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LETTERATURA E FILOLOGIA

FRA SVIZZERA E ITALIA

I
Guglielmo Gorni all’Università di Pavia in un ritratto di Giovanni Giovannetti
STORIA E LETTERATURA
R A C C O LTA D I S T U D I E T E S T I

257

LETTERATURA E FILOLOGIA
FRA SVIZZERA E ITALIA
STUDI IN ONORE DI GUGLIELMO GORNI

a cura di
MARIA ANTONIETTA TERZOLI, ALBERTO ASOR ROSA, GIORGIO INGLESE

I
DANTE: LA COMMEDIA E ALTRO

ROMA 2010
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Prima edizione: aprile 2010
ISBN 978-88-6372-139-3

Volume pubblicato con il contributo di:

Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea

Dipartimento di Studi Filologici, Linguistici e Letterari


della Sapienza Università di Roma

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INDICE

Premessa di Maria Antonietta Terzoli, Alberto Asor Rosa, Giorgio Inglese ..........VII

ALBERTO ASOR ROSA


Guglielmo Gorni: dantista, italianista, intellettuale e maestro ................................ XI

Tabula gratulatoria .....................................................................................................XV

DANTE: LA COMMEDIA E ALTRO

ZYGMUNT G. BARANéSKI
«Valentissimo poeta e correggitore de’ poeti»: a first note on Horace
and the Vita nova .........................................................................................................3

TEODOLINDA BAROLINI
Saggio di un commento alle Rime di Dante: i sonetti dell’episodio
della donna gentile .....................................................................................................19

PAOLO FALZONE
«Sì come dice Alberto in quello libro che fa dello Intelletto». La citazione
dal De intellectu et intelligibili di Alberto Magno in Convivio III, VII, 3-4 ...........37

CESARE VASOLI
Bruno Nardi e il ‘restauro’ della filosofia di Dante ...................................................57

PIERO BOITANI
Poesia e poetica della creazione: Dante ......................................................................75

LINO PERTILE
Sul dolore nella Commedia .....................................................................................105

CLAUDIA VILLA
La protervia di Beatrice ............................................................................................121

MAURIZIO PALMA DI CESNOLA


L’ultima fatica ..........................................................................................................133
VI INDICE

SONIA GENTILI
La selva, gli alberi e il suicidio nell’Inferno di Dante: fonti e interpretazione ...... 149

GENNARO SASSO
Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana, e alcune altre questioni.................................165

SILVIA LONGHI
Reticenza, retorica astuta e retorica perversa tra le Malebolge e il Cocito ..............185

SIMONE ALBONICO
Un’interpretazione della struttura del Purgatorio ...................................................213

ROBERT HOLLANDER
Qualche appunto sull’Eden dantesco. Una lectura
di Purgatorio XXVIII e XXIX ................................................................................239

KARLHEINZ STIERLE
Virgilio in Paradiso. Cortesia e parlar coperto nella Commedia .............................257

GIORGIO INGLESE
Il ms. Phillipps 8881 (Ph) e lo ‘stemma’ della Commedia dantesca .......................275

FEDERICO SANGUINETI
Inferno XXX, 18......................................................................................................287

ANTONIO STÄUBLE
Ingegno, navicella, navigio: qualche problema di traduzione della Commedia
(e un’ipotesi) su Purg. XXVII, 130 e Par. II, 7-9 ....................................................295

ENRICO GHIDETTI
I romantici italiani e il culto di Dante .....................................................................303

SILVIA DE LAUDE
Auerbach, Spitzer e gli «appelli al lettore» nella Commedia ..................................327

Indice dei nomi e dei personaggi a cura di Monica Bianco ...................................349

Indice dei manoscritti a cura di Monica Bianco .....................................................363


SONIA GENTILI

LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO


DI DANTE: FONTI E INTERPRETAZIONE

Il canto XIII dell’Inferno è dominato da «un bosco / che da neun sentie-


ro era segnato», piuttosto simile alla «selva selvaggia ed aspra e forte» del
I canto.
Nel poema la selva esprime la condizione oscura – al senso esatto di que-
sta oscurità ci dedicheremo tra poco – del peccato1: in Inf. I fissa di questa
condizione l’immagine fondamentale; in Inf. XIII, ove concretizza il peccato
dei suicidi, e in Purg. XIV, ove le fiere che abitano la selvosa «fossa» dell’Ar-
no simboleggiano le lotte faziose di Toscana, si registra uno slittamento in
senso politico dell’immagine fondamentale: anche questo secondo punto
merita di essere approfondito.
Per chiarire i due punti in questione bisogna arricchire un po’ la glossa
corrente relativa alla selva esordiale.
Per concorde e secolare esegesi, la selva in cui Dante incontra le tre fiere,
detta «oscura» e impenetrabile, inoltre collocata in basso ed opposta al
colle della salvezza, è smarrimento nel buio del peccato ed allontanamento
dalla luce divina; ad illustrazione di ciò sono invocate immagini tratte dalla
Bibbia (ad esempio Ps 103, 20: «posuisti tenebras et facta est nox / in ipsa
moventur omnia bestiae silvae»). Qual è il senso della somiglianza tra la
selva dantesca e le selve bibliche? Cosa esprime, per Dante, la selva notturna
del salmista, e cosa significa esattamente, in Dante, la selva «oscura» ove «la
diritta via» è «smarrita»?
Per il lettore duecentesco l’immagine, variamente ricorrente nella
Bibbia, del peccato come spazio selvaggio e tenebroso, corso da bestie
feroci, risulta saldato al concetto di silva/materia2 contenuto nel Timeo

1
Tralascio qui integralmente i problemi relativi alla selva edenica del Paradiso. Basti ricor-
dare che questa «selva antica», antifrasi di quelle infernali e purgatoriali, esprime il momento
morale che le precede, e che ad esse si oppone: lo stato di innocenza del genere umano.
2
Per una storia del concetto platonico e poi aristotelico di materia cfr. H. Happ, Hyle.
Sudien zum aristotelischen Materie-Begriff, Berlin-New York, De Gruyter, 1971; C. Schäfer,
150 SONIA GENTILI

platonico e nel I libro della Fisica aristotelica. Calcidio, autore d’una par-
ziale versione del Timeo in latino e di un amplissimo commento al testo
timaico3 (IV sec. in., probabilmente 324/357)4, dedica alla silva una vera
monografia (capp. 268-355 del commento), risultante dalla combinazione
tra la nozione timaica e il luogo parallelo della Physica aristotelica5. La
silva diviene qui una vera e propria personificazione della materia indi-
stinta, impiegata per spiegare la creazione narrata nel Genesi; la saldatura
tra selve tenebrose della Scrittura e silva platonica è uno dei tanti casi di
‘riempimento’ della lettera biblica con concetti di filosofia greca, fenome-
no prodottosi non solo in sede esegetica, ma anche nella genesi di certi
testi scritturali6.
Già nel testo platonico le caratteristiche ontologiche della materia (l’es-
sere puro sostrato privo di determinazioni e distinzioni) sono dotate di una
venatura morale. La silva è per Platone inextricabilis e obscura, cioè incom-
prensibile all’intelletto, indefinibile ed ingannevole per la ragione umana,
dunque «frode avvolta da spesse tenebre», percepibile solo «come perce-

