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Scienze religiose. Nuova serie


28
a cura di
ANTONIO AUTIERO
MARINELLA PERRONI

La Bibbia
nella storia d’Europa
Dalle divisioni all’incontro

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


FBK - Centro per le Scienze Religiose
Sede: Via S. Croce, 77 – 38122 Trento
e-mail: segreteria.isr@fbk.eu

Direttore
Alberto Bondolfi

La BIBBIA
nella storia d’Europa : dalle divisioni all’incontro / a cura di
Antonio Autiero, Marinella Perroni. - Bologna : EDB, 2012. - 239 p. ; 21
cm. - (Scienze religiose. Nuova serie ; 28)
Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler. Scienze Religiose
ISBN 978-88-10-41526-9
1. Bibbia - Canone 2. Bibbia nella civiltà europea I. Autiero, Antonio
II. Perroni, Marinella
220. (DDC 22.ed.)

Composizione e impaginazione: FBK - Editoria


Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca

©
2012 Centro editoriale dehoniano
via Nosadella, 6 – 40123 Bologna
www.dehoniane.it
EDB®

ISBN 978-88-10-41526-9

Stampa: Tipografia Giammarioli, Frascati (RM) 2012

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Indice

Introduzione, Antonio Autiero e Marinella Perroni................ 7

Parte prima: Il grande orizzonte


Bibbia e Occidente. Intervista a Tullio De Mauro, a cura di
Marinella Perroni ................................................................... 13

Parte seconda: Le Bibbie dell’Occidente


La Bibbia di Gerusalemme e la Bibbia di Alessandria: la
formazione delle Sacre Scritture d’Israele, di Simon C.
Mimouni ................................................................................. 27
Una pluralità limitata. Il rovesciamento di paradigma nel II
secolo come base della formazione del canone neotestamen-
tario, di Enrico Norelli ....................................................... 47
Le Scritture di Israele diventano Antico Testamento: appro-
priazione o espropriazione?, di Georg Fischer ....................... 93

Parte terza: La Bibbia contesa


Gutenberg, Erasmo e Lutero: la Bibbia agli albori della
modernità, di Lothar Vogel ................................................... 107
Il Concilio di Trento e il dibattito sul «sola scriptura» pro-
testante, di Franco Buzzi ...................................................... 125
La Bibbia tra diffusione e interdizione, di Gigliola Fragnito ... 141
Parte quarta: Lo spirito critico
Il dibattito sul «sola scriptura» nel protestantesimo della prima
età moderna, di Emidio Campi ............................................... 157
L’emergere dell’approccio critico alla Bibbia: dal pulpito
all’Università, di Ulrich Berges ................................................ 183

Dialogo a più voci


«Non di solo pane …». La Bibbia nell’esistenza odierna,
Antonio Autiero in dialogo con Enzo Bianchi, Paolo Ricca,
Michela Murgia, Pasquale D’Ascola ....................................... 203

6
La Bibbia di Gerusalemme
e la Bibbia di Alessandria:
la formazione delle Sacre Scritture d’Israele
di Simon C. Mimouni

Il titolo del mio intervento al convegno di cui il presente


volume raccoglie gli atti, è colmo di simbolismo.
Proprio come la Bibbia di Gerusalemme e la Bibbia di
Alessandria hanno origini lontane sia da Gerusalemme sia da
Alessandria così il loro essere state raccolte e messe in un canone
è avvenuto altrove rispetto alle città di appartenenza e in un
chiaroscuro difficile da penetrare.
In queste pagine parlerò da un lato della Bibbia in lingua
ebraica e dall’altro di quella in lingua greca, essendo la seconda
più o meno la traduzione della prima – il «più o meno» è denso
di significato poiché è certo che la Bibbia greca è la traduzione
di una Bibbia ebraica che in realtà non abbiamo più. Ciò fa
percepire le difficoltà legate a tale questione, che non è poi
tanto semplice come potrebbe sembrare a prima vista, così come
occorre tener conto d’ora in poi, ogni volta che ci avviciniamo
alle due Bibbie, di un terzo insieme: il Targum, del quale pure
accennerò brevemente.
A complicare ulteriormente le cose sta il fatto che tali Bibbie
rappresentano comunità religiose in concorrenza tra loro, la cui
identificazione può sembrare facile mentre non è necessariamente
così. Per questo motivo debbo introdurre le mie argomentazioni
con una presentazione del multiforme giudaismo che è il posses-
sore di questi testi sacri.
Si tratta di cercare di sapere quale sia il testo biblico più
rappresentativo nell’Europa di oggi. La problematica individuata
è di carattere storico ma dovrebbe incidere sugli orientamenti
confessionali.

Traduzione dal francese di Maria Luisa Sgargetta

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1. Il giudaismo in tutte le sue componenti

La maggior parte dei critici, sotto l’influsso di grandi storici


come G. Alon e E.E. Urbach, ha ritenuto a lungo che per sussistere
il giudaismo, essenzialmente – per non dire esclusivamente – sotto
l’ala del movimento farisaico-tannaita della scuola di Hillel, con
a capo Rabbi Jochanan ben Zakkaj, è stato ripensato in tutte le
sue strutture politiche e religiose. È la tesi tradizionale di un giu-
daismo rabbinico che rimpiazza tranquillamente e naturalmente,
ma con una certa urgenza, il giudaismo sacerdotale.
Al giorno d’oggi questa tesi tradizionale è affermata sempre
meno dai critici. In effetti, considerando le testimonianze lette-
rarie (rabbiniche e altre) e quelle non letterarie (archeologiche,
epigrafiche e numismatiche), le attuali ricerche – seguendo la linea
tracciata da molti decenni da alcuni critici, in particolare A.F.
Segal nel 1986 e S. Schwartz nel 2001, ma che è molto più antica
giacché risale almeno al 1934 con E.R. Goodenough – dimostrano
sempre più che sembra preferibile ritenere che dopo il 70 d.C. in
Palestina almeno due movimenti religiosi, e non uno solo, siano
sopravvissuti alla catastrofe: il primo nella linea dei farisei, quella
dei rabbi; il secondo nella linea dei nazirei (nozrim), quella dei
cristiani. Questi stessi critici insistono, con sfumature diverse,
sull’esistenza di una terza categoria sopravvissuta anch’essa alla
distruzione del santuario e alle sue conseguenze ma che non ha
costituito un vero e proprio movimento: è quella formata dall’im-
mensa maggioranza degli ebrei di lingua e cultura greche ma
anche di lingua e cultura aramaiche, che non sono né farisei né
nazorei. Si tratta semplicemente del popolo ebraico che condivide
l’esistenza e l’attività politica e civile dei greci in mezzo ai quali
vive, senza necessariamente esser stati ‘degiudaizzati’, come a
volte si afferma con scopi denigratori o delegittimanti.
Questa categoria trova le proprie radici nel popolo ebraico
antecedente la rivolta del 66-74 d.C. ed è costituita da tutti coloro
che non appartengono a nessun movimento dell’epoca (sadducei,
farisei, esseni, cristiani e altri).
L’esistenza di tale categoria pone il problema di quale sia
stato l’influsso della cultura ellenistica sugli ebrei di Palestina in
epoca greca e romana, e quali la sua diffusione e la sua influenza
sull’insieme del popolo e non solo sulle sue élites. Qui non ci
porremo il problema di quest’ultima categoria, sulla quale si sta

