Sei sulla pagina 1di 18

issn 0391-3368

issn elettronico 1724-1677

ITALIANISTICA
Rivista
di letteratura italiana

ANNO XLVI · N. 1
GENNAIO/APRILE 2017

estr atto

PISA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXVII
SOMMARIO

saggi
Gavino Piga, Contadina e principessa. Lucia Mondella o l’antiretorica del bello 11
Franco Manai, Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un
politicante 27

note
Roberto Galbiati, Storia e poesia nel padiglione di Goffredo della Gerusalemme
Conquistata 41
Stefano Giazzon, L’Ulisse della Liberata in A Zacinto di Foscolo 59
Danilo Soscia, L’alfabeto assente. Alcuni cenni sugli studi sinologici di Giacomo
Leopardi 65
Giuliano Bascetto, Una giumenta e un destriero, due donne, il medesimo lutto 79
Anna Palumbo, «Correndo dietro all’Armata per i paesi d’Europa»: Vittorini tra
Malaparte e Stendhal 85
Luca Cottini, Memorie oltre il mito. Il caso di Due imperi mancati di Aldo Palaz-
zeschi 107
Claudia Antonini, Alle radici della poesia di Sandro Penna: il punto su Baudelaire,
Verlaine, Rimbaud 115

critica e metodologia
Laura Pasquini, Fonti iconografiche della Commedia 133
Michele Maiolani, Bianciardi personaggio di romanzo? La vita agra tra pseudo-
autobiografia e allegoria 155

letteratura d ’ oggi
Andrea Bonizzi, Negazione ed esclusione della violenza terroristica di sinistra nella
letteratura italiana e tedesca 177

bibliografia
Saggistica
Francisco Rico, I venerdì del Petrarca (Paolo Rigo) 199
Cultura e filologia di Angelo Poliziano. Traduzioni e commenti, Atti del Convegno di
studi, Firenze, 27-29 novembre 2014, a cura di Paolo Viti (Marcello Ciccuto) 203
Girolamo Savonarola, Rime, a cura di Giona Tuccini (Mara Boccaccio) 205
Jacopo Caviceo, Confessionale utilissimum, presentazione di Giuliana Giallella,
traduzione e commento di Pietrino Pischedda (Alessia Terrusi) 207
Sommario

Lodovico Dolce, Fabritia, a cura di Chiara Trebaiocchi (Luca Zipoli) 209


Costruzioni e decostruzioni dell’io lirico nella poesia italiana da Soffici a Sanguineti,
a cura di Damiano Frasca, Caroline Lüderssen, Christine Ott (Claudia Anto-
nini) 211
Matteo Di Gesù, L’invenzione della Sicilia. Letteratura, mafia, modernità (Michele
Maiolani) 214
Alberto Godioli, Laughter from Realism to Modernism. Misfits and Humorists in
Pirandello, Svevo, Palazzeschi, and Gadda (Gloria Scarfone) 216
Mario La Cava, Lettere da Reggio Calabria, a cura di Rocco La Cava, saggio
introduttivo di Giuseppe Italiano (Carmine Chiodo) 219

Notiziario 221

Norme redazionali della casa editrice 233


LETTERATURA E INTERPRETAZIONE:
LEONARDO SCIASCIA
E LA TRAGEDIA DI UN POLITICANTE
Franco Manai

In questo articolo viene data un’interpretazione del perdurante successo e dell’attualità del
pamphlet di Leonardo Sciascia L’affaire Moro (1978). Attraverso una lettura del testo fatta nel quadro
delle discussioni e delle polemiche suscitate dal sequestro conclusosi con l’uccisione di Aldo Moro
da parte delle Brigate Rosse, l’articolo mostra come Sciascia colga e rappresenti un insieme di stati
d’animo e di tensioni politico-ideologiche che attorno alla vicenda Moro si aggrovigliarono in
maniera inestricabile e che tuttora persistono. Tale rappresentazione si fonda su un racconto che
trasforma Moro in un eroe da tragedia classica nel quale un largo numero di italiani trovò forma-
lizzato proprio quel groviglio del quale era difficile, se non impossibile, venire a capo.
This article provides an explanation for the enduring success of Leonardo Sciascia’s L’affaire Moro
(1978), a pamphlet on the kidnapping and murder of political leader Aldo Moro by the Red
Brigades. The article shows how Sciascia understood and was able to represent the cluster of
feelings, ideas and political-ideological tensions which became inextricably linked to the Moro
affair and are still evident in Italian discourse today. Sciascia’s representation is based on a narration
presenting the politician Aldo Moro as a classic tragedy hero, a figure in which a large number of
Italians found and still find a model for that cluster which is very difficult, if not impossible, to
disentangle.

Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli


uomini, se la letteratura non glielo apprende.
Leonardo Sciascia, La strega e il capitano

1. Il tribunale della coscienza

T ra l’illuminista laico Pietro Verri delle Osservazioni sulla tortura e il romantico


cattolico Alessandro Manzoni della Storia della Colonna Infame, entrambi peraltro
altamente ammirati, il laico Sciascia, pur da sempre fautore del razionalismo illumini-
sta, senza incertezze opta per il cattolico Manzoni.1 Verri imposta tutta la sua polemi-
ca contro un sistema malato, reso possibile da ignoranza e pregiudizi, che fa sì che una
barbarie arcaica si dispieghi in nome e a opera dello Stato. Manzoni, dal canto suo, ri-
leva come le stesse leggi allora vigenti, così come il livello culturale delle classi dirigen-
ti dell’epoca, sarebbero stati teoricamente sufficienti a impedire che degli innocenti
venissero torturati e uccisi. La responsabilità del male non può essere comodamente
addossata a un impersonale sistema, ma deve essere attribuita a degli uomini ben de-
terminati, che non hanno avuto la forza morale di far rispettare né le leggi né i lumi del-
la ragione al tempo disponibili, e per comodo, per ambizione o vigliaccheria, hanno
permesso o addirittura promosso crimini senza giustificazione.

