Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
italiana (1911-1945) *
Luca Conti
§1. Introduzione
2
contraddetta altrove, magari lo stesso giorno, da asserzioni
opposte. Eppure, il risultato dell’esame di articoli e saggi
pubblicati in Italia prima del 1945 che riguardano Schönberg
(senza dimenticare i pochi che vertono su Berg e gli scarsi
accenni a Webern2), produce statisticamente una galleria di
ritratti molto simili tra loro, un monotono ricorso ad alcuni
stereotipi, con qualche isolata e ardita incursione nel terreno
dell’analisi o almeno con qualche tentativo di approfondimento
critico. Si profila così una realtà, forse scontata, ma molto
tangibile: la recezione dei viennesi rappresentati in molti casi,
anche per un processo di semplificazione, dal solo caposcuola
Schönberg, risultò pesantemente condizionata da fattori
ideologici di matrice nazionalista e/o fascista. Fino al secondo
dopoguerra si delinea anzi il singolare paradosso di un autore
innovatore, recepito senza che ne siano materialmente disponibili
le opere scritte dopo il 1925. In molti casi Schönberg è definito
interessante, geniale, ma alla fine è considerato soprattutto un
autore da rifiutare in partenza, anzi in certi casi da fermare
letteralmente alla frontiera, di cui parlare da lontano a scopo
apotropaico con l’implicita intenzione di stroncare qualsiasi
tentativo di emulazione da parte delle nuove generazioni di
musicisti italiani. Non a caso gli stereotipi più ricorrenti che
vengono applicati al compositore sono quelli della vecchiaia,
della decrepitezza, dell’appartenenza a una civiltà al tramonto, in
contrasto più o meno esplicito con le novità “italiche”, la cui
genuinità ed esclusività sono garantite dal radicamento nella
tradizione nazionale. Si registra in alcuni circoli della critica
italiana un interessato e vizioso passaparola, solo di rado messo
in crisi da uno schietto imbarazzo dinanzi a una nuova
concezione musicale. Di qui la decisione di non prendere affatto
in esame, in questa sede, la recezione della seconda scuola di
Vienna nelle opere di autori italiani, un fenomeno successivo –
escludendo il caso di Dallapiccola – alle diatribe verbali
riguardanti la dodecafonia, che pure anticipano e condizionano
2 Sulle peculiarità recettive della figura di Webern e sulle sue diverse
interpretazioni cfr. l’utile saggio di G. BORIO, L’immagine “seriale” di
Webern, in L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, a cura di
G. BORIO e M. GARDA, Torino, EDT 1989, pp. 185-203.
3
questo rapporto. Ci interessa di più la fase iniziale di quel
dibattito, l’insorgenza e il radicamento di pregiudizi che hanno
continuato ad animare la propaganda anti-dodecafonica per molto
tempo, ben oltre la fine degli anni Quaranta. Si tratta di fenomeni
di antica data. Con grande lucidità, fin dai primi anni Dieci, nel
saggio Pro e contro la musica moderna, Giannotto Bastianelli
aveva individuato due opposti indirizzi della critica italiana alle
prese con le novità musicali, nella fattispecie opere di Bloch,
Mahler, Strauss e Debussy. Indirizzi così divergenti da apparire
provenienti da due paesi diversi: uno provincialmente
indifferente; l’altro, raffinato «ma sprovvisto d’equilibrio tra
l’enorme sua preparazione artistica e la scarsa facoltà filosofica di
sottoporre a un ferreo metodo critico i giudizi disordinati del
gusto estetico»3. Per Bastianelli, i due approcci che si contendono
il campo sembrano anche prodotti da persone appartenenti a due
epoche diverse, quella romantica e quella delle cultura decadente
o d’eccezione, in quegli anni «in pieno vigore sebbene già minata
da pensatori come Benedetto Croce […]. Naturalmente, a
seconda che il critico appartenga all’una o all’altra epoca, i
musicisti modernissimi appaiono come un tramonto o come
un’aurora, come dei corruttori o come dei risanatori» 4. Se il
critico e compositore italiano reagisce a questa falsa alternativa e
rivendica la centralità dell’artista e la libera generazione
dell’opera, nel giro di qualche anno anche la figura di Schönberg
verrà colta nell’angusto ricettacolo epocale della dicotomia
“tramonto versus aurora”, con nettissima prevalenza statistica
della prima opzione.
Tra gli anni Venti e Trenta, con questi presupposti, anche
il problema della pertinenza tecnica generale, lessicografica, del
termine ‘dodecafonia’ – in senso alaleoniano o schönberghiano o
in qualche caso persino haueriano – nonché del sempreverde
‘atonalità’, passa in secondo piano. Se ne registra invece un uso
marcatamente individualista e strumentale. È soltanto una delle
conseguenze del condizionamento totalitario nazional-fascista,
3 G. BASTIANELLI, Pro e contro la musica modernissima, in Saggi di critica
musicale (Musicisti d’oggi e di ieri), Milano, Studio Editoriale Lombardo
1914, p. 13.
4 Ibidem, pp. 13-4.
4
che isolò le serie indagini di Dallapiccola e pochi altri,
impedendo la divulgazione della dodecafonia come tecnica
musicale. Le vere novità si registrano soltanto a partire dai primi
anni del secondo dopoguerra, quando molti compositori italiani,
tra cui diversi esponenti del nazionalismo musicale, scelgono la
strada della dodecafonia. In questo senso, un appuntamento
cruciale è quello del “I Congresso per la Musica dodecafonica”
organizzato a Milano da Riccardo Malipiero Jr. nel 1949, che
conferma l’esistenza di una coalizione abbastanza compatta,
malgrado le differenze di approccio compositivo5. Differenze che
nel volgere di una decina d’anni si accentueranno, fino a rendere
quasi inservibile l’etichetta ‘dodecafonia’. L’Istituto Kranichstein
di Darmstadt, fondato nel 1946 da Wolfgang Steinecke, diviene
gradualmente un importantissimo punto di riferimento per
compositori, interpreti e studiosi di musica contemporanea. A
vanificare lo sforzo di delineare una tendenza dodecafonica
italiana – nonostante, ancora una volta, l’esempio di Dallapiccola
– contribuirà allora anche il dichiarato carattere, liberatoriamente
internazionale, della Neue Musik darmstadtiana.
Durante il convegno del 1949, Malipiero pose all’ordine
del giorno la domanda: la dodecafonia è un’estetica o una
tecnica? La maggioranza votò a favore della seconda ipotesi 6.
Appare evidente il superamento della fondamentale idea di
Schönberg, secondo il quale la dodecafonia era da intendere nel
senso più ampio di metodo compositivo, piuttosto che come
tecnica. Si tratta di un importante indizio di una tendenza che di
lì a poco avrebbe prevalso. Non a caso, poco prima del convegno
milanese era uscito il manuale di Carlo Jachino 7, primo testo
originale in italiano sull’argomento, che espone in forma di
prontuario i principii essenziali di quella che, fin dal titolo del
5 Cfr. C. PICCARDI, “Tra ragioni umane e ragioni estetiche: i dodecafonici a
congresso”, in Norme con ironie. Scritti per i 70 anni di Ennio Morricone, a
cura di S. Miceli, Milano, Suvini Zerboni, 1998, pp. 205-68.
6 R. MALIPIERO, La dodecafonia come tecnica, «Rivista Musicale Italiana»,
1953, p. 277; cfr. anche C. PICCARDI, Tra ragioni umane e ragioni estetiche,
in Norme con ironie. Scritti per i 70 anni di Ennio Morricone, a cura di S.
MICELI, Milano, Suvini Zerboni, 1998, pp. 205-68.
7 C. JACHINO, Tecnica dodecafonica. Trattato pratico, Milano, Curci 1948.
5
testo, è definita esplicitamente come ‘tecnica dodecafonica’. Due
anni dopo – dal 30 giugno al 2 luglio 1951 – a Darmstadt si
tenne un “II Congresso Dodecafonico”, con due riunioni a cui
parteciparono tra gli altri Maderna, Nono e Togni, in cui si suole
ravvisare l’inizio del superamento della dodecafonia
schönberghiana8. Non ci saranno in séguito altri convegni
dodecafonici, forse anche per la crescente diversificazione delle
tecniche. Schönberg scompare proprio nel 1951, il 13 luglio:
l’anno seguente sarà dichiarato provocatoriamente morto da
Boulez in un celebre articolo, punto di riferimento del
postwebernismo9.
L’adozione del metodo dodecafonico da parte dei
compositori italiani dopo la Liberazione avviene per strade e con
modalità differenti. Pur esulando dall’obiettivo che ci siamo
preposti, si deve sottolineare che l’adozione in Italia del metodo
schönberghiano non dà luogo a una vera e propria “scuola”.
Anche la pretesa compattezza dell’avanguardia soto le insegne
viennesi è semmai un’ipotesi dei critici più reazionari. È anche
vero però che la dodecafonia si rivela ancora oggi un’etichetta
ambigua e dall’uso sovente equivoco, non solo perché affetta da
polisemia latente o manifesta10.
