La Bibbia
nella storia d’Europa
Dalle divisioni all’incontro
Direttore
Alberto Bondolfi
La BIBBIA
nella storia d’Europa : dalle divisioni all’incontro / a cura di
Antonio Autiero, Marinella Perroni. - Bologna : EDB, 2012. - 239 p. ; 21
cm. - (Scienze religiose. Nuova serie ; 28)
Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler. Scienze Religiose
ISBN 978-88-10-41526-9
1. Bibbia - Canone 2. Bibbia nella civiltà europea I. Autiero, Antonio
II. Perroni, Marinella
220. (DDC 22.ed.)
©
2012 Centro editoriale dehoniano
via Nosadella, 6 – 40123 Bologna
www.dehoniane.it
EDB®
ISBN 978-88-10-41526-9
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Indice
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La Bibbia di Gerusalemme
e la Bibbia di Alessandria:
la formazione delle Sacre Scritture d’Israele
di Simon C. Mimouni
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1. Il giudaismo in tutte le sue componenti
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attuando un vero aggiornamento, e su cui torneremo brevemente.
Essa può venir definita, in mancanza di meglio per il momento,
dalle espressioni «giudaismo ellenistico» e «giudaismo sinago-
gale», anche se le attestazioni che la riguardano non sono soltanto
archeologiche e iconografiche ma pure letterarie.
Di conseguenza sembra erroneo confondere giudaismo e
rabbinismo: quest’ultimo infatti ha rappresentato per molti secoli
solo una delle componenti del popolo ebraico in un quadro carat-
terizzato dalla presenza di movimenti. Sarebbe altrettanto sbagliato
ritenere che il cristianesimo debba essere distinto dal giudaismo:
anche se i suoi rapporti con il rabbinismo sono già conflittuali.
Si tratta dunque di prendere in considerazione da ora in poi una
storia a tre voci (giudaismo ellenistico o sinagogale, movimento dei
rabbi, movimento dei cristiani) e non a due (movimento dei rabbi,
movimento dei cristiani) o a una sola voce (movimento dei rabbi).
I rabbi e i cristiani all’epoca costituiscono movimenti relativa-
mente minoritari. I conflitti tra questi due movimenti sopravvissuti
e la terza categoria di ebrei saranno molteplici e si esprimeranno,
in una data difficile da stabilire con precisione, attraverso la vit-
toria dei discendenti dei farisei/tannaiti e dei nazorei/cristiani e
attraverso la scomparsa del gruppo maggioritario i cui membri
si congiungeranno senza dubbio ai vincitori, a eccezione forse
di alcuni di loro che sopravvivranno nell’Impero bizantino per
tutto il medioevo.
La Bibbia non è un bene che appartiene unicamente a una
di queste tre categorie del giudaismo, ma è un bene più o meno
condiviso da esse. Ciò non toglie che se la Bibbia di Gerusalemme
dipende dal movimento dei rabbi e la Bibbia di Alessandria da
quello dei cristiani, entrambe sono, in qualche modo, il frutto del
giudaismo ellenistico o sinagogale.
2. La Bibbia di Gerusalemme
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Ketuvim (Agiografi) – la si trova in Talmud babilonese [da ora
in poi TB] Sanhedrin 101a, Qiddushin 49a, Moed Qatan 21a.
I cristiani usano il termine «Antico Testamento» per distin-
guere gli scritti sacri di quella che considerano l’Antica Alleanza
dal «Nuovo Testamento» che essi ritengono gli scritti sacri della
Nuova Alleanza.
Il testo biblico è redatto in ebraico con alcuni passi in ara-
maico: due parole in Genesi (31,47), un versetto in Geremia (10,11)
e alcune parti di Daniele (2,46-47, 25) e di Esdra (4,8-6, 18; 7,
12-26). L’ebraico biblico non ha nulla di uniforme, date le diverse
epoche evidenziate dal testo: vi si distinguono dunque parecchi
strati di evoluzione della lingua e molti dialetti.
a. Contenuto
b. Canone
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chizonim che significa «libri esterni» (Mishnah [da ora in poi M]
Sanhedrin X,1), riferita ai libri non canonici.
