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Letteratura italiana

e religione
Atti del convegno internazionale
(Italian Studies - University of Toronto
11-13 ottobre 2012)

a cura di Salvatore Bancheri


e Francesco Guardiani

Franco Cesati Editore


Volume pubblicato con il finanziamento della Emilio Goggio Chair
in Italian Studies, University of Toronto.

ISBN 978-88-7667-551-5

© 2015 proprietà letteraria riservata


Franco Cesati Editore
via Guasti, 2 - 50134 Firenze

In copertina: Sandro Botticelli, Madonna del Libro (1480-1481, particolare),


Milano, Museo Poldi Pezzoli.

Cover design: ufficio grafico Franco Cesati Editore.

www.francocesatieditore.com - email: info@francocesatieditore.com


Indice

Foreword/Premessa
Italian Literature and Religion. Select Proceedings of the International
Conference (Toronto, October 11-13, 2012) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Pietro Gibellini
Letteratura italiana e religione: uno sguardo panoramico . . . . . . . . . . . . 15

Alessandro Vettori
Prayer in Dante’s Purgatorio.
A Bonaventurean Reading of Two Psalms . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35

William Franke
he Religious Vocation of Secular Literature:
Dante and Postmodern hought . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49

Johnny L. Bertolio
Cristianizzare Platone: autocensure nel Phedrus
tradotto da Leonardo Bruni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71

Matteo Soranzo
Poesia e trasformazione spirituale nel primo Rinascimento:
Lodovico Lazzarelli, Giovanni A. Augurelli, Battista Mantovano . . . . . . 87

Pamela Arancibia
Alberto da Castello’s Rosario de la gloriosa vergine Maria: “non solamente
a gli litterati, ma etiam alli illitterati et ignoranti et idioti” . . . . . . . . . . . 111

Myriam Chiarla
L’opera di Angelo Grillo nella letteratura post-tridentina.
Temi e questioni per l’edizione dei Pietosi afetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125
Ziba Ahmadian
Poetry, Dramaturgy and Faith: Ortensio Scammacca (1562?-1648) . . . . 141

Erminia Ardissino
Le Dicerie sacre del Marino. Un esperimento tra sacro e profano? . . . . . . 149

Salvatore Bancheri
La Passione di Gesù Cristo secondo Filippo Orioles (1687-1793):
un “Riscatto” lungo trecento anni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163

Francesco Guardiani
Religione, spiritualità e spiritismo nell’opera di Francesco Mastriani . . . . . 173

Lucilla Bonavita
Trattatistica ottocentesca: La Lucilla disingannata
di Giovanni Perrone tra Chiesa e società civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209

Marinella Cantelmo
«Sono stato morto». Figure bibliche e tematiche religiose
in Lazzaro di Luigi Pirandello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217

Edda Serra
Biagio Marin: il tempo di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 229

Pericle Camuffo
Giuseppe Prezzolini e il “rischio” di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245

Matteo Vercesi
Le umili lingue. Presenza del sacro
nella poesia dialettale del Novecento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257

Alessandra Giappi
“È risorto: non è qui”. La Passione e la Resurrezione di Cristo
nella poesia italiana moderna e contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273

Elisa Segnini
L’aldilà, il fantastico e l’allegoria nelle opere narrative e pittoriche
di Dino Buzzati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293

Gianni Mussini
Clemente Rebora tra parole e Parola. Un itinerario testuale
dalla giovinezza “laica” all’approdo rosminiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 309
Francesca Parmeggiani
Testori anni Settanta: ediicazione e smembramento . . . . . . . . . . . . . . . 331

Serena Convito
La religione invisibile di Alda Merini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 339

Metello Mugnai
De André’s Gospel: La buona novella? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 355

Paul Colilli
Giorgio Agamben and the Posthumous Life of heological Signs . . . . . . 365

Fabrizio De Donno
he Radical Reformation: Müntzer and Anabaptism at the Turn
of the Millennium. Luther Blissett’s Q: A Nomadic Mythology
of Millennialism . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 373
CRISTIANIZZARE PLATONE: AUTOCENSURE NEL PHEDRUS
TRADOTTO DA LEONARDO BRUNI

Johnny L. Bertolio
University of Toronto

Fra il messaggio della salvezza e la cultura esistono molteplici rapporti. Dio infatti,
rivelandosi al suo popolo fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha
parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche. (Gaudium
et spes, § 58)

Non possiamo sapere se, mentre stendevano la costituzione dogmatica


Gaudium et spes, i padri conciliari del Vaticano II, il cui anniversario ha ispira-
to il presente convegno, avessero in mente qualche preciso snodo storico ante
Christum natum, nel quale Dio “ha parlato” con particolare intensità. Leggendo
questa dichiarazione, e un’altra di poco successiva – “l’accordo fra la cultura e la
formazione cristiana non si realizza sempre senza difficoltà” (Gaudium et spes, §
62) – vengono alla mente gli “spiriti magni” del Limbo dantesco, in particolare
quelli sul conto dei quali erano fiorite leggende in merito all’affinità del loro
pensiero con la Bibbia (Platone, il “Mosè atticizzante” di Eusebio, Praeparatio
evangelica 11.10.141), ai loro contatti con gli Apostoli (Seneca), sino ad arrivare
al “maestro di color che sanno”, Aristotele, l’ispiratore della Scolastica.2
In uno dei suoi saggi più celebri, “Chierici e laici”, Carlo Dionisotti traccia
un profilo storiografico degli autori della letteratura italiana in relazione alla
loro appartenenza più o meno sentita al mondo ecclesiastico (ufficiale e peri-
ferico) o a quello laico. In questo senso una svolta significativa è individuata
nell’ultimo scorcio del Trecento, quando cioè la Chiesa, indebolita da vari sci-
smi interni, perse la sua capacità di attrattiva culturale in favore dei vari Stati
italiani, che invece proprio in quegli anni si rafforzavano. È l’età, pur di breve
durata, di Coluccio Salutati, quando

la nuova letteratura umanistica scende nell’agone armata d’una lingua che è quella
stessa dei teologi, dei legisti e degli artisti, e non è però più quella […]. È una lingua

