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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Nei decenni seguenti la morte di Dante, Giovanni Boccaccio fu il primo letterato di


alto rango a professare apprezzamento per la sua opera; un’inclinazione manifestatasi
in tempi precoci rispetto ai gusti letterari mediotrecenteschi, influenzati dal magistero
petrarchesco, caratterizzato da una diversa sensibilità 1. Purtuttavia le notizie ed i testi
che il Certaldese ha collazionato, non di rado in tradizione unica, in circa un
quarantennio di fedeltà a Dante – si pensi ai superstiti, quasi tutti autografi: Vaticano
Latino 3199, Toledano 104 6, Riccardiano 1035, Chigiano L V 176, Chigiano L VI 23,
Laurenziano Pluteo XXIX 8 –, non gli hanno sempre meritato l’encomio della dantologia
moderna. Dubbi, oscillanti tra apocrifia e interpolazione, hanno riguardato le Esposizioni
e il Trattatello; dubbi hanno investito le tre epistole dantesche tramandateci dal suo
Zibaldone laurenziano; dubbi hanno riguardato la postrema corrispondenza eglogistica
tra Dante e Giovanni del Virgilio. Infine, dubbi hanno accompagnato (e continuano ad
accompagnare) un celebre testo di interesse dantesco, l’epistola del monaco Ilaro.
In anni recenti, gli studiosi più autorevoli hanno sempre convenuto con l’obliterare
certi eccessi di iperscetticismo antiboccacciano, restituendo alla sua opera il pieno
riconoscimento2. L’unico testo ancora sub iudice è l’epistola di Ilaro: probabilmente
perché intorno ad essa è la dantologia maggiore ad essersi divisa; autori della levatura
di Giuseppe Billanovich, riprendendo un’ipotesi degli ottocenteschi Adolfo Bartoli e
Francesco Macrì-Leone, ne hanno sostenuto la falsità, benintesa quale frutto di esercizio
retorico, non finalizzato alla frode 3, condizionando gli studi successivi e suscitando
adesioni ripetute4. La tesi di Billanovich è stata recentemente ripresa e modificata sotto
1
La bibliografia su Boccaccio dantista è sterminata, ai presenti fini si tengano presenti
particolarmente: Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, a cura della Società Dantesca
Italiana, Firenze, Olschki, 1979; G. PADOAN, Il Boccaccio «fedele» di Dante, in ID., Il Boccaccio, le
Muse, il Parnaso e l’Arno, ivi, Olschki, 1978, pp. 229-46. Utile la voce Boccaccio, Giovanni curata
da Padoan per l’Enciclopedia Dantesca, 6 voll., Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-’78
(= ED), I, pp. 645-50.
2
Altro discorso è il merito della singola notizia o lezione a testo, profili sotto cui il grande
novelliere ha rivelato sovente amplificazioni, fraintendimenti ed errori.
3
G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude
di Dante, in ID., Prime ricerche dantesche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; ID., La
leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude di Dante, «Studi
Danteschi», XXXVIII, 1949, pp. 45-144, da cui si cita.
4
A titolo campionario si danno i seguenti casi: «Al Boccaccio sono state restituite da ultimo, e in
via definitiva, l’epistola dettata dalla pietas per Dante all’immaginario frate Ilaro»; F. DI
BENEDETTO, Considerazioni sullo Zibaldone Laurenziano del Boccaccio e restauro testuale della
prima redazione del «Faunus», «Italia Medioevale e Umanistica», XIV, 1971, pp. 91-128, p. 92;
«Billanovich has brilliantly explained how Boccaccio fabricated his “leggenda dantesca”. So
closely bound to antiquity by both his learning and his friendship with Petrarch, Boccaccio drew
from ancient patterns an imaginative explanation of some facts concerning Dante’s life and
works which he could not otherwise account for [...]. Thus he created his own myth of Dante,
inflicting upon posterity the arduous task of discriminating history from legendary invention»; L.
JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle to Cangrande, in ID., The Trecento Commentaries
1
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

il profilo della paternità del testo, con numerose ed importanti innovazioni, da uno
studioso del valore di Saverio Bellomo 5. Principale assertore dell’autenticità del testo è,
sulla scia di Vittore Branca, un altro dantista di chiara fama, Giorgio Padoan 6. Nella
convinzione che sul piano biografico dantesco, scarno ed incerto, l’epistola di Ilaro
rappresenti una tessera di grande rilevanza, in questa nota si procederà ad una prima
sistemazione dell’ormai ponderosa bibliografia sull’argomento.

on the «Divina Commedia» and the Epistle to Cangrande, Oxford, Clarendon Press, 1974, pp.
105-23, pp. 111-2; «Diversa è la relazione tra l’una e l’altra delle due esercitazioni scolastiche
scritte dalla mano del Boccaccio, ma che si è stentato ad attribuirgli, la Lettera di Ilaro e l’Elegia
di Costanza [...]. Contro l’attribuzione della Lettera al Boccaccio si è schierato il Padoan [...]. Ci
sembra, quella del Padoan, “voce destinata a rimanere isolata”, come la definisce lui stesso, ma
in forma interrogativa [...]. Ora la Lettera di Ilaro, secondo il Billanovich fu composta
probabilmente tra il 1345 e il 1346 a Ravenna: proprio come il volgarizzamento della quarta
decade [di Livio]»; M. T. CASELLA, Tra Boccaccio e Petrarca. I. volgarizzamenti di Tito Livio e di
Valerio Massimo, Roma-Padova, Antenore, 1982, pp. 289-90, n. 3. Invece è l’Elegia di Costanza
che si è tentato senza seguito di espungere dal corpus boccacciano, così come molto incerta è
oggi l’attribuzione del volgarizzamento della quarta Deca di Livio e senza seguito alcuno quella
del volgarizzamento di Valerio Massimo, per cui cfr. L. PETRUCCI, rec. a EAD., «Rassegna della
Letteratura Italiana», II, 1984, pp. 367-87; E. LIPPI, rec. a EAD., «Studi sul Boccaccio», XIV,
1983-‘84, pp. 352-74; G. TANTURLI, Volgarizzamenti e ricostruzione dell’antico. I casi della terza e
quarta deca di Tito Livio e di Valerio Massimo. La parte del Boccaccio (a proposito di
un’attribuzione), «Studi Medievali», XXVII, 1986, pp. 811-88; V. BRANCA, Giovanni Boccaccio.
Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 19973; G. POMARO, Ancora ma non solo sul volgarizzamento di
Valerio Massimo, «Italia Medioevale e Umanistica», XXXVI, 1993, pp. 199-232. Contrariamente a
quanto asserisce Casella, inoltre, per Billanovich – in un passaggio tutto basato su logica
apparente – l’epistola di Ilaro non è del 1345-‘46, ma si colloca tra la prima e la seconda epistola
a Zanobi, cioè nel 1348-‘49: «Nella [prima] lettera del 1348 il Boccaccio si era rivolto a Zanobi
col “voi”. Invece nella seconda lettera usò il classico “tu”: non perché nei mesi seguenti fosse
avanzato nella familiarità con Zanobi, che doveva conoscere fino da quando egli aveva
frequentato ragazzo la scuola di grammatica del padre di Zanobi, ma perché ora accettava
quella innovazione nella tecnica epistolare che i discepoli del Petrarca accolsero alla prima
lezione dalle lettere del maestro [...]. Ilaro si era rivolto ad Uguccione col “voi”. Perciò quel
dettato è anteriore a questa seconda lettera a Zanobi: che fu scritta poco dopo il [secondo]
rientro a Firenze; e dunque fu combinato dal Boccaccio ancora in Romagna»; G. BILLANOVICH, La
leggenda dantesca, cit., pp. 120-1, n. 3. Ancora: «Il Billanovich – con argomenti di peso decisivo
– considera la lettera come un esercizio retorico del Boccaccio biografo di Dante, scritto forse
poco dopo l’epistola Mavortis miles, diretta al Petrarca, nel 1339»; V. ZACCARIA, Presenze di Dante
nelle opere latine del Boccaccio, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di Silvio Pasquazi,
2 voll., Napoli, Federico & Ardia, 1993, II, pp. 893-903, p. 894. Si osserva, oltre il palese errore nel
riportare la cronologia dell’epistola secondo Billanovich, che la Mavortis miles era una mera
esercitazione retorica e non fu certo inviata al destinatario; giustamente Billanovich parla della:
«lettera che [Boccaccio] aveva immaginato di indirizzare nel 1339 al Petrarca [...], il giovane
dottissimo che vive[va] al di là delle Alpi»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 87.
5
Fondamentale ai fini del presente lavoro, l’innovativo contributo di S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro
e la prima redazione in latino della «Commedia», «Studi sul Bocaccio», XXXII, 2004, pp. 201-35.
6
Di Padoan da tener presenti: la voce Ilaro curata per l’ED; ID., Appunti sulla genesi e la
pubblicazione della «Commedia», «Lettere Italianze», XXIX, 1977, pp. 401-15; ID., Giovanni
Boccaccio e la rinascita dello stile bucolico, in Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante,
cit., pp. 25-72; ID., Il progetto di poema paradisiaco: «Vita Nuova», XLII (e l’Epistola di Ilaro), in
ID., Il lungo cammino del poema sacro, Firenze, Olschki, 1993, pp. 5-23. Padoan si muove entro
un percorso già abbozzato da Branca fin dal 1958: «Non ho preso in considerazione la proposta
ragionatissima del Billanovich [...] di vedere anche nella famosa epistola di Frate Ilario
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

L’epistola di Ilaro ci è conservata dal f. 67r dello Zibaldone, oggi riconosciuto


integralmente autografo del Boccaccio, noto come Laurenziano Pluteo XXIX 8 7. Tale
manoscritto è stato oggetto di studi fin dalla prima metà dell’800, con Sebastiano
Ciampi (1827) e Stefano Audin (1840), ma è con Henri Hauvette (1894) che inizia la
serie dei contributi scientifici, culminata negli anni ’70 del secolo scorso con acquisizioni
fondamentali grazie a Filippo Di Benedetto e, per non marginali aggiunte, a Giorgio
Padoan, concludendosi circa un ventennio dopo con gli studi di Patrizia Rafti e con
quello collettivo di Stefano Zamponi, Martina Pantarotto ed Antonella Tomiello 8.
Lo Zibaldone laurenziano pone notevoli problemi a chi ne analizzi la struttura, in
quanto non solo ha risentito degli interventi di tardi rilegatori che ne hanno ricomposto
con mano non sempre felice la serie che oggi conosciamo, ma perché risente di una
complessa stratigrafia testuale e di una provvisorietà materiale dei fascicoli risalenti
allo stesso Boccaccio. La storia di questo manoscritto è strettamente legata ad un altro
autografo boccacciano, la Miscellanea Laurenziana XXXIII 31: Boccaccio ricavò entrambi
da un artigianale adattamento di un antico codice liturgico palinsesto, contenente un

un’esercitazione letteraria del giovane Boccaccio [...]; varie questioni restano infatti senza
risposta: il tipo di prosa latina è diverso e meno retoricamente sostenuto, la falsificazione appare
gratuita e senza una giustificazione plausibile, vi sono vari errori difficilmente spiegabili; e
soprattutto sembra inesplicabile un passo se si tratta di una trascrizione d’autore»; V. BRANCA,
Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio. I. Un primo elenco dei codici e tre studi , Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, p. 227 e n..
7
Dal lontano A. M. BANDINI, Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae, 5
voll., Firenze, 1774-‘78, II, p. 28, la bibliografia sullo Zibaldone laurenziano si è fatta ormai
ingente, al punto da rendersi necessari appositi repertori, cui si rimanda per esaurienti
riferimenti: G. AUZZAS, I codici autografi. Elenco e bibliografia, «Studi sul Boccaccio», VII, 1973,
pp. 1-21; Bibliografia degli Zibaldoni di Boccaccio (1976-1995), dati raccolti da C. Aresti et al.,
elaborati da F. Bianchi e A. Magi Spinetti, Roma, Viella, 1996. Del prezioso manoscritto esiste una
riproduzione in fac-simile a cura di G. BIAGI, Lo Zibaldone boccaccesco mediceo-laurenziano Plut.
XXIX 8, Firenze, Olschki, 1915, la cui Introduzione, con l’elenco analitico dei testi per la sola
sezione allora ritenuta autografa (ff. 45-77), è ristampata in ID., Lo Zibaldone boccaccesco della
Medicea Laurenziana, «La Bibliofilia», XVII, 1915, pp. 45-53. Un fondamentale passo avanti per il
riconoscimento dell’integrale autografia e per numerosi aspetti paleografici e filologici è opera di
F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., e Mostra di manoscritti, documenti e edizioni. Firenze,
Biblioteca Medicea Laurenziana 22 maggio-31 agosto 1975, a cura del Comitato Promotore, 2
voll., Certaldo, Comitato Promotore VI centenario, 1975, I, pp. 117-22, schede nn. 100 e 101
curate dallo stesso Di Benedetto; cfr. altresì A. DE LA MARE, The Handwriting of Italian humanists,
Oxford, University Press for the Association internationale de bibliophilie, 1973, vol. I, t. 1, pp.
17-29. Infine, contributi di grande valore si sono susseguiti ad opera di G. PADOAN, Giovanni
Boccaccio, cit.; V. BROWN, Boccaccio in Naples: the beneventan liturgical palimpsest of the
Laurentian autograph, «Italia Medioevale e Umanistica», XXXIV, 1991, pp. 41-126; P. RAFTI,
«Lumina dictionum». Interpunzione e prosa in Giovanni Boccaccio. I, «Studi sul Boccaccio», XXIV,
1996, pp. 59-121, e EAD., «Lumina dictionum». Interpunzione e prosa in Giovanni Boccaccio. II,
ivi, XXV, 1997, pp. 239-67; S. ZAMPONI, M. PANTAROTTO, A. TOMIELLO, Stratigrafia dello Zibaldone e
della Miscellanea Laurenziani, in Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura, riscrittura, a cura
di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati, 1998, pp. 181-258. Utile messa a punto H. W.
STOREY, Contesti e culture testuali della lettera di frate Ilaro, «Dante Studies with the Annual
Report of the Dante Society», CXXIV, 2006, pp. 57-76.
8
Quest’ultimo studio, per molti aspetti definitivo, mostra tuttavia palesi incongruenze proprio sul
punto di maggior interesse ai fini del presente studio, per cui si daranno i debiti elementi nel
seguito.
3
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

graduale in grafia beneventana della seconda metà del XIII secolo, di cui il Certaldese
aveva acquistato a Napoli, intorno al 1330-‘35, otto fascicoli non consecutivi 9.
L’originaria scrittura fu accuratamente erasa e il codice smembrato in vario modo per
servire ai fini del giovane letterato 10. La struttura del codice è resa ancor più complessa
dal ricorrere di più livelli di scrittura sovrapposti alla originale beneventana 11.
Sulla scorta del più recente e completo studio dello Zibaldone, procediamo ad un
essenziale inquadramento delle prime due sezioni, le quali interessano limitatamente ai
presenti fini. Il primo gruppo di fogli, numerati 2r-25v 12, costituiti da tre quaterni
palinsesti, con scrittura a due colonne, contiene un’opera di Andalò del Negro
(astronomo e geografo genovese [1260-1334]), il Tractatus de spere materialis, e la
prima parte di una seconda, il Tractatus theorice planetarum. Sulle ragioni
dell’interruzione Padoan ha ritenuto, su base codicologica, che la mancanza fosse
imputabile alla caduta di un fascicolo, visto che una mera caduta di interesse per
l’opera del maestro genovese, di cui Boccaccio intese le postreme lezioni a Napoli
(Andalò vi morì nel 1334), mal si concilierebbe con le sicure riprese in opere più tarde
quali la Genealogia e le Esposizioni. Tuttavia l’analisi materiale del codice rivela che se
anche vi fu caduta di un fascicolo, esso sarebbe stato insufficiente a recepire l’intera

9
Tali fascicoli costituiscono gli attuali ff. 2-25 e 46-77 dello Zibaldone, e i ff. 1-45 e 66-73 della
Miscellanea.
10
«Before writing over them [scil. i fogli del graduale], Boccaccio first cut in two [...] the original
bifolia of a codex which, because of its large size and spacious margins, must have served as a
choir book. He then folded in two most of the separated leaves to make new bifolia; in
approximately a dozen instances, however, he cut into two [...] the already separated leaves»; V.
BROWN, Boccaccio in Naples, cit., p. 44.
11
«Non tutti i fogli provenienti da quel codice erano destinati in un primo tempo ad accogliere i
testi che vi troviamo ora. In molti di essi, infatti, è ancora visibile una rigatura verticale su
quattro linee delimitanti due colonne anche nelle pagine dove il testo attuale è a una sola
colonna centrale o a piena pagina [...] si notano delle rasure che hanno fatto sparire – talvolta
completamente – alcune parole, la cui posizione fa pensare a titoli sovrastanti un testo disposto
appunto su due colonne [si tratta dei Facta et dicta di Valerio Massimo, ben noti al Boccaccio a
partire proprio dal periodo napoletano] nel f. 56r dello Zibaldone, il più tormentato di questi
palinsesti, si sono stratificate dunque tre scritture: quella del primitivo testo liturgico, quella del
testo su due colonne, quella del[la corrispondenza con Checco Rossi]; anzi [...] in alcuni punti si
ha la sovrapposizione di una quarta scrittura, poiché il nostro apportò qualche correzione al suo
carme»; F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 93-4 e n. 2.
12
«Il foglio oggi segnato 1 è un antico foglio di guardia proveniente da un omeliario del sec. XII.
Sul recto v’è un indice parziale scritto nel sec. XVII»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 200 e
n. 84.
4
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

parte residua13. Al di là di minime divergenze, non vi è comunque dubbio nel datare le


trascrizioni in esame al primo periodo napoletano, convenzionalmente 1334-‘35.
Il successivo gruppo, ff. 26r-45v, deriva dalla giustapposizione di un corpus di fogli
estranei al graduale beneventano e si compone di 2 quaterni e 4 fogli singoli, non
palinsesti, con scrittura a piena pagina. Questa sezione dello Zibaldone è nel contempo
la più antica (ff. 26r-45r), in quanto contiene testi ricopiati da Boccaccio quando era
ancora a Firenze e vi frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del
più noto Zanobi (1326-‘27 circa) 14; e la più tarda (f. 45v), visto che Boccaccio vi ricopiò
tre alfabeti e l’epigrafe greca scoperta a S. Felice ad Ema (1367). Per la terza e ultima
parte lo scandaglio analitico sarà spinto più a fondo, essendovi collocato il testo di
principale interesse ai nostri fini15.
Seguendo le risultanze codicologiche e paleografiche disponibili, si distingueranno tre
sezioni, per ognuna delle quali sarà dato un essenziale corredo di note esplicative.
Ciascun riquadro, secondo la sequenza dei fogli, fornisce notizie sulla mise en pàge, i
principali testi contenuti e la datazione. La datazione, da intendersi convenzionale, è
riportata in grassetto quando è pressoché certa per elementi interni al testo; è
sottolineata quando si basa su ipotesi proposte dagli autori dello studio collettivo
(Zamponi et al.); senza alcuna evidenza ove la data, sebbene non certa, sia
comunemente accolta.

13
«The corollary to this hypothesis would suggest that Boccaccio did not copy the remainder of
the Tractatus theorice planetarum onto now missing portions of G [scil. l’originale codice
liturgico], even though he used those sections in the Genealogia deorum and Esposizioni. While
the catchword at the bottom of [Zib. 25v] points to the continuation of the text, the leaves now
lacking in the eight quires would not be sufficient to contain the rest. Nor does the continuity of
the palimpsest liturgical text contained in the first three quires permit addition [...]. Di Benedetto
[...] estimates that two more quaternions would have been necessary»; V. BROWN, Boccaccio in
Naples, cit., p. 120 e n. 84.
14
I testi sono: il Liber de dictis philosophorum, l’Antiquarum hystoriarum libellus, la Sybillinorum
verborum interpretatio, l’Epistula Alexandri ad Aristotilem.
15
Un esaustivo elenco dei testi contenuti nello Zibaldone è in F. DI BENEDETTO, Presenza di testi
minori negli Zibaldoni, in Gli Zibaldoni di Boccaccio, cit., pp. 13-28, alle pp. 26-8.
5
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ff. 46r-59v (1 quaterno, 2 fogli singoli, 1 duerno)

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali


Datazione
1. 46r due colonne Liber sacrificiorum 1339
2. 46v-50r piena pagina Ecloga di GdV al Mussato
1339/1345-‘48
3. 50v due colonne Epist. Amico amicus a Zanobi 1348
4. 51r-55v due colonne Epistt., Dissuas. ad Ruf., Catilin. I
1339
4.a. 51rA Crepor celsitudinis 133916
4.b. 51rA-B/51vA Nereus amphytritibus17 1339
4.c. 51vA-B/52rA-B Mavortis miles
1339
5. 56r due colonne Corrisp. con Checco Rossi 1348
6. 56v-59r piena pagina Faunus (prima redazione)
1348
7. 59v due colonne Notizia di Livio, versi vari 1339

Note
 gli schemi di rigatura presentano minime variazioni tra i principali blocchi; in particolare
per i gruppi 2. e 6. essa è leggermente diversa per altezza dello specchio rigato e, quindi,
per numero di linee, ma nella supposta assenza di elementi storico-filologici contrastanti se
ne propone (Zamponi et al.) la coevità (ma cfr. infra);
 per 4. si osservano continue minime variazioni nello specchio di scrittura e, quindi, nel
numero di linee;
 vi è stretta continuità grafica da f. 51r a f. 55v, in particolare per la mise en pàge su due
colonne e l’uso della maiuscola;
 vi è solidarietà codicologica tra i ff. 2-25 e ff. 54-59 di Zib., con i ff. 118 di Misc. (collocati
intorno al 1339), in virtù della complessiva appartenenza ai primi tre fascicoli del graduale
Beneventano (numerati G1, G2 e G3 da Virginia Brown);
 vi è stretta analogia tra f. 46r di Zib. e i ff. 46v-73v di Misc. (collocati entro il 1339);
 il f. 52rB fa eccezione quanto all’uso della maiuscola del suo gruppo di appartenenza, in
quanto non presenta la doppia maiuscola iniziale;
 il f. 59r presenta caratteri misti: testo su due colonne, come il gruppo di appartenenza (ff.
54-59), ma uso della maiuscola come nel gruppo successivo (ff. 60r-66v);

16
«Nonas aprelis III, anno vero Incarnationis Verbi divini MCCCXXXVIIII».
17
Erronea la dicitura, forse dovuta a refuso, di Nereus amphytribus presente nello studio
collettivo di Zamponi et al. (p. 213 e n. 116).
6
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

 il f. 59v è legato alle Satire di Persio per ragioni tematiche, codicologiche e grafiche, con
anche glosse marginali al testo del tutto analoghe ai ff. 46v-73v di Misc. (1339).

Come si può osservare la struttura del codice è quanto mai composita per tipologia di
testi, distribuzione cronologica, mise en pàge, soluzioni grafiche. L’unica datazione
dubbia proposta riguarda l’egloga di Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato. Pur in
assenza di elementi cogenti, la si accetterebbe di buon grado, riportando il testo al
periodo romagnolo di Boccaccio (1345-‘48 circa), se alcuni elementi non avvicinassero
sensibilmente l’egloga a Mussato al Teseida (composto nel 1340 circa), in particolare
per l’aggettivo atteo:
Invero non molto comune, che nell’egloga al Mussato, v. 15, compare chiosato
interlinearmene (achea «idest atteniensi») e nel Teseida è spiegato con maggior respiro (attei
«cioè atteniensi, perciò che la contrada nella quale è Attene si chiama Attica») 18.

E per il ricorrere del nome proprio Alcone (Tes., VI XIX 4), che, presente in Ovidio e
Virgilio con modalità che destano forti perplessità su una ripresa diretta, è invece
presente con connotati particolarmente degni di rilievo proprio:

[Nell’]egloga al Mussato, v. 210, dove a quel nome [...] è apposta la seguente chiosa: “probus
grecus fuit [...] Alcon dicitur, quia viri probissimi nomen habet”. Nel Teseida Alcone è appunto tra
i più fedeli compagni del re Peleo [...] (Tes., VI XIX 4)19.

Inoltre, come segnalato da Di Benedetto e Padoan, l’attuale gruppo di ff. 56-59 è


stato oggetto di errata collocazione da parte di un tardo rilegatore; esso risulta dotato
di caratteri distintivi propri, sicché risulta ancor meno cogente l’aggancio proposto da
Zamponi et al. con i ff. 46v-50r sulla base dello schema di rigatura (del resto non
perfettamente coincidente)20. Infine, e a titolo definitivo, l’egloga a Mussato, come si
mostrerà nel seguito, era già nota a Boccaccio all’altezza delle Rime napoletane e del
Filocolo (1338 circa).
In conclusione, una collocazione dell’egloga mussatiana al periodo romagnolo
principalmente sulla base di un simile schema di rigatura non è minimamente provata,
risultando preferibile apparentarla al gruppo cui il testo risulta codicologicamente

18
G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 30.
19
Ivi, p. 31, n. 24.
20
«Chi riordinò infine lo Zibaldone, nel cercare quale potesse essere il giusto posto dei fogli ora
56-59 [...] si avvide [...] che essi appartenevano al gruppo di fogli dello Zibaldone ora numerati
46-55 [...]. L’inserto tuttavia spicca per la propria autonoma individualità, distaccandosi
chiaramente dalle trascrizioni dei fogli precedenti e seguenti sia per le caratteristiche grafiche
sia per gli ampi margini lasciati in bianco [...] concorda con me [Di Benedetto] nel ritenere frutto
di errata collocazione l’attuale posizione dei ff. 56-59»; ivi, p. 47 e n. 88.
7
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

legato: i ff. 46v-50r sono infatti strettamente solidali ai ff. 51-53 di Zib. ed ai ff. 66-73 di
Misc., gli uni e gli altri datati con sicurezza al 1339, tutti contenenti (fino a f. 55v di Zib.
e, a ritroso, fino a f. 46 di Misc.) testi del tardo periodo napoletano, e tutti facenti parte
del medesimo fascicolo del graduale numerato G8 da Virginia Brown: è quindi evidente
che, con la nota eccezione di f. 50v 21, il blocco di ff. 46-55 sia saldamente ancorato a
quel termine cronologico. Si aggiunga che, a detta degli stessi autori, pur tra continue
variazioni grafiche incomprimibili in Boccaccio, sono numerosi anche i «fatti grafici» che
consentono di apparentare i fogli contenenti l’egloga a Mussato con gli altri fogli del
periodo napoletano: frequenza dei nessi di curve contrapposte, frequenza e forma di 2
= r, il modulo di scrittura, la forma della s sinuosa e la forma della a onciale22.