1 Cfr. Leonardo Sciascia, Storia della Colonna Infame [1981], in Idem, Opere 1971-1983, a cura di Claude Am-
broise, Milano, Bompiani, 1989, pp. 1066-1079.
https://doi.org/10.19272/201701301002 · «italianistica», xlvi, 1, 2017
28 Franco Manai
In questo privilegiare il foro interiore, il tribunale della coscienza, l’importanza del-
l’imperativo morale rispetto a ogni teoria e dottrina volta a ricondurre le azioni degli
uomini e i processi politici nell’alveo di un sistema generale, di una ferrea, in fin dei con-
ti imperscrutabile dinamica di cause e di effetti, sta una chiave fondamentale per legge-
re gran parte dell’opera di Sciascia. Forse il libro in cui questo viene esemplificato nel
modo più chiaro è Porte aperte, in cui la figura del ‘piccolo giudice’ e del giurato aman-
te della letteratura incarnano la superiorità della coscienza individuale sull’astratto or-
dinamento giuridico.1

2. L’affaire Moro
Aldo Moro, dal 1976 Presidente della Democrazia Cristiana e artefice, insieme a Beni-
gno Zaccagnini, Segretario del partito, del coinvolgimento del Partito Comunista Ita-
liano in responsabilità di governo dalle quali fino a quel momento esso era stato rigo-
rosamente escluso, viene rapito a Roma il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, e ritrovato
morto il 9 maggio dello stesso anno. In Italia il rapimento di Moro costituisce uno spar-
tiacque nella storia della lotta armata, o terrorismo che dir si voglia. Se da una parte rap-
presenta l’apice della traiettoria politica e ‘militare’ delle Brigate Rosse, dall’altra segna
anche l’inizio del loro rapido e inarrestabile declino.2
È aperto, nella storiografia, il dibattito se questo declino sia derivato in prima istan-
za dall’atteggiamento di risoluta intransigenza adottato dagli organi di governo, soste-
nuti dai principali esponenti dei due maggiori partiti, Democrazia Cristiana (dc) e Par-
tito Comunista (pci), o se esso sia da addebitare a una serie di altri fattori, in cui scarso
o nessun ruolo tale intransigenza avrebbe giocato.3 All’epoca, il mondo politico italia-
no si divise nettamente in due parti, una, decisamente minoritaria, favorevole alla trat-
tativa coi terroristi, un’altra, maggioritaria e preponderante, decisamente contraria.4
Sciascia scrive L’affaire Moro5 a immediato ridosso degli eventi, pubblicandolo nel-
l’agosto 1978, e dando con esso la stura a una battaglia di feroci polemiche destinate a
non spegnersi a distanza di anni. Egli vi abbraccia infatti, senza incertezze, la prima ipo-
tesi, e accusa l’apparato politico e mediatico italiano di aver fatto morire Moro senza
necessità e senza utile alcuno. Eletto poco dopo deputato, nelle file del Partito Radica-
le, Sciascia non abbandona la lotta e, in quanto membro della Commissione Parla-
mentare d’Inchiesta sul rapimento Moro, ha modo di approfondire la sua conoscenza
dell’argomento. Quando, alla fine del suo mandato, la Commissione licenzia il rappor-
to finale, Sciascia se ne dissocia, e produce una propria relazione di minoranza.6
Scrivendo L’affaire, come si è detto, a immediato ridosso dei fatti, Sciascia si poteva
basare su quanto pubblicato dai giornali, su quanto detto alla radio e su quanto detto e
mostrato in televisione. Solo in seguito poté avere accesso a un maggior numero di
informazioni, anche qualitativamente diverse. Eppure non ritenne di dover cambiare al-
cunché del suo libro: l’interpretazione di fondo degli eventi restava la stessa.

1 Cfr. Idem, Porte Aperte, Milano, Adelphi, 1987.


2 Cfr. Giorgio Bocca, Trent’anni di trame, Roma, L’Espresso, 1985; Manlio Castronuovo, Vuoto a perdere. Le
Brigate Rosse, il rapimento, il processo e l’uccisione di Aldo Moro, Lecce, Besa, 2008.
3 Cfr. Agostino Giovagnoli, Il caso Moro: una tragedia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2005.
4 Cfr. Ferdinando Imposimato, Sandro Provvisionato, Doveva morire, Milano, Chiarelettere, 2008.
5 Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978; ora in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 463-565. In seguito si farà
riferimento a questa edizione e si darà tra parentesi solo il numero di pagina.
6 Idem, Relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia alla Commissione Parlamentare di inchiesta
sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro [1983], in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 573-599.
Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un politicante 29
Viene fatto di pensare a quanto avvenne in Italia nel 1991, all’esplodere della cosid-
detta Tangentopoli, la serie di scandali e procedimenti giudiziari che portò allo scoper-
to il sistema di corruzione endemica su cui si era retta fino a quel momento la vita
pubblica italiana. Una frase che risuonava continuamente all’epoca era: «Chi l’avrebbe
mai pensato!». Si trattava chiaramente di una sfacciata dichiarazione di ipocrisia o di
stupidità, perché che le cose funzionassero così non solo era possibile pensarlo, ma lo
si sapeva, lo si scriveva, lo si sperimentava nella vita quotidiana.1 Non c’era nessun
bisogno che una mano divina o giudiziaria togliesse il velo. Un grave errore di allora,
nell’entusiasmo di veder cadere il sistema di potere identificato dalla sigla caf (Craxi,
Andreotti, Forlani), dai nomi dei grandi notabili del tempo, fu quello di pensare che il
problema della corruzione che faceva ristagnare la vita politica e sociale italiana potes-
se essere risolto per via giudiziaria, con l’eliminazione delle mele marce che rischiava-
no di contaminare la sana ‘società civile’. Non poteva essere e non fu così: quel sistema
di arbitrio e corruzione era diretta espressione della società italiana e non tramontò
certo con la ‘prima repubblica’.
Sciascia scrive L’affaire Moro come un pamphlet politico, chiaramente indirizzato a
un’aspra polemica contro gli apparati di uno Stato che, non essendo davvero rigoroso,
tanto più stupidamente incrudelisce per asserirsi tale.2
E in realtà la valutazione dell’effettivo impatto che l’azione delle Brigate Rosse ebbe
sull’evoluzione della politica italiana è un problema che richiede una discussione più
ampia, un’analisi che non dimentichi o trascuri le ormai conclamate collusioni tra i
servizi segreti e in genere gli apparati dello Stato e il mondo del terrorismo di destra e
di sinistra. La ben sperimentata tecnica dell’utilizzo, da dietro le quinte, dei più vari
gruppi e gruppuscoli di rivoltosi e rivoluzionari, aspiranti golpisti e sedicenti restaura-
tori, così brillantemente descritta da Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,3 fu utiliz-
zata con molta spregiudicatezza in Italia, tra il 1969 e la fine degli anni ottanta, senza
troppi riguardi per le vittime di stragi e attentati.
Oggi si sa che le Brigate Rosse non furono fondate né erano direttamente manovra-
te dallo Stato, ma si sa anche che esse poterono raggiungere il livello di pericolosità so-
ciale effettivamente raggiunto solo grazie al fatto che ciò fu loro permesso dai servizi
segreti.4

