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GIORNALE CRITICO

DELLA

FILOSOFIA ITALIANA

FONDATO

DA

GIOVANNI GENTILE

SETTIMA SERIE VOLUME XVIII


ANNO CI (CIII), FASC. I

CASA EDITRICE LE LETTERE

FIRENZE
SOMMARIO DEL FASCICOLO

CLAUDIO CESA STORICO DELLA FILOSOFIA

LUCA FONNESU, Ritratto di un maestro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9


MAURO MORETTI, Documenti dell’esperienza giovanile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
GIOVANNI BONACINA, Un modello di esercizio della storia della filosofia . . . . . . 35
CARLA DE PASCALE, Interpretazioni di Fichte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
FRANCESCO TOMASONI, Gli studi su Feuerbach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
ALESSANDRO SAVORELLI, Percorsi inconsueti della filosofia italiana . . . . . . . . . . . 93

Studi e ricerche:
TOMMASO DE ROBERTIS, Per una storia della ricezione del Liber de bona fortuna
nel Cinquecento italiano: Crisostomo Javelli e Girolamo Garimberti . . . 112
MARIALUISA PARISE, Francesco Colangelo, un controrivoluzionario napoletano . . 132
GIUSEPPE RUSSO, Logica ed etica nella teoria del giudizio di Carlo Antoni . . . . . 152

Discussioni e postille:
SAVERIO RICCI, Attraverso Galileo, un’idea dell’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165
GIUSEPPE COSPITO, Marx in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172
FEDERICO RAMPININI, Attualità e prospettive della filosofia di Ernst Bloch . . . . . 180

Note e notizie:
Early Modern Aristotle. On the Making and Unmaking of Authority (Marco
Sgarbi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189
Dalla «femme savante» alla madre di famiglia. La donna nell’Illuminismo francese
(Elena Giorza) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192
The Dialogues of the Dead of the Early German Enlightenment (Antonella Del
Prete) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195
Kant e la metafisica della forza (Edoardo Raimondi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197
PER UNA STORIA DELLA RICEZIONE DEL
LIBER DE BONA FORTUNA NEL CINQUECENTO ITALIANO:
CRISOSTOMO JAVELLI E GIROLAMO GARIMBERTI*

Quella della ricezione del Liber de bona fortuna nella cultura medievale e del-
la prima età moderna è una storia ancora largamente da scrivere, tanto più
che già a un primo sguardo risulta difficile sottovalutarne la diffusione e l’im-
patto1. L’origine del Liber va fatta risalire alla metà degli anni Sessanta del
Duecento, quando alcuni maestri dell’università di Parigi, probabilmente die-
tro la spinta di Tommaso d’Aquino (il primo in ordine di tempo a citare il Li-
ber come scritto a sé stante), fondono i due capitoli che alla fortuna Aristo-

* Desidero ringraziare Gian Mario Cao, Valérie Cordonier, Eva Del Soldato, e i lettori
anonimi della rivista per le critiche e i suggerimenti offertimi nella preparazione di questo
articolo.
1 Tra i recenti studi sull’argomento si segnalano: V. CORDONIER, Sauver le Dieu du
Philosophe. Albert le Grand, Thomas d’Aquin, Guillaume de Moerbeke et l’invention du ‘Liber
de bona fortuna’ comme alternative autorisée à l’interprétation averroïste de la doctrine aristo-
télicienne de la providence divine, in Christian Readings of Aristotle from the Middle Ages to
the Renaissance, ed. by L. Bianchi, Turnhout, Brepols 2011, pp. 65-114; EAD., Une lecture
critique de la théologie d’Aristote. Le ‘Quodlibet VI, 10’ d’Henri de Gand comme response à
Gilles de Rome, in L’aristotélisme exposé. Aspects du débat philosophique entre Henri de Gand
et Gilles de Rome, ed. by V. Cordonier - T. Suarez-Nani, Fribourg, Academic Press 2014,
pp. 81-180; EAD., Noblesse et bon naturel chez les lecteurs du ‘Liber de bona fortuna’ de Tho-
mas d’Aquin à Duns Scotus. Histoire d’un rapprochement, in La nobiltà nel pensiero medieva-
le, a c. di F. Bonini - A. Colli - A. Palazzo, Fribourg, Academic Press, 2016, pp. 99-134; M.
ROICK, Pontano’s Virtues. Aristotelian Moral and Political Thought in the Renaissance, Lon-
don-Oxford-New York, Bloomsbury 2017; V. CORDONIER, Giles of Rome on the Reduction
of Fortune to Divine Benevolence. The Creative Error of a Parisian Theologian in the 1270s,
in Irrtum-Error-Erreur, hrsg. von A. Speer - M. Mauriège, Berlin-New York, de Gruyter
2018, pp. 231-256; T. DE ROBERTIS, A New Source for Boccaccio’s Concept of Fortune. The
Pseudo-Aristotelian ‘Liber de bona fortuna’, «Heliotropia», XVI-XVII, 2019, pp. 169-187; V.
CORDONIER, In the footsteps of a ‘Singular Treatise’ (De Fato III, 3). Two Items to be added to
the Catalogue of Coluccio Salutati’s Library, in The Library, ed. by A. Speer - L. Reuke, Ber-
lin-New York, de Gruyter 2020, pp. 431-456; EAD., Aristotle Theologized. The Importance
of Giles of Rome’s ‘Sententia de bona fortuna’ to the Late Medieval and Renaissance Peripa-
tetism, «Quaestio», XX, 2020, pp. 137-157; M. POSTI, Medieval Theories of Divine Providen-
ce 1250-1350, Leiden-Boston, Brill 2020, pp. 194-265; V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chryso-
stomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona fortuna’. Examining Fortune in Early Mo-
dern Italy, Leiden-Boston, Brill 2021.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 113

tele aveva dedicato, rispettivamente, nei Magna Moralia (1206b 30-1207b 19)
e nell’Etica Eudemia (1246b 37-1248b 11), e che Guglielmo di Moerbeke
aveva da poco tradotti in latino2. Nasce così un’opera unica anche all’inter-
no degli stessi scritti pseudo-aristotelici: per un verso genuinamente aristote-
lica, in quanto collage di testi attribuiti allo Stagirita dalla tradizione, per un
altro senza una matrice originale in greco, dal momento che questo scritto,
nella forma trasmessa dal Liber, esiste soltanto in latino3. Dietro la composi-
zione del Liber possiamo supporre un duplice ordine di motivazioni. Da un
lato, l’interesse da parte dell’élite intellettuale del tempo, corpo docente pa-
rigino incluso, di disporre di un’opera che fornisse accesso immediato alla dot-
trina aristotelica sulla fortuna, un problema al quale il Filosofo non aveva mai
riservato ampia trattazione autonoma nei propri scritti4; dall’altro, la possi-
bilità di costruire una teoria della divina provvidenza che, pur fondata su pre-
supposti aristotelici, risultasse pienamente compatibile con la dottrina cristia-
na5. È infatti nel secondo capitolo dell’ottavo libro dell’Etica Eudemia, con-
fluito poi nella seconda parte del Liber, che Aristotele riconduce la causa del-
la buona fortuna direttamente a Dio, il quale dispensa a proprio piacimento
agli uomini (sebbene certe categorie di individui siano più atte di altre a ri-
ceverla) questa condizione privilegiata6. Il progetto tomistico di “battezzare
Aristotele” può così dirsi, nel caso del Liber de bona fortuna, pienamente rea-
lizzato.
Il Liber inizia dunque a circolare come opera aristotelica, entra a pieno
titolo nel Corpus Recentius degli scritti del Filosofo (perlopiù collocato al ter-

2 V. CORDONIER, Sauver le Dieu du Philosophe, cit., p. 66; V. CORDONIER - T. DE ROBER-


TIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona fortuna’, cit., pp. 10-21.
3 La paternità aristotelica dei Magna Moralia è stata messa fortemente in discussione
durante il secolo scorso, ma a tutt’oggi non si è raggiunto consenso unanime sul problema.
L’Etica Eudemia è invece considerata opera autenticamente aristotelica, sebbene non man-
chi chi abbia sollevato dubbi al riguardo, soprattutto in virtù della presenza di caratteri sti-
listici e dottrinali che appaiono in contrasto con gli altri scritti morali di Aristotele, in primis
con l’Etica Nicomachea. Su queste controversie si vedano D. HARLFINGER, Die Überlieferung-
sgeschichte der ‘Eudemischen Ethik’, in Untersuchungen zu ‘Eudemischen Ethik’, hrsg. von
D. Harlfinger - P. Moraux, Berlin, de Gruyter 1971, pp. 1-50 e C. BROCKMANN, Zur Überlie-
ferung der aristotelischen ‘Magna Moralia’, in Simbolae Berolinenses für Dieter Harlfinger, hrsg.
von F. Berger - C. Brockmann, Amsterdam, Hakkert 1993, pp. 43-80.
4 Nei propri scritti Aristotele tratta della nozione di ‘fortuna’ (tyche) come sottocate-
goria del concetto di ‘spontaneo’ (automaton). Cfr. Phys. II, 5, 196b 10-16 e 196b 29-197a
32; Metaph. VII, 15, 1032a 27-32, e IX, 7, 1049a 03-05, e XII, 3, 1070a 04-07; Eth. Nic. III,
3, 1112a 20-29; Rhet. I, 5, 1361b 39-1362a 12. Su questo aspetto si veda V. CORDONIER - T.
DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona fortuna’, cit., p. 12,
nota 7.
5 V. CORDONIER, Sauver le Dieu du Philosophe, cit., pp. 84-95.
6 ARISTOTELES, Ethica Eudemia (fragmentum). Liber de bona fortuna. Translatio Moerbe-
kiana. Recensio Vulgata, ed. by V. Cordonier, 1248a 25-29 (in attesa dell’uscita del volume nel-
la collana «Aristoteles Latinus», cito l’edizione del testo resa disponibile sul sito web del pro-
getto: Aristoteles Latinus Database, Release 3 – ALD-3; online al sito www.brepolis.com):
«Quod autem queritur hoc est, quid motus principium in anima. Palam quemadmodum in
toto deus, et omne illud; movet enim aliquo modo omnia quod in nobis divinum. Rationis
autem principio non ratio, sed aliquid melius. Quod igitur utique erit melius et scientia et
intellectu nisi deus?».
114 tommaso de robertis