Ff. 60-72 (4 fogli, 1 quaterno, 1 foglio).

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali


Datazione
1. 60r-63r piena pagina Elegia, Alleg., Ep. a Fed., Epp.
Dant. 1339
2. 63v-64v due colonne Satira di Pier delle Vigne 1339
3. 65r-v piena pagina Sacre famis
133923-‘40/’41
4. 66r-v piena pagina Razzìa di Gadres
1340-‘41/’42
5. 67r piena pagina Epistola di Ilaro
1340-‘41/’42
6. 67v-72v piena pagina Corrisp. Dante - G. del Virg.
1340-‘41/’42

Note
 è ribadita la stretta solidarietà di 66r-v con il gruppo di appartenenza (ff. 60-66);
 il f. 60r-v fa eccezione alla mise en pàge del suo gruppo, essendo il testo disposto
su due colonne.
21
«L’epistola Quam pium, trascritta al f. 50v dello Zibaldone, è contenuta in un fascicolo che è
stato utilizzato in tempi diversi [...] con buona probabilità costituisce l’ultima sezione del
manoscritto [...] fatta eccezione per [...] Zib. 45v»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 210, n.
104.
22
Le informazioni sono tratte da p. 254 dello studio collettivo di Zamponi et al..
23
«Iulii kalendas IIII».
8
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

In questa sezione dovremo discutere più di una proposta avanzata nello studio
collettivo. Osserviamo in primo luogo che, sebbene si ribadisca più volte la stretta
solidarietà del gruppo 60r-66v, per 3. (e di conseguenza per 4.) si propone uno
slittamento di circa 2 anni rispetto alle tre epistole antiquiores di Boccaccio, con ciò
portandoci al postremo periodo napoletano, principalmente per la presenza di un
modulo leggermente più piccolo e di nessi di curve contrapposte un po’ meno frequenti
(68% rispetto a 96%) rispetto ai ff. 51r-52r. Tuttavia, la presenza in Boccaccio di un noto
oltranzismo multigrafico, entro ben distinti moduli cronologici (si veda, tra i molti casi
ordinari, quello monstre di Misc. 27v-38r, risolto ben diversamente dagli autori 24) e
persino entro singoli testi25, avrebbe dovuto indurre più cautela su tali dislocazioni, non
solo; la percentuale dei citati nessi è un termine fragile ai fini di una periodizzazione
minuta, essendo instabile. Al riguardo, la sola cesura cronologica significativa è
incentrata sul cardine convenzionale del 1339: prima di allora la percentuale dei nessi si
aggira intorno al 30%, dopodiché oscilla dal 70% al 90%; per paradosso, il 68% di f. 65r-
v potrebbe farlo apparentare a sezioni datate 1338-‘39 o 1345-‘48. Anche il modulo di
scrittura purtroppo è soggetto in Boccaccio a frequenti variazioni, sicché nuovamente si
potrebbero citare casi di modulo piccolo o molto piccolo per testi sicuramente datati
agli anni 1338-‘39 (f. 46r di Zib. e ff. 46v-73v di Misc.). Ragionevolmente si tratta di
parametri non dirimenti di per sé, quanto piuttosto da associare ad altri elementi
affinché acquisiscano quella pregnanza che, di per sé soli, non hanno. Ma non è tutto.
Lo spostamento di un biennio o quasi della Sacre famis, in assenza di elementi probanti,
risulta tanto più labile vista la forte solidarietà con testi omologhi sicuramente datati al
1339, nonché di una data esplicita del testo stesso (28 giugno 1339). Inoltre è infondato
attribuire ad una data così artificialmente costruita (1341 circa) l’onere di fungere da
24
In modo condivisibile si afferma: «[i ff. 27v-38r di Misc.] rispetto ai testi trascritti in precedenza
sono stati vergati in una scrittura piuttosto anomala [...] Si assiste in questo caso a una scelta
stilistica consapevole; non è altrimenti giustificabile un cambio grafico così repentino ed isolato
rispetto ad altre scritture dei due codici. [Si potrebbe ipotizzare] più semplicemente la
sperimentazione di nuove espressioni grafiche, indotte da un exemplar di particolare pregio [...].
Un terminus ante quem per datare questa sezione della Miscellanea è dato dall’epistola Sacre
famis [...] composta secondo Padoan intorno al 1339 [ma che] è stata però trascritta in un
momento successivo»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 215. Osservato che la composizione
della Sacre famis è del 28 giugno 1339 per attestazione autografa di Boccaccio e non per ipotesi
di Padoan, il punto debole emerge quando si propone di posticipare di anni, all’estremo periodo
napoletano, i testi inclusi nei ff. 65r-66v di Zib. e, dopo di essi, di portare i successivi al periodo
fiorentino appigliandosi a differenze grafiche molto meno pronunciate che quelle rilevate (e
obliterate…) per Misc. 27v-38r.
25
È il caso della Crepor celsitudinis, dove le lettere maiuscole cambiano di modulo tra prima e
seconda parte: «L’esame del testo e della sua articolazione interna mostra chiaramente la
diversità tra la prima e l’ultima parte»; P. RAFTI, «Lumina dictionum», cit., p. 77; cambiamenti di
modulo della lettera evidenti anche nella Nereus amphytritibus lymphis, in coincidenza con il
cambio di colonna da A a B. Ma i casi cosiddetti ordinari sono numerosi, come nella Dissuasiones
Valerii ad Rufinum (ff. 53r-54r) e nella Oratio prima in Catilinam (ff. 54rB-55v).
9
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

terminus post quem per i testi immediatamente successivi (ff. 67-72), in modo da
doverli dislocare al periodo fiorentino a dispetto di palesi disergie nei parametri grafici.
Nel periodo fiorentino, infatti, Boccaccio sviluppa per la prima volta una serie molto
riconoscibile di novità grafiche, ben evidenziate nello studio collettivo: tratti di frego con
funzione esornativa sulle aste ascendenti (cfr. ff. 73r-74v, sicuramente fiorentini);
piccolo svolazzo discendente dal tratto curvo della h; maggior frequenza dei nessi e
delle elisioni; uso della a priva di tratto superiore anche in posizione non contestuale,
con comparsa di un allografo dal tratto sinistro tondeggiante, che richiama la
corrispondente forma corsiva; maggior frequenza delle unioni e legature fra tratti di
lettere contigue; altre variazioni sulla s, sia capitale che corsiva, e sulla r;
complessivamente una maggior attenzione verso una migliore leggibilità.
Ebbene, tali variazioni sono in larga misura assenti nei ff. 67-72, rendendone
metodologicamente poco comprensibile la collocazione al periodo fiorentino. Infine, e a
titolo definitivo, l’analisi dell’uso delle maiuscole mostra un blocco saldamente
omogeneo per i ff. 46v-72v, in virtù di una caratteristica digrafia, perfettamente
consonante con i ff. 17r-38v di Misc. (datati guarda caso intorno al 1339). Nei testi del
periodo fiorentino-romagnolo (1342-‘48), invece, l’uso della maiuscola si
contraddistingue per elementi caratteristici affatto diversi, in virtù di una netta
rarefazione degli allografi e di una progressiva normalizzazione grafico-esornativa 26.
In conclusione, la proposta di spostare a Firenze il gruppo di ff. 67-72 si rivela
infondata. Peraltro, con motivazioni differenti da quelle segnalate nello studio collettivo,
è plausibile un lieve spostamento in avanti della trascrizione della Sacre famis – e dei
testi immediatamente successivi (ff. 65-66) – rispetto alle epistole antiquiores del 1339,
in virtù non tanto dei caratteri di cura formale leggermente diversi tra i gruppi di ff. 51-
55 e 60-66 (risalenti presumibilmente all’influenza degli archetipi 27), quanto per
un’imitazione ora meno pedissequa del modello epistolare dantesco (Billanovich) e per
una leggera modificazione della morfologia interpuntiva (Rafti) 28. Pertanto, contenere lo

26
Scrivono ragionevolmente gli stessi autori: «Quanto tempo intercorra [tra le epistole
antiquiores e la Sacre famis] non si può oggettivamente stabilire: l’analisi paleografica non rivela
però profonde fratture fra i due momenti»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 215.
27
Tale diversità è riconducibile più che ad una distanza di tempo di anni, all’influenza
dell’exemplar, come mostrato da Patrizia Rafti al termine della sua ineccepibile analisi: «Se il
copista è lo stesso per tutti i testi, se i testi hanno in comune la natura prosastica e addirittura
talvolta il genere testuale [...], se il periodo di trascrizione è il medesimo, la difformità
interpuntiva tra un testo e l’altro non può essere attribuita allo scrivente, ma alla realtà grafico-
testuale dell’antigrafo da cui questi traeva di volta in volta la propria copia. Dunque acquista
un’evidenza nuova la tesi di un Boccaccio attento agli aspetti distintivi e formali dell’antigrafo e
quindi scrupoloso nel riprodurli»; P. RAFTI, «Lumina dictionum», cit., p. 264.
28
La leggera variazione della morfologia del segno interpuntivo «costituisce un’ulteriore
conferma grafica di una qualche dislocazione cronologica dell’Allegoria mitologica e dell’epistola
Sacre famis rispetto agli altri testi della stessa fase grafica»; ivi, p. 73 e n. 22.
10
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

spostamento entro il 1340 si rivela l’attribuzione cronologica più ragionevole per 65r-
66v.
Per ragioni identiche a quelle appena viste, lo spostamento proposto di f. 67r (nonché
dell’intero blocco di ff. 67-72) al periodo fiorentino è da ricusare 29. Per completezza
bibliografica, si segnala che Di Benedetto segue da presso Billanovich e colloca la
trascrizione ilariana addirittura al 1348-‘49, il che è certamente errato; mentre Padoan
opta per il tardo periodo napoletano (1340-‘41) per motivazioni, approfondite subito nel
seguito, che chiamano in causa la data della corrispondenza tra Dante e Giovanni del
Virgilio. La datazione delle egloghe è il punto-chiave per la collocazione della sezione
dantesca dello Zibaldone. L’esame cronologico della trascrizione della corrispondenza
mette in evidenza alcune incrinature nella ricostruzione, per altri versi ammirevole,
elaborata dagli autori dello studio collettivo. Riportiamo il passo cruciale:

Tralasciando la questione dell’autenticità dell’egloga [...] ricordiamo solo che, accanto alla
tradizionale attribuzione agli anni del primo soggiorno romagnolo (1345-‘48, con la quale
concorda anche Di Benedetto), è stata da Giorgio Padoan avanzata la proposta di anticiparne la
copia alla fine degli anni ’30, prima cioè del ritorno del Boccaccio a Firenze (1341). Questa
ipotesi si fonda sulla possibilità di reperire già a Napoli i testi trascritti, sul carattere
essenzialmente scolastico di tutte le opere offerte dai ff. 46r-72v dello Zibaldone e sulla
«evidente difformità grafica» dei ff. 46v-50r rispetto al f. 50v, databile al 1348 o poco dopo [...].
Sempre agli stessi anni, 1345-‘48, sono ricondotti dalla maggior parte degli studiosi il frammento
epico di Giovanni del Virgilio e lo scambio di versi tra Giovanni del Virgilio e Guido Vacchetta [...]
ancora una volta in base ai contatti che Boccaccio avrebbe allacciato in questo periodo con
l’ambiente romagnolo e la conseguente possibilità di venire a conoscenza della produzione
poetica locale. La potenziale debolezza di argomenti del genere è stata messa in luce dal lavoro
di Augusto Campana, in cui viene ricostruita una trama di rapporti, personali ed epistolari, che
poteva offrire al Boccaccio la possibilità di conoscere testi d’origine romagnola prima del 1345
ed in cui si segnalano echi della corrispondenza Guido Vacchetta-Giovanni del Virgilio in un’opera
del 1341-‘42, la Commedia delle ninfe fiorentine30.

Le materiali incongruenze presenti in questo passaggio denunciano un chiaro


fraintendimento delle fonti consultate. In breve, secondo l’argomentare dei proponenti
Boccaccio avrebbe potuto disporre della corrispondenza tra Giovanni del Virgilio e Guido
Vacchetta già a cavallo tra il periodo napoletano e fiorentino (1341-‘42), come
29
Senza ripetere gli argomenti già riportati, ci si limita a citare il seguente passo di Patrizia Rafti:
«Topograficamente successive alla c. 65 sono invece le altre composizioni in prosa prese in
considerazione: il riassunto in latino di una parte del Guerre de Gadres (c. 66) e l’epistola di frate
Ilaro a Uguccione della Faggiuola (c. 67r), le quali presentano tuttavia nel complesso
caratteristiche formali, e grafiche in particolare, tali da farle ritenere inserite nello Zibaldone in
un tempo molto vicino a quello in cui lo furono le altre dello Zibaldone»; ivi, p. 240.
30
Ivi, pp. 185-6.
11
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

mostrerebbero richiami presenti nella Commedia delle ninfe fiorentine e chiamando a


conforto un noto studio di Augusto Campana; la corrispondenza tra Dante e Giovanni
del Virgilio sarebbe invece stata disponibile al Certaldese solo nel periodo romagnolo
(1345-’48), conclusione vanamente osteggiata da Giorgio Padoan sulla base di mere
considerazioni di contesto culturale; tali considerazioni sarebbero contraddette, per di
più, dallo stesso Campana. Ebbene, per corrispondere al vero, ciascuna di queste
asserzioni va diametralmente invertita: Padoan ha mostrato, sulla scorta degli studi di
Quaglio e di propri originali reperti, che la Commedia delle ninfe fiorentine risente di
richiami della corrispondenza tra Dante e Giovanni del Virgilio e non certo di quella tra il
maestro bolognese e Guido Vacchetta. A sua volta Augusto Campana, lungi dal
controvertire tale posizione, vi si è ripetutamente mostrato incline; una prima volta
proprio nello studio proposto inspiegabilmente come fonte contraria:

[Dei testi scambiati da Dante con Giovanni Del Virgilio] è stato supposto che [Boccaccio] li
abbia trovati e trascritti in Romagna intorno al 1345-‘48 [...]. Ora bisognerà vedere come
coordinare questa ipotesi con gli echi della corrispondenza già presenti in un’opera del Boccaccio
del 1341-‘42, la Commedia delle ninfe fiorentine31.

Una seconda volta Campana avalla la possibilità che Boccaccio abbia recepito le
egloghe delvirgiliano-dantesche già a Napoli, allorché Graziolo Bambaglioli, chiaro
giurista e Cancelliere del Comune felsineo, oltre che commentatore del poema
dantesco, vi si portò esule (seconda metà del 1334). Tale posizione, espressa
oralmente, è riferita in modo fededegno da Padoan, che conclude:

Gli incastri ora si congiungono perfettamente: in un elenco di testi scolastici, ricco soprattutto
per il settore giuridico ma con titoli anche per il grammaticale, databile intorno al 1340 – la
segnalazione è di Augusto Campana [comunicazione al II Congresso Internazionale di Storia del
Diritto, tenutosi a Venezia nel settembre 1967] – compare la corrispondenza eglogistica di Dante
e Giovanni del Virgilio, unitamente al Diaffonus [Epistole Dantis et magistro Johannis de Virgilio
et diaffanus eius]32.

Anche Di Benedetto, che recepisce come di consueto le indicazioni di Billanovich


sulla collocazione romagnola della trascrizione, segnala diligentemente la presenza di
riserve da parte di Campana e di altri 33. Non basta. E’ proprio Campana che assevera la
piena solidarietà grafica della corrispondenza intercorsa tra Del Virgilio e Vacchetta con

31
A. CAMPANA, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e Dante), «Rivista di Cultura Classica e
Medievale», VII, 1965, pp. 252-65, a p. 254 e n..
32
G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 65 e nn. 130 e 131.
33
F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 99 e n. 3.
12
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

gli altri testi romagnoli del gruppo di ff. 75r-76r e di parte di f. 77r, come per primo già
Billanovich, concordemente seguito da Di Benedetto e Padoan:

Per dire tutto, c’è un’identità perfetta di scrittura e d’inchiostro tra il De quatuor temporibus
anni e le due corrispondenze poetiche che lo seguono, e praticamente anche il frammento epico
che lo precede34.

Infine, le condizioni di contesto culturale richiamate con acume da Padoan non sono il
presupposto per la datazione del gruppo eglogistico agli anni napoletani, ma il risultato
di una salda dimostrazione filologica avviata da Quaglio e da tempo, come mostra ab
illo tempore l’apertura di studiosi come Branca e Campana, comunemente accolta 35.
In conclusione, la proposta di inversione cronologica tra le egloghe scambiate da Del
Virgilio con Dante e Guido Vacchetta va decisamente abiurata e riportata nell’alveo
della consolidata communis opinio che, coerentemente con i caratteri grafici e
codicologici, attribuisce la prima al periodo napoletano (1340-’41), l’altra a quello
romagnolo (1345-’48). Del resto, non si comprenderebbe perché mai l’interesse di
Boccaccio si sarebbe appuntato su un testo delvirgiliano del tutto minore diversi anni
prima di essersi imbattuto in quello maggiore (la corrispondenza con Dante) che invece,
con ogni probabilità, fu il motore delle successive ricerche in area romagnola di testi
contigui, come, appunto, la corrispondenza con Vacchetta.

34
A. CAMPANA, Guido Vacchetta, cit., p. 254.
35
Mirabile per informazione e sintesi il seguente passo di Giuseppe Scalia, corredato da
esaurienti riferimenti bibliografici nelle note che qui, per brevità, si omettono: «Questo rapporto
ideale [tra Dante e Boccaccio] è documentato fra l’altro da una ricca serie di riecheggiamenti
danteschi già nelle opere del periodo napoletano, dalla Caccia di Diana, al Filostrato, al Filocolo,
alle epistole retoriche Crepor celsitudinis e Mavortis milex del 1339, al Teseida [...]. Era opinione
comune che il Boccaccio fosse venuto a conoscenza di queste egloghe durante il primo
soggiorno romagnolo (1345-1348) e le avesse allora trascritte, con altro, nel suo codice di
servizio. Un’accuratissima indagine [condotta dal Padoan] sulla fascicolazione e composizione
del manoscritto e tutta una vasta gamma di argomentazioni critiche di notevole peso porta
adesso a talune conclusioni nuove, quali l’arretramento della data al 1339 circa [...]. Tra i vari
riecheggiamenti delle egloghe segnalati da Antonio Enzo Quaglio nella sua edizione della
Commedia delle ninfe fiorentine del Boccaccio [...] non trovo richiamato dal Padoan, se non erro,
l’arrectis auribus di Egl., III 24, cui riferire «l’orecchie ritto» di Com., III 12»; G. SCALIA, «Arnus» -
«Sarnus». Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano, «Studi Medievali», XIX, 1979, pp. 625-55,
pp. 647-8 e n. 139.
13
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ff. 73-77 (3 fogli, 1 bifolio).

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali


Datazione
1. 73r-74v piena pagina Notamentum, Epp. Petr.
1342-‘44
2. 75r-76r piena pagina Versi di Gio. del Virg., De quat.
temp.,
corrisp. Gio. del Virg./G. Vacchetta
1345-‘48/’41
3. 76v-77r piena pagina Argus
1345-‘48

Note
 la rigatura di 1. è epigrafica (un unicum dello Zibaldone e della Miscellanea);
 lo specchio scrittorio di 2. e 3. è identico.

Per le ragioni esposte in precedenza, questo gruppo va distribuito interamente lungo


il periodo fiorentino-romagnolo (1342-‘48 circa), risultando la retrodatazione della sola
sezione delvirgiliana fondata su una serie di fraintendimenti dei proponenti.
Le conclusioni di questa parte dell’analisi conducono ad una prima rilevante
osservazione: pur con le inevitabili approssimazioni del caso, la determinazione
cronologica più attendibile porta il testo ilariano al 1340-‘41; la lieve posdatazione,
avanzata in modo non convincente nello studio collettivo, opta per l’inizio del secondo
periodo fiorentino di Boccaccio (1342) e non dà comunque supporto a quanto sostenuto
da Billanovich, nonché da altri sulla sola sua autorità: lo studioso, obbligatosi nei
margini di una prospettiva retoricistica, ha coerentemente circoscritto la datazione al
1348-‘49, termine irricevibile. Altre argomentazioni di grave peso esposte nel seguito
consentiranno di abbandonare definitivamente una posizione critica che, tuttavia, per
esser stata corredata da osservazioni e riscontri molto fini, risulterà per altri versi
comunque illuminante. Infine, pare forse sommario il resoconto offerto da Saverio
Bellomo sul punto, rispetto ad elementi non irrilevanti per una datazione precisa:

14
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Il terminus ante quem più sicuro da assegnare alla composizione dell’epistola di Ilaro dovrà
essere la data dell’ultimo testo inserito nello Zibaldone, che risale alla fine del 1348 (epistola
Quam pium a Zanobi)36.
Si può auspicare che i futuri interventi sull’epistola di Ilaro, sia pro che contro
l’autenticità, non rilancino per poca informazione tale termine (1348). Quando
Billanovich lo propose, negli anni ’40 del secolo scorso, gli studi sul Laurenziano
presentavano ampie lacune scientifiche oggi colmate; del che ogni consapevole
studioso dovrà tener conto.
È merito di Giuseppe Billanovich aver per primo ricomposto in un disegno unitario le
tessere della precoce devozione dantesca del grande novelliere, la quale dovette forse
iniziare in modo nebuloso fin dal periodo scolare fiorentino 37, ma che solo a Napoli,
grazie ad apporti culturali determinanti, portò i suoi frutti. Le opere originali del periodo
napoletano, datate con varie sfumature e dislocazioni tra il 1332 ed il 1341, cominciano
con l’Elegia di Costanza, proseguendo con la Caccia di Diana, l’Allegoria mitologica, il
Filocolo, il Filostrato, le Rime, le epistole latine, il Teseida. Senza pretese di esaustività,
sulla scia di Billanovich e delle successive acquisizioni apportate da Vittore Branca e
Antonio Enzo Quaglio in sede di Edizione Nazionale, si può sommariamente osservare
che la Caccia di Diana (1334 circa) mostra già echi evidenti della Commedia, della Vita
nova e di diverse Rime dantesche. Di pochi anni successiva la composizione dei quattro
dictamina latini (1339), che denunciano la conoscenza sia della Commedia, di cui si

36
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 230-1. Osservato che l’ultimo testo inserito dello
Zibaldone è del 1367 (f. 45v), nella ricostruzione degli aspetti codicologici e paleografici dello
Zibaldone resa da Bellomo si trovano alcuni passaggi non in tutto condivisibili: «L’accoppiamento
dei testi [scil. l’epistola di Ilaro e le Egloghe] può rispondere infatti anche a un criterio [...], visto
che il medesimo fascicolo costituito dalle cc. 60-74, la cui contiguità le analisi dei codicologi
hanno mostrato originaria, contiene anche [...] un breve resoconto dell’incoronazione di Petrarca,
chiaramente collegato alla tematica della laurea poetica [...]. Onde anche l’epistola ilariana
potrebbe aver ottenuto tale collocazione per analogia [...], toccando anch’essa il tema della
gloria [poetica]»; ivi, pp. 228-9. L’intento di apparentare testi dello Zibaldone tra loro molto
diversi (l’epistola di Ilaro e le Egloghe) sulla base del filo tematico della gloria poetica e della
contiguità dei fascicoli appare bisognoso di approfondimenti. Il tema della gloria poetica è del
tutto secondario se non esilissimo nell’economia dell’epistola di Ilaro. Non solo. La contiguità dei
fascicoli segnalata da Bellomo è a sua volta un dato non caratterizzante; data per scontata la
contiguità originaria dell’intero Zibaldone (ad eccezione dei ff. 26-45) e della Miscellanea, in virtù
della comune derivazione dal graduale Beneventano, analisi più approfondite (Brown) hanno
mostrato come la contiguità codicologica tra i ff. 60-74 abbia peculiarità interne non eludibili: i ff.
61-63 e 72-73 di Zib., solidali tra loro e a loro volta con i ff. 35-38 e 42-43 di Misc., fanno parte
del fascicolo numerato G4 da Brown; i ff. 64-71 di Zib. sono tra loro solidali e fanno parte di un
altro fascicolo, numerato G6; di un altro distinto fascicolo ancora fa parte il f. 74, solidale col
gruppo di ff. 39-41 di Misc., che, con altri ff. di entrambi i codici, compongono infine il fascicolo
numerato G5. Pertanto, al di là di una generica contiguità, per il capitale f. 67r opera un diretto
legame di solidarietà con scritti tutti riconducibili ai paraggi del 1339-‘40, al che andava dato il
suo peso. Inoltre, dall’analisi sopra esposta si deduce che la contiguità espressa da Bellomo per i
ff. 60-74 è in certa misura infranta anche dallo sviluppo dei fatti grafici, i quali da f. 73 mostrano
uno stacco ed una non trascurabile evoluzione.
37
Molto a proposito è riportata dal Billanovich la citazione di Dante quale «primus studiorum dux
et prima fax», tratta da una lettera del Boccaccio al Petrarca (Fam., XXI xv 2).
15
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

rinvengono tracce in particolare nella Sacre famis, sia di un’ulteriore epistola dantesca,
oltre le tre sicuramente note perché trascritte 38: l’epistola a Moroello39. Il Filocolo
(all’incirca coevo dei dictamina) mostra a sua volta echi da tutti i testi danteschi fin qui
citati. Il Teseida – composto in larga parte a Napoli nel 1339-‘41, dopodiché compiuto,
ricopiato e glossato a Firenze subito dopo – consente di aggiungere il De vulgari
Eloquentia, secondo la concorde opinione di Billanovich e Branca, accolta da Quaglio. Si
è visto poi, sulla scorta di quest’ultimo, di Padoan e di altri (Scalia), come la Commedia
delle ninfe fiorentine, opera del primissimo periodo fiorentino (1342), denunci riprese
dallo scambio eglogistico danteo-delvirgiliano, così come già il Filocolo all’altezza della
«descrizione del pastore Calmata e soprattutto nell’episodio di Eucomòs»40.
Fondamentale: echi delvirgiliani derivanti dal carme a Dante e dall’egloga a Mussato (si
tratta di passi concernenti il mito di Arione) sono stati notati da Padoan non solo nella
Commedia delle ninfe fiorentine, ma anche in un sonetto sicuramente napoletano
(Rime, VII 2-3) e nell’ultimo libro del Filocolo (V VIII 25):

In tutti questi passi è evidente che il Boccaccio non si rifà alla fonte classica [...] cioè ai Fasti
ovidiani (II 95-116), dove la scena è descritta in modo ben diverso 41.

