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Bollettino di italianistica

Rivista di critica, storia letteraria,


filologia e linguistica

n.s., anno VIII, n. 2, 2011

La letteratura italiana
e l’esilio

Carocci editore
Sapienza Università di Roma
Dipartimento di Scienze Documentarie, Linguistico-filologiche e Geografiche
Dottorato di Ricerca in Studi Filologici, Linguistici e Letterari
Dottorato di Ricerca in Storia delle Scritture Femminili

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Alberto Asor Rosa

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Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 401 del 7 ottobre 2004

Direttore responsabile
Alberto Asor Rosa

Copyright © Sapienza Università di Roma


Editing e impaginazione: Studio Editoriale Cafagna, Barletta
II semestre 2011 - Finito di stampare nel dicembre 2011 presso la Litografia Varo, Pisa
Con il contributo finanziario della Sapienza Università di Roma.

ISBN 978-88-430-5956-0
ISSN 0168-7298
Indice

Il punto 7
La letteratura italiana e l’esilio
di Alberto Asor Rosa

Saggi
L’esilio comunale
L’arte di dire l’esilio 17
di Elisa Brilli
Appunti per una riconsiderazione del bando di Dante 42
di Giuliano Milani
Retorica dell’esilio nel canzoniere di Petrarca 71
di Luca Marcozzi

L’esilio rinascimentale
L’esilio dalla politica, l’amore per la politica: lettere familiari
di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini 95
di Giulia Ponsiglione

L’esilio controriformistico
Un caso di esilio religionis causa:
Olimpia Fulvia Morata, umanista protestante 116
di Sandra Plastina
«Specolando nelle tenebre»:
su alcune lettere galileiane dall’esilio di Arcetri 131
di Lucinda Spera

Seicento e Settecento: il grande interscambio


Un doppio esilio di fine Seicento.
Il genovese Giovanni Paolo Marana e l’“esploratore” turco Mahmut 153
di Claudia Micocci


Pietro Della Valle pellegrino tra due esilii 168
di Valeria Della Valle
La “mia prigione natìa”. L’autoesilio di Vittorio Alfieri 184
di Lucia Strappini

L’età del riscatto


Un migrante della libertà: la Svizzera nel lungo esilio di Foscolo 193
di Gianfranca Lavezzi
Esilio e amor di patria:
due “miti” nella storia leopardiana delle idee 217
di Sonia Gentili
La spada e lo scudo:
le scritture degli esuli risorgimentali 229
di Agostino Bistarelli
Gli esilii del professor De Sanctis 251
di Raul Mordenti

Gli esuli antifascisti


L’emigrazione antifascista:
scrivere del regime e dell’Italia 271
di Fiammetta Cirilli
«Sotto le rocce rosse lunari»: esperienza del confino
e mito dell’esilio in Cesare Pavese 295
di Francesca Romana Andreotti

I migranti interni
Scrittori siciliani a Milano (Verga, Vittorini, Consolo) 315
di Alessandro Giarrettino

I migranti esterni
L’esperienza migratoria degli italiani negli Stati Uniti
come “architesto”: muratori e scrittori nelle opere di John Fante 339
di Teresa Fiore
Il «mal d’Europa»: storie di esuli
nella narrativa di Melania Mazzucco 359
di Grazia Nicotra

Esuli in Italia
Vent’anni di letteratura della migrazione
e di letteratura postcoloniale in Italia: un excursus 381
di Caterina Romeo


L’evento
La lingua italiana tra identità nazionale e migrazioni 409
di Manuela Lo Prejato

Il mestiere dello scrittore


L’esilio e il mondo 425
di Bijan Zarmandili

Recensioni
• Dante Alighieri, De l’éloquence en vulgaire (Raffaella Zanni), p.
431 • Frédérique Verrier, Caterina Sforza et Machiavel ou L’origine
d’un monde (Giorgio Inglese), p. 436 • Ludovico Ariosto, Lettere
dalla Garfagnana (Raffaella Anconetani), p. 438 • Erminia
Ardissino, Galileo. La scrittura dell’esperienza. Studi sulle lettere
(Lucinda Spera), p. 444 • Uncertain justice. Crimes and retribution
in contemporary Italian crime ficiton (Giorgio Nisini), p. 448 •
Mario Porro, Letteratura come filosofia naturale (Alessandro
Giarrettino), p. 449

Riassunti - Abstracts 455

Profili degli autori 467



Appunti per una riconsiderazione
del bando di Dante*
di Giuliano Milani

Che con la venuta di Carlo e con l’irruzione di Corso i


Bianchi fossero cacciati da Firenze, come è stato detto,
non corrisponde a verità. Certamente molti fuggirono
perché temevano altre persecuzioni, ed altri che si erano
visti rovinati dai saccheggi e dagli incendi cercarono di
farsi altrove una nuova esistenza. Le ipocrite parole d’or-
dine del nuovo governo che aveva conquistato il potere
con le stragi e le rapine erano “pace”, “ordine”, “prote-
zione della proprietà”.
R. Davidsohn, Storia di Firenze, iii, p. 258
E compiuti i sei dì utili stabiliti a rubare, elessono per po-
destà messer Cante Gabrielli d’Agobbio, il quale riparò a
molti mali e a molte accuse fatte, e molte ne consentì.
D. Compagni, Cronica, ii, xix

Benché largamente nota nel suo contenuto, la sentenza di bando promulgata


il 27 gennaio 1302 che diede origine all’esilio di Dante, poi perfezionata dalla
condanna a morte del 10 marzo successivo, merita di essere ripresa in esame
alla luce dell’edizione critica del documento di cui fa parte e di alcuni studi
recenti relativi alla politica e alla giustizia in età comunale, che rischiarano

* A Gilmo Arnaldi.
. Recentemente le sentenze fiorentine del 1302 sono state edite una prima volta in Il
Libro del Chiodo, a cura di F. Ricciardelli, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma
1998, pp. 3-167 e una seconda in Archivio di Stato di Firenze, Il Libro del Chiodo. Riprodu-
zione in facsimile con edizione critica, a cura di F. Klein con la collaborazione di S. Sartini,
Polistampa, Firenze 2004, pp. 165-259. Su entrambe le edizioni hanno espresso riserve M.
Campanelli, Quel che la filologia può dire alla storia: vicende di manoscritti e testi antighibel-
lini nella Firenze del Trecento, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”,
cv, 2003, pp. 87-247, M. A. Pincelli, Le liste dei ghibellini banditi e confinati da Firenze nel
1268-69. Premessa all’edizione critica, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio
Evo”, cvii, 2005, pp. 283-483 e M. Campanelli, Le sentenze contro i Bianchi fiorentini del 1302.
Edizione critica, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, cviii, 2006,
pp. 187-377. In appendice a quest’ultimo contributo, alle pp. 217-377, sotto il titolo Condem-
pnationes A. MCCCII [= Condempnationes] si trova l’ultima edizione delle condanne del
1302, utilizzata in questa sede.
. Sulla politica fiorentina dell’età di Dante P. Gualtieri, Il Comune di Firenze tra Due e
Trecento. Partecipazione politica e assetto istituzionale, Olschki, Firenze 2009. Sulla giustizia
comunale M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, il Mulino, Bologna 2005.


di una luce nuova antiche ricerche, come quelle di Robert Davidsohn e Ber-
nardino Barbadoro, spesso citate ma non considerate in tutte le loro implica-
zioni.

1
I libri di ghibellini di metà Trecento

Innanzitutto, grazie ai lavori apparsi negli ultimi anni, oggi siamo in grado di
comprendere molto meglio il modo, assai particolare, in cui il testo delle senten-
ze è giunto sino a noi.
Le condanne di Dante, con le altre promulgate dallo stesso tribunale nel 1302,
sono tràdite da due registri pergamenacei di grande formato scritti a Firenze più
di cinquant’anni dopo, tra il quinto e il sesto decennio del Trecento. Si tratta di
due registri-archivio allestiti nel clima di conflitto politico apertosi dopo la fine
dell’esperienza del regime di Gualtieri di Brienne (1342-43) negli anni di crisi
economica che videro il fallimento di molte compagnie bancarie e commerciali
cittadine. In questo contesto politico e sociale il gruppo che recentemente Vie-
ri Mazzoni ha qualificato come oligarchico, composto da membri del popolo
grasso, da scioperati (cioè grandi iscritti alle Arti) e da alcuni magnati, che dal
secondo al quinto decennio del Trecento aveva mantenuto un certo controllo
delle istituzioni comunali, si trovò marginalizzato dal comune e si asserragliò
nella Parte Guelfa, l’istituzione cittadina mediante la quale cercò e in alcuni
momenti riuscì a condizionare pesantemente la politica comunale. Ciò avven-
ne in modo intermittente tra 1345 e 1349, tra 1358 e il 1360 e poi, con maggiore
continuità tra il 1367 e il 1378, quando l’egemonia del partefici (cioè i membri
della Parte) raggiunse il massimo livello per essere poi spenta dal tumulto dei
Ciompi. Tra gli obiettivi principali degli “oligarchi” riuniti nella Parte vi fu la
possibilità di escludere i propri nemici dalla partecipazione a consigli e uffici
qualificandoli come ghibellini, nel quadro di un processo di riesumazione di un
vocabolario politico formatosi più di un secolo prima, che, benché ancora usato
qua e là nell’Italia (post)comunale, a Firenze aveva perduto significato nel corso

. R. Davidsohn, Storia di Firenze, iii. Le ultime lotte contro l’Impero (1912), trad. it. Sansoni,
Firenze 1960, pp. 274-94 e 312-23; B. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni politiche del
suo tempo, in “Studi danteschi”, ii, 1920, pp. 5-74; Id., La condanna di D. e la difesa di Firenze
guelfa, in “Studi danteschi”, viii, 1924, pp. 111-27. F. Ricciardelli, The Politics of Exclusion in
Early Renaissance Florence, Brepols, Tournhout 2007, che pure cita questi studi, non tratta gli
aspetti che nelle pagine seguenti si cerca di approfondire.
. Oltre ai lavori di M. Campanelli si è tenuto conto di F. Klein, Origini e trasmissione del
Libro del chiodo negli archivi fiorentini; criteri di edizione, in Archivio di Stato di Firenze (d’ora
in poi, asfi), Il Libro del Chiodo, cit., pp. xiii-xxxiv e di V. Mazzoni, Accusare e proscrivere il ne-
mico politico. Legislazione antighibellina e persecuzione giudiziaria a Firenze (1347-1378), Pacini,
Pisa 2010, pp. 33-46.
. Mazzoni, Accusare e proscrivere, cit., pp. 22-32.
. Ivi, pp. 103-42.
. Guelfi e Ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile, Viella, Roma 2005,
con l’importante contributo di R. M. Dessì, I nomi dei guelfi e dei ghibellini da Carlo i d’Angiò
a Petrarca, alle pp. 3-78.


della prima metà del Trecento con il procedere del rientro di banditi ghibellini
e bianchi. Si cercava in questo modo di rendere legittima l’esclusione degli av-
versari presentandola come una riproposizione della politica gloriosa che i guelfi
avevano promosso negli anni dell’esplosione di Firenze come centro politico
ed economico (in particolare nel periodo di Carlo i d’Angiò, tra 1267 e 1280 e
in seguito durante il viaggio di Enrico vii). Per questo i partefici provarono e, a
partire dal 1347, riuscirono a far approvare norme che stabilivano l’esclusione dai
pubblici uffici di ghibellini e discendenti di ghibellini.
Per fondare la nuova esclusione (nel concreto per accusare qualcuno di ghi-
bellinismo e impedirgli l’accesso a cariche e uffici) furono necessari appigli do-
cumentari. Cominciò così negli archivi cittadini, i quali nel frattempo avevano
subìto selezioni e distruzioni, soprattutto pochi anni prima, in occasione del-
la cacciata di Gualtieri di Brienne, un rastrellamento volto a raccogliere ogni
traccia dell’esclusione dei ghibellini attuata nel corso del secolo precedente. Gli
antichi elenchi di nemici banditi e condannati, talvolta accompagnati dalla nuo-
va normativa furono copiati in alcuni grandi volumi. Tre di questi volumi sono
giunti fino a noi e tra questi vi sono i due registri che contengono le condanne
di Dante.
Nel 1347 o pochissimo prima, in concomitanza con il primo grande ripristino
della politica antighibellina, all’interno della Parte Guelfa si allestì un primo
registro in cui non furono trascritte le condanne del 1302, ma altri materiali utili
per la nuova esclusione: alcune liste di banditi e confinati ghibellini scritte nel
1267 e 1268, all’epoca del ritorno dei guelfi e della concessione della signoria a
Carlo d’Angiò; una lista di quei ghibellini e guelfi bianchi condannati dal 1302
che, come Dante, erano stati eccettuati dall’amnistia che nel 1311 aveva fatto va-
rare il governo cittadino, al fine di togliere sostegno ai fuoriusciti; una lista dei
sostenitori fiorentini di Enrico vii del 1313; una lista dei fiorentini (guelfi in que-
sto caso) condannati da Enrico vii, e poi, a seguire, la nuova normativa del 1347
e le prime condanne per ghibellinismo a cui questa aveva dato luogo. Negli anni
seguenti questo Liber Partis Guelfe fu aggiornato copiandovi la nuova normativa
antighibellina.
Nel frattempo i successi della politica della Parte Guelfa suscitarono l’op-
posizione della signoria, e cioè dei priori, allora egemonizzati dalla corrente
che è stata definita democratica che, senza cancellare i provvedimenti, prova-
rono ad avocare a sé il monopolio del controllo sulle accuse di ghibellinismo.

