anche se
avesse avuto cento occhi, non solo due.
Il geloso, che pensava di aver astutamente scoperto il segreto della moglie, rimase scornato.
Senza rispondere altro, la ritenne buona e saggia e si liberò della sua gelosia.
L’astuta donna, avendo quasi avuto il permesso di fare quello che voleva, non più per il tetto, ma
per l’uscio, con discrezione, fece entrare spesso il suo amante, operando con lui ,e si diede a
lieta vita.
commento: Boccaccio ribadisce ora tramite fiammetts le analogie strutturali che il pensamento di
questa giornata presenta con l’esperienza giuridica della brigata. Mentre il richiamo ai doveri
verso le donne che i componitori delle leggi avrebbero dovuto rispettare, riporta il lettore alla
novella di madonna filippa, le altre osservazioni si riallacciano all’introduzione. Colpisce in modo
particolare l’attenzione graduale e ascendente di fiammetta che muove dai lavoratori fino al
creatore. E colpisce a conferma del tempo naturale su cui si fonda la brigata, che ha già dedicato
il tempo riposo alla cura di sè e del sacro, l’attenzione della novellatrice alla funzione del riposo.
La brigata ha coscienza di quel che la società, specie nei confronti delle donne non di rado
ignora, cioè la necessità della quiete. Gli aspetti più lieti e cortesi dell’ordine di vita della brigata
hanno per fiammetta valore sociale. Il discorso di fiammetta è attraversato dalla coscienza
secondo la quale nella sollecitudine della leggi è riposto secondo il dettato di pampinea in santa
maria novella , il ben vivere di ogni mortale. Inoltre questa novella mostra la violenza cui puo
condurre la gelosia,altro esempio di una molteplice rassegna narrativa di violenze perpetrate alle
donne.

Nona giornata: la nona giornata cade di lunedì. Essa è retta da


Emilia e si parla di ciò che più gli piace.

NOVELLA 10 GIORNATA 9
NARRATORE: Dioneo

NONA GIORNATA – NOVELLA N.10

Don Gianni, su richiesta di compare Pietro, fa un incantesimo per far diventare la moglie una
cavalla; quando va ad attaccare la coda, compare Pietro, dicendo che non voleva la coda,
guasta tutto l’incantesimo.

La novella raccontata dalla regina fece mormorare le donne e ridere i giovani.

Quando finirono le risate, Dioneo cominciò a parlare. Egli disse che, come tra tante colombe bianche
aggiungeva maggiore bellezza un nero corvo piuttosto che un candido cigno, così tra molti saggi
accresceva bellezza alla loro saggezza un uomo poco saggio, portando divertimento e allegria.
Perciò, essendo tutte loro molto discrete e attente, egli, che si sentiva alquanto scemo, faceva
risplendere la loro virtù molto più che se fosse stato molto sapiente.Di conseguenza aveva grande
libertà di dimostrare la sua stupidità e doveva essere sostenuto da loro, in quello che stava per dire,
molto più che se fosse stato saggio.

Avrebbe raccontato una novella non troppo lunga, dalla quale avrebbero compreso come bisognava
osservare diligentemente le cose imposte da coloro che facevano gli incantesimi e come ogni piccolo
errore commesso guastasse ogni cosa fatta dall’incantatore.

L’anno precedente c’era stato a Barletta un prete, chiamato don Gianni di Bardo,il quale, poiché
aveva una chiesa povera, per sostenersi, con una cavalla ,cominciò a portare mercanzia di qua e di là
per le fiere della Puglia e a comprare e a vendere.

Nel suo andare diventò amico di un tale, che si chiamava Pietro da Tresanti, che con un asino faceva
il suo stesso mestiere. Lo chiamava compare Pietro in segno di amicizia, alla maniera pugliese.

Tutte le volte che arrivava a Barletta, lo conduceva alla sua chiesa, lo ospitava e lo onorava come
poteva.

Compare Pietro, dal canto suo, pur essendo poverissimo e avendo una piccola casetta a Tresanti,
appena sufficiente per lui, la sua bella e giovane moglie e il suo asino, ogni volta che don Gianni
capitava in paese, lo conduceva a casa sua e lo onorava, per ricambiare l’ospitalità che riceveva a
Barletta.

Purtroppo non poteva ospitarlo come avrebbe voluto perché aveva solo un lettino, nel quale dormiva
con la moglie. Aveva, però ,una stalletta dove veniva alloggiata, accanto all’asino ,la cavalla di don
Gianni, il quale, a fianco a lei, giaceva sopra un po’ di paglia.

La moglie, sapendo dell’ospitalità che il prete offriva al marito a Barletta, spesse volte, quando il
religioso andava da loro, voleva andarsene a dormire da una sua vicina, di nome Zita Carapresa di
Giudice Leo, perché il prete dormisse con il marito nel letto. L’aveva detto tante volte a don Gianni,
ma egli non aveva mai voluto.

Una volta il prete le disse “ Comare Gemmata, non ti preoccupare per me,perché io sto bene. Infatti,
quando mi piace, faccio diventare questa cavalla una bella fanciulla e sto con lei, poi, quando voglio
la faccio diventare nuovamente cavalla; per questo non mi allontanerei mai da lei”.

La donna si meravigliò ma ci credette e lo disse al marito. Aggiunse “ Se egli è amico tuo, come dici,
perché non ti fai insegnare questo incantesimo, in modo da far diventare me cavalla e fare il tuo
lavoro con l’asino e la cavalla? guadagneremo il doppio e poi, quando ritorneremo a casa, mi potresti
far ridiventare femmina, come sono”.

Compare Pietro, che era un sempliciotto, le credette, fu d’accordo e , come meglio seppe, cominciò a
chiedere a Don Gianni di insegnargli quella cosa.

Don Gianni cercò di allontanare il compare da quella sciocchezza, ma, non riuscendovi, disse “ Visto
che voi insistete, domani mattina ci alzeremo, come facciamo di solito, prima del giorno, e vi mostrerò
come si fa.

La cosa più difficile in questo incantesimo è attaccare la coda, come tu vedrai”.

Compare Pietro e comare Gemmata dormirono appena, tale era l’ansia con cui aspettavano questo
fatto.

Come il giorno fu vicino, si alzarono e chiamarono don Gianni, il quale, ancora in camicia, andò nella
cameretta di compar Pietro e disse “ Non c’è nessuna persona al mondo per cui farei ciò se non per
voi, ma visto che a voi piace, io lo farò. Dovete, però, fare tutto ciò che vi dirò, se volete che
l’incantesimo avvenga ”.

Essi promisero che avrebbero fatto tutto ciò che egli diceva.

Dunque, don Gianni, preso il lume, lo pose in mano a compar Pietro e gli disse “ Guarda bene come
farò e tieni bene a mente come dirò; guardati bene, se non vuoi guastare ogni cosa, dal dire una sola
parola, qualunque cosa tu veda o oda. E prega Dio che la coda si attacchi bene”.

Il sempliciotto, preso il lume, promise che così avrebbe fatto.

Poco dopo, don Gianni fece spogliare nuda comare Gemmata e la fece stare con le mani e i piedi per
terra, come stavano le cavalle, ammaestrandola, come aveva fatto col marito, che non dicesse una
sola parola, qualunque cosa avvenisse.

Poi, toccandole con le mani il viso e la testa, cominciò a dire “ Questa sia una bella testa di cavalla” e,
poi, toccandole i capelli ,disse “ Questi siano bei crini di cavalla” e, poi, toccandole le braccia, disse “
Questi siano belle gambe e bei piedi di cavalla” e ,poi, toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo,
ebbe un’erezione ( si svegliò il pene senza essere chiamato) non prevista, si alzò e disse “ E questo
sia bel petto di cavalla”. E così fece alla schiena e al ventre e alle natiche e alle cosce e alle gambe.