1 Cfr. Luigi Curini, Paolo Martelli, I partiti nella prima Repubblica. Maggioranze e governi dalla Costituente a
Tangentopoli, Roma, Carocci, 2009; Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani pulite. La ve-
ra storia 20 anni dopo, Milano, Chiarelettere, 2012.
2 Cfr. L’uomo solo: L’affaire Moro di Leonardo Sciascia, a cura di Valter Vecellio, Milano, La vita felice, 2002.
3 Cfr. Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte [1852], Roma, Editori Riuniti, 2006.
4 Cfr. Giorgio Galli, Affari di stato, Milano, Kaos, 1991, Idem, Piombo rosso. La storia completa della lotta arma-
ta in Italia dal 1970 a oggi, Milano, Baldini&Castoldi, 2004. Sulle vicende di questo periodo ha scritto numerosi vo-
lumi Sergio Flamigni (Trame atlantiche, Milano, Kaos, 1996; Il mio sangue ricadrà su di loro, Milano, Kaos, 1997;
Convergenze parallele, Milano, Kaos, 1998; Il covo di Stato, Milano, Kaos, 1999; I fantasmi del passato, Milano, Kaos,
2001; La tela del ragno [1988], Milano, Kaos, 2003; La sfinge delle Brigate Rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista
Mario Moretti, Milano, Kaos, 2004) strenuo sostenitore della cosiddetta tesi cospiratoria, fieramente avversata da
una caterva di opinionisti in numerosi testi tra cui Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, Il misterioso interme-
diario, Torino, Einaudi, 2003; Giuliano Ferrara, L’affaire Moro e il gioco delle coincidenze simboliche incrociate, «Il
Foglio.it», 10 maggio 2008 [12/02/2017]; Giuseppe Ferrara, Misteri del caso Moro, Bolsena, Massari, 2003;
Giuseppe De Lutis, Il golpe di Via Fani: protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il delitto Moro, Milano,
Sperling&Kupfer, 2008; Rita Di Giovacchino, Il libro nero della prima Repubblica, Roma, Fazi, 2003; Nicola Bion-
do, Massimo Veneziani, Il falsario di Stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo, Roma, Cooper, 2008;
Silvio Bonfigli, Iacopo Sce, Il delitto infinito, Milano, Kaos, 2002; Giovanni Galloni, 30 anni con Aldo Moro,
Roma, Editori riuniti, 2008. Si veda anche il film Il caso Moro, diretto da Giuseppe Ferrara, Yarno Cinematografi-
ca, Italia, 1986.
30 Franco Manai
Sciascia sfiora questo nodo cruciale nell’Affaire quando osserva che alle Brigate Rosse
l’interrogatorio a Moro non […] ha lasciato nulla in mano che possa esplodere come rivelazione
[…]; e la decisione di ucciderlo è ovvio agisca in loro, inconsciamente, ad accrescere il senso e il
sentimento di una separazione, di un isolamento, di una chiusura sempre più stretta in quella
monade che ormai ha solo dei sotterranei, segreti passaggi – passaggi che a conveniente momento, e
non da loro, saranno chiusi [corsivo nostro].
(p. 552)
Ancora più interessanti, dal punto di vista dell’analisi politica, le osservazioni contenu-
te nella Relazione di minoranza che il deputato Leonardo Sciascia presenta alla fine della
sua esperienza di membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento
e l’uccisione di Moro e che si è già menzionata. Qui viene a più riprese rilevato come,
durante tutto lo svolgimento della vicenda, si sia assistito a un uso incredibilmente
dissennato delle risorse a disposizione degli apparati di polizia. Tra i molti elementi
elencati da Sciascia (le operazioni di parata, il mancato pedinamento di sicuri sospetti,
il ritardo o la precipitazione di operazioni rese inutili dall’intempestività), ricordiamo al-
meno la lista di diciotto sospetti brigatisti che la Questura di Roma fu in grado di stila-
re a poche ore dal rapimento. Di questi diciotto, solo tre si rivelarono del tutto estranei,
mentre per tutti gli altri le indagini successive appurarono un coinvolgimento diretto o
indiretto o con il rapimento stesso, o comunque con le Brigate Rosse. Conclude Scia-
scia: «Il concorde coro di funzionari e uomini politici sull’impreparazione dello Stato a
fronteggiare l’attacco terroristico, è dunque da accettare con beneficio d’inventario».1
Il libriccino di Sciascia, conforme probabilmente alle intenzioni del polemico auto-
re, fu immediatamente fatto oggetto di un’infinità di attacchi concentrici, mossi dagli
alfieri di quella linea della fermezza che in esso veniva spietatamente spogliata dei suoi
orpelli e denunciata come un’immotivata e infondata recrudescenza di retorica na-
zionalistica. In realtà la posizione di Sciascia non fu tanto quella che si dovesse a ogni
costo arrivare a uno scambio coi terroristi, quanto piuttosto che sarebbe forse stato
più utile, oltre che più umano, per lo meno intavolare una trattativa. Così, forse, sa-
rebbe stato possibile approfondire quelle incrinature interne al fronte brigatista che al-
lo scrittore sembrava di intravedere, e che poi, come è stato dimostrato,2 effettiva-
mente esistevano. E forse al contrasto tra quella che sarebbe potuta essere la «vera»
soluzione della vicenda e la soluzione tragica, sanguinosa e inutile che essa, di fatto,
ebbe, fa riferimento la citazione da Borges che chiude L’affaire, e che vale la pena ri-
leggere integralmente:
Ho già detto che si tratta di un romanzo poliziesco […]. A distanza di sette anni, mi è impossibile
recuperare i dettagli dell’azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo pu-
rificano) le lacune della mia memoria. C’è un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una len-
ta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai l’enigma, c’è un pa-
ragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: «Tutti credettero che l’incontro dei due
giocatori di scacchi fosse stato casuale». Questa frase lascia capire che la soluzione è sbagliata. Il let-
tore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra soluzione, la vera.
(p. 565)
Il brano è tratto da uno dei più deliranti racconti di Ficciones, Examen de la obra de Herbert
Quain (1941), dove del misterioso scrittore vengono discusse tre opere inesistenti dalle
mirabolanti implicazioni filosofiche. Nel porlo a suggello del suo libro, Sciascia omette

1 Sciascia, Relazione, cit., p. 583. 2 Cfr. Castronuovo, op. cit.


Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un politicante 31
la frase che chiude il paragrafo: «El lector de ese libro singular es más perspicaz que el
detective».1 Senza ambire a essere più perspicaci dell’investigatore del nostro caso, e cioè
dell’autore, ne seguiamo volentieri i suggerimenti e, inquieti, andiamo a rivedere i
capitoli sospetti.

