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359.115
ISBN 978-88-10-20704-8
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788810 207048
G. BOCCACCINI - P. STEFANI
Dallo stesso grembo
CRISTIANI ED EBREI
a cura di Luigi Nason
Dallo
stesso grembo
Le origini del cristianesimo
e del giudaismo rabbinico
ISBN 978-88-10-20704-8
PREFAZIONE
5
quel momento a oggi sono nati innumerevoli
gruppi composti da seguaci di entrambe le fedi,
che cercano di sviluppare la coscienza di questo
grande tesoro comune. Il Vaticano II ha anche
ammonito che la Chiesa «deplora gli odi, le perse
cuzioni, le manifestazioni di antisemitismo diret
te contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque»
(Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le
religioni non cristiane, 4). Per questo viene re
spinta l'accusa di deicidio, in particolare quando
si intende che tutti gli ebrei del tempo di Gesù
siano responsabili della morte del Signore.
6
scenza dello stato dei problemi: non basta non es
sere antisemita.
Bisogna, e l'ho ribadito molte volte, amare
Israele con un amore aperto a tutto e a tutti. Bi
sogna amare la cultura ebraica di oggi, la loro mu
sica, la loro letteratura, la loro storia, il loro modo
di pregare, il loro modo di fare festa. Solo un amo
re così permette il superamento dei timori e delle
difficoltà e dà al dialogo quella gioia e quella uma
nità che si addice all'incontro tra amici.
7
LA NASCITA
PARALLELA
DEL CRISTIANESIMO
E DEL GIUDAISMO
RABBINICO
Gabriele Beccaccini
INTRODUZIONE
11
ebraica di eresia risuonava come una benvenuta
e ben meritata esaltazione della propria capacità
di «aver visto e creduto» (rispetto all'«ostinazio
ne» ebraica).
Si dirà che al di là di ogni motivazione teolo
gica, un certo contrasto tra <<nuovo•• e «Vecchio»
appare comunque inevitabile nella definizione
del rapporto tra cristiani e ebrei. Non è forse un
dato di fatto che l'ebraismo è la religione-madre
dalla quale il cristianesimo è nato come figlio
(prediletto o ribelle secondo il punto di vista, ma
comunque «figlio»)? Non è forse un dato di fatto
che gli ebrei pur nelle persecuzioni e nelle diffi
coltà più estreme hanno sempre (forse ostinata
mente, ma comunque sempre coerentemente)
continuato a osservare le antiche tradizioni dei
padri da cui i cristiani si sono emancipati (o forse
solo colpevolmente allontanati)?
Dal punto di vista storico la situazione è tut
tavia assai più complessa. A differenza di quanto
ebrei e cristiani hanno per secoli concordemente
sostenuto, né l'ebraismo quale noi oggi conoscia
mo è cosi antico e conservatore, né il cristianesi
mo è così nuovo e originale. L'ebraismo odierno
non è semplicemente la religione dell'Antico Te
stamento, è qualcosa di diverso: è il frutto di una
riforma all'interno della religione giudaica, la
riforma rabbinica, la quale si sviluppò parallela
mente alla riforma cristiana. Quella forma di
ebraismo con la quale abbiamo familiarità, dun
que, non esisteva ancora al tempo di Gesù. Al
12
tempo stesso il cristianesimo non è così rivoluzio
nario come ha sempre preteso di essere. A suo
modo è una religione estremamente conservatri
ce, che ha preservato molti degli elementi del giu
daismo antico che sono stati rigettati dall'ebrai
smo rabbinico.
Se per ebraismo intendiamo dunque quel si
stema religioso che noi oggi conosciamo, non è af
fatto corretto parlare di un rapporto tra cristia
nesimo e ebraismo come della nascita dell'uno
dall'altro. Il giudaismo rabbinico fu un movimen
to altrettanto riformatore di quello cristiano, an
che se per motivi teologici esso si travestì da mo
vimento totalmente conservatore, così da accen
tuare per contrasto la ••fedeltà•• ebraica rispetto al
••tradimento» cristiano. Il cristianesimo fu un mo
vimento altrettanto conservatore di quello rabbi
nico, anche se per motivi teologici esso si travestì
da movimento totalmente riformatore, così da ac
centuare per contrasto la ••cecità•• ebraica rispet
to alla ••novità•• cristiana. Entrambe queste affer
mazioni tradizionali, sia da parte cristiana che da
parte ebraica, non hanno alcun fondamento dal
punto di vista storico.
Questo è il primo punto importante da sottoli
neare per un'onesta valutazione dello scisma tra
ebraismo e cristianesimo: il rapporto tra ebrei e
cristiani di oggi non è un rapporto di figliolanza
tra madre e figlio, ma è un rapporto tra fratelli
nati all'interno di uno stesso mondo religioso,
quello del giudaismo del Secondo Tempio, che li
13
generò entrambi prima di scomparire per sempre
dalla storia con la distruzione del Tempio di Ge
rusalemme nell'anno 70 d.C.
Il giudaismo del Secondo Tempio (a differenza
dell'ebraismo successivo) era una religione incen
trata sul Tempio, non sulla Torah, ed era gover
nato da un sacerdozio ereditario e non da un rab
binato elettivo. A ciò si deve aggiungere un altro
importante elemento che ci viene dalla ricerca
storica: il giudaismo del Secondo Tempio non solo
fu molto diverso dall'ebraismo quale si sviluppò
nei secoli successivi in seguito alla riforma rabbi
nica, ma non fu neppure nel suo tempo un feno
meno monolitico. In fondo questa è una realtà che
non è lontana dalla nostra esperienza. Anche og
gi, se dovessimo definire cos'è il cristianesimo o
cos'è l'ebraismo, dovremmo piuttosto parlare dei
diversi cristianesimi ed ebraismi del nostro tem
po. Esistono infatti diverse denominazioni cri
stiane - cattolica, protestante, ortodossa -, così
come esistono un ebraismo ortodosso, riformato,
secolare e ultra-ortodosso. Ciascun gruppo ebrai
co o cristiano ha degli elementi in comune con gli
altri ebraismi o cristianesimi, ma anche un'iden
tità, una storia e delle particolarità teologiche
specifiche, che rendono impossibile definire in
modo complessivo che cosa sia l'ebraismo o il cri
stianesimo a meno di non usare (almeno talvolta)
anche il plurale.