mine dei Parva Naturalia), e comincia a ricevere l’attenzione dei commenta-


tori scolastici7. Il suo carattere conciso e la sua compattezza tematica gli as-
sicurano un successo ampio e immediato. A paragone delle due opere dalle
quali è tratto, ad esempio, il Liber ebbe una circolazione incomparabilmen-
te maggiore: se, come noto, l’Etica Eudemia non venne mai tradotta integral-
mente nel Medioevo (le uniche sezioni disponibili in latino erano i libri IV-
V-VI, in quanto corrispondenti ai V-VI-VII dell’Etica Nicomachea, e i due ca-
pitoli finali dell’ottavo libro, dedicati rispettivamente alla buona fortuna,
1246b 37-1248b 11, e alla virtù della kalokagathia, 1248b 11-1249b 25), i Ma-
gna Moralia furono sì tradotti, da Bartolomeo da Messina tra il 1258 e il 1266,
ma ebbero circolazione assai limitata – ci restano infatti 56 testimoni mano-
scritti, di contro agli oltre 150 del Liber de bona fortuna8. Né a quest’ultimo
mancarono i commenti. Il primo in ordine di tempo, quello di Egidio Roma-
no (composto a Parigi tra il 1275 e il 1278), fu anche il più influente9. Ricon-
ducendo la causa della buona fortuna alla benevolenza di Dio (benivolentia
Dei), Egidio introduce una nozione che non è presente nel Liber, ma che sa-
rà destinata ad avere lunga fortuna nella tradizione interpretativa di quest’o-
puscolo – Crisostomo Javelli compreso. A quello di Egidio seguirono i com-
menti di Enrico di Gand (1281-1282), di Riccardo di Middleton (1286-1287),
di Duns Scoto, di Pierre D’Auriole, e di un anonimo autore (1306 circa) che
talune stampe cinquecentesche identificano in Giovanni di Jandun10.

7 Sull’inclusione del Liber nel Corpus Recentius, sul suo collocamento all’interno dei
Parva Naturalia, e sulla prima ricezione dell’opera, cfr. V. CORDONIER, Sauver le Dieu du Phi-
losophe, cit.; EAD., Une lecture critique de la théologie d’Aristote, cit.; EAD., Noblesse et bon
naturel chez les lecteurs du ‘Liber de bona fortuna’ de Thomas d’Aquin à Duns Scotus, cit.;
EAD., Giles of Rome on the Reduction of Fortune to Divine Benevolence, cit.; EAD., Aristot-
le Theologized, cit.; M. POSTI, Medieval Theories of Divine Providence, cit., pp. 194-265; V.
CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona for-
tuna’, cit., pp. 10-28. Estratti del Liber vennero inclusi anche all’interno delle numerose col-
lezioni medievali e rinascimentali di Auctoritates Aristotelis (o Florilegia Aristotelis). Cfr. J.
HAMESSE, Les ‘Auctoritates Aristotelis’. Un Florilège Médiéval. Étude Historique et Édition
Critique, Louvain-Paris, Publications Universitaires-Nauwelaerts 1974, pp. 249-250, dove il
Liber viene inserito tra le opere morali di Aristotele. Sulla questione del collocamento del
Liber all’interno del corpus aristotelico, se tra gli scritti di filosofia naturale o tra quelli di fi-
losofia morale, cfr. V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristot-
le’s ‘Liber de bona fortuna’, cit., pp. 48-52.
8 Aristoteles Latinus. Codices, vol. 1, a c. di G. Lacombe - A. Birkenmajer - M. Dulong
- E. Franceschini - L. Minio-Paluello, Roma, Libreria dello Stato 1939-1961, pp. 71-72. Cfr.
anche C. PANNIER, La traduction latine médiévale des ‘Magna Moralia’. Une étude critique de
la tradition manuscripte, in La production du livre universitaire au moyen âge. Exemplar et pe-
cia, a c. di L.J. Bataillon - B.G. Guyot - R.H. Rouse, Paris, CNRS 1988, pp. 164-204; V. COR-
DONIER, La version latine des ‘Magna Moralia’ par Barthélémy de Messine et son modèle grec.
Le ms. Wien, ÖNB, phil. gr. 315 (V), in Translating at the Court. Batholomew of Messina and
Cultural Life at the Court of Manfred, King of Sicily, ed. by P. De Leemans, Leuven, Univer-
sity Press 2014, pp. 337-382.
9 Cfr. V. CORDONIER, Giles of Rome on the Reduction of Fortune to Divine Benevolen-
ce, cit.; EAD., Aristotle Theologized, cit.; V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javel-
li’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona fortuna’, cit., pp. 22-27.
10 Per una ricognizione critica su questi commenti, cfr. M. POSTI, Medieval Theories of
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 115

In età umanistica il Liber è presenza costante, perlopiù trascurata dai mo-


derni interpreti, nell’ambito del dibattito sul caso, la fortuna, e la provviden-
za divina. Lo cita Dante già nel Convivio, all’interno di una discussione sul-
l’iniquità con cui vengono distribuite le ricchezze11; Coluccio Salutati lo usa
nel suo De fato et fortuna12; Giovanni Pontano ne riversa intere sezioni nel
De fortuna13; Marsilio Ficino ne riassume il contenuto in un’epistola a Bin-
daccio Ricasoli sul rapporto tra fortuna e razionalità umana14; Girolamo Sa-
vonarola lo cita in una predica per esortare i propri fedeli alla preghiera, giac-
ché, come sostenuto da Aristotele «nel libro di Fortuna», Dio è dispensato-
re anche di buona fortuna15; Pietro Pomponazzi lo usa a più riprese nel De
fato (ma citando sempre la stessa porzione di testo) a proposito del moto del-
la volontà e della conoscenza divina16; Giovanni Pico della Mirandola vi fa

Divine Providence, cit., pp. 194-265. La questione dell’attribuzione delle Quaestiones super
De bona fortuna è ancora aperta. Sul problema, cfr. V. CORDONIER, Réussir sans raison(s). Au-
tour du texte et des gloses du Liber de bona fortuna Aristotelis dans le manuscrit de Melk 796
(1308), in 1308. Eine Topographie historischer, hrsg. von A. Speer – D. Wirmer, Berlin-New
York, de Gruyter 2010, pp. 705-770 (p. 749, note 109 e 110).
11 DANTE, Convivio IV, 11, a c. di C. Vasoli - D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciar-
di 1987, p. 652: «E per vedere questa iniquitade, disse Aristotele che “quanto l’uomo più
subiace allo ’ntelletto, tanto meno subiace alla fortuna”». La fonte immediata di questa ci-
tazione fu, con ogni probabilità, il commento di Tommaso alla Fisica di Aristotele (lectura
VIII, dove l’Aquinate commenta II, 5, 197a 05-09), ma il passaggio va riferito in ultima ana-
lisi al Liber de bona fortuna.
12 C. SALUTATI, De fato et fortuna, a c. di C. Bianca, Firenze, Olschki 1985, pp. 131-
133: «Hanc fortunam, quam bonam vocant, philosophorum princeps Aristotiles singulari
tractatu diffiniens […] Quam ergo naturam vel quos naturales impetus diffinivit Philoso-
phus esse bonam fortunam, cum non possint in nobis tales esse quales bona fortuna requir-
it, nisi semper divine benivolentie gratia coexistat?». Su Salutati e il Liber de bona fortuna,
cfr. M. ROICK, Pontano’s Virtues, cit., pp. 152 e 274, n. 195; V. CORDONIER, In the footsteps
of a ‘Singular Treatise’, cit., che dimostra la conoscenza da parte di Salutati non solo del Li-
ber, ma anche del commento di Egidio Romano.
13 Alcuni dei capitoli del De fortuna di Pontano offrono una e vera propria riscrittura
del Liber, come dimostrato da M. ROICK, Pontano’s Virtues, cit., pp. 141-167.
14 M. FICINO, Epistolarium Libri XI, in ID., Opera Omnia, a c. di P.O. Kristeller, Tori-
no, Bottega d’Erasmo 1962, vol. 1, p. 943: «Aristotelicum illud, ubi plus intelligentiae, ibi
fortunae minus, atque vicissim, ubi plus fortunae, illic minus intelligentiae, plerique forsi-
tan sic accipient, ut sapientissimi, quique philosophique minime fortunati sint [...] Ego
autem et superiorem interpretatione [sic] minime respuo, utilius tamen atque divinius Aris-
totelicum illud interpretarer».
15 G. SAVONAROLA, Prediche sopra Giobbe, a c. di R. Ridolfi, Roma, Berlardetti 1957,
vol. 2, p. 145: «Chi vuole essere illuminato da Dio, ricorra alla orazione, perché quella vivi-
fica questo lume; e non solo questo si pruova per la Scrittura e per li dottori, ma etiam si
può cavare d’Aristotile, che fu pagano, il quale nel libro di Fortuna dice quod imprudentes
sunt magis fortunati quam alii. Cioè, che gli uomini imprudenti, idest che non procedano con
tanta sapienza umana, sono più fortunati degli altri». Savonarola riporta estratti del Liber
anche nel proprio taccuino di appunti filosofici aristotelici, il De doctrina Aristotelis. Cfr. L.
TROMBONI, Inter omnes Plato et Aristoteles. Gli appunti filosofici di Girolamo Savonarola, Por-
to, Brepols 2012, pp. 185-186.
16 P. P OMPONAZZI, Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, a c. di V. Perrone Com-
pagni, Torino, Aragno 2004, pp. 103, 251, 347, 425, 489, 615, 617. Il luogo del Liber cui
tutte e sette le citazioni si riferiscono è 1248a 25-1248b 01.
116 tommaso de robertis