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attuando un vero aggiornamento, e su cui torneremo brevemente.
Essa può venir definita, in mancanza di meglio per il momento,
dalle espressioni «giudaismo ellenistico» e «giudaismo sinago-
gale», anche se le attestazioni che la riguardano non sono soltanto
archeologiche e iconografiche ma pure letterarie.
Di conseguenza sembra erroneo confondere giudaismo e
rabbinismo: quest’ultimo infatti ha rappresentato per molti secoli
solo una delle componenti del popolo ebraico in un quadro carat-
terizzato dalla presenza di movimenti. Sarebbe altrettanto sbagliato
ritenere che il cristianesimo debba essere distinto dal giudaismo:
anche se i suoi rapporti con il rabbinismo sono già conflittuali.
Si tratta dunque di prendere in considerazione da ora in poi una
storia a tre voci (giudaismo ellenistico o sinagogale, movimento dei
rabbi, movimento dei cristiani) e non a due (movimento dei rabbi,
movimento dei cristiani) o a una sola voce (movimento dei rabbi).
I rabbi e i cristiani all’epoca costituiscono movimenti relativa-
mente minoritari. I conflitti tra questi due movimenti sopravvissuti
e la terza categoria di ebrei saranno molteplici e si esprimeranno,
in una data difficile da stabilire con precisione, attraverso la vit-
toria dei discendenti dei farisei/tannaiti e dei nazorei/cristiani e
attraverso la scomparsa del gruppo maggioritario i cui membri
si congiungeranno senza dubbio ai vincitori, a eccezione forse
di alcuni di loro che sopravvivranno nell’Impero bizantino per
tutto il medioevo.
La Bibbia non è un bene che appartiene unicamente a una
di queste tre categorie del giudaismo, ma è un bene più o meno
condiviso da esse. Ciò non toglie che se la Bibbia di Gerusalemme
dipende dal movimento dei rabbi e la Bibbia di Alessandria da
quello dei cristiani, entrambe sono, in qualche modo, il frutto del
giudaismo ellenistico o sinagogale.

2. La Bibbia di Gerusalemme

Il termine «Bibbia», che indica gli scritti sacri del popolo


ebraico, deriva dal greco ho biblion (letteralmente «il libro»):
definizione che equivale esattamente all’ebraico ha-sefarim
(letteralmente «i libri»). La parola usata di solito in ebraico è
«TaNaKh»: un acronimo che mette in evidenza le iniziali delle
tre suddivisioni della Bibbia: Torah (Pentateuco), Neevim (Profeti),

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Ketuvim (Agiografi) – la si trova in Talmud babilonese [da ora
in poi TB] Sanhedrin 101a, Qiddushin 49a, Moed Qatan 21a.
I cristiani usano il termine «Antico Testamento» per distin-
guere gli scritti sacri di quella che considerano l’Antica Alleanza
dal «Nuovo Testamento» che essi ritengono gli scritti sacri della
Nuova Alleanza.
Il testo biblico è redatto in ebraico con alcuni passi in ara-
maico: due parole in Genesi (31,47), un versetto in Geremia (10,11)
e alcune parti di Daniele (2,46-47, 25) e di Esdra (4,8-6, 18; 7,
12-26). L’ebraico biblico non ha nulla di uniforme, date le diverse
epoche evidenziate dal testo: vi si distinguono dunque parecchi
strati di evoluzione della lingua e molti dialetti.

a. Contenuto

Le testimonianze ebraiche più antiche fissano a ventiquat-


tro il numero dei libri della versione ebraica della Bibbia. Non
viene precisato esplicitamente se tale cifra abbia un significato
particolare, o se risulti da un calcolo artificiale che consiste nel
vedere nei Profeti minori un unico libro e nel raggruppare insieme
Esdra e Neemia. La divisione di Samuele, Re e Cronache in
due libri ciascuno dipende da una ripartizione tarda. Dal canto
suo, Giuseppe Flavio enumera ventidue libri (Contra Apionem I,
§§ 38-42): per farlo raggruppa insieme Giudici e Rut, così come
Geremia e le Lamentazioni, un uso rimasto nelle versioni greche
e latine della Bibbia.

b. Canone

Il canone è un corpus delimitato di Scritti Sacri dotati di


autorità, considerati tali da diverse comunità religiose nella misura
in cui queste ultime credono che essi siano stati rivelati o ispirati
da una divinità.
Il concetto di canone è essenziale per comprendere in che
modo la Bibbia è divenuta il nucleo dell’esistenza religiosa degli
ebrei e in che modo Israele è stato definito «Popolo del Libro».
La parola greca kanon deriva dall’ebraico qaneh che significa
«bastoncino» o «canna»: indica un concetto di misura. I Padri
della Chiesa l’hanno applicata alle Sacre Scritture e, nella lette-
ratura rabbinica, ne troviamo un riflesso nell’espressione sefarim