. Mazzoni, Accusare e proscrivere, cit., pp. 144-60.


. A. De Vincentiis, Politica, memoria e oblio a Firenze nel XIV secolo. La tradizione docu-
mentaria della signoria del duca d’Atene, in “Archivio Storico Italiano”, clxi, 2003, pp. 209-48.
. Benché Campanelli Quel che la filologia, cit. e Klein, Origini, cit., siano in grave disac-
cordo sui criteri da usare per realizzare l’edizione del testo, in particolare sul manoscritto da
privilegiare, essi giungono a conclusioni assai simili relativamente alla datazione e alla realizza-
zione dei diversi manoscritti.
. Questo registro è oggi conservato in asfi, Capitani di Parte, Numeri rossi, 21. Cfr. Campa-
nelli, Quel che la filologia, cit., pp. 114-9 e 175-83; Klein, Origini, cit., pp. xx-xxii.
. Mazzoni, Accusare e proscrivere, cit., pp. 149-50.


In questo nuovo scenario, in cui l’esclusione passava dalle mani della Parte a
quelle del governo cittadino, in una data che va dal 1349 al 1357, il priorato si
dotò dei propri strumenti di verifica e provvide all’allestimento di un nuovo
registro che stavolta conteneva le liste di banditi e confinati del 1268 e 1269
precedute dalle condanne del 1302, incluse quelle che avevano coinvolto Dan-
te. La mano che lo ha scritto è stata identificata concordemente in quella di
Cichino di Giovanni de’ Giusti da Modena, coadiutore del notaio alle Rifor-
magioni (a cui era affidata la registrazione delle delibere dei priori delle Arti)
nel periodo 1348-57.
Nel 1358 la Parte Guelfa prese nuovamente il sopravvento e si deliberò che
tutti quei ghibellini che erano stati approvati come guelfi a partire dal 1349 (sem-
plificando, negli anni di predominio dei priori in cui era stato redatto il registro
appena esaminato) non potessero più essere eletti agli uffici più importanti del
governo. Fu quindi prodotto un terzo registro, il Libro del Chiodo, da Giovanni
del fu Buto Compagni da Figline, notaio privato, ma caro ai capitani della Parte
che gli avevano affidato la redazione di due codici di statuti. Anche questo regi-
stro conteneva le condanne del 1302, copiate direttamente da Capitoli del comu-
ne, Registri 19 insieme alle liste del 1268-69. A questi due nuclei documentari era-
no stati aggiunti sin dall’inizio altri materiali già confluiti nel precedente registro
allestito dalla parte (l’amnistia del 1311 e le liste degli eccettuati da tale amnistia).
Il nuovo strumento, che veniva così a costituire il più completo repertorio di
antenati ghibellini disponibile, fu ulteriormente accresciuto negli anni successi-
vi, ma non lasciò molte tracce di uso nella documentazione della persecuzione
antighibellina. In quello stesso 1358 in cui era stato scritto si introdusse infatti la
pratica dell’ammonizione per mezzo della quale per costringere un cittadino a
non accettare cariche pubbliche, pena la condanna per violazione della normati-
va antighibellina, bastava che lo decidesse la maggioranza dei Capitani di Parte
Guelfa. Il Libro del Chiodo, dunque, servì forse come base per questo tipo di
procedura nei vent’anni in cui fu posta in uso, ma di fatto, il diffondersi della
nuova pratica che non necessitava di grandi ricerche ma di rapide votazioni, lo
rese meno necessario.
La ragione ultima per cui le condanne di Dante sono giunte sino a noi risiede
dunque nella decisione presa attorno alla metà degli anni 1350 dai priori fioren-
tini di dotarsi di uno strumento aggiuntivo per controllare la “ghibellinità” degli
antenati di quanti erano accusati di ricoprire illegittimamente uffici pubblici.
A tale strumento pare che la Parte Guelfa non potesse accedere sino a quel
momento, come si può inferire dal fatto che non era stato incluso nel suo primo
repertorio. Le sentenze di condanna del 1302 costituivano qualcosa di diverso,
anche visivamente, dagli altri documenti potenzialmente utili a quel fine: non
erano una vera lista di proscrizione, un elenco di persone qualificate come ghi-

. asfi, Capitoli del comune, Registri, 19.


. Campanelli, Quel che la filologia, cit., pp. 183-8; Klein, Origini, cit., pp. xxii-xxvi.
. asfi, Capitani di Parte Guelfa, Numeri rossi, 20.
. Campanelli, Quel che la filologia, cit., pp. 188-92; Klein, Origini, cit., pp. xxvi-xxxiii.
. Mazzoni, Accusare e proscrivere, cit., pp. 203-27.


bellini, ribelli o condannati, ma un documento assai più ambiguo, una raccolta
di atti finali di procedimenti giudiziari – altra cosa che spiega bene la sua con-
servazione nell’archivio del comune e non in quello della Parte Guelfa – molti
dei quali non si fondavano su accuse di ghibellinismo. Eppure quando intorno
al 1358 il notaio che lavorava per la Parte volle produrre un repertorio completo
di ghibellini non si lasciò sfuggire l’occasione di includervi questo testo, come
del resto poco prima aveva fatto quello delle Riformagioni. Ma che tipo di testo
avevano copiato esattamente?

2
Il volume di condanne del 1302

Il testo copiato negli anni 1350 si presenta come una raccolta di sentenze di con-
danna individuali e collettive emanate dal gennaio all’ottobre 1302 disposte in tre
sezioni distinte a seconda dell’ufficiale forestiero in carica: quelle emanate sotto
la podesteria di Cante Cabrielli da Gubbio (dal 18 gennaio al 2 giugno), quelle
emanate sotto la podesteria seguente di Gerardino Gambara da Brescia (dal 14
luglio al 13 ottobre); quelle emanate sotto la capitaneria di Nallo di Pietro Guel-
foni di Collestazzari, sempre da Gubbio (il 26 giugno). Ogni atto di condanna o
ogni piccolo gruppo di condanne è preceduto dall’intestazione in cui si specifi-
cano i nomi del podestà in carica, del giudice che presiede l’ufficio del tribunale
in cui la condanna è stata emanata e del notaio che l’ha scritta, ed è seguito dalla
pubblicazione, ossia dall’atto che rendeva la condanna esecutiva mediante la sua
lettura in consiglio. Questi atti di pubblicazione, datati, mostrano che all’interno
della sezione di ogni magistrato forestiero l’ordine delle condanne è rigidamente
cronologico.
Una sottoscrizione che si trova nella prima sezione, quella di Cante Gabriel-
li, tra due condanne datate 10 febbraio, già identificata (e male interpretata)
da Isidoro del Lungo, ha permesso all’editore del testo, Maurizio Campanel-
li, d’ipotizzare quale fosse l’aspetto di questa raccolta quando fu copiata nei
libri giunti fino a noi. In essa, infatti, Ubaldino di Bartolo Benevento, iudex
ordinarius et notarius publicus, afferma di aver trascritto tutto ciò che precede,
copiandolo fedelmente da atti e libri di condanne del comune di Firenze che
si trovavano nell’archivio comunale, e pubblicandolo nel 1302 “nel presente
quaderno di otto carte”. Dunque, nell’archetipo il testo che va dall’inizio del-
la raccolta di condanne fino al punto in cui compare questa sottoscrizione si
estendeva sulle prime otto carte, cioè, con ogni probabilità, sul primo fascicolo.
Calcoli compiuti a partire da questo dato hanno fatto ipotizzare a Campanelli

. Campanelli, Quel che la filologia, cit., pp. 107-11 e G. Milani, L’esclusione dal comune.
Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, Roma 2003, pp. 416-23.
. Condempnationes, cit., pp. 219-75.
. Ivi, pp. 276-364.
. Ivi, pp. 365-77.
. Ivi, p. 247, n 11.


che l’archetipo fosse un volume composto di fascicoli sciolti in cui al primo
ne seguivano altri quattro di otto carte e uno più piccolo di quattro. È molto
probabile che il volume copiato da Cicchino non fosse più completo, forse per
la caduta di uno o – più difficilmente – di più fascicoli, dato che alcune con-
danne promulgate alla fine di ottobre, successivamente all’ultima giunta sino a
noi, non vi compaiono.
Dal punto di vista diplomatistico dunque questo volumetto, fatto almeno
di sei o sette fascicoli, era un libro di condanne. Ma di quale tipo? Di libri di
condanne ce n’erano diversi nei comuni italiani del tempo. A Firenze non sono
conservati registri giudiziari ordinari anteriori al 1343, poiché come si è detto, in
quell’anno la documentazione fu distrutta in occasione del tumulto con cui fu
cacciato Gualtieri di Brienne; dunque per immaginare che tipi di libri di sen-
tenze potessero essere prodotti nel 1302 dobbiamo ricorrere al confronto con i
registri giudiziari conservati in altre città. Questo confronto rivela che di solito
ogni giudice, assistito da uno o più notai, redigeva i diversi atti processuali in
registri di tipo diverso: registri giornalieri, in cui gli atti erano registrati secondo
la data, e registri che raccoglievano solo atti di un certo tipo (libri testium per le
testimonianze, libri fideiussionum, libri inquisitionum...). Le condanne, come i
bandi, per il loro valore di atti che fondavano un diritto economico del comune
(la sanzione pecuniaria stabilita), oltre a essere scritti normalmente su carte sciol-
te potevano essere copiate su registro da diversi uffici: lo stesso tribunale, che re-
digeva un proprio liber condempnationum per la durata del podestariato, e uno
o più uffici finanziari presieduti da ufficiali cittadini (come l’ufficio dei banditi
o l’ufficio del massaro), che formavano libri generali raccogliendo le condanne
dei vari tribunali.
Il libro di condanne del 1302 giunto sino a noi nelle copie di metà Trecento
non è il libro di sentenze di un singolo tribunale. Lo dimostra il fatto che racco-
glie condanne non solo, come si è visto promulgate da più magistrati forestieri,
ma anche da più tribunali della stessa curia podestarile. Per la parte relativa alla
podesteria di Cante Gabrielli per esempio contiene le condanne emanate dai
tre diversi giudici che erano addetti all’amministrazione dei processi per reati
commessi in particolari ripartizioni urbane (ognuno si occupava di due sestie-
ri), e quelle di un quarto giudice (quello che emise le sentenze di Dante) che si
occupava solo di un certo tipo di reati, quelli per baratterie, lucri illeciti, ingiu-
ste estorsioni degli ufficiali comunali del periodo precedente sulla base di un
arbitrio speciale che gli era stato concesso dal comune. Ma il libro del 1302 non

. Campanelli, Quel che la filologia, cit., pp. 103-7. La fascicolazione trova un riscontro nel
contenuto delle condanne che risultano essere state emanate, nei primi due fascicoli, da Cante
Gabrielli da Gubbio, in carica da novembre 1301 a giugno 1302; per i successivi tre fascicoli da
Gherardino Gambara di Brescia, e infine per il fascicolo finale, dal capitano del popolo Nallo
di Pietro Guelfoni.
. Ivi, p. 105.
. Su questo aspetto sono ancora utili P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale (1911),
ristampa, Consiglio superiore del notariato, Roma 1980 pp. 245-53 e H. Kantorowicz, Albertus
Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, i. Die Praxis, Guttentag, Berlin 1907, pp. 121-61.