Infine non gli restava da fare altro che la coda.Si levò la camicia e preso il piuolo col quale si
piantavano gli uomini, subito lo mise nel solco fatto per quel motivo e disse “ E questa è una bella
coda di cavalla”.

Compar Pietro, che aveva, fino ad allora, guardato attentamente ogni cosa, vedendo quell’ultima e
non sembrandogli fatta bene, disse “ O don Gianni, io non voglio la coda,io non voglio la coda”.

Era già fuoriuscito il liquido che fa attecchire tutte le piante, quando don Gianni, tirato indietro il piuolo,
disse “Oimè, compar Pietro, che hai fatto? Non ti dissi di non proferir parola ,qualunque cosa
vedessi? La cavalla stava per esser fatta, ma tu parlando hai rovinato ogni cosa, e ormai non si potrà
fare mai più”.
Compare Pietro di rimando “ Mi sta bene, io non volevo quella coda lì. La stavate attaccando troppo
bassa”.

Don Gianni rispose “ Perché tu, per la prima volta, non l’avresti saputa appiccicare come me”.

La giovane, udendo quelle parole, si alzò in piedi e, ingenuamente, disse al marito “ Bestia che sei,
perché hai guastato i fatti tuoi e miei? Quale cavalla vedesti mai senza coda? Se Dio mi aiuta, tu sei
povero, ma dovresti esserlo ancora di più”.

Non essendo più possibile farla diventare cavalla, per le parole che aveva detto compare Pietro, ella
addolorata e malinconica, si rivestì . Compare Pietro continuò a fare il suo mestiere, come al solito,
con il suo asino.

Con don Gianni andò alla fiera di Bitonto e non gli chiese mai più di fargli un tale incantesimo.

commento:

Di fronte all’assurdo racconto di don gianni Gemmata non ride affatto, ma tarduce querlla bizzarria in
un calcolo di interesse: Detro e dietro l’ignoranza della coppia si intravedono distintamente l’aridità e
la desolazione della loro vita.

Comincia a delinearsi, nella novelletta, uno sfondo di drammatica povertà, anzi di miseria, dove,
all'indigenza, si aggiunge ignoranza, la superstizione, insomma un ambiente così sordido da trovare
un solo barlume di vita nell'erotico incantesimo della coda della cavalla. Benissimo il Quaglio, capace
di cogliere la tensione che si viene a creare nel lettore tra lo spettacolo di tale miseria e il divertimento
per 'astuzia del prete: "Dall'ambiente primitivo e contadino, dalla candida credulità dei miserabili
coniugi e dalla rozza immaginazione del prete, si leva una disperata protesta contro la povertà, che
soffoca anche il riso del lettore". E forse vero, come è stato osservato, che questa novella
rappresenta una anomalia perché non modifica la situazione iniziale, cosa che, di norma, avviene., se
da un lato amore e denaro ribadiscono la loro estraneità dall'altro l’eros incompiuto della novella
sembra essere in contraddizione con la "ideologia erotica decameroniana". Di norma qui, l’eros trova
appagamento nel diletto e nel piacere, ma, per trarre quell'appagamento, esso ha necessità di
intelligenza, di ironia, di ammiccamenti, di gioco. Dioneo, introducendo la novella e paragonandosi a
un "nero corvo" tra "molte bianche colombe", chiede alle amiche più largo arbitrio per dimostrare la
sua natura: "in dimostrarvI tal qual 10 sono. Se Dioneo è il dionisiaco, se egli è l'eros festoso e
carnevalesco che anima l'ordine della compagnia rappresentandone una disarmonia prestabilita, a
suo giudizio questa novella dovrebbe manifestare la sua natura in forma più diretta e manifesta.
Come? Per conseguire questo proposito, egli aggiunge che le donne comprenderanno quanto
diligentemente si convengano observare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza
d'incantamento fanno, e quanto, Quindi, le donne dovranno capire che non si deve guastare di
incantesimo, che non si deve vanificare una finzione, interrompendola.

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.6

Re Carlo (Carlo I d’Angiò) ormai vecchio, dopo aver vinto molte guerre, innamoratosi di una
giovinetta, vergognandosi del suo folle pensiero, fa sposare lei e la sorella onorevolmente.

Sarebbe troppo lungo raccontare tutte le discussioni fatte dalle donne su chi fosse stato più liberale o
Giliberto o messer Ansaldo o il negromante.

Dopo aver discusso per un po’ di tempo, il re, guardando verso la Fiammetta, per interrompere la
discussione, le ordinò di raccontare.
Fiammetta, senza alcun indugio, cominciò dicendo che era stata sempre dell’opinione che le brigate
come le loro non si dovessero impegnare in dispute troppo sottili e complicate. Tali dispute
convenivano alle scuole degli studiosi e non a loro, che si dedicavano al ricamare a al filare.

Perciò ella, che aveva già in mente una storia che poteva far discutere, vedendole pronte a litigare
per le cose dette, l'avrebbe lasciata andare e ne avrebbe raccontata un’altra, di un valoroso re, che
operò con cavalleria, senza venir meno al suo onore.

Tutte loro avevano sentito parlare di Carlo il Vecchio, ossia di Carlo I D’Angiò, per la sua venuta in
Italia in difesa della Chiesa e per la sua vittoria su Manfredi (figlio di Federico II di Svevia).

Dopo quella vittoria i ghibellini furono scacciati da Firenze e vi ritornarono i guelfi.

Un cavaliere, chiamato messer Neri degli Uberti, ghibellino, uscendo dalla città con tutta la sua
famiglia, chiese di mettersi sotto la protezione del re Carlo.

Per stare in un luogo tranquillo, dove finire la sua vita, se ne andò a Castellammare di Stabia. Lì, un
poco lontano dalle altre abitazioni di quel posto, comprò un possedimento tra ulivi, noccioli e castagni,
di cui quella contrada era ricca.

Su quel possedimento fece costruire una bella e ricca casa e al suo fianco un ameno giardino, nel
mezzo del quale, secondo il costume del luogo, poiché c'era abbondanza di acqua, fece un bel vivaio
che riempì con molto pesce. E si dedicava escusivamente a rendere ogni giorno più bello il suo
giardino.

Frattanto re Carlo, d’estate, per riposarsi un po’, se ne andò a Castellammare, dove, avendo sentito
parlare della bellezza del giardino di messer Neri, desiderò di vederlo.

Sapendo che messer Neri, il proprietario del giardino, era di parte ghibellina, a lui avversa, pensò di
dover trattare con lui molto garbatamente e prudentemente. Gli mandò ,dunque, a dire che la sera
seguente voleva cenare nel famoso giardino con quattro compagni, serenamente.

Messer Neri fu assai contento e, avendo ordinato ai suoi servitori di fare tutto ciò che era necessario,
ricevette il re il più lietamente che potè.

Il re, dopo che ebbe visitato tutto il giardino e la casa, dopo essersi lavato, si sedette ad una delle
tavole che erano state apparecchiate al lato del vivaio. Ad un lato comandò che sedesse Guido da
Monforte, che era un suo compagno, dall’altro messer Neri.

Furono servite delicate vivande e vini ottimi e preziosi, con garbo e gentilezza, senza rumore e senza
noia, cosa che il sovrano apprezzò molto. Mentre il re stava mangiando con gusto, entrarono due
giovinette di circa quindici anni ognuna, bionde come l’oro, con i capelli ricci, sciolti, su cui era
poggiata una leggera ghirlanda di pervinca. Sembravano due angeli nei visi, tanto essi erano belli e
delicati.

Erano vestite con un abito di lino sottilissimo, bianco come la neve. L’abito aveva una cintura
strettissima in vita e scendeva, poi, a campana, fino ai piedi.