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chizonim che significa «libri esterni» (Mishnah [da ora in poi M]
Sanhedrin X,1), riferita ai libri non canonici.
Due espressioni ebraiche fanno da tramite anche ai concetti
di canone e canonicità: metammé ’et ha-jadajim, che vuol dire
«rende impure le mani» e rimanda all’idea che chiunque tocchi
un libro canonico si ponga nello stato di impurità rituale; ghe-
nizah, che designa il luogo in cui si depositano i libri canonici
quando non vengono utilizzati. Di questa terminologia si servono
i rabbi tannaiti quando discutono della canonicità dei Proverbi,
del Qohelet, del Cantico dei Cantici e di Ester.
Il concetto di canone implica un processo al termine del quale
certi libri sono stati deliberatamente messi in disparte, mentre altri
sono stati considerati sacri e canonizzati ufficialmente. A volte libri
isolati sono stati riconosciuti come canonici, dopo esser stati esclusi
dal canone per un periodo di tempo molto lungo. Quando un libro
viene reso canonico, ha termine il suo sviluppo letterario: da quel
momento gli scribi e i copisti hanno il compito di trasmetterlo
con esattezza letterale. Con la canonizzazione di un intero corpus,
viene posta una ‘barriera’ e diventa impossibile aggiungervi altri
libri. In ogni caso, il credere nell’ispirazione divina di tali scritti
è il requisito necessario per la loro canonizzazione.
Nella sua forma attuale, il canone della versione ebraica
della Bibbia è il prodotto di un complesso processo storico e
letterario. Se si escludono le testimonianze di epoca greca che
alludono ad alcune fasi relativamente tarde di questa evoluzione,
le informazioni che provengono dai periodi precedenti sono rare
e poco concludenti. Di conseguenza ogni tentativo di ricostitu-
zione va preso con cautela: la ricerca ammette per esempio che
la divisione della versione ebraica della Bibbia in tre parti nasca
da una evoluzione storica e che ciascuna delle parti abbia avuto
accesso al canone in periodi storici differenti.
Nella versione ebraica della Bibbia troviamo due resoconti
significativi della canonizzazione del Pentateuco. Il primo è 2 Re
22-23 e riguarda la scoperta e l’agnizione del Deuteronomio. Il
secondo è Ne 8-10 e riferisce la lettura pubblica della Torah da
parte dello scriba Esdra nel corso di una cerimonia organizzata
su richiesta del popolo giudaico.
Un certo numero di avvenimenti sembra indicare che esi-
stono diverse tradizioni riguardanti la fissazione del canone tra
le comunità giudaiche alla fine dell’epoca del Secondo tempio.

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Le controversie nate attorno alla canonicità di libri come
Proverbi, Qohelet, Cantico dei Cantici e Ester trovano eco grazie
alle discussioni rabbiniche del periodo dei tannaiti e degli amo-
raiti (M Jadajim III, 5; TB Meghillah 7a). Il Libro del Siracide
ha goduto di uno stato quasi canonico presso alcune comunità
ebraiche, ma è stato escluso dal canone rabbinico.
La fissazione del canone della versione ebraica della Bibbia,
quella del movimento rabbinico, è attestata in numerose discussioni
talmudiche che rimandano al sinodo di Javneh.

c. Testo

Il testo della versione ebraica della Bibbia, così come stam-


pato nelle edizioni moderne e come è conosciuto dal medioevo,
è costituito da tre elementi grafici: le consonanti, i segni vocalici,
i segni prosodici – questi ultimi servono per la lettura musicale
durante il culto.
I segni vocalici e prosodici sono delle aggiunte al testo
consonantico: furono introdotti dai masoreti nel medioevo allo
scopo di preservare la tradizione orale della vocalizzazione,
della pronuncia e della cantillazione che sono sempre state un
complemento obbligato del testo scritto. Nell’antichità solamente
le consonanti sono annotate e gli altri elementi non vengono
rappresentati graficamente.
I manoscritti più antichi della versione ebraica della Bibbia
risalgono al IX secolo e tutti riflettono la tradizione nota come
masoretica, a parte quelli che sono stati ritrovati nelle grotte vicine
a Khirbet Qumran e che risalgono al I secolo a.C o al I d.C.
Tutti presentano certamente un gran numero di varianti grafiche
o grammaticali ma la maggior parte di essi non differisce per il
senso: fin da un’epoca relativamente antica il testo della Bibbia è
già stabilito in modo sicuro, senza dubbio alla fine di un lavoro
critico molto approfondito.
Il testo consonantico è molto diversificato: un certo numero
di testimonianze fa pensare che vi fosse già in circolazione una
grande varietà di testi e che ognuno di questi si fosse distinto
dagli altri grazie a lezioni particolari attinenti non solo alla forma
ma anche al contenuto, per scelte diverse di termini, per l’impiego
di un vocabolo piuttosto che di un altro, per il concatenamento
diverso dei versetti e persino di interi episodi. Così versioni

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ampliate o abbellite hanno dovuto coabitare con versioni più
sobrie, al punto che alcune delle prime hanno potuto contenere
dati assenti altrove.
Le più importanti testimonianze testuali della versione ebraica
della Bibbia sono i rotoli o i frammenti scoperti nei manoscritti
del Mar Morto. Tale scoperta ha messo a disposizione i più antichi
documenti biblici che precedono di almeno dieci secoli i codici
medievali. Tra le centinaia di rotoli o frammenti che sono stati
scoperti sono stati ritrovati testi provenienti da tutti i libri della
versione ebraica della Bibbia, tranne Ester.
I ricercatori hanno riesumato nei manoscritti del Mar Morto
gli archetipi delle principali versioni del testo biblico.
Le citazioni bibliche che risultano nelle opere giudaiche
in greco dell’epoca del Secondo Tempio, compreso il Nuovo
Testamento, costituiscono un apporto per nulla trascurabile. La
letteratura rabbinica e quella patristica sono ugualmente intrise
di abbondanti citazioni dalla Sacra Scrittura e alcune di esse
presentano autentiche varianti testuali.
Alcune testimonianze della letteratura rabbinica descrivono
aspetti del processo di trasmissione della versione ebraica della
Bibbia. In particolare si fa riferimento a dei tiqquné soferim,
«correzioni di scribi» e a dei magghihé sefarim, «revisori di libri».
Una tradizione riferisce pure l’esistenza di un rotolo ufficiale
della Torah conservato nel tempio di Gerusalemme e al quale si
fa riferimento per apportare delle correzioni: cosa che permette di
comprendere in che modo la versione ebraica della Bibbia abbia
potuto essere conservata con un certo grado di fedeltà e come
essa sia divenuta, a partire dalla fine del I secolo d.C., l’unica
autorizzata nei circoli rabbinici.