Pur delegando alle indagini sistematiche ulteriori
ricognizioni su un panorama che appare fin troppo ampio, la
funzione della pubblicistica come veicolo di diffusione,
soprattutto prima della conclusione del secondo conflitto
mondiale, non è affatto da sottovalutare. Infatti il saggio
8 Cfr. R. ZANETTI, La musica italiana del Novecento, Busto Arsizio,
Bramante 1985, pp. 1418-19.
9 P. BOULEZ, Schönberg is Dead, «The Score», Londra, 6, maggio 1952
[trad. it. in «Il Verri», VI, 4, dicembre 1960, pp. 56-60 e poi in Note di
apprendistato, Torino, Einaudi ].
10 Cfr. la voce del GROVE, ediz. 1980: «Dodecafonia: Sinonimo di
‘atonalità’ o, in alcuni casi, ‘composizione seriale a 12 note’». Cfr. anche M.
BEICHE, Zwölftonmusik, in Handwörterbuch der Musikalischen
Terminologie, vol. V, a cura di H. H. EGGEBRECHT, Franz Steiner Verlag,
Stuttgart 1985. La voce ‘dodecafonia’ redatta da Roman Vlad per il DEUMM
rimanda invece più direttamente al metodo schönberghiano, con accenni a
quello di Josef Matthias Hauer, e si attiene al rifiuto del termine ‘atonalità’
espresso dal compositore viennese nella terza edizione della Harmonielehre.
6
musicologico, lo spoglio delle riviste straniere e persino l’articolo
di giornale, per certi compositori non di rado ha assunto una
considerevole importanza operativa. È stato lo stesso
Dallapiccola, principale esponente della dodecafonia italiana e
suo massimo divulgatore, a sottolineare la quasi totale
impossibilità di reperire partiture della terna viennese durante la
guerra e il clima di sospetto che la dodecafonia generava negli
ambienti ufficiali, persino il tragicomico rischio di scambiarsi
opinioni a riguardo con colleghi che risiedevano all’estero. Il
compositore, rievocando i suoi scambi epistolari con Karl
Amadeus Hartmann, scrive: «Qualche volta, durante gli anni di
guerra, ci si scrisse: con molta prudenza, s'intende, esprimendoci
a base di simboli e di sottintesi, evitando ogni scambio d'idee –
per esempio – sul sistema dodecafonico, che interessava lui e me,
nel modo più assoluto. Per un censore, indicazioni come O XII o
RI 6 avrebbero potuto contenere Dio solo sa quali misteriosi
significati»11. Come l’ebreo Schönberg, forse anche la
dodecafonia, alla fine, era diventata una parola tabù. Una
controprova sulle concrete possibilità d’ascolto della musica
seriale dei Viennesi: se non emergeranno altri dati, l’unica
esecuzione del Webern seriale in Italia prima del 1945 risulta
essere quella del Trio, op. 20 (1926-27), dato a Siena nel 1928.
A seguirla da vicino, fino al limite cronologico della
Liberazione, per verificare l’effettiva tenuta di cesure e censure
operate dall’apparato istituzionale italiano, si nota come la
fortuna dell’opera di Schönberg e dei suoi allievi più importanti
abbia risentito nel nostro paese di fasi alterne con la finale
prevalenza di un clima di sospetto e di condanna, coincidente
grosso modo con gli anni della realizzazione del ‘metodo di
comporre con dodici suoni che stanno in rapporto soltanto tra
loro’. In Italia sono soprattutto le opere dello Schönberg pre-
dodecafonico a essere conosciute direttamente e di cui si
continua a parlare fino agli anni Quaranta, a partire dalla
clamorosa tournée italiana del Pierrot lunaire, avvenuta nel 1924
sotto la direzione del compositore. Nelle parole di Alfredo
7
Casella «il giro fu una serie di rumorosi scandali» 12. Il
permanente ostracismo di alcuni gruppi di potere politico-
musicale, a un certo punto contrari anche alle aperture di Casella
e Gian Francesco Malipiero, è confermato dalla natura
superficiale e pretestuosa delle critiche mosse. Si tratta di un
fenomeno registrabile fin dai primi saggi anti-schönberghiani di
Ildebrando Pizzetti, che sembra attenuarsi con la frammentazione
stilistica avvenuta negli anni Cinquanta. Cionondimeno, non è
mai scomparso uno schieramento che ha fatto dell’anti-
dodecafonia la sua bandiera, a partire dallo stesso Pizzetti, per
proseguire fino ai giorni nostri, con malcelati intenti di
opposizione totale a qualsiasi innovazione13.
8
affrontava il problema con lo slancio pionieristico di chi aveva
ancora molte cose in serbo: «Si pensi all’accordo dodecafonico,
il quale può assumere dodici sensi, dodici colori diversi e
passare insensibilmente dall’uno all’altro. Quale magia di
sfumature, quale festa di colori!»16. Come è stato notato da
Nicolodi17, ad associare per primo il nome di Schönberg alla
dodecafonia di Alaleona fu invece Carlo Somigli nel 1913.
Somigli designa con il termine ‘dodecafonia’ uno dei nuovi
procedimenti tecnici della musica di Schönberg: «Come
sappiamo, la dodecafonia – il cui sistema è già stato teorizzato in
Italia dall’Alaleona – spiega qualunque combinazione armonica,
sia essa magari la più arbitraria, la più casuistica [sic] che sia
possibile immaginare. In altre parole: ogni accozzo o successione
dei dodici suoni cromatici inclusi nell’intervallo di ottava diviene
lecito nella dodecafonia e trova in quel sistema la sua ragione di
essere»18. Nel suo saggio, Somigli analizza Lockung, uno dei
lieder dell’op. 6, i Drei Klavierstücke, op. 11 e il terzo tempo del
Quartetto, op. 10 con soprano. Il nuovo termine di Alaleona
viene preferito a quello di ‘atonalità’, più diffuso e già approdato
nei paesi di lingua tedesca a trattati e saggi, che anche in Italia si
cominciava a utilizzare con valenze molto ampie: in una
recensione del 1926 al libro di Herbert Eimert, Atonale
Musiklehre, la diretta derivazione del termine ‘atonalità’ dal
tedesco appare ovvia19. Per fare un altro esempio, molti anni
prima Pizzetti aveva definito ‘atonale’ la musica di Debussy20 e
considerazioni e note in margine a una scelta, «Nuova Rivista Musicale
Italiana», XXI, 3-4, 1983, p. ???
9
nel 1923 Attilio Cimbro dedica un intero articolo all’atonalità 21,
cercando anche di metter ordine. La polemica sulla liceità del
termine si protrae fino alla seconda metà degli anni Quaranta 22.
A parte il precoce esempio di Somigli, che all’epoca
svolgeva la propria attività soprattutto all’estero (invia il suo
articolo da Chicago), ben presto importanti critici italiani resero
strumentale anche l’uso del neologismo alla condanna delle
nuove tendenze musicali, intese come implicita asserzione di filo-
germanesimo. Il saggio di Somigli rappresenta un raro tentativo
compiuto nel nostro Paese di presentare la musica di Schönberg
da un punto di vista analitico e senza preclusioni di tipo estetico
e ideologico; il tono dell’articolo è quasi spenceriano, ma
l’approccio evoluzionista abiterà la sezione “arte contemporanea”
della «Rivista Musicale Italiana» ancora per poco. Da quelle
stesse pagine, pochi anni dopo Ettore Desderi parlerà di crisi
della musica fino al 1925, crisi nera, non certo progresso, pur
dichiarandosi ottimista per il futuro della musica italiana.
Tornando brevemente a Somigli, va sottolineato che il suo
straordinario acume si era manifestato anche altrove: sempre sulla
«Rivista Musicale Italiana», era arrivato a identificare (ancora
molto, troppo precocemente, nel 1900!23), nello Sprechgesang,
tradotto come ‘canto della favella’, uno degli elementi
caratteristici della scuola tedesca. Quelle straordinarie doti di
preveggenza causarono però, inevitabilmente, qualche effetto
collaterale indesiderato, poiché si continuò a parlare di
‘dodecafonia’ in senso alaleoniano anche dopo la realizzazione di
quello che, a partire da Luigi Dallapiccola, si consolidò come
sinonimo di ‘metodo dodecafonico’. Probabilmente proprio le
10
considerazioni di Somigli e l’applicazione del neologismo alla
musica di Schönberg inducono ben presto Alaleona a chiarire il
contenuto dei suoi saggi del 1911: evidentemente la coabitazione
ideologica con la musica del Viennese è già considerata
pericolosa o perlomeno sospetta. Tre anni più tardi, in due lettere
a Vittorio Gui apparse sulla rivista «Harmonia», Alaleona
ribadisce i risultati delle sue ricerche, precisando però che nelle
sue opere «tutti gli strumenti cantano dalla prima all’ultima nota,
appassionatamente, ardentemente, italianamente». E fa un
paragone con la lingua: «L’evoluzione della lingua è un fatto
naturale e sacrosanto [...] La neolalìa è una malattia, che porta la
distruzione della lingua»24. Oggetto invisibile ma evidente delle
sue cautele non possono che essere le prime opere di Schönberg,
la cui eco cominciava a giungere anche in Italia. Secondo
Somigli, l’etichetta alaleoniana ‘dodecafonia’ poteva calzare
anche per alcuni procedimenti del compositore austriaco;
quest’ultimo però doveva già essere considerato una seria
minaccia, se Alaleona, pur tenendo a rivendicare l’importanza
delle sue ricerche anche per la comprensione di Schönberg,
ribadisce che la propria musica «è quanto di più tonale si possa
immaginare», nonostante comprenda anche «l’armonia formata
dalla unione simultanea di tutti i suoni della scala cromatica
(dodecafonia)»25.