Due espressioni ebraiche fanno da tramite anche ai concetti
di canone e canonicità: metammé ’et ha-jadajim, che vuol dire
«rende impure le mani» e rimanda all’idea che chiunque tocchi
un libro canonico si ponga nello stato di impurità rituale; ghe-
nizah, che designa il luogo in cui si depositano i libri canonici
quando non vengono utilizzati. Di questa terminologia si servono
i rabbi tannaiti quando discutono della canonicità dei Proverbi,
del Qohelet, del Cantico dei Cantici e di Ester.
Il concetto di canone implica un processo al termine del quale
certi libri sono stati deliberatamente messi in disparte, mentre altri
sono stati considerati sacri e canonizzati ufficialmente. A volte libri
isolati sono stati riconosciuti come canonici, dopo esser stati esclusi
dal canone per un periodo di tempo molto lungo. Quando un libro
viene reso canonico, ha termine il suo sviluppo letterario: da quel
momento gli scribi e i copisti hanno il compito di trasmetterlo
con esattezza letterale. Con la canonizzazione di un intero corpus,
viene posta una ‘barriera’ e diventa impossibile aggiungervi altri
libri. In ogni caso, il credere nell’ispirazione divina di tali scritti
è il requisito necessario per la loro canonizzazione.
Nella sua forma attuale, il canone della versione ebraica
della Bibbia è il prodotto di un complesso processo storico e
letterario. Se si escludono le testimonianze di epoca greca che
alludono ad alcune fasi relativamente tarde di questa evoluzione,
le informazioni che provengono dai periodi precedenti sono rare
e poco concludenti. Di conseguenza ogni tentativo di ricostitu-
zione va preso con cautela: la ricerca ammette per esempio che
la divisione della versione ebraica della Bibbia in tre parti nasca
da una evoluzione storica e che ciascuna delle parti abbia avuto
accesso al canone in periodi storici differenti.
Nella versione ebraica della Bibbia troviamo due resoconti
significativi della canonizzazione del Pentateuco. Il primo è 2 Re
22-23 e riguarda la scoperta e l’agnizione del Deuteronomio. Il
secondo è Ne 8-10 e riferisce la lettura pubblica della Torah da
parte dello scriba Esdra nel corso di una cerimonia organizzata
su richiesta del popolo giudaico.
Un certo numero di avvenimenti sembra indicare che esi-
stono diverse tradizioni riguardanti la fissazione del canone tra
le comunità giudaiche alla fine dell’epoca del Secondo tempio.
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Le controversie nate attorno alla canonicità di libri come
Proverbi, Qohelet, Cantico dei Cantici e Ester trovano eco grazie
alle discussioni rabbiniche del periodo dei tannaiti e degli amo-
raiti (M Jadajim III, 5; TB Meghillah 7a). Il Libro del Siracide
ha goduto di uno stato quasi canonico presso alcune comunità
ebraiche, ma è stato escluso dal canone rabbinico.
La fissazione del canone della versione ebraica della Bibbia,
quella del movimento rabbinico, è attestata in numerose discussioni
talmudiche che rimandano al sinodo di Javneh.
c. Testo
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ampliate o abbellite hanno dovuto coabitare con versioni più
sobrie, al punto che alcune delle prime hanno potuto contenere
dati assenti altrove.
Le più importanti testimonianze testuali della versione ebraica
della Bibbia sono i rotoli o i frammenti scoperti nei manoscritti
del Mar Morto. Tale scoperta ha messo a disposizione i più antichi
documenti biblici che precedono di almeno dieci secoli i codici
medievali. Tra le centinaia di rotoli o frammenti che sono stati
scoperti sono stati ritrovati testi provenienti da tutti i libri della
versione ebraica della Bibbia, tranne Ester.