1 Per la precisione, la definizione è attribuita a Numenio.


2 Sulla matrice giudaica della compatibilità tra religione e filosofia pagana e sul suo ‘to-
pico’ ricorrere nell’Occidente medievale su fronti talvolta inattesi si veda almeno Curtius,
pp. 227-53.
72 Johnny L. Bertolio

e dottrina che richiamandosi all’antichità come pur l’altra lingua e le altre discipline
facevano, ma con un rigore e con una larghezza d’informazione che mancavano a
quelle, propone un ideale di perfezione umana, mondana, non impugnabile in quei
frangenti se non da isolati e disarmati profeti di sventura, e pone tale ideale al di là
di ogni differenziazione settaria, al servizio di qualunque stato, monarchia o repub-
blica, al servizio della discussione e della pacifica e proficua convivenza fra uomini
altrimenti diversi e avversi gli uni agli altri. (“Chierici”, pp. 62-63)

In questo clima di rinnovamento, di consapevole ripudio della Scolastica


come pure dei capziosi logici d’oltremanica,3 si colloca l’esperienza biografica
di Leonardo Bruni, allievo, e tra i più illustri, del Salutati, aretino di nascita ma
fiorentino di adozione, il quale, dopo aver rinunciato agli studi di diritto, si de-
dicò alle lettere, illuminate allora dall’arrivo a Firenze del bizantino Emanuele
Crisolora. Contrariamente al proprio maestro, Bruni visse in un’epoca in cui la
Chiesa stava lentamente recuperando il proprio prestigio: se Firenze, almeno
all’inizio, non gli fornì possibilità d’impiego, la Curia romana diventò per un
decennio (1405-1414/1415) il suo turbolento covile, tra viaggi, fughe, concili,
‘obbedienze’ e deposizioni, anche se egli rifiutò sistematicamente le cariche ec-
clesiastiche che gli furono offerte (Vasoli, pp. 622-623). Sotto Innocenzo VII,
fu Bruni a stilare la bolla papale Ad exaltationem Romanae Urbis (1406) con
cui lo Studium veniva rifondato e arricchito dell’insegnamento di lingua e lette-
ratura greca (Griffiths); di lì a pochi mesi, inoltre, quando Gregorio XII, il neo-
pontefice dell’obbedienza romana alle cui dipendenze Bruni lavorava, chiese ai
suoi funzionari di stendere un documento per la ricomposizione dello scisma,
fu la bozza elaborata dall’umanista aretino, per quanto poi non operativa, a ri-
cevere il consenso maggiore (Vasoli, p. 622). Sulla questione dello scisma si era
riacceso, in seno alla curia, un dibattito teologico ed ecumenico che in qualche
modo evocava lo scontro sulla legittimità degli studi classici per i cristiani,
visto che molti dei protagonisti, chierici e laici, erano gli stessi: Gregorio XII,
infatti, aveva tra i suoi consiglieri quel (beato) Giovanni Dominici (Cracco, pp.
661-662), dell’ordine domenicano, accanito riformatore dei costumi ecclesia-
stici, il quale si era scagliato duramente, nella sua Lucula noctis (1405), contro
Coluccio Salutati e una sua celebre epistola (14.23), indirizzata a Giovanni da
San Miniato (Salutati, pp. 170-205).
Sin dall’inizio della sua produzione, Bruni si era interessato all’attività di
traduzione, con una spiccata predilezione per Platone; nel primo decennio
del Quattrocento aveva avviato una serie di versioni latine: Fedone, Gorgia,
Apologia e Critone. Per ritrovare una traduzione platonica, bisogna arrivare
agli anni Venti, quando Bruni, concluso da tempo il suo impegno ufficiale in
Curia, si era ritagliato un influente ruolo di leader letterario a Firenze, di cui,