Platon-Lexicon. Begriffswörterbuch zu Platon und der platonischen Tradition, Darmstad,


Wissentschaftiliche Buchgesellschaft, 2007, pp. 194-197. L’unica menzione di questo elemento
in relazione a Dante è, a quanto mi consta, in D. Alighieri, Inferno, revisione del testo e com-
mento di G. Inglese, Roma, Carocci, 2007, nella chiosa ad Inf. I, 2 (p. 39). Da questa edizione
si cita, nel presente articolo, il testo della cantica.
3
Plato Latinus, Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus in societatem
operibus coniuncto P. J. Jensen edidit J. H. Waszink, London-Leiden ,Warburg Institut-E.
J. Brill, 1962.
4
Recepisco la datazione accolta da P. Dronke, The spell of Calcidius. Platonic concepts
and images in the medieval west, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2008, p. 6.
5
Su alcuni sviluppi calcidiani del concetto di silva vedi O’ Donnel, The Meaning of
“Silva” in the Commentary on ‘Timaeus’ of Plato by Calcidius, «Medieval Studies», VII
(1945), pp. 203-223; Dronke, The spell of Calcidius, pp. 25-30.
6
Per restare ai principi di cosmologia, il sincretismo tra anima mundi stoica e Dio
rientra nel nucleo scritturale dell’elaborazione teologica cristiana: nel discorso all’Areo-
pago di Atene, per farsi intendere dai greci gentili, Paolo di Tarso esprime il rapporto tra
l’uomo e il ‘divino’ (rendo così il neutro qei%on della Septuaginta proveniente dal lessico
speculativo ellenistico, corrispondente all’idea di divinità impersonale tipica del mondo
greco cui si oppose la divinità personale cristiana. Impiegando una formula che dice
appartenere ai poeti pagani (Act. 17, 28: «Stans Paulum in medio Areopagi ait: “Viri
athenienses (…) quaerere deum si forte adtractent, eum aut inveniant quamvis non longe
sit ab unoquoque nostrum. In ipso enim vivimus et movemur et sumus sicut et quidam
vestrum poetarum dixerunt”»), l’Apostolo inserisce la potenza vivificatrice dell’anima
mundi stoica, il muovere, tra i due attributi biblici del Dio cristiano, la vita e l’essere. Cfr.
su ciò S. Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma, Carocci,
2005, pp. 91-93.
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 151

piscono quelli che sognano»7. Il nesso tra elemento ontologico (l’assenza di


forme), morale (la perdita di distinzione tra bene e male), e simbolico (la
selva, l’oscurità, l’intrico) si stringe nel cammino secolare che da Calcidio
conduce all’aristotelismo platonizzato dei grandi scolastici8; ne risulta una
silva tenebris involuta ed inextricabilis in cui il buio, la confusione e l’intrico
sono immagine dell’universo fisico, della dimensione terrena e della con-
fusione morale. Ciò restituisce un senso preciso ai versi 2-3 di Inf. I, con-
fermando la lettura recentemente proposta da Giorgio Inglese9: una selva
«oscura», nella quale si perde ogni principio di distinzione, visiva e morale
(la selva «oscura / che [scil. ‘in cui’ e non ‘poiché’ come nella spiegazione
tradizionale che ripete il «quia» banalizzante di Benvenuto] la diritta via
era smarrita»). D’altronde la Commedia è dominata da una concezione del
peccato platonico-agostiniana in cui elemento ontologico, elemento fisiono-
mico ed elemento morale coincidono: l’uomo, creato ad immagine di Dio,
peccando sfigura se stesso, cioè si pone «in regione dissimilitudinis» rispetto

7
Plato Latinus, Timaeus, a Calcidio translatus commentarioque instructus, p. 46, l.
16-18; p. 50, l. 19-25): «(…) nunc impositura nobis necessitatem ratio videtur ire obviam
manumque conserere adversum inexpugnabilem omni ratione et omni eloquio fraudem
crassis tenebris involutam (…). Denique cum id animo intuemur, patimur quod somnian-
tes: putamus enim necesse esse, ut omne quod est in aliquo sit loco positum regionemque
obtineat ullam, porro quod neque in terra neque in caelo sit minime existere. Ob quam
depravationem itemque alias consanguineas ne in reputatione quidem et consideratione
vere existentis vereque pervigilis naturae mente consistimus propter huiusmodi somnia, cum
ne imaginari quidem ullam huius lubricae speciem formamque valeamus». Così commenta
Calcidio (ibidem, cap. 345, p. 337, l. 5-7 e 10-23): «silva indefinita res est, utpote informis
et figura carens iuxta naturam suam; minime igitur cum sensu eius fit imaginatio, sine sensu
igitur. (…) Itaque sensus quidem specierum in silva constitutarum clarus est, ipsius autem
silvae, quae speciebus subiacet, obscurus et consensus potius quam sensus est. Ergo quia
silvestria quidem sentiuntur, silva vero minime sentitur natura propria, sed propter silvestria
cum isdem sentiri putatur, fit huius modi sensus incertus, praeclareque dictum silvam sine
sensu tangentium tangi, quia puro sensu minime sentiatur, ut si quis dicat tenebras quoque
sine sensu videri. Non enim perinde sentit visus hominis tenebras intuentis ut cum solet
intueri res coloratas dilucidasque, sed contraria passione et amissione atque indigentia eorum
omnium que oculi vident – sunt enim tenebrae decolores et sine claritudinis illustratione –,
nec potest visus comprehendere aliquam qualitatem tenebrarum, sed suspicari quod non sit
potius quam quid rerum sit, nihilque videns id ipsum sibi videtur videre quod non videt et
videre se aliquid putat».
8
Sulla fortuna medioevale dell’opera platonica di Calcidio, oltre al citato Dronke,
The spell of Calcidius, vedi Le ‘Timée’ de Platon: contributions à l’histoire de sa réception,
edité par A. Neschke-Hentschke, Louvain-la-Neuve, Institut Supérieur de Philosophie,
2000.
9
Alighieri, Inferno, p. 39.
152 SONIA GENTILI