è nemmeno un libro di condanne generale come quelli che tenevano sottomano
gli uffici finanziari, poiché non sembra contenere tutte le condanne emanate
nel 1302, ma solo quelle che hanno in qualche modo a che fare direttamente o
indirettamente con atti riconducibili al conflitto tra Bianchi e Neri: baratterie
commesse da Bianchi per il perseguimento dei loro fini politici, e poi reati di
omicidio, ferimento, ribellione di castelli del contado e altre azioni compiute
durante la guerra tra il nuovo regime nero e i fuoriusciti. Furti, frodi, e altri reati
comuni che con ogni probabilità continuarono ad essere denunciati e perseguiti
nel 1302 non vi compaiono affatto.
La sua ragion d’essere va dunque rinvenuta nella volontà di raccogliere in-
sieme tutte e solo le condanne “politiche”, intendendo con ciò quelle originate
dal nuovo scontro politico. Per capire quando questa volontà si manifestò sa-
rebbe utile conoscere la data in cui il registro fu iniziato. Ma dalla sottoscrizione
di Ubaldino mancano il giorno e il mese, che risultavano erasi nell’archetipo.
Disponiamo tuttavia di alcuni indizi. Al 7 maggio 1302 risale una proposta fatta
dal capitano del popolo al consiglio dei Cento in cui si chiede l’approvazione
di ordinamenti contro i banditi e i condannati dal podestà in ragione di barat-
teria, tradimento o congiura fatta contro il comune e il popolo. A quell’altezza
dunque le condanne per crimini diversi ma accomunati dal loro valore politico
erano già state accorpate in un solo gruppo secondo lo stesso criterio selettivo
che guida la selezione delle condanne copiate nel registro giunto sino a noi.
Dato che non possediamo tutte le provvisioni non possiamo escludere che simili
provvedimenti fossero stati presi anche in precedenza e che dunque prima si fos-
sero verificate le condizioni per allestire una raccolta di questo tipo. E neppure
possiamo essere certi che, nonostante già nel maggio si ragionasse insieme delle
condanne per baratteria e di quelle per ribellione politica, si sentì il bisogno di
copiarle nello stesso libro solamente in seguito. Un altro elemento rafforza tut-
tavia l’ipotesi che il registro fu copiato qualche mese dopo il mese di gennaio a
cui risalgono le più antiche condanne presenti. In margine ad alcune condanne
compaiono infatti annotazioni datate di provvedimenti ufficiali di annullamento
che persuasivamente Campanelli ritiene scritte dallo stesso notaio Ubaldino. La
più antica di esse fa riferimento a un momento precedente al 3 maggio, ma è un
po’ diversa dalle altre e potrebbe trattarsi di un’annotazione che Ubaldino tro-
vò già presente nella condanna che copiò. Quelle immediatamente più recenti
risalgono invece ai mesi che vanno da 13 luglio al principio di agosto e sembrano
essere state aggiunte dopo la copiatura delle sentenze dalle carte sciolte nel volu-
me di Ubaldino. L’assenza di note di cancellazione precedenti a questa data fa

. Condempnationes, cit., p. 247, n 11.


. Consigli della repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, vol. i, Zanichelli, Bologna
1921, p. 55.
. Campanelli, Quel che la filologia, cit., pp. 105-6.
. Condempnationes, cit., p. 263. Riguarda Betto e Dino di Filippo Gherardini la cui con-
danna fu pubblicata il 3 maggio, accanto ai nomi dei quali si legge: «Non lecta contra predictos
dominum Bectum et Dinum, quia se presentaverunt ante lectam dictam condemnationem».
. Ivi, p. 372 (13 luglio e 17 luglio); p. 366 (21 luglio); p. 249 (31 luglio); pp. 248 e 252 (3 agosto).


pensare che questo volume sia stato allestito intorno alla tarda primavera-inizio
estate, mediante la raccolta delle condanne ancora in vigore, forse escludendo
quelle già cassate. All’inizio di giugno, peraltro, fu istituito un nuovo ufficiale,
deputato alla gestione dei beni dei ribelli, a cui un registro del genere avreb-
be fatto certamente comodo. Certo è che da quando fu copiato divenne un
riferimento importante per trovare i nomi dei nemici del nuovo regime. Non
sappiamo per quale istituzione fu redatto: forse il priorato, forse l’ufficio delle
Riformagioni, in ogni caso (visto che Ubaldino era fiorentino e non forestiero)
un ufficio del governo cittadino.
Prima di allora, come testimonia la stessa sottoscrizione di Ubaldino che dice
di aver copiato le condanne «ex actis et libris condempnationum», le senten-
ze erano state registrate su carte e registri (forse i libri di condanne dei singoli
uffici). Questo significa che nei primi mesi del 1302, quando fu bandito e con-
dannato a morte Dante, le condanne di coloro che, come lui, di lì a qualche
tempo sarebbero confluiti ufficialmente nella categoria dei Bianchi erano ancora
registrate insieme a tutte le altre emanate dai tribunali cittadini, senza particolari
differenze. Solo qualche mese dopo si sarebbe provveduto a copiarle in un vo-
lume unitario e politico, lo stesso volume che una cinquantina di anni più tardi,
quando le molte altre tracce che il processo di Dante doveva aver lasciato negli
archivi pubblici fiorentini erano ormai perdute, fu incluso in un’antologia di
documenti relativi alle antiche proscrizioni.
In tal modo, a due riprese (nella primavera – estate 1302 e poco prima del
1358), nel corso del tempo successivo alla sua emanazione, la condanna di Dante
acquisì un colore di ritorsione partitica che in principio, sia dal punto di vista
diplomatistico – era una sentenza del legittimo tribunale del podestà che si pre-
sentava come superiore alle parti tanto più nell’atto di punire chi anteponeva
all’interesse pubblico l’interesse proprio – sia dal punto di vista archivistico –
era stata depositata nell’archivio comunale, non in quello della Parte – appariva
assai attenuato, almeno in superficie.

3
L’ufficio alle baratterie

Nella sua prima redazione la sentenza di bando di Dante doveva dunque pre-
sentarsi come atto di uno dei rami in cui era articolato il tribunale podestarile

. Si potrebbe obiettare a questa ipotesi immaginando che da gennaio a maggio (o piuttosto
a inizio luglio) nessuno dei condannati fu assolto, ma la cosa è contraddetta da un documento
pubblicato in Consigli della repubblica fiorentina, cit., p. 49 (2 marzo 1302) in cui si fa riferimento
all’assoluzione di condannati e banditi di Gaville e Montelungo i cui nomi non sono presenti
nel volume del 1302. Non siamo certi che si trattasse di bandi politici, ma il clima di guerra del
momento rende difficile l’ipotesi contraria.
. Gualtieri, Il comune di Firenze, cit., pp. 268-9.
. Spinge in questa direzione il fatto che a metà Trecento il registro di Ubaldino fu copiato
dal notaio Cichino che assisteva il notaio alle Riformagioni. Questi poté forse trovarlo nell’ar-
chivio del suo ufficio.


in quel momento: l’ufficio speciale alle baratterie costituito nel 1302. Si trat-
tava comunque di un ufficio speciale che, a differenza degli altri tre uffici ad
maleficia costituiti sotto la medesima podesteria (due per sestiere) in cui si
perseguivano i crimini comuni commessi nelle varie zone della città, era sor-
to per condurre un’inchiesta straordinaria, su reati considerati di particolare
gravità.
Straordinario era stato in qualche modo anche l’insediamento del podestà
da cui dipendeva il giudice che presiedeva questo ufficio. Carlo di Valois era
entrato a Firenze con un seguito armato il 1° novembre 1301 nella data che la
storiografia fiorentina associa alla festa di Ognissanti. Il 9 novembre, dopo l’ar-
rivo in città di Corso Donati e i sei giorni di saccheggi che erano seguiti, uno
dei cavalieri giunto al seguito del Valese, Cante Gabrielli da Gubbio, che era
già stato podestà a Firenze, fu nominato alla massima magistratura cittadina
esautorando Tebaldo da Monte Lupone che avrebbe dovuto restare in carica
fino alla fine di dicembre. Per questo, nel consiglio dei Cento, delle Capitu-
dini e delle Arti dell’11-12 gennaio 1302 si dovette stabilire, regolarizzando la
situazione eccezionale, che le condanne emanate da Cante nel periodo dal suo
insediamento al 30 dicembre avrebbero dovuto essere considerati valide «come
se le avesse emanate Tebaldo». Nella stessa occasione si decise che Cante non
fosse tenuto a portare a termine i processi avviati da Tebaldo, anche se era auto-
rizzato a indagare su crimini avvenuti in occasione dell’arrivo di Carlo. Forse
già prima, certamente non molto dopo quella decisione, fu costituito nel seno
della curia del podestà l’ufficio speciale, presieduto dal giudice Paolo da Gub-
bio coadiuvato dal notaio Bonora da Pregio, affinché indagasse su «baratterie,
inique estorsioni e lucri illeciti» commesse dai priorati precedenti all’arrivo
di Carlo di Valois. In questo modo il suo mandato di giustizia fu ulteriormente
ampliato in senso retroattivo.
Normalmente i priori, come altri ufficiali pubblici, una volta terminato il
mandato erano sottoposti a un processo, il sindacato, volto ad accertare se aves-
sero commesso irregolarità. A giudicare dalla testimonianza di Leonardo Bru-
ni, nel gennaio del 1302 fu stabilito che potessero essere sottoposti nuovamente
a indagine anche i priori che nel sindacato erano stati già giudicati innocenti.
Come ha rilevato Bernardino Barbadoro la stessa procedura d’indagine retroat-

. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., pp. 238-58.


. Consigli della repubblica fiorentina, cit., p. 40 (11 gennaio 1302).
. Condempnationes, cit., p. 219: «Hee sunt condempnationes […] facte, late et promulgate
per nobilem et potentem militem dominum Cante de Gabriellibus de Eugubio, honorabilem
potestatem civitatis Florentie, super infrascriptis excessibus et delictis commissis et perpetratis
per infrascriptos homines et personas, sub examine sapientis et discreti viri domini Pauli de
Eugubio, iudicis prefati domini potestatis ad offitium super barattariis, iniquis extorsionibus et
lucris illicitis deputati».
. Gualtieri, Il comune di Firenze, cit., pp. 243-4.
. L. Bruni, Vita di Dante, in Opere letterarie e politiche di Leonardo Bruni, a cura di P. Viti,
utet, Torino 1996, pp. 539-52: 545: «La via di dar bando fu questa: che legge feceno iniqua et
perversa, la quale sì guardava indietro che il podestà di Firenze potesse et dovesse cognoscere i
falli commessi per l’addietro nell’oficio del priorato, con tutto che assolutione fusse seguita».


tiva fu deliberata anche in seguito, il 27 luglio 1303, nei confronti dei priori, dei
vessilliferi e dei loro notai che si erano succeduti dal 1° novembre 1301 in poi.
Forse la provvisione che autorizzò l’indagine in cui fu coinvolto Dante aveva lo
stesso tenore ma si riferiva ai magistrati che avevano ricoperto l’ufficio prima di
quella data.
Con quella decisione il podestà fu messo nella condizione di cominciare la
raccolta delle prove, sia accogliendo accuse, forse incentivate con premi per la
delazione, sia, come normalmente avveniva quando si trattava di indagini ec-
cezionali per crimini considerati gravi, procedendo «ex offitio» cioè di propria
iniziativa, sulla base di notizie raccolte in vario modo: segnalazioni di cittadini
zelanti, denunce anonime, voci diffuse in modo sufficientemente ampio, inter-
rogatori a tappeto condotti nelle ripartizioni urbane. Su queste modalità d’in-
quisizione si tornerà nei successivi paragrafi, ma vale la pena di anticipare che
esse furono messe al servizio del perseguimento di un reato – la baratteria, cioè
la malversazione nell’amministrazione delle risorse pubbliche – che costituiva il
punto di arrivo di un secolo di riflessioni sul bene comune della città e su chi lo
minacciava.
La stessa instaurazione del regime del podestà forestiero nei decenni a cavallo
tra XII e XIII secolo aveva costituito non solo un tentativo di ritrovare la concor-
dia dopo anni di conflitti tra milites, ma anche come un sistema per controllare
con nuovi mezzi (la scritturazione in registro) e nuove procedure (i sindacati
degli ufficiali, le inchieste) le cruciali modalità di gestione dei beni comuni. A
metà del Duecento, nel corso dei conflitti tra filo e antifedericiani, un reato grave
come la cessione dei castelli di confine allo schieramento avversario era stato
inquadrato della categoria della proditio, letta, secondo il diritto romano, come
consegna ai nemici di un bene pubblico. E la doppia natura di crimine economi-
co e politico che presentavano le azioni di questi banditi comunali fu esplicitata
dall’uso infamante di dipingere i traditori con la borsa al collo. Tra 1273 e 1276
gli statuti di Padova prescrissero che dovessero essere fatte pitture infamanti con
la borsa al collo dei notai e degli ufficiali del comune nonché degli anziani che
avevano commesso trabutatio, il nome con cui localmente era indicato ciò che a

. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit., p. 29, cita asfi, Provvisioni, xii, 32 (27
luglio 1303): «provisum et ordinatum est quod priores artium et vexilliferi iustitie eorumque no-
tarii, qui pro tempore fuerunt a kallendis mensis novembris currentibus annis Domini millesi-
mo trecentesimo primo citra, debeant sindicari et recircari de omnibus et singulis que commissa
essent per eos per baratteriam, dolum vel fraudem, vel si quam pecuniam communis Florentie
de camera ipsius comunis vel aliunde rapuerint vel fraudolenter abstulerint vel indebite a quo-
quam receperint». Cfr. anche Consigli della repubblica fiorentina, cit., p. 110.
. Su queste procedure a Firenze cfr. A. Zorzi, La trasformazione di un quadro politico.
Ricerche su politica e giustizia a Firenze dal comune allo stato territoriale, Olschki, Firenze
1995.
. G. Milani, Prima del Buongoverno. Motivi politici e ideologia popolare nelle pitture del
Broletto di Brescia, in “Studi Medievali”, s. iii, xlviiii, 2008, pp. 19-85.
. G. Milani, Avidité et trahison du bien commun. Une peinture infamante du 13e siècle, in
“Annales. Histoire, Sciences sociales”, iii, 2011, pp. 705-39.