Quella che andava avanti recava sulle spalle un paio di reti che tratteneva con la mano sinistra,
mentre nella destra aveva un lungo bastone. L'altra ,che veniva dietro, aveva sulla spalla sinistra una
padella, sotto lo stesso braccio un fascetto di legne e sotto un trepiede. Nell’altra mano aveva un
vasetto d’olio e una fiaccoletta accesa.

Il re, vedendo ciò, si meravigliò e attese per vedere che volevano fare.

Le giovinette modestamente e timidamente gli fecero un inchino , poi se ne andarono vicino al vivaio.

Quella che aveva la padella in mano, la pose per terra insieme alle altre cose e prese il bastone che
l’altra portava. Entrambe, infine, entrarono nel vivaio, l’acqua del quale giungeva fino al loro petto.
Uno dei servitori di messer Neri rapidamente accese il fuoco, vi pose sopra il trepiede con la padella
piena d’olio e cominciò ad aspettare che le giovani vi gettassero sopra il pesce.

Una delle fanciulle cercava nei posti dove sapeva che il pesce si nascondeva, l’altra preparava le reti,
con grandissimo piacere del re che guardava attentamente.

Il poco tempo presero molti pesci e li gettarono al servitore che, quasi vivi, li metteva nella padella.

Le fanciulle, come ammaestrate, prendevano i più belli e li gettavano sulla tavola davanti al re, al
conte Guido e al padre. Quei pesci guizzavano per un po’ sulla mensa, con gran divertimento del re,
che li prendeva e li gettava indietro alle giovani.

Così giocarono per un po’ ,finché il servitore non ebbe cotto il pesce che gli era stato dato.

Quel pesce, avendo messer Neri così ordinato, fu portato davanti al re per servirlo tra una vivanda e
l’altra.

Le fanciulle, vedendo il pesce cotto e avendo molto pescato, mentre il bianco vestito era aderito alle
carni, senza nascondere quasi niente del lor bel corpo, uscirono dal vivaio. Ripresero le cose che
avevano portato e, passando pudicamente davanti al re, se ne tornarono a casa.

Il re, il conte e gli altri ospiti avevano molto osservato le giovinette e ognuno, in cuor suo, aveva
ammirato la loro bellezza ,le loro fattezze ed anche i loro gradevoli modi.

Erano piaciute soprattutto al re, il quale aveva osservato attentamente ogni parte del loro corpo,
mentre uscivano dall’acqua, tanto che se qualcuno l’avesse punto, egli non avrebbe avvertito la
puntura..

E, ripensando sempre più a loro, senza sapere chi fossero, sentì nascere nel cuore un fortissimo
desiderio di piacer loro. Ben comprese che stava per innamorarsi, se non avesse preso
provvedimenti.

Egli stesso non sapeva quale delle due gli piacesse di più, tanto le due fanciulle si somigliavano.

Rimase per un po’ sovrapensiero, poi si rivolse a messer Neri e gli domandò chi fossero le due
damigelle.

Messer Neri rispose “ Monsignore, son le mie due figliuole ,nate da un solo parto, l’una ha nome
Ginevra la bella, l’altra Isotta la bionda”.

Il re le lodò molto e gli consigliò di maritarle. Messer Neri rispose di non poterlo fare perché non aveva
i mezzi.

Restando da servire per cena soltanto la frutta, le due giovinette si presentarono, indossando due
splendide giubbe di seta, con due bellissimi vassoi d’argento pieni di vari frutti di stagione e li
posarono sulla tavola davanti al re. Fatto ciò, cominciarono a cantare così dolcemente e
piacevolmente che al re ,che le ascoltava, sembrava che fossero scese a cantare tutte le gerarchie
degli angeli.

Dopo aver cantato, si inginocchiarono e chiesero rispettosamente commiato al re, il quale, anche se
rammaricato, sorridendo lo concesse.

Finita, dunque, la cena, il sovrano e i suoi compagni montarono a cavallo, lasciando messer Neri, e
ritornarono al palazzo reale.

Qui il re, nascondendo la sua passione, non poteva dimenticare ,per nessun motivo, la bellezza di
Ginevra la bella e ugualmente amava la sorella gemella, a lei tanto somigliante.

Tanto si invischiò nei pensieri d’amore che quasi non riusciva a pensare ad altro.
Trovando mille scuse, manteneva una stretta amicizia con messer Neri e assai spesso visitava il suo
giardino per vedere la Ginevra. Non potendone più, decise di togliere al padre non solo una, ma
entrambe le giovinette e palesò al conte Guido la sua intenzione.

Il conte, che era un uomo saggio, gli disse “ Monsignore, non mi meraviglia ciò che mi dite e lo tengo
in gran conto, peché conosco fin dalla vostra giovinezza, meglio di chiunque altro, i vostri costumi. Mi
è sembrato che mai, neppure nella giovinezza, quando Amore può colpire più fortemente, abbiate
conosciuto una passione così ardente. Il sentire che voi, ormai vicino alla vecchiaia, siete innamorato,
mi pare così strano, quasi un miracolo.

Se toccasse a me il rimproverarvi, so bene che cosa vi direi, considerando il fatto che avete lasciato
spazio all’amore, pur indossando ancora le armi nel regno appena conquistato, in una regione non
conosciuta e piena di inganni e di tradimenti, pur avendo tante preoccupazioni importanti, che non vi
hanno consentito, tuttora, di riposare. Vi direi che questo non è atto di un re magnanimo ma di un
giovinetto meschino.

Oltre a ciò, dite che avete deciso di togliere le due figlie al povero cavaliere che, non solo vi ha
ospitato con riguardo a casa sua, malgrado non ne avesse le possibilità,ma per onorarvi di più vi ha
mostrato le figliuole quasi nude. Ha testimoniato così la fiducia che aveva in voi, credendo
fermamente che foste un re, non un lupo rapace. Avete forse dimenticato che la violenza fatta alle
donne da Manfredi vi ha aperto le porte di questo regno? Quale tradimento degno di eterno supplizio
si potrebbe compiere più grande che togliere a colui che vi onora il suo onore, la sua speranza e la
sua consolazione? Che si direbbe di voi , se lo faceste a lui? Pensate che sia una scusa sufficiente
dire che lo avete fatto perché egli è ghibellino? La giustizia del re prevede ,forse,che coloro che
ricorrono a lui siano trattati diversamente a seconda del partito cui appartengono?.

Vi ricordo, maestà, che grandissima gloria è aver vinto Manfredi, ma gloria ancora maggiore è vincere
sé stesso.

Poiché dovete governare gli altri, vincete voi stesso e frenate questo desiderio, né vogliate guastare
con questa macchia ciò che avete conquistato gloriosamente”.

Quelle parole colpirono l’animo del sovrano e tanto più lo turbarono perché sapeva che erano vere.

Perciò, dopo un lungo sospiro, disse “ Conte, sicuramente non potrei trovare nessun altro nemico che
non ritenga debole e facile da vincere rispetto alla mia passione. Ma, sebbene l’affanno sia grande e
la forza di cui ho bisogno inestimabile, le vostre parole mi hanno fatto comprendere che è opportuno
che, prima che passino troppi giorni, io vi faccia vedere che, come so vincere gli altri, così so vincere
me stesso”.

Pochi giorni dopo aver detto quelle parole ,il re ritornò a Napoli, sia per togliere a sé l’occasione di
fare qualcosa di vile, sia per premiare il cavaliere dell’onore ricevuto da lui.

Sebbene gli fosse difficile donare ad altri ciò che sommamente desiderava per sé, decise di voler
maritare le due giovani non come figlie di messer Neri, ma come sue. Diede loro una magnifica dote,
con grande gioia del padre, e diede in sposa a messer Maffeo da Palizzi Ginevra la bella e Isotta la
bionda a messer Guiglielmo della Magna, entrambi nobili cavalieri e baroni.