Lo stesso vale per il giudaismo del Secondo
Tempio. Non possiamo parlare di un'unica forma
14
di giudaismo né di un'omogenea teologia giudai
ca, ma di diversi giudaismi che erano uniti tra di
loro da un comun denominatore, rappresentato
dal Tempio di Gerusalemme, a cui tutte le varie
denominazioni ebraiche, inclusa quella cristiana,
si rifacevano, pur con modalità diverse.
15
CAPITOLO l
CRISTIANESIMO
TRA NOVITÀ
E CONSERVAZIONE
1. Gesù ebreo:
ma che tipo di ebreo?
Per secoli si è ipocritamente discusso se Gesù
era un ebreo o no, e ancora oggi l'affermazione
della totale ebraicità di Gesù suona scandalosa
agli orecchi di molti. Lo zelo di voler sottolineare
la novità e l'unicità di Gesù (unito all'antisemiti
smo e al razzismo dei quali la nostra cultura è
tragicamente impregnata) hanno fatto nascere la
leggenda di un Gesù non-ebreo, alto, biondo, qua
si scandinavo, totalmente diverso dal suo am
biente. Questa è l'immagine riflessa nell'icono
grafia cristiana, antica e moderna, fmo alle più
recenti produzioni cinematografiche sulla vita di
Gesù. Un Gesù siffatto non viene dalla storia, ma
dai meandri dell'intolleranza teologica e del pre
giudizio culturale.
Che Gesù fosse ebreo è semplicemente ovvio:
ebrea è la sua famiglia, il suo nome, la sua iden-
17
tità etnica e religiosa. Il ritratto di Gesù, che
emerge coerentemente dai vangeli, è quello di un
ebreo circonciso l'ottavo giorno, fedele alla Torah,
che prega in sinagoga e si reca a Gerusalemme a
celebrare le feste ebraiche. Vi è paradossalmente
così poco di «cristiano» nella vita religiosa di Ge
sù: Gesù nacque, visse e morì da ebreo.
Nel riconoscere l'ebraicità di Gesù occorre al
tempo stesso evitare qualunque opposizione tra
il Gesù ebreo e il Gesù cristiano. Il paradosso di
Julius Wellhausen che «Gesù non era un cristia
no ma un ebreo» non ha ragione di essere. Ovvia
mente Gesù non fu «Cristiano•• nel senso che sarà
poi inteso nelle formulazioni dogmatiche e nelle
pratiche ecclesiastiche del III-IV secolo. Il cri
stianesimo quale noi oggi conosciamo si costituì
attraverso un lungo e complesso processo di for
mazione. È tuttavia davvero difficile immaginar
si l'emergere del nuovo movimento indipendente
mente dal carattere carismatico e profetico del
proprio fondatore, a meno di non voler ridurre a
completa insignificanza - dal punto di vista sto
rico e teologico - l'intera esperienza storica di
Gesù, e con essa il suo insegnamento e la sua
identità ebraica, ancora una volta contrapponen
do in modo radicale il Gesù della storia al Cristo
della fede.
Il problema di fondo non è se Gesù fosse ebreo
(e non ancora cristiano) o cristiano (e non più
ebreo); il vero interrogativo è che tipo di ebreo egli
fosse, perché a quel tempo non esisteva un unico
18
ebraismo e un unico modo di essere ebrei. Affer
mare che Gesù era ebreo non significa che Gesù
fosse soltanto e semplicemente un ebreo come
tutti gli altri, tantomeno che egli abbia vissuto
più o meno come vivono gli ebrei di oggi. Gesù fu,
al pari di altre personalità ebraiche a lui contem
poranee, un pensatore originale e al tempo in cui
visse nessun ebreo viveva come vivono gli ebrei
odierni, perché quella forma di ebraismo che esi
ste oggi semplicemente non esisteva allora. L'af
fermazione delle radici giudaiche del cristianesi
mo ha poco senso, e rischia addirittura di essere
fuorviante, qualora non si specifichi da quale tipo
di giudaismo il cristianesimo prese l'avvio.
Per poter rispondere a questa complessa do
manda, dobbiamo rifarci prima di tutto alla testi
monianza degli antichi autori del tempo, in parti
colare allo storico ebreo Giuseppe Flavio e al filo
sofo alessandrino Filone. In queste antiche fonti
giudaiche si parla di tre forme predominanti di
ebraismo: i sadducei, i farisei e gli esseni. Dei
sadducei sappiamo che rappresentavano l'aristo
crazia sacerdotale del Tempio. Dei farisei sappia
mo che la loro visione del giudaismo si incentra
va sulla Legge, sulla centralità della Torah; in
questo movimento i maestri del giudaismo rabbi
nico, e così gli ebrei di oggi, vedono la loro radice.
I vangeli testimoniano che esistettero delle po
lemiche feroci tra Gesù e i sadducei. Gesù certo
non fu tenero con l'aristocrazia sacerdotale del
tempo, alla quale non risparmiò critiche e della
19
quale predisse la distruzione; non è un caso se
egli troverà la sua fine a Gerusalemme, una fine
da «nemico pubblico>> dell'ordine costituito per
mano dell'autorità romana.