Sempre nel Filocolo, nel penultimo libro, appare parafrasato il sonetto che
accompagnava l’epistola a Cino. Non databile la conoscenza, virtualmente certa,
dell’epistola ad Arrigo VII, mentre è sicuramente successiva al periodo napoletano la
conoscenza dell’epistola a Cangrande, di cui vi sarebbe eco (molto incerta) nel
Trattatello e (probabile) nelle Esposizioni42.
È d’obbligo a questo punto interrogare il contesto napoletano coevo a Boccaccio, al
fine di identificare nel milieu culturale angioino quelle figure che plausibilmente
rifornirono l’armarium dantesco del grande Certaldese. Per una prima vaga conoscenza
della Commedia si può ascendere in via ipotetica fino al primo periodo fiorentino, al
tempo in cui frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada; ma è sicuramente a
Napoli con Pietro Piccolo da Monteforte che viene in luce un primo possibile tramite
verso il poema dantesco 43. Chiosa Billanovich:
38
Si tratta della III, a Cino, dell’XI, ai Cardinali italiani, e della XII, all’Amico fiorentino
(probabilmente il nipote di Dante, Bernardo Riccomanni).
39
È la IV secondo l’attuale ordinamento.
40
G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., pp. 30-1.
41
Ibidem.
42
Punto della questione in L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit..
43
Pietro, nato nel 1307, scrive a Boccaccio (1372): «Qua de re quod de poesi Dantis Alligerii, cum
primum puer adhuc eam audivi et vidi, continuo dixisse me recolo impletumque video, iam illam
scilicet, vulgari licet ydiomate promulgatam, apud magistros et studiosos in magno pretio,
preconio laudeque futuram, amplius multo tanta dixi sepe et dicam de laudabili libro tuo, tanta
venustate conspicuo tantaque utilitate proficuo. Et iam ipsum apud plerosque magistros sacre
16
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Pietro da Monteforte aveva potuto raggiungere la Commedia ancora giovanissimo [...] calde
ancora a Ravenna le ceneri di Dante [...]. E lo splendore ineffabile del nuovo poema aveva vinto
le dure riluttanze retoriche del lettore lontano per regione e per professione [...] come subito
aveva vinto quelle simili del grammatico bolognese Giovanni del Virgilio 44.

Naturalmente anche altri personaggi possono aspirare a pieno titolo al ruolo di


mediatori danteschi per la Commedia, in primo luogo Sennuccio del Bene. Per il testo
delle epistole disponiamo di tessere oltremodo persuasive. L’epistola a Cino e il relativo
sonetto si avvalgono della presenza a Napoli del destinatario in persona, il quale
insegnò diritto presso lo Studio negli anni 1330-‘32 e che Boccaccio verosimilmente
conobbe. Per l’epistola a Moroello, oltre allo stesso Cino, pone la propria candidatura un
altro precocissimo settatore di Dante, appunto Sennuccio. E’ ancora Billanovich a
cogliere i termini della questione:

Un solo letterato del Trecento, oltre il Boccaccio, vediamo leggere la lettera a Moroello:
Sennuccio del Bene. Sennuccio, a imitazione di quella lettera e della canzone che le era unita,
immaginò di inviare a un amico col sonetto Punsemi il fianco Amor con nuovi sproni la canzone
Amor, tu sai ch’i’ son col capo cano; e riecheggiò insieme in quel sonetto il sonetto che Dante
aveva inviato a Cino coll’altra lettera che il dettatore Boccaccio ebbe davanti nel 1339 [...]. È ora
di accorgerci che il Boccaccio e Sennuccio dovettero incontrarsi: anzitutto perché legati alle
stesse clientele, del Petrarca e di Dante. Mi pare quasi certo che il vecchio esule bianco
Sennuccio, che indirizzò [una sua canzone] al marchese Franceschino Malaspina [...] debba aver
passato al Boccaccio, scolaro dello Studio napoletano, la lettera a Moroello Malaspina e, anche
pare, la lettera a Cino [...] pochi mesi dopo traduceva in una ottava del Filostrato il sonetto del
Petrarca a Sennuccio, Sennuccio i’ vo’ che sappia in qual manera [...]; che Sennuccio doveva
pure avergli trasmesso45.

Sennuccio fu ad Avignone al tempo di ser Petraccolo e, prima ancora, era stato a


Milano al tempo dell’incoronazione di Arrigo VII (cfr. la canzone Da•ppoi ch’i’ ho perduta
ogni speranza), dove con somma verosimiglianza fu anche Dante; fu altresì in relazione
con noti personaggi della corte angioina, come Giovanni Barrili (cfr. la lettera – Var., LVII

pagine et doctores ac peritos et studiosos alios amabiliter valde viderunt, inter alia predicentes,
ut illorum in hoc verba numero referam et non mutem, quod erit adhuc valde predicabilis liber
iste. Qua de re disposui et spopondi illum facere studiosius esemplari et in armario Sancti
Dominici de Neapoli predicatorum ordinis alligatum catenula inter alios sacros libros ad
magistrorum, lectorum atque studentium et predicantium commodum perpetuo collocare»; testo
in G. BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e
Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1955, I, pp. 3-76, alle pp.
48-9.
44
Ivi, p. 17.
45
G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 132 e n. 1.
17
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

– di Petrarca a Barrili, del gennaio 1342, accompagnatoria della Metr., II 146). Egli svolse
un’indiscutibile azione di mediatore tra i due sommi poeti fiorentini del Trecento e il
giovane Boccaccio, che poté recepire echi della stessa Commedia anche da Sennuccio,
il quale, nella citata canzone, ne mostra una conoscenza talmente precoce (ad esempio
di Inf., V 103, come attesta il: «Tu quel che a nullo amato amar perdona»), da aver
tratto in inganno Michele Barbi, che giunse ad ipotizzare una relazione di dipendenza
inversa, da Sennuccio a Dante, poi controvertita da Contini 47.
Graziolo Bambaglioli, secondo un’intuizione di Padoan (felicissima per chi scrive),
corroborata dal Campana (cfr. supra), è il primo candidato per la trasmissione di testi di
area bolognese ruotanti attorno a Giovanni del Virgilio, a sua volta maestro di
grammatica a Bologna negli anni a cavallo del 1320:

Dal 1334 [a Napoli] è, esule dalla sua Bologna, il commentatore della prima cantica Graziolo
Bambaglioli: in grazia della posizione pubblica che questi aveva occupata nella sua città (già
notaio e ufficiale del Comune, membro del Consiglio degli Anziani e dal 1321 cancelliere),
appaiono nella luce non dell’assurdo presumibili suoi contatti col maestro che tanto era stato
vicino all’ammirato Alighieri e che aveva insegnato nello Studio bolognese dal 1321 al 1323 48.

Qualche vago titolo, sul punto, potrebbe vantare il dotto Paolo da Perugia, forse
tramite per l’arrivo di Cino allo Studio angioino, che a Napoli giunge proveniente proprio
dal capoluogo umbro:

Paolo fu unito al Boccaccio da viva stima ed amicizia, gli passò idee e libri. Quando più tardi,
dopo il rientro del Boccaccio a Firenze, commentò [rectius: ricopiò glosse di un commento a]
Persio [...] il perugino si avvalse nelle sue chiose delle Allegorie ovidiane di Giovanni del
Virgilio49.

Un’ulteriore tessera, estremamente suggestiva, può completare il quadro:

46
Con buona ragione Scarpati e Billanovich ritengono che in quel periodo (1341), forse sul
richiamo delle magnifiche celebrazioni pubbliche tributate al Petrarca (febbraio 1341), di cui fu
sodale fin dagli anni avignonesi, Sennuccio fosse effettivamente a Napoli; cfr. G. BILLANOVICH, Lo
scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, pp. 74-81; C. SCARPATI, Da
Dante al Petrarca e dal Petrarca al Boccaccio. II. Tra Petrarca e Boccaccio: alcune schede
biografiche su Sennuccio del Bene, in Il Boccaccio nelle culture e nelle letterature nazionali, a
cura di F. Mazzoni, Firenze, Olschki, 1978, pp. 595-604, p. 602.
47
Cfr. ora l’importante studio monografico di D. PICCINI, Un amico del Petrarca: Sennuccio del
Bene e le sue rime, Roma-Padova, Antenore, 2004.
48
G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 35.
49
Ivi, p. 36.
18
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Infine a Napoli nel 1338 arrivava, alfiere di quel Petrarca che nel 1320 aveva con ogni
probabilità ascoltato a Bologna le lezioni del Del Virgilio e che conobbe per tempo l’opera del
Mussato, Dionigi da Borgo S. Sepolcro 50.

Dionigi, notoriamente legato all’entourage cardinalizio, aveva stretti legami con i


destinatari di un altro testo dantesco che, non casualmente, troviamo ricopiato dal
giovane Boccaccio, l’epistola ai cardinali italiani 51. Quest’epistola potrebbe tuttavia
esser stata passata al Certaldese anche da Sennuccio del Bene, che fu a sua volta
familiare del potente cardinale Giovanni Colonna, ipotesi preferibile per chi scrive,
anche alla luce di quanto si dirà conclusivamente (cfr. infra). Naturalmente, non si è
voluto, né lo si sarebbe potuto, esaurire la raffigurazione di un intero milieu culturale,
quanto mai intricato e denso di scambi. Qualche tessera potrà essere meglio
riposizionata, altre potranno utilmente esservi aggiunte. Di una cosa, tuttavia, non è
lecito ormai dubitare: a Napoli Boccaccio, lungo la sua lunga ed operosa vigilia
dantesca, ebbe accesso a fonti di prim’ordine grazie a cui alimentare il suo imponente
dossier con tutti o quasi i testi fondamentali. In breve, il Certaldese a Napoli, e poi più e
meglio a Firenze52, si trovò in una posizione talmente felice da doversi guardare con
molta cautela all’ipotesi di infiltrazioni dantesche per dir così eterodosse. Egli poteva
accedere a fonti numerose e molto vicine a Dante, così come, senza soverchio sforzo,
poteva provvedersi di riscontri dirimenti, quanto meno su questioni capitali quali
l’autenticità di un testo.
Non pochi i punti critici della tesi, portata ad un alto grado di suggestività da
Billanovich, secondo cui Boccaccio avrebbe costruito per fini filodanteschi, certo non
fraudolenti, il testo ilariano. Billanovich adotta un’impostazione marcatamente
retoricistica, per la quale passaggio propedeutico alla comprensione (e costruzione) di
un testo è la diligente ricerca dei modelli e delle fonti che l’hanno ispirato. Su tali basi,
potendo vantare una conoscenza vastissima e ineguagliata del nostro Trecento, egli ha
prodotto una serie impressionante di richiami tra le opere di Boccaccio (dantesche e
non) e temi e luoghi letterari del poeta fiorentino. Particolarmente insistiti, secondo lo
studioso, gli echi che rimandano l’epistola del monaco lunigianese a: Monarchia,
Epistola IV, XI e XII, Convivio, Egloghe, De vulgari e naturalmente la Commedia. Tuttavia
se sotto l’aspetto retoricistico la tesi è argomentata in modo eccellente, altri profili
restano sprovvisti di adeguata risposta.

50
Ibidem. Cfr. inoltre Dionigi da Borgo Sansepolcro fra Petrarca e Boccaccio. Atti del Convegno,
Sansepolcro 11-12 febbraio 2000, a cura di F. Suitner, Città di Castello, Petruzzi, 2001.
51
Dionigi era particolarmente legato ai cardinali Napoleone Orsini e Giovanni Colonna.
52
Dove trovava ancora viventi i figli del poeta, in particolare Jacopo, e altri nomi celebri di
provata contiguità dantesca, su tutti Giovanni Villani e Sennuccio del Bene.
19
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

In primo luogo, occorre tener presente che Boccaccio rifuse notizie dell’epistola
ilariana non solo in testi sospetti d’apologia, quale ad esempio il Trattatello, ma anche
in testi impegnati sotto il profilo scientifico, quale la Genealogia deorum, ed esegetico,
quali le Esposizioni; col che si verrebbe a fare del Certaldese non solo un abile retore,
ma un deliberato falsificatore delle memorie dantesche, e sia pure per nobili fini quali la
difesa del poeta fiorentino, della sua opera e delle sue scelte linguistiche. Infine, e a
titolo definitivo per questo tipo di argomento, è inimmaginabile che Boccaccio
travasasse notizie dell’impostura ilariana in un testo topico della sua militanza poetica,
nell’istante epocale della trasmissione della Commedia a colui cui affidava il compito di
accogliere Dante nell’empireo culturale del tempo, Francesco Petrarca, che di
quell’empireo era l’indiscusso arbiter et magister; dicasi il carme Ytalie iam certus
honos (1352 circa):

Novisti forsan et ipse, traxerit hunc iuvenem studiis per celsa nevosi Cyrreos mediosque sinus
tacitosque recessus nature celique vias terreque marisque, aonios fontes, Parnasi culmen et
antra, Iulia Pariseos dudum serusque britannus (vv. 12-7)53.

Billanovich, che intervenne con la propria personale autorevolezza per spegnere la


lunare polemica un tempo accesa da Aldo Rossi sulla falsificazione delle egloghe
dantesche, invocò con piena ragione l’assurdità di un Boccaccio spacciatore di propri
falsi all’accademico Pietro da Moglio, al contiguo Checco Rossi ed all’austero Petrarca 54.
Ma, salvo errore dello scrivente, egli va qui vicino a far compiere al Certaldese un fallo
molto simile.
53
Questo aspetto è ben sottolineato da Billanovich stesso: «L’intenzione del Boccaccio, che [nel
carme a Petrarca] interpola l’epistola a Moroello e quei ricordi del Purgatorio colla Cronica del
Villani, è di presentare Dante che percorre la Lunigiana per recarsi a Parigi»; ID., La leggenda
dantesca, cit., pp. 87-8); ancora: «[All’atto di comporre il carme al Petrarca vediamo che]
l’affezione con cui il Boccaccio covò le fantasie che gli erano gradite ora lo eccitò a condensare
nel ricordo esplicito di Parigi la perifrasi neutra “regioni ultramontane”, oltre cui Ilaro non aveva
potuto forzare il suo calamo spuntato di dettatore»; ivi, p. 98; la medesima convinzione viene
infine ribadita: «Prima la genericità accademica del dictamen [ilariano] e poi la rigida dignità
lirica [del carme al Petrarca] solo avevano permesso al Boccaccio nella lettera di Ilaro e nel
carme rivolto al Petrarca di nominare “i paesi oltramontani” e la “giulia Parigi”»; ivi, p. 114. Fu
poi naturalmente recepito dai successivi, per tutti Vittorio Zaccaria, che parla della «conferma di
notizie dell’epistola di Ilaro, come quella del viaggio a Parigi [nei versi del carme, mossi da un]
sincero affetto per il poeta, conosciuto dal Boccaccio appena diciassettenne a Napoli, nel
contatto con Cino da Pistoia, con Graziano (sic) de’ Bambaglioli e forse con Giotto»; V. ZACCARIA.,
Presenze di Dante, cit., p. 895.
54
Sulla complessa questione si aggiunge ora un importante reperto, scoperto da Paola Allegretti.
Si tratta di un acrostico, dotato di suggestivi e persuasivi caratteri di simmetria, presente nella
prima egloga dantesca, che il Boccaccio, presunto falsificatore, non mostrerebbe neppure d’aver
riconosciuto: «Se Boccaccio, oltre che copista, fosse anche autore dell’egloga Vidimus in nigris,
come si è pervicacemente sostenuto, l’acrostico sarebbe stato evidenziato con un qualche
espediente grafico. Non rilevato com’è, non riconosciuto dal Boccaccio, che se ne fa tramite
innocente, garantisce la spettanza del testo ad altro autore che lui, ossia a Dante»; P. ALLEGRETTI,
Un acrostico per Giovanni del Virgilio, «Studi Danteschi», LXIX, 2004, pp. 289-93, p. 293.
20
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Un secondo capitale argomento contro la tesi della falsificazione (nel senso beninteso
di esercizio retorico) boccacciana è rintracciato da Patrizia Rafti, per la quale l’usus
interpuntivo del grande novelliere nei testi originali si contraddistingue per caratteri
propri, laddove, stante la nota soggezione del Certaldese agli exemplar da cui ricopiava,
il medesimo usus acquisisce per i testi altrui, incluso quello ilariano, caratteri
nettamente variabili:

All’interno dello Zibaldone [...] alla luce di queste considerazioni si può tornare con un
elemento di giudizio nuovo sulla vexata quaestio riguardante l’autenticità della lettera di frate
Ilaro [...]. L’analisi specifica quantitativo-funzionale dei segni interpuntivi all’interno dell’epistola
rivela che, pur essendo essa distinta con sufficiente regolarità, minore è l’accuratezza con cui i
segni vi sono distribuiti rispetto ad altri testi sicuramente autentici. Sia la virgola che il punto
sono utilizzati infatti con criteri che dimostrano una concezione molto superficiale della
membratura del periodo: le proposizioni si susseguono, giustapposte o inserite l’una nell’altra, in
gruppi più o meno complessi, ma spesso lasciati senza alcun segno distintivo interno che ne
rilevi i reciproci rapporti [...]. Un’altra difficoltà rispetto all’uso distintivo boccacciano costituisce
il fatto che non si riscontri il punto all’interno della proposizione con la funzione di separarne i
membri in forma implicita, funzione che gli è propria ed è normalmente rappresentata in tutti i
testi sicuramente da lui composti. In questo caso quindi l’analisi dell’interpunzione sembrerebbe
offrire un elemento a favore dell’autenticità dell’epistola 55.

Una pagina molto fitta riguarda gli errori ed i fraintendimenti di copista, che rendono
poco plausibile un’identità d’autore: del resto, che Boccaccio fosse l’autore del falso fu
già escluso da studiosi del livello di Rajna e Vandelli, che pure nutrivano dubbi sulla
danteità del testo. Tali errori di copista, come traspare dal suo dettato, provocarono un
certo imbarazzo nello stesso Billanovich il quale, persuaso della sua tesi, s’indusse
peraltro a non darvi peso. I punti chiave sono:
1) Svista dapnatur per damnatur (§ 3);

55
P. RAFTI, Osservazioni sull’interpunzione del più antico codice boccacciano (Zibaldone
laurenziano XXIX.8), in Storia e teoria dell’interpunzione». Atti del Convegno internazionale di
studi Firenze, 19-21 maggio 1988, a cura di E. Cresti, N. Maraschio, L. Toschi, Roma, Bulzoni,
1992, pp. 49-63, pp. 57-8. Ancora: «[Il testo ilariano] rimane per la qualità e la tipologia della
distribuzione sempre distante dall’usus del Boccaccio»; EAD., «Lumina dictionum», cit., p. 262.
21
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

2) Anomala variante nel testo: peteret ał quereret56 (§ 6)57;


3) Possibile errore nell’intendere il segno tachigrafico per tantum, inteso tñ e sciolto
in tamen, alla base di un farraginoso raddoppio di avversativa: sed loci tamen (§
6);
4) Svista interogavi per interrogavi (§ 6);
5) Errore pensaris per pensaveris (§ 7);
6) Errore mea pars per una pars e svista Posquam per Postquam (§ 8);
7) Autocorrezione di admirarer in admirari (§ 10);
8) Errore videtur per videbatur (§ 10);
9) Svista tatummodo per tantummodo (§ 10);
10) Autocorrezione di inlustrium in illustrium (§ 11);
11) Possibile errore obiectos per abiectos (§ 11)58;
12) Svista subiuxit per subiunxit (§ 12);
13) Possibile errore prosequēt’, che va sciolto in prosequenter, ma in realtà
prosequerer o meglio prosequentibus (§ 12)59;
14) Errore di anticipo: trasmicterem originariamente di seguito a prosequenter poi
espunto (con tratto orizzontale) (§ 12);
56
«Il codice ha qualcosa di [strano]; ał quereret, vale a dire aliter, od alias (farebbe il medesimo)
quereret [...]. A noi è ben manifesto che ał quereret ebbe a trovarsi scritto in un ascendente, sia
in margine, sia nell’interlinea, per indicare una variante del peteret. Un trascrittore credette
invece d’aver a fare con un supplemento, e trasportò di peso le parole nel testo. Ci troviamo qui
dunque in cospetto di un fraintendimento materiale [...]. Coll’ał, non altrimenti che lezioni
ricavate da un altro esemplare, si contrassegnavano proposte proprie. E di proporre una
sostituzione ał peteret si vede subito un motivo; quid peteret s’era detto un momento prima; e la
ripetizione [...] dovette offendere qualche lettore»; P. RAJNA, Testo della lettera di frate Ilario e
osservazioni sul suo valore storico, in Dante e la Lunigiana, Milano, Hoepli, 1909, pp. 245-6.
57
Billanovich ritiene trattarsi di ripensamento o incertezza d’autore, spiegazione per nulla
convincente. In realtà, già i primi e più attrezzati sostenitori della falsità dell’epistola non
celarono gravi perplessità di fronte a tali ricorrenze: «Taluni pochi errori che il testo della lettera
presenta non si spiegano se non come errori materiali di lettura [...] ed errori siffatti al Boccaccio
non sarebbero sfuggiti, se la lettera l’avesse compilata lui»; G. VANDELLI, «Bullettino della Società
Dantesca Italiana», IX, 1902, p. 91.
58
Bellomo ritiene convincentemente possa trattarsi in tal caso di un mero lapsus calami, cfr. ID.,
Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.
59
Nota sul punto Vania Avellano: «Un nuovo esame autoptico del codice […] conferma che
Boccaccio ha scritto prosequenter […]. L’avverbio […] pur non essendo registrato dai dizionari di
latino classico e medievale (antichi e moderni), è comunque attestato – con il significato di poi,
di seguito – in testi medievali antecedenti l’epistola di Ilaro, per lo più monastici (elemento […]
non del tutto irrilevante dato il tipo di testo)»; V. AVELLANO, Per il testo dell’Epistola di frate Ilaro
(parr. 12-13), «Rivista di Studi Danteschi», IX, 2009, pp. 390-7, p. 394. Avellano fa
un’osservazione ulteriore, interessante ai presenti fini: «In corrispondenza del passo […]
compare un altro errore, in apparenza sanato perfettamente da Boccaccio in fase di trascrizione;
prosequenter è seguito da trasmicterem (sbarrato con un tratto orizzontale), che viene
interpretato come errore d’anticipo del trasmicterem che segue poco più avanti […]. Boccaccio
pare proprio inglobare erroneamente, copiando, due varianti dell’autore (mi riferisco alla frase
quid aliter quereret) […]. Crea difficoltà […] l’et che congiunge i due segmenti, là dove ci si
aspetterebbe un vel o un aliter»; ivi, p. 395. Per queste e simili osservazioni, risulta
antieconomico ritenere Boccaccio autore di un testo che, come copista, avrebbe poi così
pedestremente martoriato.
22
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

15) Possibile errore postulatum per postillatum (§ 13);


16) Possibile omissione dopo Quod quidem di feci o altro equivalente (§ 13);
17) Svista Morello per Moruello (§ 14);
18) Svista oblatonem per oblationem (§ 14).

Si dirà, non tutti i lemmi sono ugualmente rilevanti, molti possono legittimamente
apparire marginali, scusabili se non addirittura controvertibili (sebbene i più recenti
editori si concedano a criteri fin troppo conservativi nell’emendatio)60. Tuttavia ancor
oggi di fronte a tale messe, impressionante rispetto all’esiguità del testo, restano
incrollabili le osservazioni di Pio Rajna, che per primo ne avviò il censimento:

[È da credere che] quando esso [scil. il testo ilariano] venne ad allogarsi nel codice
laurenziano aveva già dietro di sé un passato, che non c’è alcuna necessità di ritenere lungo, ma
che neppure si potrebbe, senza grave imprudenza, pretendere brevissimo. Sta poi inconcusso
che il documento non poté essere fattura di chi lo trascrisse in quel codice [laddove] un esame
attento mostra che la scrittura è proprio la consueta [di Boccaccio] 61.

Si aggiunga un’ulteriore conferma:

[Con riguardo al peteret ał quereret] Non si conoscono altri esempi di trascrizione


boccacciana in cui l’autore-copista abbia inserito correzioni o varianti all’interno del testo,
anziché nell’interlinea o a margine (o provvedendo alla cassazione della parola errata): questo
infatti, e solo questo, era l’uso corrente. Anche Augusto Campana mi ha autorevolmente
dichiarato di non conoscere esempi analoghi di variante d’autore, e di non credere pertanto che
il Boccaccio possa essere, oltre che copista, anche l’autore della lettera ilariana» 62.