3. Al lettore perspicace

L’affaire Moro è composto da una serie di quadri, di tableaux, dotati ciascuno di ampia
autonomia, quasi una collezione di quegli elzeviri di cui Sciascia fu maestro. Non man-
cano i richiami prolettici e analettici («come vedremo», «come abbiamo visto»), ma qua-
si ciascuno dei ventuno capitoletti in cui è suddiviso il libro ha una sua distinta fisiono-
mia, e con minime modifiche potrebbe agevolmente stare a sé. Molto spesso il centro
del discorso è costituito dall’analisi di uno o più testi, siano le lettere di Moro, siano i
comunicati dei brigatisti, siano quelli del Governo o della famiglia Moro. Altre volte si
prende l’avvio da una reminiscenza letteraria (Pasolini, Borges, Shakespeare, Poe) o a
essa si arriva (Sant’Agostino, Tolstoj, Montesquieu, Pirandello), e attorno vi si ricama-
no considerazioni d’ordine politico, psicologico, morale. Sempre centrale è l’attenzio-
ne rivolta al linguaggio, a cominciare da quello particolarissimo di Moro. Dall’analisi
delle espressioni linguistiche, delle idiosincrasie stilistiche, delle ellissi e dei non detti,
delle perifrasi e delle circonlocuzioni, dalla traduzione in linguaggio comprensibile di
ciò che in partenza, soprattutto nei comunicati stampa dei responsabili della politica ita-
liana, veniva espresso nel famigerato politichese, Sciascia fa emergere il contrasto, sem-
pre uguale nelle variegate forme di volta in volta assunte, tra verità e menzogna, tra in-
tento dichiarato e intenzione occulta.
Particolare rilevanza ha, ovviamente, data la posizione, il capitoletto di apertura,2 in
cui Sciascia racconta di una passeggiata in campagna nei luoghi della sua infanzia, e del-
la sua sorpresa nel vedervi delle lucciole, quelle lucciole che, oggetto di incantata me-
raviglia per lui ragazzino, erano per molti anni scomparse, tanto da ispirare a Pier Pao-
lo Pasolini il famoso articolo sulle lucciole3 e arrivare quindi a simboleggiare un’Italia
scomparsa, un’Italia contadina e pastorale cancellata dall’avanzare e dilagare della so-
cietà industriale. In siciliano le lucciole sono dette cannileddi di picuraro, perché veniva-
no assunte dai contadini come preziose alleviatrici della greve vita del pastore:
Tanto consideravano greve la vita del pecoraio, che gli largivano le lucciole come reliquia o me-
moria di luce nella paurosa oscurità. Paurosa per gli abigeati frequenti. Paurosa perché bambini
erano di solito quelli che si lasciavano a guardia delle pecore.
(p. 467)

Volendo forzare un po’ la metafora, probabilmente al di là delle intenzioni di Sciascia,


si possono vedere le lucciole come rappresentanti di una serie di valori (famiglia, soli-
darietà, senso di appartenenza) che nella vecchia Italia dell’era pre-industriale avevano
in qualche modo alleviato la vita di una popolazione non ancora travolta dallo sperso-
nalizzante rivolgimento che lo sviluppo industriale avrebbe portato con sé. La metafo-
ra contiene, d’altra parte, una doppia valenza. Le lucciole come preziosa consolazione,

1 Jorge Louis Borges, Ficciones [1944], Madrid, El Mundo, 2001, p. 34.


2 Si veda Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 3-51.
3 Pier Paolo Pasolini, L’articolo delle lucciole [1975], in Idem, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter
Siti, Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 407-411.
32 Franco Manai
sì, ma quanto evanescente, quanto fragile e irreale e impotente, di fronte all’oscurità
della notte del pastorello, di fronte «agli abigeati frequenti», di fronte a condizioni di vi-
ta di estrema durezza, alla fame, alla disperata, degradante lotta quotidiana per la so-
pravvivenza? Per Moro, la fede cristiana, l’amore e la solidarietà senza incertezze dei
suoi familiari, ma quanto potenti di fronte al tradimento degli amici, alla minaccia mor-
tale dei suoi carcerieri, di fronte al buio di una situazione senza uscita, di cui, in fondo,
anche lui portava la sua parte di responsabilità?
Unitamente al Pasolini delle lucciole il prologo chiama in causa il Pasolini critico del
linguaggio politico democristiano e sostenitore della necessità di un processo senza
sconti al Palazzo, al Potere, il Pasolini che segnala come nel corso del loro trentennio di
dominio, di nuovo regime, i democristiani abbiano adottato
un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Al-
do Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti
nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riu-
scito, di conservare comunque il potere.
(Pasolini citato in L’affaire, p. 469)

Moro, e su questo Sciascia insiste ripetutamente, è dunque «il meno implicato di tutti»
ma, «per una enigmatica correlazione», quello che meglio di ogni altro elabora il nuo-
vo linguaggio, il gergo del potere fine a se stesso, la coltre fumogena destinata a lascia-
re intendere, a far trapelare, a rifiutare ogni assunzione di responsabilità, ogni posizio-
ne davvero netta e irreversibile, e allo stesso tempo colui che viene scelto come capro
espiatorio di un ceto politico e di governo macchiatosi di crimini orrendi.
Il fatto è che Moro ‘è’ colpevole.