Dai vangeli abbiamo anche memoria dei con
flitti fra Gesù e i farisei, anche se questi ultimi
compaiono con sospetta e crescente insistenza
nella veste dei principali oppositori solo nei testi
più tardivi. La constatazione che gli aspetti più
anti-farisaici dell'insegnamento evangelico appar
tengono alle dispute che opposero la Chiesa ai fa
risei dopo il 70, piuttosto che all'esperienza stori
ca di Gesù, ha prodotto un lungo filone interpre
tativo che ha teso a collocare il Gesù storico all'in
temo del fariseismo e a fame un maestro fariseo,
sia pure dotato di grande libertà e originalità di
pensiero. Questa tendenza si è sviluppata da un
lato per un bisogno apologetico di riconnettere Ge
sù alle radici del giudaismo rabbinico e quindi per
questa via riavvicinarlo all'ebraismo odierno, dal
l'altro lato è il risultato di un ragionamento fatto
un po' per esclusione, dopo che la scoperta dei ma
noscritti del Mar Morto sembrava aver fatto tra
montare per sempre l'ipotesi essenica.
2. Essenismo, enochismo
e origini cristiane
Che Gesù sia stato un esseno è una vecchia
ipotesi che già fu sviluppata da alcuni autori nel
20
Settecento e Ottocento. La scoperta dei mano
scritti del Mar Morto, che ben presto furono rico
nosciuti come appartenenti a un'antica comunità
essenica, suscitò grandi speranze di trovare dei
testi cristiani o anche solo dei riferimenti indiret
ti a Gesù. Gli entusiasmi presto lasciarono spazio
alla disillusione. Per quanto i manoscritti del Mar
Morto si rivelassero fondamentali per ricostruire
l'ambiente delle origini cristiane e non mancasse
ro parallelismi sorprendenti con le esperienze dei
primi cristiani, ben presto apparve evidente che
la teologia della comunità di Qumran nel suo
complesso si collocava su posizioni distanti da
quelle sostenute da Gesù e dai suoi seguaci. È in
fatti del tutto assente nella teologia cristiana
quella dimensione predeterministica che è cen
trale nell'ideologia settaria e che fa di Dio l'origi
ne diretta del male.
Poiché si identificava Qumran con l'essenismo,
coerentemente veniva a cadere l'ipotesi che Gesù
potesse essere un esseno. Scartata per motivi di
ovvietà anche la possibilità che Gesù fosse saddu
ceo, sembrava non rimanesse altro che affermare
la natura farisaica della predicazione evangelica,
per quanto ribelle e anticonformista essa potesse
essere stata rispetto alla propria matrice.
Ciò di cui non si era tenuto conto a sufficienza
è che la teologia di Qumran non può essere consi
derata rappresentativa dell'intero movimento es
senico. Dai dati archeologici sappiamo che non
più di 150-200 persone potevano vivere a Qum-
21
ran , quando le fonti storiche tr amandano che il
movimento essenico er a diffuso in tutte le città e
villaggi della P alestina e che annoverav a più di
4000 membri, un numero rigu ardevole conside
rando che il dato è ri ferito ai soli membri adulti
maschi. Dunque, soltanto una minima parte degli
esseni viveva a Qumran.
In questi ultimi anni c'è stato un grande fer
vore di studi volto proprio alla riscoperta di quel
la maggioranza di esseni che non vivevano a
Qumran. La ricerca ha rimesso in discussione al
cuni dei fond amenti dell'ipotesi essenica e aperto
un interrogativo di fondo : Qu mran era il qua rtie
re generale del movimento essenico , oppure sem
plicemente un gruppo marginale di esseni ? In so
stanza, ferma restando come l'ipotesi più proba
bile che Qumran fosse un insediamento essenico,
resta del tutto da chiarire la nat ura dei r apporti
tra Qumran e l a maggioran za degli esseni.
Un grande contributo a questa discussione è
venuto dagli studi sui cosiddetti apocrifi dell'An
tico Testamento , una significativa parte dei quali
i manoscritti del Mar Morto h anno rivelato esse
re ben conosciuti a Qumran. In Italia siamo for
tunati ad avere una delle migliori edizioni degli
apocrifi dell'Antico Testamento disponibile oggi
al mondo, pubblicata a cura di Paolo Sacchi, tr ail
1981 e il 2000. Il gruppo di specialisti italiani rac
coltosi a Torino attorno a Sacchi h a avuto anche
il grande merito di aver richiamato all'a ttenzione
degli studiosi di tutto il mondo l'import anza e
22
l'antichità di una particolare forma di giudaismo
antico, che dal nome del suo rivelatore principale
è comunemente detta «enochica>>. A partire dal
2001 la costituzione del cosiddetto Seminario
Enochico ha data sostanza a livello internaziona
le alle intuizioni della scuola italiana, producen
do un'ampia serie di pubblicazioni e ricerche.
Il libro etiopico di Enoc, o l Enoc, in realtà non
è un singolo documento, ma una collezione di cin
que libri scritti in periodi storici diversi, uno do
po l'altro. Si comincia con il cosiddetto Libro dei
Vigilanti, cui seguono nell'ordine il Libro dell'A
stronomia, il Libro dei Sogni, l'Epistola di Enoc e
il Libro delle Parabole di Enoc. Il Libro dei Vigi
lanti fu scritto probabilmente intorno al IV seco
lo a.C.; l'ultimo libro, il Libro delle Parabole, che
è un libro importantissimo per le origini cristia
ne, fu scritto, oggi è sicuro, alla fine del I secolo
a.C., prima della predicazione di Gesù. Abbiamo
quindi a che fare con una tradizione giudaica
ininterrotta, antica e ben consolidata.