al modello divino; a questo cardine teologico va riportato il motivo della


deformazione della fisionomia umana così costante nell’inferno dantesco10.
Già nel testo platonico la definizione della materia come selva tenebrosa
e intricata, che sul piano concettuale vuole indicare la natura indistinta di
una massa priva di forma, trascolora in immagine: tra i due termini pare
stabilirsi una relazione di ordine simbolico. Il meccanismo ermeneutico che
spinge la definizione nel territorio del simbolo – il più complesso, forse, che
il testo platonico generi nel lettore – assorbe e risolve, nel Medioevo, il nesso
tra il concetto di materia e quello di silva: gli autori dei testi su cui Dante si
formò e fondò il mondo della Commedia riconoscono tra questi due termini
una relazione sostanzialmente simbolica. Secondo Isidoro di Siviglia la silva
è una immagine che i poeti – non i filosofi – impiegarono per indicare tran-
suptive la materia – non per tradurre il greco u$lh-:
Ylen Graeci rerum quandam primam materiam dicunt, nullo prorsus modo
formatam, sed omnium corporalium formarum capacem, ex qua visibilia haec ele-
menta formata sunt; unde et ex eius derivatione vocabulum acceperunt. Hanc u$lhn
Latini materiam appellaverunt, ideo quia omne informe, une aliquid faciendum
est, semper materia nuncupatur. Proinde et eam poetae silvam nominaverunt, nec
incongrue, quia materiae silvarum sunt11.
La notizia secondo cui poeti antichi impiegarono metaforicamente l’im-
magine della selva per indicare la materia, contenuta in un testo di base
come l’enciclopedia isidoriana, dovette esser presente a Dante sin dalla sua
prima formazione. Ma a quali autori, a quali testi poetici si riferisce Isidoro?
Quali modelli – non biblici, non patristici, ma poetici – Isidoro sta qui indi-
cando a Dante e ai suoi contemporanei? Il luogo isidoriano ripete la chiosa
di Servio ad Aen. VIII, 601, dedicata ad un bosco sacro collocato lungo gli

Bisogna aggiungere che la concezione del peccato come sfiguramento dello spirito e
10

sprofondamento nella materia è presente, in certa cultura patristica direttamente messa a


frutto da Dante, anche nelle sue radici stoiche, poiché l’idea che gli spiriti dei defunti con-
servino tracce delle passioni – cioè, cristianamente, dei peccati – di cui furono vittime sotto
forma di vere e proprie macule o incrostazioni di materia è parte della lezione sullo stato
delle anime nell’aldilà impartita da Anchise ad Enea in Aen. VI: in altri termini quest’idea
è parte della lezione sulle pene infernali impartita dall’Eneide all’occidente medioevale. Su
questo vedi S. Gentili, «Quindi parliamo, quindi ridiam noi»: piacere e dolore delle anime in
Purg. XXV, in Piacere e dolore. Materiali per una storia delle passioni nel Medioevo, Atti del
convegno. Pavia, 7-8 ottobre 2005, a cura di C. Casagrande – S. Vecchio, Firenze, SISMEL-
Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 149-169.
11
Isidoro di Siviglia, Etymologiae sive Origines, a cura di A. Valastro Canale, vol. II,
Torino, Utet, 2004, p. 113 (cap. XIII, 3).
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 153

argini d’un fiume e alle pendici d’un colle12: scenario piuttosto simile a quel-
lo che apre la Commedia. Comunque, al tempo di Dante la denominazione
silva nel senso di ‘materia’ è detta transumptiva ed addebitata a Platone
anche in sede di commento al testo aristotelico13.
Veniamo ora alla selva dei suicidi, ed al complesso slittamento in direzio-
ne politica dei generali significati visti in relazione alla selva esordiale.
L’impenetrabilità e l’assenza di uomini, espresse per cenni in Inf. I
(«piaggia diserta» e luogo «ove ’l sol tace», vv. 29 e 60), in Inf. XIII si con-
cretizzano in analogia con luoghi familiari:
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti
(Inf. XIII, 4-9).
Si tratta d’una selva più inospitale della zona maremmana compresa tra
Cecina e il fiume Corneto: non segnata da alcun sentiero, invasa da sterpi,

12
Si tratta del bosco sacro dei pelasgi, abitatori prelatini della zona di Ceri, del quale
legge in Aen. VIII, 597-601: «Est ingens gelidum lucus prope Caeritis amnem, / religione
patrum late sacer; undique colles / inclusere cavi et nigra nemus abiete cingunt. / Silvano
fama est veteres sacrasse Pelasgos, / arvorum pecorisque deo, lucumque diemque». A pro-
posito del dio Silvano cui era stato consacrato il bosco, Servio spiega (Aeneidos librorum
commentarii recensuerunt G. Thilo e H. Hagen, vol. II, Leipzig, Teubner, 1884, p. 282, ad v.
601): «prudentiores tamen dicunt esse eum u|likoèn qeoèn, hoc est deum u$lhv. u$lh autem est
faex omnium elementuorum, id est ignis sordidior et aer, item aqua et terra sordidior, unde
cuncta procreantur: quam u$lhn Latini materia appellaverunt; nec incongrue, cum materiae
silvarum sint. Ergo quod Greci a toto, hoc latini a parte dixerunt».
13
Così, ripetendo Calcidio (Plato Latinus, Timaeus a Calcidio translatus commentarioque
instructus, p. 273, 15-16 e 309, 3 e 310, 11-12), Alberto Magno (Alberti Magni Super Physicam
edidit W. Kübel, in Eiusd. Opera omnia curavit Institutum Alberti Magni Coloniense, vol. IV,
t. I, Münster, Aschendorff, 1987, pp. 60. l. 61-66; 61 l. 23-27: «Hoc autem principium, quod
est materia, multa habet nomina, quorum quaedam sunt propria et quaedam per translatio-
nem conveniunt ei. Nomina autem, quibus nominatur proprie, sunt hyle, subiectum, massa,
materia, origo et elementum. Nomina autem, quibus nominatur transumptive, sunt silva,
mater, femina. (…) Silva autem rationem reddunt expositores Platonis sic, quod silva dicitur,
secundum quod ipsa est prima et indeterminata per dispositiones quasi dolabilis in omne edi-
ficium naturale. (…) Et hoc modo Platonici omnium esse materiam unam, sicut silva est una,
ex qua est omne aedificium (...). Et hoc est nomen, quod inter transumptiva nomina magis
competit ei, quia, sicut supra ostendimus, materia continet in se omnes formas tamquam in
potentia habituali».
154 SONIA GENTILI