La figura di Schönberg, anche prima di dar vita al “metodo
di comporre con dodici suoni imparentati solo tra loro”, risultava
una ghiotta preda per chi intendeva condannare la musica
austriaca a tutto campo. È il caso di Pizzetti, quando afferma:
«Né, oggi come oggi, ha un’arte musicale importante l’Austria
tedesca, i cui musicisti maggiori e significativi sono Franz Lehar
– un saltimbanco – e Arnold Schönberg, uno schiavo wagneriano
che crede potersi sottrarre alla schiavitù travestendo le sue
musiche coi più bizzarri e strambi vestiti futuristi (e poi, povero
diavolo, scrive agli amici dolendosi di non poter più tornare
11
indietro, a essere almeno sincero verso se stesso»26. Il discorso
sugli austriaci, i nemici, avviene qui in termini rigorosamente
sincronici: nessun accenno al loro glorioso passato.
Non sono lontani i tempi in cui si impedirà ad Arturo
Toscanini di eseguire all’Augusteo la “Marcia funebre di
Sigfrido” dal Crepuscolo degli Dei o in cui Balilla Pratella si
scaglia contro Ferruccio Busoni, il quale «continua a diffondere
l’infezione della musica tedesca in tutte le nostre importanti sale
da concerto e non si perita di ostentare in pubblico una
ripugnante tedescofilia acuta»27. Il nazionalismo musicale
comincia a manifestarsi a livello istituzionale: la Società
Nazionale di Musica viene fondata nel 1917 da Casella,
Respighi, Malipiero, Perinello, Gui e Tommasini, con la
presidenza effettiva del Conte di S. Martino e Toscanini, Busoni
e M. E. Bossi come presidenti onorari. Due anni dopo, come
attesta Labroca, «[l]a presidenza d’onore fu abolita per le
dimissioni di M. E. Bossi, per l’incidente di Toscanini
all’Augusteo […] e la sospetta germanofilia di Busoni» 28. La
direzione da prendere è un’altra. Scrive Casella:
12
Ai detrattori di Schönberg non dispiace l’astruseria latente del
termine coniato da Alaleona, il suo aspetto di nuova diavoleria
tecnica, e lo utilizzano volentieri. Ancora Pizzetti, per esempio,
in piena Prima guerra mondiale: «Ah l’esafonia, cioè la scala di
sei suoni, e la dodecafonia, cioè l’uso anche simultaneo dei
dodici semitoni, e gli accordi per quarte...Belle trovate, per
arrivare a questi risultati! Ma a chi vuole darla a bere, codesto
viennese?»30. O Gian Francesco Malipiero che nel 1917 – l’anno
di Pause del silenzio I – scrive: «Il fenomeno Schönberg si ripete
in tutti i tedeschi: la ricerca affannosa per alimentare un fuoco
che languisce, una musicalità esaurita»31. Negli anni Venti la
vecchiaia della musica tedesca è un’idea utilizzata da molti. Tra i
primi vi è Bastianelli, che sulle pagine di «Lacerba», pur
elogiando i Gurrelieder e riscontrando nell’opera di Schönberg
«oasi di pura e schietta musicalità umana, degna di competere
con la migliore musicalità di Wagner, di Schumann e di Brahms
e forse anche, oh, molto lontanamente! di Beethoven»32, ritiene
giunta per la musica tedesca la fase della decadenza, soggiacendo
a un luogo comune da lui stesso stigmatizzato qualche anno
prima. Pensiero in séguito ribadito, quando definirà Strauss e
Schönberg «figli impressionanti se non creativi d’una originale
civiltà musicale giunta oggi al suo tramonto – quella tedesca-
austriaca dell’800»33.
Verso la fine del 1920 il fascismo, fondato a Milano il 23
marzo 1919, diventa una forza politica di primo piano. «Il partito
Quand’era in Francia, Casella aveva apprezzato il primo Schönberg. Nicolodi,
tra le altre cose, segnala (Ibidem, p. 238n) l’articolo A. CASELLA, Arnold
Schönberg et son oeuvre, «L’homme libre», 15 luglio 1913.
30 I. PIZZETTI, Di Arnold Schönberg e di altre cose, «Il Marzocco», Firenze,
17 dicembre 1916; rist. in Intermezzi critici, Firenze, Vallecchi 1921, p. 176.
31 G. F. MALIPIERO, Orchestra e orchestrazione, «Rivista musicale
italiana», 1917, 1, p. 110.
32 G. BASTIANELLI, A proposito di Schönberg. Le tre metamorfosi della
musica tedesca, «Lacerba», 15 novembre 1914; cit. in G. BASTIANELLI, La
musica pura. Commentari musicali e altri scritti, a c. di M. O MODEO
DONADONI, Firenze, Olschki 1974, pp. 314-17.
33 G. BASTIANELLI, Riccardo Zandonai, «Il Convegno», n. 11-12, 1921; rist.
Riletture, «Nuova Rivista Musicale Italiana», luglio-settembre 1972, pp.
13
nazionalista e il fascismo, benché “associati” nel 1920-22,
resteranno divisi fino al 1923»34. Sono proprio gli anni in cui la
vecchiaia di Schönberg diviene un saldo punto di riferimento
della critica italiana. Sulla rivista «Il Pianoforte», annata 1922,
un anonimo recensore, a proposito del Quartetto op. 7 osserva:
«[C]’è tanto di vecchio e così poco di nuovo [...] C’è in fondo al
quartetto, come in tutte le prime opere di Schönberg, la
caratteristica mentalità del romantico tedesco; un romanticismo
ormai degenere, un po’ stanco e invecchiato nella sostanza,
turgido e bolso nella tecnica; e c’è d’altra parte un’affannosa
ricerca, un disperato tentativo non tanto di mascherare questo
vecchiume pieno di detriti, quanto di liberarsene»35.
Messa in moto l’associazione mentale tra il compositore
viennese e la dodecafonia, a molti non sembrò vero di avere tra le
mani un feticcio così sostanzioso con cui argomentare la loro
requisitoria contro il Viennese. La scelta, parlando di Schönberg,
è sempre quella della decadenza, del tramonto di una civiltà in
disfacimento, in opposizione alle novità della nuova musica
italiana. In alcuni casi, almeno all’inizio, si cerca di differenziare
una dodecafonia “buona” da una “cattiva”. Nel 1920, scrivendo
di Casella, Guido Maggiorino Gatti aveva distinto «il freddo
scientifismo del paradossale autore del Pierrot lunaire»36 dalla
versione orchestrale delle Pagine di guerra nella quale «il
bagliore di aggregazioni armoniche in cui i dodici suoni della
gamma europea sovrapposti in accordi immensi si premono, si
schiacciano, si risolvono in scoppi devastatori»37. Più avanti, Gatti
nota come nell’ultimo Casella avvenga «una sorta di fusione
simultanea, di compenetrazione della varie scale: occidentali,
elleniche ed orientali [...] in certo qual modo sovrapposte, dando
origine a una tonalità indefinita, ad un senso tonale che è già
dodecafonia ma coordina però ancora tutti i suoni attorno a due
note centrali con nettamente il carattere e la funzione di tonica e
34 F. CHABOD, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi 1961,
p. 57.
35 ANONIMO, Lettera da Firenze, «Il Pianoforte», 1922, p. 154.
36 G. M. GATTI, Alfredo Casella, in Musicisti moderni d’Italia e di fuori,
Bologna, Pizzi & C. 1920, p. 7.
37 Ivi, p. 12-13.
14
dominante»38. Come dire: sì all’ampliamento delle possibilità, ma
preservando una logica seppur lontanamente tonale, quello che
oggi si chiamerebbe pancromatismo. Non siamo lontani dalle
chiarificazioni di Alaleona.
Altri, per parlare degli effetti della musica di Schönberg
sul pubblico ricorrono – giacosianamente – alla botanica e
dipingono desolanti panorami autunnali, come nella recensione
risalente al 5 marzo 1922 di Massimo Bontempelli al Quartetto
op. 7, una delle primissime opere del Maestro a essere eseguite in
Italia: «Come le foglie, l’una appresso dell’altra, si staccano dal
ramo e silenziosamente s’allontanano, per non più tornarvi, così,
ma non altrettanto silenziosamente, mi accadde ieri, durante un
concerto assai severo, vedere una appresso dell’altra staccarsi e
allontanarsi dalla sala molte delle persone che vi si erano
fiduciosamente adunate»39.