I ricercatori hanno riesumato nei manoscritti del Mar Morto
gli archetipi delle principali versioni del testo biblico.
Le citazioni bibliche che risultano nelle opere giudaiche
in greco dell’epoca del Secondo Tempio, compreso il Nuovo
Testamento, costituiscono un apporto per nulla trascurabile. La
letteratura rabbinica e quella patristica sono ugualmente intrise
di abbondanti citazioni dalla Sacra Scrittura e alcune di esse
presentano autentiche varianti testuali.
Alcune testimonianze della letteratura rabbinica descrivono
aspetti del processo di trasmissione della versione ebraica della
Bibbia. In particolare si fa riferimento a dei tiqquné soferim,
«correzioni di scribi» e a dei magghihé sefarim, «revisori di libri».
Una tradizione riferisce pure l’esistenza di un rotolo ufficiale
della Torah conservato nel tempio di Gerusalemme e al quale si
fa riferimento per apportare delle correzioni: cosa che permette di
comprendere in che modo la versione ebraica della Bibbia abbia
potuto essere conservata con un certo grado di fedeltà e come
essa sia divenuta, a partire dalla fine del I secolo d.C., l’unica
autorizzata nei circoli rabbinici.
d. La ricerca scientifica
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in dubbio la paternità letteraria di Mosè – almeno per quel che
riguarda i passi anacronistici. È opportuno inoltre citare un altro
esegeta ebreo, Elia Levita (1470-1549) con il Massoret ha-massoret
(1538) che, fondando la concordanza delle revisioni masoretiche,
ha mostrato il modo in cui il testo recitato nelle sinagoghe si è
delineato nel corso del tempo.
La critica biblica ha davvero spiccato il volo con Baruch Spi-
noza (1632-1677) con il suo Tractatus teologico-politicus (1670)
che ha preconizzato un approccio razionalista e storicistico alle
Sacre Scritture, ponendo l’accento sulla necessità di studiare la
Bibbia come un qualunque altro testo, facendo riferimento al suo
contenuto piuttosto che alla tradizione.
I suoi successori, in particolare Richard Simon (1638-1712)
con L’Histoire critique du Vieux Testament (1678) hanno concen-
trato quasi tutta la loro attenzione sul problema della composi-
zione letteraria del Pentateuco: sono sorte così delle speculazioni
fondate sull’alternanza dei nomi divini all’interno del Pentateuco,
vedendovi un indizio della sovrapposizione di vari strati redazionali
nella composizione del testo.
Alcuni studiosi hanno applicato tale metodo utilizzando altri
criteri come le variazioni stilistiche, le differenze nella fraseologia
e nella teologia, le ripetizioni e le allusioni alle circostanze della
produzione del testo. Questa tendenza è giunta al culmine con
quella che si è convenuto di chiamare l’ipotesi documentaria: con-
siste nel supporre, al termine di una analisi letteraria, l’esistenza
di quattro distinte fonti scritte che sarebbero state all’origine del
Pentateuco – ognuna di queste unità raggruppandosi attorno a un
nucleo narrativo o a un insieme legislativo.
In seguito si è assistito a un ritorno di interesse per un
approccio letterario alla Bibbia che cerca di considerare il testo
nel suo insieme come unità artistica, invece di continuare con le
frammentazioni e le dissezioni tipiche dell’ipotesi documentaria.
Riconoscendo il valore dei risultati ottenuti dai sostenitori di tale
ipotesi, i fautori del nuovo approccio denunciano la ristrettezza
delle loro prospettive, in particolare allorché hanno trascurato il
rapporto tra le parti e il tutto e hanno rifiutato di vedere nel testo
biblico un insieme coerente.