riferimento nelle Disputationes adversus astrologiam divinatricem per sostene-


re che, laddove l’individuo sia mosso verso il fine prestabilito dall’impeto di
fortuna, non gli giova in alcun modo l’elezione astrologica17. La lista di esem-
pi potrebbe proseguire. Se in questi autori il richiamo al Liber è esplicito, non
mancano casi nei quali il riferimento alla dottrina contenuta nell’opuscolo ri-
sulta invece meno diretto, ma tuttavia chiaro. Ne è esempio il quinto libro
del De casibus virorum illustrium, dove Boccaccio rielabora la formula cen-
trale e più iconica del Liber («ubi plurimus intellectus et ratio, ibi minima for-
tuna, ubi autem plurima fortuna, ibi minimus intellectus») dotandola di una
connotazione più esplicitamente morale («ubi virtus sit ibi nullas partes esse
Fortune»)18; o quel passaggio dei Ricordi del Guicciardini in cui l’autore,
prendendosela coi «savi» di Firenze, scrive: «Accade che qualche volta e paz-
zi fanno maggiore cose che e savi. Procede perché el savio, dove non è ne-
cessitato, si rimette assai alla ragione e poco alla fortuna, el pazzo assai alla
fortuna e poco alla ragione»19; o ancora, si può sostenere, la chiusa del capi-
tolo 25 del De Principatibus, dove Machiavelli raccomanda al proprio prin-
cipe, al fine di intercettare il favore della fortuna, di essere «impetuoso», ri-
chiamandosi così alla definizione di bene fortunatus come individuo «habens
impetum» presentata nel Liber20.
In ambito propriamente accademico, invece, l’unico commento al Liber
prodotto durante i secoli XV e XVI sembra essere quello di Crisostomo Ja-
velli (1470-1540 circa), professore di filosofia presso lo Studium generale dei
Domenicani di Bologna, frate predicatore egli stesso, e in seguito Regens del-
la stessa istituzione dal 1518 al 152121. Il commento, frutto delle lezioni che
egli tenne a partire dagli ultimissimi anni del Quattrocento o dai primi del
secolo successivo, testimonia del suo grande interesse per gli ambiti natura-
le e pratico della filosofia aristotelica: oltre a un succinto compendio di logi-
ca (gli statuti domenicani prescrivevano che proprio da questa branca si co-

17 G. PICO DELLA MIRANDOLA, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, II, 2,


a c. di E. Garin, Firenze, Vallecchi 1946, vol. 1, p. 108: «Neque enim aliud est esse fortuna-
tum, si fortunatus aliquis est a coelo, quam vim nostram imaginariam, famulam rationis, ita
coelitus moveri ut his et modis et temporibus unumquodque faciendum suscipiamus, quibus
quam felicissime votum perfici possit. Quocirca dixit Aristoteles non prodesse fortunatum
consilium, in ea scilicet re in qua eum natura formavit, ne forte alio te consilium distrahat et
abducat, quam institutus ille animi impetus te vocabat». Il passaggio del Liber cui Pico si
riferisce è 1248a 30-35.
18 G. BOCCACCIO, De casibus virorum illustrium, V, 4, 1, a c. di P.G. Ricci - V. Zaccaria,
Milano, Mondadori 1964, p. 394. Sull’uso del Liber da parte di Boccaccio, cfr. T. DE ROBER-
TIS, A New Source for Boccaccio’s Concept of Fortune, cit.
19 F. GUICCIARDINI, Ricordi, a c. di R. Spongano, Firenze, Sansoni 1951, C136, p. 148.
20 N. MACHIAVELLI, Il Principe, a c. di G. Inglese, Torino, Einaudi 2014, p. 182.
21 Per profili biografici su Javelli, cfr. M. TAVUZZI, Chrysostomus Iavelli OP (c. 1470-
1538). A Biobibliographical Essay. Part I. Biography, «Angelicum», LXVII, 1990, pp. 457-
482; ID., Chrysostomus Iavelli OP (c. 1470-1538). A Biobibliographical Essay. Part II. Bibli-
ography, «Angelicum», LXVIII, 1991, pp. 109-121; D. VON WILLE, Javelli, Giovanni Crisos-
tomo, in Dizionario biografico degli italiani, 62, Roma, Istituto italiano per l’enciclopedia
2004, pp. 184-186; V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristot-
le’s ‘Liber de bona fortuna’, cit., pp. 29-47.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 117

minciasse a insegnare)22, di Javelli ci sono pervenuti numerosi commenti (trat-


tati, raccolte di questioni, epitomi, con una spiccata predilezione verso que-
st’ultimo genere) che coprono la quasi totalità della produzione fisico-mora-
le di Aristotele23. Si tratta, in tutti i casi, di scritti assai fortunati, che inizia-
rono a essere stampati regolarmente, in Italia e all’estero, a partire dal 1526,
e che furono adottati come libri di testo tanto in università laiche quanto in
istituti religiosi24.
Il commento al Liber de bona fortuna spicca tra gli altri per una serie di
ragioni. Non solo, come detto, sembra essere l’unico testimone di una dis-
cussione prettamente accademica di questo trattato in età rinascimentale, ma
risulta anche l’unico, tra gli oltre venticinque commenti aristotelici di Javel-
li, a essere caratterizzato da una doppia redazione, segno che l’interesse del-
l’autore per questo testo fu tutt’altro che occasionale. Accanto a un Tractatus
De bona fortuna, più breve e composto di quattro capitoli, le stampe ci han-
no fatto pervenire anche una Epitome De bona fortuna, che trasmette di fat-
to la medesima opera, ma in una redazione più ampia e provvista di un capi-
tolo aggiuntivo, frutto di una successiva revisione da parte di Javelli25. La so-
pravvivenza di entrambe le versioni si deve alla tipografia veneziana di Giro-
lamo Scoto, che nell’allestire i tre volumi di Opera omnia di Javelli nel 1577
ebbe sicuramente a disposizione i manoscritti di entrambe le redazioni del
commento, ma, forse per errore oppure per eccesso di zelo, trascurò il fatto
che si trattasse in effetti della stessa opera, e le pubblicò entrambe, l’Epito-
me nel volume primo e il Tractatus nel terzo. La svista confluì poi in nume-
rose successive edizioni che sulla veneziana sono esemplate.
L’Epitome De bona fortuna, di fatto la versione definitiva dell’opera di
Javelli, appare per la prima volta a stampa nel 1531, a Venezia, per i tipi di
Francesco Bindoni e Maffeo Pasini. In questa redazione, che è quella che vie-
ne qui presa in esame, il testo è suddiviso in cinque capitoli più un prologo
iniziale. Il commento, come è stato recentemente dimostrato, deve molto al-
la sopracitata Sententia De bona fortuna di Egidio Romano. Sulla scorta di
Egidio, Javelli colloca infatti il Liber de bona fortuna all’interno dell’ambito
pratico della filosofia di Aristotele, disallineandosi così da larga parte della
tradizione scolastica, che, collocandolo subito dopo i Parva Naturalia, ne fa-

22 W.A. HINNEBUSCH, The History of the Dominican Order. Intellectual and Cultural Life
to 1500, New York, Alba House 1973, p. 31.
23 Un elenco esaustivo delle opere di Javelli e rispettive edizioni a stampa è fornito da
M. TAVUZZI, Chrysostomus Iavelli OP (c. 1470-1538). A Biobibliographical Essay. Part II. Bib-
liography, cit.
24 Sulla fortuna dei commenti aristotelici di Javelli, soprattutto in ambiente gesuita, cfr.
V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de bona
fortuna’, cit., pp. 43-47.
25 Tale revisione, come Michael Tavuzzi ha sostenuto, dev’essere con ogni probabilità
avvenuta nel 1529, quando un ormai maturo Javelli attendeva all’allestimento dei propri
scritti in vista della loro pubblicazione. Al folio 44r della sua celebre raccolta di Preclarissi-
mum [!] Epitoma, uscita a Venezia nel 1531, Javelli aggiunge al titolo la dicitura «Revisum
et correctum per authorem 1529 die decima Maii Placentie». Ringrazio Michael Tavuzzi per
aver condiviso questa informazione con me nel corso di uno scambio email.
118 tommaso de robertis