4. La tragedia di un politicante
L’affaire Moro si costruisce letterariamente come una tragedia e della tragedia presenta
le caratteristiche più salienti. Da una situazione di massimo splendore (l’imminente
inaugurazione di un governo nato dai suoi sforzi e dalla sua tenace azione), l’eroe su-
bisce una canonica catastrofe, un completo rivolgimento delle sorti, fino alla morte, at-
traverso una serie di peripezie costituite, oltre che dal rapimento, soprattutto dai suoi
sforzi per uscire dall’impasse, e da quelli uguali e contrari dei suoi antichi sodali per la-
sciarcelo. Il vero dramma del Moro di Sciascia è dato dal fatto che, attraverso appunto
le peripezie tragiche, egli si trova costretto a vedersi allo specchio, e a riconoscere la pro-
pria stessa fisionomia in quella di coloro che aveva sempre creduto suoi amici, più o me-
no vicini, più o meno politicamente consentanei, comunque tutti solidali nell’assicu-
rarsi reciproca protezione e copertura nell’esercizio del potere.
La prima dura esperienza, intanto, è quella di piegare il proprio stile, fatto per «non
dire», a dire, a comunicare la drammaticità dell’esperienza che andava vivendo e la di-
sperata volontà di non essere lasciato a soccombere, forse (nell’ipotesi di Sciascia) a sug-
gerire vie e modi possibili per la sua liberazione. Proprio lo stile, specchio dell’anima,
testimonia, secondo Sciascia, un graduale mutamento nell’uomo Moro. Da una lettera
all’altra, esso si va come illimpidendo, abbandona le contorte circonlocuzioni, le fu-
mose perifrasi, si fa sempre meno ellittico e acquista in chiarezza e perspicuità, guada-
gnando al contempo spessore umano, potenza espressiva e carica emotiva. Pian piano,
man mano che tutte le porte si serrano tra lui e la libertà, Moro arriva a prendere le di-
stanze dagli uomini ai quali fino allora più era stato vicino. E ancora lo fa gradualmen-
te. Nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile dice:
Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un politicante 33

Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino
né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno vera-
mente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e il loro amore.
(p. 534)
Pochi giorni dopo, nella lettera che viene recapitata a un giornale il 27 aprile, Moro si
fa più preciso:
Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi
hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e a pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia
fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto
dovere.
(p. 541)
Nota Sciascia:
Per il potere e del potere era vissuto fino alle nove del mattino di quel 16 marzo. Ha sperato di aver-
ne ancora: forse per tornare ad assumerlo pienamente, certamente per evitare di affrontare quella
morte. Ma ora sa che l’hanno gli altri: ne riconosce negli altri il volto laido, stupido, feroce. Negli
«amici», nei «fedelissimi delle ore liete»: delle macabre, oscene ore liete del potere.
(p. 543)
Il Moro prigioniero delle Brigate Rosse vive come in un incubo assurdo. Benché in sta-
to di cattività, può parlare, far gesti, indicare, insomma può, o meglio potrebbe, man-
tenere una qualche forma di comunicazione con gli altri, con il mondo che era il suo e
dal quale a forza è stato staccato. Ma nessuno lo sente, nessuno lo vede. Ancora vivo, è
già dichiarato morto.1 Può agitarsi e sbracciarsi, può gridare e urlare, a nulla gli vale.
L’establishment, una volta presa la decisione di arroccarsi sulla posizione della fermezza,
non può più prestare ascolto a una voce che lo costringerebbe su un altro percorso. Scia-
scia ricostruisce con grande maestria quella specie di congiura infernale con la quale
Moro viene trasformato in «grande statista», mentre statista, sottolinea Sciascia, non
era mai stato, né piccolo né grande, essendosi piuttosto sempre distinto per le sue do-
ti, indubbie, di «grande politicante».
Tutto ciò che Moro scrive dal «carcere del popolo» e che non si conforma alla statu-
ra sempre più grandiosa che viene attribuita al Moro di ‘prima’, viene interpretato co-
me frutto di uno stravolgimento umano indotto da sevizie e condizionamenti che non
permettono di considerarlo più se stesso, compos sui. Contro l’erezione di questo mau-
soleo corpore vivo, Moro tenta disperatamente di combattere, e va ripetendo affannosa-
mente: sono io, sono sempre io, possibile che non riconosciate la mia voce?
Ma le ragioni del potere, per definizione, sono indifferenti e impermeabili alla
comprensione umana. Persino i brigatisti, con tutta la loro bestialità, dimostrano di
possedere una capacità di compassione, e di umano rispetto, maggiore di quella osten-
tata orgogliosamente dagli «uomini del potere»: così quando sfidano ogni pericolo per
recapitare alla famiglia gli auguri di Pasqua, o quando ritagliano dal giornale la lettera