In Genesi si legge, al capitolo 5, del patriarca
Enoc, padre di Matusalemme, il quale «camminò
con Dio (ha-'elohim) . generò figli e figlie; l'intera
. .
23
di Dio, ma è anche una forma plurale, che quan
do ha l'articolo si riferisce agli ••angeli». Ora, per
due volte si dice che Enoc camminò con gli
'elohlm, ossia con gli angeli, fmché 'Elohim, ossia
Dio, non lo prese. Significativamente, questa tra
dizione nella Bibbia non ha alcun sviluppo, Enoc
semplicemente scompare. Si può assumere che
egli si trovi ora in cielo, al pari di Elia, ma la
Scrittura non ne sa né ne dice più nulla. Nel Nuo
vo Testamento Enoc è menzionato una volta, nel
la Lettera di Giuda, come profeta scrittore e gli
antichi commentatori hanno voluto identificare
in lui uno dei due Testimoni escatologici dell'Apo
calisse di Giovanni (Ap 11). Di Enoc come perso
naggio non v'è altra traccia nella Bibbia, o alme
no nella Bibbia quale noi conosciamo.
In Genesi, tuttavia, subito dopo la scarna no
tizia del cap. 5, vi è un passo molto interessante,
all'inizio del cap. 6, in cui si dice che ••quando gli
uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra
e nacquero dalle loro figlie, i figli di Dio (bene
'elohfm) videro che le figlie degli uomini erano
belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Al
lora il Signore (che evidentemente non gradì la
cosa) disse: ••Il mio spirito non resterà sempre
nell'uomo!» (Gen 6,1-3). Poi, il testo si fa confuso.
Si dice che ••c'erano sulla terra i giganti a quel
tempo, e anche dopo, quando i figli di Dio si uni
vano alle figlie degli uomini e queste partorivano
loro dei figli•• (6,4a); ma non si capisce bene se i
giganti siano i figli di questa unione, anzi sem-
24
brerebbe proprio di no, dal momento che il testo
si chiude bruscamente con la notazione che i gi
ganti sono semplicemente «gli eroi dell'antichità,
uomini famosi» (6,4b). L'autore sembra solo avere
urgenza di passare ad altro. Il racconto del dilu
vio non fa alcun ulteriore riferimento a questa
strana e confusissima storia con la quale si era
aperto il cap. 5. Il povero lettore è lasciato da so
lo con la sua voglia di saperne di più.
Se uno vuole conoscere l'intera storia, non de
ve cercarla nella Bibbia, ma deve andare a leg
gerei il Libro dei Vigilanti, ovvero il primo tomo
del pentateuco enochico. La storia racconta che i
figli di Dio, gli angeli, o meglio alcuni di essi, si ri
bellarono contro Dio. Fu un vero e proprio com
plotto, studiato e premeditato sotto la guida di
due capi-rivolta, Semiaz e Azazel. Questi angeli
ribelli vennero sulla terra per unirsi a delle don
ne perché erano belle e le desideravano. Il risul
tato di questa unione fu tragico. I figli che ne nac
quero furono dei semi-dèi, esseri mostruosi e vo
raci, dei «giganti» appunto nel vero senso del ter
mine. Questi giganti cominciarono a divorare tut
to ciò che era loro disponibile, finché, una volta
che le piante e gli animali scarseggiarono, comin
ciarono a mangiare anche gli uomini. Logicamen
te gli uomini si lamentarono e levarono preghiere
al cielo; a questo punto gli angeli rimasti fedeli a
Dio intervennero, guidati da Michele, e combatte
rono contro Azazel e Semiaz e i loro seguaci. Fu
prima di tutto una guerra cosmica tra potenze
25
angeliche. Gli angeli ribelli, sconfitti ma immor
tali, furono incatenati in una prigione sotterra
nea «nel deserto di Dudaeh• fino alla fine dei tem
pi. A questo punto la terra fu purificata attraver
so l'acqua del diluvio. E si capisce adesso final
mente perché in Genesi questo episodio segua im
mediatamente alla storia degli angeli caduti. Il
Libro dei Vigilanti aggiunge anche un particolare
molto importante. I giganti perirono con il dilu
vio, ma poiché essi erano figli di padri immortali,
la morte non poteva avere completo potere su di
loro. Le loro anime sopravvissero e rimasero sul
la terra dove continuano a produrre ogni sorta di
male al servizio dei loro padri e del diavolo, loro
capo. Gli spiriti impuri, quelli di cui spesso parla
no anche i vangeli, non sono altro che le anime
immortali e malvagie dei giganti defunti. Senza il
Libro dei Vzgilanti non lo sapremmo.
Il libro di Enoc è un testo molto importante,
perché è all'inizio di una tradizione parallela al
giudaismo ufficiale del Tempio di Gerusalemme.
Quella che noi conosciamo oggi come la Bibbia
ebraica è la tradizione teologica del sacerdozio sa
docita, cioè i testi raccolti, editi e selezionati da
quella che fu la famiglia sacerdotale dominante
nel Tempio di Gerusalemme dopo l'esilio babilo
nese. Ma accanto a questa tradizione, altri ebrei
avevano altri testi e altra teologia. Fin dal IV se
colo a.C. il movimento enochico si configura come
una tradizione parallela, polemica nei confronti
del giudaismo del Tempio, dal quale si distingue
26
nettamente per una diversa concezione del pro
blema dell'origine del male. Per la tradizione bi
blica sadocita, il male è conseguenza della tra
sgressione umana, ossia punizione per colpe com
messe da una creatura che ha piena facoltà di li
bero arbitrio. Secondo la tradizione enochica, in
vece, il male ha un'origine superumana, è il frut
to di una contaminazione dell'universo prodotta
da una ribellione angelica. Il risultato è che l'uo
mo, per quanto dotato di libero arbitrio, non è so
lo responsabile ma anche, e prima di tutto, vitti
ma del male.