Dopo la metà del XIX secolo, negli ambiti della teologia
cristiana, si è tentato di mettere in relazione la Bibbia con l’ar-
cheologia da cui ci si aspetta la prova dell’autenticità storica
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delle sue tradizioni, un’idea ripresa a partire dalla metà del XX
secolo dall’ideologia sionista dello Stato d’Israele. In seguito si
è presa coscienza del fatto che il rapporto della Bibbia con i dati
archeologici non è così semplice e che l’espressione «archeologia
biblica» è una trappola da cui oggi non si è ancora usciti, come
dimostrano le opere che si interrogano circa le origini storiche
d’Israele, di cui gli specialisti discutono sempre tra loro con idee
radicalmente divergenti.
e. Riassunto
3. La Bibbia di Alessandria
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delle dodici tribù d’Israele essendo rappresentata in quella impresa
da sei traduttori. Questo titolo è inesatto poiché vale solo per i
primi cinque libri, cioè il Pentateuco.
La testimonianza più antica di tale traduzione è la Lettera di
Aristea a Filocrate, opera forse della metà del II secolo a.C. a
cui viene riconosciuta una certa verosimiglianza per il fatto che
altre fonti (Aristobulo, Filone d’Alessandria, Giuseppe Flavio) ne
confermano le informazioni. Queste possono riassumersi in tre
punti: (1) il lavoro di traduzione sarebbe iniziato ad Alessandria
sotto il regno di Tolomeo II Filadelfio e per consiglio di Demetrio
di Falera, un bibliotecario grandemente interessato alle legisla-
zioni esterne al mondo greco; (2) i letterati ebrei originari della
Palestina, competenti nell’ebraico e nel greco, si sarebbero ritirati
ad Alessandria, nell’isola di Faro, per tradurre i rotoli giunti da
Gerusalemme scritti in caratteri ebraici d’oro; (3) i settantadue
traduttori avrebbero terminato il lavoro in settantadue giorni,
cifra eminentemente simbolica. Secondo Aristea, tale traduzione
fu molto ammirata dal re lagide e, secondo Filone (Vita di Mosè,
II, 7) ogni anno una festa commemora sull’isola di Faro l’anni-
versario del giorno in cui ebbe termine questa traduzione greca.
Nella letteratura rabbinica troviamo un racconto, senza dubbio
antico, sulla traduzione greca della Bibbia che è assai vicino a
quello della Lettera di Aristea a Filocrate (TB Maghillah 9a).
La Settanta, che non è opera d’un solo traduttore né di un
solo autore, è frutto del giudaismo ellenistico la cui concezione
del cosmo e i cui orientamenti teologici hanno goduto di una
relativa stabilità che ha consentito, per molti secoli, la mescolanza
culturale tra ebrei e greci. È dunque il risultato dell’incontro di
due culture, ebraismo e ellenismo, la cui simbiosi si è realizzata
principalmente ad Alessandria ma non solo lì.
La traduzione greca del Pentateuco si inscrive in un programma
politico attuato dai Lagidi al fine di mantenere una coesistenza
pacifica delle tradizioni proprie delle popolazioni del loro regno,
egiziane, greche e certamente ebraiche – essendo queste ultime
una componente importante nei loro territori.
Secondo una nuova interpretazione della Lettera di Aristea a
Filocrate, l’autore rimanda a un’età d’oro (quella di Tolomeo II e
del sommo sacerdote Eleazaro, III secolo a.C.) mentre scrive in
un’età di ferro (quella di Tolomeo VIII e del sommo sacerdote
Giovanni I Ircano, I secolo a.C.). Ciò richiederebbe un mutamento
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di datazione per la traduzione della Settanta unicamente per il
Pentateuco, che, non potendo più beneficiare della testimonianza
della Lettera di Aristea a Filocrate, dovrebbe essere datato al II
secolo a.C.
a. Contenuto
b. Canone
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In genere, fino al VII secolo per le Chiese d’Occidente e fino
ai giorni nostri per quelle Orientali di lingua greca, la Settanta
rimane il testo di riferimento. In Occidente è stata progressiva-
mente sostituita dalla Vulgata di Girolamo che raccomanda un
ritorno all’hebraica veritas.
Solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa cat-
tolica romana ha definitivamente integrato nel canone delle Sacre
Scritture la maggior parte delle opere supplementari, nella loro
traduzione latina, distinguendo quelle ispirate da quelle che non
lo sono.
c. Testo
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si ritiene a volte coincidere con l’Onqelos del Targum, realizzata
intorno al 130, alquanto letterale, è diventata in alcuni ambienti
ebraici di Palestina la versione greca «autorizzata».
Le divergenze tra il testo greco e l’originale ebraico non sono
tutte riconducibili a letture originali o inesattezze di traduzione.
Si spiegano anche con la differenza tra il loro modello e il testo
masoretico, con le varie vocalizzazioni possibili, con le inversioni
di consonanti, connettendo una proposizione con un’altra tramite
interventi successivi come (a) cancellare o attenuare le figure rite-
nute improprie per esprimere il divino e (b) addolcire le minacce
dei profeti in nome della misericordia divina che esprime la
speranza delle comunità giudaico-ellenistiche. Si spiegano inoltre
con le differenze di percezione riguardo punti particolari, come
per esempio il sacrificio.
Nel movimento rabbinico, la Settanta tende a suscitare
una certa diffidenza che aumenterà sempre più, senza dubbio a
motivo del suo uso all’interno del movimento cristiano ma anche
nell’ebraismo ellenistico o sinagogale.
Comunque la Settanta diventò la Bibbia del movimento
cristiano e prese il nome di Antico Testamento quando sorse
il corpus del Nuovo Testamento. Così, la maggior parte delle
citazioni del Nuovo Testamento lo sono a partire dalla Settanta,
citazioni o reminiscenze che, in modo generale, servono a for-
nire prove dirette a confermare che Gesù è il Messia annunciato
dalle Scritture. Dal II secolo i Padri della Chiesa utilizzano la
Settanta come fonte scritturale e, seguendo Filone di Alessandria,
le riconoscono lo stato di testo ispirato da Dio e ritengono che
essa annunci il Messia.
Molte recensioni della Settanta sono state effettuate da let-
terati cristiani: le principali sono quelle di Origene e di Luciano
di Antiochia.
La sua influenza si estenderà fino alle comunità cristiane nelle
cui lingue è stata tradotta: ne conosciamo delle versioni siriache,
copte, etiopi, armene georgiane e latine. Ne è stata realizzata
anche una versione gotica e una slava.
d. La ricerca scientifica
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Viene accettata la localizzazione egiziana dell’impresa di tradu-
zione, almeno per il Pentateuco, ma nulla consente di affermare
che essa abbia realmente avuto luogo ad Alessandria.
La datazione della traduzione del Pentateuco, III secolo a.e.v.,
non viene messa in dubbio dai critici. Invece l’origine palestinese
dei traduttori è rifiutata perché si ritiene che si tratti in effetti di
un lavoro svolto da letterati ebrei egiziani, il radicamento egiziano
è confermato dagli studi comparati tra la lingua greca utilizzata
nella Settanta e quella usata in Egitto in quell’epoca.
La tesi di un ordine regale, dunque di una iniziativa ufficiale,
presentata dalla Lettera di Aristea non è da rifiutare, nonostante i
critici preferiscano cercare anche le spiegazioni di tale fenomeno
di traduzione con le necessità della comunità ebraica alessan-
drina: in effetti, dato che gli ebrei egiziani non conoscevano più
l’ebraico, si è resa necessaria una traduzione della Bibbia a fini
liturgici ed educativi.