Si avverte anche il timore di una pericolosa diffusione in
Italia di certe idee. Scrive Gatti nel 1922 che gli emuli di
Schönberg sono ormai centinaia e «così vediamo gli
schönbergiani [sic] tedeschi superare il loro maestro nella corsa
verso l’ignoto e il vano»40. Nella seconda parte del suo saggio,
Gatti prosegue:
15
(eccezion fatta, forse, per il Pierrot lunaire), anche di quelle in cui è evidente
un maggior sforzo di conciliazione tra i due elementi – che dovrebbero poi
essere uno solo – discordanti41.
16
chiusura immediata verso l’esterno. Di diverse opere di
Schönberg eseguite all’estero, nei periodici italiani del ’23 si
parla anche in termini positivi44. La Universal Edition,
rappresentata in esclusiva in Italia e Colonie dalle Messaggerie
Musicali di Bologna, pubblicizza addirittura le opere del
Viennese45, in particolare le riduzioni per canto e pianoforte di
Erwartung, Die Glückliche Hand e Pierrot lunaire e annuncia
l’imminente uscita della Kammersymphonie, di Pelleas und
Melisande e del Quartetto n. 2. Soprattutto si cerca di creare un
circuito internazionale di interscambio attraverso la SIMC-
Società Internazionale per la Musica Contemporanea (o ISMC-
International Society for Contemporary Music), che si configura
come una federazione di associazioni nazionali. Si ribadisce
anche da noi l’importanza del «regolare scambio di informazioni
e di musiche (ed anche di esecutori) e di un festival annuale
internazionale»46.
Nel 1923 nasce la Corporazione delle Nuove Musiche
(CDNM) attiva fino al 1928. Nel 1924 la CDNM ottiene
l’importante affiliazione alla SIMC, come sezione italiana della
stessa47. In questa ottica di apertura internazionale si colloca
44 È il caso di H. FLEISCHMANN, Vita musicale. Lettera da Vienna, «Il
Pianoforte», IV, 2, febbraio 1923, p. 52. Sull’onda di una Kammersymphonie
diretta da Rudolf Nilius, il recensore elogia ampiamente Schönberg e auspica
l’esecuzione di tutte le sue opere - molte, importanti e sconosciute - tra cui Die
Jakobsleiter, L’attesa e La mano felice. Toni molto positivi per due
esecuzioni berlinesi - Pierrot lunaire e i Cinque pezzi per orchestra, op. 16,
diretti rispettivamente da Scherchen e da Furtwängler - adotta anche H.
LEICHTENTRITT, Vita musicale. Lettera da Berlino, «Il Pianoforte», IV, 3,
marzo 1923, p. 79, che mostra di approvare le scelte di Schönberg e dei suoi
allievi anche in altre corrispondenze; cfr. anche H. LEICHTENTRITT, Vita
musicale. Lettera dalla Germania, «Il Pianoforte», III, 8-9, agosto-settembre
1922, p. 220-1, in cui l’autore presenta apprezzamenti molto positivi sulla
Passacaglia, op. 1 di Webern.
45 «Il Pianoforte», IV, 6, giugno 1923, III di copertina.
46 «Il Pianoforte», IV, 2, febbraio 1923, p. 47.
47 Cfr. R. ZANETTI, La musica italiana del Novecento, Busto Arsizio,
Bramante 1985, p. 508. Dopo il 1928 la CDNM rimane attiva come sezione
italiana della SIMC per cui realizzerà tre festival (Venezia 1925, Siena 1928 e
Firenze 1934). Nel 1939 si consuma «la lacerante defezione del nostro paese
dal circuito internazionale della musica contemporanea» (F. NICOLODI,
17
anche la tournée italiana del Pierrot lunaire. Ma, nonostante lo
sforzo generoso di Casella di portare avanti un discorso di
interscambio con l’estero, dopo il 1924 a un certo tipo di novità
saranno destinati solo spazi di secondo piano. Nel 1923 la SIMC
prepara il festival di musica moderna internazionale a Salisburgo,
con sei concerti di opere da camera. La commissione
internazionale si riunisce a Zurigo e stila i programmi definitivi,
dopo i suggerimenti delle commissioni nazionali. Nel primo
concerto sono previsti anche il Quartetto, op. 3 di Berg e il ciclo
Die Hängenden Garten di Schönberg. Le opere italiane
selezionate sono i Due sonetti del Berni per canto e pianoforte di
Malipiero, Il raggio verde e Cipressi per pianoforte di Mario
Castelnuovo-Tedesco, oltre alla recente quarta versione, per due
pianoforti, della Fantasia contrappuntistica di Busoni. In giugno
viene pubblicata una vibrante protesta della commissione italiana
presieduta da Gatti, di cui fanno parte Alfano, Casella, De
Sabata, Malipiero, Molinari, Pizzetti e Respighi:
Noi avevamo stimato nostro onore di sottoporre alla scelta della Commissione
tutti quei lavori che – per la loro importanza estetica e materiale – ci
sembravano i più adeguati a rappresentare a Salisburgo – accanto a quelli
delle altre Nazioni – lo sforzo artistico compiuto da dieci anni a questa parte
dai giovani musicisti italiani nel loro Paese. Abbiamo avuto invece il
dispiacere di vedere che, per la seconda volta, l’Italia è presentata a
Salisburgo in condizioni di evidente inferiorità, condizioni che possono far
pensare che la nostra scuola musicale sia incapace a produrre alcunché di
importante nel campo della musica da camera. Ciò premesso e in conseguenza,
noi abbiamo il dovere di dichiarare che il gruppo italiano ritira puramente e
semplicemente i suoi lavori dal prossimo Festival Salisburghese, e si asterrà
completamente dal collaborare spiritualmente e materialmente a quella
manifestazione48.
Musica e musicisti…, op. cit., p. 265. Nicolodi riporta anche (pp. 266-8) il
testo della lettera del 29 marzo 1939 che Casella inviò a Edward J. Dent per
annunciare il ritiro dell’Italia dalla SIMC per decisione del Sindacato Fascista
dei Musicisti di cui era segretario nazionale Giuseppe Mulè, il quale addusse
come scusa una pretesa emarginazione dell’Italia, quindi le stesse ragioni che
portarono alla lettera di protesta della delegazione italiana per il festival di
Salisburgo del ’23.
48 Società Internazionale per la Musica contemporanea, «Il Pianoforte»,
IV, 6, giugno 1923, p. 153.
18
Per portare la sua opera, dirigendola, in sette città italiane
per complessive dieci repliche – Roma (28-29 marzo), Napoli (30
marzo), Firenze (1° aprile), Venezia (3 aprile), Padova (4 aprile),
Torino (5-6 aprile), Milano (7-8 aprile) 49 – e sotto l’egida della
CDNM, Schönberg ebbe in sorte dal destino uno dei momenti
peggiori della storia italiana o forse l’ultimo momento possibile
per un’operazione del genere: tra la fine di marzo e i primi giorni
di aprile del 1924. La “prima” nazionale si ebbe a Roma il 28
marzo, a Santa Cecilia; il programma di sala fu redatto da
Casella. Il giorno 6 aprile si tennero le elezioni politiche che
dovevano rappresentare la messinscena di un plebiscito nazionale
a favore del governo fascista, operazione architettata nei minimi
particolari a vari livelli, a partire dall’approvazione della nuova
legge elettorale del 1923 che affidava i due terzi dei seggi
parlamentari alla lista più votata, per arrivare ai brogli dell’ultima
ora. In un clima di violenza e intimidazione, i fascisti ottennero il
66.3% dei voti. Nonostante questi avvenimenti di primo piano, in
occasione della tournée si parla di Schönberg come non mai50. Le
recensioni piovono numerose, con cospicui indizi di una
possibile accettazione del viennese in sede critica, nonostante le
mille difficoltà che l’opera presenta per il pubblico e per gli
addetti ai lavori. Nel corso dell’intera tournée, il Pierrot lunaire
venne presentato assieme al Concerto per due violini, viola e
violoncello di Casella eseguito dal quartetto Pro Arte. Questo
accostamento può essere stato suggerito dal desiderio di offrire,
accanto alla discussa opera di Schönberg, un saggio della nuova
musica italiana, in una circostanza prestigiosa che non poteva
passare inosservata. Nonostante questo accostamento a forte tasso
19
dialettico, nella presentazione di Casella al Pierrot sembra
prevalere una concezione pluralista e non oppositiva; non v’è
traccia dell’immagine decadente che prenderà piede di lì a poco,
anzi il rapporto di Schönberg con la tradizione è sottolineato da
Casella in termini positivi. Al pubblico sono rivolte alcune
avvertenze per ascoltare l’opera senza pregiudizi:
[Il Pierrot lunaire] costituisce senza dubbio una delle più audaci “tappe” della
moderna storia musicale, nella quale assume un'importanza paragonabile a
quella dell’avvento del “cubismo” nella pittura o della teoria della relatività
nella scienza. [...] All’atto pratico, questo minuscolo dramma [...] sembra ben
diverso dalla nostra romantica opera italiana. Eppure, per quanto ciò possa
sembrare enorme a prima vista, i punti di contatto fra la concezione
drammatica schönberghiana e quella dei nostri Grandi non solo esistono, ma
sono anche – per chi lo vuol scorgere – abbastanza definibili.