Firenze si chiamava baratteria. In questi stessi statuti si nota come il trabutare,
il barattare, fosse in quel contesto assimilato all’altra grande categoria di crimine
politico che aveva fondato la giustizia pubblica comunale, quella di falso, che gli
statuti e i tribunali applicavano a falsari di documenti, di monete, di testimonian-
ze e più in generale appunto alle azioni degli ufficiali pubblici compiute in nome
di un interesse privato. Non è dunque un caso che la sentenza di Dante e quelle
ad essa imparentate si concludano con condanne che qualificano gli indagati
come falsarii et barattarii.
D’altra parte, che nel 1302 il reato di baratteria non fosse presentato come
semplice e grigio illecito amministrativo, ma piuttosto, sulla scorta di que-
sta tradizione che lo riconnetteva al tradimento e alla falsificazione, come il
reato politico e pubblico per eccellenza lo testimonia bene il proemio che,
nell’ufficio speciale presieduto da Paolo di Gubbio, si decise di scrivere pri-
ma della prima sentenza di condanna emanata nel gennaio, forse perché po-
tesse introdurre opportunamente all’intero registro di condanne dell’ufficio
speciale.
In questo proemio si afferma che come, per disperdere un gregge non vi è
alcun attacco di lupo o di peste più efficace della «iniqua rapacitas» del pastore,
così avviene anche nella città, quando i cittadini che il popolo intende onorare
ammettendoli alla sua custodia, affinché essi, quali pastori solleciti e onestissimi
custodi, provvedano a governarlo in un ordine apportatore di salvezza, volgono
loro intenzioni nella direzione sbagliata, trasformando le cose giuste in ingiuste.
Accecati, costoro non considerano più il fatto che il popolo li ha elevati all’uffi-
cio affinché lo illustrassero amando la giustizia e attribuendo a ciascuno ciò che
merita. Dal tradimento di questa missione, provocato dall’ingerenza di interessi
privati (le «iniquae extorsiones» e «lucri illiciti» su cui indaga l’ufficio specia-
le) origina dunque la discordia dello stesso popolo, l’allontanamento dall’unità,
e dunque l’immensa confusione. La soluzione a questa catena viziosa, che dal
desiderio di guadagno di pochi conduce alla divisione della città, è rinvenuta
nell’emanazione di una «pena punitionis commictentibus talia» affinché, per
mezzo di questa, riconoscano in modo evidente la loro colpa e divengano per
tutti coloro che lo vengano a sapere, un fulgido esempio.
Dopo questo proemio, nel registro giunto fino a noi, sono contenute un tota-
le di otto sentenze di bando emanate dall’ufficio alle baratterie, per lo più collet-
tive, emanate tra il 18 gennaio e il 10 febbraio, che colpiscono quindici persone
tra cui Dante. Il 10 marzo, dallo stesso tribunale, fu emanata una sentenza che

. Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, a cura di A. Gloria, Sacchetto,
Padova 1873, p. 26 (per gli ufficiali), p. 138 (per gli anziani).
. Ivi, p. 385.
. Condempnationes, cit., p. 219. Sull’importanza di questo testo per il modo in cui Dante
pensò al suo bando mi riservo di tornare in un contributo di prossima uscita negli atti del con-
vegno Images and Words in Exile. Avignon and Italy in the First Half of the 14th Century, 1310-1352,
organizzato da E. Brilli, L. Fenelli e G. Wolf presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze e il
Musée du Petit Palais e l’Université d’Avignon (7-11 aprile 2011).


trasformava quattordici di questi bandi in condanne a morte. Dato che le sen-
tenze che riguardano queste persone furono emanate dallo stesso giudice e dallo
stesso ufficio in un arco di tempo piuttosto ristretto, esse possono, anzi debbono
essere analizzate separatamente dalle altre, quali frutto di processi correlati in
un’unica indagine.

4
Il gruppo degli indagati

I nomi dei condannati mostrano assai bene, e la cosa è stata più volte rilevata
in termini generali, il carattere di vendetta politica che per mezzo dell’inquisi-
zione per baratteria si volle perpetrare dal nuovo regime dei Neri. Per ognuna
delle quindici persone condannate è possibile trovare tracce di una militan-
za politica contro la parte nera raccolta intorno a Corso Donati, le aziende
mercantili-bancarie degli Spini, dei Bardi, dei Frescobaldi, e il programma
politico sostenuto dai Neri: l’alleanza, al livello locale, con i Neri di Pistoia,
al livello internazionale, con Bonifacio viii, gli Angioini di Napoli e, dal 1301,
Carlo di Valois.
I primi condannati del 1302, il giurista Donato di Alberto Ristori, Lapo Am-
moniti e Lapo Biondo erano stati priori tra il 15 dicembre 1299 al 14 febbraio
1300, spalleggiando il podestà e i suoi giudici nella lotta contro chi, nel primo
semestre del 1299, aveva sottratto beni del comune con la connivenza del podestà
Monfiorito da Coderta, uomo di paglia di Corso Donati, dunque contro per-
sone riconducibili in senso lato alla clientela donatesca. Donato è esplicitamente
nominato, insieme a un altro giudice, Lapo Saltarelli, anch’egli condannato nel
1302, tra i cittadini che i Cerchi, la famiglia leader della parte bianca, aveva sa-
puto attrarre a sé. Sotto il priorato successivo (15 febbraio-15 aprile 1300), di
cui avevano fatto parte, tra i condannati del 1302, Nanni de’ Ruffoli e Lippo del
Becca Rinucci, oltre a proseguire quest’opera si erano anche dovute cominciare
a fronteggiare le mire di Bonifacio viii il quale cominciava a rendere chiaro il

. Si tratta di un numero di persone piuttosto piccolo. In teoria si potrebbe pensare che il
registro che in copia è giunto fino a noi non riporti tutte le condanne emanate da quell’ufficio
nei mesi di gennaio-marzo. Ma data la natura di riferimento, dimostrata dalle correzioni che vi
furono apposte, che questo registro acquisì in seguito alla sua formazione è possibile pensare
che quelli giunti fino a noi sono tutti i bandi per baratteria ancora in vigore quando, forse al
principio dell’estate, il registro fu realizzato (cfr. sopra).
. Condempnationes, cit., pp. 219-21.
. S. Raveggi, I Priori di Firenze (1282-1343), repertorio dei priori fiorentini basato sul codice
asfi, Priorista di Palazzo, e su altre fonti disponibile su http://web-storia.storia.unisi.it/index.
php?id=301, ad vocem. Tutte le indicazioni cronologiche sulle cariche dei priori da qui in avanti
sono basate su questo repertorio.
. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., pp. 108-9.
. Dino Compagni, Cronica [= Cronica], a cura di D. Cappi, Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo, Roma 2000, i, 20, pp. 32-3. Lo stesso Compagni, Cronica, ii 7 c’informa che fu lui
nell’ottobre del 1301 a dettare la lettera con cui si accettava la venuta di Carlo di Valois a patto
che questi mantenesse Firenze nelle proprie prerogative e leggi: ivi, p. 51.


desiderio di annettere la Toscana ai domini pontifici. Per questo ad alcuni
tra gli ambasciatori che nel marzo si recarono a Roma, tra cui Lapo Saltarelli,
fu chiesto di rendersi conto di cosa stava avvenendo in curia e, sulla base
delle informazioni raccolte a Roma, Lippo del Becca Rinucci insieme a Lapo
Saltarelli accusarono formalmente tre banchieri fiorentini residenti in curia
(Arnolfo, detto Noffo, Quintavalle, Simone Gherardi Spini e Cambio di Sesto)
di macchinare contro la libertà di Firenze condannandoli a un bando di 2.000
lire ognuno.
Il 24 aprile lo stesso Saltarelli, divenuto nel frattempo priore per il periodo 15
aprile-14 giugno 1300 come un altro dei condannati del 1302, Gherardino Diedati,
fu formalmente citato da Bonifacio viii perché venisse a Roma insieme all’altro
accusatore, Lippo del Becca Rinucci a discolparsi di aver formulato quell’accusa
contro i banchieri suoi alleati. Il 1° maggio (Calendimaggio) successivo ebbe
luogo la rissa tra cerchieschi e donateschi a cui la storiografia successiva attri-
buisce l’inizio dei disordini. Per il ferimento di Ricoverino dei Cerchi furono
emanati gravi bandi pecuniari nei confronti di Chierico de’ Pazzi, per altri delitti
avvenuti nella stessa occasione furono multati altri membri dei Neri. Sotto il
priorato ancora successivo (15 giugno-14 agosto), di cui Dante è l’unico priore
condannato nel 1302, furono, com’è noto, emanate delle condanne al confino nei
confronti dei magnati sia bianchi sia neri che si erano resi partecipi di disordini
alla fine di giugno. Il provvedimento aggravò la tensione: i Bianchi, che si erano
recati al confino, furono in seguito richiamati; i Neri prima provarono a non
partire, poi, una volta fuori città, cercarono l’alleanza dei Lucchesi, disposti ad
appoggiarli da fuori in un tentativo di prendere il potere, e di Matteo d’Acqua-
sparta, inviato dal papa come paciere a Firenze dopo che era fallito un primo
tentativo di conciliazione del pontefice. Dino Compagni racconta bene quanti
stratagemmi i priori in carica dovettero mettere a punto per evitare che il cardi-
nale desse corso al trionfo dei Neri.
Nei bandi del 1302 a questo gruppo di priori “bianchi” in carica tra la fine
del 1299 e la metà del 1300 si affianca, dopo Orlanduccio Orlandi (priore dal
15 dicembre 1300-14 febbraio 1301) che di lì a poco sarebbe stato aggredito dai
Neri, un altro gruppo di persone, che avevano esercitato la carica in un altro
momento di tensioni tra le due parti: quello che va dall’aprile 1301, quando si
tenne il consiglio di Santa Trinita in cui qualcuno dei Neri propose di pren-

. Su queste mire cfr. ora F. Canaccini, Bonifacio viii e il tentativo di annessione della Tuscia,
in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, cxii, 2010, pp. 477-501.
. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., pp. 138-9.
. G. Levi, Bonifazio viii e le sue relazioni col Comune di Firenze, in “Archivio della Società
Romana di Storia patria, v, 1882, pp. 365-474: 400.
. Ivi, pp. 401-9 con la pubblicazione dei documenti.
. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., pp. 149-50. Sulla faida Cerchi-Donati, cfr. A. Zorzi, La
trasformazione di un quadro politico, cit., pp. 95-120.
. Ivi, pp. 167-85.
. Compagni, Cronica, i, 21, pp. 35-6.
. Ivi, ii, 25, p. 121.


dere la signoria e cacciare i Cerchi e la loro parte, all’ottobre dello stesso
anno, vigilia dell’arrivo di Carlo di Valois e del definitivo trionfo nero. Si tratta
di Guido Bruno dei Falconieri e Palmieri Altoviti (in carica tra 15 aprile e 14
giugno). Dino Compagni afferma che dopo la denuncia del consiglio di Santa
Trinita fatta da alcuni popolani (tra cui Dino stesso) ai priori, l’Altoviti aveva
rampognato i congiurati. In seguito, su richiesta dei cittadini, i priori avevano
proceduto a indagini che avevano rivelato un piano tra i Neri e il conte di Bat-
tifolle per rovesciare la signoria e portato all’emanazione di gravi condanne.
Nel corso dei tre priorati successivi (in cui avevano esercitato l’ufficio, tra i
condannati del 1302, Simone Guidalotti, Corso di Alberto Ristori e Guccio
Medico) i Bianchi di Firenze avevano provato a resistere alle manovre conver-
genti di Bonifacio e dei Neri ormai concretizzatesi nella nomina di Carlo di Va-
lois a paciere, in modi diversi: prima avevano cercato alleanze locali ed erano
riusciti a sbilanciare in proprio favore la situazione di Pistoia – e di questo si
trova traccia in particolare nei bandi del notaio Alone di Guccio e del pode-
stà fiorentino di Pistoia Andrea Gherardini – poi, avevano mandato a Carlo
un’ambasceria in cui si chiedeva di rispettare l’onore e la libertà di Firenze e
avevano dato istruzioni segrete ad alcuni capitani di castelli del contado, come
quello di Poggibonsi, affinché, nel caso in cui il paciere non avesse rivelato
atteggiamenti ostili, ne ritardassero l’arrivo.
Di fronte a una tale compattezza politica delle persone che furono bandite
con Dante la storiografia che si è occupata del suo bando ha teso a interpre-
tare le sentenze dell’ufficio alle baratterie come un’esclusione politica mala-
mente rivestita di una parvenza di decisione giudiziaria. A ciò hanno concorso
diversi fattori: la menzione, in alcune di queste condanne (tra cui quella che
coinvolse Dante) di riferimenti all’ostilità degli accusati nei confronti di Carlo
di Valois e del pontefice, e al ruolo nel cambio di regime a Pistoia, il carattere
troppo generale delle accuse di baratteria che menziona forme diverse e tal-
volta contraddittorie di malversazioni, come gli accenni a baratterie commes-
se «mentre essi, ovvero ciascuno di loro, si trovavano (o non si trovavano) ad
esercitare l’ufficio del priorato (o anche una volta abbandonato l’esercizio di
tale ufficio)».

. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., p. 150, attribuì questo episodio al maggio 1300, ma a
partire da M. Barbi, Problemi di critica dantesca. Seconda Serie (1941), ristampa, Sansoni, Firenze
1975, p. 376, n 3, gli studiosi lo datano concordemente all’aprile dell’anno successivo. Segnala
alcuni problemi rimasti aperti in merito a questo episodio E. Brilli, Firenze e il profeta. Armonie
e dissonanze dantesche tra anagogia e politica, di prossima uscita, par. 1.2.c Il priorato e gli anni
dell’esilio, che nel complesso ricostruisce questo momento in modo assai persuasivo. Ringrazio
l’autrice di avermi messo a disposizione il manoscritto.
. Compagni, Cronica, i 24, pp. 39-40.
. Davidsohn, Storia di Firenze, cit., pp. 181-237.
. Compagni, Cronica, ii 7, pp. 50-1 e ii 20, p. 68.
. Campanelli, Le sentenze contro i Bianchi fiorentini del 1302, cit., p. 192, sottolinea come
la sentenza di Dante «venga quasi a costituire un compendio di tutte le forme di peculato pos-
sibili».


Un argomento ulteriore per presentare queste condanne come una sempli-
ce ritorsione può essere trovato anche nel fatto che i condannati, specialmente
quelli che avevano ricoperto la carica nel 1300, avevano colpito Corso Donati
direttamente, nei suoi affari privati. In quell’anno il Donati, che nel 1296 aveva
sposato Tessa Ubertini di Gaville, era impegnato in una difficile causa con la
famiglia di lei, in particolare contro la madre, la vedova Giovanna, per ottenere
la concessione della ricca dote che ammontava a una cifra stimabile in 6000
fiorini. Giovanna, che in un primo momento, secondo Compagni, aveva favo-
rito il matrimonio, era stata in seguito convinta dai Cerchi, vicini alla famiglia,
a opporsi alla consegna dei diritti dotali. Anche per questa ragione l’ostilità tra
Cerchi e Donati si era intensificata. Approfittando della presenza di un podestà
connivente come il Monfiorito da Coderta a cui si è fatto riferimento, in carica
nel primo semestre del 1299, Corso Donati era riuscito a far istruire dal tribunale
un’inquisizione contro Giovanna che si era conclusa con la sua condanna a pa-
gare 2.000 fiorini a Corso, 3.000 alla figlia e 2.000 al comune per aver provocato,
con il suo comportamento, lo scandalo e la sedizione nella città. Non avendo
eseguito questi ordini ed essendosi resa contumace, Giovanna era stata bandita.
Quando, nel marzo 1299, in seguito alla scoperta di numerose irregolarità com-
piute nel corso della sua podesteria Monfiorito era stato deposto e arrestato, era
stata iniziata un’inchiesta volta ad appurare i «lucri illeciti» di «tutti i corruttori
del regime, rettori e ufficiali» sulla cui base Corso Donati era stato bandito e che
era continuata nei mesi successivi. Evidentemente questa condanna non aveva
invalidato la precedente sentenza contro Giovanna, dal momento che questa il
23 maggio 1300 si era rivolta ai priori a chiederne l’annullamento. Questi avevano
accolto la sua richiesta demandando la soluzione civile della controversia a un
arbitrato bipartisan, presieduto dei giudici Baldo d’Aguglione (già implicato nel-
le malversazioni del tempo di Monfiorito e dunque vicino a Corso) e Donato di
Alberto Ristori, priore fino al gennaio precedente e condannato nel 1302 insieme
ai Bianchi.

5
L’indagine

La vicenda della dote Ubertini di Gaville, che lungi da essere una delle tan-
te «beghe patrimoniali» che coinvolsero il «barone» sempre a caccia di
ereditiere, si staglia come un elemento fondante della divisione fiorentina
di fine Duecento, fa comprendere come sin dal principio il conflitto tra
Bianchi e Neri fu combattuto a colpi di indagini straordinarie, di ingiunzioni
di pagamenti esorbitanti motivate sulla base della malversazione, dell’acca-
parramento di denaro pubblico e dell’interesse privato nell’amministrazio-

. Levi, Bonifazio viii, cit., pp. 380-93; S. Raveggi, Donati, Corso, in Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. xli, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1992, pp. 18-24.
. Regesti e documenti in R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, 3, Mittler
und Sohn, Berlin 1901, pp. 264-70.
. Raveggi, Donati, Corso, cit., p. 18.


ne della giustizia, presentate da entrambe le parti – con un paradosso solo
apparente – come causa di divisione e di allontanamento dal bene comune:
gli stessi principi insomma che sarebbero stati invocati al momento di aprire
l’inchiesta del 1302.
Per colpire gli avversari, politici e privati, sulla base di indagini giudiziarie
era necessario che tali indagini non potessero essere invalidate facilmente e che
dunque si fondassero sul rispetto delle regole e delle procedure vigenti. Per que-
sto i processi dell’ufficio alle baratterie della podesteria di Cante Gabrielli da
Gubbio, furono condotti, come già sostenne Barbadoro, mediante l’accertamen-
to di una serie di fatti qualificabili come criminosi secondo quanto era stabilito
dall’arbitrium, cioè dal mandato conferito ai giudici. In questa prospettiva si
spiegano le forme delle condanne a cui si è fatto già riferimento. I lunghi elenchi
standardizzati di accuse come quella di baratterie commesse «mentre essi, ovve-
ro ciascuno di loro, si trovavano (o non si trovavano) ad esercitare l’ufficio del
priorato (o anche una volta abbandonato l’esercizio di tale ufficio)» si devono
alla necessità di dichiarare nella sentenza che era stato accertato esattamente
quanto si era deliberato di accertare all’apertura della inquisizione. Senza trop-
pa spericolatezza si può ipotizzare che il lungo formulario comune alla maggior
parte delle sentenze, e tra queste quella di Dante, che, come si è accennato,
è stato spesso interpretato come prova della genericità delle accuse, non fosse
altro che la ripetizione del testo con cui all’inizio dell’indagine, con una certa
comprensività analitica familiare a chi conosce la normativa comunale (e tipica
di una società in cui si facevano molti processi), era stato stabilito su quali crimi-
ni indagare e cosa punire. I riferimenti a comportamenti politici che appaiono
qua e là (la resistenza all’arrivo di Carlo, l’ostilità a Bonifacio viii, Pistoia) sono
presentati come specificazioni ulteriori, magari aggravanti, ma non strettamente
necessarie, di un crimine diverso, la baratteria, il cattivo uso di risorse e cariche
pubbliche che costituisce il punto su cui il giudice è chiamato a indagare. Insom-
ma si precisa che le baratterie sono state commesse anche per tenere lontani gli
Angioini, ma ciò non stravolge il fatto che le baratterie sono state commesse ed
è per questo chi le ha commesse è bandito.
Da questo punto di vista acquista nuova luce il fatto che i processi per barat-
teria giunti fino a noi si concludano nel marzo 1302 e che le successive sentenze
riguardino altri comportamenti criminosi più esplicitamente rivolti contro la città
e il suo governo (omicidi, presa di castelli, ferimenti ecc.). Nei primissimi mesi
del 1302 con molti Bianchi ancora in città non si poteva procedere contro tutti
invocando una ostilità dei nemici che stava appena manifestandosi nelle forme di
una guerra aperta. Nei confronti di chi non aveva ancora preso la strada dell’uscita
occorreva ancora ricorrere al sistema che era stato utilizzato fino a quel momento
quando le parti erano ancora presenti a Firenze, e si presentavano entrambe come
depositarie del bene comune e del corretto modo di amministrarlo.

. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit., specialmente alle pp. 6-9 e 44-53 e Id.,
La condanna di Dante e la difesa di Firenze, cit.
. Barbadoro, La condanna di Dante e la difesa di Firenze, cit., dà molto valore a una provvi-


Con questa agenda i giudici si misero al lavoro andando a cercare, attraverso
testimonianze e documenti, comportamenti che potessero suffragare le ipotesi
di delitto formulate, e come dimostrano le sentenze, in un modo o nell’altro, li
trovarono. L’ambito di indagine fu quello delle malversazioni vere e proprie,
ovvero delle transazioni volte a influenzare decisioni pubbliche che avrebbero
dovuto essere prese in nome dell’interesse superiore.
I casi semplici, quelli per i quali possediamo più elementi, sono quelli di
processi originati da accuse. Una sentenza spiega ad esempio che Gherardi-
no Diedati, priore dal 15 aprile al 14 giugno 1300, è stato accusato da Bartolo
Banchi – di cui sappiamo che ricoprirà l’incarico di priore nel 1305 e in anni
successivi – di aver liberato Guccio Visdomini, prigioniero nelle carceri citta-
dine, «non per amore di Dio e di San Giovanni, ma per denaro», essendo stato
pagato per questo dalla famiglia del detenuto 72 fiorini d’oro. Citato perché si
difendesse, non è venuto e per questo è stato bandito il 27 gennaio 1302. Pos-
siamo credere o non credere alla buona fede dell’accusatore, possiamo ritenere
che Gherardino non si presentò in tribunale perché sapeva che era intenzione
dei giudici punirlo, ma la procedura appare perfettamente in linea con quelle
praticate a quel tempo.
Più ricca di informazioni è la sentenza di bando di Andrea Gherardini,
podestà fiorentino di Pistoia nel semestre aprile-ottobre 1301, accusato da Si-
mone Cancellieri, capo della parte dei guelfi neri di Pistoia, di aver tramato la
distruzione di quella che viene definita semplicemente Parte guelfa di Pistoia,
perché «corrotto dal denaro», facendo citare i membri delle famiglie nere al
fine di ucciderli, assaltandone le case, uccidendone alcuni, e privando delle
armi e imprigionandone altri, di aver cercato di portare la città nelle mani dei
ghibellini dei nemici della Chiesa e di Re Carlo, e soprattutto, di aver con-
dannato una serie di persone con gravissimi bandi pecuniari, accumulando in
questo e in altri modi guadagni personali per oltre 10.000 fiorini. Il racconto
che Compagni fa dell’accaduto, come è stato notato, permette di contestua-
lizzare bene quest’accusa. Compagni interpreta in modo diverso la citazione
dei membri delle famiglie nere, presentandola come imposizione di confini
motivata dal pericolo di un rivolgimento annunciato dall’arrivo di contingenti
lucchesi, e presenta l’assalto compiuto dal podestà nei loro confronti come
una reazione al rifiuto di obbedire agli ordini. È tuttavia significativo che,
benché per una cifra inferiore (4000 fiorini), lo stesso Compagni riporti la no-
tizia secondo cui il Gherardini ricevette denaro per aver eliminato dalla città
la parte nera e affermi che secondo alcuni i soldi erano giunti dal comune di

sione del gennaio 1302 in cui un consigliere propone di emanare condanne al confino leggendola
come un segno del fatto che già in quel momento fosse iniziata una persecuzione esplicitamente
rivolta contro Bianchi e ghibellini. Non mi sembra che il testo di questa proposta consiliare, di
cui non possediamo nemmeno traccia dell’esito, possa fondare tale interpretazione.
. Condempnationes, cit., pp. 225-6.
. Ivi, pp. 221-3.
. Campanelli, Le sentenze contro i Bianchi fiorentini del 1302, cit., pp. 191-2.
. Compagni, Cronica, i 25, pp. 41-2.