Oltre ai lavori redazionali sul testo della Settanta realizzati
nella prima metà del XX secolo, è opportuno fermare l’attenzione
sulle numerose opere di traduzione nate nella seconda metà dello
stesso secolo in lingua francese, tedesca e inglese e che sono
tuttora in corso di realizzazione.
e. Riassunto
40
4. Il Targum
41
Le traduzioni targumiche hanno tutte una storia lunga e
complessa, che deve essere messa in parallelo con quella della
formazione del corpus della Bibbia ebraica: una contestualizzazione
storica e sociologica difficile da stabilire. I critici hanno ignorato
a lungo il Targum e si è dovuto aspettare il 1930 per vedere la
pubblicazione dei Targumim ritrovati alla Ghenizah della sinagoga
caraita del Cairo, il 1956 per quella del Targum Neofiti, il 1971
per quella del Targum di Giobbe scoperto nelle grotte del Khirbet
Qumran. Da allora, le ricerche non smettono di svilupparsi con
numerosi apporti dedicati sia alla edizione e alla traduzione della
letteratura targumica, sia al suo studio.
a. I diversi Targumim
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controversie sono sorte tra i critici: così, per esempio, il Targum
Neofiti risale al II secolo a.e.v. per alcuni o al II e.v. per altri.
d. Riassunto
43
Nel TB Meghillah 3a viene detto che il Targum al Pentateuco
è dovuto a Onqelos Proselito che lo ha composto dinanzi ai suoi
maestri R. Eliezer e R. Jehoshua e che il Targum ai Profeti è
dovuto a Jonathan ben Uziel. In questo stesso passo si osserva
che se per il Targum al Pentateuco la terra non ha tremato al
momento della sua pubblicazione, non è stato lo stesso per il
Targum ai Profeti poiché se per l’autore del primo tutto è chiaro,
per i profeti di cui si tratta nel secondo vi sono cose chiare e
cose oscure o nascoste – cioè cose che debbono essere accessibili
a un’unica élite.
In T Meghillah IV, 41, è riferito a nome di R. Judah ben Iali
(fine II secolo) che «chi traduce alla lettera è un bugiardo e chi
aggiunge qualcosa è blasfemo» (si veda anche TB Qiddushin 49a).
In T Shabbat XIII, 2, viene riferito che Gamaliel I, a metà
del I secolo e.v., avrebbe fatto proibire il Targum di Giobbe a
causa di alcune difficoltà tendenti all’eresia – si tratta per certo
di quello scoperto in 11 Q, anche se la proposizione è discussa.
Questa totale opposizione o reticenza parziale alla letteratura
targumica potrebbe indicare che essa è stata prodotta e trasmessa
in ambienti vicini al giudaismo ellenistico o sinagogale di cultura
e lingua aramaica, ambienti che vanno distinti dal movimento
rabbinico che li ha recuperati e trasmessi solo in seguito, grazie
alla sua influenza su una parte di quel giudaismo, segnatamente
quella di lingua aramaica piuttosto che greca.
Resta da stabilire se convenga ricollegare la letteratura tar-
gumica al movimento rabbinico, come venne fatto a lungo, o al
giudaismo ellenistico o sinagogale, come si comincia a fare da
poco. È possibile che la risposta si collochi tra queste due ipotesi
e consideriamo che se questa letteratura è nata all’interno del
giudaismo ellenistico o sinagogale di lingua e cultura aramaica,
essa in seguito deve essere stata recuperata e trasmessa dal movi-
mento rabbinico.
In ogni caso i Targumim costituiscono una fonte importante
per gli studi delle lingue semitiche antiche e soprattutto dei diversi
dialetti aramaici. Essi forniscono un riflesso dell’uso liturgico
della Bibbia in quell’epoca e occupano un posto importante per
lo studio dell’esegesi biblica, dal momento che contengono spesso
interpretazioni diverse da quelle affermate in seguito come norma-
tive, in particolare nel movimento rabbinico e in quello cristiano.
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5. Conclusioni
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