e rifugio delle fiere che hanno in odio i coltivi. Dante sembra ripetere la
descrizione tecnica del bosco silvaticus, distinto da quello domesticus (rego-
lato dalla società umana e reso funzionale a essa) proprio dalla presenza di
stirpes (gli «sterpi» del v. 7) la cui addensatio (cioè il loro esser «folti», v. 7) e
succretio, l’eccessivo infittirsi delle sterpaglie a terra, comporta l’impedimen-
to del passaggio umano (implicato dal v. 3)14. I boschi selvatici divengono,
a causa della succretio stirpum, luoghi «vastae solitudinis in quibus caterva
bestiarum germinat»15. La selva dei suicidi ripete questa descrizione antica
e ricorrente, arricchita dell’esplicito contrasto col bosco domesticus: essa è
antifrasi dei «luoghi cólti».
Ora l’immagine medioevale del bosco silvaticus opposto a quello dome-
sticus conosce un impiego simbolico nelle interpretazioni coeve dell’Etica
Nicomachea, testo dal quale Dante trae esplicitamente la classificazione dei
peccati infernali (Inf. XI, 79 e sgg.).
Uno dei più notevoli mutamenti culturali prodotti dalla riscoperta
occidentale della Nicomachea discende dal fatto che, mentre la concezione
cristiana del peccato è centrata sull’individuo e sul suo rapporto con Dio, la
concezione aristotelica del vizio è sostanzialmente politica: le conseguenze
più gravi di esso sono tali perché ricadono sulla polis e ne indeboliscono

14
Nel par. 36 del Capitulare de villis (in Monumenta Germaniae Historica, Leges,
Capitularia regum Francorum, vol. I, 1883, pp. 82-91: 86) elemento di governo della silva
vel foresta, la quale è appendice e risorsa produttiva del consorzio umano, è la periodica
eliminazione degli stirpes che impediscono il passaggio («Ut silvae vel forestae nostrae bene
sint custoditae; et ubi locus fuerit ad stirpandos, stirpare faciant ut campos de silva increscere
non permittant»); la «silva quae stirpibus densata succreverat» compare in Oddone di Cluny
(Vita Geraldi, in PL 133, col. 655). Queste fonti, insieme al significato di stirpes e stirpare,
sono discusse in M. Montanari, La foresta come spazio economico e culturale, in Uomo e spazio
nell’Alto Medioevo, Atti della L Settimana di Studio. Spoleto, 4-8 aprile 2002, Spoleto, Centro
italiano di studi sull’alto Medioevo, 2003, pp. 301-340: 313, nota 46; sull’opposizione medie-
vale tra bosco selvatico e bosco domestico vedi J. L. Gaulin, Tra “silvaticus” et “domesticus”:
il bosco nella trattatistica medievale, in Il bosco nel medioevo, a cura di B. Andreolli – M.
Montanari, Bologna, CLUEB, 1988, pp. 83-96; C. Wicham, European forests in the Early
Middle Ages: landscape and land clearance, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Atti
della XXXVII Settimana di Studio, Spoleto, 30 marzo-5 aprile 1989, Spoleto, Centro italiano
di studi sull’alto Medioevo, 1990, pp. 479-545; J. Martin, L’éspace cultivé, in Uomo e spazio,
pp. 239-297.
15
È una delle più antiche definizioni di foresta, tratta da un diploma di Sigeberto
III del 648, citato in C. Petit-Dutaillis, La signification du mot “forêt” à l’époque franque,
«Bibliothèque de l’Ecole de Chartes», LXXVI (1915), pp. 97-152: 114; sulla questione
cfr. anche C. Higounet, Les forêts de l’Europe occidentale, in Agricoltura e mondo rurale in
Occidente nell’Alto Medioevo, Atti della XIII Settimana di Studio. Spoleto, 22-28 aprile 1965,
Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1966, pp. 343-398: 375-376.
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 155

l’ordine sociale. Aristotele scrive che la giustizia, cioè il rispetto delle leggi,
permette alla città-stato di prosperare; l’ingiustizia, o infrazione delle leggi,
determina la rottura dei rapporti di reciproca cooperazione che garanti-
scono il bene comune, e dunque la graduale decadenza della città. Nelle
rielaborazioni medioevali della Nicomachea l’opera del Filosofo subisce una
ricontestualizzazione storica: il vizio si sovrappone al peccato cristiano, la
polis alla realtà cittadina dei secoli XII-XIV. Così, il tema aristotelico della
decadenza della società urbana (che ovviamente per Aristotele si identifica
con lo stato) prodotta dai vizi dei cittadini si sovrappone alla drammatica
esperienza altomedioevale per cui «la campagna vinse sulla città»16, e la
selva diviene immagine di un mondo antipolitico, opposto ai luoghi della
vita associata. Ecco come questi temi sono espressi in un fortunatissimo
volgarizzamento duecentesco della Nicomachea, che Dante conosce assai
bene e cita esplicitamente in Convivio I, X, 1017:
Lo vigore dell’aguagliança sta fermo per lo osservamento delle leggi della città,
e le cittadi>ni< crescono per lo osservamento delli cittadini della città e abitatori.
E li abitatori delli campi creschono simigliantemente, e gli abitatori della città e lle
culture de’ campi sì crescono simigliantemente. §[7] E per le ingiurie le quali si
fanno nelle cittadi adiviene tucto il contrario, e a l’ultimo sì tornano a diserto e a
bosco18.

16
Sono le parole con cui Santo Mazzarino sintetizzò, in un saggio di insuperata pro-
fondità, la crisi sociale ed economica che caratterizza l’alba del Medioevo (S. Mazzarino, Si
può parlare di rivoluzione sociale alla fine del mondo antico?, in Il passaggio dall’antichità al
Medioevo in Occidente, Atti della IX Settimana di Studio. Spoleto, 6-12 aprile 1961, Spoleto,
Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1962, pp. 411-425: 425).
17
Sul volgarizzamento duecentesco, traduzione d’una epitome dell’Etica vòlta dall’arabo
in latino da Ermanno Alamanno, e poi da Taddeo Alderotti in lingua toscana, sulla natura
del ms. da cui trascrivo, citato nella nota successiva, e sul senso della menzione dantesca vedi
Gentili, L’uomo aristotelico, capp. I e IV, e Ead., L’‘Etica’ volgarizzata da Taddeo Alderotti (m.
1295). Saggio di commento, «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medioevale», XVII
(2005), pp. 249-281. Il testo arabo della Nicomachea, corredato d’un nuovo studio di materiali
all’origine del volgarizzamento in oggetto (The Arabic Version of the Nicomachean Ethics, edi-
ted by A. Akasoy – A. Fidora, annotaded translation by D. M. Dunlop, Leiden-Boston, Brill,
2005), comparsi nello stesso anno dei miei contributi, indicano una coincidenza strutturale
tra versioni arabe e testo alderottiano (divisione in 12 libri preceduti da un prologo generale
all’opera) conservata nel mio manoscritto base ma caduca nel resto della tradizione e tenden-
zialmente persa nei testi romanzi che ne discendono: una ulteriore conferma del ruolo di testo
base che la versione alderottiana svolse nella cultura enciclopedica e letteraria dell’epoca.
18
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. II. iv. 274, f. 30ra. Il passo dipende da
Ethica Nicomachea 32 b 31-33 («In communicationibus quidem commutativis continet tale
iustum contrapassum secundum proportionalitatem et non secundum aequalitatem. In contra-
facere enim proportionale commanet civitas»; cito da Aristoteles Latinus, Ethica Nicomachea,
156 SONIA GENTILI