Firenze che in quel modo aveva guadagnato l’amicizia di una città vicina. La
fama del pagamento doveva dunque aver circolato a Firenze. La principale
vittima dell’esclusione che da quel pagamento era scaturita, in veste di de-
nunciatore, e i Neri fiorentini, a cui i giudici erano vicini, potevano usarla per
poter fondare un’accusa.
Sempre sulla base di un’accusa i giudici avviarono il processo nei confronti di
Alone di ser Guccio che era stato notaio dei priori in carica tra il 15 ottobre e il
14 dicembre 1300. L’accusatore affermò che egli aveva ordinato e trattato contro
l’arrivo di Carlo di Valois, munendo torri per contrastarlo. Ma soprattutto affer-
mò che Alone, d’accordo con gli anziani e il capitano allora in carica a Pistoia,
in qualità di notaio dei priori fiorentini aveva operato affinché l’ufficio degli
anziani di Pistoia (il corrispettivo locale dei priori) fosse riservato ai soli Bianchi
e non, come era avvenuto fino a quel momento ripartito equamente tra Bianchi
e Neri, e che per questo aveva ottenuto una grande quantità di danaro dai Bian-
chi pistoiesi. Anche in questo caso il riscontro di Dino Compagni è prezioso.
Vi si legge che durante il corso del suo mandato capitaneale a Pistoia (che durò
dal novembre 1300 e l’aprile 1301) il fiorentino Cantino di Amadore Cavalcanti
«ruppe una legge aveano i Pistolesi, che era che i loro Anziani si eleggessono per
amendue parti loro, cioè Neri e Bianchi». E aggiunge poi che quando Cantino
fu rimproverato di aver rotto questa legge «dicea per sua scusa, averlo di coman-
damento da’ Signori di Firenze: non dicea la verità». Il racconto di Compagni
testimonia dunque che, anche sui fatti svoltisi durante il capitanato di Caval-
canti, esisteva a Firenze una voce che circolava: i priori non avevano avuto una
parte evidente nel mutamento del sistema di reclutamento degli anziani pistoiesi.
Ipotizzando che i giudici del 1302 e i fiorentini di parte nera che li spalleggiavano
dovevano avere tutto l’interesse a rivelare la responsabilità dei priori in questo
affare, possiamo immaginare che essi provarono a indagare in merito. Facendo-
lo trovarono un accusatore che affermò che il notaio dei priori aveva ricevuto
denaro dai Bianchi pistoiesi, ma, dal momento che nessuno dei priori per i quali
Alone aveva lavorato appare condannato, probabilmente i giudici ritennero di
non poter andare oltre.
Nella stessa ottica va letta la sentenza, anch’essa nata da un’accusa, contro
Lapo Saltarelli. Dell’impegno politico con la parte bianca di questo giudice,
che fu anche poeta, sappiamo molte cose grazie alla cronaca di Dino, ai com-
menti danteschi e ad altre fonti, ma la sentenza non si dilunga sulla sua amba-
sciata a Roma, sul processo da lui imbastito contro i banchieri del papa ed elenca
piuttosto altre responsabilità: (diverse) frodi giudiziarie, o meglio, decisioni giu-
diziarie inquinate da pagamenti ed estorsioni di denaro. Quando si accenna al
suo tentativo di «subversione populi Florentie de pacifico et Guelfo statu» non

. Condempnationes, cit., pp. 238-40.


. Compagni, Cronica, i 25, p. 40.
. Dato che il registro, come si è detto in precedenza, è stato probabilmente allestito a qual-
che mese da questa indagine, si può anche ritenere che quegli anziani erano stati condannati e
poi assolti nel frattempo.
. Condempnationes, cit., pp. 236-8.


si manca di menzionare che per questo il Saltarelli diede e fece dare «maximam
pecunie quantitatem».
Altra sentenza originata da un’accusa è infine quella contro Corso di Alberto
Ristori e Nanni de’ Ruffoli, accusati da Meo figlio di Vese, di aver tramato, uti-
lizzando denaro, insieme al giudice Donato di Alberto Ristori, allora priore e gli
altri priori in carica, tra l’altro

de mutando statum populi et priorum et vexilliferi et Guelfe partis et habere priores


quos vellent, qui facerent ea que vellent, et extirpare et extinguere partem Ecclesie
et Guelfam et populum, et quod regebatur in parte Ecclesie et Guelfa subtrahere
Romane Ecclesie et contra ipsam erigere et facere quod regeretur in parte Ghebel-
lina et favente et adhibente eisdem, qui nequiores et perfidiores sunt contra Roma-
nam Ecclesiam et Guelfam partem quan ipsi originaliter Ghebellini; et <ut> possent
predicta perducere ad effectum, pretio, precibus et pecunia magna corruperunt et
corrumpi fecerunt ipsos priores, et ipsa venalia exponendo religerunt adiunctos et
fecerunt illos pro adiunctis qui dati fuerunt eisdem in scriptis seu dicti vel nominati
a predictis vel aliis pro eis, prout ordinaverunt et tractaverunt in electione priorum
et vexilliferi, que facta fuit in dicto mense in accusa contento; per corruptionem et
tractatum et ordinationem predictam fuerunt illi adiuncti quos voluerunt in dictis
sextibus et ipsi et alii tractaverunt cum dictis adiunctis, et tractari et ordinari fecerunt
ac pretio, precibu et pecunia corruperunt, corrumpi fecerunt ut nominarent et voces
darent illis quos volebant priores, et per dictam corruptionem et fraudem et baratta-
riam habuerunt priores et vexilliferum quos voluerunt et perfidos inimicos Ecclesie
et Guelfe partis usque ad tempus in accusa contentum.

L’accusa è circostanziata e merita di essere analizzata da vicino alla luce delle


procedure di elezione del massimo collegio di governo fiorentino, il priorato.
Come è stato rilevato anche di recente, il modo di eleggere i priori non era sta-
bilito con precisione dagli statuti. La terza rubrica degli Ordinamenti di Giu-
stizia, nelle due versioni del 1293 e 1295, si limitava ad affermare che alla sca-
denza di ogni mandato bimestrale il capitano dovesse convocare, su mandato
dei priori, le Capitudini delle dodici Arti maggiori insieme ad alcuni savi, cioè
sapienti aggiunti («adiuncti» nel latino della sentenza) scelti a discrezione dei
priori uscenti, per deliberare le modalità con cui i nuovi priori avrebbero do-
vuto essere eletti. La modalità di selezione del massimo organismo di governo,
dunque, era rinegoziata ogni due mesi da un consiglio formato dai capi delle
maggiori corporazioni cittadine e da savi scelti dai priori uscenti, presenti alla
seduta. Questo consiglio, a seconda degli equilibri politici che veniva a espri-
mere di volta in volta, poteva scegliere le soluzioni più varie. Poteva stabilire,
come era avvenuto già prima degli Ordinamenti, di affidare la scelta interamen-
te ai priori uscenti garantendo una perfetta continuità politica; oppure poteva

. Ivi, p. 237.


. Ivi, p. 234.
. Gualtieri, Il comune di Firenze, cit., p. 178.
. Ivi, pp. 177-82, con la bibliografia precedente, che qui si segue strettamente per dar
conto dell’elezione del priorato.


decidere, come avvenne nel dicembre del 1291, di nominare trentasei persone,
scriverne i nomi in cedole, ed estrarre per mezzo di queste cedole i priori desti-
nati a ricoprire l’incarico per l’intero anno successivo (sei priori per sei mandati
bimestrali), garantendo in anticipo il priorato a uomini affidabili. La presenza
delle Capitudini delle Arti, introdotta dagli Ordinamenti di Giustizia, costituì
un modo per scompaginare la continuità nel reclutamento, onde evitare che un
gruppo troppo ristretto prendesse il sopravvento. Ma essa innescò d’altra parte
tentativi per aggirarla da parte dei gruppi che intendevano fare affidamento
proprio su tale continuità. Dal 1293 andò affermandosi un sistema di elezione in
due fasi. Nella prima le Capitudini e i sapienti nominavano un numero variabile
di propri candidati per ciascun sestiere. Quindi i candidati venivano votati (lo
squittino) dall’intero consiglio, i cui membri avevano un numero limitato di
preferenze, in modo che divenissero priori coloro che per ogni sestiere avevano
ottenuto più voti (le «voces» della sentenza). In questo modo diveniva cruciale
il modo in cui le Capitudini e i sapienti procedevano alla nomina preliminare
dei candidati nella prima fase. Se i candidati erano nominati separatamente
dalle diverse Capitudini delle Arti e dai Sapienti, il peso dei priori uscenti (che
influivano per mezzo dei savi da loro nominati) diminuiva in favore delle sin-
gole corporazioni. Se la nomina avveniva invece da parte di sottocollegi formati
ognuno dalle Capitudini e dai savi di un certo sestiere, il peso dei priori uscenti
aumentava. Tra queste due possibilità, che in un celebre studio John Najemy
ha ricondotto rispettivamente ai principi di Corporativism e Consensus, e cioè,
semplificando, a una logica maggiormente societaria e a una più clientelare,
dalla fine del 1298 prevalse la seconda. In questo modo il ruolo dei savi si fece
determinante poiché essi potevano non solo far pesare il loro voto nella seconda
fase, ma, prima, influenzare la nomina dei candidati all’interno del sottocollegio
di sestiere di cui facevano parte.
L’accusa rivolta nel 1302 a Corso di Alberto Ristori e Nanni de Ruffoli
(che non erano stati priori insieme, ma lo erano stati rispettivamente dal 15
agosto 1301 e dal 15 febbraio 1300) era dunque di aver – in un dato momen-
to e in un certo luogo contenuti nell’accusa – corrotto altri priori affinché
questi, alla scadenza del loro mandato, nominassero i savi giusti, nonché di
aver corrotto quegli stessi savi affinché, a loro volta, votassero compatta-
mente nuovi priori perché perseguissero i loro obiettivi politici («extirpare
et extinguere partem Ecclesie et Guelfam et populum…») fino al tempo
contenuto nell’accusa.
Non possediamo l’accusa e dunque non abbiamo direttamente notizia
sul momento in cui la corruzione sarebbe stata perpetrata e sul periodo
fino al quale essa sarebbe riuscita a influenzare la politica cittadina, ma vi
sono ottime ragioni per ritenere che per quanto riguarda il primo punto,
nella formulazione dell’accusa si facesse riferimento al febbraio 1300. In quel
mese infatti non solo tra i priori in scadenza c’era, come si è visto, un altro

. J. M. Najemy, Corporatism and Consensus in Florentine Electoral Politics, 1280-1400, North
Carolina University Press, Chapel Hill 1983.


condannato del 1302, il giudice Donato di Alberto Ristori, fratello di Corso,
che avrebbe potuto costituire bene un punto di riferimento per influire sulla
nomina dei savi, ma tra i priori che entrarono in carica vi fu lo stesso Nanni
de’ Ruffoli.
Considerando questo elemento trovano una logica le altre sentenze del tri-
bunale alle baratterie emanate nei primi mesi del 1302, quelle che a differenza di
quelle osservate finora non sono fondate su una accusa ma originano ex offitio.
Il meccanismo di influenza dei nuovi priori da parte dei priori uscenti fondato
sulla nomina dei savi adiuncti permette infatti di comprendere sia il modo in cui
i diversi nomi degli accusati compaiono in ogni singola sentenza sia in che modo,
nel contesto dell’inquisitio sorta dalla denuncia di Corso di Alberti Ristori e di
Nanni de Ruffoli, le varie sentenze, scaturirono, per così dire l’una dall’altra.
La prima di queste sentenze riguarda tre dei sei priori in carica tra il dicem-
bre 1299 e il febbraio 1300, Donato di Alberto Ristori, Lapo Minutoli e Lapo
Biondo, di cui si dice che commisero baratterie prima e dopo il loro priorato,
e subito dopo che «receperunt pecuniam vel res aliquas vel scriptam libri vel
tacitam promissionem de aliqua pecunia vel re alia pro aliqua electione aliquo-
rum novorum priorum et vexilliferi seu vexilliferorum facienda», confermando
la loro implicazione nella fraudolenta nomina dei nuovi priori di cui si è appena
detto. A questa sentenza fa seguito, nel gruppo delle inquisizioni senza denun-
ciatore, quella in cui è incluso Dante, che riportando lo stesso formulario colpi-
sce anche Lippo del Becca Rinucci, Orlanduccio Orlandi e Palmerio Altoviti.
Dal momento che Lippo del Becca Rinucci era stato priore insieme a Nanni de’
Ruffoli nel priorato influenzato dalla corruzione provata dall’accusa è evidente
che i giudici ritenessero che egli non solo avesse ottenuto la carica mediante una
baratteria, ma, una volta in scadenza – nel cruciale momento dell’ambasciata a
Roma e dell’accusa ai banchieri papali – si fosse fatto a sua volta patrocinatore
corruttore per la nomina dei priori successivi, quelli in carica tra il 15 aprile e
il 15 giugno 1300, tra cui, come si è detto, furono Gherardino Diedati e Lapo
Saltarelli. Considerando quanto detto in precedenza è probabile che nel caso
in cui per questi due personaggi i giudici non avessero trovato accuse (come
invece le trovarono) li avrebbero comunque perseguiti ex offitio sulla base del
sospetto di aver ereditato dai priori precedenti e portato avanti i piani politici
della loro parte mediante la “fraudolenta” nomina dei priori successivi (sospetto
che peraltro, nella sentenza del Saltarelli è sottinteso dal riferimento al tentativo
di sovversione del popolo di Firenze «de pacifico et Guelfo statu»).
Il dato appare confermato dalla presenza, nella stessa sentenza in cui è col-
pito Lippo del Becca Rinucci, di Dante, successore nella carica di Lapo Salta-

. Condempnationes, cit., pp. 219-21. È significativo che nel classico studio prosopografico
di S. Raveggi, M. Tarassi, D. Medici, P. Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso. I detentori
del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, La Nuova Italia, Firenze 1978, p.
309, si legga: «dal 15 dicembre 1299 assistiamo al repentino cambiamento di rotta con priorati nei
quali i Bianchi assumono una maggioranza schiacciante».
. Ivi, pp. 226-8.
. Condempnationes, cit., p. 237.