3 Viene in mente Bruni, Dialogi 1.25.


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nel 1416, era anche divenuto ufficialmente cittadino (Vasoli, p. 626). Il suo im-
pegno storiografico, accanto a quello di traduttore, trattatista e oratore, avrebbe
contribuito a farlo accedere, nell’autunno del 1427, alla prestigiosa e desiderata
carica di Cancelliere della Repubblica. Proprio in quegli anni, l’umanista intra-
prese nuove fatiche versorie: nella prima metà del 1424 completò la traduzione,
in latino, del Fedro (Hankins, Plato, p. 383; Viti, “Sul Fedro”, p. 81), entro il
giugno del 1427 tornò su due precedenti versioni, Apologia e Critone, e premise
alle Epistole la dedica a Cosimo de’ Medici (Hankins, Plato, pp. 379-387). Il
predominante interesse aristotelico, negli anni Dieci, culminato nella fortunatis-
sima versione dell’Etica Nicomachea (1416/1417), si era sovrapposto alla giova-
nile predilezione platonica; del resto, leggendo le pagine del De interpretatione
recta (1424/1426),4 trattato teorico che per molti aspetti testimonia la parallela
attività di traduttore, si ha l’impressione di una fusione, sullo stesso piano, dei
due classici, piuttosto che dell’abbandono dell’uno in favore dell’altro. Gli stes-
si incarichi istituzionali del cancelliere Bruni contribuirono a riorientare i suoi
gusti più verso il pragmatico Aristotele che non verso il metafisico Platone, da
cui, non a caso, si congeda traducendo le Lettere, che dedicano ampio spa-
zio alla concreta esperienza politica, ad Atene e a Siracusa, del filosofo (Garin,
“Noterelle”, pp. 324-25, “Ricerche”, pp. 361-67; Berti, “Traduzioni”, p. 247).5
Eppure, negli anni Venti, Bruni tornò al suo ‘primo amore’, scegliendo
di tradurre un dialogo che tuttavia dovette apparirgli controverso: il Fedro;
esso affronta varie questioni, ma è quella dell’amore, delle sue origini, del-
le sue capacità nobilitanti, a occupare lo spazio maggiore della discussione.
Anche il tema della retorica e quello, connesso, della scrittura potevano susci-
tare l’attenzione di Bruni e della sua cerchia; se non che, Socrate, nel dialogo,
attacca duramente la retorica per il suo legame, filosoficamente debole, con
la verosimiglianza piuttosto che con la verità, e, più in generale, biasima la
prassi di scrivere libri, che, interrogati dal lettore, non rispondono in modo
soddisfacente. Tale visione non poteva non destare disagio in un umanista che
sul dibattito critico, sul libro e sulla ricerca di libri fondava il proprio ruolo di
intellettuale e di scrittore; già il Gorgia, con la stessa, anzi ancora più recisa cri-
tica della retorica da parte di Socrate, aveva contribuito ad allontanare Bruni
da Platone (Hankins, La riscoperta, pp. 99-104; Berti, “Leonardo Bruni”, pp.
218-219). Nel Fedro ritroviamo, poi, la dottrina dell’immortalità dell’anima,

4 Mancano dati certi per fissare in maniera definitiva la data di composizione del tratta-
tello; ci atteniamo perciò qui alla (seconda) proposta di Hans Baron (p. 615), oggi comune-
mente accettata.
5 Di Platone, in seguito, nel 1435 (ma la data non è certissima), Bruni avrebbe tradotto
soltanto un passo del Simposio in forma di panegirico di Socrate, con dedica, ancora una
volta, a Cosimo (Hankins, La riscoperta, pp. 134-36).
74 Johnny L. Bertolio

sviluppata meglio nel Fedone, e qui delineata insieme con il celebre mito della
biga alata; il passaggio del dialogo che costituisce il cuore della dimostrazione
aveva, già nel Medioevo, trovato ampia risonanza grazie alla traduzione che
di esso aveva fornito Cicerone, prima nel De re publica (6.27-28), quindi nel-
le Tusculanae disputationes (1.53-54). Se si considera che la versione del De
re publica è contenuta nella sezione, presto divenuta autonoma, del Somnium
Scipionis, commentata da Macrobio in direzione neoplatonica, si potrà trovare
già nel V secolo un tentativo di sintesi misticheggiante del pensiero di Platone
non lontano dalle successive interpretazioni cristiane.6
Sempre nel Fedro è centrale la teoresi delle quattro “manie” ispirate dal-
la divinità e dunque positive: la mantica, la possessione rituale e purificatri-
ce, il furore poetico e la follia generata da eros. Le ultime due ispireranno a
Bruni la bellissima lettera al Marrasio (6.1 Mehus: 1429)7 e un carme volgare,
la Canzone a laude di Venere (in Lanza, pp. 333-335) (Hankins, La riscoperta,
pp. 121-123). Saranno proprio questi temi a garantire alla versione bruniana,
perfezionata da Marsilio Ficino, e alla dottrina platonica una straordinaria for-
tuna rinascimentale; lo stesso Ficino attingerà alla traduzione di Bruni, prima
che alla propria, per la composizione della sua celebre epistola De divino furore
(Gentile, “In margine”, pp. 35-39 e 50-56; “Sulle prime traduzioni”, pp. 80-
82), che consegnerà all’Italia e all’Europa l’essenza stessa della concezione pla-
tonica della poesia e dell’amore8 – basti citare, a titolo di esempio, gli Asolani e
il finale del Libro del Cortegiano (Kraye, pp. 78-84).
Alla prassi versoria Bruni dedicò un trattato, il già citato De interpretatione
recta, composto proprio sull’onda della versione del Fedro. Anche se proba-
bilmente rimasto inedito tra le sue carte, se non addirittura incompiuto, il De
interpretatione recta espone i criteri che dovrebbero guidare il buon traduttore,
specialmente chi si applichi ai classici; se infatti l’opuscolo ambisce a fornire le
regole universali di una valida teoria, esso è ispirato a quei testi che negli stessi
mesi l’autore volgeva dal greco in latino. Per questo, il De interpretatione recta
contiene un’analisi critica dello stile di Platone e di Aristotele, verificato alla
luce di alcuni brani tratti dalle opere che Bruni aveva ultimato da pochi anni
(Etica a Nicomaco) o mesi (Fedro), o che aveva in cantiere (Politica), e alle quali
evidentemente assegnava un’alta considerazione. Nessun cenno, tuttavia, è ri-
servato alla problematicità di certi passaggi platonici in aperto contrasto con la