L’opposizione è quella implicata nella descrizione della selva dei suicidi:


i «luoghi cólti» – nel nostro volgarizzamento la «coltura de’ campi» – attri-
buto ‘curtense’ della città prospera, opposti al «diserto e bosco», che può
vincere sullo spazio fisico, istituzionale e morale dello stato in decadenza19.
La coincidenza di immagini è significativa? Quale nesso può unire una
selva ‘antipolitica’ al suicidio, che è, per antonomasia, un gesto rivolto con-
tro se stessi? Per scoprirlo dobbiamo seguire il consiglio rivolto da Virgilio
a Dante nel canto XI dell’Inferno e tornare a ciò che «la sua Etica pertratta»
a proposito di questo vizio. Attraverso questa lente bisogna poi leggere il
caso del suicida più illustre della selva, il funzionario imperiale Pier delle
Vigne. Fondandosi esplicitamente sulla Nicomachea, in Inf. XI, 43 Virgilio
afferma che il suicida pecca in quanto «priva sé del (…) mondo». In verità
nel capitolo 14 del V libro della Nicomachea, dedicato all’ingiustizia contro
se stessi, si afferma il principio esattamente opposto:

translatio Roberti Grosseteste Lincolniensis, textus purus edidit R. A Gauthier, vol. XXVI,
fasc. 3, Leiden, Brill, 1972, d’ora in poi = Eth. Nic.) ma ne costituisce una rielaborazione
ampliata, il cui dettato appare ridondante e non del tutto chiaro. Tracce di amplificazione del
passo a detrimento del senso sono già nella versione araba della Nicomachea (Arabic Version
of the Nicomachean Ethics, p. 311), dal cui ambito, come si è accennato, il nostro volgarizza-
mento discende. Un ampliamento simile è in Alberto Magno (Alberti Magni Super Ethicam.
Commentum et Quaestiones edidit W. Kübel, in Eiusd. Opera omnia curavit Institutum Alberti
Magni Coloniense, vol. XIV, t. I, Münster, Aschendorff, 1987, pp. 342, ll. 62-63 – 343, ll.: «Aut
igitur iustitia facet sibi contrafieri, et sic habetur propositum, aut non, et tunc coget ipsum
operari et sic reducet eum in servitutem, quod non est iustum, aut non coget, et sic ille non
operabitur, non reportans ex opere, quod bene quaerit, et sic destruitur civilitas, quae sine tali
operatione non potest esse. Si autem non bene quaerit, sed male, ergo non erit sibi facienda
retributio; sed propter retributiones operum commanent et operationes artificum et civilitates,
quae his indigent; ergo iterum non commanebit civilitas, quod est inconveniens in civilibus».
19
L’immagine della distruzione del tessuto etico e giuridico collettivo ricorre anche
nei commenti medioevali alla Nicomachea: il tema degli «homines silvestres», cioè di uno
stadio di vita presociale, radicalmente estraneo al «bonum civile», si sviluppa ad esempio
nella glossa albertina (Alberti Magni Super Ethica, t. I, p. 16, ll. 51-56) ad Eth. Nic. 95 a 15
(quale tipo di felicità costituisca il fine della politica, e se essa sia innata nell’uomo). Alberto
cita come locus parallelus al testo aristotelico il passo ciceroniano in cui si colloca la nascita
della retorica e dell’oratoria nel passaggio dallo stato silvestris a quello politicus, identificato
appunto nella urbium constitutio, il cui mantenimento è garantito dalla giustizia (De inv. I,
I, 2). L’opposizione medioevale tra spazio ‘civile’ e zone silvestres riformula infatti una frat-
tura tradizionale e ben tematizzata nella letteratura classica latina (cfr. su ciò A. Giardina,
Allevamento ed economia della selva in Italia meridionale: trasformazioni e continuità, in
Società romana e produzione schiavistca, vol. I. L’Italia: insediamenti e forme economiche, a
cura di A. Giardina e A. Schiavone, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 87-113).
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 157

Utrum autem contigit sibi ipsi iniustum facere vel non, manifestum ex hiis que
dicta sunt. Qui autem (…) se ipsum occidit, volens hoc operatur preter rectam
legem operatur (…). Iniustum facit ergo. Set cui? Vel civitati? Sibi ipsi autem, non.
Volens enim patitur; iniustum patitur autem nullum, volens. Propter quod et civitas
dampnificat et quaedam inhoracio adest se ipsum corrompenti, ut civitati iniustum
facienti. Adhuc secundum quod iniustus solum iniustum faciens et non totaliter
pravus, non est iniustum facere sibi ipsi. Est enim aliqualiter iniustus20.
Aristotele aveva già spiegato (36 b 10) che non si può subire ingiustizia
volontariamente poiché ciò che è volontario non può essere subito: azione
volontaria ed azione patita si contraddicono e quindi si escludono. Da ciò
discende la confutazione dell’endoxon per cui il suicidio è ingiustizia rivolta
contro se stessi: questo atto non danneggia il suicida, che realizza la sua
volontà, ma la polis, privata così di un cittadino. Aristotele dice dunque
non che il suicida «priva sé del (…) mondo», ma l’esatto contrario, cioè che
priva il mondo di se stesso: nella parafrasi di Alberto Magno, «qui interficit
se (…) subtrahit unum de illis quibus integratur virtus communitatis»21.
Quest’idea, ispirata ad un’etica rigidamente razionalistica e coerente
con la concezione aristotelica del vizio come danno politico, è però incom-
patibile con la concezione cristiana del peccato, lesivo del soggetto che lo
compie e di Dio; infatti Alberto Magno, che abbiamo visto parafrasare la
conclusione aristotelica senza aggiungervi uno iota, stacca poi risolutamente
la corretta soluzione del problema da quella del Filosofo spiegando che i
peccati «in actibus privatis» ledono sempre l’individuo e Dio, solo talvolta
la comunità22. La stessa tecnica di rettifica – riferire la conclusione aristote-
lica ed affiancarvi poi, per correggerla, la propria conclusione cristiana – è