ceva invece un trattato di filosofia naturale26. È sempre seguendo Egidio che


Javelli distingue, nel primo capitolo, tra due significati diversi del termine ‘na-
tura’ in Aristotele, il primo facente capo a Fisica II, 8, 198b 34-199a 05 e il
secondo invece a Politica I, 2, 1253a 0127. È proprio in forza di una conce-
zione della natura intesa non necessariamente come causalità regolare, ma più
semplicemente come prodotto del mondo esterno, che Egidio (e con lui Ja-
velli) è in grado di confermare l’assunto aristotelico che riconduce proprio
alla natura la buona fortuna – definita da Aristotele «natura sine ratione»28.
E ancora: sempre nel primo capitolo Javelli riprende la distinzione, elabora-
ta da Egidio dapprima nel commento alla Retorica (1270 circa) e poi in quel-
lo al Liber, tra due connotazioni diverse di ‘fortuna’, l’una accidentale e non
continua (agente cioè ut in paucioribus) e l’altra invece maggiormente conti-
nua (ut in pluribus), poiché connessa a un impeto direttivo guidato da Dio
attraverso la mediazione del mondo naturale. Questa distinzione, che Egidio
è il primo a formulare, godrà di un certo seguito nella cultura scolastica: la si
può trovare, ad esempio, nelle note dell’anonimo glossatore di Melk (1308)
e nello Speculum Virtutum di Engelbert di Admont (1310 circa)29. Infine, la
presenza del commento egidiano nell’epitome di Javelli è testimoniata in ma-
niera evidente anche dal ricorso di quest’ultimo alla cosiddetta «dottrina del-
l’azione uniforme di Dio», secondo la quale l’azione divina sarebbe sempre
uguale a se stessa in qualità e quantità, ma tale da produrre effetti diversi a
causa della diversità degli enti che la ricevono30. Questa dottrina, applicata
alla spiegazione del perché certi individui risultano più predisposti di altri a
ricevere gli influssi divini che sono causa della loro buona fortuna, Javelli po-
teva leggerla soltanto nella Sententia De bona fortuna di Egidio, dalla quale
riprende peraltro questa formulazione quasi alla lettera31. Poco più avanti, nel-
lo stesso capitolo quarto, Javelli risponde alla domanda se l’impulso divino
determini o meno l’individuo che lo riceve ad agire in conformità a esso at-
traverso l’esempio del lanciatore di dadi, esempio che ricorre come noto nel-
lo stesso Liber de bona fortuna, ma che Javelli qui usa nella versione rielabo-
rata da Egidio – non cioè per descrivere la predisposizione che alcuni indi-
vidui hanno verso la buona fortuna, come viene inteso da Aristotele, ma per

26 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., pp. 48-52.
27 Nella prima accezione, ‘natura’ viene intesa come causa di ciò che avviene «ordinate»
e «ut in pluribus», mentre nella seconda accezione, ‘natura’ è ciò che Aristotele predica del-
l’uomo quando lo definisce «naturalmente socievole».
28 ARISTOTELES, Ethica Eudemia (fragmentum). Liber de bona fortuna, cit., 1207a 35.
29 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber
de bona fortuna’, cit., pp. 60-61.
30 Su questa dottrina, cfr. M. PLATHOW, Das Problem des Concursus Divinus. Das Zu-
sammenwierken von göttlichen Schöpfungswirken und geschöflichen Eigenwirken in K. Barths
Kirchlicher Dogmatik, Göttinger, Vandenhoeck und Ruprecht 1976; G. PINI, Being and Crea-
tion in Giles of Rome, in Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Theologie an der
Universität von Paris im letzten Viertel del 13. Jahrhunderts. Studien und Texte, hrsg. von J.A.
Aertsen - K. Emery - A. Speer, Berlin, de Gruyter 2001, pp. 390-409.
31 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber
de bona fortuna’, cit., pp. 77-78. Cfr. sotto, nota 60.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 119

paragonare questa predisposizione alla forma di alcuni dadi che, essendo


spesso irregolare, tende a farli atterrare su una determinata faccia più spesso
che su un’altra32.
Se l’epitome di Javelli al Liber de bona fortuna deve molto, come si è ap-
pena visto, al commento di Egidio Romano, non mancano tuttavia in essa ele-
menti di notevole originalità33. Il più significativo di questi risiede nell’indi-
viduazione, descrizione, e giustificazione delle categorie umane dotate di una
maggiore predisposizione naturale alla buona fortuna. Javelli discute la que-
stione nel capitolo terzo della propria epitome, dove si propone di sviluppa-
re una delle domande sollevate all’inizio del Liber de bona fortuna («Deter-
minandum igitur de bona fortuna, et simpliciter bene fortunatus quis est»).
A tal fine, Javelli elabora una categorizzazione quadripartita di tipi umani:

Adverte quod ut in pluribus quatuor hominum genera sunt bene fortunati. Pri-
mo rudes et indociles solent esse bene fortunati. Secundo insipientes, et ratio horum
una est. […] Tertio melancholici inter omnes alias complexiones solent esse bene for-
tunati. Quarto agentes vitam solitariam and simplices non dediti negotiis exterioribus34.

Javelli ritiene dunque quattro particolari categorie d’individui essere spe-


cialmente predisposte a ricevere e assecondare gli influssi che sono causa del-
la buona fortuna. Esse sono: i) gli uomini rozzi e ignoranti («rudes et indo-
ciles»); ii) gli stolti («insipientes»); iii) i melanconici («melancholici»); iv) gli
individui solitari e i semplici non dediti agli affari umani («agentes vitam so-
litariam et simplices non dediti negotiis exterioribus»). Questa categorizza-
zione non compare nel Liber de bona fortuna, né è riscontrabile in alcuno dei
sopracitati commenti scolastici all’opuscolo, Egidio compreso. Essa è il risul-
tato di una elaborazione originale da parte di Javelli, elaborazione che pog-
gia su un’attenta lettura del Liber e su una familiarità non comune con la sua
tradizione interpretativa, tanto medievale quanto rinascimentale. Comincia-
mo dalle categorie ispirate più o meno direttamente dal Liber stesso, e segna-
tamente dalla seconda, quella degli «insipientes». Questo termine ricorre
spesso nell’opuscolo, dove la stessa idea di buona fortuna è associata a una
condizione di assenza di razionalità nel processo deliberativo umano, che nel
caso dei bene fortunati avviene (come viene detto nel testo aristotelico) «sine
prudentia» e «sine ratione»35. È possibile tuttavia individuare due particola-
ri passaggi nei quali il Liber si diffonde nella discussione di questo aspetto,
rintracciando proprio negli «insipientes» il prototipo umano di bene fortuna-

32 Ivi, pp. 78-82.


33 Sul debito di molti commenti umanistici alla tradizione interpretativa scolastica, cfr.
L. BIANCHI, Un commento umanistico ad Aristotele. L’Expositio super libros Ethicorum di Do-
nato Acciaiuoli, in ID., Studi sull’aristotelismo del Rinascimento, Padova, Il Poligrafo 2003,
pp. 11-39.
34 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber
de bona fortuna’, cit., pp. 198-202.
35 ARISTOTELES, Ethica Eudemia (fragmentum). Liber de bona fortuna, cit., 1207a 35-
1207b 04; 1247a 13; 1247b 08; 1247b 23-28; 1248a 07; 1248a 31-34; 1248b 06.
120 tommaso de robertis

tus (1247a 15-21 e 1247a 21-27). Si tratta in entrambi i casi di esempi, coi
quali Aristotele intende paragonare la condizione dei bene fortunati a quella
di certi pazzi (insipientes), che sebbene sprovvisti di qualsiasi formazione nel-
l’arte della navigazione, riescono tuttavia a condurre la nave in salvo in situa-
zioni nelle quali anche il timoniere più esperto avrebbe disperato di farcela
(esempio peraltro riproposto anche da Javelli)36. In questi casi, così come ne-
gli altri dove il termine compare, gli «insipientes» vengono sistematicamen-
te chiamati in causa per esemplificare la speciale condizione dei bene fortu-
nati – sebbene non vi sia passaggio nel Liber nel quale Aristotele dica chia-
ramente che tali individui hanno maggiore possibilità di altri di risultare be-
ne fortunati. Questo passo verrà compiuto soltanto da Javelli nella propria
epitome.
La terza categoria di Javelli, quella dei melanconici, appare anch’essa at-
tinta dal Liber, ma in questo caso da un unico passaggio dell’opera, il solo
ove il termine occorra. Dopo aver ricondotto la causa prima della buona for-
tuna a Dio, Aristotele prosegue paragonando i bene fortunati agli individui
melanconici («melancolici») e ai veri profeti («recte divinantes»): come que-
ste ultime due categorie, i bene fortunati sono tali perché, messa da parte ogni
interferenza derivante dalla ragione, risultano assai più ricettivi nei confron-
ti degli influssi celesti attraverso i quali Dio dispensa la buona fortuna agli
uomini. L’argomento di Javelli è il medesimo: a causa della loro complessio-
ne, egli spiega, i melanconici ricevono questi influssi con maggiore efficacia
rispetto agli individui di qualunque altra tipologia di umore, e tendono ad
assecondarli con maggiore rigore. La dipendenza di Javelli da questo passag-
gio del Liber è ulteriormente dimostrata dal fatto che tanto Aristotele quan-
to Javelli associno a loro volta la condizione dei melanconici e dei profeti a
quella degli individui non vedenti, che risultano ben più capaci di ricordare
proprio perché meno distratti dalle interferenze del mondo esterno37.
La quarta e ultima categoria di potenziali bene fortunati elencata da Ja-
velli è quella degli individui solitari e i semplici non dediti agli affari umani
(«agentes vitam solitariam et simplices non dediti negotiis exterioribus»). In
questo caso la fonte di Javelli non è il Liber, dove non si parla né di indivi-
dui solitari né di persone semplici avulse dagli affari del mondo, ma, con ogni
probabilità, il commento di Egidio Romano alla Retorica di Aristotele, che
Javelli aveva già utilizzato nel primo capitolo della propria epitome per di-
stinguere tra due accezioni diverse del termine ‘fortuna’ in Aristotele38. È in-
fatti nel commento di Egidio che troviamo il riferimento a degli uomini sem-