Infine, con grandissimo dolore ,se ne andò in Puglia e si impegnò in grandi fatiche ,tanto che spezzò
le catene dell’amore e, per quanto gli rimase da vivere, si liberò di tale passione.

Forse vi erano coloro che dicevano che era cosa da poco per un re aver maritato due giovinette, ed
era vero.

Ma era, invece, una grandissima cosa che un re innamorato avesse maritato ad un altro colei che egli
stesso amava ,senza prendere del suo amore né foglia, né fiore, né frutto.

Così, dunque, magnificamente operò il re, premiando il cavaliere, onorando le giovinette e vincendo
valorosamente sé stesso.
commento: la stranezza di un esponente degli uberti che si rifugia dal re guelfo che prima era di parte
avversa alla sua poggia frose sulla volontà di pacificazione che rappresenta questa giornata e più in
generale il decameron stesso

l’ammirazione del re per le due giovinette si traduce in un’ossessiva brama di possederle. la scena a
ritroso ricorda quella della valle delle donne così come quella di cimone. qui a differenza di cimone e
dei giovani della brigata il re alla vista della bellezza non diven savio, almeno non subito

messa a fuoco del delicato rapporto tra eros ed età, tra un amore giovanile acerbo e uno senile,
quando più lo si può comprendere ma anche soffrire di conseguenza

il potere politico del re qui si legittima attraverso l’amore virtuoso, sia verso i sudditi che non devono
essere offesi sia verso se stessi. il re che voleva possedere le fanciulle era sospinto dalla cupiditas,
che è il contrario della caritas, nel rinunciare alla prima accede alla seconda

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.7

Il re Pietro d’Aragona ,sentito l’ardente amore che gli porta Lisa, inferma, la conforta e poi la
marita ad un gentil giovane; la bacia sulla fronte e si dice suo cavaliere.

Fiammetta aveva terminata la sua novella e tutti avevano commentato la magnificenza di re Carlo, ad
eccezione di una ,che era ghibellina.

Subito dopo Pampinea, per ordine del re, cominciò a dire che nessuna persona saggia non sarebbe
stata d’accordo su quanto avevano detto del buon re Carlo, ad eccezione di chi non gli fosse stato
avverso per altri motivi, come la loro compagna. Ma ella aveva ricordato una cosa, ugualmente degna
di attenzione, fatta da un avversario di re Carlo verso una giovane fiorentina e desiderava raccontarla.

Nel tempo in cui i francesi furono cacciati dalla Sicilia (Vespri Siciliani 1282) viveva in Palermo un
fiorentino venditore di spezie, chiamato Bernardo Puccini, uomo ricchissimo, che aveva avuto da sua
moglie una sola figlia bellissima, già in età da marito.

Pietro d’Aragona, che era divenuto da poco signore dell’isola, faceva a Palermo una bellissima festa
con i suoi baroni. Mentre si faceva un torneo e il re armeggiava alla maniera catalana, la figlia di
Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove era con altre donne, lo vide e le piacque tanto
che, dopo averlo a lungo guardato, se ne innamorò perdutamente.

Finita la festa la fanciulla, stando in casa del padre, non poteva pensare ad altro che al suo grande
amore.

Quello che la turbava di più era la consapevolezza della sua umile condizione che non le lasciava
alcuna speranza di un lieto fine. Ma non poteva smettere di amare il re, né osava per paura
manifestare il suo amore..

Il re, dal canto suo, non si era accorto di nulla e non si curava di lei, il che le procurava un intollerabile
dolore.

Aumentando l’amore e aggiungendosi un dolore all’altro, la bella giovane, non potendone più, si
ammalò e ogni giorno si consumava come neve al sole.

Il padre e la madre, preoccupati, con consigli continui, con medici e con medicine, l’aiutavano come
meglio potevano. Ma niente serviva perché ella, disperata per il suo amore, aveva deciso di non voler
più vivere.
Un giorno le venne in mente di voler far conoscere al re, prima di morire, il suo amore e la sua
intenzione, con molta prudenza. Perciò pregò il padre, pronto ad accontentarla, di far andare da lei
Minuccio d’Arezzo, che era ritenuto un finissimo cantatore e suonatore ed era stimato da re Pietro.

Bernardò lo avvisò che Lisa voleva sentirlo un po’ suonare e cantare.

Minuccio, che era un uomo gentile, immediatamente andò da lei , la confortò con amorevoli parole.

Poi con la viola suonò alcune ballate e cantò alcune canzoni che fecero ardere ancora di più d’amore
la giovane, invece di consolarla.

Lisa, dopo aver ascoltato, disse che voleva parlare solo con lui. Dopo che tutti si furono allontanati,
ella gli disse “ Minuccio, ti ho scelto come custode di un mio segreto, che non devi svelare a nessuno,
se non a colui che ti dirò; ti prego di aiutarmi con tutti i mezzi che sono in tuo potere.

Devi, dunque, sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro re Pietro fece una gran festa per il suo
insediamento venne visto da me, mentre torneava. L’amore di lui si accese come un fuoco nella mia
anima, tanto ardente che mi ha ridotta come tu mi vedi. Ben sapendo che il mio amore non si
conviene ad un re, non potendo né scacciarlo, né diminuirlo, essendo tanto pesante da sopportare,
ho deciso, per soffrire meno, di morire e così farò. Proverei un gran conforto se il re lo sapesse, prima
che io muoia.

Ritenendo che tu sia la persona adatta a fargli conoscere la mia decisione, ti voglio affidare questo
incarico e ti prego di non rifiutarlo. Quando l’avrai portato a termine, fammelo sapere, affinchè io
,consolata, morendo mi liberi di queste pene”.

Minuccio si meravigliò della profondità del sentimento e delle intenzioni della fanciulla, addolorandosi
moltissimo. Pensò subito a come poteva accontentarla e le disse “ Lisa, ti giuro sulla mia parola, che
non sarai mai da me ingannata. Ti sei innamorata di un così grande re e mi hai affidato una così
grande impresa. Ti offro il mio aiuto, col quale spero di poterti accontentare. Mi auguro che ,prima che
passi il terzo giorno, ti possa recare notizie che ti saranno molto gradite. Per non perdere tempo,
voglio andare a cominciare”.

Poi Lisa, dopo averlo molto pregato, lo licenziò.

Minuccio, allontanatosi, cercò un certo Mico da Siena, abile verseggiatore, e lo pregò di scrivere una
canzonetta che diceva.

“ Muoviti, Amore, vai dal mio signore,

e raccontagli le pene che io sopporto;

digli che sto per morire,

nascondendo per timore la mia volontà.

Per pietà, Amore, ti chiedo a mani giunte,

che tu vada dove messer abita.

Digli che spesso lo desidero e lo amo,

così dolcemente mi fa innamorare;

e per il fuoco da cui tutta sono infiammata

temo di morire; e non vedo l’ora

di liberarmi da una così grande pena,


che sopporto per amor suo,

temendo e vergognandomi;

deh! Il mio male, per Dio, fagli sapere.

Quando, Amore, mi innamorai di lui,

non mi donasti l’ardire ,ma il timore

che io potessi dimostrare il mio desiderio

ad altri se non a lui, che mi fa tanto soffrire;

così morendo, il morire mi pesa!

ma forse non gli dispiacerebbe

se egli sapesse quanta pena io sento,

se avessi l’ardire

di fargli conoscere la mia condizione.

Poiché, Amore, non ti piacque

di darmi tanto coraggio,

che potessi far conoscere a messere il mio cuore

o attraverso un messaggero o di persona,

ti chiedo, di grazia, o mio dolce signore,

che tu vada da lui e gli ricordi

del giorno ch’io lo vidi torneare ,portando

lo scudo e la lancia con gli altri cavalieri;

lo cominciai a guardare,

tanto innamorata che il mio cuore perisce”.