1 Il tema della prematura dichiarazione di morte suggerisce le righe forse più brillanti all’Arbasino di In questo
stato (su cui si veda oltre), libello pure dedicato al rapimento Moro: «Machiavelli e Metternich, Richelieu e Maz-
zarino. Loro non avrebbero avuto dubbi. Dare subito l’annuncio falso del ritrovamento del cadavere, con pretesti
assurdi per non mostrarlo […]. Gran funerali di Stato con bara vuota, e il Papa che si commuove senza inginoc-
chiarsi davanti a nessuno, e tutti i presidenti possibili che dicono cose indimenticabili. Temi in classe sulle Ultime
Parole Famose, e vacanza, e tre giorni di Bach e Beethoven alla Rai-Tv. A questo punto, l’onere della prova passa
di mano» Alberto Arbasino, In questo stato [1978], Milano, Garzanti, 2008, p. 8.
34 Franco Manai
a Moro della sua famiglia, per non fargli vedere, negli altri articoli, la sua condanna, o
quando si attardano al telefono, al momento di comunicare la notizia della sua morte,
per esaudirne l’ultimo desiderio [che sia la famiglia ad avere il suo corpo].1
La congiura dello stravolgimento, «il melodramma di amore allo Stato» (p. 483), il
grande bagno di statolatria in cui il Paese viene immerso per settimane e settimane, si
trasforma poi, man mano che le sue conseguenze si fanno più vicine, in farsa indeco-
rosa, e raggiunge infine dimensioni deliranti e fantastiche, che Sciascia sintetizza nella
scena del gerundio, quando nel comunicato delle Brigate Rosse del 5 maggio si dice
«Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo
Moro è stato condannato» (p. 549). Tutti i commentatori italiani, uomini politici e gior-
nalisti, si concentrano attorno a quel gerundio, quasi da esso dipendesse la vita del se-
questrato o a esso fossero legate delle possibilità di salvezza.
Moro è dunque condannato. Si può dire lo sia da due parti: da un lato dalle Brigate
Rosse che lo hanno rapito, dall’altro dall’establishment politico italiano che trova più con-
veniente la sua morte che non la sua liberazione. Preso nella tenaglia, schiacciato dalla
collera degli dei che lo pongono in una situazione senza uscita, l’eroe continua a com-
battere contro il destino, anche se sa che contro un tale nemico ogni lotta è vana. Vana,
ma non futile; perdente, ma doverosa. Ancora nelle ultime lettere Moro svolge dei ra-
gionamenti precisi e densi di calzanti riferimenti alla prassi di governo, da lui ovvia-
mente ben conosciuta, nel tentativo di dimostrare la percorribilità della strada della trat-
tativa. Impartisce istruzioni e consigli alla famiglia su come potrebbe muoversi per
arrivare al risultato sperato. Infine, disperato, solleva il braccio nel gesto di maledizione:
E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immagi-
nare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro.
(Lettera del 27-30 aprile citata in L’affaire, p. 564)
Fino in fondo, comunque, osserva Sciascia, Moro mantiene un legame ombelicale con
quel partito dal quale pure si sente abbandonato e condannato. Lo continua a chiama-
re «il mio partito», e non lo tradisce negli interrogatori ai quali viene sottoposto nel «car-
cere del popolo». Stiamo parlando, ovviamente, del Moro di Sciascia, senza riferimenti
ai Memoriali di cui nel 1978 non si poteva avere notizia.2
Il fatto è, come si è detto, che Moro è colpevole. E nelle lunghissime ore di prigionia
la consapevolezza di esserlo deve essergli infine apparsa, dolorosa e senza rimedio. Nel-
l’ultima lettera alla moglie, scritta probabilmente tra il 27 e il 30 aprile, dice:
L’espulsione dallo Stato è praticata in tanti casi, anche nell’Unione Sovietica, non si vede perché qui
dovrebbe essere sostituita dalla strage di Stato.
(p. 564)

Commenta Sciascia:
La «strage di Stato». È possibile che Moro non ricordi, nello scriverla, quel che questa espressione
contiene di preciso – e cioè il riferimento al fatto, ai fatti, per cui è stata coniata e rivolta come accusa
(accusa divenuta ormai attendibile anche al vaglio dei più increduli) a certi organismi governativi,

1 Sulla correttezza di questi e altri dettagli delle ricostruzioni di Sciascia, avanza forti riserve Bruno Pischedda
in Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori e Eco, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011, volume su cui tor-
neremo.
2 Cfr. Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere
italiano, Torino, Einaudi, 2011; Aldo Moro. Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008.
Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un politicante 35
al governo, alla Democrazia Cristiana e a lui stesso? Assolutamente impossibile: e anche perché uno
dei capi dell’accusa a lui formulata dalle Brigate Rosse vi fa esplicito richiamo.
(p. 564)
Attraverso la sofferenza si raggiunge la conoscenza (pathei mathos); oltre la rovinosa ca-
tastrofe, s’innalza, indotta dall’azione congiunta di pietà e paura, la catarsi, la purifica-
zione, sperimentata qualche volta del pari dall’eroe caduto e dallo spettatore atterrito.
In questo caso solo dallo spettatore, se è vero che l’ultimo gesto del Moro che abban-
dona le speranze è, come si è visto, un gesto di maledizione.
La ‘vera’ soluzione con cui il «lettore inquieto» si trova confrontato è che all’orizzonte
non si profila nessuna ‘vera’ soluzione, e che l’unica purificazione possibile consiste nel-
l’amara consapevolezza che
loco a gentile,
a innocente opra non v’è: non resta
che far torto o patirlo. Una feroce
forza il mondo possiede […].
(Adelchi, iv, 8)

5. Letteratura e interpretazione
Con L’affaire Moro Sciascia, collocandosi all’incrocio tra la polemica politica à la Courier,
la ricostruzione storiografico-documentaria motivata da forti istanze morali (Pietro
Verri, Manzoni), e la vena fantastica e postmoderna di Borges, crea un impasto lettera-
rio nuovo, la cui scommessa è quella di lasciarsi alle spalle la frattura tra letteratura e
realtà in nome di un impegno politico e morale tanto più severo quanto meno facil-
mente, banalmente etichettabile.
Nella recensione pubblicata sull’«Ora» di Palermo all’indomani dell’uscita dell’Affai-
re e significativamente intitolata Moro ovvero una tragedia del potere, Italo Calvino mette
l’accento sulla costruzione letteraria ‘tragica’ del libello di Sciascia.1 E veramente
L’affaire è in primo luogo un’opera letteraria, sulla cui natura getta luce una frase dal
deciso sapore borgesiano:
Nella sua [di Moro] storia già come scritta, nella sua storia già opera letteraria (e che qui soltanto
si tenta di interpretare), ci sono già da prima i segni premonitori.
(p. 544)

Che la storia di Moro (tutta la sua storia, non soltanto la vicenda del rapimento) sia in
se stessa un’opera letteraria, è chiaramente un’affermazione paradossale che, confon-
dendo le carte, costringe a interrogarsi su quale sia allora la natura di ciò che viene co-
munemente considerato letteratura, per esempio di un libro come L’affaire Moro. Più
che di natura, forse, sarebbe opportuno parlare di funzione: l’opera letteraria è un par-
ticolare tentativo di interpretazione della realtà, realtà che di per sé si offre come strut-
tura fantasticamente organizzata. È essenziale sottolineare la parola tentativo: la quali-
tà e la validità di un’opera, infatti, stanno tutte non tanto nell’interpretazione ‘finita’,
quanto piuttosto nella tensione interpretativa che, al di là delle intenzioni consapevoli
dello scrittore, offre al lettore una formalizzazione perspicua di quel guazzabuglio che
è la realtà, tale da salvarne la contraddittorietà e la natura sfaccettata e multiforme.