Di queste affinità, la più caratteristica è senza dubbio questa: che
Schönberg affida il principale compito lirico alla voce umana – lasciando
questa sempre in assoluta supremazia sugli strumenti. Hanno questi bensì una
raffinatissima funzione di sfondo – ma questa non cade mai negli eccessi
wagneriani – e la voce rimane sempre protagonista sovrana dell’azione.
Proprio come fecero Monteverdi, Gluck, Mozart e i nostri Grandi del '700 e
'800.
Si potrebbe chiamare questa musica super-impressionistica. Ed infatti
appare impressionismo spinto alle sue estreme conseguenze. Mentre Debussy
poggiava sempre su scale diatoniche, Schönberg giunge d'un colpo – con
un’audacia che ha pochi riscontri nella storia della musica – a “pensare” su
dodici suoni51.
20
Puccini e Dallapiccola, Casella azzarda di più, sottolineando il
legame con la grande tradizione austro-tedesca:
Alla fine però Casella non può esimersi dal fare un chiarimento
“a uso interno”:
52 Ibidem, p. 3.
53 Ibidem, p. 5.
54 Cfr. F. NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia,
Firenze, Sansoni 1982, p. 125n.
21
quantomai evanescente sul fronte dello stile ma, di conseguenza,
assillante su quello dell’ideologia: il nazionalismo musicale o,
secondo la definizione di Gatti, “un nuovo stile musicale
italiano”, preoccupazione che proprio a partire dal 1924 diviene
soverchiante.
Nell’anno della tournée, Gatti aveva osservato:
[A] me pare di trovarmi dinnanzi ad un uomo assai vecchio che combatta con
ogni mezzo contro la invadente senilità [...]. All’impressionismo il musicista
austriaco contrappone la dodecafonia (scala di tutti i suoni, senza
predominanza di alcuni di essi, cioè completo rinnegamento del senso
tonale)55.
22
rivendicare le novità di casa propria. In questa direzione tornava
utile anche la ‘dodecafonia’, intesa come ulteriore passo
aberrante quando filtrarono le novità del metodo o più
genericamente, pizzettianamente, come forma di delirio senile.
Ma quale musica rivendicavano per sé gli italiani in questo
raffronto, qual era la forma di propaganda privilegiata per la
musica italiana? Anche dove si riscontra una sincera
ammirazione per la genialità costruttiva del Pierrot lunaire – cito
dall’articolo di Alaleona, "Lingua" e "linguistica" nell'avvenire
della musica – si sottolineano le peculiarità della musica italiana,
anche con il ricorso alle evidenze della flora locale:
[S]i trova delineata, in tutta la pienezza dei suoi elementi e del suo carattere
espressivo, e assorgendovi naturalmente da un punto di vista artistico, la
“tonalità dodecafonica”, di cui tanto in questi giorni, a proposito di Schönberg
s’è parlato: tonalità il cui accordo base, completo – che io presentavo tanto
nella forma neo-tonale come nelle forme tonali, in relazione cioè alle tonalità
classiche – si ottiene (diciamo così per darne un’idea grosso modo)
abbassando simultaneamente tutti i dodici tasti che nel pianoforte dividono in
intervalli di semitono l'ottava. Materiale sonoro da considerarsi certo non nel
suo peso bruto, ma nelle molteplici risorse delle sue delicatissime sfumature
viventi. Non sarebbe male al riguardo anche fissare se in Italia o fuori sono
state introdotte per la prima volta queste parole “dodecafonia” e
“dodecafonico”, oggi acquisite alla tecnica musicale moderna60.
23
L’elogio dell’opera schönberghiana è piuttosto chiaro:
[S]i potrebbe anche prevedere che gli uomini dell’anno 5000 avranno le
gambe lunghe trenta centimetri e la testa di enormi dimensioni. Ma da questo a
pretendere di formare oggi ipso facto – con una operazione Voronoff62 sui
generis – una colonia di uomini in tal modo foggiati, o perfino di far diventare
d’un tratto (non so se sia questa la pretesa di certi musicisti) tutta l’umanità
così, c’è una bella differenza63.
61 Ibidem, p. 3.
62 Serge Voronoff (1866-1951), chirurgo e biologo d’origine russa. Diresse il
laboratorio di chirurgia sperimentale del Collège de France e proseguì le
ricerche nel suo laboratorio di Grimaldi, nei pressi di Ventimiglia. Si dedicò
agli innesti, ai trapianti e al problema del ringiovanimento, che cercò di
risolvere inserendo nell’uomo ghiandole genitali di scimmia.
63 D. ALALEONA, "Lingua" e "linguistica"…, op. cit., p. 3.
24
[I]n questa musica perfettamente onnitonale-atonale. […] [B]isogna
riconoscere in tutte queste pagine una schiettezza, una personalità stilistica,
una nuova ma possente musicalità, contro le quali si spuntano tutti i nostri
tentativi di critica [...] lo stile è personalissimo, inconfondibile,
schönberghiano: e questa unità stilistica è non trascurabile sigla di vitalità
musicale64.
Anche se poi il critico non può far a meno di riscontrare «un non
so che di dolciume che accusa vecchio sangue romantico-tedesco
nelle vene», la valutazione del Pierrot lunaire appare nel
complesso positiva. Nello stesso anno, Casella, parla ancora del
Viennese, ma con ben altre sfumature:
25
Ho potuto sentire a Roma il Pierrot lunaire di Schönberg e mi ha fatto una
certa impressione. È l’unica opera di questo autore che, finora, mi è piaciuta. E
a te che impressione ha fatto? Dammi tue notizie67.
Mi è sembrata una cosa degna del massimo rispetto: anche da parte di chi –
come me – è tanto lontano ormai da quello spirito (per me trovo che lo spirito
schönberghiano [sic] è terribilmente invecchiato e che quella sua opera,
nonostante l’apparente futurismo dei mezzi, rivela già la sua data di nascita).
Sono inoltre d’accordo con te nel ritenerla la più significativa e interessante fra
le composizioni di Schönberg che conosco (i due quartetti, i pezzi per
pianoforte e le liriche per canto). Conto di scriverne abbastanza ampiamente su
L’Esame del mese di maggio, e spero di combattere questa arte con armi un
po’ più affilate e più adeguate di quelle che finora hanno adoperato i critici dei
quotidiani (almeno in gran parte)68.
67 Ibidem, p. 156.
68 Ibidem, p. 157. Cfr. G. M. GATTI, Schönberg, Casella ed un "nuovo stile
musicale italiano", op. cit., pp. 297-303.
69 ANONIMO, Riviste e giornali [recensione dell’articolo di Casella, Arnold
Schönberg e la nuova musica italiana, apparso su «Musica d’oggi», ottobre
1924], «Il Pianoforte», V, 12, dicembre 1924, p. 326.
70 Recensione su «Il Pianoforte», V, 11, novembre 1924, p. 301.
26
Qualche mese prima Casella e Malipiero avevano
pubblicato un breve testo ciascuno nella Festschrift per i
cinquant’anni di Schönberg nel 1924, in termini «tanto
encomiastici da suonare sospetti».71
Il Pierrot lunaire a Napoli è stato ascoltato con deferenza (fin dove era
possibile), senza preconcetti di ostilità e col massimo buon volere di
comprendere e penetrare il mistero del nuovo verbo. Musicisti e profani hanno
eroicamente e pazientemente sopportata, senza protestare, tutta la prima parte
e, forse per rispetto al nome illustre dell’autore, avrebbero espresso il loro
giudizio col silenzio, atroce più del fischio, ma rispettoso. Alcuni fanatici
vollero forzare la mano acclamando esageratamente ed allora la reazione si
scatenò, e quel che è peggio, sotto la forma ridicola dell’ironia e dell’ilarità.
L’autore (beato lui!) si è dichiarato soddisfatto del risultato, contento di essere
27
arrivato a dirigere la sua opera sino alla fine, cosa che non sempre gli accade!
…
Una lode incondizionata va data agli esecutori tutti e in special modo
alla squisita cantante, per meglio dire alla voce recitante, Erika Wagner. Le
diaboliche difficoltà del lavoro furono superate con una sicurezza ed una
abnegazione davvero mirabili73.
Ma come ogni crisi spirituale, anche questa doveva guarirsi da s[é]. E guarì
infatti il giorno in cui i compositori pervennero a sovrapporre in un solo
accordo le dodici note della scala cromatica. [...] Gli accordi complicati non
interessano più nessuno, nemmeno i pupi. E la atonalità schönberghiana
sembra venerabile quanto quei famosi quadri-rebus che deliziavano le
esposizioni pittoriche 12-15 anni fa [...]. L’atonalità è semplicemente l’ultima
convulsione del grande travaglio ottocentesco74.