Minuccio accompagnò quelle parole con una musica dolce e triste come esse richiedevano. Il terzo
giorno andò a corte, mentre il sovrano era a pranzo. Il re gli chiese di cantare qualcosa con la sua
viola.

Il cantore cominciò a cantare e a suonare così dolcemente, che tutti coloro che erano nella sala
rimasero silenziosi e incantati, il re ancora più degli altri.

Terminato il canto, il re chiese a Minuccio da dove venisse , perché gli sembrava di non averlo mai
udito.

Minuccio rispose che le parole e la musica erano state fatte ,che non erano ancora passati tre giorni.

Al sovrano, che voleva sapere chi aveva scritto quelle parole, il giovane rispose che poteva rivelarlo
soltanto a lui, in privato.
Il re, desideroso di sapere, finito il pranzo, lo fece andare nella sua camera, dove il cantore gli
raccontò ogni cosa. Il re fu molto lusingato, lodò la fanciulla e disse che bisognava aver compassione
di lei,.

Ordinò ,dunque, a Minuccio di riferire da parte sua alla giovane che quello stesso giorno, verso il
vespro, sarebbe andato a salutarla.

Minuccio, felicissimo di portare a Lisa una così piacevole notizia, prese la viola e se ne andò.

Parlando con lei sola, le raccontò tutto e le cantò la sua canzone con la viola.

Grande fu la gioia di Lisa tanto che, immediatamente, cominciarono a vedersi notevoli segni di
miglioramento.

Senza parlare con nessuno, cominciò ad aspettare il vespro, quando avrebbe visto il suo signore.

Il re, che era liberale e generoso, avendo pensato più volte alle cose dette da Minuccio, conoscendo
bene la giovane e la sua bellezza, provò maggiormente pietà.

All’ora del vespro, montato a cavallo, fingendo di andare a passeggio, giunse dov’era la casa del
venditore di spezie. Lì fu ricevuto nel bellissimo giardino. Dopo un certo tempo chiese a Bernardo
dov’era la figlia e se l’aveva maritata.

Lo speziale rispose che non era maritata ed era stata ed era ancora molto malata, anche se, in verità,
negli ultimi tempi pareva miracolosamente migliorata.

Il re, conoscendo bene la ragione del miglioramento, se ne rallegrò molto e disse che era venuto a
visitarla.

Con due compagni e con Bernardo poco dopo andò nella camera di lei e le prese le mani, dicendo “
Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e non vi dovete abbandonare alla malattia. Vi
preghiamo che, per amor nostro, guariate al più presto”.

La giovane, sentendosi toccare dalle mani dell’uomo che amava, sebbene si vergognasse, provò
tanto piacere, come se fosse stata in Paradiso, e gli promise che, grazie al suo intervento, sarebbe
presto guarita.

Solo il re comprendeva le parole velate di lei, l’apprezzava ancora di più e malediceva la fortuna che
l’aveva fatta nascere figlia di un uomo umile. Dopo essersi trattenuto con lei per un certo tempo ed
averla confortata, se ne andò.

L’atteggiamento del re e l’onore che egli aveva fatto allo speziale e alla figlia fu molto commentato.

La ragazza, felice per la visita del re, in pochi giorni guarì e diventò più bella di prima.

Dopo la sua guarigione, il re , che aveva raccontato alla regina dell’amore della giovane per lui,un
giorno, montato a cavallo, insieme a molti baroni si recò a casa di Bernardo. Entrato nel giardino fece
chiamare lo speziale e la figlia. Poco dopo arrivò anche la regina con molte donne; ricevuta tra loro la
giovane, incominciarono una bellissima festa.

Poi il re e la regina chiamarono Lisa e il re le disse “ Valorosa giovane, col vostro amore mi avete
recato grande onore; per questo noi vogliamo accontentarvi. Poiché siete in età da marito, vogliamo
che prendiate il marito che vi daremo. Mentre io sarò sempre vostro cavaliere, senza volere da voi,
per il vostro amore, niente altro che un bacio”.

La giovane, tutta rossa in viso per la vergogna, a bassa voce, disse che se la gente avesse saputo
che si era innamorata di lui, l’avrebbe ritenuta pazza, credendo che fosse uscita di mente e che non
conoscesse la sua umile condizione. Ma ben comprendeva, nel momento in cui si era innamorata,
che egli era il re e lei la figlia di Bernardo speziale e che non poteva osare rivolgere così in alto il suo
amore. Ma ,come egli ben sapeva, nessuno si innamorava usando la ragione, ma seguendo solo la
passione e il sentimento. Perciò non poteva controllare l’amore che provava e avrebbe provato allora
e per sempre.

Poiché voleva ubbidirgli, anche se non prendeva marito volentieri, avrebbe ritenuto caro quel marito
che egli aveva scelto per lei e lo avrebbe onorato e rispettato. Del resto, si sarebbe gettata nel fuoco
per fargli piacere. Avrebbe tenuto in giusto conto avere il re per cavaliere e il bacio che il re voleva
non lo avrebbe concesso senza il permesso della regina. Iddio avrebbe reso grazie della benevolenza
di lui e della regina nei suoi confronti. E, a questo punto, tacque.

Alla regina piacque molto la risposta della giovane ,che le parve saggia, come il re le aveva detto.

Il sovrano fece chiamare il padre e la madre della fanciulla. Visto che erano contenti , ordinò che
fosse condotto alla sua presenza un giovane, gentile ma povero, che aveva nome Perdicone, gli donò
alcuni anelli e gli propose di sposare Lisa, cosa che il giovane accettò ben volentieri.

Oltre a ciò, il re , con la regina ,donò a Lisa molti altri gioielli e a Perdicone Cefalù e Caltabellotta, due
terre fertilissime, dicendo “ Ti doniamo queste terre, come dote della donna; quello, poi, che darò a te,
lo vedrai in futuro”. Poi, rivolto alla giovane,le disse “ Ora vogliamo prendere quel frutto del vostro
amore che dobbiamo avere”. E, presole il capo con entrambe le mani, la baciò sulla fronte.

Perdicone, il padre e la madre di Lisa ed ella stessa ,molto contenti fecero una bellissima festa di
nozze e, come molti affermarono, il re diede alla giovane ancora altri doni.

Il sovrano si ritenne sempre, finchè visse, suo cavaliere e sempre, in ogni combattimento, portò
l’insegna che la giovane gli aveva donato.

Così si conquistavano gli animi dei popoli assoggettati, si dava agli altri motivo di operare bene e si
acquistava fama eterna, cose alle quali nel loro tempo pochi o nessuno rivolgevano l’attenzione,
essendo quasi tutti i nobili divenuti crudeli e tiranni.

commento: Boccaccio appare portatore di un funzionalismo globale, che riconduce la politica ai suoi
fondamenti, i quali a loro volta coincidono con le sue finalità. La natural ragione garantisce la
beatitudo huius vite, e la garantisce non solo attarevrso l’ordine armonico delle narrazioni ma
attarverso la cura degli effetti che le novelle suscitano nella societas perfecta della compagnia. Il
rispetto delle caratteristiche di ciascun ente naturale fundamentum iuris. ciò è tanto piu evidente nel
caso della brigata, che in uno stato di innocenza non ha necessità dei duo luminaria per orientare il
proprio comportamento, sia verso la legge degli uomini sia verso la legge di dio. E poichè ciascun
novellatore ha una sua personalitàlo stesso può dirsi della brigata, che in quelle singolarità
armonicamente si compone. A farsi garante di questa coincidenza tra ordine naturale e ordine politico
nel momento in cui si avverte un malumore all’interno della brigata è Pampinea, che già ha
intervenuta con le medesime finalità nella quarta giornata (racconto di frate alberto), per ottemperare
la scelta di filostrato di parlare di amori infelici.