d. La ricerca scientifica

La critica testuale applicata alla Bibbia è una delle discipline


che risalgono alla tarda antichità e al medioevo. Dopo tali epoche
ebrei, greci, cristiani, caraiti o musulmani si sono confrontati con
i problemi posti da alcune contraddizioni, illogicità e difficoltà
testuali.
L’esegeta medievale Ibn Ezra (1093-1167) è il vero pioniere
della critica biblica poiché ha suggerito di individuare in alcuni
passi del Pentateuco degli anacronismi che potrebbero mettere

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in dubbio la paternità letteraria di Mosè – almeno per quel che
riguarda i passi anacronistici. È opportuno inoltre citare un altro
esegeta ebreo, Elia Levita (1470-1549) con il Massoret ha-massoret
(1538) che, fondando la concordanza delle revisioni masoretiche,
ha mostrato il modo in cui il testo recitato nelle sinagoghe si è
delineato nel corso del tempo.
La critica biblica ha davvero spiccato il volo con Baruch Spi-
noza (1632-1677) con il suo Tractatus teologico-politicus (1670)
che ha preconizzato un approccio razionalista e storicistico alle
Sacre Scritture, ponendo l’accento sulla necessità di studiare la
Bibbia come un qualunque altro testo, facendo riferimento al suo
contenuto piuttosto che alla tradizione.
I suoi successori, in particolare Richard Simon (1638-1712)
con L’Histoire critique du Vieux Testament (1678) hanno concen-
trato quasi tutta la loro attenzione sul problema della composi-
zione letteraria del Pentateuco: sono sorte così delle speculazioni
fondate sull’alternanza dei nomi divini all’interno del Pentateuco,
vedendovi un indizio della sovrapposizione di vari strati redazionali
nella composizione del testo.
Alcuni studiosi hanno applicato tale metodo utilizzando altri
criteri come le variazioni stilistiche, le differenze nella fraseologia
e nella teologia, le ripetizioni e le allusioni alle circostanze della
produzione del testo. Questa tendenza è giunta al culmine con
quella che si è convenuto di chiamare l’ipotesi documentaria: con-
siste nel supporre, al termine di una analisi letteraria, l’esistenza
di quattro distinte fonti scritte che sarebbero state all’origine del
Pentateuco – ognuna di queste unità raggruppandosi attorno a un
nucleo narrativo o a un insieme legislativo.
In seguito si è assistito a un ritorno di interesse per un
approccio letterario alla Bibbia che cerca di considerare il testo
nel suo insieme come unità artistica, invece di continuare con le
frammentazioni e le dissezioni tipiche dell’ipotesi documentaria.
Riconoscendo il valore dei risultati ottenuti dai sostenitori di tale
ipotesi, i fautori del nuovo approccio denunciano la ristrettezza
delle loro prospettive, in particolare allorché hanno trascurato il
rapporto tra le parti e il tutto e hanno rifiutato di vedere nel testo
biblico un insieme coerente.
Dopo la metà del XIX secolo, negli ambiti della teologia
cristiana, si è tentato di mettere in relazione la Bibbia con l’ar-
cheologia da cui ci si aspetta la prova dell’autenticità storica

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delle sue tradizioni, un’idea ripresa a partire dalla metà del XX
secolo dall’ideologia sionista dello Stato d’Israele. In seguito si
è presa coscienza del fatto che il rapporto della Bibbia con i dati
archeologici non è così semplice e che l’espressione «archeologia
biblica» è una trappola da cui oggi non si è ancora usciti, come
dimostrano le opere che si interrogano circa le origini storiche
d’Israele, di cui gli specialisti discutono sempre tra loro con idee
radicalmente divergenti.

e. Riassunto

La versione ebraica della Bibbia, masoretica, attestata


solamente da manoscritti medievali, potrebbe discendere da un
unico esemplare, prodotto da una recensione particolare risalente
all’epoca di R. Aqiva (verso il 100-130 e.v.): cioè essa verrebbe
dal movimento dei rabbi e non dal giudaismo precedente la distru-
zione del tempio di Gerusalemme. Se si accertasse tale ipotesi, le
versioni greca o samaritana rappresenterebbero delle recensioni
precedenti la versione ebraica.
Esistono numerose versioni della Bibbia ebraica tra cui
converrà citare la Peshitta siriaca, la Vulgata latina e infine la
Settanta greca.
Il testo masoretico, che è quello consonantico vocalizzato
dai Masoreti verso l’anno 800 e ricopiato nel medioevo, esisteva
nell’antichità ed è quello maggiormente attestato tra i manoscritti
del Mar Morto, ma non è il solo. Per parecchi libri biblici la
Settanta traduce un modello ebraico diverso dal testo masoretico,
come per esempio nel caso del Libro di Geremia.