36 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., p. 200: «Hinc videmus multos carentes ingenio et prudentia salvare
navem in tempestate postquam nautae cum omni arte sua desperant».
37 Il passaggio in questione nell’epitome di Javelli si trova verso la fine dello scritto.
Cfr. V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber de
bona fortuna’, cit., p. 230: «Unde, sicut ait Aristoteles, se habent ut caeci, qui amisso utpo-
te sensu magis distractivo, virtuosius memorantur, sic homines amissa ratione vigorosius in-
sequuntur divinos impetus, et ideo sunt benefortunati».
38 Cfr. sopra, nota 29.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 121

plici («simplices homines») chiaramente associato alla dottrina del Liber de


bona fortuna. Discutendo la classificazione aristotelica dei beni interiori (le
virtù dell’anima e del corpo) e di quelli esteriori (la nobiltà di nascita, l’ave-
re molti e buoni figli, la ricchezza, la buona fama, l’onore, eccetera), Egidio
si sofferma sull’ultimo di questi, ovvero la fortuna (1362a 1-14). Offre a tal
proposito un breve resoconto del contenuto del Liber, aggiungendo che, es-
sendo la buona fortuna originata da un influsso divino, «simplices homines
convenit ut plurimum esse magis fortunatos quam astuti et versipelles, quia
[non] impliciti negotiis inferioribus percipiunt magis superiorem influxum»39.
Proprio perché non gravati dalle incombenze derivanti dalla vita in comuni-
tà e liberi da questioni di natura materiale, gli uomini semplici e non dediti
ai negotia inferiora sono meglio disposti a percepire e ad accogliere gli influs-
si celesti che sono causa della buona fortuna. Ai «simplices non dediti nego-
tiis exterioribus», esplicitamente menzionati da Egidio nel passaggio del pro-
prio commento, Javelli aggiunge i solitari («agentes vitam solitariam») come
appartenenti alla stessa categoria di individui. Questa mossa non deve sor-
prendere, soprattutto se si pensa allo stretto legame che, in una prospettiva
aristotelica, sussiste tra socialità intesa come insieme di relazioni interperso-
nali e socialità intesa come comunicazione verbale, come capacità cioè di
esprimere i propri pensieri attraverso un linguaggio codificato. In questo sen-
so, individui semplici e individui solitari risultano parte della medesima tipo-
logia umana40.
Le cose sono ben diverse quando si passa all’esame della prima delle
quattro categorie discusse da Javelli, ovvero quella degli uomini rozzi e igno-
ranti («rudes et indociles»). Sebbene non sfuggano le affinità che legano
questa tipologia d’individui ad alcune delle altre appena trattate, soprattut-
to a quella degli uomini semplici e solinghi, questa formulazione, per come
viene qui espressa da Javelli, non sembra riconducibile né al Liber né ad al-
cuno dei commenti a me noti. In nessuno di questi testi, infatti, è dato ri-
scontrare i due termini in questione. Con ogni probabilità, Javelli elaborò
questa categoria a partire da uno scritto coevo dedicato al problema della
fortuna, e cioè il De fortuna di Giovanni Pontano, uscito postumo nel 1512
(cioè negli anni di insegnamento bolognese di Javelli) e da subito ampiamen-
te circolante in Italia. Nel De fortuna Pontano non offre una tipizzazione dei
bene fortunati paragonabile a quella di Javelli, tuttavia connette chiaramen-
te la bona fortuna all’idea di ruditas. Uno dei capitoli finali del secondo li-
bro, dedicato ad alcune specie di individui fortunati, s’intitola «De fortuna-
tis, qui sunt rudi et crasso ingenio». Riprendendo gli argomenti espressi nel
Liber, gli stessi che Javelli commenta nel passaggio sopracitato, Pontano af-
ferma che gli individui d’indole rozza e grossolana «naturae commotiones
has magis sequi illisque optemperantiores esse quam qui acutiori sit ingenio

39 EGIDIO ROMANO, Commentaria in Rhetoricam Aristotelis, Venezia, Giorgio Arriva-


bene 1515, f. 23r.
40 Cfr. Pol. I, 3, 1252b 27-1253a 38, un passaggio che Egidio commenta a più riprese,
soprattutto nel De regimine principum. Cfr. EGIDIO ROMANO, De regimine principum, Roma,
Antonio Blado 1556, ff. 128r-129r, 241r-242v.
122 tommaso de robertis

captuque magis perspicaci»41. L’ipotesi di un’ascendenza pontaniana della


prima tipologia umana di Javelli può essere rafforzata ulteriormente. Nella
prima redazione dell’epitome, corrispondente come abbiamo visto a uno
stadio antecedente dell’opera, Javelli aveva denominato questa prima cate-
goria in un modo differente, e cioè «benefortunati qui sunt rudis et tardi in-
genii», una formula che pare riprendere quasi alla lettera il titolo del capi-
tolo di Pontano («De fortunatis, qui sunt rudi et crasso ingenio»). Che Ja-
velli si avvalesse di un’opera come il De fortuna all’interno di un commento
universitario non deve sorprendere più di tanto. Come ha convincentemen-
te dimostrato Matthias Roick, moltissimi dei capitoli del De fortuna attingo-
no direttamente al Liber, di cui Pontano riprende le tesi e gli argomenti prin-
cipali, spesso quasi alla lettera e altre volte rielaborandoli invece in direzio-
ni originali42. Il De fortuna doveva quindi apparire, a un pubblico colto di
inizio Cinquecento, come un testo legato a doppio filo al Liber de bona for-
tuna, forse addirittura come una sorta di suo commento ‘non ufficiale’ (nel
senso di non scaturito da una regolare attività di insegnamento universita-
rio) ma tuttavia illuminante per comprenderne gli snodi centrali, non fos-
s’altro perché uscito dalla penna di un umanista con un’erudizione non co-
mune e un’acuta sensibilità filosofica.
La tipizzazione quadripartita elaborata da Javelli è dunque il risultato
di una sintesi di fonti eterogenee. A una lettura puntuale del Liber Javelli
aggiunge idee e stimoli provenienti da testi diversi, accademici e non, dimo-
strando non solo un notevole interesse per il problema della fortuna, un in-
teresse nutrito da letture di varia natura, ma anche la capacità di utilizzare
e rifondere queste idee per formare una teoria originale. Sebbene infatti –
ed è un punto, questo, che vale la pena di sottolineare – le quattro catego-
rie umane discusse da Javelli siano tutte in qualche modo riconducibili a una
fonte precisa, l’idea di considerare gli individui a esse riconducibili come
‘candidati ideali’ a diventare bene fortunati è cifra esclusiva di Javelli. Nel
Liber, in Egidio Romano, e in Pontano, Javelli poté sì trovare il riferimen-
to a queste quattro particolari tipologie umane, perlopiù all’interno di esem-
pi; si deve a lui, tuttavia, l’averle estrapolate dai loro contesti d’origine e po-
ste su un particolare piano ontologico (la loro naturale predisposizione al-
la buona fortuna) che li distingue da tutte le altre tipologie d’individui. Co-
sì facendo Javelli supera di fatto il Liber de bona fortuna, introducendo una
teoria che non era originariamente presente nell’opera – una teoria che, as-
sieme ad altre formulate da Javelli nel proprio commento, non passerà inos-
servata a un ignoto lettore cinquecentesco del Liber, ovvero Girolamo Ga-
rimberti.
Garimberti è una figura trascurata del panorama culturale del Cinque-
cento italiano. Nato a Parma nel 1506 da famiglia nobiliare e da subito av-

41 G. PONTANO, De fortuna, a c. di F. Tateo, Napoli, La scuola di Pitagora 2012, p. 266.


È in questo capitolo, oltretutto, che ricorre l’esempio degli individui non vedenti che, ripre-
so dal Liber, viene discusso nei commenti di Egidio Romano e di Javelli.
42 M. ROICK, Pontano’s Virtues, cit., pp. 141-167.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 123

viato agli studi umanistici, Garimberti è noto agli studiosi quasi esclusivamen-
te come collezionista di oggetti d’arte e antichità43. È ancora giovane, infatti,
quando entra nell’entourage del cardinal nipote Alessandro Farnese, un le-
game che gli assicura agio e protezione sufficienti per potersi dedicare, so-
prattutto a partire dagli anni cinquanta del Cinquecento, al collezionismo e
all’antiquaria44. Oltre che per questa incessante attività di procacciatore d’ar-
te, che ha ampiamente catturato l’attenzione degli studiosi, Garimberti si dis-
tinse anche per la vena letteraria. Risale agli anni giovanili, quelli cioè imme-
diatamente precedenti l’inizio della febbrile attività collezionistica, una fase
di intenso impegno letterario, nella quale Garimberti, in forza del proprio le-
game col circolo farnesiano, allaccia rapporti con numerosi intellettuali di
spicco del tempo, da Claudio Tolomei ad Antonio Bernardi, da Bernardo Tas-
so a Pietro Aretino. In questi anni compone tre opere di argomento filosofi-
co e politico destinate a godere di grande fortuna negli anni a venire: un dia-
logo politico dal titolo De regimenti publici de la città (Venezia, Girolamo Sco-
to, 1544), un trattato in sei libri Della fortuna (Venezia, Michele Tramezzino,
1547), e una raccolta di Problemi naturali e morali (Venezia, Vincenzo Val-
grisi, 1549)45. Il primo di essi ebbe ampia circolazione, ma a differenza degli
altri due non venne mai ristampato, probabilmente a causa dell’uso disinvol-
to che Garimberti vi fa delle teorie machiavelliane, soprattutto quelle riguar-
danti la religione – teorie che come noto avrebbero portato, di lì a pochi an-
ni, alla messa all’Indice degli scritti del Fiorentino (1557)46. I Problemi natu-
rali e morali, dedicati ad Antonio Bernardi «filosofo singularissimo», sono
un’opera di divulgazione filosofica d’impianto aristotelico, nella quale Garim-
berti discute 131 quesiti di filosofia naturale e morale tra i più diversi. L’ope-
ra, composta da Garimberti con lo scopo dichiarato di «giovar al volgo» e