La condizione malicnonica e l’amore erano oggetto di riflessione medica. la stessa sofferenza< è


ritratta piu volte all’interno dell’opera, la stessa sofferenza poteva essere ingenerata da uno smodato
desiderio di altri beni (come accadde al figlio di monna giovanna).

La situazione della X-VII rinnova la memoria dei fondamenti del decameron nei confronti delle donne
afflitte dalle pene d’amore. la svolta qua nasce dalla compassione per gli afflitti, Minuccio sta a
Boccaccio come lisa sta alle donne dedicatarie dell’opera.

la sanità nasce dalla speranza. Rispetto alla mortifera pestilenza e al fallimento riscontrato, nel
tentativo di arginarla e debellarla. da ogni umano provvedimento, da qualsivoglia consiglio medico. il
principio che qui si afferma in relazione a lisa ovvero il beneficio portato alla salute da un testo
letterario, vale per tutto il decameron, per il suo conforto alle donne come lisa malinconiche.

la prende per mano: gesto compassionevole, terapeutico, terapeutico perchè cortese e


compassionevole, dal momento che si fa segno della compassione per gli afflitti)
Rossore riso e pianto declinati in bonam o in malam partem nell’azione storica dei personaggi
denunciano con chiarezza il fatto che per boccaccio i protagonisti delle sue narrazioni sono persone
incarnate, soggetti. nella moltitudine delle loro manifestazioni narrative i personaggi lasciano
emergere il loro consapevole punto di vista, ovvero la loro intenzionalità oltrepassante che li pone in
relazione con gli altri personaggi. di nuovo al lettore è porposto uno dei concetti chiave che animano
l’opera: uomini e donne devono essere in grado di accedere a una verità che sta dentro e dietro le
apparenze, che rispecchi la necessità di uno sguardo e di una mente ironica e che sappia cogliere e
disvelare la ambiguità della storia e del linguaggio.

questa fatalità dell'amore, nel Decameron, è d fatto superata o arginata o raffrenata dal "segno della
ragione". Nelle sue varie gradazioni e manifestazioni, l'amore è appunto, nel libro, un nobile destino
(tragico o fausto), un gioco, un sollazzo, un'astuzia, ma pur sempre una scelta di persone libere. Ecco
allora che il confronto tra le figlie di Neri degli Uberti, Lisa e, di qui a poco, Griselda manifesta il
carattere di Lisa. ch'è poi tutt'uno con il pathos della sua delicata fragilità: Ginevra e Isotta sono ignare
dell'amore che destano nel re.

Solenne conclusione della legislatrice Pampinea, che inaugura e sigilla la sua presenza nel
Decameron entro un orizzonte etico-politico. E politica è in effetti la chiusa della novellatrice, la quale
ricorda come la regalità, per essere tale, debba tendere l'arco dell'intelletto, ovvero indirizzare la
mente al rispetto dei sudditi, al bene operare per acquistare fama, ove non voglia, come purtroppo
oggi accade, decadere nella brutalità dei crudeli tiranni. Le favole, per Pampinea, mediano una
interpretatio del mondo e insegnano al lettore a fare altrettanto, ma, al tempo stesso, inverano quel
rispetto degli "umani disiderii" senza i quali la potestas sarebbe tirannide e la società umana un luogo
ferino di discordie e violenza fratricida.

GIORANata 10 novella 10

Il marchese di Salluzzo, costretto dalle preghiere dei suoi uomini a prender moglie, per
prenderla di suo gusto , sceglie la figliuola di un contadino da cui ha due figli, i quali le fa
credere di aver ucciso. Poi le dice di non amarla più e di aver preso un’altra moglie, portandole
in casa la propria figliuola come se fosse sua moglie. Avendola cacciata di casa in camicia,
vede che ella sopporta ogni cosa con pazienza. Per questo la riprende in casa più cara che
mai, le mostra i suoi figli ,ormai grandi, e come marchesa la onora e la fa onorare.

Finita la lunga novella, che era piaciuta a tutti, Dioneo, ridendo, disse che il buon uomo che aspettava
la notte seguente per far abbassare la coda ritta del fantasma, avrebbe pagato pochi soldi per tutte le
lodi che esse rivolgevano a messer Torello.

Poi, dato che toccava solo a lui raccontare, cominciò dicendo che, come a lor tutte era chiaro, quel
giorno era stato dedicato a re, a sultani e a gente di quel genere. Non si sarebbe, dunque, allontanato
di molto perché voleva parlare di un marchese, non per la di lui magnificenza, ma per la sua matta
bestialità.

Anche se , alla fine, la vicenda si concluse per il meglio, non consigliava a nessuna di loro di seguire
quell’esempio.

Molto tempo prima, tra i marchesi di Salluzzo, vi fu ,come capofamiglia, un giovane chiamato
Gualtieri.

Costui, essendo senza moglie e senza figli, spendeva il suo tempo nell’andare a caccia di uccelli e di
altri animali, né aveva alcuna intenzione di prender moglie e si riteneva per questo molto saggio.

I suoi sudditi più volte lo pregarono di ammogliarsi, affiché egli non rimanesse senza eredi e loro
senza signore.

Si offrirono di trovargliene una che discendesse da padre e madre di nobili origini, che potesse
accontentarlo.
Ad essi Gualtieri rispose che era ben deciso a non prendere mai moglie, per timore di potersi
imbattere in una donna non adatta a lui. Il dire che gli avrebbero scelto una donna che avesse come
garanzia i costumi del padre e della madre, non lo rassicurava perché quella era una sciocchezza.
Infatti, spesso, le figliuole erano dissimili dai padri e dalle madri.Li voleva accontentare, ma voleva
scegliere una moglie che gli piacesse, in modo che, se le cose fossero andate male, doveva
prendersela solo con sé stesso.

Aggiunse che voleva trovarsela egli stesso e che la sua sposa doveva essere onorata da tutti loro.

I suoi uomini risposero che erano contenti, l’importante era che prendesse moglie.

Già da tempo erano piaciuti a Gualtieri i costumi di una povera giovinetta, che abitava in un villaggio
vicino a casa sua. Gli sembrò molto bella e ritenne che con lei avrebbe vissuto una vita felice.

Decise, quindi, di volerla sposare e, fattosi chiamare il padre, che era poverissimo, si accordò di
prenderla in moglie. Fatto ciò, radunò tutti i suoi amici e disse loro che stava per soddisfare il loro
desiderio.

Gli avevano promesso che sarebbero stati contenti ed avrebbero onorato qualsiasi donna avesse
scelto. Era giunto il momento per lui di mantenere la sua promessa ed anche per loro.

Aveva trovato una giovane che gli piaceva lì vicino, intendeva prenderla in moglie e portarla a casa di
lì a poco.

Pensassero loro a preparare una bella festa di nozze per poterla ricevere con onore, in modo che
fossero tutti soddisfatti di aver rispettato le promesse fatte.

I suoi sudditi, ben lieti,assicurarono che avrebbero rispettato e onorato la moglie del loro signore.

Poi tutti si misero a preparare le nozze, fastose e ricche,invitando i loro amici, i parenti e gli altri
gentiluomini del luogo. Lo stesso fece Gualtieri ,che fece ,inoltre, cucire ricchi abiti, provandoli su una
giovane che fisicamente gli sembrava che somigliasse alla giovinetta che stava per sposare.

Oltre a ciò, predispose cinture e anelli e una ricca e bella corona e tutto ciò che si addiceva ad una
novella sposa.

Giunto il giorno fissato per le nozze, Gualtieri verso le otto di mattina montò a cavallo insieme con
alcuni che erano venuti ad onorarlo e, avendo organizzato ogni cosa, disse” Signori, è giunto il
momento di andare a prendere la novella sposa”.

Si misero in viaggio e, dopo poco, giunsero alla villetta.

Nei pressi della casa del padre trovarono la giovane che tornava dalla fonte con l’acqua, in gran fretta
per andare a vedere la sposa di Gualtieri.