La nozione del peccato originale non è un'in
novativa dottrina cristiana, ma un'antica tradi
zione ebraica. Già nel IV secolo a.C. la tradizione
enochica aveva sviluppato l'idea che l'universo
buono creato da Dio era stato contaminato, sciu
pato da una trasgressione angelica. Quindi l'uo
mo necessita di una salvezza da Dio. Se infatti il
male ha un'origine celeste, nessun uomo ha il po
tere di sconfiggere il male.
21
siano divisi tra «credenti» e «scettici». Questa è
solo una banalizzazione dello scisma.
Prima di tutto occorre premettere che nel I se
colo non tutti gli ebrei attendevano la venuta del
Messia. Ad esempio, i sadducei - e parliamo qui
del gruppo se non più numeroso, certamente più
influente e potente al tempo di Gesù, avendo essi
il controllo del Tempio - non condividevano l'idea
apocalittica che questo mondo dovesse avere una
fine, il che è la premessa necessaria all'idea di un
Messia escatologico. Perché mai - essi dicevano -
Dio dovrebbe porre un termine alla sua creazione
quando Dio stesso vide e riconobbe che essa era
«molto buona» (Gen 1,31)? Certo questo mondo
necessita di buone guide e questo è il compito di
uomini saggi, come lo sono i sacerdoti unti con l'o
lio della consacrazione, i quali Dio sceglie di vol
ta in volta come propri messia.
Se dunque i rappresentanti più autorevoli del
giudaismo del Secondo Tempio non condivideva
no l'attesa messianica, essa non era estranea ai
due principali gruppi d'opposizione dell'epoca: i
farisei e gli esseni. Ma mentre gli esseni chiama
vano il Messia escatologico il Figlio dell'Uomo, la
tradizione farisaica si appellava a esso come al
Figlio di Davide. Come vedremo, la differenza ter
minologica tradisce una profonda contrapposizio
ne teologica. Nel I secolo non era soltanto neces
sario affermare la propria credenza nella venuta
del Messia; era anche doveroso specificare in qua
le tipo di Messia le proprie speranze erano ripo-
28
ste. Non fu la necessità di mantenere un «segreto
messianico» a costringere Gesù alla prudenza,
quanto la grande ambiguità e vaghezza del ter
mine «messia».
Gli esseni (e con essi intendo quella maggio
ranza che viveva nelle città e nei villaggi della
Palestina) sono i diretti discendenti dell'antico
movimento enochico. Nel Libro delle Parabole di
Enoc, scritto alla fine del I secolo a.C., leggiamo
che il Messia, il Figlio dell'Uomo, è il giudice fi
nale che distruggerà il male sulla terra prodotto
dalla contaminazione del peccato angelico. Poiché
gli angeli vengono dal cielo e nessun mortale può
opporsi a essi, anche il Messia deve venire dal cie
lo, anzi deve essere superiore agli angeli, più po
tente di loro. Secondo la dottrina essenica, il Fi
glio dell'Uomo è creato da Dio al pari degli ange
li, quindi è inferiore a Dio, ma Dio «gli diede un
nome» prima della creazione degli angeli e dell'u
niverso, quindi egli è superiore agli angeli e al
l'uomo. Il Figlio dell'Uomo è una specie di supe
rangelo ed è stato creato per essere il Messia
escatologico. È pre-esistente, vive in cielo, gli è
stato dato il nome, cioè la funzione, da Dio fin dal
l'origine della creazione, e verrà alla fine dei tem
pi come il giudice finale, in modo da purificare l'u
niverso dagli effetti malefici del peccato angelico,
di satana e delle sue schiere, che ha contaminato
la creazione di Dio.
Questa dottrina messianica non fu mai accolta
a Qumran, dove si era raccolta una minoranza dis-
29
sidente che, in polemica anche con il resto del mo
vimento essenico si era ritirata nel deserto e guar
dava a sé come all'unico gruppo di eletti. La co
mun ità di Qumran non volle mai accettare il Libro
delle Parabole di Enoc nel proprio canone al pari
di ogni altro testo (essenico o meno) prodotto al di
fuori del gruppo. I se ttari avevano i nfatti modifi
cata la dottrina essenica in un punto fondamenta
le: secondo i testi della comunità, la nozione che il
mondo potesse essere stato corrotto da un atto di
cosciente ribellione angelica era contraddittoria
con l i' dea dell'on nipotenza divina. In questo occor
re riconoscere che i qumraniti avevano le loro ra
gioni. Nel Libro dei V�gilanti abbiamo un Dio buo
no, unico, senza rivali, che crea un universo buono
e santo, e se lo vede poi sfuggire di mano per colpa
di un gruppo di angeli sbandati e non riesce a far
n ulla per riportare l'antico ordine , fino alla fine
dei tempi. Il Dio della tradizione enochica è un Dio
che si proclama onnipotente, ma che poi, messo al
la prova, si rivela alquanto impotente.
Per i qumraniti l'unico modo per risolvere que
sto problema era di dire che g li angeli in realtà
non si erano ribellati, ma avevano ub bidito a un
ordine di Dio che aveva comandato loro di pecca
re. In quest'ottica , il male non è la conseguenza di
una ribellione volontaria, ma il frutto di un co
mando divino. All'origine del male dunque vi è
Dio stesso, che ha predestinato gli angeli, e anche
i singoli individui, a essere buoni o cattivi. All'in
te rrogativo del perché questo accada, i mano-
30
scritti di Qumran oppongono l'insindacabilità del
volere divino che ha creato i buoni per amarli e i
cattivi per odiarli; questa è la volontà di Dio e
nessuno può discutere la sua volontà! Per salvare
l'onnipotenza di Dio, i settari di Qumran elimina
rono così del tutto la libertà degli angeli e la li
bertà degli uomini, ma anche la biblica libertà di
Dio di essere misericordioso e di cambiare idea. Il
Dio dei qumraniti è sì onnipotente, ma anche tra
gicamente insensibile e in fondo crudele nella sua
immutabile volontà.