43 C.M. BROWN, The collection of classical antiquities in Bishop Gerolamo Garimberto’s


Quarters in the Gaddi Palace on Monte Citorio in Rome, «Racar», XII, 1985, pp. 201-208;
ID., Our Accustomed Discourse on the Antique. Cesare Gonzaga and Gerolamo Garimberto,
Two Renaissance Collectors of Greco-Roman Art, New York, Garland 1993.
44 G. BRUNELLI, Garimberto, Girolamo, in Dizionario biografico degli italiani, 52, Ro-
ma, Istituto italiano per l’enciclopedia 1999, pp. 349-351.
45 A questi scritti ne vanno aggiunti altri due, composti in una fase diversa: i Concetti
per scriver e ragionar famigliarmente (vero e proprio bestseller con ben ventidue edizioni in
meno di cinquant’anni) e Il capitano generale (stampato a Venezia nel 1556 e di nuovo l’an-
no seguente).
46 Nel De regimenti publici de la città Garimberti dimostra una notevole familiarità con
gli scritti di Machiavelli (cita espressamente o rifonde brani dal Principe, dai Discorsi, e da
L’arte della guarra). È alla fine del quarto e ultimo libro dell’opera, tuttavia, che questi si ri-
chiama apertamente alle tesi sulla religione dei Romani che Machiavelli aveva presentato nei
capitoli XI-XV dei Discorsi. Cfr. G. GARIMBERTI, De regimenti publici de la città, Venezia, Gi-
rolamo Scoto 1544, f. LIXr-v: «Conchiudiamo che da la religione si causa la stabilità, e la
grandezza de la perfetta Città, e dal dispregio di quella la rovina; imperò che il difetto ne la
religione arguisse poco timor di Dio, e dove esso manca cresce il disordine e la scorrettione
del vivere, tanto che da quello in breve si passa poi alla desolatione del Regno e d’ogni ben
fondata Repubblica. Per la religione il popolo [di] Roma superò infinite difficoltà e vinse di
molte guerre, le quali senza essa mai haverebbe ne superate ne vinte». Cfr. anche G. BRU-
NELLI, Garimberto, Girolamo, cit., p. 350. G. PROCACCI, Machiavelli nella cultura europea del-
l’età moderna, Bari-Roma, Laterza 1995, p. 73.
124 tommaso de robertis

«levar il velo dell’ignoranza loro»47, venne ristampata due volte in Italia, co-
noscendo anche una traduzione francese, realizzata nel 1559 da Jean Lou-
veau48. Altrettanto favore riscosse, infine, il trattato Della fortuna, apparso per
la prima volta nel 1547 e due volte ristampato, rispettivamente nel 1550 e nel
1554. Anch’esso, al pari dei Problemi naturali e morali, ebbe eco fuori dall’I-
talia grazie alla traduzione in castigliano che ne fece nel 1572 Juan Méndez
de Ávila49.
Il Della fortuna di Garimberti si compone di sei libri. Imitando Aristo-
tele, «il quale manifestò più distintamente e con più ordine la sua philoso-
phia che nissun’altro innanzi e dopo lui», Garimberti adotta il procedimen-
to compositivo nell’esporre il proprio argomento: tratterà infatti «primiera-
mente della fortuna in se stessa, e dipoi componendola con mille sorti d’huo-
mini e di Republica, finalmente venir insin all’individuo»50. Il primo libro, nel
quale Garimberti definisce e discute cosa sia la fortuna, è quello in cui l’uso
del Liber de bona fortuna, e del commento di Javelli in particolare, risulta più
evidente, ed è quindi su di esso che si concentrerà la mia attenzione.
Sin dai capitoli iniziali Garimberti offre quella che può essere conside-
rata una riscrittura in volgare del commento di Javelli al Liber. Seguendo Ari-
stotele, Garimberti avvia la propria analisi escludendo due particolari ‘can-
didati’ tra le possibili cause della fortuna: l’intelletto e la benevolenza di Dio.
Cominciando dal primo, sostiene:

Javelli Garimberti

Nam intellectus et ratio et scientia, cui Contra di quelli che l’attribuiscono al


annectimus etiam sapientiam, dicunt co- giudicio et alla ragione si potrebbe dire
gnitionem et praevisionem et ordinem in che se ciò fusse ella non si doverrebbe
agendis. Nam quaecunque fiunt intelli- chiamar fortuna, ma prudenza, col mez-
gentia et ratione et sapientia cognita sunt zo della quale si ordinano, si discorrono
et praevisa et ordinata […]; eventus au- et molte volte si antivedono le cose avve-
tem bonae fortunae, ut dicemus infra, nire; dove gli effetti della fortuna non so-
sunt omnino non praecogniti, non prae- no ordinati, né discorsi, né preveduti; al-
visi, non ordinati […], quae conditiones trimenti non seguirebbe che fussero ef-
repugnant fortunae […] unde dicit Ari- fetti di fortuna, la qual vuole Aristotele
stoteles ‘propter quod ubi plurimus in- che ripugni talmente alla ragione, che
tellectus et ratio, ibi minima fortuna; ubi dove è assai d’intelletto sia poco di for-
autem plurima fortuna, ibi minimus in- tuna; et all’incontro dove è poco d’intel-
tellectus’51. letto sia poi fortuna assai52.

47 G. GARIMBERTI, Problemi naturali e morali, Venezia, Vincenzo Valgrisi 1549, f. 3r-v.


48 J. LOUVEAU, Les problèmes de Jérôme Garimbert, traduitz de Tuscan en Françoys,
Lyon, G. Roville 1559.
49 J. MÉNDEZ DE ÁVILA, Theatro de varios y maravillosos acaecimientos de la mudable for-
tuna, Salamanca, Juan Bautista de Terranova 1572.
50 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, Venezia, Michele Tramezzino 1457, f. †6r. Dal-
la prefatoria del Della fortuna emerge una certa consapevolezza da parte di Garimberti del
coevo dibattito sul metodo filosofico.
51 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber
de bona fortuna’, cit., pp. 172-174.
52 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 2v.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 125

Il secondo ‘candidato’, la «benivolenza di Dio verso di alcuni» («cura et


benivolentia dei cum aliquibus hominibus») viene escluso da Garimberti con
lo stesso argomento presentato da Javelli, incentrato sulla concezione della
natura divina come massimamente giusta e stabile, e dunque intrinsecamen-
te incompatibile con l’essenza mutevole e iniqua (dal punto di vista dell’uo-
mo) della fortuna.

Javelli Garimberti

Alicui autem videbitur quod bona fortu- Né è mancato chi habbia creduto la buo-
na sit quaedam cura et benivolentia dei na fortuna essere una particolar benivo-
cum aliquibus hominibus, ut magis sibi lenza di Dio verso alcuni huomini, sopra
charis […]. Sed id non decet attribuire gli altri a lui cari […]. Che anchor ella
deo. Omnes enim recte sentientes de deo non sia una particolar benivolenza di Dio
tenent ipsum esse dominum dignum, id verso di alcuni, non ha dubbio veruno;
est distribuentem bona hominibus ordi- perciò che è manifesta cosa, nell’etterna
nate et iuste, id est ut merentur et digni divina mente, ch’è la somma bontà, l’i-
sunt. […] Si ergo enim dixerimus bonam stessa giusticia, et perpetua stabilità, non
fortunam esse dei curam et benivolen- cader alcuna elettione men che buona,
tiam, facimus ipsum pravum, id est non giusta, et uniforme giamai54.
sufficientem iudicem53.

Da qui in avanti, fin verso la conclusione del primo libro, è possibile se-
guire Garimberti quasi passo passo allorché legge e rielabora il commento di
Javelli, i cui principali contenuti trasferisce nel proprio scritto conservando
addirittura lo stesso ordine con cui questi compaiono all’interno dell’epito-
me del domenicano. Proseguendo proprio nella lettura del primo capitolo di
Javelli, Garimberti si imbatte nella distinzione che questi presenta tra due di-
verse accezioni del termine ‘fortuna’ in Aristotele, l’una di tipo accidentale e
non connessa a un impeto direttivo (accezione legata di fatto al secondo li-
bro della Fisica), l’altra maggiormente continua e associata a un impeto di-
rettivo (accezione propria del Liber de bona fortuna). Come detto più sopra,
questa formulazione non fa capo al Liber, dove tale distinzione non compa-
re mai, ma al già citato commento di Egidio Romano al Liber de bona fortu-
na. È da questo commento, come detto sopra, che Javelli la riprende. Igna-
ro di riproporre la tesi di Egidio, Garimberti traduce alla lettera, senza mai
menzionare la propria fonte, il passaggio di Javelli riguardante la seconda ac-
cezione del termine ‘fortuna’:

53 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., pp. 174-176.
54 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 2v.
126 tommaso de robertis

Javelli Garimberti

Quaedam autem est cum impetu, et sine L’altra qualità di buona fortuna è quella
ratione et sine humana prudentia, eo mo- con impeto, priva di ragione et senza al-
do quo declaravimus, et hoc est annexa cuna prudenza humana nel modo detto
felicitati positae a Philosopho, quae est di sopra, la quale è unita molto con la fe-
duplex, scilicet speculativa et politica. Po- licità posta da Aristotele, che si divide in
liticam posuit in actionibus virtutum mo- speculativa e politica. L’una è circa le
ralium et praecipue in actionibus pruden- virtù morali et principalmente nell’opere
tiae, ut bene regere, bene consulere et be- della prudenza, come il reggere, con-
ne providere sibi bona et aliis et vitare sigliare prudentemente et procurar il
discrimina. Speculativam posuit in spe- bene per sé et per gli altri et fuggir il
culatione divinorum […]. Nam quomo- male; l’altra appartiene alla speculation
do quis bene reget populum aut familiam delle cose divine […]. Et nessun potrà
aut providebit et quomodo magnificus et giamai regger bene un popolo o una re-
liberalis et iustus erit, maxime iustitia dis- publica né mostrarsi magnifico, liberal,
tributiva, sine exterioribus bonis?55 né giusto, massimamente nella giustitia
distributiva, senza i beni della fortuna56.