relli e Gherardino Diedati e legato a quest’ultimo – com’è noto – dal fatto di aver
fatto assolvere, mentre era in carica, suo figlio da una condanna. Molti dantisti
si sono impegnati nel tentativo di assolvere Dante dalle accuse che gli erano state
rivolte qualificandole come generiche e pretestuose, ma assai più raramente si è
cercato di cogliere quale fosse, al di là del chiarissimo obiettivo finale che aveva-
no i giudici e di chi li orientava, il modo e gli argomenti con cui quell’obiettivo
veniva perseguito. L’esame della lista degli uomini che affiancano Dante nella
sentenza e nelle sentenze emesse dallo stesso tribunale nel quadro di indagini
coeve e collegate consente invece di far luce su questi aspetti. Esso rivela che a
Dante, se non altro, non fu mossa (forse perché, come avvenne ai priori di cui
fu condannato solo il notaio, non si riuscì a farlo) l’accusa di aver tramato da
priore per la nomina dei priori seguenti, rivolta ai priori in carica nei tre bimestri
precedenti al suo: nessun priore del bimestre successivo al suo fu condannato. È
molto probabile, tuttavia, che gli fu contestato di aver agito nello stesso disegno
criminoso, non in qualità di priore, ma in qualità di savio adiunctus, alcuni mesi
dopo che era stato priore, quando, nell’aprile del 1301, fece parte del consiglio
in furono eletti Palmerio Altoviti (che infatti compare nella medesima sentenza
di Dante) e Guido Bruno di Forese Falconieri, che invece compare nell’ultima
sentenza collettiva originata da inquisizione.
Anche questa sentenza, come quella che coinvolge Dante, contiene il rife-
rimento al delitto di baratteria nell’elezione dei nuovi priori e mette insieme al
Falconieri, Simone Guidalotti, priore del bimestre successivo a quello dell’Alto-
viti e del Falconieri (15 giugno-14 agosto 1301) e Guccio medico, priore non nel
bimestre seguente a quello del Guidalotti, ma in quello ancora successivo, dal 15
ottobre al 6 novembre 1301. Mancherebbe, a voler dimostrare la continuità cerca-
ta dai giudici, il bimestre intermedio (15 agosto-14 ottobre 1301), ma ciò si spiega
considerando che in questo bimestre fu in carica Corso di Alberti Ristori già
colpito dalla sentenza originata dall’accusa, quella che, come si è visto, procede
logicamente tutte le altre sentenze.
Ricapitolando, i giudici che nel gennaio 1302 vollero mettere sotto processo i
Bianchi con accuse di baratteria riuscirono a raccogliere una denuncia del fatto
che un cittadino (Corso Ristori), per perseguire un fine politico criminoso, alla
fine del 1299 aveva corrotto suo fratello e due compagni di priorato di questo,
affinché orientassero fraudolentemente l’elezione di alcuni priori nel seguente
bimestre. Su questa base i giudici procedettero a indagini dalle quali emerse che

. Cfr. il punto di Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit., p. 43 con i riferimenti
alle provvisioni superstiti.
. Tra le poche eccezioni vanno annoverati gli studi di Barbadoro e Davidsohn già men-
zionati, che tuttavia non hanno lasciato grandi tracce nelle vite di Dante. G. Petrocchi, Vita di
Dante, Laterza, Roma-Bari 19893, pp. 83-9 tiene conto di Barbardoro, ma mette l’accento sul
fatto che Dante si era pronunciato contro gli aiuti al papa e agli Angioini. G. Gorni, Dante.
Storia di un visionario, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 177-87, presenta spunti interessanti e pone
meritoriamente il problema della verisimiglianza delle accuse ma lascia le domande inevase.
. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit., pp. 24-5.
. Condempnationes, cit., pp. 240-3.
. Condempnationes, cit., pp. 233-6.


i priori eletti, a loro volta, per lo stesso fine, avevano favorito l’elezione di priori
fedeli nei successivi due bimestri, fino a Dante. Il crimine era stato in seguito
ripetuto, una prima volta nel dicembre 1300, quindi, anche per tramite di Dante
in qualità di savio, nuovamente, con continuità, nei quattro bimestri successivi
all’aprile 1301 e interrotto solo dal cambio di regime da cui il tribunale era stato
allestito. Nel corso dell’inchiesta inoltre, grazie ad altre accuse, era emerso che
alcuni dei priori coinvolti nel disegno avevano compiuto altre azioni di corru-
zione, più o meno marcate in senso politico. Tutti i comportamenti in ogni caso
erano qualificabili come baratterie nel senso ampio che a questo termine, come
si è visto, si dava e dunque perseguibili in modo grave ed esemplare secondo il
dettato degli Ordinamenti di Giustizia.

6
L’ambiguità di una sentenza

Quasi cento anni fa, aprendo la pista di ricerca che in queste pagine si cerca di
seguire e precisare, Bernardino Barbadoro rilevava come i dantisti che avevano
affrontato il problema sino a quel momento non avevano fatto che cercare ragio-
ni che potessero assolvere il poeta dalle accuse che gli erano state rivolte, qualifi-
cando il suo processo come una farsa, un atto di «tumultuario ostracismo» e non
considerando che in esso era stata seguita una precisa procedura, nel tentativo
di «assodare, qualcosa di concreto e di particolare a ciascuno, non foss’altro per
le necessarie contestazioni a chi, sdegnando la contumacia avesse affrontato il
giudizio». Quasi cinquant’anni più tardi Dante Ricci organizzò nella basilica
di San Francesco di Assisi un «processo di Dante» in cui, dopo aver ascolta-
to testimoni competenti (tra cui Ernesto Sestan, Francesco Mazzoni, Michele
Maccarrone e Piergiorgio Ricci) e due arringhe tenute dall’accusa (il magistrato
Antonio Bellocchi) e la difesa (lo stesso Dante Ricci), un collegio di dodici giu-
dici (formato da storici come Nicolò Rodolico, linguisti come Bruno Migliorini,
storici della letteratura come Umberto Bosco, magistrati come Giovanni Leone,
che l’anno successivo sarebbe diventato Presidente della Repubblica) espresse il
proprio giudizio dichiarando il poeta «non colpevole». Dalla lettura dei verbali
di questa operazione più celebrativa che scientifica, si esce con un certo imbaraz-
zo, osservando i dantisti professionisti che si schermiscono e i legulei che fanno
sfoggio della loro dottrina. Colpisce in ogni caso il poco spazio dato a quanto

. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit., p. 30: «Non già ch’io voglia negare con
questo la malafede degli accusatori; ché, se non seguo il giudizio dello Zingarelli, il quale rim-
provera ai giudici l’illegalità della procedura, respingo anche quello dell’Imbriani, che è quasi
tentato di giustificare la condanna: io affermo soltanto che, per malizioso che fosse il giudice ed
accorto strumento della fazione vincente ed abile travesitore delle azione politiche contestato in
sembianza di reati comuni, egli dovette istruire ad ognuno degli imputati un regolare processo,
lasciandone traccia negli atti della sua curia».
. Il processo di Dante celebrato il 16 aprile 1966 nella basilica di San Francesco in Arezzo,
Arnaud, Firenze 1967 (oggi ristampato con una presentazione di M. L. Ghezzi dall’editore Mi-
mesis, Milano-Udine 2011).


Barbadoro aveva appurato nel suo articolo del 1920. Il suo nome è citato solo da
Ricci e da Sestan e in quest’ultimo caso solo per contestargli una congettura che
in quello stesso articolo Barbadoro aveva proposto in merito alla possibilità di
attribuire a Dante un ulteriore intervento critico in consiglio in aggiunta a quelli
già registrati dai biografi. Il dato rivela anche l’avviata chiusura di un canale di
comunicazione tra storici e studiosi di letteratura che mezzo secolo prima, per
effetto dello storicismo ottocentesco, era ancora ben aperto e che oggi sarebbe
forse opportuno tornare a rendere operativo.
Oggi tuttavia siamo in grado di sottrarci con migliori argomenti di allora alla
domanda su quali furono le “vere” responsabilità di Dante poiché sappiamo
che lo stesso concetto di verità da appurare mediante un processo così come lo
intendiamo non nacque, come ha ritenuto a lungo la storiografia giuridica, nel
processo inquisitorio di età comunale già bello e formato, quale cruciale passag-
gio evolutivo verso la modernità dello Stato, ma in quel contesto fu elaborato
gradualmente, attraverso spinte diverse e mediazioni con altre istanze: il bisogno
della giustizia comunale di arrivare a compromessi nelle controversie tra le parti,
la volontà dei pratici del diritto di lasciarsi aperto uno spazio di intervento giu-
ridico anche di fronte ai reati più gravi, la necessità per i magistrati forestieri di
barcamenarsi tra il giuramento che li obbligava a perseguire i crimini e l’oppor-
tunità di non andare contro interessi diffusi o forti, la volontà d’intervento dei
poteri cittadini nei confronti di una giustizia amministrata da forestieri.
Come ha spiegato Massimo Vallerani, «provare un fatto nel sistema inquisito-
rio» che da queste diverse spinte andava modellandosi al principio del Trecento
era ancora qualcosa di controverso. Il modello d’inquisizione elaborato da Inno-
cenzo iii con il fine politico di riformare la Chiesa purgandola dagli errori dei suoi
ministri un secolo prima, che aveva sostituito all’accusatore la fama del delitto e
accentuato il ruolo ex offitio del giudice nel verificare (cioè appurare la verità di)
ciò che la fama riportava al fine di procedere a una punizione esemplare, era stato
difficile da applicare in una realtà strutturalmente non gerarchica come quella co-
munale. Ma nell’età di Dante, come dimostra il proemio della prima condanna del
tribunale che lo bandì, aveva ormai i suoi estimatori. Il più noto di loro è Alberto
Gandino, il giudice cremasco attivo nelle famiglie di podestà itineranti tra 1280 e
1310 che scrisse un Libellus de maleficiis in cui, tra una questione pratica e l’altra,
non solo affermava la superiorità del sistema inquisitorio rispetto a quello accu-
satorio, ma elaborava una propria teoria dell’inquisizione che, lo rivela lui stesso,
contrariamente a quanto ritenevano i grandi professori di diritto del suo tempo,
faceva emergere come criterio guida per l’accertamento della verità processuale e
dunque per il giudizio la fama della persona indagata.
I casi giudiziari clamorosi che si svolsero a Firenze prima del 1302, sui qua-
li ci dà notizie così interessanti la cronaca di Dino Compagni, mostrano come

. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, cit., pp. 14-6.


. Ivi, pp. 94-101. Per un approccio a Dante che tiene conto di queste ricerche cfr. ora J.
Steinberg, Dante and the Laws of Infamy, in “pmla Publications of the Modern Language Asso-
ciation of America”, cxxvi, 2011, pp. 1118-26.


negli ultimi anni del Duecento questa particolare lettura del processo, in cui la
persecuzione di obiettivi che oggi diremmo “securitari” contava di più della
soluzione delle dispute e in cui la fama delle persone pesava di più di quella
dei fatti, stava vivendo una stagione gloriosa. Ancora una volta va ribadito che
si trattava di un successo dovuto a spinte diverse, apparentemente contraddit-
torie. La volontà delle Arti di mettere un freno ai comportamenti violenti dei
grandi aveva prodotto gli Ordinamenti di Giustizia (1293); quella dei Grandi
e di alcuni esponenti delle Arti maggiori di moderare quegli ordinamenti ave-
va portato alla cacciata di Giano della Bella in seguito a un’inchiesta per aver
provocato un disordine (1294). Il desiderio di rivalsa aveva costituito la base
delle indagini compiute dai giudici di Monfiorito da Coderta che – forse con
qualche ragione – accusavano la suocera di Corso Donati di aver provocato la
divisione in città (1299). Sul fronte opposto la volontà di eliminare la rete di
interessi attorno a Corso era stata la causa delle contro-indagini dello stesso
anno «contra omnes corruptores regiminum rectorum et ufficialium comuni et
Populi Florentini». Il progetto di rivelare e punire la connessione di quella rete
di interessi con alcune grandi banche al servizio del papa aveva spinto i priori
a promuoverne altre nell’inverno 1301 e infine la necessità di riportare ordine
aveva fatto promuovere indagini sui fatti criminosi che il conflitto tra Bianchi e
Neri – frutto anche e soprattutto di rancori accumulati in seguito a indagini –
aveva provocato: il Calendimaggio 1300, la rissa del giugno seguente, il consiglio
di Santa Trinita dell’aprile 1301.
Il filo comune che tiene insieme tutti questi eventi e che li rende così signifi-
cativi di quel momento storico non è tanto l’uso strumentale (“di parte”) della
giustizia, quanto la pervasività dell’idea secondo cui la giustizia esercitata dai
tribunali mediante inchieste che tengano in grande considerazione il compor-
tamento pubblico degli accusati, base della loro fama, sia il canale attraverso il
quale deve passare ogni progetto di realizzazione del bene della città.
In senso generale, questa idea costituiva l’evoluzione conseguente di più di
un secolo di tentativi di convivenza civile, tentativi che avevano dovuto scon-
trarsi sin dal principio con le controspinte dei gruppi che pur perseguendo i
propri obiettivi politici, contribuivano per altri versi alla crescita delle istituzioni
comunali. Sulla base di tali tentativi erano state elaborate le procedure di accesso
al consolato, le mutevoli norme di elezione dei consigli, le procedure di chiamata
dei podestà forestieri, quelle dei capitani e dei consigli del Popolo e delle parti,
e senza soluzione di continuità delle varie magistrature di governo che a fine
Duecento presiedevano ormai i vari aggregati che il gioco dei rapporti di forza,
mediato dalle regole elaborate dal confronto tra chi a quel gioco giocava, aveva
prodotto: a Firenze, i Priori.
Ma in senso più specifico la centralità della giustizia condotta mediante in-
quisizioni del tipo vagheggiato da Alberto Gandino e in qualche modo attuato
a Firenze tra 1295 e 1302 costituiva anche qualcosa di nuovo. Nel corso del Due-
cento aveva infatti dominato una giustizia dotata di caratteristiche diverse, più

. Un riassunto in G. Milani, I comuni italiani, Laterza, Roma-Bari 2003.