Nella prospettiva di Qumran non c'è spazio
per la conversione, non c'è spazio per la redenzio
ne, e non c'è spazio per il Messia essenico o cri
stiano. Perché mai Dio dovrebbe mandare un
Messia a salvare l'uomo dal male, quando la sua
condanna è determinata direttamente dalla vo
lontà divina? E poi, se Dio ha fatto un individuo
cattivo, che senso avrebbe la venuta di un Messia
che lo renda buono, cioè diverso da come Dio stes
so lo ha fatto? In Qumran infatti non abbiamo
nessuna idea di un Messia come redentore. Ab
biamo l'idea di un Messia, o meglio di due Messia,
l'uno sacerdotale l'altro regale, come le guide di
Israele nel mondo a venire, ma non abbiamo l'i
dea essenica del Figlio dell'Uomo come distrutto
re del male, come colui che riporta l'universo al
l'originale bontà della creazione.
La maggioranza degli esseni invece mantenne
l'idea che gli angeli avevano peccato volontaria
mente e che l'uomo era libero nonostante fosse
31
sotto la costante tentazione di satana. Questa
idea della tentazione diabolica divenne anzi l'idea
centrale nel pensiero essenico al tempo di Gesù.
Gli esseni reinterpretavano anche i testi che noi
oggi conosciamo come la Bibbia ebraica alla luce
dei loro principi, per cui per esempio nei testi es
senici diventa satana il serpente che in Genesi è
semplicemente uno degli animali creati da Dio e
posti nel giardino dell'Eden. La lettura cristiana
del peccato originale di Adamo ed Eva non è altro
che la lettura essenica di Genesi alla luce del li
bro di Enoc. Il fatto che la maggior parte dei cri
stiani oggi non abbia neppure l'idea dell'esisten
za del Libro di Enoc è uno di quegli affascinanti
paradossi di cui è intessuta la storia delle origini
cristiane.
4. Il Messia cristiano
e il perdono dei peccati
Il messianismo cristiano nasce come variante
del sistema essenico. Nei vangeli Gesù, che i di
scepoli riconoscono come il Messia, si riferisce
sempre a se stesso come al Figlio dell'Uomo. Ab
biamo anche un passo famoso, che è in tutti i van
geli sinottici, in cui Gesù esplicitamente nega che
il Messia sia il Figlio di Davide (Mc 12,35-37), un
passo che fa sempre tanti problemi, perché poi la
tradizione cristiana dirà che Gesù è anche il Fi
glio di Davide. Ma allo scriba (farisaico) che af-
32
ferma che il Messia è il Figlio di Davide, Gesù ri
batte che così non è né può essere, poiché Davide
chiama il Messia Signore. Quindi il Messia è
preesistente ed è il Signore di Davide, non il Fi
glio di Davide, un'affermazione che si spiega mol
to bene secondo la logica della teologia essenica.
La grossa novità del cristianesimo fu che i cri
stiani ritennero - e questa fu veramente una ri
voluzione anche all'interno dell'essenismo - che il
Messia, il Figlio dell'Uomo, non fosse soltanto il
distruttore del male e il giudice finale, ma anche
il salvatore, colui che «sulla terra ha il potere di
rimettere i peccati» (Mc 2,10), e quindi - dopo la
morte di Gesù - colui che ha dato la propria vita
in sacrificio di espiazione per i peccati del mondo.
Il problema del perdono dei peccati appare in
effetti come il nodo centrale da risolvere all'inter
no del pensiero essenico del I secolo. Lo possiamo
già vedere con Giovanni il Battista. Affermare
che questo mondo, a mano a mano che si avvicina
alla sua fine, è progressivamente sempre più sot
to il dominio di satana, apre un problema teologi
co di primaria importanza: come può Dio rimane
re così insensibile e lasciare che la maggior parte
degli uomini cada preda del male senza offrire lo
ro alcuna effettiva possibilità di redenzione? Ci
deve essere pure un modo di sfuggire alla distru
zione finale, ora che essa si avvicina e che satana
sembra regnare incontrastato.
Quando nei vangeli si parla di giudizio, non se
ne parla nei termini edulcorati cui ci ha abituati
33
l apiù t ardiv a teologi a cristi an a, come di un eq ui
libr ato rendiconto delle buone e c attive azioni
dell'individuo. Il giudizio evangelico è il giudizio
essenico, che è distruzione, annient amento, e pu
rific azione del m ale (e dei pecc atori). Il problem a
dei primi cristi ani, così come degli esseni, non er a
que llo di f are in modo di gu ad agn arsi un voto suf
ficiente nel giudizio. Il problem a, più tr agic amen
te, er a come evit are il giudizio, perché chi è giu
dic ato è cond ann ato.
Anche nell a re altà secol are di questo mondo
un a person a giust a, che non abbi a commesso al
cun re ato, non h a d a present arsi in giudizio ; sol
t anto chi abbi a tr asgredito l a legge v a, o almeno
do vrebbe and are, d avanti a un giudice. Assumen
do che niente sfugge a Dio, ne deriv a che tutti i
pecc atori dovranno present arsi al giudizio divino.
Questo er a un problem a gr avissimo per l a teolo
gi a essenic a. Se questo mondo è sotto il dominio
del male, signific a inf atti che solt anto pochi uo
mini riescono a mantenersi giusti, mentre l a
m aggior anz a incorre nel giudizio. M a chi è giudi
c ato è condann ato, poiché chi conduce al giudizio
è lo stesso che giudic a e non c'è possibilità di
sc ampo con un giudice inf allibile e onnisciente
qu ale Dio. A meno che, e quest a è l a gr ande in
tuizione di Giovanni B attist a, Dio nell a su amise
ricordi a non annulli l a su a giustizi a e permett a
all'uomo, perdon ato, di sfuggire al giudizio.