Anche per questa via, quindi, la paternità boccacciana dell’epistola non acquisisce
credito. Sul piano strettamente retorico, una forte incongruenza è ben evidenziata da
Padoan:

La trascrizione si ferma qui: ed è evidente che si tratta di un brano – la prima parte di


quell’epistola – poiché alla inscriptio sive salutatio (§ 1), all’exordium (§§ 2-5) e alla narratio (§§
6-14) non fanno seguito – come pure pretendevano le norme dell’epistolografia medievale – le
consuete petitio (in cui verisimilmente il monaco avrà preso occasione dall’omaggio per

60
Per una posizione aggiornata sulla questione testuale si veda B. ARDUINI, H. W. STOREY, Edizione
diplomatico-interpretativa della lettera di frate Ilaro (Laur. XXIX 8, c. 67r), «Dante Studies with
the Annual Report of the Dante Society», CXXIV, 2006, pp. 77-89.
61
P. RAJNA, Testo della lettera, cit., pp. 246-7.
62
G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 11 e n. 24.
23
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

richiedere al signore, secondo l’uso, qualche grazia od esenzione di tasse per il convento),
conclusio e datatio63.

Anche lo stile, retoricamente più dimesso, scolastico, elementare, connotato da una


piatta cultura chiesastica, non pare facilmente attribuibile alla penna del Certaldese,
specie, giusta la datazione di Billanovich, nel 1348-‘49, allorché il grande novelliere
mostra per prove maiuscole di esservisi portato parecchie spanne al di sopra 64.
Possiamo a questo punto aprire concisamente la pagina delle incongruenze interne
dell’epistola, le quali risaltano non solo se confrontate con altri dati sicuri che
conosciamo su Dante e le sue opere, ma con le stesse convinzioni di Boccaccio, il quale
parrebbe talora impigliarsi nelle maglie della sua stessa tela. Padoan coglie
ottimamente tale profilo:

Le notizie offerte dall’epistola ilariana non sempre sono coincidenti con le conclusioni del
Boccaccio: per il quale, non dico la Vita Nuova, ma neppure singole rime in essa poi raccolte
sono riconducibili alla puerizia di Dante [...]. Rimarrebbe poi incomprensibile, ove fosse
invenzione boccacciana, l’indicazione dell’intenzione di dedicare il Paradiso all’aragonese a
fronte dei recisi giudizi danteschi negativi su quel re e della diffusa notizia della dedica [...] a
Cangrande. L’imbarazzo che il Boccaccio onestamente dichiara di fronte ai dati contraddittori,
che egli pur si sente in dovere di registrare, toglie ogni dubbio al proposito (di certo non ci si
inventa una notizia [...] per poi metterne in rilievo la contraddittorietà) 65.

In conclusione, se è vero che l’impostazione retoricistica di Billanovich è la via


maestra per intendere i modelli ed i riferimenti culturali di un testo medievale, è pur
vero che il responso che se ne ottiene appare in tal caso poco convincente, sintomo, se
non si va troppo lontano dal vero, dell’operare di un pregiudizio, sicché il metodo non fu
applicato in modo asettico ma, come traspare fin dalla prosa, monocorde, alla ricerca di
relazioni la cui direzione si presumeva a priori:
63
Ivi, p. 8. Bellomo rettifica: «[Padoan sostiene] a torto che manca anche la petitio,
scambiandola per la sezione in cui devono necessariamente presentarsi le richieste. In realtà i
manuali chiarivano che: “petitio est persone mittentis expressio, quid fieri vel non fieri velit
convenienti affectione declarans. Nec dicitur petitio, quia per eam aliquid postulatur, sicut nec
salutatio, quia sempre salutem contineat, sed ab usu frequentiori nomen accepit” [tratto da:
BONO DA LUCCA, Cedrus Libani, a cura di G. Vecchi, Modena, Società Tipografica Modenese, 1963,
p. 76]». Peraltro, se una petitio vera e propria non era di rigore, ciò non toglie che, se essa vi fu
(il che non si può escludere), semplicemente non fu copiata.
64
Asserisce Bellomo: «Si potrebbe controbattere tuttavia, con un po’ di eccessiva sottigliezza,
che la diversità riscontrabile potrebbe essere dovuta alla volontà mimetica di adeguamento ai
livelli stilistici confacenti al falso monaco»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 214. Resta che
una simile volontà mimetica da falso monaco, unita alla reiterata rifusione che Boccaccio fece
per decenni delle notizie ilariane, ne farebbe un madornale falsificatore: il che oggi è irricevibile;
cfr. F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 296 e
n..
65
G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 10.
24
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ciò che convince Billanovich della correttezza della sua ipotesi è la perfetta consonanza tra
l’ideologia che emerge dall’epistola di Ilaro e quella di Boccaccio, la cui preoccupazione costante
[...] è appunto di conciliare la poesia dantesca e la connessa opzione linguistica con la nascente
cultura umanistica dell’amico Petrarca. Per questo, quella del Billanovich si configura più come
una perorazione, che come una dimostrazione, prestando il fianco ad obiezioni puntuali 66.

Ma è ormai tempo di rivedere l’idea stessa di falso dantesco (dicasi in accezione


tecnica, di testo non d’autore, non necessariamente composto e fatto circolare con
intenti fraudolenti). E l’ipotesi di un Boccaccio falsario, sia pure nei limiti di una pia
fraus finalizzata a difendere il magistero artistico del vate fiorentino, si rivela poco
convincente. La sua adesione a Dante era nota e per promuovere la figura del grande
poeta il Certaldese avrebbe potuto scegliere altri strumenti, legittimi e più consoni al
suo proposito che non un malizioso esercizio retorico. A parere di chi scrive, seppur non
autografo, il Vat. Lat. 3199 è un monumento autentico dell’apostolato dantesco di
Boccaccio, un manifesto della sua abnegazione e del profondo impegno personale. Di
fronte a prove magistrali di tale complessità, la tesi dell’esercizio retorico subdolamente
gabellato per autentico (ché questo fa Boccaccio, se lo si pone autore), onde rifare il
pedigree artistico all’esule, pare introdurre nella questione un coefficiente eccessivo di
banalizzazione.
Un sicuro punto critico riguarda la misura in cui il testo dell’epistola sia storicamente
congruente con i dati altrimenti noti, al fine di valutare in che grado un falsificatore o un
retore avrebbe dovuto padroneggiarli per intessere un testo così ben congegnato da
ingannare non solo quei lontani posteri convinti della sua veridicità, ma anche quei
contemporanei trecenteschi contigui a Dante (Boccaccio a parte, Petrarca, Benvenuto
da Imola, l’Anonimo fiorentino, Filippo Villani) che lo recepirono per autentico. Questo
tipo di analisi si giova di un numero di studi specialistici esiguo, di cui il maggiore è
opera di Vincenzo Biagi (1910) 67. Utili aggiornamenti ed integrazioni vi ha apportato
Padoan nel corso di quasi un ventennio di studi (1975-‘93) 68. Nel prosieguo
analizzeremo prioritariamente gli elementi che oggettivamente richiamano una
collocazione storica, in primo luogo la dedica ad Uguccione della Faggiuola, che obbliga
a porre il testo (o l’ambientazione del falso) tra la metà del 1314 e i primi mesi del ’16,
ossia il tempo in cui egli esercitò il dominio su Pisa e Lucca, nonché la nomina di

66
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.
67
V. BIAGI, Un episodio celebre della vita di Dante. L’autenticità dell’epistola ilariana su documenti
inediti, Modena, Formiggini, 1910. Seconda edizione, con aggiornamento bibliografico, Pisa,
Nistri-Lischi, 1934, da cui si cita.
68
Cfr. qui n. 6.
25
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Federico d’Aragona a re di Sicilia, della metà del 1314 69; non si prenderanno in
considerazione invece elementi che acquisiscono una precisa valenza solo se visti alla
luce di una tesi retrostante, come ad esempio la ricorrenza del nome Ilaro che, per chi
presuppone l’autenticità del testo, è elemento confermativo poiché diffuso proprio
nell’Ordine cui il monaco appartenne:

Un suffragio ad un Ilaro monaco [...] ce lo può dare [...] l’onomastica dell’ordine benedettino,
l’unico dove ricorra il nome Ilàro, (Ilaro, si badi, non Ilario), anche nei secoli XIII e XIV, come si
può vedere nelle storie monastiche del Mabillon, dell’Armellini e di altri 70.

Sarebbe un’impronta digitale della falsificazione (ora divenuta scherzosa), per i


sostenitori della tesi contraria:

Oh autore dell’epistola veramente Ilaro! Egli ride alle spalle di generazioni di studiosi
che non hanno fatto caso al suo nome parlante 71.

1) Egregio et magnifico viro domino Uguiccioni de Fagiola: la salutatio è somigliante


ai titoli di magnificus et potens che i Pisani conferirono ad Uguccione, diversamente dai
predecessori che furono fregiati di altri appellativi, quali excellens, sapiens o simili. Si
aggiunga che la grafia è di forma identica a quella che, tra le tante allora correnti
(Ugucio, Uguccio, Huguiccio, così come Faggiola, Fasola, ecc.), compare nei documenti
pisani coevi;
2) Humilis monacus de Corvo in faucibus Macre: denominazione particolarmente
felice, poiché alla concisione prescritta da Bono da Lucca abbina la perfetta precisione
topografica, come ebbero già a notare i massimi eruditi locali, Repetti e Mazzini 72;
3) Iste homo: la designazione anonima può richiamare varie circostanze,
dall’aderenza all’uso volgare, alla notorietà della persona citata presso il destinatario (e
la conoscenza di Dante con Uguccione è nell’ordine del probabile più che del possibile;
e più avanti Ilaro dice apertamente: illum amicissimum vestrum iniunctum fuit),
all’intento di celarne l’identità per non irrilevanti ragioni di tutela dell’incolumità 73;
69
Bellomo afferma che: «[I dati interni dell’epistola] rinviano a un periodo compreso tra il 1312 e
il 1315, vale a dire dopo la nomina di Federico d’Aragona a re di Sicilia»; S. BELLOMO, Il sorriso di
Ilaro, cit., p. 205. In realtà Federico d’Aragona fu investito della dignità regia («rex Trinacrie») il
12 giugno 1314, a Messina.
70
V. BIAGI, L’autenticità, cit., pp. 51-2.
71
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 235.
72
I contributi di questi sommi eruditi sono censiti nel volume citato di Biagi e, in buona parte, si
trovano riuniti nel volume collettivo Dante e la Lunigiana, cit..
73
Il contesto storico offre utili elementi. Se, come propongono i sostenitori dell’autenticità,
l’epistola fa riferimento ad un evento (il passaggio di Dante dalla Lunigiana, diretto nella regione
padana nord-orientale) accaduto nei paraggi del 1314-‘15, possiamo osservare che, trovandosi
26
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

4) Secundum quod accepi ab aliis, quod mirabile est, ante pubertatem inaudita loqui
tentavit:

L’à dunque sentito dire e non è strano davvero che tal voce corresse anche tra il clero, in
quella diocesi di Luni, dove Dante nel 1306 aveva avuto rapporti col vescovo Da Cammilla e con
religiosi di Sarzana a comporre la pace tra il vescovo e i Malaspina. Si ricordino [...] i frati
Guglielmo Malaspina, Guglielmo da Godano, dei Minori74;
5) Partes ultramontanas: a partire da Boccaccio, comunemente ritenuto riferimento
a Parigi e, segnatamene, al suo celebre Studio. Tuttavia, dopo i rilievi di Biagi, sulla scia
del settecentesco Dionisi, vi è la possibilità che Ilaro potesse riferirsi genericamente alla
regione padana transappenninica75. La coincidenza con il periodo in cui si pone la
l’esule non distante dallo stato fiorentino, che gli aveva comminato fin dal 1302 una condanna
alla pena capitale, era quindi evidente, trovandosi l’esule non distante dallo stato fiorentino,
l’opportunità per Ilaro di non nominarlo esplicitamente entro una corrispondenza che, per
avventura, avrebbe potuto cadere in mani ostili. Ma altri dati si aggiungono a conforto: in primo
luogo il trattato del 27 febbraio 1314, con cui re Roberto d’Angiò aveva vincolato Lucca ed i
guelfi della Lunigiana, tra cui i Malaspina, a non ricevere presso di sé i guelfi sbanditi ed i
ghibellini. Ciò creava un ambiente locale gravemente rischioso per l’incolumità dell’esule. In più,
nella vicina Sarzana dominava allora la fazione guelfa facente capo al vescovo Gherardino
Malaspina (di origine lucchese, che tenne la diocesi dal 1312 al 1318), proprio quel vescovo che
Dante aveva recentemente infamato per fellonia nella celebre epistola ai cardinali italiani
(primavera del ’14): «Quidni? Cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem, quemadmodum et
vos, que nunquam pietatis et equitatis, ut caritas, sed semper impietatis et iniquitatis est
genitrix. A, mater piissima, sponsa Christi, que in aqua et Spiritu generas tibi filios ad ruborem!
Non caritas, non Astrea, sed filie sanguisuge facte sunt tibi nurus; que quales pariant tibi fetus,
preter Lunensem pontificem omnes alii contestantur» (Ep., XI 7).
74
V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 81. Constatata la genericità del riferimento di Ilaro alle rime
giovanili di Dante, non privo di imprecisione, non sembra in tutto perspicua la critica di Bellomo
sul punto, per cui Ilaro: «manifesta [...] un grado di aggiornamento sorprendente per un monaco
che non vive in una città, ma in un monastero isolato su una altura. E tuttavia conosce il libello
giovanile e amoroso di Dante [...] ed è aggiornato e sensibile rispetto a problematiche dibattute
nei circoli d’avanguardia dell’Italia settentrionale [...] soprattutto quelle relative alla questione
linguistica»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 211. Tralasciando altri passaggi di segno
opposto, per cui il monastero, ora non più isolato, sarebbe invece: «di una certa fama perché
dominava la Bocca di Magra ed era punto di passaggio nel transito tra Toscana e pianura padana
attraverso il valico del Cerreto»; ivi, p. 233, n. 81; è da notare che, visto il ripetuto passaggio di
Dante per la diocesi lunense, l’aperta ammissione di notizia indiretta, nonché l’evidente
approssimazione della citazione, non si comprende perché attribuire al monaco pretese di una
conoscenza particolarmente penetrante delle opere dantesche (di cui non fa mai neppure un
nome) e addirittura delle querelles linguistiche che sollevavano. Infine è assolutamente da
condividere che i circoli proto-umanistici veneti fossero i più aggiornati sulle questioni
linguistiche, ma si converrà che l’egemonia del latino per opere di dottrina era da tempo
questione, nei suoi termini essenziali, di pubblico dominio presso la classe clericale e laica
alfabetizzata; né Ilaro si mostra propriamente in linea con l’aristocratico distacco dal volgare di
quei circoli à la page, nel qual caso, è da credere, avrebbe potuto simulare argomenti di maggior
spessore che non una stupita acquiescenza: si concorderà che il quodammodo admirari
dell’umile monaco è un po’ differente dal: «Nec margaritas profliga prodigus apris, / Nec preme
Castalias indigna veste sorores» reperibile nel carme di un accademico pur moderato come
Giovanni del Virgilio (Egl., I 21-2).
75
Per completezza d’informazione, mi segnala con la consueta gentilezza Luca Azzetta che un
lemma analogo, presente in un documento intorno ad Andrea Lancia, è riferibile ad Avignone: «in
romana curia et partibus ultramontanis [...] prius conversabat», in ANDREA LANCIA, Ordinamenti,
provvisioni e riformagioni del comune di Firenze volgarizzati da Andrea Lancia (1355-1357), a
cura di L. Azzetta, Venezia, Istituto Veneto di Scienze morali, Lettere e Arti, 2001, p. 22. Torna
27
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

seconda andata di Dante a Verona (1315-‘16 circa), secondo una nota tesi di
Billanovich, accolta da Padoan e da Francesco Mazzoni 76, risulta in tal caso di notevole
interesse;
6) Per Lunensem dyocesym transitum faceret: si deduce quindi un Dante che dal sud
o sud-est della Toscana avrebbe percorso la via Francigena nella parte che da Altopascio
saliva per la Versilia e scendeva a Luni. La strada metteva quindi capo a Sarzana, città
che, per noti motivi (cfr. qui n. 73), era in quel frangente ostile a Dante, inducendolo
quindi a raggiungere il più riparato monastero del Corvo: «Il Corvo non era sulla strada,
ma fuor di mano, per due ore e più di cammino» 77. Di nuovo una fortunata coincidenza
se, come pare plausibile, Dante intorno alla prima metà del 1315 era proprio in Toscana,
non lontano dallo stato fiorentino, a norma dell’Epistola XII, la quale attesta in quel
periodo un atteggiamento nuovamente conciliante della Signoria verso gli esuli non
estremisti, che Dante certamente osservò non lontano e con trepida partecipazione,
sebbene, giudicatene umilianti le condizioni, si spinse infine al rifiuto;
7) Monasterii supradicti se transtulit: «così si compiono le indicazioni di luogo, e tutte
esattissime»78;
8) Sive loci devotione, sive alia causa: l’inserimento della seconda opzione lascia
credere, se la lettera è autentica, ad un velato riferimento al contesto ambientale in
quel frangente molto critico per l’esule; se falsa, sarebbe una felice pennellata d’autore;
9) Interrogavi quid peteret: puntualmente il retore, com’era compito del foresterario,
gli fa rispettare la regola benedettina: «docti fratres eligantur, qui cum
supervenientibus hospitibus loquantur» 79;
10) Adhuc et michi et aliis fratribus meis: la dinamica dell’accoglienza è in sintonia
con le prescrizioni benedettine: «Omnes supervenientes hospites tamquam Christus
suscipiantur [...], et omnibus congruus honor exhibeatur; maxime tamen domesticis
fidei et peregrinis» (Reg. Ben., cap. LIII). In accordo con le regole benedettine, i frati di
un monastero dovevano essere un certo numero, più di cinque (et michi et aliis
fratribus meis);
11) Traxi illum seorsum ab aliis et habito secum deinde colloquio: «con linguaggio,
direi, tecnico; “Hospitibus autem cui non praecipitur nullatenus societur, neque

all’ipotesi precedente con un interessante lavoro, A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro,


«Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», VIII, 2011, pp. 11-21. Ma, facendo
base alle foci del Magra, qualora Dante fosse stato effettivamente diretto al di là del vicino valico
appenninico del Cerreto, di qui in pianura padana (e quindi a Verona), ci si chiede in quale altro
modo Ilaro avrebbe dovuto esprimersi.
76
Sul punto sia consentito rimandare a G. INDIZIO, Le tappe venete dell’esilio di Dante,
«Miscellanea Marciana», XIX, 2004, pp. 35-64.
77
V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 83.
78
Ibidem.
79
J. MABILLON, Annales Benedectini, II 430, citazione da V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 41.
28
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

colloquetur” [...]; i monasteri meglio forniti avevano anche una stanza speciale per i
colloqui: il parlatorio»80;
12) Fama eius ad me per longa primo tempora venerat: singolare e fortunata
coincidenza, poiché tale passo può essere adattato alla prima sosta lunigianese di
Dante che, per essersi legato ai nomi più illustri della regione, per cui conto svolse
un’importante azione diplomatica, dovette effettivamente avere una qualche risonanza.
Anche la perifrasi temporale si adatta come un guanto al decennio frattanto trascorso;
13) Ecce, dixit, una pars operis mei, quod forte numquam vidisti: ancora una volta
l’aderenza minuta alla situazione biografica dantesca solleva stupore. Nel 1315 l’Inferno
era effettivamente divulgato e ne circolavano già da tempo gruppi di canti, come
mostrano ad esempio le precocissime riprese in Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia,
Sennuccio del Bene oltre che nel volgarizzatore ovidiano anonimo, un tempo
identificato con Andrea Lancia; mentre il Purgatorio con ogni probabilità non lo era
ancora (nulla quaestio per il Paradiso);
14) Talia vobis monumenta relinquo, ut mei memoriam firmius teneatis: accantonate
le ricorrenti illazioni circa il dono dell’originale manoscritto dell’Inferno (così come i
dubbi sull’incongruità di un Dante che fida in uno sconosciuto per recapitare un suo
dono ad Uguccione), che non hanno appigli nel testo – Dante semplicemente consente
che il monastero ne acquisisca una copia; ed il dono ad Uguccione è opera di Ilaro, non
del poeta – merita attenzione un dubbio espresso da Bellomo:

Non resta che pensare che il poeta permettesse di farne una copia, con la conseguenza però
di dovere ammettere o una sosta al monastero molto lunga, di almeno un mese, dati i tempi
richiesti da una trascrizione, ovvero un accordo per ricuperare l’esemplare successivamente [...].
Il tempo di un mese è ottimistico, ove si consideri che la trascrizione avrebbe dovuto essere
compiuta con la cura che si addiceva a un manoscritto di dedica [...]. Appare poi singolare la
scelta di servirsi di un monaco appena conosciuto per recapitare una copia a Uguccione, a meno
che non sia dovuta a particolari legami di quest’ultimo con quel convento 81.

Tale argomentare non sembra invero ricercare l’economicità: una sosta al monastero
prolungata innaturalmente per i lunghi tempi richiesti dall’approntamento di un
manoscritto di dedica è ipotesi gratuita, anche perché trascura che il monastero non
avrebbe potuto in nessun caso confezionare un manoscritto di dedica, essendo poco più
che un romitorio. Semplicemente, con i minimi mezzi disponibili in loco, il manoscritto
poté essere slegato in fascicoli in modo da mettere all’opera più di un monaco,
circostanza comune per la copia di codici anche di qualche pregio (si pensi
80
Ibidem.
81
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 210-1 e n. 16.
29
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

all’usatissimo metodo della pecia adottato nelle città universitarie come Bologna, ad
esempio). La copiatura fu stringata, al caso con modici ausili tachigrafici, in un codice
non di pregio ma di servizio. Le economie di tempo sono evidenti e in pochi giorni si
sarà completata la trascrizione. Con più agio si sarebbe poi proceduto al
confezionamento di un manoscritto di dedica, meglio nella prossima e più attrezzata
curia di Sarzana, da inviare al signore di Pisa – e quando Ilaro scrive ad Uguccione,
Dante ha ormai lasciato il monastero – dalla cui abbazia di S. Michele degli Scalzi il
romitorio dipendeva. Quanto alla trasmissione del manoscritto al Faggiolano, che aveva
legami familiari strettissimi proprio coi Camaldolesi (altra fortunata coincidenza) 82, si
ricorda che Dante afferma di voler trasmettere copia (monumenta) della prima parte
della sua opera al monastero (vobis, quindi neppure al monaco, cui dà del “tu”, men
che meno ad Uguccione): null’altro 83. Come traspare dal testo, infine, Dante ha solo
suggerito di accompagnare il manoscritto con delle chiose – il che conferma
definitivamente che l’intera operazione era nelle mani del monaco e non dell’autore – sì
da accrescere il valore del dono: esattamente come farà egli più tardi con l’Epistola XIII;
15) Si vero de aliis duabus partibus [...] ab egregio viro domino Morello Marchione
secundam partem [...] requiratis; et apud illustrissimum Fredericum Regem Cecilie
poterit ultima inveniri. Nam sicut auctor asseruit se in suo proposito destinasse,
postquam totam consideravit Ytaliam, vos tres preelegit ad oblationem istius operis
tripartiti: tralasciando, per ora, il tema della decadenza dall’uso comune della lingua
classica e dell’inizio della Commedia in versi latini, che ritroveremo nell’ultima parte di
questa nota, concentriamoci su tale ultimo passaggio. Osserviamo che l’intenzione
manifestata da Dante assume una forma che, seppur mutata nel destinatario, è molto
simile a quanto apparirà nell’epistola a Cangrande, con una vicinanza anche lessicale
notevole:

De istis tria sunt in quibus pars ista quam vobis destinare proposui [...]. Deinde inquiremus
alia tria non solum per respectum ad totum, sed etiam per respectum ad ipsam partem
oblatam» (Ep., XIII 19).
82
La lista degli elementi probanti è lunga: nel 1303 Uguccione concede benefici ai monaci
Camaldolesi stanziati presso i possedimenti aviti su cui aveva signoria; nel 1306 consentì che
suo fratello Federico si ascrivesse all’Ordine; nel 1308 concede un beneficio al monastero di
Trivio, a sua volta situato presso i possedimenti di famiglia; nel 1313 Uguccione tenne
l’adunanza di guerra per deliberare la guerra contro Lucca nella chiesa di S. Jacopo di Poggio
che, come il monastero del Corvo, era soggetto ai Camaldolesi pulsanesi di S. Michele degli
Scalzi; nel 1315 Ludovico il Bavaro, a petizione del Faggiolano, attribuisce, con altri privilegi, le
terre di quella chiesa in feudo allo stesso Uguccione e ai fratelli Francesco e Neri; un nipote di
Uguccione (figlio di suo fratello Francesco che perì a Montecatini) è dei Camaldolesi nel 1350.
83
Ricordiamo, con Biagi, che: «A quei tempi interessare ad un’opera la sollecitudine di frati, era il
mezzo migliore per assicurarne, o accelerarne la divulgazione. Del resto, insieme con questo
pensiero, poté concorrere la volontà di sciogliere verso gli ospiti cortesi un debito di gratitudine»;
V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 85.
30
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Giusta la tesi del falso, sarebbe del tutto ovvio ipotizzare ch’egli traesse dall’epistola
echi verbali per colorire dantescamente lo schema ben tradizionale della dedica. Ma a
cominciare da Billanovich, che ben individuò tale aspetto 84, ci si costrinse a tenerlo in
sordina visto il campeggiare dell’inopinata dedica ilariana a Federico d’Aragona di
contro proprio a quella scaligera, universalmente nota 85. Siamo di fronte ad una topica
ragguardevole, tanto più sconcertante in chi, come abbiamo potuto constatare, ha
mostrato finora un’attenzione ed un’abilità mimetica non comune 86. Ma non è tutto.
Dopo la morte di Dante non solo l’epistola a Cangrande ma, tralasciando gli inediti De
vulgari Eloquentia e Convivio, anche la Commedia, nel Purgatorio e, al di là di ogni
dubbio, nel Paradiso, lascia deflagrare in più punti un giudizio negativo per il «novissimo
Federico». Occorrerebbe pensare allora ad un retore che, straordinariamente abile nel
ritrarre l’incontro tra un oscuro monaco ed il grande esule, sapesse poco e male delle
opere dell’autore, poco perfino del sacro poema.
Sul punto è stato agevole ricordare (Padoan) che Boccaccio stesso è il primo a
trovare contraddittoria una notizia di dedica che egli sapeva, per autorevole tradizione,
non rispondente al vero; il legame tra Dante e Cangrande doveva essere divulgato in
ambiente ravennate e veneto: veronese in primo luogo, ma anche veneziano, come
dimostra il sonetto di Giovanni Quirini, Segnor ch’avete di pregio corona; ambienti cui
sarà da aggiungere quello fiorentino, dove furono custodite le memorie dirette del
poeta dai figli e da un cenacolo di precoci estimatori: Andrea Lancia, ad esempio,
conobbe l’epistola a Cangrande come integralmente di Dante prima del 1342 87. Scrive

84
«Qui mi limito a segnalare questi incontri tra la lettera di Ilaro e la lettera a Cangrande: “ad
introdutionem oblati operis”, “ad ipsam partem oblatam”, “subiectum partis oblate” (Ep. XIII, 4,
6, 11), “ad oblationem istius operis” (Ep. di Ilaro, I 76); “pars ista quam vobis destinare proposui”
(Ep. XIII, 6), “opus […] destinare intendo” e “opus ipsum destino” (Ep. di Ilaro, I 17-8 e 67)»; G.
BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 108 e n..
85
«Ma credo che siano coincidenze casuali, prodotte da ragioni di affinità di argomento»; ibidem.
Ma il punto, specie se confrontato con altre meno stringenti agnizioni pur passate comodamente
in giudicato, non è pacifico. Qualora vi fosse di mezzo un falsario, i prestiti citati appaiono in
effetti tutt’altro che infondati: tuttavia poiché Boccaccio per unanime consenso degli studiosi (da
Parodi a Vandelli, da Billanovich a Mazzoni a Jenaro-MacLennan) raggiunge effettivamente tardi
l’epistola scaligera, ne segue che i precoci prestiti ilariani, alla data della trascrizione laurenziana
(1340 circa), dovranno essere segnalati quali elementi gravemente contrari alla tesi del falso
boccacciano. Vista la controversia tuttora in corso (ma cfr. almeno DANTE ALIGHIERI, L’Epistola a
Cangrande, a cura di E. Cecchini, Firenze, Giunti, 1995) si preferisce peraltro non impiegare tali
riscontri in pro di qualsivoglia tesi attributiva.
86
Francamente insignificante la motivazione offerta da Billanovich di fronte all’inusitata dedica
aragonese: «Egli [scil. Boccaccio] neppure si allarma delle maledizioni e dei disprezzi con cui
Dante aveva depresso quel principe in tante sue pagine»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca,
cit., p. 83.
87
Cfr. il fondamentale studio di L. AZZETTA, Le chiose alla «Commedia» di Andrea Lancia,
l’«Epistola a Cangrande» e altre questioni dantesche, «L’Alighieri», XX, 2003, pp. 5-73.
31
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Enzo Cecchini, riferendosi nell’occasione alla presunta falsificazione dell’epistola


scaligera:

Un falso intenzionale mira ovviamente ad evitare ogni stranezza, a raggiungere il massimo


della credibilità88.