3. La Bibbia di Alessandria

Qui prenderemo in esame unicamente della Settanta che è


la versione greca più antica e più celebre della Bibbia ebraica.
Ma ne esistono anche altre, come per esempio quelle di Aquila,
di Teodozione e di Simmaco, che vengono considerate soltanto
revisioni della prima traduzione.
La Settanta deve il proprio nome al numero dei traduttori che,
secondo la tradizione, vi hanno lavorato: settanta o settantadue
in tutto – le fonti divergono sulla cifra che è simbolica, ognuna

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delle dodici tribù d’Israele essendo rappresentata in quella impresa
da sei traduttori. Questo titolo è inesatto poiché vale solo per i
primi cinque libri, cioè il Pentateuco.
La testimonianza più antica di tale traduzione è la Lettera di
Aristea a Filocrate, opera forse della metà del II secolo a.C. a
cui viene riconosciuta una certa verosimiglianza per il fatto che
altre fonti (Aristobulo, Filone d’Alessandria, Giuseppe Flavio) ne
confermano le informazioni. Queste possono riassumersi in tre
punti: (1) il lavoro di traduzione sarebbe iniziato ad Alessandria
sotto il regno di Tolomeo II Filadelfio e per consiglio di Demetrio
di Falera, un bibliotecario grandemente interessato alle legisla-
zioni esterne al mondo greco; (2) i letterati ebrei originari della
Palestina, competenti nell’ebraico e nel greco, si sarebbero ritirati
ad Alessandria, nell’isola di Faro, per tradurre i rotoli giunti da
Gerusalemme scritti in caratteri ebraici d’oro; (3) i settantadue
traduttori avrebbero terminato il lavoro in settantadue giorni,
cifra eminentemente simbolica. Secondo Aristea, tale traduzione
fu molto ammirata dal re lagide e, secondo Filone (Vita di Mosè,
II, 7) ogni anno una festa commemora sull’isola di Faro l’anni-
versario del giorno in cui ebbe termine questa traduzione greca.
Nella letteratura rabbinica troviamo un racconto, senza dubbio
antico, sulla traduzione greca della Bibbia che è assai vicino a
quello della Lettera di Aristea a Filocrate (TB Maghillah 9a).
La Settanta, che non è opera d’un solo traduttore né di un
solo autore, è frutto del giudaismo ellenistico la cui concezione
del cosmo e i cui orientamenti teologici hanno goduto di una
relativa stabilità che ha consentito, per molti secoli, la mescolanza
culturale tra ebrei e greci. È dunque il risultato dell’incontro di
due culture, ebraismo e ellenismo, la cui simbiosi si è realizzata
principalmente ad Alessandria ma non solo lì.
La traduzione greca del Pentateuco si inscrive in un programma
politico attuato dai Lagidi al fine di mantenere una coesistenza
pacifica delle tradizioni proprie delle popolazioni del loro regno,
egiziane, greche e certamente ebraiche – essendo queste ultime
una componente importante nei loro territori.
Secondo una nuova interpretazione della Lettera di Aristea a
Filocrate, l’autore rimanda a un’età d’oro (quella di Tolomeo II e
del sommo sacerdote Eleazaro, III secolo a.C.) mentre scrive in
un’età di ferro (quella di Tolomeo VIII e del sommo sacerdote
Giovanni I Ircano, I secolo a.C.). Ciò richiederebbe un mutamento

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di datazione per la traduzione della Settanta unicamente per il
Pentateuco, che, non potendo più beneficiare della testimonianza
della Lettera di Aristea a Filocrate, dovrebbe essere datato al II
secolo a.C.

a. Contenuto

Il contenuto della Settanta muta a seconda della definizione


che se ne dà: si distingue tra una definizione ristretta e una ampia.
Nel senso ristretto si tratta dei cinque libri del Pentateuco e allora
la Settanta corrisponde alla concezione propria della tradizione
giudaico-ellenistica rappresentata da Aristea, Filone e Giuseppe
Flavio: è la Legge, Nomos, degli ebrei. Nel senso ampio si tratta
della totalità dei libri della Bibbia ebraica ai quali sono state fatte
delle aggiunte (a Geremia, Daniele, Ester e ai Salmi) e anche a
numerose opere apocrife: in tutto sono state aggiunte una cin-
quantina di opere al nucleo che rappresenta il senso ristretto.
I libri assenti della Bibbia ebraica sono: 1 Esdra, 1 Maccabei,
2 Maccabei, 3 Maccabei, 4 Maccabei, Siracide, Sapienza, Giuditta,
Tobia e Salmi di Salomone.
Si pensa che se la traduzione del Pentateuco è di origine egi-
ziana, alcuni libri aggiunti in seguito sono stati tradotti in Palestina
(Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Rut, Ester, Ecclesiaste), altri
ancora sono stati tradotti ad Alessandria ma da traduttori giunti
dalla Palestina (Siracide, Sapienza).

b. Canone

Il problema del canone della Settanta parve porsi dal momento


in cui essa divenne la Bibbia del movimento cristiano di lingua
greca. Esso ha dovuto porsi anche in riferimento al fatto che è
ancora la Bibbia dell’ebraismo greco o sinagogale, pure di lingua
greca. I critici che si sono dedicati a tale questione non sono
ancora arrivati a un accordo.
La storia del canone della Settanta è molto più complessa
dovendo distinguere tra le diverse comunità del giudaismo elle-
nistico che l’hanno utilizzata, in particolare quelle appartenenti
al movimento cristiano. Si è pure cercato di porre le basi di una
ricerca sul canone delle comunità cristiane d’origine ebraica di
lingua greca.

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In genere, fino al VII secolo per le Chiese d’Occidente e fino
ai giorni nostri per quelle Orientali di lingua greca, la Settanta
rimane il testo di riferimento. In Occidente è stata progressiva-
mente sostituita dalla Vulgata di Girolamo che raccomanda un
ritorno all’hebraica veritas.
Solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa cat-
tolica romana ha definitivamente integrato nel canone delle Sacre
Scritture la maggior parte delle opere supplementari, nella loro
traduzione latina, distinguendo quelle ispirate da quelle che non
lo sono.