6 In gara con Cicerone, Bruni si cimenta nella traduzione del relativo brano platonico
(245c5-246a2) (Hankins, Plato, pp. 397-398).
7 Giovanni Marrasio aveva dedicato a Bruni l’Angelinetum, ovvero il suo breve canzoniere
(Luiso, p. 112).
8 E già nel Medioevo, a cui pure era ignoto il testo del Fedro, il tema aveva avuto un certo
riscontro (Curtius, pp. 527-528).
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dottrina cristiana; come già aveva rilevato Eusebio di Cesarea, che pure aveva
notato una certa affinità tra Platone e Mosè,9 la concezione platonica dell’amo-
re è troppo nettamente ed esplicitamente indirizzata in direzione omoerotica.
La Torah tuona contro chi “ha rapporti con un uomo come con una donna,
tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte: il
loro sangue ricadrà su di loro” (Lev 20.13, citato da Eusebio, Praeparatio evan-
gelica 13.20; e cfr. Lev 18.22), una punizione estesa, peraltro, a molte violazioni
in campo sessuale. Questo, tuttavia, non implica la condanna in blocco, alme-
no in Eusebio, di Platone, ma conferma la sua appartenenza storica al mondo
pagano. Del resto, sullo stesso filosofo ateniese (Hankins, La riscoperta, pp.
200-1) come pure su molti umanisti gravava il sospetto, più o meno fondato, di
un orientamento sessuale perseguitato (Debby, pp. 148-149) oltre che sgradito,
come testimonia, tra i molti, Ariosto nella Satira 6.25-33, proprio nel luogo in
cui la parola “umanista” riceve la sua prima consacrazione letteraria in volgare
(Segre in Ariosto, p. 101):

Senza quel vizio son pochi umanisti


che fe’ a Dio forza, non che persüase,
di far Gomorra e i suoi vicini tristi:
mandò fuoco da ciel, ch’uomini e case
tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
Lot a fugir, ma la moglier rimase.
Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena
di poesia, e poi dice: – È gran periglio
a dormir seco e volgierli la schiena. –

La condanna della sostanza pederotica dell’amore platonico si innestava


su una annosa e delicatissima discussione relativa alla compatibilità dei classici
antichi con l’educazione moderna: l’Aretino aveva già indirettamente illustrato
la propria posizione, poi esplicitata nel De studiis et litteris, traducendo l’E-
pistula ad adolescentes di San Basilio, dedicata a Coluccio Salutati, che si era
battuto in prima persona come un leone contro quegli esponenti tradizionali-
sti, provenienti soprattutto dagli ordini religiosi – basti pensare a Giovanni da
San Miniato e al suo sodale, il già ricordato Giovanni Dominici, autore della
Lucula noctis e predicatore inflessibile –, che osteggiavano la lettura degli au-
tori antichi (Hankins, La riscoperta, pp. 68, 77-80; Debby, pp. 103-11): da un
lato, empi e pagani, e quindi del tutto inconciliabili col messaggio cristiano,
dall’altro, pericolosi per la formazione dei giovani – due critiche, queste, che

9 L’idea di una conoscenza, da parte di Platone, della Bibbia attraverso il profeta Geremia
o mediante la lettura dei Settanta fu espressa da Bruni nel Prologus in Phaedonem Platonis
(Humanistisch-philosophische, p. 4).
76 Johnny L. Bertolio

proprio il deprecato Platone aveva mosso, nella sua Repubblica, contro Omero
e i poeti, banditi, salvo pochissime eccezioni, dalla città ideale. Nella lettera
prefatoria della versione bruniana di Basilio si coglie un’allusione chiara a que-
ste polemiche; scrive Bruni:

Atque ideo libentius id fecimus, quod auctoritate tanti viri ignaviam ac perversi-
tatem eorum cupiebamus refringere, qui studia humanitatis vituperant atque ab
his omnino abhorrendum censent. Quod his contingit fere, qui ea tarditate ingenii
sunt, ut nihil altum neque egregium valeant intueri, qui, cum ad nullam partem
humanitatis aspirare ipsi possint, nec alios quidem id debere facere arbitrantur.10

La Firenze di Bruni e Salutati, in questo senz’altro ‘all’avanguardia’, era


invece di opposto avviso: Platone, in particolare, filtrato attraverso l’interpre-
tazione dei Padri della Chiesa, mostrava nei propri dialoghi germi di dottrina
cristiana che ne incoraggiavano la lettura. Il Fedone, ma anche certe pagine del
Fedro, in cui il filosofo dimostra l’immortalità dell’anima con il fascino del mito
o con le prove della ragione, suggerivano la possibilità di una accettazione,
pure al netto di ciò che un lettore cristiano non avrebbe mai potuto tollerare:
prima di tutto il già ricordato fatto che – per ricorrere alle parole di Leopardi,
che pure aveva avvertito tutto il fascino del dialogo – “il vantato amor plato-
nico (sì sublimem[ente] espresso nel Fedro) non è che pederastia” (Zibaldone
1840).
Come dunque volgere in un dignitoso latino questioni che nessuno, nem-
meno gli umanisti fiorentini vicini al Salutati, avrebbe mai ‘contestualizzato’,
e molti anzi sfruttato a sostegno delle argomentazioni dei vari Dominici?11
Posto che, agli inizi del Quattrocento, pochi potevano attingere al testo greco
e che non tutto Platone era stato tradotto, rimanevano due strade, alternative
al silenzio e ad eventuali allegoresi, che tuttavia Bruni rifiutava (Hankins, La
riscoperta, p. 120): o tradurre in toto, senza scrupoli di sorta, o tradurre solo