Eppure, i versi di Ilaro sono palesemente incongruenti perfino rispetto al preteso


oggetto della falsificazione, l’incipit della Commedia, il che, si converrà, è un’enormità:
pare difficile non accordarsi con Padoan quando si chiede quale falsario avrebbe mai
perso l’occasione di ricalcare l’incipit ilariano sull’antecedente biblico dantesco, cioè
Isaia, allorché riferisce della lamentazione di Ezechìa (38, 10): «Ego dixi: in dimidio
dierum meorum vadam ad portas Inferi».
Saverio Bellomo, impostando il proprio contributo sull’ipotesi che il falsario sia
Giovanni del Virgilio (2004), giunto di fronte alla necessità di trovare una spiegazione
plausibile a tale incongruenza, si riferisce a quanto opinato un tempo da Rajna 89:

Allora lo scambio di destinatario del Paradiso va considerato intenzionale [...]. E si capisce.


Nell’ambiente legato a Mussato, lo Scaligero, pur ghibellino, era però il grande nemico di Padova
[...]. Questa osservazione induce anche a ritenere la stesura della lettera anteriore alla morte di
Cangrande, avvenuta nel 1329, con il vantaggio di stringere la cronologia più dappresso a
Giovanni del Virgilio [scomparso intorno al 1327]90.

Si viene così ad enfatizzare un’inedita valenza antiscaligera del testo ilariano in


buona misura autoreferenziale, priva di presupposti. A tale riguardo, non è chiaro in
base a cosa ritenere Del Virgilio così visceralmente legato a Mussato e a Padova da
fargli commettere una stridente topica pur di realizzare un intento polemico
antiveronese di cui, dalle scarne notizie biografiche e dalle opere oggi note, non risulta

88
DANTE ALIGHIERI, L’Epistola a Cangrande, ed. Cecchini, cit., p. XVII.
89
P. RAJNA, Testo della lettera, cit., p. 266: «O sarebbe mai con un proposito ostile allo Scaligero
che l’autore della lettera scrisse quel ch’egli scrisse, suggellando l’asserzione delle tre dediche
[...]. Diventa allora intelligibile, pare a me, l’intrusione fatta di Federico. Lo scopo essendo di
escludere, non si stette a badar troppo per il sottile, se colui che si surrogava era, oppur no,
persona veramente adatta. Cane morì nel 1329; ed io riterrei probabile che s’avesse di mira lui
vivo [...]. Resulterebbe di qui un dato cronologico [...]. La lettera dev’essere stata fabbricata poco
dopo la morte di Dante».
90
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 233. Per motivare l’eccentrica preferenza accordata a
Federico d’Aragona, oltre a richiamare le note benemerenze ghibelline del re siciliano, Bellomo
scrive: «né forse fu ininfluente la fama che a Venezia aveva goduto l’Aragonese, proprio in
ambiente letterario, quando nel 1316 donò al doge Giovanni Soranzo una coppia di leoni, che
presto generarono tre leoncini vivos et pilosos»; ivi, p. 234; cfr. G. MONTICOLO, Poesie latine del
principio del secolo XIV nel codice 277 ex Brera al R. Archivio di Stato di Venezia , «Il
Propugnatore», III, 1890, pp. 244-303, pp. 244-7.
32
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

essere mai stato affetto91. Anzi. È a tutti noto che nell’egloga di risposta a Dante (1320)
Del Virgilio propone, tra i grandi temi epici degni del canto latino del poeta, le disfatte
che Cangrande aveva clamorosamente inflitto proprio ai Padovani (1314-‘17); il che, si
vorrà consentire, non è quanto di più filopadovano e antiscaligero si possa desiderare.
Inoltre, sebbene da posizioni moderate, il professore bolognese non esitò a manifestare
la propria riprovazione per l’opera maggiore di Dante (almeno la parte a lui già nota, le
prime due cantiche), suggerendogli pressantemente di adottare i modelli epici della
latinità classica, ben più consoni all’altezza della materia e in linea con le proprie
convinzioni accademiche.
Un atteggiamento tutto diverso dimostra invece Ilaro, le cui remore sono quelle trite
di un modesto scolastico attardato, non certo quelle dei circoli proto-umanistici à la
pàge, con cui Giovanni aveva sensibilità comune; remore, per di più, presto
accantonate, ancora una volta in contraddizione con l’atteggiamento ben più
combattivo del grammatico bolognese che, paventando un: «Sunt forsan mea regna tibi
despecta?» (Ecl., III 77), non esita a minacciare: «Me contempne: sitim Frigio Musone
levabo, scilicet – hoc nescis? – fluvio potabor avito» (Ecl., III 88-9). Un passo di Luis
Jenaro-MacLennan apre la strada ad una più attenta storicizzazione del tema delle
dediche evidenziandone, in relazione ai dubbi espressi sul punto dallo stesso
Certaldese, un fattore ben noto di dinamicità:

Boccaccio certainly knew that a work could be dedicated without being finished, and that an
author could change his mind at some stage of the work and dedicate it to some patron other
than the one he first intended. This can easily be illustrated from Boccaccio’s dedications of
some of his own works»92.

91
Se legami di sensibilità culturale, corroborati da una postrema egloga (1327 ca.), sono da
mettere nell’ordine del certo, le poche circostanze materiali a noi note ci obbligano a non andare
molto oltre; si pensi che Del Virgilio incontrò Mussato solo una volta, di sfuggita, alle porte di
Bologna, nella tarda estate del 1319, in occasione di un’ambasceria guidata dal poeta padovano
per richiedere aiuti contro l’assedio di Cangrande. Del Virgilio non si trattenne con lui né lo invitò
per ospitalità poiché, commisuratevi le proprie condizioni materiali, non si ritenne all’altezza di
tanto personaggio (cfr. l’egloga a Mussato Tu modo Pieriis vates redimite corymbis, in particolare
i vv. 105-65, che denunciano a chiare lettere che i due non si erano in pratica mai visti e che si
conoscevano semplicemente per fama, molto in grazia della mediazione di Rainaldo dei Cinzi).
92
L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 115. Lo studioso si riferisce ai casi del
De mulieribus e del De casibus. In tale più realistico contesto, la dedica all’Aragonese,
inconcepibile alla luce di un falso che di norma rifugge dall’inverosimile, può essere più
distesamente esaminata. Sulla scia di Biagi, Giorgio Padoan ha fornito le tessere più convincenti:
su Federico si hanno giudizi (ma collettivi) non lusinghieri nel De vulgari (1304, cfr. DvE, I XII 5); e
nell’ultimo libro del Convivio (1307-‘08, cfr. Conv., IV VI 20); mirati, ma con toni ancora moderati,
in Purg., VII 119; con accenti roventi in Par., XIX 130-5 e XX 61-3. Dal 1304 al 1308 Federico non
è oggetto di strali, piuttosto è accomunato ai potenti dell’epoca in una generale deplorazione dei
tempi. L’Inferno, che copre un lasso che va all’incirca dal 1308 al 1314, non presenta giudizi di
sorta, mentre una prima menzione in Purg., III 116 è, contrariamente a quanto si è cercato di
sostenere, largamente elogiativa. Federico ed il fratello Alfonso vi sono citati quali «l’onor di
Cicilia e d’Aragona», appellativo presto degradato a termine tecnico da interpreti preoccupati di
33
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Non è chiaro infine il motivo per cui Del Virgilio, esercitandosi retoricamente anni
dopo la morte di Dante, quindi a sacro poema integralmente pubblicato, appuntasse
innaturalmente la narrazione sulla sola prima cantica, dando le altre due per venture.
Dovremmo certo pensare ad una felicissima mossa creativa (che, come altre già
incontrate, si adatterebbe però più ad un forte novelliere che ad un buon grammatico
ma mediocre letterato quale il bolognese), con anche un’aderenza biografica non meno
che brillante. Da un punto di vista storico c’è un solo argomento che si oppone
all’esistenza del monaco Ilaro: l’assenza di documenti, laddove un reperto scritto
sarebbe stato desiderabile. La circostanza dà da pensare ma non va forzata oltre il
lecito. Infatti, come hanno avvertito i massimi eruditi locali, da Podestà, a Sforza, a
Mazzini e a Biagi, l’archivio del monastero non è pervenuto 93. Sono pervenuti invece
documenti, in serie pur essa molto lacunosa, riguardanti i rapporti tra il Monastero e la
chiesa di S. Michele degli Scalzi che vi aveva signoria, dove appaiono naturalmente non
tutti i frati, ma il Priore, il Procuratore e altri frati che occasionalmente partecipassero

preservare una fantomatica monoliticità delle opinioni dantesche, e pertanto ritenuto né


elogiativo né dispregiativo (il che, se anche fosse, avrebbe invece il suo peso); ovvero, ancor
meno convincentemente, è stato abbassato ad espediente retorico: visto che a parlare è l’avo
dei due sovrani, Manfredi di Svevia, secondo i vulgatori di questa tesi questi non potrebbe che
elogiare i suoi discendenti. Un assurdo evidente: a far parlare i personaggi del poema, qui come
altrove, è sempre Dante; simulare l’intervento di un membro illustre di una casata, o addirittura
del diretto capostipite, serve in più occasioni al poeta per conferire verosimiglianza alla tesi che
dialogicamente espone. Non di rado sono denunciati con accenti polemici le malefatte e i vizi di
familiari e discendenti del personaggio stesso: i casi di Forese Donati, che condanna con toni
apocalittici il fratello Corso, e di Ugo Capeto, che esecra i discendenti della sua stessa stirpe,
esentano da ulteriori esemplificazioni. Non si vede quindi perché il solo Manfredi avrebbe dovuto
usare un surplus di retorica cortesia in pro dei suoi discendenti nolente Dante. Infine, a
prescindere dal significato di onor, che Dante stia elaborando un episodio per molti versi gradito
al monarca siculo-aragonese è evidente per prove ben maiuscole: in primo luogo in quel canto si
certifica la discendenza legittima di Federico da Manfredi di Svevia laddove, in quel frangente di
accesa ostilità, i polemisti al soldo di Roberto d’Angiò propalavano la notizia della sua
illegittimità. Secondariamente, in quel canto Dante rende plasticamente nulli gli effetti della
scomunica papale (perché non sorretta da zelo cristiano): infatti il poeta fa salvo Manfredi, morto
scomunicato, atteggiamento doppiamente gradito a Federico poiché, non solo suo nonno, ma
anch’egli viveva scomunicato. Come si vede, l’apertura di credito da parte dell’esule oltrepassa
certe angustie interpretative, risultando del resto naturale verso chi aveva dapprima appoggiato
Arrigo VII e ne aveva poi raccolto, con Uguccione della Faggiola, l’eredità: non sarà da trascurare
che nel corso del 1315 si andava preparando un trattato di alleanza proprio tra quei due massimi
alfieri dell’imperialismo italico, circostanza con cui si può ritenere provata ad abundantiam la
possibilità di una temporanea inclinazione dell’esule verso entrambi, proprio e solo nel tempo in
cui il retore ilariano, con un tempismo eccellente, avrebbe ambientato il suo falso, nel breve
lasso tra il 1314 e il 1315. In quel momento Federico ed Uguccione raccolgono, più di quanto non
avesse ancora fatto Cangrande, l’eredità di Arrigo VII, scendendo l’uno in guerra aperta contro
l’odiatissimo re Roberto (seconda metà del 1314), l’altro attaccando frontalmente Firenze e
ponendosi apertamente sotto la bandiera imperialista del neoeletto Ludovico il Bavaro (1315).
Che Dante mal riponesse la propria fiducia lo dimostreranno i fatti, ma ciò non toglie che in quel
frangente, e solo in quello, il poeta ne degnasse entrambi.
93
L. PODESTÀ, Del Monastero di Santa Croce del Corvo, «Atti e Memorie della R. Deputazione di
Storia patria per le Provincie Modenesi e Parmensi», VI, 1896, pp. 117-31; G. SFORZA, Castruccio
Castracani degli Antelminelli in Lunigiana, ivi, VI, 1893, pp. 299-327; U. MAZZINI, Il Monastero di
S. Croce del Corvo, in Dante e la Lunigiana, cit., pp. 211-31; V. BIAGI, L’autenticità, cit..
34
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

agli atti in qualità di testimoni. Se quindi l’assenza di Ilaro dalle carte superstiti può
suscitare legittimo disappunto, non se ne potranno sensatamente trarre conseguenze
capitali. A tal proposito, sarà il caso di notare che Dante stesso ci dice irrefutabilmente
di essere passato dalle immediate vicinanze del Monastero, quando scrive:

Noi divenimmo intanto a pie’ del monte; / quivi trovammo la roccia sì erta, / che ’ndarno vi
sarien le gambe pronte. / Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, / verso
di quella, agevole e aperta (Purg., III 46-51).

Il poeta parla palesemente di cosa vista, né ciò risulta messo in discussione dai
moderni commentatori; ebbene Lerici era, al tempo, un piccolo castello nelle immediate
vicinanze della foce del fiume Magra, a pochissima distanza dal Monastero di S. Croce: e
di questo, bisognerà pur tenere conto 94.
Il contributo di Bellomo ha il pregio di aver per primo fissato l’attenzione sul versante
strettamente filologico, passando al pettine stretto i pochi versi ricordati da Ilaro,
riferendo del presunto incipit latino della Commedia. L’obiettivo dello studioso, che ha
perseguito con acribia un percorso innovativo ed originale in relazione alla questione
ilariana, è dimostrare come le fonti utilizzate per la composizione di quei versi fossero
pressoché ignote a Dante. Su tali basi pare lecito concludere per la attribuzione ad un
retore di quella sezione dell’epistola e, per estensione analogica, dell’intero testo
ilariano.
Ricostruendo i presupposti materiali di quel tormentato incipit, osserviamo che esso,
nei termini in cui ne riferisce Ilaro, fa riferimento a due circostanze: a. una progressiva
evoluzione della riflessione linguistica in Dante, che lo porta da un’iniziale adesione al
latino quale mezzo espressivo preferenziale per opere di dottrina, ad un orientamento
finale di segno opposto, constatato il deplorevole stato culturale dei suoi tempi; e b. un
concreto tentativo di perseguire la strada linguisticamente canonica, ben presto
accantonato. Con riferimento alla prima circostanza, osserviamo che Dante stesso,
all’altezza della Vita nova (1293-‘94 circa), mostra di accogliere la preminenza del
latino, riservando elettivamente al volgare la materia amorosa 95. Solo un decennio

94
Più che condivisibile la chiosa apposta, quasi un secolo fa, da Francesco Torraca: «Lerici: poco
distante da Sarzana, dove Dante fu nel 1306 [...] e dalla foce della Magra, dove [è] il convento di
S. Croce del Corvo. Ci è giunta, conservataci dal Boccaccio, un’epistola di frate Ilario, “umile
monaco del Corvo” [...]. Per molto tempo s’è giudicata apocrifa l’epistola, e inventato di [sana]
pianta il racconto; ma ora si comincia a pensare che in questo possa essere un fondo di verità, e
che Dante poté capitare al monastero del Corvo tra il 1314 e il 1315. In relazione con l’epistola è
notevole la menzione di Lerici e Turbia; non pare che Dante descriva, qui, per sentito dire»;
DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, nuovamente commentata da F. Torraca, Milano, Società
Editrice Dante Alighieri, 19153, nota al verso.
95
«E non è molto numero d’anni passati che apparirono prima questi poete volgari; ché dire per
rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proportione. E segno che
35
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

dopo, con il Convivio e il De vulgari, si aggiungono le tessere fondamentali di una


riflessione linguistica giunta ad esiti radicalmente nuovi; per tutti, valga il celebre passo
del Convivio (I IX 5).
Con riferimento al secondo tema, un tentativo di abbozzo in latino poi interrotto,
disponiamo di una testimonianza non dirimente ma neppure irrilevante, risalente,
attraverso il nipote Filippo, al grande cronista Giovanni Villani, e quindi ad un tempo
precedente l’esilio da Firenze:

Audivi, patruo meo Johanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus et sotius, poetam
aliquando dixisse quod, collatis versibus suis cum metris Maronis, Statii, Oratii, Ovidii et Lucani,
visum ei fore iuxta purpuram cilicium collocasse. Cumque se potentissimum in rithmis vulgaribus
intellexisset, ipsis suum accomodavit ingenium.

Che Dante abbia provato ad emulare i grandi della latinità classica senza esito è
quindi circostanza da ritenere verosimile96, e d’altronde perfettamente in linea con le
concezioni dei generi letterari e linguistiche allora correnti che imponevano, in via
preliminare, un serrato confronto con la lingua dotta. Giunto alla parte centrale della
propria dimostrazione, scrive Bellomo:

Affrontiamo la questione da un’altra specola, appuntando la nostra attenzione sui due


esametri e mezzo, che, se costituiscono un prodotto di Dante stesso, rappresentano il portato
più rilevante dell’epistola: «Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / spiritibus que lata
patent, que premia solvunt / pro meritis cuicunque suis...»97.

sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua d’oco e in quella di sì, noi non troviamo
cose dette anzi lo presente tempo per .CL. anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama
di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che cominciò a dire
sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale
era malagevole d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera
che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire
d’amore»; Vn, XVI 4-6. Dante compì al riguardo un’evoluzione notevole, partendo da posizioni
linguistiche ben tradizionali, come testimonia proprio la Vita nova. D’altro lato, come nota
Padoan, il De vulgari, scritto in latino, la parte iniziale del Convivio (I IX 5), dove si riconosce il
latino essere «più bello, più virtuoso e più nobile», la Commedia, il cui titolo riconosce al volgare
una posizione umile rispetto allo stile alto della tragedìa, per non dire, infine, della Monarchia,
delle Epistole e del De situ, testimoniano in Dante persistenti concessioni alla superiorità del
latino.
96
FILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum super Commedia Dantis Allegherii, a cura di S.
Bellomo, Firenze, Le Lettere, 1989, p. 77. Sul punto, che potrebbe anche occultare rimandi
allusivi al poema e quindi non rappresentare la realtà in modo obiettivo ma letterariamente
ricostruito, cfr. la rec. all’edizione bellomiana ad opera di L. C. ROSSI, «Medioevo e
Rinascimento», XV, 1990, pp. 447-52, in particolare pp. 451-2. Naturalmente, «letterariamente
ricostruito» non può essere identificato tout court con falso.
97
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 219.
36
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

È la prima volta che il tema dell’autenticità dell’epistola di Ilaro viene portato sul
terreno strettamente filologico, mai affrontato con tanta perizia in passato. A parziale
scusante di tale scarsa attenzione, si possono annoverare le notevoli assonanze tra i
versi ilariani e quelli danteschi, in particolare della prima egloga a Del Virgilio:

Tunc ego: “Cum mundi circumflua corpora cantu / astricoleque meo, velut infera regna,
patebunt”» (Ecl., II 48-9).

Come si può vedere, in due soli versi ricorrono ben cinque lemmi ilariani: mundus,
fluere (nelle forme aggettivali derivate, con e senza prefisso), cantus (verbo e
sostantivo), regna e patere. Non si fosse trattato di Dante, tali riscontri sarebbero stati
giudicati sufficienti ad apparentare i due testi in un’identità d’autore (Biagi, Padoan,
Cecchini). Ma anche in caso di falso si è sempre rilevata, da Rajna a Vandelli a
Billanovich, la stretta parentela dei due orditi, ché l’ipotetico autore avrebbe falsato
Dante con Dante98. Bellomo, che mira ad attribuire a Del Virgilio l’epistola, preferisce
enfatizzare più sfumate assonanze delvirgiliane, mettendo in secondo piano le
consonanze strettamente dantesche, ritenendole, al caso, labili, come di fronte alla
congiunzione dantesca di regna con patere, scalzata da una ricorrenza senechiana di
lata con patere99.
Con ordine. Il primo esametro Ultima regna canam, fluido contermina mundo viene
sezionato in due sintagmi: da un lato ultima regna, dall’altro contermina mundo. Il
primo è ricondotto univocamente a Claudiano, (quasi) certamente ignoto a Dante e
quindi prova di non autenticità: «[...] Cur ultima regna quiescunt» ( De raptu
Proserpinae, I 224). Ribadisce Bellomo:

Le concordanze elettroniche, tra i loro tanti vantaggi, presentano anche quello di renderci
discretamente sicuri dell’unicità dell’occorrenza nell’ambito dell’intera letteratura. Al più si
incontrano sintagmi simili, ma non identici, in contesti non analoghi, come Chaldaei ultima regni
in Lucano, Phars., VIII 226 e ultima tellus in Ovidio, Metam., IV 627100.

98
Billanovich parla del «primo esametro formato dal Boccaccio “Ultima regna canam fluvido
contermina mundo”, che egli ricalcò sui termini di Dante “mundi circumflua corpora”»; ID., La
leggenda dantesca, cit., p. 76, n. 1.
99
Riproponendo le osservazioni di Rajna (cfr. ID., Testo della lettera, cit., p. 263), Bellomo
considera con favore la ricorrenza di tre lemmi delvirgiliani distribuiti nei primi cinque versi del
carmen indirizzato a Dante, quali: cantibus, pro meritis e regna; cui vengono aggiunti, sempre
seguendo Rajna e con un po’ di larghezza, letifluum e confinia; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro., cit.,
p. 224.
100
Ivi, p. 223.
37
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Senza voler intaccare l’importanza della ricerca, resta che il ricorso a Claudiano non
può considerarsi vincolante, sia perché il sintagma non è in posizione omologa, sia
perché l’accostamento dei due termini era oltremodo diffuso in autori talvolta molto
vicini a Dante. La suggestione combinatoria poté essere suscitata anche da alcune delle
seguenti ricorrenze:
1) Quamobrem postea, cum proelio victus in ULTIMA REGNI refugisset et mori
decrevisset (A. Gellio, Noc. Att., XVII XVI 5);
2) Arua super Cyri Chaldaeique ULTIMA REGNI (Lucano, Bell. Civ., VIII 226);
3) ULTIMA REGNI sui adhuc intacta esse, inde bello vires haud aegre reparaturum (Q. C.
Rufo, Hist. Alex., V I 5);
4) Calliope, Indorum populos et REGNA canamus / ULTIMA terrarum tellus aspergitur
Indi (R. F. Avieno, Perieg. 1294-6);
5) ULTIMA Tarquinius Romanae gentis habebat / REGNA (Ovidio, Fasti, II 686-7);
6) Ad Tartara olim REGNAque, o nate, ULTIMA (Seneca, Her. Oet., 1765).