20
Eth. Nic. 38 a 20.
21
Alberti Magni Super Ethica, t. I, p. 385, ll. 26-40: «Solutio: dicendum quod bonum
civitatis potest dupliciter considerari: aut secundum quod est distributum in singulis partibus
civitatis, et sic non contingit facere iniuriam civitati, nisi inquantum fit iniustum alicui de
civitate. Aut secundum quod consistit in quodam actu, qui est ipsius communitatis et ex vir-
tute communitatis, sicut devincere exercitum tyranni invadentis rem publicam et hiusmodi
quae unus per se non potest, et ideo qui diminuit virtutem communitatis in talibus actibus,
per se facit iniuriam civitati. Et sic est de illo qui interficit se, qui subtrahit unum de illis
quibus integratur virtus communitatis, et quia hoc non est praeter voluntatem suam, quod
est de ratione iniustum pati, ideo ipse non patitur iniustum in hoc, se civitas, contra cuius
voluntatem fit».
22
Alberti Magni Super Ethica, t. I, p. 385, ll. 48-51: «Ad tertium dicendum, quod quae-
dam peccata sunt in actibus privatis, quae nullum ordinem habent ad communitatem, et in
talibus nulla fit iniuria communitati».
158 SONIA GENTILI

impiegata da Tommaso d’Aquino: il suicida «iniuriam facit communitati»23


e ingiuria l’immagine divina che ognuno in se stesso reca; tuttavia, visto
che «aliquis potest esse civis bonus, qui non est vir bonus», la qualità
morale del soggetto è determinata non dall’aspetto politico ma da quello
individuale24.
Insomma, i teologi continuatori del sistema penale aristotelico man-
tengono l’idea che il suicidio è ingiuria allo stato, ma la completano e la
correggono affiancandovi quella cristiana che concepisce il suicidio come
ingiuria a se stessi e a Dio. La soluzione dantesca è diversa da quella
albertina e tomasiana, poiché consiste nel ribaltamento dell’affermazione
del Filosofo: il suicida non priva il mondo di sé, come insegna Aristotele,
ma «priva sé (…) del mondo». Il verso Inf. XI, 43 si offre al lettore come
esplicita citazione della Nicomachea, e ne costituisce invece una mistifica-
zione: la relazione politica tra suicida e società, tracciata da Aristotele, vi
è mantenuta, e tuttavia il fuoco del ragionamento non è più lo stato, ma
l’individuo. La soluzione dantesca mistifica dunque la fonte aristotelica
mentre quelle teologiche correnti (Alberto Magno, Tommaso d’Aquino),
correggono Aristotele senza manometterne la lettera? Non è così: il ribal-
tamento dantesco nasce dal testo aristotelico, nel quale all’esilio della con-
traddizione dal regno della volontà-ragione segue una possibilità di rientro
con vendetta per l’esiliata. Ecco infatti come continua il passo di Eth. Nic.
38 a 20 relativo al suicidio:
Secundum metaphoram autem et similitudinem est non ipsi ad ipsum iustum,
set eorum que ipsius aliquibus, non omne autem iustum, set dominativum vel
dispensativum. In hiis sermonibus distinta enim est racionem habens par anime,
ad irracionalem; in que utique respiciunt, et videtur esse iniusticia ad se ipsum,
quotiam in hiis est pati aliquid preter ipsius suis appetitus. Quemadmodum igitur
imperanti et imperato esse ad invicem iustum aliquod, et hiis.
Il razionalismo aristotelico traccia da sé i propri limiti; nel dominio della
morale, il limite sta nel fatto che la volontà non è solo propria dell’anima
razionale, ma anche di quella sensitiva. L’autocontraddizione è possibile,

Thomae Aquinatis Secunda Secundae Summae Theologicae cura et studio Fratrum


23

Praedicatorum, in Eiusd. Opera omnia iussu Leonis XIII edita, vol. IX, Roma, Tipografia
Poliglotta, 1907, q. 64, art. 5: «seipsum occidere est omnino illicitum triplici ratione. Primo
quidem, quia naturaliter quaelibet res seipsam amat (...). Secundo, quia quaelibet pars id
quod est, est totius (...), unde in hoc quod seipsum interficit, iniuriam communitati facit (...).
Tertio, quia vita est quoddam donum divinitus homini attributum».
24
Thomae Aquinatis Sententia libri Ethicorum edidit R. A. Gauthier, in Eiusd. Opera
omnia iussu Leonis XIII edita, vol. XLVII, t. I, Roma, Ad Sanctae Sabinae, 1969, li. 5, lect. 3.
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 159

dunque, poiché può dunque determinarsi come contraddizione tra due


parti dell’individuo: la razionale e l’irrazionale. Per spiegare il modo in cui
tale conflitto si determina il Filosofo ricorre ad una similitudine – tra le due
parti esiste una relazione simile a quella che unisce ed oppone colui che
comanda a colui che è comandato25 – già espressa in Eth. Nic. 19 a 34-b 16
ed oggetto di opposte interpretazioni nel dibattito medioevale sul rapporto
tra razionalità e passione26.
Pier delle Vigne, il principale protagonista di Inf XIII, incarna i due
punti forti del testo aristotelico: la natura politica del peccato di suicidio, e
la sostanza autocontraddittoria di questo atto.
Uomo di grande virtù politica (alto funzionario imperiale, e dunque,
per Dante, figura massimamente dedita al bene comune) accusato ingiu-
stamente di tradimento, Piero reagisce con un atto non più guidato dalla
giustizia che ne aveva connotato l’operato politico, ma da quella superbia o
disdegno che spesso caratterizza, nella Commedia, i magnanimi protagonisti
della contemporaneità dantesca, colpevoli tuttavia di non essersi sottratti
al degrado morale delle lotte per il potere. Piero narra il proprio suicidio
in una difficile terzina, ove le parole si fanno eco in un misterioso gioco di
antitesi e identità (disdegnoso = disdegno; giusto ≠ ingiusto)
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Il recente commento alla cantica prodotto da Giorgio Inglese non si
distacca dalla chiosa tradizionale nella spiegazione dell’ultimo verso («[il
mio animo] mi rese l’iniquo carnefice dell’innocente che ero stato fino a
quel momento»); invoca inoltre luoghi paralleli di Paolo Orosio (per il gioco