c. Testo

Esistono molti manoscritti della Settanta scritti in caratteri


onciali: Vaticanus, Sinaiticus, Alexandrinus e Venetus – il più antico
non è anteriore al IV secolo. Ne esistono molte altre versioni ma
in caratteri minuscoli.
Il problema del testo della Settanta viene discusso in parti-
colare a motivo della sua fluidità: è difficile sapere se i grandi
codici che la trasmettono hanno davvero conservato il lavoro dei
traduttori alessandrini, senza altre alterazioni né revisioni oltre
quelle cui soggiace ogni testo prodotto da una lunga tradizione
manoscritta, o se, al contrario, essi non contengano altro che un
lavoro tardivo di semplificazione e di unificazione della versione
greca, operato a partire da molteplici traduzioni divergenti.
In Palestina le traduzioni greche della Bibbia ebraica sono
state accolte diversamente. Si sa che esistono revisioni palestinesi
della Settanta molto precoci che sono state intraprese per inizia-
tiva di ebrei che dipendevano forse dal giudaismo ellenistico o
sinagogale e non necessariamente dal movimento rabbinico come
spesso si pensa: si tratta soprattutto di revisioni dette del «groupe
kaigé»1 ma anche di quelle che sono state attribuite a Aquila,
a Teodozione e a Simmaco. Tali revisioni hanno soprattutto il
senso di una maggiore conformità del testo greco con l’originale
ebraico premasoretico e la loro esistenza è la prova del fatto che
la traduzione alessandrina è molto mal considerata in Palestina,
soprattutto tra gli ebrei di lingua greca. La revisione di Aquila, che
1 Nel 1963 D. Bathélémy identificò una recensione, ebraicizzante, della Settanta
che egli chiamò revisione del «groupe kaigé», in quanto caratterizzata dall’uso della
congiunzione enfatica greca kai ghe (e, inoltre ecc. N.d.T.).

38
si ritiene a volte coincidere con l’Onqelos del Targum, realizzata
intorno al 130, alquanto letterale, è diventata in alcuni ambienti
ebraici di Palestina la versione greca «autorizzata».
Le divergenze tra il testo greco e l’originale ebraico non sono
tutte riconducibili a letture originali o inesattezze di traduzione.
Si spiegano anche con la differenza tra il loro modello e il testo
masoretico, con le varie vocalizzazioni possibili, con le inversioni
di consonanti, connettendo una proposizione con un’altra tramite
interventi successivi come (a) cancellare o attenuare le figure rite-
nute improprie per esprimere il divino e (b) addolcire le minacce
dei profeti in nome della misericordia divina che esprime la
speranza delle comunità giudaico-ellenistiche. Si spiegano inoltre
con le differenze di percezione riguardo punti particolari, come
per esempio il sacrificio.
Nel movimento rabbinico, la Settanta tende a suscitare
una certa diffidenza che aumenterà sempre più, senza dubbio a
motivo del suo uso all’interno del movimento cristiano ma anche
nell’ebraismo ellenistico o sinagogale.
Comunque la Settanta diventò la Bibbia del movimento
cristiano e prese il nome di Antico Testamento quando sorse
il corpus del Nuovo Testamento. Così, la maggior parte delle
citazioni del Nuovo Testamento lo sono a partire dalla Settanta,
citazioni o reminiscenze che, in modo generale, servono a for-
nire prove dirette a confermare che Gesù è il Messia annunciato
dalle Scritture. Dal II secolo i Padri della Chiesa utilizzano la
Settanta come fonte scritturale e, seguendo Filone di Alessandria,
le riconoscono lo stato di testo ispirato da Dio e ritengono che
essa annunci il Messia.
Molte recensioni della Settanta sono state effettuate da let-
terati cristiani: le principali sono quelle di Origene e di Luciano
di Antiochia.
La sua influenza si estenderà fino alle comunità cristiane nelle
cui lingue è stata tradotta: ne conosciamo delle versioni siriache,
copte, etiopi, armene georgiane e latine. Ne è stata realizzata
anche una versione gotica e una slava.

d. La ricerca scientifica

La tradizione fondata sulla Lettera di Aristea e su Filone di


Alessandria è stata rimessa in questione dalla critica moderna.

39
Viene accettata la localizzazione egiziana dell’impresa di tradu-
zione, almeno per il Pentateuco, ma nulla consente di affermare
che essa abbia realmente avuto luogo ad Alessandria.
La datazione della traduzione del Pentateuco, III secolo a.e.v.,
non viene messa in dubbio dai critici. Invece l’origine palestinese
dei traduttori è rifiutata perché si ritiene che si tratti in effetti di
un lavoro svolto da letterati ebrei egiziani, il radicamento egiziano
è confermato dagli studi comparati tra la lingua greca utilizzata
nella Settanta e quella usata in Egitto in quell’epoca.
La tesi di un ordine regale, dunque di una iniziativa ufficiale,
presentata dalla Lettera di Aristea non è da rifiutare, nonostante i
critici preferiscano cercare anche le spiegazioni di tale fenomeno
di traduzione con le necessità della comunità ebraica alessan-
drina: in effetti, dato che gli ebrei egiziani non conoscevano più
l’ebraico, si è resa necessaria una traduzione della Bibbia a fini
liturgici ed educativi.
Oltre ai lavori redazionali sul testo della Settanta realizzati
nella prima metà del XX secolo, è opportuno fermare l’attenzione
sulle numerose opere di traduzione nate nella seconda metà dello
stesso secolo in lingua francese, tedesca e inglese e che sono
tuttora in corso di realizzazione.

e. Riassunto

Si è soliti dire che gli ebrei hanno rifiutato la Settanta, dal II


secolo, in seguito all’adozione di tale versione da parte dei cristiani.
Le ricerche più recenti rifiutano il legame tra il fenomeno del
rigetto da parte ebraica e quello dell’adozione da parte cristiana, e
sostengono che non si può più dire che gli ebrei abbiano rifiutato
la Settanta perché è diventata la Bibbia dei cristiani.
Appare sempre più chiaro che un ebraismo di lingua greca è
esistito dall’antichità e per tutto il periodo medievale.
La Ghenizah della sinagoga caraita del Cairo ha conservato
numerosi manoscritti in lingua giudaico-greca ma con caratteri
ebraici, fra i quali molti frammenti di traduzioni bibliche.
La Settanta e alcune delle sue revisioni sono state la Bibbia
del giudaismo ellenistico o sinagogale della Palestina e della
Diaspora che si è conservato, a fianco del movimento rabbinico,
fino a un’epoca avanzata.