1 Italo Calvino, Moro ovvero una tragedia del potere, «L’Ora» (4 novembre 1978); ora in Idem, Saggi 1945-1985, ii,
a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2349-2352.
36 Franco Manai
In un articolo del 2008 sul «Sole 24 ore» apparso in occasione della ristampa di In
questo stato di Alberto Arbasino,1 parimenti dedicato al rapimento di Moro e ugual-
mente pubblicato a caldo nel 1978, Bruno Pischedda lamenta la mancanza di attendi-
bilità storica dell’Affaire Moro e, con una punta di malevolenza, riferendosi all’affer-
mazione paradossale cui si è fatto cenno sopra, cioè che la realtà si predispone già di
per sé come opera letteraria, accusa Sciascia di voler attribuire al letterato, in quanto
esperto di ciò che la realtà è nella sua vera essenza, e cioè letteratura, il monopolio
della comprensione della realtà (politica, sociale ecc.). Pischedda osserva anche che, a
guardare retrospettivamente, bisogna ammettere che Sciascia ha vinto, che la vicenda
Moro è entrata nella mente e nel ricordo degli italiani nella chiave che Sciascia ha vo-
luto darle, e che infatti il suo libro, dal 1978 in cui fu scritto, è rimasto ininterrotta-
mente negli scaffali delle librerie, mentre il caustico libretto di Arbasino sullo stesso
soggetto è immediatamente sparito, dimenticato o ignorato da tutti, per riapparire so-
lo nel 2008, accolto da un clamore interamente dovuto alla forza polemica della sua
controparte sciasciana.
Pischedda attribuisce la disparità di fortuna tra i due libri al fatto che mentre Arbasi-
no intride di sprezzante sarcasmo la figura di Moro, Sciascia ne offre una rappresenta-
zione umana toccante e commovente, ben in sintonia con il pietismo di cui gli italiani
sono in genere portati a circonfondere le vittime e soprattutto i morti.2
Si potrebbe forse osservare che una certa dose di umano riguardo non sia necessa-
riamente condannabile, e che il sarcasmo espresso in uno stile pirotecnico per iniziati
sia molto e anzi troppo caratteristico di un certo tipo di intellettuali italiani che con-
fondono l’istrioneria della penna col coraggio civico. Ma, a parte tutto questo e al di là
della boutade di Pischedda, il punto è un altro.
Nella polemica recensione di cui si è fatta menzione Calvino rileva la costruzione a
parabola pirandelliana della rappresentazione di Aldo Moro: da personaggio a uomo
solo. E proprio questo raccontare una simile vicenda come la tragedia di un uomo sa-
rebbe allo stesso tempo il pregio e il punto debole del pamphlet di Sciascia in quanto
«in nessun momento questo dramma può essere considerato come un dramma isolato
senza un prima ed un poi».3 Giulio Ferroni sulla scorta di Calvino scrive:
Quello che manca nel libro (e che c’è invece nella visione ‘comica’ che dell’affaire ha dato Arbasi-
no in In questo stato) è la società e lo sfondo della vita e delle sensazioni collettive che abbiamo vis-
suto in quei mesi e in quel terribile torno di anni. Il rapporto dell’affaire con la scena pubblica, con
il destino pubblico del paese resta come assente dalla prospettiva dell’inchiesta di Sciascia: sembra
che il suo discorso resti chiuso nello spazio della prigione di Moro, si accanisca sulla tragedia del
potere (e delle sue contraddizioni) quasi proiettandola in un passato ‘classico’ in cui la storia sem-
bra darsi nei destini che gravano sugli individui senza vedere la tragedia sociale e antropologica che
essa trascina con sé e che in definitiva rende impossibile la tragedia.4
Quando nel 2011 Bruno Pischedda riprende, nel suo volume sui polemisti italiani,5 il già
citato intervento del 2008, conferma la netta condanna del libro di Sciascia, a vantaggio