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orientata all’obiettivo di tradurre le pretese delle parti in diritti al fine di trova-
re un compromesso, depotenziando le liti degli aspetti più violenti. Il peso di
questa giustizia duecentesca permette di spiegare perché le esclusioni politiche
avvenute al tempo di Federico ii e anche di Carlo i d’Angiò, che pure avevano
avuto grande impatto producendo enormi numeri di banditi e confinati, nel mo-
mento della loro attuazione erano state varate da istituzioni diverse dal tribunale
podestarile (consigli straordinari, vicari imperiali e regi) e in seguito erano state
sostanzialmente attenuate quando la loro amministrazione era passata sotto il
controllo dei tribunali cittadini.
Le condanne emesse dal tribunale per le baratterie nei primissimi mesi del
1302 – prima che il conflitto tra Neri e Bianchi assumesse l’aspetto di un classico
conflitto di fazione tra intrinseci ed estrinseci – presentavano dunque un’ambi-
guità del tutto particolare: da un lato apparivano come l’ennesimo tentativo di
governare la città per mezzo di inchieste esemplari volte a purgarla degli ele-
menti perturbatori dell’unità, ricorrendo a procedure che privilegiavano, tra
gli elementi di prova, i comportamenti pubblici; dall’altro, con l’aggiunta della
Parte Guelfa all’elenco dei soggetti perturbati dai condannati, cominciavano già
a riconnettere il conflitto interno tra Bianchi e Neri alle lotte combattute dalle
generazioni precedenti, ponendo le basi per una riesumazione del vocabolario
basato sui termini “guelfo” e “ghibellino” e dunque per il trionfo di una delle
parti in gioco.
Se le modalità di definizione dei nemici costituiscono un buon indice del
modo in cui un regime definisce se stesso, questa ambiguità rifletteva bene la
confluenza nel regime nero di primo Trecento di elementi diversi: da un lato il
popolo grasso e i banchieri, che nell’ideologia del bene comune da perseguire
a ogni costo si erano formati e avevano prosperato, sempre più convinti a ce-
mentare l’alleanza con il papato e gli Angioini, dall’altro, alcuni grandi magnati,
interessati dai tempi di Giano, se non da prima, a liberarsi dalle limitazioni degli
Ordinamenti di Giustizia. È da questa confluenza politica e sociale, e non sem-
plicemente da una strumentalizzazione della giustizia, che origina il carattere
ambiguo, al tempo stesso di Popolo e di Parte, di protezione della città in nome
di interessi superiori e di alleanza della città a autorità superiori, di giustizia e
di politica, e dunque – ai nostri occhi – di giustizia e ingiustizia, che presenta il
bando di Dante.
Da quando, iscrivendosi all’Arte dei medici e degli speziali in occasione del
temperamento degli Ordinamenti di Giustizia, Dante aveva cominciato a fre-
quentare il livello più alto della politica cittadina egli aveva messo il proprio
impegno al servizio di un sistema che funzionava secondo regole scritte e non
scritte, un sistema in cui andavano precisandosi due reti di alleanze che, come
sempre, perseguivano al tempo stesso interessi politici e privati attraverso i mez-

. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, cit., pp. 80-93.


. G. Milani, Giuristi giudici e fuoriusciti. Note sul reato politico comunale, in Pratiques
sociales et politiques dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Age, éd. par J. Chiffoleau, C.
Gauvard, A. Zorzi, École Française de Rome, Rome 2007, pp. 595-642.

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zi di cui disponevano: occupare con mezzi più o meno leciti, per tempi più o
meno lunghi e in misura più o meno ampia i seggi del priorato, e da quella po-
sizione, da un lato, consolidare ed estendere la rete di alleanze grazie al potere
di nominare gli ufficiali cittadini, dall’altro, con il fondamentale apporto dei
giudici, influenzare il tribunale podestarile nell’istruzione di inchieste volte al
perseguimento di quegli interessi, alla difesa dalla parte avversaria o a entram-
be le cose.
Le tracce degli interventi danteschi nei consigli rivelano in maniera chiara
che egli aderì coerentemente a quello schieramento che stava assumendo il
nome di parte bianca, collaborando all’elezione di priori fidati o votando le
procedure di elezione più convenienti a questo fine, favorendo il regime ami-
co di Pistoia, opponendosi alla concessione di aiuti al papa e forse anche a
Carlo ii d’Angiò, votando a favore della remissione della condanna al figlio di
chi probabilmente aveva contribuito alla sua elezione a priore. Non abbiamo
notizie di interventi personali durante il priorato, ma sappiamo che in quel
bimestre i priori accettarono e ratificarono la condanna a una grave multa dei
tre banchieri neri indagati in primavera, cercarono di evitare che il cardinale
Matteo di Acquasparta, inviato di Bonifacio viii, assumesse poteri straordinari,
anche tenendolo buono con un dono in danaro (che non fu accettato), e che,
in seguito a una consultazione con il Popolo, inviarono al confino i capi delle
due parti che si erano scontrate nel giugno 1300, sollevando però maggiore
opposizione nei Neri. Possiamo inoltre supporre che Dante fosse ritenuto
affidabile dai Bianchi dal momento che fu inviato come ambasciatore presso
Bonifacio viii nell’autunno 1301.
Molti di questi comportamenti pubblici potevano costituire singolarmente
fatti rilevanti in un’inchiesta che, come attestano le sentenze, per quanto cer-
casse di scoprire transazioni in danaro, era più in generale volta ad accertare
il perseguimento di obiettivi diversi dal bene superiore per ottenere vantaggi
personali. Inoltre, la coerenza dell’impegno politico e la stretta vicinanza di
Dante a persone per le quali si andavano provando casi di corruzione più pa-

. Codice Diplomatico Dantesco, a cura di R. Piattoli, Gonnelli, Firenze 1940, p. 58 (n 53)
. Ivi, p. 62 (n 56).
. Ivi, pp. 94-6 (nn 83-84) e cfr. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni, cit.
. Codice Diplomatico Dantesco, cit., pp. 99-100 (n 88).
. Ivi, p. 82 (n 75).
. Compagni, Cronica, i 21, pp. 35-6.
. G. Indizio, Dante secondo i suoi antichi (e moderni) biografi: saggio per un nuovo canone
dantesco, in “Studi danteschi”, lxx, 2005, pp. 237-94, pp. 242-43 con indicazione delle fonti
antiche.
. Condempnationes, cit., p. 226: «quod ipsi vel aliquis ipsorum receperunt pecuniam, vel
res aliquas vel scriptam libri vel tacitam promissionem de aliqua pecunia vel re alia pro aliqua
electione aliquorum novorum priorum et vexilliferi seu vexilliferorum facienda, licet sub alio
nomine vel voce; et quod ipsi vel aliquis eorum recepissent aliquid indebite, illicite vel iniuste
pro aliquibus offitialibus eligendis vel ponendis in civitate vel comitatu Florentie vel districtu
vel alibi, <vel> pro aliquibus stantiamentis, reformationibus vel ordinamentis faciendis vel non
faciendis, vel pro aliquibus appodixis missis ad aliquem rectorem vel offitialem communis Flo-
rentie vel concessis alicui».

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tente poteva essere assumere l’aspetto di una fama di Bianco e dunque venire
a costituire un altro fondamentale elemento di prova. Una volta che la guer-
ra finalmente divampò e che il gruppo dei banditi per baratteria fu connesso,
per l’attiva volontà politica di perseguitare i Bianchi e per il lungo protrarsi
della loro contumacia, a quanti erano usciti dalla città e combattevano contro
il suo regime, il bando fu trasformato in condanna a morte, spingendo ulte-
riormente in avanti la radicalizzazione delle procedure di esclusione iniziata
qualche anno prima.
Forse, a differenza di altri Bianchi più navigati, per Dante il fatto che il ban-
do da cui la sentenza capitale era stata originata fosse stato formulato per quel
crimine pubblico, a partire da quei fatti e sulla base di quella fama costituiva
un problema in più. Non solo a un livello morale creava un conflitto: se la mo-
tivazione invocava valori che con ogni probabilità Dante condivideva egli ave-
va, comunque, come minimo, collaborato attivamente con persone che avevano
favorito l’istruzione di indagini in cui erano state seguite procedure simili ed
emesso condanne paragonabili a quella che lo aveva colpito. Ma anche a un
livello giudiziario costituiva un ostacolo particolarmente difficile da superare,
perché da una condanna di questo genere era assai più difficile liberarsi che da
un semplice bando politico.
Dante ci provò in vari modi, ridefinendo, per così dire, il suo bando al fine
di privarlo di quella strutturale ambiguità che aveva presentato nella sua formu-
lazione originaria: dapprima rivendicando la sua militanza bianca e collaboran-
do attivamente come era avvenuto sino a quel momento con l’universitas partis
alborum; poi, una volta chiusa quella via, spogliandosi dei panni del Bianco, e
tentando di difendersi dalle singole accuse che avevano costituito la base della
sua condanna; infine, una volta che anche questo tentativo si rivelò inefficace,

. L’accento della condanna sull’elezione dei priori rende evidente il significato di una
frase che, secondo la testimonianza di Leonardo Bruni, Dante scrisse in una sua lettera oggi
perduta: «Da questo priorato nacque la cacciata sua et tutte le cose avverse ch’egli ebbe nella
vita, secondo lui medesimo scrive in una epistola, della quale le parole sono queste: “Tutti
e mali et tutti gl’inconvenienti miei dalli infausti comitii del mio priorato ebbono cagione
et principio […]”» (Leonardo Bruni, Vita di Dante, cit., p. 542), dove la parola «comitii»
dev’essere intesa proprio nell’accezione di “elezione”. Sulla lettera fonte di Bruni cfr. oltre
n 106.
. Colpisce comparativamente la testimonianza di Compagni a proposito delle indagini
seguite alla podesteria di Monfiorito da Coderta che riguardarono priori e ufficiali: «In molta
infamia caddono i reggenti; e molti furono, che cercorono i malifici si trovassono, che ne furono
malcontenti, per essere colpevoli» (Compagni, Cronica, i 19, p. 31).
. Si trovano tracce di questa fase nella Vita di Dante di Leonardo Bruni che poté
vedere una lettera, conosciuta anche da Villani, scritta da Dante per chiedere perdono e
giustificarsi. Leonardo Bruni, Vita di Dante, cit., p. 546: «et ridussesi tutto a umiltà, cer-
cando con buone opere e con buoni portamenti racquistare la gratia di potere tornare in
Firenze per spontanea revocatione di chi reggeva la terra. Et sopra questa parte s’affaticò
assai, e scrisse più volte, non solamente a particulari cittadini del reggimento, ma al popolo;
et intra l’altre una epistola assai lunga, che incomincia: “Popule mee, quid feci tibi?”». Da
questa lettera Bruni sembra aver tratto alcuni degli argomenti usati poco prima (p. 544) per
parlare della condanna del poeta: «Questo [la condanna al confino dei capi delle due parti
comminata dai priori tra cui Dante] diede gravezza assai a Dante, e con tutto che lui si scusi


mettendo mano a un progetto autonomo di riscrittura della propria fama, un
progetto destinato a realizzarsi nel corso di più di un quindicennio con mezzi
che i giudici del 1302 e quelli che li avevano chiamati non avrebbero potuto
immaginare, al compimento del quale, la sua condanna sarebbe stata unanime-
mente considerata ingiusta nei sette secoli seguenti.

come huomo sanza parte, niente di manco fu riputato che pendessi in Parte bianca, e che
gli dispiacesse il consiglio tenuto di Carlo di Valois a Firenze, come materia di scandolo et
di guai alla città. Et accrebbe la ’nvidia, perché quella parte de’ cittadini che fu confinata a
Serezzana, sùbito ritornò a Firenze, et l’altra ch’era confinata a Castel della Pieve si rimase
di fuori. A questo risponde Dante che, quando quelli di Serezzana furono rivocati, esso era
fuori dell’oficio del priorato et che a lui non si debba imputare; più dice, che la ritornata
loro fu per la infirmità et morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana per l’aere
cattiva et poco appresso morì».



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