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4. Il Targum

Il Targum è una traduzione aramaica della Bibbia ebraica


realizzata da ebrei palestinesi o babilonesi per l’uso liturgico nei
loro luoghi di culto al di fuori del tempio di Gerusalemme. Esso
dunque è nato dalle necessità liturgiche in un periodo in cui, in
alcuni ambienti ebraici, non si conosceva più l’ebraico, almeno
quello biblico, ma in cui si parlava l’aramaico.
Si fa risalire la parola targum alla radice tirgam che significa
«proclamare», «tradurre» e «spiegare» e la troviamo in Esd 4,7 –
la sua origine sarebbe accadica (targummu) o piuttosto ittita (tar-
kammai). Nel Targum comparve la parola metorgeman o metur-
geman con il significato di «interprete» (Gen 42,23; Es 4,16) che
non è troppo lontano dal greco hermeneutes (Gen 42,23/LXX).
All’origine si tratta di un fenomeno basato essenzialmente
sull’oralità: così, assistendo il lettore, il traduttore del luogo di
culto, all’occorrenza la sinagoga, traduce il testo biblico ma senza
riguardare il rotolo perché si possa distinguere nettamente tra la
Torah scritta e la sua tradizione di lettura puramente orale.
La prima attestazione è Ne 8,7-8 che riferisce un prototipo
dell’ufficio liturgico con la lettura della Torah da parte di Esdra
accompagnata da un commento di stampo midrashico: un passaggio
che potrebbe riflettere, in epoca antica, un embrione di liturgia
sinagogale e di pratica targumica.
È difficile datare l’origine della pratica targumica e localizzarla
con precisione. Essa dipende dalla situazione linguistica locale
e dalle difficoltà di comprensione di certi testi biblici, come per
esempio il Libro di Giobbe. Quella pratica dipende inoltre, quanto
al suo esser messa per iscritto, dal sistema delle letture bibliche
nei luoghi di culto (brani scelti o lettura continua).
Secondo Ne 13,23-24, sembra che già all’epoca persiana ci
fossero stati, in Giudea, problemi di comprensione. Senza dubbio
è a partire dal momento in cui si inizia a leggere passi biblici
scelti per certi sabati e per i giorni di festa che le prime tradu-
zioni aramaiche si sono concentrate su questi testi e in seguito
sono state inserite nelle versioni complete quando, in sinagoga,
la Torah divenne una lettura continua. Le parti più antiche del
Targum corrispondono ai passi biblici considerati difficili (Gen
49; Es 15; Dt 32-33): in questi testi la parafrasi ha preso il posto
della traduzione, confluendo così in tradizioni interpretative.

41
Le traduzioni targumiche hanno tutte una storia lunga e
complessa, che deve essere messa in parallelo con quella della
formazione del corpus della Bibbia ebraica: una contestualizzazione
storica e sociologica difficile da stabilire. I critici hanno ignorato
a lungo il Targum e si è dovuto aspettare il 1930 per vedere la
pubblicazione dei Targumim ritrovati alla Ghenizah della sinagoga
caraita del Cairo, il 1956 per quella del Targum Neofiti, il 1971
per quella del Targum di Giobbe scoperto nelle grotte del Khirbet
Qumran. Da allora, le ricerche non smettono di svilupparsi con
numerosi apporti dedicati sia alla edizione e alla traduzione della
letteratura targumica, sia al suo studio.

a. I diversi Targumim

Esistono dei Targumim per l’insieme della Bibbia ebraica,


tranne per i libri che sono stati parzialmente composti in aramaico
(Daniele, Esdra e Neemia).
I più antichi sono stati scoperti tra i manoscritti del Mar
Morto: sono i frammenti di un Targum del Libro del Levitico (Lv
16,12-21) del I secolo a.e.v.-I sec. e.v. (4QTgLv) e del Libro di
Giobbe del II secolo a.e.v. (11 QTgJb; 4QTgJb).
Si suddividono in Targumim del Pentateuco (principalmente:
Targum Onqelos o Targum di Babilonia; Targum Jonathan [Pseudo-
Jonathan] o Targum di Palestina; Targum Neofiti), Targumim dei
Profeti e Targumim degli Agiografi.

b. Datazione e localizzazione dei Targumim

Per datare e circoscrivere la letteratura targumica, generalmente


si procede associando il metodo paleografico e quello linguistico,
evidentemente viene utilizzata anche la critica interna. La letteratura
targumica può essere divisa in due principali gruppi linguistici:
cosa che consente di pensare che essa appartiene sia alla Pale-
stina sia a Babilonia. In effetti i Targumim sono stati composti
in aramaico galilaico (o giudeo-palestinese) e in aramaico babi-
lonese (o giudeo-babilonese). Ma l’uso di tali dialetti non offre
comunque elementi sufficientemente affidabili per datazioni precise
che variano complessivamente tra il I e l’VIII secolo e.v. L’evo-
luzione dell’aramaico offre criteri che permettono di classificare i
testi e di proporne elementi di datazione e localizzazione. Aspre

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controversie sono sorte tra i critici: così, per esempio, il Targum
Neofiti risale al II secolo a.e.v. per alcuni o al II e.v. per altri.

c. Caratteristiche dei Targumim

I Targumim, che condividono molti generi letterari, di solito


si rivolgono a una mentalità popolare che ama sia il meraviglioso
sia i tratti realisti e truculenti. Quelli editi a Babilonia tendono a
rimanere relativamente vicini all’originale ebraico mentre quelli
di Palestina sono spesso più parafrastici e sviluppati con passaggi
interpretativi assenti dall’originale ebraico. Tali interpretazioni
sono in genere suscitate da una difficoltà rispetto al versetto
ebraico e si trovano quasi sempre dei paralleli nella letteratura
rabbinica antica. Un’altra differenza importante tra i Targumim
palestinesi e quelli babilonesi sta nella loro interpretazione dei
passi giuridici: in queste variazioni, dall’inizio del II secolo,
si riflettono le diverse interpretazioni delle scuole halakiche di
R. Aqiva e R. Ismael.
In quanto traduzione liturgica il Targum orale presenta due
imperativi principali: (1) esso deve, attraverso certe regolamen-
tazioni, rendere il testo immediatamente accessibile a chi ascolta
e non ha il testo sotto gli occhi, e dare una lettura attualizzante;
(2) deve, in questa prospettiva, rinunciare alla lettera del testo
e seguire una interpretazione comunemente ammessa e non le
interpretazioni specifiche di particolari gruppi politico-religiosi.
L’attività interpretativa accompagna dunque sempre quella
di traduzione: due attività che fanno nascere un testo nuovo che
riflette culture e mentalità differenti, da qui il suo grande interesse.
Progressivamente l’aspetto interpretativo ha soppiantato quello
della traduzione: è allora che il Targum diventa Midrash – alcuni
Targumim tardi in realtà non sono che dei Midrashim, soprattutto
per la parte biblica degli Agiografi. Tuttavia il Targum non va mai
sovrapposto al Midrash perché se il primo è una «traduzione» il
secondo è una «esegesi».

d. Riassunto

Nella letteratura rabbinica si trovano dei passaggi sul Targum


che indicano che il movimento dei rabbi non è sempre stato
favorevole a questa forma di letteratura che a volte ha censurato.