In questo caso il grado di dipendenza di un testo dall’altro è evidente.


Garimberti non deve nemmeno preoccuparsi di eliminare quel «eo modo
quo declaravimus», dal momento che ha incorporato nel proprio testo anche
il passaggio a cui questo rimando si riferisce nel commento di Javelli57. Nel-
la propria resa in volgare Garimberti modifica soltanto un dettaglio, e cioè
sostituisce il termine «familia» («quis bene reget populum aut familiam») con
quello di «republica», probabilmente per meglio adeguare l’argomento al to-
no latamente politico dell’opera, che come già accennato intende articolare
l’esame della fortuna dal piano teorico generale a quello particolare delle
«sorti d’huomini e di Republica».
Poco più avanti, nel capitolo undicesimo, Garimberti si propone di de-
finire «qual sia propriamente l’huomo fortunato». A tal fine riproduce alla let-
tera l’esempio proposto da Javelli nel secondo capitolo del commento, limi-
tandosi a sostituire alla figura di Socrate quella di un anonimo protagonista:

Javelli Garimberti

Puta Socrates desiderat principatum. Ra- Come sarebbe a dir di uno che deside-
tio sibi dictat quod facit sibi milites et rando l’acquisto di qualche città, il gui-
expugnet aliquam civitatem, sentit in se dicio gli mette subito innanzi che all’e-
impetum quo inclinatur ire ad hanc civi- spugnation d’essa fa mestiero d’uno es-
tatem sine exercitu et occulto habito, et sercito, et nondimeno spinto dal detto
sic vadit, quando est illic invenit quod a impeto, senza essercito alcuno privata-
civibus vocatur et eligitur in principem, mente se ne va alla volta d’essa città; né

55 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., p. 190.
56 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 8v.
57 Ovvero quello citato in corrispondenza della nota 52.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 127

qui si cum exercitu ivisset, fugatus et prima vi gionge che chiamato dal popo-
confessus fuisset. Hic dicitur proprie be- lo è fatto signor di quella, dove che se vi
nefortunatus58. fusse ito col campo sarebbe stato o po-
sto in fuga o fatto prigione; e questa pro-
priamente si può dir buona fortuna et
costui benfortunato59.

I prestiti non dichiarati di Garimberti proseguono numerosi nei capito-


li successivi. Mi limiterò qui a esaminare altri due casi tra i più interessanti.
Il primo di essi occorre nel tredicesimo capitolo del primo libro, dedicato ad
analizzare «Donde principalmente si causino questi impeti naturali nell’huo-
mo fortunato». Garimberti attinge di peso, traducendo alla lettera, da una se-
zione del quarto capitolo del commento di Javelli nella quale l’autore si pro-
poneva di spiegare «a quo principio fiunt naturales motus et impetus in no-
bis». Ecco il confronto tra i due passaggi:

Javelli Garimberti

Sed quaeritur a quo principio fiunt natu- Per tanto volendo noi saper donde prin-
rales motus et impetus in nobis. Dico se- cipalmente si causino questi impeti natu-
cundum Aristotelem quod a deo inquan- rali nell’huomo, truovo che hanno l’ori-
tum est motor universalis. Nam sicut ex gine loro dal motor universale ch’è Dio;
sua perfectione continet, conservat et ad perciò che mediante la sua perfettione
esse deducit omnia, ita quod nihil est ex- crea, contiene et conserva tutte le cose,
tra ipsum quod non contineatur in ipso, né alcuna è che non si contenga sotto di
sic ex sua potentia movet totum univer- lui; onde con la potenza sua muove tut-
sum et omnem naturam quae est in uni- to l’universo et ogni cosa naturale nel
verso in proprios fines et in bonum eis proprio e conveniente suo fine, di modo
conveniens. Unde quantum sit ex parte quanto sia per rispetto di Dio, essendo
dei, cum sit primum bonum, omnem na- egli il primo et sommo bene, inclina al
turam impellit ad bonum, et in omni ho- bene et causa in tutti gli huomini l’impe-
mine causat impetum ad bonum pro- to al proprio bene; ma perché infinita è
prium, verum quia diversarum disposi- la varietà delle complessioni, dispositio-
tionum et complexionum et navitatum ni et natività nostre, per questo alcuni ri-
sunt homines, ideo aliqui percipiunt et cevono esso impeto et secondo quello
acceptant hos impetus et secundum eos operano et alcuni altri no, o vero che sia
operantur, aliqui autem non, vel quia ni- perché sono dati in preda alle cose este-
mis dediti exterioribus vel quia suo inge- riori o vogliono secondar troppo all’inge-
nio metiri volunt omnia, quodque ratio- gno et al giudicio loro, senza il quale han-
ni suae non consonat, pro inconvenien- no ogni cosa per inconveniente et giudi-
ti; hinc provenit bona et mala fortuna60. cano ogni impresa esser fuori di ragione
et pacia senza esso, et di qui si può dire
che nasca la buona e la mala fortuna61.

58 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., pp. 194-196.
59 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 11r.
60 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber
de bona fortuna’, cit., p. 218.
61 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 13v.
128 tommaso de robertis

Garimberti riproduce qui, senza averne piena contezza, uno dei passag-
gi filosoficamente più densi di tutto il commento di Javelli. In esso il dome-
nicano mette mano a un dibattito di lungo corso nella storia del pensiero oc-
cidentale, quello riguardante il ruolo giocato da Dio e dagli enti sublunari (gli
esseri umani in primis) nella produzione degli effetti naturali62. E lo fa ripro-
ponendo (surrettiziamente) la spiegazione fornita in merito da una delle vo-
ci più originali di questo dibattito, ovvero Egidio Romano. In un passo già
citato del suo commento al Liber de bona fortuna, Egidio risponde alla do-
manda sul perché taluni individui paiano più ricettivi di altri a percepire e ad
accogliere gli impulsi che sono causa della buona fortuna formulando un ar-
gomento noto come «dottrina dell’azione uniforme di Dio»:

Notandum etiam quod ait quod bene fortunatus est simile patiens hiis qui a deo
aguntur, quia deus secundum istum ordinem quem videmus, quantum est de se, si-
militer movet, tamen propter diversitatem recipientum non omnes similiter perci-
piunt huius motum. Quantum est ergo ex parte dei, bene fortunati sunt simile pa-
tientes omnibus aliis qui aguntur et qui moventur a deo quia, ut dictum est, secun-
dum istum ordinem quem videmus, deus omnes, tam bene fortunatos quam alios, si-
militer agit sive agitat et movet. Tamen non omnes similiter aguntur et moventur, sed
qui habent naturam talem et sic dispositam quod impetu dei aguntur, hii secundum
sententiam philosophi bene fortunati sunt63.

Secondo Egidio, l’azione di Dio nei confronti del mondo naturale è co-
stante e omogenea, in qualità e quantità (egli, infatti, «similiter agit sive agi-
tat et movet»). Tuttavia, a causa della diversità degli enti che sono destinati
a riceverla («propter diversitatem recipientum»), non tutti la fanno propria
allo stesso modo e con lo stesso grado di intensità. Egidio aveva formulato
questa teoria già in un commento al secondo libro delle Sentenze, risalente al
1269 o al 1270, e cioè pochi anni prima della sua Sententia de bona fortuna.
In quell’opera, Egidio spiegava che gli effetti che Dio produce per tramite
delle cause secondarie si ripercuotono sul mondo sublunare «immediate»
(nel senso che l’intermediazione delle cause secondarie non comporta alcun
depotenziamento dell’azione divina), ma non «totaliter», cioè non in egual
modo su tutti gli esseri naturali. Egidio giustifica questa tesi sostenendo che
«Deus uniformiter agit in omnibus quantum est ex parte sui, ita quod solum
diversitas est propter diversitatem recipientium, quia non possunt recipere
uniformiter, quia recipiunt secundum naturas suas»64. Nei due passaggi egi-
diani, quello del commento alle Sentenze e quello del commento al Liber, la
formula chiave sembra essere «quantum est ex parte dei» (o «quantum est