28
La polemica sul “nuovo stile musicale italiano” sfocierà nel 1928
in una polemica su Scarlattiana, segnalata tra gli altri da Anna
Maria Morazzoni76 e Fiamma Nicolodi, che apparve su diversi
numeri di «Anbruch» e fu conclusa da un intervento di Adorno.
29
Importa davvero poco capire come l’opera sia costruita,
inutile andare a vedere com’è fatta. È una posizione critica che,
veneficamente, preclude qualsiasi ulteriore contatto con le opere,
perché se ne è dichiarata a priori la loro anti-musicalità. Lualdi si
appropria dei nuovi termini e li butta nello stesso calderone:
Che sia appoggiato sul sistema dodecafonico, atonale, politonale; che risponda
o no alla Teoria della continuità enunciata dallo Schönberg; che sia – in quel
mondo dell’assurdo dall'autore voluto – logico nell’armonia, nella costruzione,
nel seguirsi dei motivi, sono cose che non hanno importanza; perché a quella
filza di cose logiche – logiche secondo i panegiristi di Schönberg – manca la
base morale, che in questo caso non è nient’altro che la musica, e la
musicalità80.
30
Pierrot lunaire, inconciliabili. In certi casi, però, si riscontra un
recupero della vecchia definizione alaleoniana di ‘dodecafonia’.
È l’unica spiegazione per motivare il ripescaggio di questo
termine fatto da Casella nei Segreti della giara (1941), che a
proposito delle sue infatuazioni degli anni Dieci annota:
Per quanto nel fondo della mia sensibilità rimanessi legato al senso tonale,
pure vi fu un periodo durante il quale tendeva a farsi strada nella mia
coscienza la convinzione che la dodecafonia fosse lo scopo supremo della
evoluzione moderna. Questo periodo di dubbi e di esperimenti vari durò dal
1914 sino al 1918. Ma con quest’ultimo anno, il senso tonale aveva
definitivamente vinto in me ogni esitazione e la dodecafonia non rimaneva per
me che un soggetto di viva ammirazione ma un principio musicale per sempre
estraneo alla mia arte di compositore82.
la grandezza della figura di Schönberg il quale ha, come ben pochi altri
creatori, il merito di poter dire orgogliosamente di aver fatto esprimere alla
musica ciò che essa non aveva mai detto prima e di averne allargato all’infinito
il regno fantastico83.
dei guai piuttosto seri e persino forse qualche veto prefettizio per ragioni di
ordine pubblico che sarebbe arrivato dopo la prima esecuzione. Ma – all’atto
pratico – malgrado la ribellione di una parte del pubblico – le audizioni del
Pierrot lunaire andarono abbastanza bene, certo al di là assai delle mie
catastrofiche previsioni e non peggio che in altri paesi più evoluti del nostro,
quali ad esempio Parigi o Vienna o Berlino84.
82 A. CASELLA, I segreti della giara, op. cit., p. 145. I contenuti del passo
citato e il ricordo della crisi di quegli anni, sono anticipati in un altro scritto del
compositore: A. CASELLA, Casella veduto da…sé [sic] stesso, «Musica
d’oggi», XII, 12, dicembre 1930, pp. 495-500.
83 Ibidem.
84 A. CASELLA, Arnold Schönberg e la nuova musica italiana, «Musica
d’oggi», VI, 10, ottobre 1924, p. 300.
31
Esaminando altri articoli italiani su Schönberg, ve ne sono
un paio tradotti dal tedesco che parlano della sua musica in
termini positivi. È il caso della sintetica e precisa analisi del
Pierrot lunaire – sorta di presentazione dell’opera al pubblico
italiano – condotta da Erwin Stein 85, allievo e divulgatore del
Maestro, il quale accortamente preferisce optare per una
descrizione tecnica del lavoro, tenendosi alla larga da
considerazioni di natura critico-estetica. Anche Correnti e
indirizzi nella musica tedesca contemporanea di Hans
Mersmann86, esalta il circolo viennese, sottolineandone in chiave
positiva i legami con il romanticismo. Qualcuno azzarda anche
una reazione al ben radicato luogo comune che inquadra certe
novità della musica straniera sempre e soltanto nell’ottica della
vecchiaia e/o della degenerazione. Hugo Fleischmann è piuttosto
esplicito a proposito:
Il nuovo stile non comporta nessuna degenerazione della musica tedesca, come
tuttora pensano alcuni critici arretrati e come vorrebbero farci credere nei loro
saggi, ma contiene uno sviluppo progressivo verso una lontana mèta, che già si
delinea malgrado il grande sconvolgimento dei sistemi musicali. Il nuovo stile
ha trionfato definitivamente sulla divinizzazione della musica […]. L’epoca
del jazz, del Dancing, dello sport, dell’automobilismo, dell’aeronautica, della
radiofonia, del grammofono e di tutte le altre invenzioni tecniche doveva
influenzare, naturalmente, anche il nuovo stile musicale87.
32
apparso sui «Musikblätter des Anbruch» e relativo al Quintetto,
op. 26. Prudentemente si parla di «composizione a base di dodici
suoni». Nello spiegare la serie
33
scrittura dodecafonica»92. L’articolo è strettamente tecnico e non
presenta considerazioni estetiche ed è siglato ‘e.d.’, ovvero Ettore
Desderi. Lo stesso Desderi tornerà a menzionare il termine
‘dodecafonia’ – più che a occuparsene come oggetto di studio –
nel saggio Le tendenze attuali della musica del 1928, in cui
riemergono molto ambiguamente gli inconciliabili rapporti tra
tonalità e atonalità:
92 e.d. [E. DESDERI], Riviste e giornali, «Il Pianoforte», IV, 3, marzo 1925,
p. 106.
93 E. DESDERI, Le tendenze attuali della musica, «Rivista Musicale
Italiana», 1928, pp. 252-3.
34
specifico della musica. La musica europea sta dunque per subire una crisi
radicale, da cui dovrà uscire completamente trasformata e rinnovata94.
35
Schönberg non si è solamente accaparrato la fama di protagonista indiscutibile
della nuova musica tedesca, ma ha pure potentemente influenzato parecchi
grandi maestri della musica moderna delle altre nazioni98.
[I]n questo lavoro la tecnica è, sì, atonale, ma, diversamente che nel suo
inventore e maestro del Berg stesso, Arnold Schoenberg, non riesce a
dissimulare completamente né l’origine prettamente tonale, né quella da un
ben noto e tutt’altro che giovane romanticismo di pura marca germanica.
Insomma l’allievo è stato più sincero del maestro, o per lo meno non è riuscito
quanto lui a non esserlo101.
36
Negli articoli pubblicati sulla «Rassegna musicale» tra il
1928 e il ’29, Cimbro dà l’idea di voler affrontare una serie di
problemi assillanti in modo sistematico, anche se in realtà si
appoggia a una serie di condivise certezze:
37
vorrebbe apparire analitico, si articola sotto una pesante cappa
ideologica:
Una frase chiusa siffatta: fa sol fa# la#, è evidentemente dodecafonica mentre
un glissé di semitoni congiungenti fa a do non lo è, o per lo meno non lo è
necessariamente; i due cromatismi sono di natura differente106.
Il modo minore [...] nel corso del lavoro musicale conduce tutto: le
modulazioni più ardite sono sua opera, generalmente; [...] mediante l’accordo
di settima diminuita [...] e la complicità dell’enarmonia, amoreggia con tutte le
tonalità [...] Tutto ciò non giunge tuttavia alla negazione della tonalità.
Solamente si spalancano le porte alla tonalità dodecafonica [...]. Per la musica
dodecafonica non si potrà parlare propriamente né di mutazioni in senso
melodico, né di modulazioni in senso armonico tradizionale [...]. Neppure vi si
potrà fissare in modo inequivocabile un centro di armonico equilibrio [...]. La
musica fa a meno di un preciso punto di gravitazione armonica; e, se a questo
si riduca la famigerata atonalità, tutti vedono che l’atonalità non ha davvero
nulla di spaventoso! Anzi, convien notare a questo riguardo, non si immagini
taluno che la musica dodecafonica sia necessariamente del tipo di “Pierrot
lunaire”. Affatto!
38
pochissimi concerti e ancora meno musica stampata, con qualche
saltuario e mai innocente bagno nella palude della terminologia
musicale, con lo scopo principale di fermare sul nascere una
possibile avanzata nel Belpaese di quello che viene
implicitamente ritratto come un minaccioso consorzio di
cospiratori. Anche per questo si continua a ribadire che la musica
di Schönberg è oramai sorpassata e che il circolo viennese perde
irrimediabilmente terreno, rinfrancati dai riscontri nella stampa
estera, come l’articolo “Due giornate nere per gli estremisti
modernisti a Berlino”, con recensione delle tre opere in un atto di
Křenek e delle Variazioni per orchestra di Schönberg, «pare,
decisamente cadute»107.