10 “E perciò lo [scil. la presente traduzione] abbiamo fatto più volentieri, in quanto


volevamo rintuzzare, attraverso l’autorità di un così illustre uomo [Basilio] l’indolenza e la
perversità di chi biasima gli studi umanistici e pensa che ce ne si debba affatto distogliere.
Ma questo forse capita a quelli che, affetti da una tale ottusità intellettuale da non riuscire a
comprendere ciò che è profondo né ciò che è eccellente, non potendo aspirare a partecipare
della cultura, pensano che nemmeno altri debbano farlo” (Prologus in Basilii Epistolam ad
nepotes de utilitate studii in libros gentilium, in Bruni, Humanistisch-philosophische, pp. 99-
100). L’autorità di Basilio, il quale in effetti invitava ad una cernita fra gli autori pagani, è qui
asservita all’ideale classicistico di Bruni (Fubini, pp. 137-138 e 141-145).
11 Con ulteriori sfumature la polemica (sul Fedro, ma non solo) sarebbe continuata lungo
tutto il Quattrocento, coinvolgendo, tra gli altri, e su opposti fronti, Giorgio di Trebisonda
e il cardinal Bessarione, il primo ostile a Platone, il secondo fautore di una interpretazione
in senso catartico dell’amore (Allen, pp. 5-6).
Cristianizzare Platone: autocensure nel Phedrus tradotto da Leonardo Bruni 77

alcune sezioni presentando comunque l’operazione finale come una versione e


nascondendo così ai lettori omissioni, tagli e montaggi. Bruni sceglie la strada
del compromesso, che però, nel caso del Fedro, è praticata a prezzo di una
continua revisione, che interessa sia singole espressioni sia intere sezioni. Si
tratta di una scelta consapevolmente perseguita, come dimostra una lettera del
1441 (9.5 Mehus) in cui l’umanista spiega il suo rifiuto di volgere in latino la
Repubblica, dove pure Eusebio aveva individuato il Platone più cristianamente
accettabile: “multa sunt in iis libris [Platonis] abhorrentia a moribus nostris,
quae pro honore Platonis tacere satius est, quam proferre”.12 Nel caso delle
precedenti versioni Bruni aveva motivato la propria scelta in sede di prefa-
zione, una prassi letteraria, questa, che proprio l’Aretino aveva riportato in
voga (Gualdo Rosa, “Le lettere”, pp. 69-74 e 82): nella lettera dedicatoria del
Gorgia, offerto a Giovanni XXIII nell’aprile 1411 (Venier in Bruni, Gorgias,
p. 13), la compatibilità tra Platone e cristianesimo raggiunge forse il suo punto
più audace:

Nam et de creatione mundi a vero et summo Deo et de piorum impiorumque post


mortem praemiis poenisque et aliis quae fides nostra rectissime tradit, Plato ipse sic
asseverat et probat, ut nostris disciplinis imbutus videatur. In moralibus vero talis
est eius doctrina tamque salubris et integra, ut libros eius saepe dum lego Petrum et
Paulum praecepta vitae tradentes me audire existimem.13

Il Fedro non si prestava, se non in minima parte, a questa lettura per così
dire ‘attualizzante’: ne nasce, dunque, rispetto agli altri dialoghi,14 una tradu-
zione frammentaria, che tralascia completamente la parte finale, dedicata a un
lungo excursus sulla storia della retorica e sulla sua funzione.
Non si dimentichi, d’altronde, la grave penuria di codici greci da cui at-
tingere un testo soddisfacente: è stato già finemente dimostrato quanta parte
(cospicua) ebbe, nel fraintendimento dell’excursus filosofico della Lettera VII
di Platone, il corrotto testo greco adoperato e quanta (poca) la tensione ‘nor-

12 “Molte cose in quei libri [di Platone] sono lungi dalle nostre abitudini, cose che, per
non disonorare Platone, è meglio tacere piuttosto che rivelare” (Hankins, La riscoperta, p.
115).
13 “Infatti, sia sulla creazione del mondo da parte del vero e sommo dio sia su premi e
castighi dei pii e degli empi dopo la morte sia su altre dottrine che la nostra fede giustissima-
mente insegna, Platone fornisce dimostrazioni e spiegazioni in modo da sembrare familiare
con le nostre dottrine. Nell’etica poi la sua posizione è tale e tanto utile e ineccepibile che
spesso, mentre leggo i suoi scritti, ho l’impressione di ascoltare Pietro e Paolo che imparti-
scono le regole di vita” (Bruni, Gorgias, p. 239).
14 Si vedano: Berti-Carosini, pp. 33-38 (prima versione del Critone) e 91-106 (seconda
versione); Hankins, Plato, pp. 388-400; Venier in Bruni, Gorgias, pp. 84-90.
78 Johnny L. Bertolio