Il mess aggio di Giov anni B attist a è che Dio
non può essere così crudele d a non perdon are i
34
peccati all'uomo che si rivolge a Dio in penitenza.
L'urgenza del perdono divino è resa ancora più
forte dall'imminenza del giudizio divino: la fme è
vicina. «Siate battezzati nell'acqua, se non volete
essere battezzati nel fuoco dal Figlio dell'Uomo»:
questa è l'essenza del messaggio originario del
Battista, prima che la teologia cristiana lo ridu
cesse a mera profezia del battesimo cristiano. Il
Figlio dell'Uomo sta per venire, il giudice sta per
sedere sul trono e operare la distruzione del ma
le. A meno che Dio non perdoni i peccati, la mag
gior parte degli uomini non sfuggiranno al fuoco
finale, perché la maggior parte degli uomini sono
peccatori.
Per Giovanni Battista, come per l'intera tradi
zione essenica, essere battezzati nel fuoco signifi
ca essere distrutti. Anche l'idea del battesimo nel
l'acqua come purificazione dal male è un'idea di
derivazione essenica. Il battesimo di Giovanni
non è altro che un duplicato a livello individuale
del diluvio, con il quale, secondo la tradizione eno
chica, Dio aveva purificato il mondo dopo il pecca
to angelico. In un testo essenico del I secolo, la Vi
ta di Adamo ed Eva, si racconta che Adamo dopo
il peccato rimase 40 giorni immerso nelle acque
del Giordano (e non a caso Giovanni battezzerà
nelle acque vive del Giordano), nella speranza che
Dio lo perdonasse. Adamo non otterrà da Dio il ri
torno al giardino dell'Eden, ma quando egli morrà
satana non avrà possesso della sua anima, che è
invece riservata al cielo, nonostante le proteste
35
del diavolo che Dio nella sua misericordia avesse
ingiustamente giustificato il peccatore.
Nel movimento battista di Giovanni si punta
quindi decisamente al fatto che lo scopo del batte
simo è di evitare il giudizio. Ma Giovanni poteva
soltanto esprimere una speranza, un auspicio fon
dato sulla fede che Dio è buono e misericordioso e
non può rimanere insensibile. Rispetto al Batti
sta, Gesù è in grado di offrire una certezza più for
te: chi infatti ha più autorità dello stesso Figlio
dell'Uomo di perdonare i peccati? Il fatto che sia lo
stesso giudice a parlare aumenta la credibilità
della promessa. Ecco la grande forza del messag
gio cristiano: il Figlio dell'Uomo non è soltanto il
giudice finale, ma è anche in questo mondo, prima
della fine dei tempi, colui che dà perdono ai pec
catori. Il messaggio di Gesù - a differenza di
quanto Paolo più pessimisticamente affermerà
nella Lettera ai Romani - non è rivolto indiscri
minatamente a tutti gli uomini nella stessa misu
ra. I sani, ossia i giusti, non hanno bisogno del me
dico, ma solo i malati, ossia i peccatori (Mc 2,17).
La riscoperta del pluralismo del giudaismo del
I secolo permette dunque di ricollocare Gesù al
l'interno del mondo giudaico, nel pieno rispetto
della sua identità ebraica, senza per questo smi
nuire l'originalità e la specificità del suo ruolo di
«fondatore del cristianesimo••. Non vi è infatti un
unico giudaismo normativa dal quale sarebbe
sorto o al quale si sarebbe contrapposto il primo
movimento cristiano. Nato in un ambiente dove
36
già si combattevano prospettive teologiche e mes
sianiche diverse, il movimento gesuano crebbe
manifestando una non minor tendenza a diversi
ficarsi e contrapporsi in nna varietà di teologie e
di messianismi (o «cristologie») tra loro competi
tivi, in un quadro che il rapido propagarsi della
nuova fede in ambito giudeo-ellenistico prima e
pagano poi, rese solo più complesso e diversifica
to. I testi della prima letteratura cristiana non
fanno altro che testimoniare questa rapida evolu
zione che significò ricchezza e varietà creativa,
ma anche confronto e scontro di opinioni all'in
terno dello stesso movimento cristiano, come at
testato dal fiorire di letterature «apocrife••, ma
anche dalla pluralità teologica della stessa pro
duzione canonica.
37
CAPITOLO 2
GIUDAISMO RABBINICO
TRA NOVITÀ
E CONSERVAZIONE
1. L'origine sinaitica
come mito fondante
del giudaismo rabbinico
Solo in tempi recenti e non senza contrasti si
è affermata nella ricerca contemporanea la con
sapevolezza che il giudaismo rabbinico conobbe il
proprio periodo formativo nei primi secoli dell'era
volgare, successivamente alla distruzione del
Tempio, e che le origini sociologiche e le radici
ideologiche del movimento nel periodo del Secon
do Tempio debbano ancora in larga misura esse
re criticamente studiate e ricercate. Per gli anti
chi saggi di Israele, il problema semplicemente
non sussisteva. Nella propria autocomprensione
ideologica, il giudaismo rabbinico, nella sua for
ma classica mishnaica e talmudica, altro non era
che la mera codificazione letteraria di un'anti
chissima tradizione orale, parallela e sincronica
39
alla Scrittura, con la quale condivideva la stessa
origine sinaitica.