Come il gentiluomo la vide ,la chiamò per nome, cioè Griselda, e domandò dove fosse il padre. Ella,
timidamente, rispose che era in casa.

Gualtieri, entrato in casa, trovò il padre di lei, che si chiamava Giannucolo, e gli disse “ Sono venuto
per sposare la Griselda, ma prima le voglio fare alcune domande, in tua presenza”.

Le chiese se, una volta diventata sua moglie, si impegnava a compiacerlo, a non turbarsi per
qualunque cosa egli dicesse o facesse ,ad essere sempre obbediente ed altre cose simili.

Allora Gualtieri ,presala per mano, la condusse fuori, alla presenza di tutta la sua compagnia, la fece
spogliare ignuda e rapidamente le fece vestire e calzare con gli abiti che aveva fatto fare, e sui
capelli, spettinati com’erano, fece mettere la corona.
A tutti , che lo osservavano stupiti, spiegò che quella era la donna che aveva scelto come moglie, se
ella lo voleva come marito.

Poi, rivolto a lei, che se ne stava vergognosa ed incerta, le disse “ Griselda, mi vuoi come marito?”.

Ed ella rispose “ Signor mio, si”.

Ed egli disse “ Ed io voglio te per mia moglie”. Ed in presenza di tutti la sposò.

La fece montare su un cavallo e la condusse a casa, dove fu fatta una festa di nozze ricca e bella,
come se fosse stata la figlia del re di Francia.

La giovane sposa mutò con gli abiti anche l’animo e i costumi.

Oltre che bella divenne anche attraente, piacevole e garbata, tanto che non sembrava essere stata
figlia di Giannicolo e guardiana di pecore, ma piuttosto la figlia di un nobile signore.

Ciò faceva meravigliare ogni uomo che l’aveva conosciuta prima.

Inoltre era servizievole e obbediente al marito, tanto che egli si riteneva il più contento e appagato
uomo del mondo.

Anche verso i sudditi del marito era tanto garbata e gentile che non c’era nessuno che non l’amasse e
la onorasse, pregando per la sua salute.

Tutti, mentre prima dicevano che il loro signore era stato poco saggio a prenderla in moglie, ora lo
ritenevano molto saggio perché aveva saputo vedere le grandi virtù della donna, nascoste sotto i
poveri panni e l’abito contadino.

In breve, Griselda seppe conquistarsi l’affetto e la stima di tutti i sudditi.

Non molto dopo le nozze ella ingravidò e partorì una bambina, con grande gioia di Gualtieri.

Poco dopo , il marchese ebbe uno strano pensiero; volle provare con cose intollerabili la pazienza
della moglie.

Dapprima la ferì con parole, dicendole che i sudditi non erano contenti di lei per la sua umile
condizione, perché generava figli di umile origine, che erano scontenti della figlia che era nata e
mormoravano continuamente.

Udendo quelle parole, la donna, senza cambiare espressione o buone intenzioni, disse “ Signor mio,
fa di me quello che ritieni più onorevole per te e ti dia più consolazione; io sarò contenta ben sapendo
che sono inferiore a loro e non sono degna dell’onore che mi facesti”.

Gualtieri apprezzò molto quella risposta, vedendo che la moglie non si era insuperbita per la
condizione ,cui era stata elevata.

Poco tempo dopo disse alla moglie che i sudditi non potevano sopportare la fanciulla nata da lei e le
mandò un servo che, con viso molto triste, le disse “ Madonna, il mio signore mi ha comandato di
prendere la vostra figliuola per………” e più non aggiunse.

La donna, udendo le parole ,vedendo il viso del servitore e ricordando le promesse da lui fatte,
comprese che al servo era stato ordinato di uccidere la figlia.

Prese la bimba dalla culla, la baciò, la benedisse e, sebbene sentisse nel cuore un gran dolore, senza
cambiare espressione del viso, la pose in braccio al servitore ,dicendogli “Tieni, fa ciò che il tuo
signore ti ha ordinato, ma evita che le bestie e gli uccelli la divorino, a meno che egli non te lo abbia
ordinato”.
Il servitore prese la bimba e riferì la risposta la risposta a Gualtieri che si meravigliò per la forza
d’animo della moglie.

Il signore mandò il servo con la piccola a Bologna da una parente a cui l’affidò perché la crescesse e
la educasse come se fosse sua figlia.

In seguito la moglie ingravidò di nuovo e, a tempo debito, partorì un figlio maschio, che fu molto caro
a Gualtieri.

Non soddisfatto di quello che aveva fatto, con maggire crudeltà colpì la donna e le disse “ Donna,
dopo che partoristi questo figlio maschio, non ho potuto più vivere con i miei uomini ,perché essi si
rammaricano che dopo di me debba divenire loro signore un nipote di Giannucolo. Di questo mi
preoccupo e ritengo che, se non voglio essere cacciato, mi convenga fare ciò che feci l’altra volta e
alla fine lasciare te e prendere un’altra moglie”.

La donna, pazientemente, l’ascoltò e rispose soltanto che egli doveva fare quello che riteneva di suo
gradimento, senza preoccuparsi di lei, a cui stavano a cuore solo le cose che piacevano a lui.

Poco dopo Gualtieri, come aveva mandato a prendere la figlia, mandò a prendere il figlio, e,
facendole credere di averlo ucciso, lo mandò a Bologna per farlo crescere, come aveva fatto con la
bambina.

La donna si comportò come aveva fatto per la figlia, senza mutare espressione, né aggiungere altre
parole.

Il marito si meravigliava molto della cosa, pensando che nessuna donna poteva fare quello che la
moglie faceva. Sapeva che era saggia e affezionatissima ai figli, fino a che egli glielo permetteva,
altrimenti avrebbe pensato che non gliene importava niente.

I suoi sudditi credendo che il signore avesse fatto uccidere i suoi figli ,lo biasimarono molto , lo
ritennero un uomo crudele e avevano grandissima compassione per la donna.

Ella, con le donne che si dolevano con lei per la morte dei figli, disse soltanto che a lei piaceva ciò
che piaceva a colui che li aveva generati.

Passati diversi anni dalla nascita della fanciulla, a Gualtieri sembrò fosse giunto il momento di provare
ancora una volta le capacità di sopportazione della moglie.

Con i suoi sudditi disse che non poteva più tollerare di avere per moglie Griselda, che aveva sbagliato
nello sposarla e voleva chiedere al Papa una dispensa che gli consentisse di sposare un’altra donna.

Gli uomini lo sconsigliarono ,ma egli fu irremovibile.

La donna, sentendo quelle cose, ritenne di dover tornare a casa a guardare le pecore, come aveva
fatto da ragazza, e di dover vedere un’altra donna a fianco dell’uomo cui voleva un gran bene. Provò
un grande dolore nel suo intimo, ma esternamente si dispose a sopportare anche quella prova con
viso fermo.

Non molto dopo Gualtieri fece giungere da Roma alcune lettere false per far credere ai sudditi che il
Papa gli aveva concesso la dispensa di poter prendere un’altra moglie e di lasciare Griselda.

La fece andare davanti a lui e, alla presenza di molti, le disse “Donna, per concessione del Papa,
posso prendere un’altra donna e lasciare te. Poiché i miei antenati furono gentiluomini e signori di
queste contrade e i tuoi sono stati sempre contadini,voglio che tu non sia più mia moglie e te ne torni
a casa di Giannucolo, con la dote che mi portasti .Io porterò qui, come moglie, un’altra donna che ho
trovato, più adatta a me”.