malizzatrice’ del Bruni (Berti, “L’Excursus”). Tuttavia, nel Fedro, di cui ancora
manca una analisi che tenga conto dell’originale greco utilizzato, pare che il se-
condo fattore abbia prevalso sul primo: considerate le aree tematiche maggior-
mente esposte ad ‘auto-censure’, amore omosessuale (Berti, “La traduzione”,
pp. 12-13) e rifiuto della retorica e della scrittura, sembra di poter concludere
– ma si tratta di un concludere fatalmente provvisorio in questa fase – che
Bruni sia intervenuto con piena consapevolezza sul testo che leggeva per darne
una versione politically correct. Per alcuni, era già uno scandalo il solo tradurre
Platone: meglio dosare lo scrupolo filologico col sempre vittorioso buon senso.
Bruni traduce, con qualche lieve omissione, dall’inizio del dialogo alla lettu-
ra, da parte di Fedro, dell’orazione di Lisia esclusa (227a1-230e5), compendiata
nei codici15 con RECITATIO ORATIONIS LYSIE SATIS LONGA. Quindi,
riprende da 234c5 e si interrompe a 238e2, quando cioè Socrate si propone di
esporre pro e contro del rapporto amoroso sia nella prospettiva di chi è inna-
morato sia in quella di chi non lo è; i manoscritti segnalano il nuovo salto con
ORATIONES IAM SEQUUNTUR. La versione riprende a 241e7 e si inter-
rompe di nuovo a 243c2: Bruni si volge al secondo discorso di Socrate, attribu-
ito a Stesicoro di Imera, e, dopo aver parafrasato questa indicazione d’autore
e invertito l’ordine di alcune frasi, ricomincia da 244a5 e arriva sino a 250e1.
A questo punto, il traduttore adotta una strategia alquanto spregiudicata, co-
struendo l’ultima sezione della versione come un montaggio di brani che nel
greco non solo non sono contigui, ma si presentano in un ordine diverso: prima
Bruni inserisce il mito della biga alata con molti tagli (253c7-254e4), quindi
torna su una breve considerazione espressa in 252d1-3 e compendia fortemente
252c2-253c2, escludendo così il legame di dipendenza tra la propensione all’a-
more delle anime e la loro rispettiva affinità con uno degli dèi; inserisce il bre-
ve riferimento alle due specie di follia, umana e divina, e alle ulteriori quattro
di quest’ultima (265a9-11 e b2-5); infine, ritorna alla conclusione del secondo
discorso di Socrate, come se anche quelle considerazioni ne facessero parte, e
termina con la battuta di Fedro che assegna al filosofo la palma della vittoria
sia sul suo primo discorso sia rispetto a un’eventuale palinodia di Lisia (257a3-
c4). Riassumendo, Bruni costruisce la propria versione sulla base delle seguen-
ti pagine Stephanus: 227a1-230e5; RECITATIO ORATIONIS LYSIE SATIS
LONGA; 234c5-238e2; ORATIONES IAM SEQUUNTUR; 241e7-243c2;
244a5-250e1; 253c7-254e4; 252d1-3; 252c2-253c2; 265a9-11 e b2-5; 257a3-c4.
Ne risulta un’esposizione che appena lambisce la sostanza filosofica del
dialogo e completamente trascura l’asserito legame tra retorica e conoscenza
dell’anima, il mito di Thamus e Theuth, con la condanna della scrittura a favo-

15 Il testo della versione bruniana, inedito, è costituito sulla base dei seguenti manoscritti del-
la Biblioteca Apostolica Vaticana: Regin. lat. 1321, Urb. lat. 1314, Vat. lat. 8611, Vat. lat. 3348.
Cristianizzare Platone: autocensure nel Phedrus tradotto da Leonardo Bruni 79

re dell’oralità, su cui si fondava il metodo socratico. Bruni avrà voluto operare


una selezione o perché davvero non aveva colto il significato della seconda parte
del dialogo, ritenendola per qualche motivo inferiore al fascino letterario della
prima (da cui pure esclude la ‘scandalosa’ orazione di Lisia sull’amore), oppure
in quanto, proprio per aver intuito la portata demolitrice della considerazione
socratica della scrittura, preferì non consegnarla al proprio pubblico. Infine,
non è da escludere che, di fronte ad altri più promettenti impegni, letterari e
politici, l’Aretino abbia abbandonato l’impresa avviata, senza tuttavia privarla
per questo di un successo che l’attuale tradizione manoscritta (quaranta codici
dalle più svariate provenienze geografiche: Hankins, Repertorium) ampiamen-
te conferma. Qualunque fosse l’intenzione del traduttore, il Fedro che Bruni
consegnò all’Europa colta è ben lontano da quello platonico, trasformato nella
giustapposizione dei due discorsi socratici antitetici (molto ridimensionati, spe-
cialmente il primo), secondo quel procedimento antilogico che Socrate teorizza
(l’ , a partire da 261d10) e che Bruni stesso aveva sperimen-
tato nei giovanili Dialogi ad Petrum Paulum Histrum. È così forte l’esigenza di
porre l’uno contro l’altro i due blocchi oratori che Bruni inserisce nel secondo
osservazioni a lui care che tuttavia Socrate, nell’originale, espone più avanti,
non all’interno di un monologo (che il Socrate storico non amava, al contrario
dei sofisti), ma in uno scambio serrato di battute con il suo interlocutore Fedro.
Il velo pudico con cui Bruni attutisce l’impatto del testo greco appare chia-
ro sin dall’inizio; quando Fedro racconta a Socrate che ha appena ascoltato da
Lisia un discorso sull’amore, Platone specifica:

La menzione esplicita della tipica relazione pederotica greca tra un giovane


e un adulto, per quanto non innamorato, non era ammissibile; dunque Bruni
cerca di correggere il tiro approfittando dell’argomento del discorso di Lisia,
che cioè sia meglio concedersi a una persona che non ci ama piuttosto che a
una persona che ci ama:

Scripserat enim Lysias non pro amatore quidem; sed id ipsum preclarum erat quod
aiebat non amanti potius quam amanti esse indulgendum.17

16 “Lisia infatti ha scritto di un bel ragazzo corteggiato da uno che però non è innamorato;
proprio in questo è stato brillante: nel sostenere che bisogna concedersi a chi non ama invece
che a chi ama” (trad. Velardi). Sul passo aveva già attirato l’attenzione Hankins, Plato, p. 396.
17 “Lisia infatti aveva scritto non certo in favore di chi ama; ma questo stesso concetto era
illuminante, che cioè diceva che bisogna cedere a chi non ama anziché a chi ama”.
80 Johnny L. Bertolio

In Platone siamo di fronte a una doppia articolazione della scena: Lisia cita
l’esempio di una relazione pederotica tra un giovane sedotto da un adulto che
però non lo ama, e da questa situazione trae spunto per sostenere l’idea che
essa è più conveniente di quella, tradizionale, tra . Bruni
tace su questo e passa direttamente, dopo una fugace menzione dell’amator,
alla massima generale.
In un caso, l’omissione del traduttore ‘braghettone’ presenta una sorta di
ipercorrettismo, sull’onda di uno scrupolo eccessivo. Quando Socrate chiede
a Fedro di potersi cimentare in un discorso dedicato allo stesso argomento di
quello di Lisia, si avverte una certa ironia:

Bruni deve aver pensato che Socrate qui alluda a una relazione effettiva tra
Fedro e Lisia se ha preferito adattare la frase:

Serio hec accipis, o Phedre, et me putas vere hoc aggressurum esse, ut dicam preter
illius sapientiam aliud quiddam ornatius?19

A volte l’adattamento è più sfumato ma necessario, in quanto una tradu-


zione troppo fedele avrebbe potuto dare luogo a qualche ambiguità: trattando
della mania amorosa, Platone precisa:

Così Bruni:

18 “Hai preso sul serio, Fedro, il fatto che ho attaccato il tuo amato per prendermi gioco
di te. Credi davvero che proverò a superarlo in sapienza dicendo qualcosa di diverso e di
più vario?” (trad. Velardi).
19 “Prendi queste cose sul serio, Fedro, e pensi davvero che mi cimenterò in questo, nel
dire qualcosa di più eccellente, superiore alla sua sapienza?”.
20 “[Il discorso arriva dunque a dire] che questa è la più nobile tra tutte le forme di pos-
sessione divina, che si genera, in chi ne è preso e in chi la condivide, da quanto c’è di più
nobile e, ancora, che chi ama i belli, in quanto è affetto da questa forma di follia, è chiamato
innamorato” (trad. Velardi).
Cristianizzare Platone: autocensure nel Phedrus tradotto da Leonardo Bruni 81

hec igitur tanquam omnium alienationum optima et habenti et participanti fit et qui
hoc tenetur furore amator vocatur.21

Vi è qui un’omissione e un adattamento della seconda parte del periodo


platonico, quella in cui è definito , in ragione dell’etimologia, “colui
che, partecipando della follia amorosa, ama (ejrwn) i belli”.
Come si evince da questi pochi esempi, è evidente l’intento dell’umani-
sta di proporre al suo pubblico una versione piuttosto fedele, nelle sue linee
essenziali, al pensiero di Platone nella misura in cui era riuscito a sviscerarlo,
epurandolo però di quegli aspetti più apertamente in contrasto con la morale
comune, di cui del resto Bruni stesso era parte. Non dobbiamo infatti immagi-
nare una censura puramente formale nella consapevolezza che, in fondo, certi
aspetti come l’amore omosessuale andassero definiti storicamente e in qualche
modo tollerati. A dimostrazione di ciò si legga il finale del bruniano Isagogicon
moralis disciplinae, in cui gli uomini malvagi, incapaci di riconoscere la virtù
morale e accecati dalla loro libidine, ricevono la taccia di “adulteri” e “pe-
derasti”, come se in questi, oltre che insulti, vizi si esemplificasse al meglio il
carattere impuro e inquinato della loro capacità di giudizio:

Moechi vero isti et paederestae, quid est, quod pro libidine explenda non
praetermittant? His si forte deus aliquis cupiditatem illam morbumque evellat
ac boni viri mentem iudiciumque infundat, tamquam resipiscentes lumenque
recipientesque, quantis in tenebris versati sint, recognoscent suumque ipsi maxime
detestabuntur errorem.22

Tuttavia, al di là di ciò che la Chiesa condannava come peccato e le au-


torità civili come reato, e che nessuno, allora, avrebbe tentato di giustificare,
nemmeno alla luce di una cultura diversa, Bruni sa che qualcosa si può salvare,
tanto da diventare fonte di ispirazione. Proprio la definizione, nel Fedro, delle
quattro manie benigne è riecheggiata nella citata Canzone a laude di Venere, vv.
53-65 (Lanza, pp. 334-35):