In un tale contesto il ricorso a Claudiano diviene ipotesi suggestiva ma non affatto


dirimente, oltre che poco economica. Veniamo al contermina mundo:

Anche la clausola del verso è preconfezionata [ricalcando] la clausola del verso seguente [...]:
«...et omnis / undique diffusi regio contermina mundi». Il verso proviene da un’epistola metrica
inviata al Doge di Venezia Giovanni Soranzo in occasione della stupefacente pesca di un pesce
spada. Ma ancora più stupefacente per noi [...] è apprendere che l’autore del componimento
risponde al nome di Albertino Mussato [...]. Per quanto non siano necessarie prove documentarie
per dimostrare l’improbabilità che Dante conoscesse e utilizzasse proprio un testo del Mussato,
si può aggiungere, ad abundantiam, che l’epistola [deve essere posteriore al 1312, allorché salì
in carica il doge] e fu probabilmente di alcuni anni più tarda [1314 circa] 101.

La clausola è leggermente imperfetta, nonché di accesso impervio, ed è ipotetico


porre che la vedesse Del Virgilio. Non solo. Non sarà da tralasciare che l’invio di epistole
gratulatorie ed ambasciate, nell’ambito del conflitto che dal 1309 aveva opposto la
Repubblica di S. Marco alla Santa Sede, riprese, dopo circa un lustro di isolamento, nei

101
Ivi, pp. 223-5. Parlò di quest’epistola, in termini non edificanti, Guido Billanovich:
«Encomiastica fino all’adulazione l’epistola VI al doge Giovanni Soranzo [a] celebrazione di un
fatto portentoso (“De pisce invento habente gladium ad similitudinem ensis”), degno in tutto del
miracolo di potenza e giustizia della Serenissima. Molto interessante è qui il prologo in prosa, nel
quale Albertino si dichiara non solo “istoriarum scriptor”, ma anche [...] “artis poetice
professor”»; ID., Il Preumanesimo padovano. Il Trecento, in Storia della cultura veneta, 5 voll.,
Vicenza, Neri Pozza, 1976-‘87, II, pp. 19-110, a p. 79. Per Guido Billanovich l’epistola appartiene
ad un genere «fisico-naturale, un po’ tronfio per la goffa erudizione»; ivi, p. 80. Il prologo in
parola e la relativa epistola dogale si trovano pubblicati in G. MONTICOLO, Poesie latine, cit., pp.
270-97.
38
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

primi mesi del 1314, allorché, revocata la scomunica clementina, si riaprirono i canali
diplomatici con Venezia; sarà da ricordare che furono proprio Padovani e Ravennati, per
ovvi motivi, a riattivare tempestivamente le relazioni diplomatiche interrotte: e se per i
primi l’azione di Albertino Mussato è accertata, per i secondi è almeno possibile la
presenza di Dante, giusta l’epistola a Guido da Polenta (dopo gli interventi di Padoan,
guardata con meno sospetto dagli studiosi, tra cui – ciò che importa ai presenti fini – lo
stesso Bellomo102), risultando non impossibile l’eventualità ch’egli udisse leggere o
entrasse in contatto con altri testi gratulatori d’occasione, quali quelli di Mussato o di
altri, approntati a fini diplomatici.
Sul punto, salvo errore di chi scrive, resta da dire che non si conoscono altre
ricorrenze in clausola di contermina immediatamente seguito dal sostantivo mundus103.
Posto tuttavia che va considerato non solo ciò che è in clausola, a pena di restringere
ingiustificatamente la ricerca delle fonti, specie in un autore di non eccelsa sensibilità
umanistica come Dante, resta una notevole distanza grammaticale e di senso: infatti in
Ilaro contermina è neutro plurale accordato a regna, mentre in Mussato è femminile
singolare accordato a regio. Su tali basi, non sarà quindi impossibile riconoscere
l’influenza di un’altra fonte in versi, che può aver suggerito l’accostamento
dell’aggettivo contermina al sintagma (ultima) regna, e che porta il nome ben dantesco
di Lucano: «Inde peti placuit Libyci contermina Mauris / regna Iubae» (Phars., IX 300-1).
Rivolgiamoci ora alla ricorrenza di lata con patere; scrive Bellomo:

Quanto all’immagine dei regni che si spalancano [...] mi pare indubbio che risenta del
seguente verso delle Troades di Seneca [cui regna campi lata Thessalici patent, v. 878]. Le
concordanze elettroniche ci forniscono una sola occorrenza di patere combinato con l’aggettivo
latus [nell’improbabile Silio Italico] (Punica, XVI 674)[104]. Piuttosto sarà da considerare
l’espressione contigua [...] nella prima egloga dantesca, che però rispetto a quella senecana mi
pare meno pertinente105.

Sul punto occorre una riflessione preliminare: Bellomo, nel censire le rispondenze tra
Ilaro e Seneca, pone in marcata evidenza anche il lemma regna oltre a quello oggetto
d’esame, lata patent, creando un effetto fortemente suggestivo («cui regna campi lata
102
«Il Petrocchi [...] sostiene che questa affermazione [scil. “Verone per quadriennium continuum
operi studiose vacavit” di Filippo Villani] sia un tentativo di ovviare all’“errore” del Boccaccio [...]
ma di errore forse non si tratta se, come pare, è autentica l’Epistola a Guido da Polenta»; S.
Bellomo, in FILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum, cit., p. 39 e n. 58.
103
Osserviamo che la differenza di caso (mundo vs. mundi), diviene ora non rilevante,
diversamente che per Lucano (regna vs. regni, che a parità di trattamento avrebbe forse potuto,
per economicità, scalzare Claudiano).
104
La fonte è: «secura pericli / litora lata patent, et opima pace quieta / stat tellus». Si potrà
correggere il [XVI 674] indicato da Bellomo in [XVI 683].
105
Ivi, p. 224.
39
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Thessalici patent»), dando la ricorrenza di ben tre lemmi ilariani in un solo verso
senechiano. Fatto sta che regna è stato già utilizzato poco prima in servizio di Claudiano
(ultima regna), sicché delle due l’una: o si rinuncia al collegamento col De raptu
Proserpinae (e a Claudiano) o ci si limita al lata patent: come traspare dal suo dettato,
lo studioso sceglie questa seconda strada 106; e giustamente, vista l’attrazione di regna e
ultima. Ancora una volta la fonte, se si dimostrasse univoca, rimanderebbe ad un retore
distinto da Dante, poiché si suppone che il poeta fiorentino non conoscesse Seneca
tragico:

Circa la conoscenza o meno di Dante delle tragedie di Seneca [...] un fatto è certo: l’unico
riferimento ad esse sicuro, perché esplicito, compare nell’Epistola a Cangrande e ha tutta l’aria
di essere un generico riferimento che non prova minimamente una conoscenza diretta [...],
[d’altronde] anche se l’Alighieri conobbe le tragedie, pare però da escludere [...] una sua
conoscenza diretta della recensio E [tradizione del testo delle tragedie di Seneca riscoperta da
Lovato Lovati a Pomposa intorno all’ultimo quindicennio del XIII secolo e rimasta in circolazione
ristretta nei circoli proto-umanistici padovani]. Ebbene ancora una volta cogliamo con le mani nel
sacco il nostro falsario, poiché egli dimostra di conoscere Seneca proprio secondo il testo di E,
che al v. 878 delle Troades legge appunto patent, contro la lezione iacent della concorrente
famiglia A107.

Poiché, come si mostrerà, Dante poté ricavare il sintagma in questione da una fonte
a lui ben nota, non ci addentreremo in questa sede in una questione intricatissima
quale quella qui appena adombrata da Bellomo. Non ci si può tuttavia esimere da due
brevi osservazioni: in primo luogo la conoscenza diretta di Seneca tragico in Dante è
oggi ampiamente condivisa dagli specialisti, ed è communis opinio, restando l’opinione
contraria quasi isolata a Giorgio Brugnoli, il quale mostra sul punto la massima
intransigenza perché ciò gli è viatico per servire ad un’altra tesi minoritaria di cui era
alfiere: la falsità dell’epistola a Cangrande. Sarebbe arduo dar conto dettagliatamente
delle ragioni di ciascuno studioso, né è oggetto del presente lavoro; si rimanda pertanto
ai loro contributi per più precisi riferimenti 108.

106
Ne sia prova l’accostamento a Silio Italico, in cui Bellomo trova: «litora lata patent», senza
alcuna vicinanza a regna.
107
Ivi, pp. 225-6.
108
Dei ripetuti interventi in cui l’autore s’impegnò per arginare il dilagante affermarsi della tesi
contraria, cfr. da ultimo G. BRUGNOLI, Percorsi della tradizione manoscritta di Seneca, in Seneca
nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno nazionale di Chiavari del 19-20 aprile 1997, Pisa,
ETS, 1998, pp. 77-107. Dei precedenti da segnalare: ID., La tradizione manoscritta di Seneca
tragico alla luce delle testimonianze medievali, «Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», VIII, 1957, pp. 201-87; ID., Le tragedie di Seneca
nei Florilegi medioevali, «Studi Medievali», I, 1960, pp. 138-52; ID., «Ut patet per Senecam in
suis tragediis», «Rivista di Cultura Classica e Medievale», IV, 1963, pp. 146-63; ID., Dante - «Inf.»
XXX 13 sgg., «L’Alighieri», VII, 1966, pp. 98-9; ID., Cena Tydei, «Giornale di Filologia Italiana»,
40
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Infine, non si può in tutto concordare con l’altra affermazione sulla netta distinzione
tra le due famiglie A ed E che ci tramandano le tragedie di Seneca: se la famiglia E era
rara a cavallo tra XIII e XIV secolo in Italia, nonché sconosciuta in Europa, era però
diffusa proprio e solo nel distretto (ben dantesco) tra Padova e Verona, tra i circoli proto-
umanistici locali109; resta inoltre che la famiglia A pura era in Italia pressoché
sconosciuta al tempo di Dante, non se ne hanno testimonianze se non dalla seconda
metà del Trecento e, per gli anni immediatamente precedenti, solo la si ipotizza per
abduzione110, al punto che il suo archetipo (α’) è stato finora, e non persuasivamente, a
malapena congetturato111. Invece, com’è communis opinio tra i filologi classici, in quel

XVII, 1986, pp. 221-34. Si dà di seguito, cronologicamente disposta, la serie ormai imponente dei
principali studi specialistici che, pur con varietà di argomenti, si mostrano inclini alla tesi, oggi
largamente condivisa, di una conoscenza diretta di Seneca tragico: ampio ma dispersivo, E.
PROTO, Dante e i poeti latini, «Atene e Roma», XI, 1908, pp. 23-48 e 222-36; XII, 1909, pp. 7-24 e
278-90; XIII, 1910, pp. 79-103 e 149-62; ragionatissimo, E. G. PARODI, Le tragedie di Seneca e la
«Divina Commedia», «Bullettino della Società Dantesca Italiana», XXI, 1914, pp. 241-52; di
limitata importanza, F. GHISALBERTI, L’enigma delle Naiadi, «Studi Danteschi», XVI, 1932, pp. 105-
25 e ID., La Quadriga del Sole nel «Convivio», «Studi Danteschi», XVIII, 1934, pp. 69-77; un
cenno in F. MAZZONI, in velata polemica col primo contributo di Brugnoli, Guido Da Pisa interprete
di Dante e la sua fortuna presso il Boccaccio, «Studi Danteschi», XXXV, 1958, pp. 157-98, p. 93:
«E non entro su quanto vien detto un po’ di fretta, circa la conoscenza che Dante ebbe di
Seneca»; epigrafica, S. MALOSTI, Dante traduttore?, «Convivium», XXXII, 1964, pp. 242-59; di più
ampio spettro, ma con utili cenni su Seneca, A. RONCONI, Per Dante interprete dei poeti latini,
«Studi Danteschi», XLI, 1964, pp. 5-44; decisivo, G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca, ora in
ID., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 113-42; ricco di informazioni e ben ragionato, C.
ZAMPESE, «Pisa novella Tebe»: un indizio della conoscenza di Seneca tragico da parte di Dante,
«Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXV, 1989, pp. 1-21; di impostazione monografica,
G. MEZZADROLI, Seneca in Dante. Dalla tradizione medievale all’officina dell’autore, Firenze, Le
Lettere, 1990; ancora C. VILLA, Le tragedie di Seneca nel Trecento, in Seneca e il suo tempo. Atti
del Convegno nazionale di Roma-Cassino 11-14 novembre 1998, a cura di P. Parroni, Roma,
Salerno, 2000, pp. 469-80; EAD., Rileggere gli archetipi: la dismisura di Ugolino, in Leggere
Dante, a cura di Lucia Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 113-29. Più recentemente, T.
LEUKER, L’«orazion picciola» dell'Ulisse dantesco e un'invettiva di Seneca, «L’Alighieri», XXXII,
2008, pp. 91-4.
109
Scrive uno dei massimi specialisti, Alexander MacGregor, che: «Le esplicite testimonianze
storiche [...] indicano soltanto l’Italia del Nord come unica sede della tradizione-E dal XIV secolo
fino alla metà del XV. Soltanto [dal 1438 si trovano testi di tale famiglia] a nord delle Alpi [...]. Per
i precedenti centocinquant’anni, i discendenti localizzabili di “E” sono tutti nord-italiani [...] i
MSS-E di provenienza sicura sono ristretti a sette città della valle Padana, in un quadrilatero
formato da Cremona, Verona, Vicenza e Venezia. Il centro di quest’area rimane Padova, sede del
circolo pre-umanistico di Lovato e Albertino Mussato [...]. È affascinante, in ogni caso, vedere
questo manoscritto [scil. l’Etruscus o Pomposianus, capostipite della famiglia E] diventare – per
così dire – un sasso gettato in uno stagno: è da Padova che l’influenza di “E” si irradia in un
piccolo cerchio»; A. MACGREGOR, L’abbazia di Pomposa, centro originario delle tragedie «E», «La
Bibliofilia», LXXXV, 1983, pp. 171-85, pp. 175-8. Di quest’autore, si veda anche ID., The
manuscript tradition of Seneca’s tragedies: ante renatas in Italia litteras, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Society», CII, 1971, pp. 327-56.
110
Scrive Richard H. Rouse, nel suo fondamentale contributo sulla tradizione A: «The surviving
“pure” A manuscripts from fourtheenth century in Italy [...] descends from the β or English
family. Although these specific manuscripts date from the middle of the [XIV] century, they
provide a sound basis on which to assume that a β text had been brought, probably from
England, to Italy somewhat earlier, quite possibly many years earlier»; R. H. ROUSE, The «A» text
of Seneca’s tragedies, «Revue d’histoires et des texts», I, 1971, pp. 93-121, p. 118.
111
La congettura è di un altro specialista, Giancarlo Giardina, ma non è condivisa da Rouse, che
scrive: «Giardina tends to the theory that they [scil. i testi contaminati A + E] descend from a
41
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

tempo in Italia era diffusa una famiglia mista, denominata AE, basata su codici della
famiglia A interpolati da lezioni della concorrente, e più autorevole, famiglia E 112. In
conclusione, non si vuol certo affermare che Dante conobbe sicuramente la recensio E
(né d’altronde è minimamente certo che la conoscesse Del Virgilio), ma solo che poté in
via ipotetica entrarvi in contatto, poiché fin dal 1303 il poeta, a norma del De vulgari e
di altri notevoli elementi113, sosta ripetutamente proprio nell’area in cui allora andava
diffondendosi quella famiglia. Non solo. Anche qualora ciò non fosse, sarebbe da sapere
(e noi non lo sappiamo) quale tipo di interpolazioni avessero la fonte o le fonti (con
somma probabilità del tipo misto AE) di Seneca tragico che il poeta poté consultare,
prima di escludere con certezza che gli fosse sconosciuta una lezione piuttosto che
un’altra. Si aggiunga, a tal proposito, che manoscritti di Seneca tragico erano
sicuramente reperibili anche al di fuori del circolo lovatiano-mussatiano, come dimostra
il caso del dotto padovano Geremia da Montagnone. Il contesto è obiettivamente molto
complesso e non consente conclusioni univoche in alcun modo. Visto che la ricorrenza
proposta dal Bellomo non è né in clausola né strettamente consequenziale (c’è
Thessalici frapposto tra i due lemmi) e neppure metricamente coincidente 114, è aperta la
possibilità ad una derivazione di lata con patere che non rimandi necessariamente a
Seneca tragico; essa non è affatto rara, compare ben due volte, ad esempio, nei libri
iniziali delle Heroides di Ovidio: «[...] timeo tamen omnia demens et patet in curas area
lata meas» (Her., I 72) e: «quaque patent oculis aequora lata meis» (Her., II 122).
Giunti al premia solvunt, vi è invero un certo imbarazzo nell’affrontare un sintagma
che Dante (o il retore ilariano) sviluppa in base ad un concetto biblico talmente noto da
risultare pressoché anodino, rendendo quindi non facile la ricerca di fonti ad hoc115.
Tuttavia, limitando il discorso al profilo filologico, scrive Bellomo:

single A text which included copious variae lectiones from the E tradition [...]; he postulates the
existence of an independent A text in Italy descending from the primitive α, which designates α’.
However, it seems to me that the number and the significance of the variants in question are not
of sufficient magnitude to require the existence of α’»; R. H. ROUSE, The «A» text, cit., pp. 116-7.
112
Scrive Giancarlo Giardina, cui si deve l’attuale e più autorevole edizione delle tragedie di
Seneca: «La tradizione manoscritta del XIV secolo registra più di cento codici, tranne tre tutti da
includere nella recensio interpolata (A), più esattamente quasi tutti del tipo contaminato AE»; G.
GIARDINA, La riscoperta di Seneca tragico tra Quattrocento e Seicento, in Seneca nella coscienza
dell’Europa, a cura di I. Dionigi, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 172-83, pp. 173-4.
113
Cfr. G. INDIZIO, Le tappe venete, cit..
114
Osserviamo, con Bellomo, che il verso senechiano è metricamente disomogeneo rispetto al
verso ilariano: trimetro giambico il primo, esametro il secondo.
115
La lezione biblica era da lungo tempo proverbiale; si ritrova, ad esempio, in Eccl., XVI, 15; Ad
Rom., II, 6; Gen., IV, 13; Jos., XI, 20; Job., VI, 2; Esth., XVI, 18; Ad Hebr., X, 29 (nell’elencazione mi
servo di G. PADOAN, rec. a A. ROSSI, Il carme di Giovanni del Virgilio a Dante, «Studi sul
Boccaccio», II, 1964, pp. 475-508, p. 482 e n. 1).
42
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Per la clausola del secondo verso, soccorre ancora Claudiano, ma qui quello ancora più
desueto dell’In Eutropium (XX 211): «sic hostes punire solent, haec praemia solvunt /
excidiis»116.

Premesso che l’insistita ricerca di fonti tanto desuete finisce col provocare effetti
collaterali indesiderati, poiché oltre un certo dosaggio si finisce col mettere fuori gioco
non solo Dante ma anche il non proprio eccelso Del Virgilio, l’area semantica claudianea
appare invero piuttosto distante da quella ilariana 117; certamente la ricorrenza è di
qualche peso e si potrebbe passarla in giudicato ove non vi fossero altre vie accessibili.
Ma si danno di seguito alcune ricorrenze (la prima è prosastica) di praemia con solvere,
cui forse Dante poté ricorrere più agevolmente, attraverso la fonte diretta o excerpta,
florilegia e sententiae, che in quel raro testo claudianeo:
1) Cicerone: «Atque utinam, patres conscripti, [civibus] omnibus solvere nobis
praemia liceret!» (Phil., XIV 30);
2) Virgilio: «premia posse rear solvi»(Aen., IX 254);
3) Ovidio: «Tempus adest [...] / praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) /
solvere et ablatum terris inponere caelo» (Met., XIV 808-11).

Infine, per il sintagma pro meritis si osserva che, ove lo si leghi a praemia invece che
a solvere, si schiudono accostamenti più economici, sebbene prosastici, di quelli visti fin
qui, sulla scia del concetto proverbiale biblico (Matteo 16, 27: «Reddet unicuique
secundum opera eius»):

1) Dante: «Et cum premia sint meritis mensuranda iuxta illud evangelicum “Eadem
mensura qua mensi fueritis, remetietur vobis [Matth. 7, 2]”» (Mon., II III 5);
2) Tommaso d’Aquino: «Postulatio, ut praemia pro meritis retribuantur» (Lect. Sup.
I Ep. B. Pauli ad Tim., II, lect. 1);
3) Rabano Mauro: «sed pro meritis aeternitatis praemia» (Comm. in Eccl., VII 11);
4) Historia fratris Dulcini Heresiarche: «Ut pro meritis eorum premia digna
reciperent» (Cap. XI)118.

116
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 224. Si potrà correggere la citazione da [XX 211] in [XX
219].
117
Scrive Bellomo: «Si noti [...] come qui il sostantivo praemia sia amaramente declinato a
indicare il bottino di guerra, ricompensa di orrori e delitti e a un tempo punizione del nemico. Si
avvia cioè a comprendere anche la significazione negativa implicita nell’impiego del vocabolo
come vox media»; ibidem.
118
Quest’ultimo caso valga semplicemente come indice di un sintagma mediamente diffuso, non
raro.
43
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

In un contesto a tal misura proverbiale, attribuire a Claudiano e, per tale via, a Del
Virgilio il monopolio nell’accostamento di praemia con solvere pare forse eccessivo.
In aggiunta a quanto visto fin qui, si deve accennare ad un tema, ben altrimenti
vasto e complesso, riguardante le modalità con cui talvolta si attribuiscono presunte
fonti alla biblioteca di un autore medievale, traendo conseguenze capitali da meri
accostamenti di lemmi, spesso a ricorrenza unica e privi di altri riscontri; ma,
soprattutto, senza la debita attenzione verso il profilo culturale dell’autore, né per
l’effettiva accessibilità dei testi portatori delle pretese agnizioni. Ai presenti fini un caso
emblematico è dato proprio da Del Virgilio. Non può sfuggire che le fonti proposte da
Bellomo come materiali consultati per congegnare retoricamente gli esametri
pseudodanteschi annoverano in appena due versi e mezzo testi rarissimi e quasi
introvabili. Il caso di Claudiano è rivelatore. In alcune edizioni dello scambio eglogistico
(a cura di Albini-Pighi, Cecchini, ecc.) viene segnalato che il sintagma delvirgiliano
«Frondentes ripas [...]» (Ecl., III 4) è ripreso da Claudiano e dal suo «[...] frondentibus
[...] ripis» (Paneg. de sex. Cons. Hon. Aug., 195).
La proposta merita molta attenzione, perché potrebbe legittimamente persuadere –
chi ritenga Giovanni del Virgilio autore dell’epistola ilariana – che egli conoscesse
Claudiano. In realtà si tratta di un caso ben sintomatico del dispositivo attribuzionistico
cui si è accennato. La suggestione claudianea non si basa su di un calco perfetto ché, a
tacere della diversa collocazione nel verso e del disomogeneo contesto letterario, le
differenze strutturali tra i sintagmi sono evidenti (si pensi, per contrasto, alla ben altra
pregnanza del virgiliano «[...] divine senex, a sic eris alter ab illo eris alter ab illo» di
Ecl., V 49, mediato da Servio: «Videtur allegoria [...] hinc est tu nunc eris alter ab illo» e
traslato di peso da Giovanni nel suo «Fortunate senex, tu nunc eris alter ab illo» di Ecl.,
III 33); essa si fonda invece sul semplice accostamento dei lemmi frondens e ripa,
avendo cura di espungerne l’intermedio (umidus), non omogeneo alla combinazione
desiderata. Se altri fattori congiurassero per una conoscenza di Claudiano da parte di
Del Virgilio (una seconda ricorrenza claudianea, una generale affinità culturale, una
specifica vicinanza contestuale dei lemmi nei due testi, ecc.), la via per passare in
giudicato l’agnizione sarebbe meno disagevole, ma: a) non si danno ricorrenze
claudianee in altre sezioni delle opere delvirgiliane; b) Claudiano è un autore
generalmente poco noto nel Medioevo e, in quanto panegirista d’occasione,
culturalmente non contiguo al grammatico bolognese; c) anche a tacere della palese
imperfezione del calco, il contesto bucolico dell’egloga delvirgiliana è molto distante
dall’arido servilismo laudativo che pervade i versi del poeta greco-latinizzato al console
Onorio Augusto. Sul punto, altre due osservazioni s’impongono.