25
È piuttosto interessante il fatto che Alberto Magno sottolinea il valore simbolico
dell’immagine, distinguendo tra un uso simbolico ‘forte’, detto metafora, ed uno ‘debole’,
definito similitudine (Alberti Magni Super Ethica, t. I, p. 389, ll. 12-20: «Dicendum ad pri-
mum [scil. Quod secundum ordinem potentiarum animae non possit attendi aliquod iustum,
quia iustitia est circa operationes; sed operationes sumt individuorum et non potentiarum;
ergo non contingit secundum potentias esse aliquod iustum], quod quamvis operationes non
sint simpliciter potentiarum, sed individuorum, tamen potentiae sint principia operationum,
et ideo aliquo modo est iustum in ordine ipsarum et non simpliciter. Et in quantum operatio
refertur ad potentias sicut ad principium, dicitur hoc iustum secundum similitudinem; in
quantum vero referur ad supposita, sicut quorum proprie est, dicitur secundum metapho-
ram, quae est remota similitudo»).
26
Si tratta di un elemento centrale nel dibattito sull’amore, la cui interpretazione oppose
tra gli altri Dante e Cavalcanti; per un esame approfondito della questione vedi S. Gentili,
L’uomo aristotelico, cap. VI.
160 SONIA GENTILI

di parole giusto/ingiusto del v. 69) e Agostino (per il tipo di suicidio causato


da accusa ingiusta). Se tuttavia il caso del suicida Piero va letto, come Dante
stesso invita a fare, attaverso la trattazione di questo vizio contenuta nella
Nicomachea, sarà facile riconoscere qui, nel passo prima analizzato, la fonte
dell’«antitesi in chiasmo (ingiusto-me-me giusto)»27: gli aggettivi iuniustum/
iustum ricorrono in 10 righe rispettivamente 8 e 4 volte, in formule («iniu-
stus solum iniustum faciens et non totaliter pravus, non est iniustum facere
sibi ipsi»; «ipsi ad ipsum iustum») che, come s’è già spiegato, vogliono
drammatizzare la contraddizione tra ‘parti’ dell’individuo, come apppunto
fa Dante nel verso in questione.
Esattamente come nel passo della Nicomachea, l’antitesi dantesca pone
l’individuo interiormente ‘diviso’ in relazione alla propria comunità: e
dunque egli è, nell’atto del suicidio, ingiusto non verso il proprio essere
innocente, ma verso il proprio abito di giustizia politica. Il senso del v. 72
sarebbe, sulla base di quanto detto: ‘[il mio animo] mi fece compiere ingiu-
stizia contro il mio esser giusto, contro la virtù di giustizia concretizzata,
fino ad allora, dal mio ufficio civile’. Piero cancella il suo abito di giustizia,
divenendo ingiusto verso la comunità che aveva sino ad allora servito; egli
ingiuria lo stato come hanno fatto, accusandolo ingiustamente di tradimen-
to e sottraendo alla comunità un magistrato utile, i suoi detrattori.
Il passo della Nicomachea che abbiamo analizzato apre un ulteriore
problema: nel momento stesso in cui il principio di non contraddizione
è impiegato per garantire la libertà dell’azione volontaria (se collocata nel
dominio della razionalità), la contraddizione scivola nella frattura, direi
nell’interstizio che separa ed oppone le due parti dell’individuo. Si apre così
la via che dall’etica conduce alla logica, contradditoria o no, dell’azione: non
a caso una vera e propria appendice al problema del suicidio è contenuta nel
passo della Metaphysica relativo al principio di non contraddizione.
Secondo il Filosofo il principio di non contraddizione28, assiomatico e
indimostrabile discorsivamente, è invece agito, e quindi provato, sul piano

27
Alighieri, Inferno, p. 162.
28
Aristoteles Latinus, Metaphysica lib. I-XIV, translatio anonyma sive «media» edidit G.
Vuillemin-Diem, vol. XXV, fasc. 2, Leiden-New York-Köln, Brill, 1995, 05 b 19-06 a 18, pp.
66-67 e sgg.: «Idem enim simul inesse et non inesse eidem et secundum idem est impossibile.
(...) Impossibile namque suscipere quemlibet idem esse et non esse (...) Sunt autem quidam qui,
ut diximus, dicebant contingere idem esse et non esse et existimare ita. Utuntur autem ratione
hac multi in eis quae sunt de natura. Nos autem nunc accepimus quasi impossibili existente
simul esse et non esse, et per hoc ostendimus, quia firmissimum id principium omnium est.
Dignantur autem et hoc demonstrare quidam propter apedeipsiam. Est enim apedeipsia non
cognoscere, quorum oportet quaerere demonstrationem et quorum non oportet. Omnium
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 161

morale: uomini ed animali, per naturale istinto di autoconservazione, non


contraddicono la propria vita ricercando ciò può comprometterla. La lezione
aristotelica relativa alla dimensione etica del principio di non contraddizione,
un po’ lontana dalla nostra sensibilità di moderni, nella Commedia sorregge
la serrata argomentazione del diavolo, notoriamente loico a parer di Dante:
assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contraddizion che nol consente
(Inf. XXVII, 118-120).
Concludendo il ragionamento sull’evidenza etica del principio di non
contraddizione, Aristotele nota che il suicida distrugge la propria natura
umana, cioè la contraddice; non essendovi in lui più ombra né di senso né
di ragione, egli non si distingue in nulla da una pianta:
Simul autem ea et non-ea dicit. Si autem nihil suscipit, sed similiter aestimat et
non aestimat, quid differenter habet a plantis? Quare namque vadit domum et non
acquiescit putans ire? Nec forsan recte vadit viam ad puteum aut torrentem, sed
videns eum timens est, quia non similiter putans non bonum esse incidere et bonum
(...). Non enim ex aequali omnia quaerit et suscepit, quando puntans melius aquam
bibere et hominem videre, deinde ea quaerit; et equidem oportet, si idem esset
similiter et homo et non-homo. Sed quod dictum est, nullus est qui non videtur hoc
quidem timens, illa vero non (Metaph., transl. media, 06 b 00)29.
Ecco perché in Inf. XIII i suicidi sono trasformati in alberi; la rappresen-
tazione aristotelica del suicida «ut planta» vive nell’immaginazione dantesca
e media la ripresa d’un modello virgiliano altrimenti del tutto incongruo alla