Chi amor crede biasimare il loda,


quando insano e furente in suo dir chiama

21 “Perciò questa è quasi la migliore di tutte le possessioni sia per chi la subisce sia per
chi ne partecipa, e chi è posseduto da questo furore è definito innamorato”.
22 “Ma cosa non farebbero questi adulteri e pederasti per soddisfare la loro cupidigia?
Se mai un dio sradichi la loro brama e il morbo del loro animo, e vi infonda l’indole e
il discernimento propri degli uomini perbene, riconosceranno in che profonde tenebre si
sono trovati e da soli detesteranno immensamente il proprio errore, come se rinsavissero e
accogliessero di nuovo la luce” (Bruni, Humanistisch-philosophische, pp. 40-41).
82 Johnny L. Bertolio

colui che fervente ama,


perché divin furor è ben perfetto.
La Sibilla non mai il vero isnoda
se non quand’è furente, matta e grama,
e la divina trama
cerne il commosso e non il sano petto,
e gli vaticinanti, c’han predetto,
furenti vider; sì che non è rio
il furor che da Dio
discende nella mente, e così amore
da Vener nasce ed è divin furore.

Nella lettera prefatoria, con cui il dialogo è dedicato ad Antonio Loschi,


poeta, forse anche laureato (Viti, “Loschi”, p. 155), e dunque destinatario
quanto mai adatto, Bruni stesso si dice consapevole dei limiti, almeno quan-
titativi, della propria versione: “Nunc autem librum Platonis, qui inscribitur
Phedrus, admirabilem profecto atque divinum, quadam ex parte in latinum
converti”.23 La stessa ricezione quattrocentesca, in mancanza di indizi espliciti
nelle altre opere bruniane e nell’epistolario, è eloquente; Ambrogio Traversari,
che in due sue lettere del 1424 al Niccoli cita la traduzione, la definisce “librum
truncum”, “fragmentum” (8.8, col. 370), “deforme fragmentum” (8.9, col.
372) (Gualdo Rosa, “Leonardo Bruni”, pp. 94-95). Non bisogna dimenticare
il profondo astio che vedeva uniti in una alleanza per altri aspetti improbabile
il monaco camaldolese e Niccolò Niccoli, un tempo amico intimo dell’Aretino,
e che traspare anche da queste testimonianze. Traversari, pur dichiarando di
non volere essere vittima dell’invidia, teme l’accoglienza riservata a Bruni da
parte di un fitto stuolo di ammiratori (“magnos buccinatores, atque in primis
se ipsum”: 8.8, col. 370), soprattutto in quegli ambienti politici fiorentini e
non solo (il frate cita Venezia) nei quali il futuro cancelliere aveva provveduto
a divulgare la propria fatica letteraria. Unica consolazione, dal punto di vista
del Traversari – che pure con Bruni doveva mantenere un rapporto di formale
amicizia visto che è lo stesso Aretino a fargli dono di una copia della versione –
il giudizio di Lorenzo de’ Medici, fratello di Cosimo, per cui il “deforme fram-
mento” sarebbe “incultum, asperum ac rudem” (8.9, col. 372), se confrontato
con il latino delle Tusculanae.
L’operazione doveva dunque avere avuto un certo successo, sia per la no-
torietà del traduttore sia per l’interesse suscitato da un’opera platonica altri-
menti ignota. Il frammento si era mantenuto in equilibrio, anche se in modo
precario e a prezzo di notevoli sacrifici, tra cristianesimo e cultura classica.

23 “Ora dunque ho tradotto in parte il libro di Platone intitolato Fedro, davvero meravi-
glioso e divino”.
Cristianizzare Platone: autocensure nel Phedrus tradotto da Leonardo Bruni 83

Troppo grande era ancora l’ignoranza del greco e limitata la diffusione di ma-
noscritti platonici per accorgersi della spregiudicata revisione bruniana, e lo
stesso Aretino faceva parte di una generazione ancora incapace di maneggiare
in modo pieno e appropriato la cultura ellenica: eppure,

come non s’intende il successo d’un Ficino o d’un Poliziano senza il precedente
sforzo, su quelle stesse vie, di più generazioni, così è da vedere negli studi greci,
nella terza dimensione vaga e smisurata di un ellenismo ancora infantile, la condi-
zione sufficiente e necessaria dello spirito d’avventura, della febbrile investigazione
e esercitazione critica che distingue la prima metà del Quattrocento. (Dionisotti,
“Discorso”, p. 188)

Non si tratta soltanto di una ancora non del tutto raggiunta padronanza
linguistica ma anche di penuria di codici, di strumenti didattici, di maestri.
Infine, come ricorda ancora la Gaudium et spes, da cui siamo partiti,

l’uomo inoltre, applicandosi allo studio delle varie discipline, quali la filosofia, la
storia, la matematica, le scienze naturali, e coltivando l’arte, può contribuire moltis-
simo ad elevare l’umana famiglia a più alti concetti del vero, del bene e del bello e a
una visione delle cose di universale valore. (Gaudium et spes, § 57)

“Il vero, il bene, il bello” sono la meta gnoseologica, etica, estetica che la fi-
losofia platonica, ben prima della teologia cristiana, si era prefissa. Lo aveva ben
compreso Bruni, nella sua complessa e sofferta sintesi delle due culture, sforzan-
dosi di consegnare al pieno Rinascimento il bandolo di una immortale matassa.

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