44
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

La prima, di portata generale, c’induce a dubitare sistematicamente delle pretese


agnizioni quando non debitamente sorrette da sicuri riscontri testuali ovvero da solide
affinità culturali e di genere letterario tra l’autore e la sua (presunta) fonte;
diversamente, è frequente assistere a proliferazioni agnitive ai limiti
dell’indocumentabile. Per Del Virgilio, ad esempio, dati per scontati Virgilio, Lucano e
Stazio, come pure i ben divulgati Orazio e Ovidio, tracce confortanti sono state portate
(Velli) per Arnolfo di Orleans, Giovanni di Garlandia, Draconzio, Servio, Eberardo
Alemanno, forse Fulgenzio119; muovendosi invece sulla base di meri, e quasi sempre
isolati, accostamenti combinatori di lemmi, gli studiosi (Albini-Pighi, Brugnoli-Scarcia,
Velli, ecc.) sono andati più lontano, sommando insieme una quantità pirotecnica di
autori, inverosimile per un modesto grammatico: dai non del tutto impossibili Iuvenco,
Sedulio, Prudenzio, Alano di Lilla, Persio, si è poi proseguito - con varia gradazione nella
proposta - con: Aratore, Giovenale, Properzio, Valerio Flacco, Paolo d’Aquileia, Gregorio
Magno, Marziale, Catullo, Venanzio, Terenzio, Livio, Cicerone, Cesare, Marziano Capella,
Fedro, Silio Italico, Calpurnio, Matthieu de Vendome, Seneca, Ennodio, Quintiliano,
Plauto, Tacito, Gellio, Macrobio, Nemesiano e Svetonio. Il che denuncia un’anomalia
metodologica alla fonte: un simile profilo obbligherebbe infatti a riconoscere a Giovanni
del Virgilio una così ampia conoscenza e una tale perizia in ingegneria preumanistica
del verso da doverlo affiancare, se non preporre, al circolo dei pionieri Lovato, Albertino
e Rolandino. Non solo. Poco o nulla si è tenuto conto dell’effettiva accessibilità dei testi
degli autori proposti, come pure del respiro culturale invero limitato del bolognese, e
delle fonti indirette disponibili, incluse le rigogliose tradizioni scoliastiche (in particolare
di Virgilio, Orazio, Terenzio, ecc.).
Considerando più da vicino l’agnizione claudianea osserviamo che, salvo rarissimi
prestiti da Ovidio, nell’occasione Giovanni rielabora pressoché esclusivamente
materiale virgiliano, su tutte: Ecl., II, V e VII, e Georg., IV; testi che, nella costruzione
dell’egloga delvirgiliana, pienamente soddisfano quanto ad ambientazione, contenuto,
personaggi e lemmi120. Non è tutto. Teniamo presente che nei primi 15 versi della
virgiliana Ecl., VII troviamo ben 8 lemmi (viridens, ripa, iuvencus, agnus, capella,
respondere, resonare, umbra) ricorrenti nei soli 11 versi iniziali dell’egloga delvirgiliana,
cui aggiungiamo il ben noto calco dell’incipit (Forte sub [...]); un affollamento rivelatore

119
Fondamentale G. VELLI, Il linguaggio letterario di Giovanni del Virgilio, «Italia Medioevale e
Umanistica», XXIV, 1981, pp. 137-58.
120
Sul tema scrive Bellomo: «Contro la mia tesi [i.e. la ascrivibilità del virgiliana o
peridelvirgiliana dell’epistola ilariana] si schiera ora [2006] G. Indizio […], ripercorrendo obiezioni
già ampiamente discusse e superate, ma indicando anche qualche fonte accessibile a Dante in
alternativa a quelle da me indicate: giudichi il lettore della loro maggiore o minore pertinenza,
senza confondere il campo del possibile, con quello del probabile»; S. BELLOMO, Dante letto da
Boccaccio, «Letture Classensi», XXXVII, 2007, pp. 31-6.
45
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

proprio lì dove cadrebbe l’inusitato inserto claudianeo (v. 4). Infine, frondens è un
lemma frequentissimo in Virgilio (Georg., II 119 e IV 24; Aen., III 25, V 129, VI 208, VII
135, ecc.) e collocato regolarmente in ambienti testuali vicinissimi all’egloga di
Giovanni121.
Al termine di questo lavoro l’autenticità dell’epistola può dirsi minimamente acquisita
né, per converso, può esservi più spazio per un esercizio retorico boccacciano 122,
sebbene non si potranno evitare futuri rilanci riproposti con i consueti toni di novità.
L’opinione di Billanovich e dei successivi suoi settatori va però definitivamente
archiviata.
Sebbene l’opinione di chi scrive sull’attendibilità dell’epistola sia palese, in questa
sede si proporrà conclusivamente un’ipotesi di lavoro volta a reperire elementi
contestuali in pro di chi aderisca all’opposta sponda attributiva. Partendo dall’assunto
che nella catena di trasmissione al Certaldese, che trascrive intorno al 1340, vi furono
sicuramente un abile retore (non necessariamente un falsario, anche se neppure

121
Naturalmente, ricombinando diversamente tra loro i diversi lemmi si potranno ottenere
sintagmi diversi e percorrere altri iter combinatori. Un esempio che dà da pensare si trova in
Avieno, geografo del IV secolo, in particolare per l’idea di cantare regni lontani: «Calliope,
Indorum populos et regna canamus. / Ultima terrarum tellus aspergitur Indi / fluctibus Oceani;
primam coquit hanc radiis sol, / sol Hyperionius, sol magni gratia mundi»; Perieg., 1294-7.
122
Non in tutto condivisibile l’affermazione di Billanovich il quale, volendo difendere Boccaccio
dalla taccia di falsificatore avanzata da Aldo Rossi per lo scambio eglogistico, dovette a sua volta
giustificare il presunto falso ilariano, ragion per cui scrisse: «Certo il Boccaccio imbastì nella
lettera del monaco Ilaro una sua versione fantastica delle peregrinazioni dell’esule Dante e della
formazione della Commedia; ma tenne questa lettera così celata dentro il suo solito Laurenziano
29. 8 che essa vi rimase sepolta per secoli»; G. BILLANOVICH, Giovanni del Virgilio, cit., p. 22. No,
le notizie pseudo-boccacciane non rimasero sepolte affatto. Abbiamo visto più volte come
Petrarca ne fosse in qualche misura destinatario e perciò a conoscenza, così come lo furono
coloro che attinsero al Trattatello e, più tardi, alle Esposizioni. Si segnalano, nella lista dei
recettori ancora trecenteschi l’Anonimo fiorentino: «Avea cominciato l’Autore questa sua
tripartita Commedia in questi versi latini: Ultima regna canam fluvido contermina mundo, /
Spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt /Pro meritis cuicumque suis, etc.; et già
distesa la materia alquanto inanzi, quando mutò consiglio, avendo rispetto che i signori et gli
altri uomini et potenti avean quasi del tutto abbandonati gli studj liberali et filosofichi, et quasi
veruno era che a scienzia attendesse; et se pur veruno v’attendea, facea i libri degli autori
traslatare in volgare»; chiosa a Inf., I, proemio; Benvenuto da Imola: «Secundo, quia autor,
videns liberalia studia, potissime poetica, esse deserta a principibus et nobilibus, quiprincipaliter
solebant in poeticis delectari, et quibus opera poetica solebant olim intitulari, et ob hoc opera
Virgilii et aliorum excellentium poetarum jacere neglecta et despecta, cautius et prudentius se
reduxit ad stilum vulgarem, cum jam literaliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido
contermina mundo, Spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt, Pro meritis cuicumque suis,
etc.»; chiosa a Inf., I 10-2; Filippo Villani: «Quibus respondetur poetam metro eroyco ceptitasse
hoc modo, videlicet: Ultima regna canam fluvido contermina mundo, spiritibus que lata patent,
que premia solvunt pro meritis cuicumque suis. Iamque in opere pluribus processerat odis;
deinde pensitatione meliori eidem placuit cum stilo simu consilium: animadvertit siquidem vir
prudens phylosophiam et ipsam poesim, similiter et liberalium artium studia fore a temporalibus
dominis penitus derelicta, qui huiusce studia multi pendere solebant»; chiosa a Inf., I Pref.. Tutti,
come si vede, accolgono la retorica falsificazione di Boccaccio, dal che è anche ragionevole
dedurre che non dovett’essere lui il retore-falsario: ben difficilmente infatti il Certaldese avrebbe
agito in modo tanto subdolo e malizioso da trarre ininganno simili personalità, con molte delle
quali era legato da stretti rapporti di sodalità e amicizia.
46
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

quest’ipotesi si possa escludere a priori) e un mediatore ilaro-boccacciano che recepì il


testo e lo trasmise a Boccaccio, si procederà a fissare i requisiti verosimili da rispettare
al fine di comporre una candidatura credibile al ruolo.
Per quanto la proposta di Billanovich sia da ricusare sul piano del merito, su quello
del metodo è indubbio, per chi scrive, che essa resti la sola via perseguibile e che anzi
la lezione di quel venerato maestro vada semmai estesa. Billanovich ha brillantemente
mostrato come viatico essenziale per indagare i testi medievali sia una convincente
ricognizione dei generi, delle fonti e dei referenti letterari cui ogni autore di quell’età si
ispira; pertanto, se di un retore-falsario del Trecento si vorrà seriamente discutere, si
dovrà dimostrare aver questi agito non solo come un abile centonista (il che, grazie alle
combinazioni allusive ed alle derive di senso virtualmente infinite che ogni testo offre,
potrebbe portare fin troppo lontano); ma anche come un medievale del Trecento: e
questo richiede di ricostruire un contesto culturale, metodi di lavoro ed exempla senza
misurarsi coi quali si finirebbe col proporre figure di retore-falsari forse troppo scaltrite e
vicine ad una sensibilità umanistica, se non modernizzante. Billanovich stesso, quando
contribuì a demolire lo stereotipo del Boccaccio falsario delle Egloghe, e Domenico De
Robertis, quando tolse ogni spazio alla falsificazione della Tenzone con Forese, ci hanno
diffidato dal prestare un eccesso di subdola perizia ai retori-falsari del Trecento, visto
che essi ne erano culturalmente sprovvisti. Quale che fosse la natura dell’operazione
letteraria in gioco (dicasi un esercizio retorico volto a magnificare un autore diletto, la
cd. pia fraus, ovvero il puro e semplice falso mosso da intenti speculativi): «Il Trecento
non è ancora l’età dei falsi macchinati per pura speculazione letteraria» 123.
Il primo nodo da affrontare, preliminare a qualsivoglia esame di un testo, falso o
retoricamente costruito, è il cui prodest? Se un autore produsse un non irrilevante
sforzo per comporre l’epistola, dovette avere un fine. Sotto tale profilo la candidatura di
Boccaccio è preferibile a quella di Giovanni del Virgilio. Più che credibile, iuxta propria
principia, la motivazione offerta da Billanovich:

Gli allarmi di Giovanni del Virgilio contro l’uso del volgare, che traducevano convinzioni che si
erano indurite nelle scuole [...] rimettevano in discussione per il Boccaccio l’esemplare venerato
della Commedia [...]. Naturalmente egli ricorse subito all’apologia del volgare che Dante aveva
esposto sulla soglia del Convivio, e ne ricavò come trama della difesa che immaginò di dover
fare di Dante e di se stesso il lamento che Dante lì aveva espresso contro i nobili che
abbandonavano l’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei 124.

123
G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 135.
124
Ivi, pp. 68-9.
47
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Un passaggio che, nella sua salda concisione, mette fuori gioco proprio Del Virgilio.
Se l’epistola ilariana appare agli studiosi, a tutti gli studiosi, fino almeno a Padoan, un
tentativo di difesa della scelta del volgare in pro di Dante e della Commedia (autentico
o meno non rileva per ora), non si vede come potesse alternativamente esserne autore
un Giovanni Del Virgilio, notoriamente contrario alla veste linguistica del poema sacro,
ovvero un qualsiasi grammatico o retore di analoga o più rigida osservanza accademica,
magari pre o proto-umanistica, di tipo «padovano». Se quel dettato non fu una difesa,
ma una palinodia scherzosa o d’altro genere, l’ipotesi di lavoro resta tutta da
dimostrare. Un primo tassello dello pseudo-Ilaro è in realtà proprio l’aperta e disponibile
sensibilità verso l’uso del volgare, di cui si abbozza palesemente una giustificazione,
risalendo al deplorevole stato culturale dei tempi 125.
Un secondo elemento che caratterizza il falsario dell’epistola riguarda il sicuro ed
ampio curriculum dantesco. È questo, si vedrà, un elemento discriminante, e ancora
una volta la candidatura del Certaldese si lascia preferire ad ogni altra. Boccaccio fu il
primo letterato di rango che fin dagli anni del suo apprendistato giovanile si rivolse a
Dante collazionando, a cavallo tra terzo e quarto decennio del XIV secolo, una silloge
invidiabile per ampiezza e valore. Tralasciando la Commedia, che non può avere peso
dirimente vista la sua diffusione, sarà invece utile esaminare i richiami ilariani tratti da
opere dantesche individuati da Billanovich, anche sulla scorta di Biagi e Rajna,
suddividendoli, a norma delle indicazioni dello stesso proponente, tra certi e possibili:
a) richiami certi: Convivio (I IX 5); Monarchia (I I 1-3 e 5; I III 3; I IV 4); Epistola IV
(per ambientazione lunigianese e dedica a Moroello); Epistola XI (2, 5, 16); Epistola
XII (2); De vulgari Eloquentia (II IV 2); Egloga II (vv. 48-9);
b) richiami possibili: Convivio (I I 12; I VII 14; IV VI 4); Monarchia (III XV 16); Epistola
XIII126; De vulgari Eloquentia (II IV 1); Egloga II (vv. 36-7).

Come noto, la tradizione delle opere di Dante ha una storia tormentatissima che solo
in parte, grazie ai tesori d’ingegno profusi dagli studiosi, è venuta oggi alla luce. Di una
cosa tuttavia non è da dubitare: a parte il poema sacro, alcune Rime e la Vita nova, la
gran parte delle opere minori dantesche ebbe una diffusione assai limitata, a volte
decisamente ristretta, il che, nell’identificazione del nostro retore-falsario, dovrà avere il
suo peso. Limitando prudenzialmente le osservazioni ai richiami certi, varrà la pena
ricordare che, escluso Boccaccio, pare non facile indicare chi altri, prima del 1340 –

125
Per Bellomo l’epistola sarebbe una «prosecuzione del dialogo bucolico intrapreso con Dante
[con il] sapore di una piccola rivincita postuma sul suo netto rifiuto di scrivere un poema latino»;
S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 232.
126
In realtà l’Epistola a Cangrande avrebbe titolo per risiedere tra i richiami certi, ma si preferisce
non procedere in tal senso.
48
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

anno della trascrizione laurenziana –, potesse aver acquisito una così vasta
dimestichezza con il corpus dantesco da poter combinare il dettato ilariano. È questo un
tassello qualificante del profilo dello pseudo-Ilaro: egli fu un precoce conoscitore di
Dante, probabilmente un cultore del poeta fiorentino. La storia della tradizione delle
opere minori di Dante consente indubbiamente un passo avanti nell’indagine, finora
non esperito:
• Monarchia127: sebbene non vi si possa dare peso dirimente, la storia del trattato ha
pure una sua peculiarità, che potrebbe avere un valore indiziario sui caratteri dello
pseudo-Ilaro. Come noto, la notizia del trattato si diffuse in certa misura subito
dopo la morte del poeta, tanto che vi è esplicita notizia, ad esempio, nell’epitafio
delvirgiliano. Una precoce tradizione fiorentina, a monte delle citazioni indirette di
Villani e Boccaccio, è facilmente congetturabile come per tutte le opere compiute
di Dante – ad eccezione del De situ –, ed è ormai indubbia128. Tuttavia, una fonte
informata e non sospettabile di minimizzare l’opera dantesca ci attesta che, in un
primo tempo, il trattato fu nel mondo dei letterati poco conosciuto 129. Ma non
erano passati dieci anni dalla scomparsa del poeta fiorentino che si verificò un
evento destinato ad incidere traumaticamente sulla fortuna del libello: la
strumentalizzazione perpetrata dai giuristi e dai polemisti che appoggiavano
Ludovico il Bavaro, al tempo dello scontro con papa Giovanni XXII, e che ebbe il
suo culmine negli anni 1327-‘29130; ciò provocò la reazione dei giuristi e polemisti
di parte curiale e spinse il cardinale Legato Bertrando del Poggetto a condannare
pubblicamente l’opera a Bologna, manifestando l’intenzione, poi fortunatamente
stornata grazie ai buoni uffici di Ostasio da Polenta e Pino della Tosa, di bruciare
anche le ossa dell’autore. Di questa vicenda, come noto, è sempre il Certaldese a
darci notizia sicura, confermato da una fonte autorevole ed indipendente quale

127
Più di uno i prestiti segnalati, tra i principali: «Il Boccaccio costruì il prologo di Ilaro sulla
falsariga del prologo della Monarchia»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 126; cfr.
altresì pp. 67-8. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.
128
In chiose, tratte da manoscritti laurenziani primo-quattrocenteschi (Pl. 42.14, 15 e 16), che
Rudy Abardo considera agli albori del secolare commento dantesco (ma potrebbe trattarsi
banalmente di materiale appartenente alla nebulosa dell’Ottimo), si trova scritto: «sì com’egli
tracta nella sua Monarchia nella prima et seconda parte; et volendo provare questo imperio
avere giurisdictione iudicatoria circa questi beni temporali, prova in questo modo: la pena che
de’ esser vendecta d’alcuno peccato, fa bisogno che sia imposta al peccante da persona che
abbi ordinario giudicio, altrimenti sarebbe non vendecta ma ingiuria»; R. ABARDO, Una nuova
fonte dantesca per Boccaccio, «Rivista di Studi Danteschi», III, 2003, pp. 429-42, p. 430 e n. 7.
129
«Per la qual cosa [scil. le polemiche tra le fazioni curialiste e imperialiste, e la condanna del
cardinale Del Poggetto] il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso»;
GIOVANNI BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, a cura di P. G. Ricci, Milano, Mondadori, 1974, p.
54.
130
Della copiosa bibliografia sul punto, basti il rinvio a G. BILLANOVICH, I primi umanisti italiani
nello scontro tra Papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, «Italia Medioevale e Umanistica»,
XXXVII, 1994, pp. 179-86.
49
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Bartolo da Sassoferrato (1313-‘57), allievo di Cino da Pistoia e chiaro giurista del


medio Trecento. Come riferisce Ricci, precedente curatore dell’Edizione Nazionale,
la condanna della Monarchia ebbe esiti non indifferenti sulla storia della tradizione
diretta ed indiretta, la quale da allora (1328 circa) non solo divenne rarefatta e
perfino criptica131, ma per alcuni decenni si canalizzò nel ristretto ambito della
polemica giuridica tra curialisti ed imperialisti. Non è un caso se, pur esprimendo
essi posizioni critiche tra loro anche molto difformi, la fortuna del trattato fino alla
metà avanzata del XIV secolo e oltre è affidata ai nomi di: Guido Vernani,
Francesco di Meyronnes, Alberico da Rosciate, Guglielmo Centueri, Bartolo da
Sassoferrato, Agostino Trionfi, Agostino Favaroni, Antonio dei Roselli 132.
Boccaccio, che da una redazione all’altra del Trattatello edulcorò il racconto
della condanna, obliterando in seconda redazione perfino il titolo del trattato, è un
buon termometro di quanto invece il mondo dei letterati-commentatori, dopo il
1328, vi si avvicinasse con un crescendo di cautelosa prudenza 133. In via di
probabilità lo pseudo-Ilaro che, a un di presso, scriverebbe tra il 1325 (dopo la
morte di Dante certamente) ed il 1335 (qualche tempo prima della trascrizione
boccacciana), per aver usato del trattato politico dovrà ascriversi tra i più precoci
cultori di Dante, o meglio ad un cenacolo dantesco connotato da comprovati
legami con tradizioni dirette del Dante minore; ovvero, meno persuasivamente, al
novero dei polemisti di formazione giuridica, meglio se al versante laico o
comunque di parte imperialista. Al novero dei lettori del trattato (lettori attenti, se
ne hanno usato per un falso o un’esercitazione retorica) pare improbabile ascrivere

131
Eloquente l’explicit alla Monarchia conservatoci nel celebre codice berlinese, scoperto da
Ludwig Bertalot nel 1917, contenente, tra l’altro, una tradizione fondamentale del De vulgari;
giunto al punto di dichiarare l’autore dell’opera, il copista scherzosamente glissa: «endivinalo sel
voy sapere». Chiosa Pier Vincenzo Mengaldo nella voce De vulgari Eloquentia curata per l’ED:
«[L’explicit] significa soltanto la volontà di mantenere anepigrafa e nascosta l’opera politica per
il pericolo della persecuzione ecclesiastica iniziatasi nel 1328».
132
L’esemplificazione non è da intendersi esaustiva, ma l’assunto di base non pare discutibile.
Riferimenti bibliografici essenziali: B. NARDI, Fortuna della «Monarchia» nei secoli XIV e XV, in ID.,
Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 163-205; M. MACCARRONE,
Dante e i teologi del XIV-XV secolo, «Studi Romani», V, 1957, pp. 20-8; N. MATTEINI, Il più antico
oppositore politico di Dante: Guido Vernani da Rimini. Testo critico del «De Reprobatione
Monarchiae», Padova, Cedam, 1958; A. VALLONE, Antidantismo politico nel XIV secolo, Napoli,
Liguori, 1973.
133
«[La condanna per eresia provocò per un verso] il rapido diffondersi del trattato, e per l’altro
la rapida distruzione di molte copie [...] bandite dai conventi, bruciate sulla piazza, ovunque
braccate. [Da allora in avanti la tradizione della Monarchia è drammaticamente sconvolta:] copie
volutamente rese anonime e celate in mezzo a scritti di altra natura, a testimonianza di tempi e
di luoghi nei quali era pericoloso possedere il trattato dantesco; [...] a tali copie altre se ne
contrappongono [di maggior cura formale e] con abbondanti postille [che] apertamente rivelano
le inclinazioni [che muovevano verso uno] studio aperto, lungo, polemico»; voce Monarchia,
dell’ED, curata da P. G. Ricci. Tra i primissimi commentatori (ante 1340) fa un uso diretto del
trattato, salvo errore, il solo Iacomo della Lana e, di mera conserva, l’Ottimo (chiosa a Par., VII
proemio).
50
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Boccaccio, né facilmente vi si ascriverebbe Del Virgilio, che non pare legato


stabilmente ad un cenacolo dantesco, né appartenne alla categoria dei polemisti-
giuristi militanti, né, al di là di un generico riferimento nell’epitafio dantesco,
mostra di conoscere a fondo la Monarchia134;

• Epistola IV135: in merito alla tradizione di quest’espistola, sulla scorta di Billanovich


Jenaro-MacLennan osserva molto perspicuamente che:

Yet we know that the epistle to Moroello was of extreme rarity throughout the Trecento,
Boccaccio himself and Sennuccio del Bene being the only two men of letters of that period
who give evidence of knowing it136.

Su tali basi la candidatura boccacciana, per altri versi irricevibile, appare


preferibile a quella delvirgiliana, messa qui palesemente fuori gioco. La storia della
tradizione dell’Epistola IV rimanda ancora una volta lo pseudo-Ilaro ad una ben
identificabile area: quella di un cenacolo dantesco, meglio fiorentino, che unico
garantisce, oltre ad una complessiva adesione al mondo culturale dantesco, anche
il necessario accesso alle opere minori, con un’ampiezza altrove sconosciuta;

• Epistola XI e XII137: tradizione unica, strettamente boccacciana, per entrambe le


epistole, con cogenti ricadute in termini di accessibilità del testo che obbligano ad
espungere non solo Del Virgilio, ma anche ogni altro presunto retore o falsario che

134
«Theologus Dantes [...] qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis / distribuit, laycis
rethoricisque modis» (vv. 1 e 5-7).
135
Afferma Billanovich: «La lettera di Ilaro dipende dalla lettera a Moroello»; G. BILLANOVICH, La
leggenda dantesca, cit., p. 138 e n.; cfr. altresì le pp. 110-1. Per Bellomo sarebbe naturale
pensare all’Epistola IV quale riferimento per Ilaro, tuttavia, sviluppando alcune riflessioni sulla
tradizione del testo e la sua accessibilità, lo studioso opta per espungerlo dalle fonti del falsario,
il quale avrebbe tratto ispirazione per l’ambientazione lunigianese e la dedica malaspiniana
semplicemente dai riferimenti elogiativi presenti nelle prime due cantiche e (ma è lectio facilior)
dalla fama del Monastero, concludendo che: «Del resto, se l’idea della dedica fosse venuta
dall’epistola a Moroello, si sarebbe probabilmente immaginato che Dante fosse diretto verso
l’Arno, cioè nel Casentino [...]; Ilaro pensava invece a un’altra mèta: Verona»; S. BELLOMO, Il
sorriso di Ilaro, cit., p. 233 e n. 82.
136
L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 118. Cfr. altresì G. BILLANOVICH, Petrarca
letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, p. 88 e n. 2; ID.,
La leggenda dantesca, cit., p. 132, n. 1. Note essenziali sulla tradizione delle epistole in F.
MAZZONI, Le Epistole di Dante, in Conferenze aretine, Arezzo-Bibbiena, Tip. Zelli, 1966, pp. 47-
100.
137
Afferma Billanovich: «In questa lettera [scil. l’epistola di Ilaro] emergono echi sicuri dalle
lettere di Dante ai cardinali italiani e all’amico fiorentino»; I D., La leggenda dantesca, cit., p. 138
e n. 1. Per l’epistola ai cardinali concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.
51
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

non abbia potuto attingere alla medesima tradizione la quale, per elementare
ragionevolezza, si vorrà fiorentina per la XII 138: fiorentina ovvero curiale per la XI;

• De vulgari Eloquentia139: solo apparentemente controverse le indicazioni


discendenti dalla tradizione del trattato dantesco sul volgare; da un lato la si
conosce esilissima, in generale settentrionale e bolognese/padovana in particolare
– ma un’originaria circolazione fiorentina sarà da mettere comunque in conto –, di
diffusione e fortuna oltremodo scarse 140; dall’altra si vorrebbe accreditare
(Mengaldo), sebbene senza ferma convinzione, una conoscenza precoce del
trattato (addirittura ante 1321) da parte del grammatico Del Virgilio, sulla base di
tenui richiami: a DvE, II IV 5 rimanderebbe il v. 50 del carme delvirgiliano (ma in
realtà è calco quasi perfetto di Virgilio, Buc., IX 36); a DvE, I X 9 rimanderebbero
invece i vv. 15-6 dello stesso carme («clerus vulgaria tempnit / [...] cum sint
idyomata mille»; ma forgiati su Orazio, Sat., II II 38 e su un usatissimo dispositivo
di finitum pro infinito); meno infido ma non dirimente il ricorrere dell’inusitato
astripetis in Ecl., I 5, che rimanderebbe a DvE, II IV 11. Naturalmente, per ricusare
l’accesso al trattato da parte di Giovanni Del Virgilio Dante vivente basterà notare
non solo che altri grammatici e dotti del tempo, da Francesco da Barberino ad
Antonio da Tempo fino a Gidino da Sommacampagna e, senza andare troppo
lontani, allo stesso Del Virgilio all’altezza della sua – non datata – Ars dictaminis,
ne ignorano completamente l’esistenza (come pure l’intero secolare commento
trecentesco); ma soprattutto che, trattandosi di opera incompiuta e per nulla
predisposta per la pubblicazione, non si vede come avrebbe potuto essere
divulgata dall’autore prima del 1321. Difficilmente eccepibile la notazione di
Guglielmo Gorni che, riferita alla tradizione del Convivio, calza ad unguem per il
De vulgari: «È un assurdo anacronismo pensare che Dante potesse divulgare una
sua opera imperfetta o promuoverne la conoscenza o lettura, lui vivo» 141. Ancora
una volta, le indicazioni che si ricavano in merito al profilo dello pseudo-Ilaro
appaiono piuttosto univoche: chi usò del trattato doveva far parte di un cenacolo

138
Salvo errore dello scrivente, rispetto al censimento di Billanovich l’Epistola XII è un caso non
ripreso né discusso da Bellomo.
139
Afferma Billanovich: «E ora egli [scil. Boccaccio] si affretta di incorporare anche un frammento
di quell’enunciato [scil. “que nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita”] nella sintesi
di disciplina retorica che fa esporre al suo Ilaro: [...] vulgari, dico, non semplici, sed musico»; ID.,
La leggenda dantesca, cit., p. 72. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.
140
Peraltro Boccaccio, come c’insegnano Billanovich e Branca, lo conobbe già all’altezza del
Teseida.
141
G. GORNI, Appunti sulla tradizione del «Convivio», ora in ID., Dante prima della «Commedia»,
Firenze, Cadmo, 2001, pp. 239-52, a p. 245.
52
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

dantesco, probabilmente quello fiorentino, che prima e meglio di ogni altro aderì e
si approvvigionò dell’opera dantesca, ivi inclusi testi inediti introvabili altrove;

• Convivio142: tralasciando i richiami evidentissimi dell’epistola di Ilaro all’Egloga II,


all’altezza dei presunti esametri incipitari del poema, come pure quelli, meno
stringenti, al carme delvirgiliano (i quali lasciano evidentemente impregiudicata
l’attribuzione a Boccaccio come a Del Virgilio), l’esame della tradizione e della
fortuna del trattato dottrinale ci permette un passo avanti. La tradizione del testo
è notevolmente tarda, in gran parte quattrocentesca, con soli due esemplari
trecenteschi ed una stringente connotazione fiorentina; scrive Guglielmo Gorni:

In questa tradizione [...] quel che resta è così francamente fiorentino, che si è
imbarazzati a interpretare questo fatto a norma della cronologia dell’opera e della sua
spettanza al tempo dell’esilio. Non sorprende, come è ovvio, che esista una vigorosa
tradizione fiorentina: bensì che non ne esistano [...] altre al di fuori di quella 143.