39
riportate per stuzzicare la curiosità dei lettori. In questo contesto,
liberati dall’assillante necessità di dare un’interpretazione
estetica del fenomeno, qualcuno finisce per esaminare più da
vicino l’aspetto tecnico del metodo. Il 1933 è anche l’anno del I
Congresso Internazionale di Musica di Firenze (30 aprile-4
maggio), a cui prese parte anche Berg, assieme a Willi Reich ed
Egon Wellesz; il 15 maggio il Quartetto Kolisch eseguì il
Quartetto in re minore, op. 7 di Schönberg.
Gli effetti della censura e della cultura ufficiale divengono
tangibili: negli anni immediatamente successivi allo striminzito
resoconto del ‘33, per quanto si cerchi nelle riviste specializzate,
le menzioni di Schönberg negli articoli dalla Germania e
dall’Austria si azzerano. Le conseguenze della propaganda
nazionalsocialista contro l’ “arte degenerata” si ripercuotono in
Italia anche prima del 1938. Eppure l’atonalità non sembra aver
cessato di minacciare la “buona musica”. Alfredo Parente
presenta al IV Congresso Internazionale di musica un intervento
intitolato “Aspetti della cattiva musica novecentesca”, a cui
Dallapiccola replica citando le affermazioni di Parente, il quale
riscontrerebbe
40
Rispunta fuori in qualche modo l’ipotesi “Voronoff” di
Alaleona. Continua Parente:
41
Con queste premesse Schönberg diventa «protagonista di un
dramma senza via d’uscita, che culminerà nel parossismo del
sistema dodecafonico»113. E alla fine:
113 G. PANNAIN, Musicisti dei tempi nuovi, G.B. Paravia & C., Torino-
Milano 1932, p. 60.
114 Ibidem.
115 Ibidem, p. 64.
116 Ibidem, p. 62.
42
Tornati dalla guerra, ci accorgemmo che essa aveva fatto tabula rasa di ogni
ordine intimo della vita. [...] E vedevamo all’orizzonte una luce di candore da
primordio del tempo, arrivava fino a noi un senso fresco di mattutino, odore di
terra appena smossa da lavorare117.
43
uscire presso l’editore Tumminelli, ma la pubblicazione viene
bloccata a causa del fatto che Wellesz era ebreo120.
Nei suoi ultimi lavori, egli arriva ad una astratta melodia di colori sonori,
estrema conseguenza della nuova architettura e della nuova struttura sonora
del sistema a dodici toni121.
44
corrispondenze dall’estero. Ecco un esempio che la dice lunga
sui nuovi indirizzi della musica germanica e sulle alleanze
artistiche italo-tedesche:
45
attacchi alla sua estetica generale. Magni Dufflocq riconosce nei
Gurrelieder la più importante delle composizioni schönberghiane
e quanto egli scrive a proposito della terna viennese, per quanto
poco aggiornato, rappresenta un raro caso di polemica
ragionevole 126. L’edizione del secondo libro, La musica
contemporanea di Fleischer, autore che già si era occupato della
dodecafonia, ha dell’incredibile se si considera la posizione
critica assunta dall’autore e l’anno di pubblicazione: il volume fu
infatti stampato dalla Hoepli nel 1937 e riedito l’anno successivo.
Se il testo di Magni Dufflocq rinfranca un poco dal disastro
critico di quegli anni, la posizione di Fleischer è completamente
favorevole alla musica contemporanea. È significativo che questo
testo costituì, almeno fino al 1946, uno dei pochissimi strumenti
critici di avvicinamento al panorama delle nuove tendenze della
musica europea, prima ancora che si avesse la possibilità di
ascoltare le opere di tanti autori, come ricorda anche Luigi Nono
in una celebre intervista127. Nello stesso anno 1938 però i
generosi tentativi di Dallapiccola e Fleischer di promuovere la
musica di Schönberg sarebbero stati neutralizzati prima dal
Manifesto degli scienziati razzisti, redatto quasi interamente da
Mussolini e pubblicato il 14 luglio 1938 da vari giornali italiani,
e poi dalla Dichiarazione sulla razza promulgata dal Gran
Consiglio del Fascismo il 6 ottobre dello stesso anno. Scrive
Petersen: «Del resto, in Germania un elenco di musicisti ebrei e
“sovversivi” esisteva da un pezzo e un’edizione a stampa venne
anche consegnata agli italiani»128. Come nota Fabre, di cui riporto
in nota anche le citazioni bibliografiche, l’elenco tedesco dei
musicisti era stato appena rifatto [agli inizi del 1940] con
126 Ibidem. Cfr. su Schönberg: pp. 142-47; su Webern: p.148; su Berg, pp.
156-57.
127 AAVV, Un’autobiografia dell’autore raccontata a Enzo Restagno, in
Nono, Torino, EDT 1987, p. 8.
128 J. PETERSEN, «L’accordo culturale tra l’Italia e la Germania del 23
novembre 1938», in Fascismo e nazionalsocialismo, a cura di K. D.
BRACHER e L. VALIANI, Bologna, Il Mulino 1986, p.374, cit. in G. FABRE,
L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Silvio Zamorani
1998, p. 329.
46
l’approvazione dello stesso Goebbels129. In Italia venne stilato un
nuovo elenco di compositori ebrei, integrando i dati ricevuti dal
ministero di Goebbels con quelli forniti dalle ambasciate italiane
in vari paesi. L’elenco fu distribuito ai teatri italiani ed entrò in
funzione130: vi apparivano i nomi di Mahler, Weill e Schönberg,
mentre, nell’autunno del ’42, furono eseguite opere di autori non
ebrei, come Berg, Bartók, e Hindemith, che risultavano nelle liste
tedesche131. Nel ‘37 era stato lo stesso Hitler a scagliarsi contro la
“cultura bolscevica ed ebraica”: l’articolo uscì anche in Italia132.
Le strategie dei detrattori di Schönberg sono sempre le
stesse: silenzio o deprecazione. Come ricorda Dallapiccola:
«Tutte le volte che mi rivolsi a qualcuno per avere lumi sulla
tecnica dodecafonica mi sentii invariabilmente rispondere: “È
finita”»133. In una recensione a «Modern Music», dicembre 1938,
l’articolo di Křenek Compositori trapiantati è così
eufimisticamente sintetizzato: «Emigrazione involontaria di
musicisti dall’Europa in America»134. Altre preoccupazioni
assorbono la cultura ufficiale: nel numero successivo della stessa
testata si legge il seguente avviso:
47
Su alcune riviste si raggiunge un livello di sclerosi
pressoché totale. Ne è testimone un altro numero di «Musica
d’oggi»136 che, aperto dalla réclame dell’incisione discografica de
L’Inno all’Impero del M° P. Clausetti (uno dei proprietari della
Ricordi), «il cui testo è tratto dal discorso del Duce per la
Fondazione dell’Impero (9 maggio 1936-XIV)», prosegue con la
lista delle opere di Francesco Cilea, accademico d’Italia,
disponibili presso Casa Ricordi, per concludersi con la notizia
dell’elezione di Cilea ad Accademico d’Italia, dopo un articolo di
tale Elisabetta Oddone su Il valore educativo della musica e lo
spartito de La bandiera su testo di Renzo Pezzani, musica di
Elisabetta Oddone, e dopo aver anche trovato lo spazio di edurre
i lettori su scorribande varie di Pratella e sulla Taormina di
Mulè. Intanto le corrispondenze di Brüggemann dalla Germania
si dilatano sempre più. È il caso della celebrazione del millesimo
concerto della ”Orchestra Sinfonica nazionalsocialista”, fondata
nel 1931 e diretta da Franz Adam e Erich Kloss, sorta
Grazie alla nota larghezza di vedute del dottor Goebbels il VI Festival del
Teatro non sdegnò di comprendere, fra i generi da onorare con accuratissime
rappresentazioni speciali, anche quelle della tanto discussa quanto vittoriosa
[…] operetta138.
48
riscontrannno timidi segnali di novità, ma troppo esili. Herbert
Fleischer nel 1935 aveva pubblicato un articolo intitolato Il
problema Schoenberg, in cui l’operato del compositore, da poco
emigrato negli Stati Uniti, è presentato come un problema
irrinunciabile, che non può più essere scansato con la scusa del
vecchio romantico decadente. Ma a parte pochi casi, nel periodo
1938-1940 le menzioni relative ai tre viennesi e alla dodecafonia
su giornali e riviste si azzerano. Sono precauzioni di una società
sotto sorveglianza, che coabita con una censura sempre in
agguato, anche negli aspetti apparentemente secondari della vita
quotidiana, come riportato alla luce anche dalle Note di servizio
edite da Francesco Flora nel 1945. Attraverso una rilettura del
clima cupo e deprimente degli ultimi anni Trenta, è possibile
comprendere le timide aperture – in un certo senso reattive e
altrimenti inspiegabili – che permetteranno per esempio la
messinscena di Wozzeck nel 1942, in cui giocò un ruolo
fondamentale il coreografo Aurel Milloss. 139 Senza i clamori del
’24 per Pierrot lunaire e senza il falso ottimismo di Brüggemann,
che aveva aperto così una sua corrispondenza:
Si diceva sempre che quando regna Marte, le Muse tacciono. Oggi ciò non vale
più. Oggi avviene – e pare incredibile – quasi l’opposto. In tutti i grandi centri
della Germania, a Berlino, a Vienna, a Monaco, a Dresda, a Colonia, ad
Amburgo, teatri e concerti sono affollati più che in tempo di pace140.