Griselda, faticosamente, oltre la natura delle donne, trattenne le lacrime e rispose “Signor mio, ben
sapevo che la mia umile condizione non si addiceva, in alcun modo, alla vostra nobiltà. Tutto ciò che
ebbi da voi e da Dio lo ritenni un dono, non per sempre, ma dato in prestito. Se a voi piace
riprenderlo, a me non deve dispiacere rendervelo. Ecco l’anello con cui mi sposaste, prendetelo.
Ordinatemi di riportarmi indietro la dote che vi recai, non ci sarà bisogno di una borsa ,né di un
somaro, perché non ho dimenticato che mi aveste ignuda. Se ritenete onesto che questo mio corpo,
nel quale ho portato i figli generati da voi, sia veduto da tutti, me ne andrò ignuda. Ma, vi prego, in
premio della verginità che vi recai, che possa portare con me almeno una camicia, oltre la mia dote”.

Gualtieri ,che pure aveva voglia di piangere, con viso duro ,le consentì di portare con sé una camicia.

Tutti coloro che erano presenti lo pregarono di donarle degli abiti ,perché colei che era stata per
tredici anni come sua moglie in quella casa non fosse veduta uscirne così vergognosamente e
poveramente in camicia.

Ma a nulla valsero le preghiere e la donna, raccomandati tutti a Dio, in camicia, scalza e senza alcun
copricapo, uscì di casa e se ne tornò dal padre, mentre tutti coloro che la videro andar via
piangevano.

Giannucolo, che non aveva mai ritenuto vero che Gualtieri l’avesse sposata, si aspettava ogni giorno
che quell’evento accadesse, perciò le aveva consegnato i vestiti che si era tolta quando il marchese
l’aveva sposata. Glieli portò e Griselda, dopo essersi rivestita, si mise a fare nella casa paterna piccoli
servizi, come era solita fare, sopportando con animo forte i duri colpi della fortuna nemica.

Gualtieri, mandata via la moglie, fece credere a tutti i sudditi che aveva scelto una figliuola dei conti di
Panico. Ordinò che si facessero grandi preparativi per le nozze e mandò a chiamare Griselda,
chiedendole di preparare le camere e tutte le altre cose necessarie per ricevere con onore la nuova
sposa. Aggiunse che nessun’altra donna avrebbe potuto farlo meglio di lei , che era di casa. Concluse
dicendo che poteva invitare tutte le donne che voleva e riceverle come se fosse stata la padrona di
casa. Poi, celebrate le nozze, se ne poteva tornare a casa sua.

Anche se quelle parole furono una pugnalata al cuore, Griselda, non avendo potuto togliersi dalla
mente l’amore che gli portava, rispose “ Signor mio, sono pronta”.

Entrata con le vesti contadinesche in quella casa da cui poco prima era uscita in camicia, cominciò a
spazzare, ad ordinare le camere, a porre drappi nelle sale, a far preparare le pietanze per il banchetto
ed ogni altra cosa, come se fosse una piccola servetta della casa. Non si fermò mai finché non ebbe
sistemato tutto come era conveniente. Fatto ciò, invitò tutte le donne della contrada e cominciò ad
attendere.

Gualtieri aveva fatto allevare i figli a Bologna da una sua parente sposata, che viveva in casa dei conti
di Panico. La fanciulla aveva già dodici anni ed era la più bella cosa che si potesse vedere , il fanciullo
aveva sei anni. Mandò a dire al suo parente di andare con la figlia e il figlio a Saluzzo, di portare una
bella compagnia e di dire a tutti che conduceva la fanciulla in sposa al marchese. Gli raccomandò di
non dire a nessuno chi ella fosse realmente.

Il gentiluomo fece come il marchese gli aveva chiesto, si mise in cammino e, dopo pochi giorni, con la
fanciulla, il fratello e tutta la compagnia, all’ora di pranzo, giunse a Salluzzo. Lì trovò tutti i paesani ed
altri invitati che attendevano le novella sposa del marchese.

La fanciulla, accolta dalle donne, venne nella sala dove erano state messe le tavole.

Griselda, vestita con i suoi poveri panni, le andò incontro lietamente e le diede il benvenuto.

Le donne, che avevano pregato Gualtieri di lasciare che Griselda stesse in un’altra stanza o che
potesse indossare gli abiti che erano stati suoi, si misero a sedere e furono servite.

Tutti gli uomini lodarono molto la fanciulla, ritenendo che il signore avesse fatto un buon cambio.

Anche Griselda lodava lei e il fratellino.


Gualtieri, apprezzando molto il comportamento della donna, vedendo che non si modificava per
niente, conoscendola bene, sapeva che cosa nascondeva sotto la sua espressione ferma.

La fece, dunque, chiamare e le chiese che cosa le sembrava della sua sposa.

Griselda rispose “Signor mio, mi sembra che vada molto bene; se poi è saggia quanto è bella, come
credo, non dubito che possiate vivere come l’uomo più felice del mondo. Ma, vi prego, non date a
questa quelle punture

che avete dato all’altra, che fu vostra, perché credo che non le potrebbe sostenere. Infatti è giovane
ed ,ancora, è stata allevata con raffinatezza, mentre l’altra era stata abituata alle fatiche, fin da
bambina”.

Il marchese ,poiché vide che Griselda era convinta che la fanciulla dovesse essere sua moglie, pure
ne parlava bene, la fece sedere vicino a lui e le disse “Griselda, è tempo ,ormai, che tu conosca il
risultato della tua lunga pazienza e che coloro che mi hanno ritenuto crudele, ingiusto, bestiale
conoscano che facevo ciò per un fine prestabilito. Volevo, infatti, insegnare a te ad esser moglie, a
loro a sapersela tenere, a me ad avere eterna tranquillità, finché vivessi, cosa che temetti potesse
non avvenire, quando ti presi per moglie. Perciò così ti punsi e ti tormentai. Ma mi sono accorto che
non hai mai smesso di farmi piacere e di darmi quella consolazione che desideravo. Desidero,
dunque, renderti, in una sola ora, ciò che ti tolsi in molte ore, e ristorarti, con molta dolcezza, delle
punture che ti diedi. Sappi che quella ,che credi sia una sposa, è tua figlia e il fratello è tuo figlio, i
quali tu e molti altri credeste, per lungo tempo, che io, crudelmente, avessi fatto uccidere. Sappi che
sono tuo marito, ti amo sopra ogni altra cosa e ritengo di potermi reputare felice perché ho una moglie
come te”.

Così detto, l’abbracciò e insieme con lei, che piangeva di gioia, andò verso la figlia che, sorpresa,
sedeva , ascoltando quelle cose. Abbracciò teneramente lei ed il fratello, svelando a tutti l’inganno.

Le donne, lietissime, finito il pranzo, se ne andarono in camera di Griselda. Le tolsero i suoi panni
contadineschi e la rivestirono con abiti nobili e, come padrona, la ricondussero nella sala, dove i figli e
il marito l’accolsero con grande festa.

I festeggiamenti durarono per molti giorni. Tutti reputarono molto saggio Gualtieri, sebbene
ritenessero troppo dure le prove cui aveva sottoposto la moglie. Ma, soprattutto, stimarono ancora più
saggia Griselda.

Dopo alcuni giorni ,il conte di Panico ritornò a Bologna. Gualtieri tolse Giannucolo dal suo lavoro e se
lo portò con lui, come suo suocero, onorandolo e rispettandolo finché visse.

Infine, maritata degnamente la figlia, visse con Griselda, onorandola più che poteva, a lungo e
serenamente.

Si poteva, dunque, aggiungere che anche nelle povere case piovevano dal cielo spiriti divini, mentre
in quelle reali uomini che non erano degni di guardare nemmeno i porci piuttosto che di governare.

Chi avrebbe potuto sopportare con viso non solo sereno, ma lieto, le prove crudeli cui Gualtieri
sottopose Griselda? Per lui sarebbe stato giusto che si fosse imbattuto in una donna che, quando
l’aveva cacciata fuori di casa in camicia, si fosse fatta scuotere la pelliccia da un altro, in modo da
ottenerne una bella veste.

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