1 Arbasino, op. cit. Su questo testo cfr. Ugo Perolino, Un euforico congedo. Gli anni Settanta nei pamphlet di Al-
berto Arbasino, Pescara, Tracce, 2012.
2 Bruno Pischedda, Il Moro tradito da Sciascia, «Il Sole 24 Ore», 3 maggio 2008.
3 Calvino, op. cit., p. 2351.
4 Giulio Ferroni, L’affaire Moro. La letteratura e l’imprendibile verità, in L’occhio e la memoria. Miscellanea di stu-
di in onore di Natale Tedesco, Caltanisetta, Salvatore Sciascia, 2004, pp. 299-308: 307.
5 Cfr. Pischedda, Scrittori Polemisti, cit.
Letteratura e interpretazione: Leonardo Sciascia e la tragedia di un politicante 37
ancora una volta di In questo stato di Arbasino, circostanziandone le motivazioni con una
lettura ravvicinata dal punto di vista stilistico, strutturale e contenutistico. Da questa
analisi, condotta peraltro con grande finezza, emerge in maniera molto chiara il carat-
tere inequivocabilmente, prepotentemente letterario del lavoro di Sciascia, che nel-
l’offrire la sua ricostruzione della vicenda fa scopertamente ricorso a tutti gli strumen-
ti di elaborazione stilistica e retorica a sua disposizione, che non erano pochi. In questo
modo, sostiene Pischedda, Sciascia rende accettabili al lettore le sue ipotesi fattual-
mente errate (come la scoperta del Memoriale di via Montenevoso e le dichiarazioni di
brigatisti quali Mario Moretti avrebbero in seguito dimostrato) e fa dimenticare come
anche la tesi politica di fondo del libro fosse completamente sbagliata. Sciascia infatti
accusa le br di lavorare ciecamente al raggiungimento di un risultato politico esatta-
mente opposto a quello da loro desiderato, e cioè al trionfo di quel compromesso sto-
rico del quale Moro era stato il campione. Ebbene, nota Pischedda, avvenne proprio il
contrario. Morto Moro, il compromesso storico sparisce dall’orizzonte politico italiano
e il pci viene ricacciato senza speranza all’opposizione. Ma se questi due capi d’accusa
sono, come ammette lo stesso Pischedda, attenuati dal fatto che possono essere for-
mulati solo grazie al senno di poi, e cioè sulla scorta di informazioni di cui Sciascia, nel
1978, non poteva disporre, è un altro il vero obiettivo polemico, e questo senza possibi-
li attenuanti.
La colpa inespiabile dell’Affaire, già adombrata come abbiamo visto nell’articolo del
2008, è l’esaltazione che in esso Sciascia farebbe del primato della letteratura sulla sto-
ria, sulla cronaca e sulla politica, e quindi la conseguente proposizione del letterato, di-
stinto come ‘uomo di lettere’ dal massificato ‘intellettuale’, come unico interprete au-
torizzato della realtà, e quindi ancora come unica possibile guida per la comprensione
e l’azione politica. Il pamphlet, pieno di affermazioni non vere e di ricostruzioni cap-
ziose, e quindi sbagliato come pamphlet, si iscrive in ultima analisi all’interno di quella
maniera letteraria di cui Borges è stato il maestro, che risolve la realtà nella letteratura,
presentando di converso la letteratura come artefice della realtà. Ma se Borges, ironiz-
za Pischedda, era ben consapevole della natura ludica della sua pratica letteraria, non
altrettanto si può dire di Sciascia, prigioniero di un’allucinazione di onnipotenza che
sembra a tratti dargli le vertigini, e che, prevedibilmente, lo porta a non vedere la vera
realtà, e a compiacersi, e gingillarsi, nelle proprie elegantissime invenzioni.
Curiosamente, sembra che Pischedda, a dispetto del lavoro preparatorio da lui stes-
so magistralmente condotto, si rifiuti ostinatamente di vedere quel che sembrerebbe
dover essere di assoluta, immediata evidenza. L’affaire Moro è innanzitutto un’opera let-
teraria e come tale va letta, interpretata e, se ci si vuole cimentare, giudicata. Non è una
raccolta documentaria, anche se si avvale di documenti autentici; non è un programma
di azione politica e ideologica, anche se di ideologia e politica trasuda; non è un reso-
conto fedele dei fatti, anche se a fatti realmente accaduti fa riferimento. Vuole essere, e
di fatto è, qualcosa di diverso. Può essere irritante, per il critico e il recensore, che essa
non sia facilmente riconducibile a un genere letterario canonizzato e ben definito, ma
questo è un problema del critico e del recensore, che non dovrebbe essere scaricato sul-
l’opera e sull’autore.
Il Moro dell’Affaire non è necessariamente il Moro storico, anche se molto probabil-
mente lo rappresenta con un grado di verosimiglianza e di verità al quale poco tolgono
i dettagli venuti alla luce in seguito. Quanto al fatto che l’ipotesi politica di fondo, del
contributo che la lotta armata avrebbe finito per dare al trionfo del connubio tra destra
e sinistra, se è vero che il compromesso storico inteso come governo pci-dc non si è
38 Franco Manai
mai realizzato, è anche vero che la storia dei decenni successivi ci ha fatto assistere alla
disgregazione in Italia di ogni reale distinzione tra destra e sinistra, allo spostamento
delle dinamiche politiche su assi completamente differenti (per i quali continuiamo a
usare le vecchie categorie un po’ per pigrizia, un po’ per incapacità di trovarne di nuo-
ve davvero calzanti), alla nascita di partiti in cui sono confluiti, tra gli altri, i resti del pci
e quelli della dc. Forse, anzi sicuramente, tutto questo non è stato provocato dal terro-
rismo delle br e dal rapimento e assassinio di Moro, e forse, anzi sicuramente, non era
questo che prevedeva, e paventava, Sciascia. Ma qualche contributo in questa direzione
la cosiddetta lotta armata e le reazioni a essa delle forze politiche italiane di certo han-
no portato. E qualcosa, forse molto, della visione, dell’incubo di Sciascia senz’altro si è
avverato.
Ma la verità del libro di Sciascia è un’altra. Come abbiamo cercato di dimostrare, a
noi sembra che Sciascia abbia colto e rappresentato un insieme di stati d’animo e di ten-
sioni politico-ideologiche che attorno al sequestro Moro si aggrovigliarono in maniera
inestricabile. E non fu il solo Sciascia a sentirsene coinvolto ma, evidentemente, un lar-
go numero di italiani, che in questo libro trovarono formalizzato proprio quel groviglio
del quale era difficile, se non impossibile, venire a capo. Un partito di maggioranza che
domina il Paese da trent’anni e che ha fatto della conservazione del potere la sua stessa
ragion d’essere, al punto da scatenare la strategia della tensione. Una sinistra parla-
mentare che o ha già abbracciato la causa del governo a tutti costi (Partito Socialista Ita-
liano), o in questa direzione è avviata (pci), con quindi in prospettiva un radicale inde-
bolimento della dinamica politica del Paese e delle possibilità di resistenza nei confronti
di un’oligarchia di governo che troppo abilmente sa combinare egemonia e dominio.
Una sinistra extraparlamentare frantumata e confusa, spesso affetta da inconcludente
massimalismo, e priva di prospettive di reale presa sulla vasta maggioranza del popolo
italiano. Un pullulare di gruppi terroristici di varia provenienza e di misteriose inten-
zioni, inabili a costituire un serio pericolo per l’establishment, ma abbastanza sanguino-
si e clamorosi da giustificare un’azione repressiva che minacciava di restringere drasti-
camente gli spazi del dibattito democratico.
Tra le parole d’ordine che allora largamente circolavano, due tornano alla mente, te-
stimoni di punti di partenza diversi, ma di una simile drammatica difficoltà: «Né con lo
Stato, né contro lo Stato», «Né con le Brigate Rosse, né contro le Brigate Rosse». Ma non
erano, né l’una né l’altra, parole d’ordine che fossero intellettualmente, politicamente,
ideologicamente presentabili. Erano semplicemente le grida inarticolate di chi si trova
in una situazione senza uscita. Una situazione propriamente tragica, se la tragedia è ca-
ratterizzata dall’avere al suo centro un dissidio insanabile, i cui due corni sono entram-
bi giusti e entrambi rovinosamente sbagliati.
Ebbene, al di là dell’immediata polemica, al di là delle previsioni politiche più o me-
no corrette, più o meno improbabili, al di là delle congetture forse fantasiose e ingiu-
stificate su quali fossero gli intenti di Moro nello scrivere le sue lettere e le reazioni psi-
cologiche dei brigatisti nel recapitarle, è proprio questa tragica situazione di impasse
politica e ideologica, di pena umana, di sconforto e allo stesso tempo di volontà di rea-
zione e resistenza, che nelle pagine dell’Affaire Moro trova forma e cristallina espressio-
ne, tanto che esse ancora si offrono come una lente preziosa a chi cerca di capire non
solo il sanguinoso passato, ma anche il fosco presente nel quale viviamo.
(f.manai@auckland.ac.nz)
The University of Auckland
composto in car attere serr a dante dalla
fabrizio serr a editore, pisa · roma.
stampato e rilegato nella
tipo gr afia di agnano, agnano pisano (pisa).

*
Maggio 2017
(cz 2 · fg 21)

Potrebbero piacerti anche