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Nel TB Meghillah 3a viene detto che il Targum al Pentateuco
è dovuto a Onqelos Proselito che lo ha composto dinanzi ai suoi
maestri R. Eliezer e R. Jehoshua e che il Targum ai Profeti è
dovuto a Jonathan ben Uziel. In questo stesso passo si osserva
che se per il Targum al Pentateuco la terra non ha tremato al
momento della sua pubblicazione, non è stato lo stesso per il
Targum ai Profeti poiché se per l’autore del primo tutto è chiaro,
per i profeti di cui si tratta nel secondo vi sono cose chiare e
cose oscure o nascoste – cioè cose che debbono essere accessibili
a un’unica élite.
In T Meghillah IV, 41, è riferito a nome di R. Judah ben Iali
(fine II secolo) che «chi traduce alla lettera è un bugiardo e chi
aggiunge qualcosa è blasfemo» (si veda anche TB Qiddushin 49a).
In T Shabbat XIII, 2, viene riferito che Gamaliel I, a metà
del I secolo e.v., avrebbe fatto proibire il Targum di Giobbe a
causa di alcune difficoltà tendenti all’eresia – si tratta per certo
di quello scoperto in 11 Q, anche se la proposizione è discussa.
Questa totale opposizione o reticenza parziale alla letteratura
targumica potrebbe indicare che essa è stata prodotta e trasmessa
in ambienti vicini al giudaismo ellenistico o sinagogale di cultura
e lingua aramaica, ambienti che vanno distinti dal movimento
rabbinico che li ha recuperati e trasmessi solo in seguito, grazie
alla sua influenza su una parte di quel giudaismo, segnatamente
quella di lingua aramaica piuttosto che greca.
Resta da stabilire se convenga ricollegare la letteratura tar-
gumica al movimento rabbinico, come venne fatto a lungo, o al
giudaismo ellenistico o sinagogale, come si comincia a fare da
poco. È possibile che la risposta si collochi tra queste due ipotesi
e consideriamo che se questa letteratura è nata all’interno del
giudaismo ellenistico o sinagogale di lingua e cultura aramaica,
essa in seguito deve essere stata recuperata e trasmessa dal movi-
mento rabbinico.
In ogni caso i Targumim costituiscono una fonte importante
per gli studi delle lingue semitiche antiche e soprattutto dei diversi
dialetti aramaici. Essi forniscono un riflesso dell’uso liturgico
della Bibbia in quell’epoca e occupano un posto importante per
lo studio dell’esegesi biblica, dal momento che contengono spesso
interpretazioni diverse da quelle affermate in seguito come norma-
tive, in particolare nel movimento rabbinico e in quello cristiano.

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5. Conclusioni

Rispetto alla letteratura biblica, qui abbiamo preso in esame


solo l’«Antico Testamento» e non il «Nuovo Testamento» – espres-
sioni tipicamente cristiane – anche se gli autori di quest’ultimo
corpus sono comunque ebrei. Abbiamo parlato anche del Targum
che, in certo modo, si libera dalla letteratura biblica poiché si
tratta di traduzioni parafrastiche e interpretative della Bibbia in
aramaico composte principalmente in prospettiva liturgica. La
Bibbia e il Targum sono evidentemente testi religiosi appartenenti
al patrimonio di diverse confessioni proprie del giudaismo e del
cristianesimo. Ma sono anche dei documenti per lo storico, a
patto di considerarli in funzione dei contesti nei quali sono stati
prodotti e diffusi e non per la loro ermeneutica posteriore, anche
se questa non è priva di interesse. Per la letteratura biblica, si
distinguerà tra le versioni ebraiche e le versioni greche che hanno
tutte un’origine giudaica ma la cui trasmissione è differente poiché
si ritrovano in quelli che, più tardi, si chiameranno rispettivamente
cristianesimo, giudaismo e samaritanesimo.
La Bibbia e il Targum vanno considerati come insiemi letterari
che costituirono il patrimonio religioso del popolo giudaico in
tutta la sua pluralità e diversità. Non sono affatto opere storiche
ma opere memoriali. Esse consentono tuttavia un approccio sto-
rico perché sono state prodotte e trasmesse da comunità religiose
specifiche e, quanto meno a questo titolo, forniscono numerose
informazioni. Questo contributo ha cercato di individuare quali
difficoltà possono venir poste dalla Bibbia, dal momento che ne
esiste più di una. Si pongono dunque le seguenti domande: quale
scegliere? Su quale incentrare la ricerca scientifica o spirituale?
Da un’ottica storica è certo che il testo greco della Bibbia è il
più antico dato che il testo ebraico attualmente disponibile non è
anteriore all’inizio del medioevo. Ciò non toglie che il testo greco
sia una traduzione di un testo ebraico perduto ma di cui esistono
tuttavia dei frammenti rinvenuti nei manoscritti del Mar Morto.
Se fosse necessario scegliere una Bibbia per l’Europa non c’è
dubbio che dovrebbe essere la Settanta, la cui legittimità storica è
ampiamente superiore a ogni altro testo. Ed è altrettanto vero che,
nell’era digitale nella quale entriamo, dopo cinque secoli legati alla
stampa, non sarà necessario scegliere poiché si potrà consultare
nello stesso momento non uno solo ma tutti i testi della Bibbia!

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