§4. 1940-45
49
L’autonomia di movimento tra musica e parole intese a
definirla – e una scarsissima condivisione sociale – non va
sottovalutata nello spiegare la tardività con cui il lemma
‘dodecafonia’ trova spazio nei dizionari della lingua italiana. Le
notevoli fluttuazioni di significato, in certi casi, lo rendono un
termine quasi inservibile. Utilizzare ‘dodecafonia’ come
tecnicismo avrebbe implicato un’attività analitica e catalogativa
che all’inizio degli anni Quaranta appariva troppo
compromettente, perché avrebbe significato dare un qualche
valore, se non altro esemplificativo, alle opere prese in esame. Da
diversi anni, il clima prevalente è invece quello di un’accurata
propaganda anti-dodecafonica a distanza, à la Pizzetti. Una delle
conseguenze più evidenti di questo atteggiamento è il facile
affiorare di grossi malintesi, di cui fornisco qualche esempio. In
una recensione sulla «Rassegna musicale» del 1928 sta scritto:
«Arnold Schoenberg ha terminato delle variazioni per orchestra,
nelle dodici tonalità»141. Oppure, con sottofondo di irrisione,
prima delle grandi perorazioni degli anni Quaranta, Brüggemann
definiva la Serenata op. 24 come «lavoro non nuovo, ma
caratteristico per una nuova tecnica armonica della quale è uno
dei primi esempi nella produzione del grande cacofonista»142. Nel
’41, su «Musica d’oggi»: «[Frank Martin] pur comprendendo i
grandi vantaggi della politonalità teorizzata da Schönberg, ha
scelto in essa ciò che più conviene alla sua arte»143.
50
deve attendere almeno fino al Dizionario etimologico italiano di
Carlo Battisti e Giovanni Alessio144 del 1951, autentico florilegio
di inesattezze: «dodecafonia [...] sistema musicale di Arn.
Schoenberg, secondo cui il sistema melodico dovrebbe liberarsi
dal nesso tonale; diatonismo diffuso in Italia da Ferruccio Busoni
(sistema dodecafònico); v. [voce] dotta creata in contrapposto ad
‘ottava’, ‘dodeca-‘ e gr. -phonia (phone voce)». Andando a
dizionari precedenti, il termine manca per esempio in Guglielmo
Volpi, Vocabolario della lingua italiana, S.A.G. Barbèra
editore, Firenze 1941 e anche nello Zingarelli, 1945 (7a ediz.).
Gli errori sono spiegabili con il frequente problema del passaggio
da un àmbito tecnico-settoriale a uno più generale145, problema
che spiega in parte anche l’oblìo della terminologia alaleoniana
che non riuscì, nonostante gli sforzi del suo formulatore, a
emergere in un contesto più generale. La ragione di questi
malintesi non fu comunque la mancanza di una chiara
definizione del lemma ‘dodecafonia’: esso era infatti già apparso
in Italia in un’opera specialistica, il Dizionario Lessicografico
Musicale Italiano-Tedesco-Italiano di Fernando Limenta (1940),
associato al nome di Schönberg e con una descrizione tecnica
piuttosto circostanziata, benché segnata dal tentativo “italico” di
rivendicare il fatto che grazie a Nicola Vicentino e Gesualdo da
Venosa
già agli albori della musica italiana vi è tutto, se non qualche cosa di più
(almeno in musicalità) di quanto non si trovi nei principi fondamentali seguiti
da musicisti contemporanei autori di musica che taluno non esita a chiamare
“bolscevizzante”146.
51
È quasi inutile notare come nella voce di Limenta,
nonostante il livello apparentemente “neutro” dell’esplicazione
tecnica e lessicale, siano attivi pesanti filtri ideologici, nella
prospettiva di un primato artistico e cronologico attribuito alla
musica italiana e nell’arbitraria taccia (si badi, da fonte anonima)
di “bolscevizzante” imputata alla musica dodecafonica. La
definizione di bolscevismo era un luogo comune della
propaganda nazionalsocialista per arginare tutti le attività
sgradite, una variante dell’etichetta di “arte degenerata”.
L’accusa di «bolscevico della cultura» era stata rivolta a
Schönberg già prima del 1932, come il compositore stesso ci
informa in un manoscritto dal titolo I miei oppositori risalente
all’ottobre di quell’anno147.
Chi di noi musicisti non ha assistito fra il 1923 e il 1929 a qualche Festival
della S.M.I.C. [sic] in cui la massoneria delle musiche estremiste bolsceviche e
contropelo aveva tanta voce in capitolo? E quale fra di noi – per esperto e fino
d’orecchio e di sensibilità che egli fosse – riusciva più di una volta a
distinguere, ascoltandone la musica, non dico questo da quel compositore di
uno stesso paese, ma il compositore tedesco dal francese, dal polacco, dal
russo, dal balcanico, dall’inglese, dall’ungherese? […] Nessuno riusciva a
tanto. […]. Con la messa al muro dei geni tutelari delle varie nazioni e dei loro
ideali, con l’adozione di un “credo” ateo, disumano e cinico, il primo postulato
52
della III Internazionale era stato accettato e assolto: ogni carattere distintivo tra
individuo e individuo, fra nazione e nazione era stato abolito149.
53
che la dodecafonia schönberghiana è impropriamente chiamata
atonalità152.
A parte il costante e solitario operato pubblicistico-
compositivo di Dallapiccola, ancora nell’anno 1942-XX, c’è da
segnalare l’intervento di Nicola Costarelli (allievo di Respighi,
Pizzetti e Casella) sulla «Rassegna musicale»153. Per effetti
collaterali della storia, è significativo che nella sua disamina
molto accurata della dodecafonia, Costarelli citi Berg ma mai il
di lui maestro. In altre sedi Schönberg è citato, con parole di
ammirazione, assieme a Dallapiccola, come esponente della
dodecafonia154. La conclusione dell’articolo di Costarelli valga
come sigillo di un’epoca, durante la quale i primi esponenti della
dodecafonia italiana si stavano formando. È il primo sintomo
della crisi di quella compressione forzata, indotta dalla censura e
dagli obblighi del nazionalismo musicale – situazione che
perdura fino alla metà degli anni Quaranta, senza però impedire a
Dallapiccola di perseguire coerentemente sulla via di una
“dodecafonia mediterranea” – che porterà all’esplosione
54
liberatoria del dopoguerra. Il giovane Costarelli si addentra
coraggiosamente in dettagli tecnici, spiegando con dovizia di
esempi il principio della serie. Per lui, il sempre schivato
confronto diretto con le partiture è ormai un’esigenza
irrinunciabile: «Ora sarebbe necessario entrare nella sostanza
della dodecafonia, nell’analisi delle “opere”. Ma questa non vuol
essere una introduzione, una “nota” tecnica »155. Segue un
parallelo tra la dodecafonia e le nuove concezioni fisico-
matematiche (Einstein, De Broglie). Vale la pena riportare per
intero la conclusione dell’articolo:
Fra le varie tendenze che si contendono il campo della musica moderna, quella
dodecafonica è certamente la più radicale, nel senso del rinnovamento del
gusto. Nessuna meraviglia che sia stata la più avversata, in un’epoca musicale
ancora così caotica, in cui coesistono il mascagnano melodramma verista e il
neo-classicismo di Strawinsky, il truculento barocchismo straussiano e
l’austerità neo-bachiana di Hindemith; in un’epoca in cui alcuni vedono la
salvezza nel ritorno alla tradizione, altri nel superamento di essa
(dimenticando, entrambi, che la tradizione non è qualcosa di statico, bell’è
[sic] fatta, messa lì una volta per sempre, ma in continuo movimento).
Ci piace perciò terminare questa nota – che vorrebbe essere un modesto
tentativo preliminare inteso a chiarire i “dati” del nuovo tempo musicale – con
l’avvertenza ai giovani cui è soprattutto destinata, che non si può giudicare
un’arte dalla sua tecnica e tanto meno condannarla per questa.
Nell’esame che ogni giovane deve necessariamente fare della realtà
artisica che lo circonda, si dovrà procedere con serenità, senza lasciarsi
influenzare dall’eccessivo spirito polemico che animò coloro – del resto
valorosi – che ci precedettero.
L’aver noi superato di oramai dieci anni l’età legale della ragione
(diremmo, casellianamente, di averne 21+10) ci consente di dare, ai musicisti
di leva, questo modesto consiglio.
L’arte va giudicata dalle opere156.
55
scoperta di un’attività compositiva fino a quel momento rimasta
completamente ignota:
56