62 M. PLATHOW, Das Problem des Concursus Divinus, cit.; G. PINI, Being and Creation
in Giles of Rome, cit.
63 V. CORDONIER, Une lecture critique de la théologie d’Aristote, cit., p. 148.
64 AEGIDII ROMANI Opera Omnia, III.2. Reportatio Lecturae super Libros I-IV Senten-
tiarum. Reportatio Monacensis. Excerpta Godefredi de Fontibus, a c. di C. Luna, Firenze, Sis-
mel-Edizioni del Galluzzo 2003, Liber II, Quaestio 8, Dist. 1, p. 208. Cfr. G. PINI, Being and
Creation in Giles of Rome, cit., p. 396.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 129

ex parte sui»). Con questa espressione, che è tipica della sua prosa, Egidio
intende distinguere nettamente tra prospettiva umana e prospettiva divina nel-
la valutazione delle cause degli effetti naturali: non è perché alcuni enti sub-
lunari paiono ricevere gli impulsi naturali più o meno efficacemente di altri
(o perché paiono non riceverne affatto) che si debba supporre una differen-
za di qualità nel modo in cui Dio li dispensa.
Nel passaggio sopracitato, Javelli rielabora in maniera chiara la dottrina
dell’uniformità dell’azione divina che aveva trovato nel commento di Egidio
al Liber de bona fortuna. Non soltanto è lampante la vicinanza di contenuto
tra i due testi, ma Javelli riproduce inoltre la formula «quantum est ex parte
dei» (resa con «quantum sit ex parte dei»), che soltanto in Egidio poteva leg-
gere. Traducendo in volgare il lungo passaggio di Javelli, dunque, Garimber-
ti si trascina inconsapevolmente dietro il commento di Egidio al Liber de bo-
na fortuna, e con esso un testimone importante di un dibattito che ha radici
lontane e che sarà destinato a sopravvivergli. Dal testo di Javelli, che Garim-
berti riproduce alla lettera, compresa la nota formula egidiana («quanto sia
per rispetto di Dio»), Garimberti si discosta solo per un particolare, e cioè
per l’omissione (questa, sì, volontaria) del nome di Aristotele quale auctor del-
la teoria in esame.
L’ultimo passaggio del Della fortuna di Garimberti che intendo presen-
tare si trova nel capitolo 17 del primo libro, ed è intitolato «Quali siano que-
gli huomini più fortunati di tutti gli altri». In esso Garimberti riproduce in-
tegralmente la tipizzazione quadripartita dei potenziali fortunati che, come
abbiamo visto più sopra, Javelli aveva presentato nel terzo capitolo della pro-
pria epitome. Di seguito il confronto tra i due passaggi:

Javelli Garimberti

Adverte quod ut in pluribus quatuor ho- Sono per tanto quattro sorti de più for-
minum genera sunt bene fortunati. Pri- tunati di tutti gli altri: la prima è de gli
mo rudes et indociles solent esse bene huomini grossi d’intelletto; la seconda de
fortunati. Secundo insipientes, et ratio pazzi; la terza di quelli che menano vita
horum una est. Nam dictum est supra solitaria; et la quarta de melanconici,
bonam fortunam esse sine ratione et be- benché l’altre tre peccano anchor esse
ne fortunatum qui sine discursu, sine nella melanconia. Et quella ragione che
prudentia, sine consilio, sed tantum im- si adduce per una è commune col resto
petu facto in anima, de quo nescit ratio- delle sopradette; perché la fortuna è sen-
nem reddere, consequitur aliquod opta- za ragione, e il fortunato è quello che pri-
tum bonum. Sed rudes et indociles et vo del discorso ottiene il desiderio suo.
stulti sic tendunt in actionibus suis, ut Questo si può dir che sia proprio de gli
patet, ergo etc. Hinc videmus multos ca- huomini grossi e pazzi; et di qua è nato
rentes ingenio et prudentia salvare na- che molti sciocchi, et senza isperienza al-
vem in tempestate postquam nautae cum cuna del mare haveranno salvato una na-
omni arte sua desperant, et stultum mi- ve in gran tempesta all’hora che sarà sta-
litem salvare exercitum deductum ad ex- ta più combattuta da venti, et disperato
tremum discrimen et dare viam expu- dal governatore e dall’arte. E un pazzo
gnandi hostem quam rex cum omni con- soldato havera condotto un’essercito à
silio invenire non potuit. salvamento prima posto in estremo peri-
Tertio melancholici inter omnes alias colo da altri, et con esso vinto il nemico,
complexiones solent esse bene fortuna- dove un prudente e prattico Capitano
ti. Quarto agentes vitam solitariam et con tutta la prudenza et isperienza del
130 tommaso de robertis

simplices non dediti negotiis exteriori- mondo non havrebbe saputo fare ne l’u-
bus. Et horum ratio una est. Nam bene no ne l’altro giamai.
fortunato non sufficit pati naturales im- Appresso de i melanconici et di quelli
petus ad bonum consequendum (mo- che sono dati ad una vita semplice et so-
vens enim primum, ut motor totius na- litaria è una istessa ragione quella che
turae, causat huiusmodi impetus in mul- causa la buona fortuna loro, ne bastano
tis quos tamen non videmus bene fortu- i naturali impeti in un fortunato, ma con-
natos), sed necesse est ut percipiant, et viene che al dispetto della ragione lo dis-
acceptent, et disponant se operaturos se- pongano à far quelle cose ch’essi voglio-
cundum huiusmodi impetus, etiam quod no, et perché gli huomini grossi e melan-
ratio dictaret oppositum. Et quoniam conici ricevono questi impeti con più ga-
melancholici cum forti impressione reci- gliarda et forte impressione che non si
piunt huiusmodi impetus et illis vehe- ricerca alla ragione humana, et quelli che
menter intendunt ac inhaerent magis sono totalmente appartati da quest’ope-
quam rationi humane, similiter non de- re mondane et quegli altri anchora che
diti actionibus exterioribus carentes hu- mancano di prudenza et di giudicio, fan-
mana prudentia et solertia, agunt ut sen- no secondo sono inclinati et spinti. Per
tiunt se agi et impelli, ideo sequentes hos tanto questi tali mediante gli impeti so-
impetus inveniuntur benefortunati65. pradetti saranno per l’ordinario più for-
tunati de gli altri66.

Riproducendo questa sezione, Garimberti ripropone di fatto l’argomen-


to più originale del commento di Javelli, quello col quale, come abbiamo vi-
sto, il domenicano elabora una categorizzazione originale dei bene fortunati
sviluppando spunti ed esempi risalenti a una serie eterogenea di fonti, tanto
medievali quanto a lui contemporanee. Garimberti riprende pedissequamen-
te Javelli in questo passaggio: riproduce, traducendo spesso alla lettera, le me-
desime «sorti d’individui» («rudes et indociles» diventano «uomini grossi
d’intelletto», gli «insipientes» «pazzi», «agentes vitam solitariam et simplices
non dediti negotiis exterioribus» diventano «quelli che menano vita solita-
ria», e la categoria dei «melancholici» viene resa alla lettera con «melanconi-
ci»); accorpa poi queste categorie nello stesso modo (le prime due da un la-
to, e le seconde due dall’altro), riproducendo inoltre gli stessi esempi che Ja-
velli aveva offerto per ciascun gruppo di potenziali bene fortunati.
Al termine di questa breve analisi del primo libro del Della fortuna di
Garimberti, mi pare si possa concludere che l’aspetto più notevole di que-
st’opera non risieda nel suo essere, perlomeno in parte, una riproposizione
pedissequa dell’epitome di Javelli al Liber de bona fortuna – per Garimberti,
d’altronde, la scrittura aveva principalmente una funzione di consolidamen-
to sociale. Il punto semmai è che, proprio attraverso questa operazione let-
teraria, egli mette in circolazione la dottrina del Liber de bona fortuna, e con
essa l’interpretazione data da alcuni dei suoi più influenti commentatori, pres-

65 V. CORDONIER - T. DE ROBERTIS, Chrysostomus Javelli’s Epitome of Aristotle’s ‘Liber


de bona fortuna’, cit., pp. 198-202.
66 G. GARIMBERTI, Della fortuna libri sei, cit., f. 16r-v.
per una storia della ricezione del liber de bona fortuna 131

so un pubblico presumibilmente ampio e (almeno in parte) diverso da quel-


lo a cui i due testi erano originariamente destinati. La riscrittura in volgare
di Garimberti ripropone e dà risonanza (spesso inconsapevolmente) a una co-
stellazione ampia di fonti medievali e quattro-cinquecentesche, le quali ap-
prodano alle pagine del Della fortuna al termine di circoli talvolta bizzarri,
rivelando così un notevole grado di contaminazione di generi letterari, lin-
gua, approccio, e pubblico. È il caso, ad esempio, della categoria dei «rudes
et indociles» presentata da Javelli nel terzo capitolo dell’epitome; categoria
che, proveniente da un trattato extra-universitario in latino (il De fortuna di
Pontano), viene in seguito utilizzata in un commento universitario ad Aristo-
tele, anch’esso scritto in latino, per ricomparire infine in un testo in volgare,
quello di Garimberti, rivolto a un pubblico completamente diverso da quel-
lo per cui l’epitome di Javelli era stata concepita.
Questa breve incursione nei testi di Crisostomo Javelli e di Girolamo Ga-
rimberti mostra quanto la ricezione del Liber de bona fortuna nel Cinquecen-
to italiano fosse, per così dire, trasversale, veicolata cioè da scritti di natura
potenzialmente molto diversa fra loro, per approccio, lingua, e destinatario.
Si tratta di una ricezione assai più ampia di quanto si possa immaginare, una
ricezione resa possibile dal carattere unico di quest’opuscolo. Un’opera che,
aristotelica e insieme non aristotelica, fornisce accesso immediato a una spie-
gazione della fortuna al contempo rigorosamente filosofica e religiosamente
accettabile, e che trasmette un’immagine della fortuna alternativa rispetto a
quella medievale tradizionale – legata, come noto, al De consolatione philo-
sophiae di Boezio. Una ricezione che offre un esempio concreto di quanto i
confini tra ambiti spesso considerati separati e distinti fossero in realtà me-
no marcati di quanto si possa pensare.

TOMMASO DE ROBERTIS
FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI APRILE 2022
PER CONTO DI
EDITORIALE LE LETTERE
DALLA TIPOGRAFIA
BANDECCHI & VIVALDI
PONTEDERA (PI)

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