enim esse demonstrationem est impossibile; nam in infinitum procederet, quare nec ita foret
demonstratio. Si vero quorundam non oportet quaerere demonstrationem, quae dignantur
magis esse tale principium, dicere non habent. Est autem demonstrare quidem argumentative
et de hoc quod impossibile est, si solum quid dicit, qui dubitat; si vero nihil, derisio est quaerere
rationem ad nullam habentem rationem, in quantum non habet rationem. Similis enim plantae
talis, inquantum talis est. Argumentative vero demonstrare dico differre et demonstrare, quia
demonstrans quidem opinabitur quidem quaerere, quod est principio. Sed nec talis existens,
argumentatio erit et non demonstratio».
29
Il concetto è ancora più chiaro nella glossa di Alberto Magno (Metaph. IV, II, 2, p. 176,
ll. 20-28: «Si vero nihil dicit vel scit se dicere, derisio est, quod quaeramus rationem ad eum
qui nullam habet in seipso dicti sui rationem, in quantum nullam habet rationem; similis est
plantae talis, in quantum talis est; vincitur enim ab asino et quolibet bruto, quod non aesti-
mat idem esse et non esse, quia, si aestimaret asinus idem esse et non esse, non vitaret foveas,
aestimans idem esse cadere in foveam et non cadere».
162 SONIA GENTILI

situazione di Inf. XIII30: Aristotele offre il concetto, e un’immagine appena


abbozzata; Virgilio offre il disegno, i colori, l’impatto drammatico.
Il senso dell’immagine aristotelica sta nel fatto che suicidi si autocontrad-
dicono cancellando la propria vita: cioè la forma che individua la materia
bruta facendone un corpo umano. La selva antipolitica dei suicidi si rianno-
da alla selva rappresentata in Inf. I nel concretizzare il trionfo della materia
sulla forma: i suicidi cancellano la forma umana del loro corpo, riavvicinan-
dolo in certo modo alla hyle indistinta.
Al momento del giudizio universale questi dannati riavranno il proprio
corpo solo perché venga impiccato al relativo albero (vv. 106-108). Per
questa tremenda immagine si suole invocare l’esempio di Giuda, ma se è
vero che il suicida «ut planta» di Metaph. V media la ripresa dantesca del
virgiliano albero che sanguina, sarà il caso di notare i commentatori medio-
evali sogliono illustrare questo passo della Metaphysica riportando come
locus parallelus il famoso XXXI dei Problemata aristotelici31, ove si tratta di
malinconia o desperatio, stato psicofisico che porta al suicidio, in genere per
impiccagione32.

30
Alludo alla scena del «gran pruno» Pier delle Vigne che chiede a Dante «Perché mi
scerpi» tratta di peso da Aen. III, 24 e sgg. (Polidoro, figlio di Priamo assassinato da dardi
che, rimasti infissi nel cadavere, rivivono come mirti e cornioli in cui scorre il sangue del
defunto) del tutto estranea al tema del suicidio. Infatti, salvo Pietro Alighieri – l’unico ad
invocare il luogo della Metaphysica aristotetelica – gli antichi commentatori, posti innanzi
alla relazione istituita da Dante tra la situazione di Polidoro e quella di Pier delle Vigne,
sottolineano le enormi differenze tra i due episodi, e non capiscono qual nesso misterioso
abbia spinto Dante a conferire ai suicidi le movenze del buon Polidoro virgiliano. Vedi su
ciò Gentili, L’uomo aristotelico, pp. 117-125.
31
Alberti Magni Metaph. IV, III, 4, p. 191, ll. 38-53: «Cunctabatur enim primo ratiocinans
per intellectum quendam suae sanitatis, et turbata sanitate per amentiam inductam a plaga
cunctabatur aliud per alium intellectum, qui sequentis fuit sanitatis et equalitatis alterius, ad
quam reducta fuit complexio. Unde dictum fuit Homeri, ac si Hector cunctaretur quidem,
sed non eodem modo cunctaretur ut prius nec eodem cunctaretur quo prius intellectu. Sicut
enim in Problematibus dicit Aristoteles, Hector melancoliam patiebatur accidentalem, eam
videlicet quae est ex humore adusto, quae per acumen sibi aliquando adduxit amentiam (...).
Quasi amentiam sui oblitus patiebatur in ictibus gladiorum et telorum, et sic quasi amens
tandem iacuit extasim passus».
32
Problemata, c. LXIII: «Cur homines qui ingenio caluerunt vel in studiis philosophie vel
in republica administranda vel in carmine pangendo vel in artibus exercendis melancolicos
omnes fuisse videmus, et alios ita ut etiam vitiis atre bilis infestarent, ceu inter heroes de
hercule fertur (...). Adde Aiacem et Bellerofontemquorum alter penitus ad insaniam proru-
pit. Alter loca persequebat deserta, unde illud Homeri: Ast hic quando etiam diis gravius
omnibus errat. In campos solus latos inque avia rura. Ipse suum cor edens hominum vestigia
vitans (...). Causam vero nam variae potestatis ipse habitus dat scilicet prout frigidus cali-
LA SELVA, GLI ALBERI E IL SUICIDIO NELL’INFERNO 163

In fine di canto il suggello dell’impiccagione, già apposto al destino


eterno dei suicidi, torna, con brusca circolarità, a significare il nesso tra
degrado politico della città ed autodistruzione dei suoi membri. In Eth.
Nic. 20 a 1 si afferma che suicidio e sperpero dei beni sono due forme
di autodistruzione; Dante segue l’indicazione, ponendo nella stessa selva
le due forme del medesimo vizio, castigate da mostri anch’esso dotati di
doppia forma: le Arpie/cagne33. L’ignoto fiorentino suicidatosi per debiti
e dunque sintesi di entrambe le facce del vizio punito nella selva chiude il
canto alludendo misteriosamente al destino di lotta faziosa cui è condanna-
ta la sua città, Firenze, e poi, in una sola battuta ancor più misteriosa, alla
propria morte per impiccagione: «I’ fei giubetto [< fr. gibet, ‘forca’] a me
delle mie case» (v. 151).

dusve constiterit. Nam si ultramodum frigidus sit molestiae anxietatesque sponte sue ulla
ratione nascentur, exquo morte laqueo sibi consciscunt».
33
Sul polimorfismo delle Arpie recepito da Dante, derivante da Lucano ed affermato
nella glossa serviana all’Eneide, cf. S. Gentili, «Ut canes infernales»: Cerbero e le Arpie in
Dante, in I “monstra” nell’inferno dantesco: tradizione e simbologie, Atti del XXXIII Convegno
storico internazionale. Todi, 13-16 ottobre 1996, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo, 1997, pp. 177-203.

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