Sviluppando la fondamentale ricognizione di Franca Brambilla Ageno in sede di


Edizione Nazionale, Luca Azzetta giunge a censire citazioni indirette dell’Ottimo (in
forma anepigrafa in prima redazione, 1334 circa; in forma esplicita in terza
redazione, 1340 circa), di Pietro Alighieri (1341 circa) e di Andrea Lancia (1342
circa). Azzetta, nel corso di un’indagine serrata ed informata, mostra come i pochi
dati disponibili inducano a ritenere che: «il Convivio non fosse un’opera
comunemente accessibile e nota ai lettori della Commedia nel Trecento»144. Oltre
ai nomi di Guglielmo Maramauro, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti,
dell’Anonimo fiorentino e, dubitativamente, del minor Villani, Azzetta include nel
novero dei commentatori che non si servirono del trattato lo stesso Boccaccio che,
pur rubricandolo nel suo Trattatello, non ne ha lasciato traccia tangibile nelle
Esposizioni. La posizione è espressa già da Guglielmo Gorni:

Non si può che deprecare, in questa [scil. del Convivio] tradizione, l’assenza del
Boccaccio editore e copista [...] Una tradizione municipale che il Boccaccio non fece in

142
Afferma Billanovich: «Naturalmente egli [scil. Boccaccio] ricorse subito all’apologia del volgare
che Dante aveva esposto sulla soglia del Convivio, e ne ricavò come trama della difesa che
immaginò di dover fare di Dante e di se stesso il lamento che Dante lì aveva espresso contro i
nobili che avevano abbandonato l’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei»; ID., La
leggenda dantesca, cit., p. 69. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.
143
G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., p. 244.
144
L. AZZETTA, La tradizione del «Convivio» negli antichi commenti alla «Commedia»: Andrea
Lancia, l’«Ottimo commento» e Pietro Alighieri, «Rivista di Studi Danteschi», V, 2005, pp. 3-34,
p. 6.
53
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

tempo e non ebbe agio di conoscere [...] Chissà se il Boccaccio, che non lo trascrisse né lo
cita mai nel suo commento al poema, ne ebbe conoscenza diretta 145.

Se per Boccaccio si è in forse quanto ad un contatto diretto col trattato, per Del
Virgilio proprio non si vedrebbe come trovare uno spazio. La lettura del Convivio
prima del 1335-‘40, lontano da Firenze, è pressoché inconcepibile. La circostanza
vulnera in modo gravissimo la candidatura delvirgiliana, poiché indizi che il
grammatico bolognese frequentasse Firenze – men che meno che fosse accolto
stabilmente in un cenacolo dantesco –, sono non si dice scarsi, ma completamente
assenti. Non è tutto: se non fu Dante a riproporre ad Ilaro la lamentazione sulla
decadenza dei tempi moderni (incluso l’esito, che fu solo suo, di un poema sacro in
volgare), effettivamente solo un falsario a conoscenza del trattato avrebbe potuto
riecheggiarlo con quella vicinanza che tutti, da Biagi, a Billanovich, a Padoan e, ciò
che più conta, allo stesso Bellomo146, gli riconoscono. Senza ripetere le
considerazioni di Gorni sull’assurdità di un Dante che diffonda opere incompiute ed
in uno stato, a quanto è dato di risalire, precario, si può concludere che un accesso
diretto al trattato in tempi anteriori alla trascrizione laurenziana è circostanza da
ritenersi possibile unicamente nell’ambito del cenacolo fiorentino. Indizi che il
trattato cominciasse a circolare si hanno in anni così a ridosso di quella
trascrizione da doversi ritenere, se la verosimiglianza ha un peso, che: se non
autentico, il dettato ilariano fu architettato a Firenze non prima e non dopo il
1335-‘40, ossia tra il primo diffondersi in città del Convivio e la data della
trascrizione laurenziana. È appena il caso di ricordare che Giovanni del Virgilio
muore intorno al 1327, anno dopo il quale non si hanno più notizie di lui.

Peccando di semplicismo, chi scrive esclude non solo una qualsiasi ipotesi di
attribuzione boccacciana del testo, ipotesi non più sostenibile, ma altresì delvirgiliana 147.
145
G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., pp. 243-4 e n. 7. L’ipotesi di conoscenza diretta del
Convivio poggia su tenui e, a detta dello stesso proponente, elusive tracce nel Decameron; cfr. R.
FERRERI, Appunti sulla presenza del «Convivio» nel «Decameron», «Studi sul Boccaccio», XIX,
1990, pp. 63-77; nonché sull’attribuzione al Certaldese del volgarizzamento della quarta Deca di
Tito Livio che, oggi pesantemente sub iudice, quand’anche si rivelasse esatta è comunque
irrilevante ai presenti fini, in quanto da collocarsi successivamente alla trascrizione laurenziana
(1340-‘41 ca.), agli anni del soggiorno romagnolo (1345-‘48).
146
Traggo quest’indicazione anche dal seguente passaggio: «[Di fronte alla decadenza culturale
dei tempi] non restava che impiegare una lingua più pervia, concludendo con una metafora
parente stretta di quella da cui rampollerà il titolo di Convivio, invano si porge alla bocca dei
lattanti un cibo da masticare»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 204.
147
Per Bellomo è «respinta l’ipotesi di Billanovich»; IVI, p. 217, mentre l’ipotesi di una
falsificazione di diversa paternità, a suo avviso, è stata da Padoan obliterata «un po’
frettolosamente»; ibidem. Certo solleva perplessità l’atteggiamento del finto Ilaro per la sua
totale disattenzione ai profili pseudo-epigrafici tipici di ogni consimile operazione, per i quali la
credibilità o l’antichità di un testo, apocrifo o falso, guadagnano enormemente dall’attribuzione
54
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

A quanto visto fin qui si può aggiungere che, a fronte delle doti non comuni di mimesi
letteraria richieste allo (pseudo-)Ilaro, il pur onesto grammatico bolognese ci appare un
letterato impari al compito; ritessendo le fila di un secolo di studi, Giovanni Reggio
traccia un bilancio che non dà scampo:

L’egloga di Giovanni del Virgilio mostra una differenza assai notevole rispetto a quella di
Dante [...] Guardiamo anche la struttura stessa dell’egloga: né scena pastorale, né dialogo. C’è
un convenzionale sfondo bucolico e l’egloga si riduce ad un lungo monologo di Mopso in cui si
riprendono e si avviluppano spunti dell’egloga dantesca. Quindi la forma del genere è infelice
nella composizione; gli ingredienti, per così dire, pastorali applicati dall’esterno: opera di un
grammatico, insomma, non di un poeta [...]. A giudicare dall’egloga, si direbbe che in un così
mediocre poeta, come Del Virgilio, l’intensità del suo sentimento d’affetto verso Dante [...]
facessero intoppo alla fantasia e i versi gli riuscissero sforzati e contorti 148.

Per quanto avventurarsi in illazioni sia sempre sconsigliabile, nei limiti di un’ipotesi di
lavoro chi scrive ritiene che la tradizione delle opere di Dante impiegate per combinare
il dettato ilariano rimandi univocamente ad un’unica e ben determinata area
geografico-culturale, che sola poté accogliere al suo interno ed alimentare
adeguatamente un retore-falsario di memorie dantesche, e sia pure per pii fini laudativi;
un autore, preferibilmente fiorentino o comunque partecipe di quel cenacolo che con

(strumentale ma esplicita) all’auctoritas di riferimento. Per restare all’ambito strettamente


dantesco, pensiamo alle pretese falsificazioni dell’epistola a Cangrande, i cui sostenitori possono
almeno vantare il conforto del rispetto delle più elementari norme pseudo-epigrafiche, senza cui
l’intera operazione rischierebbe di abortire sul nascere; ma la lista potrebbe estendersi a piacere.
Autorevole e illuminante con riferimento all’ennesima presunta (fortunatamente senza seguito)
falsificazione dantesca, la Tenzone con Forese, è l’intervento di Domenico De Robertis che,
mutatis mutandis, si adatta come un guanto al caso ilariano. Dopo aver doverosamente
premesso che una contraffazione di carattere filologico (come evidentemente è quella ilariana)
sarebbe «inconcepibile per l’epoca», lo studioso tocca lo spinoso problema dell’architettura del
falso in più passaggi; il seguente mi pare di una pregnanza notevole per ricostruire l’abito
mentale di un “vero” falsario del Trecento: «A fare accettare la cosa, a mettere in circolazione il
falso, sarebbe bastato porre il nome di Dante [...] senza preoccupazione di verosimiglianza
paleografica. Rime antiche sono state acquisite in abbondanza attraverso testimonianze
recenziori e fin la tradizio ne a stampa»; ancora, notando l’impressionante diversità di mano tra i
testi poetici sicuri di Del Virgilio, di mediocre fattura, e l’incipit ilariano, nonché, paragonando
l’ordito diversissimo delle opere accademiche delvirgiliane con l’ampia sezione prosastica
dell’epistola, viene lecito riprendere un altro passaggio di De Robertis: «E soprattutto, siamo
sicuri si tratti, non dico della stessa mano, ma dello stesso linguaggio? [...] Perché va bene la
contraffazione, ma che diavolo di falsario sarebbe questo! Dante gli riserverebbe un posto
d’onore nella decima bolgia»; D. DE ROBERTIS, Ancora per Dante e Forese Donati, in Feconde
venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, 2 voll., a cura di T. Crivelli, Bellinzona, Edizioni
Casagrande, 1997, I, pp. 35-48, citazioni alle pp. 35-6 e 41. In realtà, sarebbe invece da spiegare
come mai il falsificatore di Ilaro abbia rinunciato a ciò cui qualunque suo collega avrebbe
rinunciato malvolentieri. Sul tema del falso letterario, con particolare riferimento a Dante, sia
consentito ora rimandare a G. INDIZIO, Dante e l’enigma del monaco Ilaro di S. Croce del Corvo,
«Dante Studies», CXXIV, 2006, pp. 91-118.
148
Il giudizio è di uno specialista delle egloghe dantesche, G. REGGIO, Le «Egloghe» di Dante,
Firenze, Olschki, 1969, pp. 70-8.
55
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

tanta sollecitudine ammirò e custodì le memorie dell’esule, cui parteciparono con ogni
verosimiglianza Pietro e Jacopo, e tra cui dovremo ancora almeno nominare Giovanni
Villani, l’Ottimo, Andrea Lancia, Sennuccio del Bene: oltre che, una volta ristabilitosi a
Firenze - ma virtualmente fin dagli anni napoletani -, Giovanni Boccaccio. È questa, a
mio parere, la sola strada che i sostenitori della tesi dello pseudo-Ilaro (abile retore o
malizioso falsario che sia) potranno sensatamente percorrere per trovare adeguato
riscontro ad una candidatura che, ad oggi, pare estremamente sfuggente.
Allo stato attuale ritengo probabile che vi fosse o avesse stabili contatti con Firenze,
intorno agli anni 1325-‘40, un mediatore ilaro-boccacciano, ossia un cultore dell’opera
dantesca che si trovò, per vicissitudini proprie, nella posizione di poter recepire e
trasmettere a Boccaccio un testo memorabile (autentico) di area lunigianese. Già
queste pur caute osservazioni ci mostrano come Boccaccio, se fu tratto in inganno,
come è d’obbligo ipotizzare nell’ipotesi di un testo non autentico, lo fu da un sodale
fiorentino. Il testo, infatti, dovett’essergli trasmesso come assolutamente affidabile:
ricordiamo che il Certaldese rifuse le notizie essenziali dell’epistola in numerose sue
opere, anche le più impegnate sotto il profilo dell’erudizione e dell’esegesi; nonché in
corrispondenze, come quella con Petrarca (Ytalie iam certus honos), per cui è per nulla
agevole invocare «una soglia di coscienza tra il vero e il falso assai più alta della
nostra»149. Tuttavia l’inganno del grande novelliere è circostanza, considerati i rapporti
di profonda stima ed amicizia che dovettero intercorrere in quel cenacolo di sodali, assai
poco verosimile150.
Infine, sia consentito sondare il cenacolo fiorentino dantesco per proporre
conclusivamente una candidatura al ruolo di mediatore ilaro-boccacciano, in base ai

149
Traggo la citazione da S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 228. Bellomo, iuxta propria
principia, ragionevolmente concede che dalla falsa epistola ilariana «fu ingannato il Boccaccio»;
ibidem.
150
Benvenuto da Imola ci ha lasciato una testimonianza notevole di come Petrarca e Boccaccio,
di fronte alla vulgata di un Dante insufficiente al verso latino, ne difendessero la scelta
linguistica nella composizione del poema; una difesa che si fonda appunto sulla lamentazione
ilariana (dico ilariana perché affidata ad Ilaro ben più che all’inedito e quasi sconosciuto
Convivio) sullo stato culturale dei tempi, e di cui proprio Boccaccio era stato il divulgatore, con
ciò – sia detto per l’ennesima volta - escludendosi funditus et radicitus ogni ipotesi di
falsificazione da parte sua: «Quia auctor [scil. Dante], videns liberalia studia, potissime poetica,
esse deserta a principibus et nobilibus, qui principaliter solebant in poeticis delectari, et quibus
opera poetica solebant olim intitulari, et ob hoc opera Virgilii et aliorum excellentium poetarum
jacere neglecta et despecta, cautius et prudentius se reduxit ad stilum vulgarem, cum jam
literaliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / Spiritibus quae lata
patent, quae premia solvunt / Pro meritis cuicumque suis etc. Alii tamen et multi comuniter
dicunt, quod autor cognovit stilum suum literalem non attingere ad tam arduum thema; quod et
ego crederem, nisi me moveret autoritas novissimi poetae Petrarcae, qui loquens de Dante
scribit ad venerabilem praeceptorem meum Boccatium de Certaldo: “Magna mihi de ingenio ejus
oppinio est potuisse eum omnia, quibus intendisset”» (chiosa a Inf., II 10-2). Che il contesto in
cui Benvenuto inserisce la nota risposta di Petrarca a Boccaccio – i quali egli conobbe de visu –
sia strettamente ilariano è visibilmente fuor di dubbio.
56
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

caratteri ed al profilo qui ricostruito. Se l’appartenenza alla schiera dei precoci cultori
danteschi è un dato oggettivamente verosimile, come pure la fiorentinità e l’adesione
all’espressione letteraria in lingua volgare (toscana), dal lato soggettivo aver costui
intrattenuto relazioni documentabili con l’area lunigianese e con Boccaccio ci appaiono
credenziali quanto mai desiderabili. Su tali basi, l’ipotesi di lavoro non può che
convergere sul nome di Sennuccio del Bene.
Sennuccio di Benuccio di Senno del Bene (1265/’70-1349) fu rimatore fiorentino
tradizionalmente incluso tra i minori, partecipe defilato ma sicuro del periodo
stilnovista, precocissimo settatore di Dante e suo sodale politico, oltre che fedele
imitatore; personalità cospicua per rango familiare, mezzi economici e relazioni curiali:
in primo luogo con la fondamentale clientela cardinalizia avignonese ma anche curtensi
con le aule ben dantesche di Arrigo VII e dei lunigianesi Malaspina; che ben poteva
coprire il ruolo di mediatore letterario verso Boccaccio, come infatti fu ed è
documentato tanto per la capitale esperienza dantesca quanto per l’emergente
magistero petrarchesco. Non pare agevole, ad oggi, rintracciare altri nomi di sì provate
credenziali da poter ragionevolmente soppiantare Sennuccio quale tramite a Boccaccio
del testo ilariano, sia pure, s’intende, nei termini di una ipotesi di lavoro. A conforto, si
riportano di seguito alcune osservazioni tratte dagli studi di Billanovich, Mazzoni e
Piccini che, per chi accetti i presupposti qui accolti, non difetteranno, grazie
all’autorevolezza dei contributori, di valore probatorio:
1) precoce culto di Dante: «per Sennuccio la stella polare è Dante [...]. L’influsso
dantesco è nel complesso talmente ingente da parere incalcolabile: non c’è quasi
componimento, non escluso il giovanile tirocinio stilnovistico, in cui Sennuccio non
guardi a qualcuno dei versanti toccati dal suo grande concittadino [...] fino al limite
della citazione integrale»151;
2) mediatore dantesco-boccacciano: «a conferma dei rapporti tra i due non
esistono prove documentarie, ma indizi testuali che rendono credibili ipotesi
biografiche»152. In quest’ambito tessere inequivocabili sono rappresentate dalla
corrispondenza tra Dante e Cino, dall’epistola a Moroello ed all’Amico fiorentino
(molto probabilmente anche quella ai Cardinali, forse quella ad Arrigo) che, dicasi
le prime due, Sennuccio sicuramente imitò in testi propri e che: «provano, come

151
D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., pp. XXXI e LII.
152
Ivi, p. XXV; imponente il novero di studiosi che si sono espressi in tal senso: E. G. PARODI,
recensendo G. VOLPI, Rime di trecentisti minori, «Bullettino della Società Dantesca Italiana», XVII,
1910, pp. 79-80; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., pp. 132-3 e n. 1, poi con
aggiornamenti in ID., L’altro Stil nuovo. Da Dante teologo a Petrarca filologo, «Studi
Petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1-98, in particolare pp. 47-51; F. MAZZONI, Moderni errori di
trascrizione nelle epistole dantesche conservate nello Zibaldone Laurenziano, in Gli Zibaldoni del
Boccaccio, cit., pp. 315-25, pp. 316-7.
57
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

aveva [già] visto il Billanovich, il maneggio da parte di Sennuccio di testi non


comuni all’epoca, la sua funzione, insomma, di mediatore ([...] presso il giovane
Boccaccio) di preziose perle dantesche» 153;
3) relazioni con la Lunigiana: «Non sarà un caso che sia l’Epistola IV che la
canzone “montanina”, sia d’altra parte una porzione delle rime di corrispondenza
con Cino [...] abbiano a che fare con la persona di Moroello e con i Malaspina. Quel
marchese Franceschino, di cui Dante fu procuratore per rogare la pace col vescovo
di Luni il 6 ottobre 1306, è colui che Sennuccio cita esplicitamente dopo la morte
di Arrigo VII (in Da•ppoi ch’i’ ho perduta) come speranza e rifugio»154. È poi noto
che Sennuccio, Cino, Moroello e Franceschino furono presenti alle cerimonie regali
di Milano tra dicembre e gennaio 1310-‘11. Evento cui, con verosimiglianza, prese
parte anche Dante. Conclude Piccini: «Facile che i Malaspina abbiano passato a
Sennuccio intorno a quegli anni [...] le carte dantesche in qualche modo
concernenti il casato»155.

Per lo scrivente l’epistola di Ilaro è un testo autentico, che ci salva notizie


preziosissime per la biografia dantesca, di norma molto avara di testimonianze e notizie
anche solo vagamente attendibili156. L’evento cui fa riferimento l’epistola è da
assegnarsi per elementi interni al periodo post arrighiano, nella fase in cui Federico
d’Aragona ed Uguccione della Faggiuola apparvero come gli immediati eredi e
continuatori dell’opera di Arrigo VII, quindi tra il 1314 ed il 1315, preferibilmente la
prima e non la seconda metà, poiché Morello Malaspina è dato da Ilaro ancora per

153
D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., p. LIV. Pienamente condivisibile la chiosa di Billanovich:
«Perciò ritengo che a Napoli proprio Sennuccio – e non Cino da Pistoia, benché maestro di
quell’Università – abbia passato al Boccaccio, lì ancora studente e largamente sottoposto
all’influenza di Dante e specialmente della Comedìa, i testi di due epistole di Dante, ciascuna
seguita da un sonetto, l’uno e l’altro imitati da Sennuccio nel suo sonetto Punsemi il fianco Amor
con nuovi sproni: l’epistola a Cino [...] e l’epistola a Moroello Malaspina»; G. BILLANOVICH, Da
Dante al Petrarca e dal Petrarca al Boccaccio. I. Firenze, Padova, Avignone, Napoli, in Il
Boccaccio nelle culture, cit., pp. 583-95, p. 591.
154
Ibidem.
155
Ivi, p. LV. Chi scrive ritiene forse eccessiva l’ipotesi di Piccini, sebbene in sé non impossibile.
Assodati i fitti rapporti con la corte dei Malaspina, specie con Franceschino e Moroello, che
aprivano a Sennuccio una finestra importantissima su un’area di sicura danteità, sarebbe più
ragionevole ritenere che egli richiedesse e ottenesse copia di testi danteschi in loro mano, come
pure notizie di area lunigianese riguardanti il grande concittadino, che a tempo debito passò al
Certaldese, il quale, sul punto, riferisce non a caso aneddoti notevoli. Che abbia avuto accesso ai
testi originali, come paventa Piccini, che parla di trasmissione delle «carte dantesche [...]
concernenti il casato», pare meno probabile, a giudicare, ad esempio, dagli errori di trascrizione
delle epistole da cui sono viziate le copie per dir così “sennucciano-boccacciane” dello Zibaldone
laurenziano, per cui cfr. l’importante intervento di F. MAZZONI, Moderni errori, cit.; cenni in ID., Le
Epistole di Dante, cit..
156
Tra i più recenti ed attrezzati sostenitori di una manipolazione del testo, ma non di falso
integrale, si veda A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro, cit..
58
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

vivente, ed egli morì l’8 aprile 1315157. Il testo lunigianese fu recuperato anni dopo da
una personalità di sicura appartenenza dantesca, che certamente fu agevolata nel
rintracciare il reperto nella misura in cui poté avvantaggiarsi di consolidati rapporti con
la più cospicua corte della Lunigiana, quella dei Malaspina. Questa personalità di sicura
autorevolezza, da cui doverosamente ci attendiamo una stretta vicinanza all’opera di
Dante, come pure precoci scambi culturali con Boccaccio, può essere identificata in via
ipotetica con Sennuccio del Bene158.

157
La preziosa segnalazione mi è venuta dalla cortesia di Eliana M. Vecchi, che ha recentemente
recuperato la notizia in un Liber anniversariorum del convento genovese di S. Francesco di
Castelletto, per cui cfr. EAD., La data di morte di Morello Malaspina, signore di Giovagallo, e il
problema della sua sepoltura in Genova, «Studi Lunigianesi», XXXII-XXXIII, 2002-‘03, pp. 81-90.
158
Suggestiva è per chi scrive l’illazione per cui Sennuccio si sia portato a Napoli nel 1341 per le
celebrazioni poetiche petrarchesche (circostanza, dati i rapporti strettissimi tra i due personaggi
e la comune devozione agli studi, da ritenersi più che plausibile, al di là di quanto testimonia la
Varia LVII sulla presenza di Sennuccio a Napoli ante gennaio 1342); in quell’occasione potrebbe
aver trasmesso a Boccaccio testi danteschi non recapitati in precedenza, penso soprattutto al De
vulgari, che il certaldese mostra di conoscere solo nell’ultima opera napoletana, il Teseida (ma
una successiva revisione fiorentina è ugualmente certa), ed all’epistola di Ilaro che il grande
novelliere, forse non a caso, copia con le egloghe nella postrema sezione napoletana dello
Zibaldone laurenziano (ff. 67r-72v).
59

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