n trattato �bot si apre con la dichiarazione
solenne che «Mosè ricevette la Torah al Sinai e la
consegnò a Giosuè, il quale a sua volta la conse
gnò agli anziani, e gli anziani ai profeti». Alle ori
gini del giudaismo rabbinico vi furono dunque
inizialmente delle entità collettive di maestri e
studiosi: gli anziani, i profeti, e dopo di loro «gli
uomini della Grande Sinagoga», i quali fedel
mente preservarono e trasmisero quanto ricevu
to da Mosè e Giosuè. Al termine di questo perio
do di insegnamento anonimo e collettivo, emerge
una prima coppia di individui, Simone il Giusto e
Antigono: Simone è «uno degli ultimi esponenti
alla Grande Sinagoga» e Antigono è il discepolo
che ne ricevette l'insegnamento. Seguono quindi
cinque coppie di saggi, fino ad arrivare a Hillel e
Shammai, ai quali sono connesse entrambe le au
torità fondanti della Mishnah (i patriarchi e i
saggi). Da Mosè e Giosuè, dunque, la Torah è sta
ta trasmessa da una generazione all'altra attra
verso una catena ininterrotta di tradizione, gra
zie alla quale la rivelazione mosaica è diretta
mente connessa alle autorità citate dalla Mish
nah e ai loro successori.
L'armonioso ordine strutturale presentato nel
le pagine introduttive di �bot esercita la funzio
ne di spiegare la natura della Mishnah e di con
validarne l'autorità attraverso una genealogia
che si spinge a ritroso fino alla rivelazione sinai-
40
tica. L'idea che si vuole affermare è che il giudai
smo rabbinico è la forma unica e normativa del
giudaismo fm dal tempo di Mosè. A differenza di
altre istituzioni di Israele, quali la monarchia, la
profezia o il sacerdozio, che sono venute meno o si
sono modificate nel tempo, le istituzioni del giu
daismo rabbinico si sono preservate integre at
traverso una catena ininterrotta di maestri e di
scepoli. La continuità ideologica non è stata com
promessa da alcuno dei drammatici cambiamenti
(politici, sociali, o religiosi) che hanno caratteriz
zato la storia del popolo ebraico. Essa si è conser
vata integra nei secoli contro e nonostante i com
plessi sviluppi storici e intellettuali del giudai
smo del Secondo Tempio (incluso l'emergere del
cristianesimo). Per i saggi di Israele, c'è una per
fetta sincronia tra le origini bibliche e quelle rab
biniche. Il giudaismo rabbinico è antico quanto la
rivelazione mosaica, anzi è la Torah mosaica.
2. Daniele e l'emergere
di una tradizione
proto-rab bini ca
A partire dagli anni '70 l a ricerca h a defmiti
vamente spazzato via ogni residua confidenza cir
ca l'immutabilità del giudaismo rabbinico e il suo
carattere normativa nel periodo del Secondo Tem
pio. L'ininterrotta tradizione normativa da Mosè
alla Mishnah si è rivelata per quello che è: nulla
41
di più di una costruzione ideologica priva di alcun
fondamento storico, non meno artificiale nel suo
impianto della historia sacra dei cristiani.
Le origini rabbiniche si collocano anch'esse
nell'ambito dell'universo variegato dei giudaismi
del Secondo Tempio. Un'attenta analisi delle fon
ti suggerisce una linea di continuità tra alcuni
giudaismi pre-rabbinici e il giudaismo rabbinico,
esattamente come vi fu una linea di continuità
tra alcuni giudaismi pre-cristiani e il primo cri
stianesimo. Al pari del cristianesimo, il giudai
smo rabbinico non emerse in un lampo di rivela
zione, ma come modificazione o variante di prece
denti sistemi di pensiero che, a loro volta, si svi
lupparono da precedenti sistemi, e come modifi
cazione o variante di gruppi sociali, che, a loro
volta, si svilupparono da gruppi precedenti.
Laddove il cristianesimo si pose in una linea
assieme di continuità e di novità, nell'alveo della
tradizione enochico-essenica, il giudaismo rabbi
nico emerse come sviluppo di una tradizione pa
rallela e alternativa del Secondo Tempio. In que
st'ultima gli antichi principi del sacerdozio sado
cita vengono corretti da un'accentuazione del pri
mato della Legge rispetto al sacerdozio e al Tem
pio e dall'introduzione di nuove idee, quali la ri
surrezione e la retribuzione post-mortem, che al
largano i margini di autonomia dell'individuale
rispetto all'intera collettività di Israele.
Il punto di partenza di quest'area che possia
mo definire «proto-rabbinica» è dato dal libro di
42
Daniele, la cui teologia non a caso si trova co
stantemente in bilico tra giudaismo sadocita e
giudaismo enochico. Stretto tra le idee enochiche
di degenerazione della storia, che fanno l'uomo
vittima del male, e la necessità di difendere la
centralità della Torah e la legittimità del Secondo
Tempio, Daniele troverà una via di compromesso
assolutamente originale.
Con la contemporanea tradizione enochica
del Libro dei Sogni, Daniele condivide la visione
degenerativa della storia e considera la crisi
maccabaica l'ultimo stadio della vicenda umana,
ma il male cui Israele è sottoposto nel presente
ha per lui origini molto meno remote e per nulla
soprannaturali. Sulla linea del giudaismo sado
cita, Daniele sa che un patto fu stabilito da Dio,
un patto al quale sono legate una benedizione e
una maledizione. Non c'è posto per un peccato
angelico, ma solo per la punizione divina in con
seguenza dell'infedeltà di Israele. «Tutto Israele
ha trasgredito la tua Legge, s'è allontanato per
non ascoltare la tua voce; così si è riversata su di
noi l'esecrazione scritta nella Legge di Mosè, ser
vo di Dio, perché abbiamo peccato contro di lui»
(Dn 9,11).
Daniele legge in Geremia che la punizione do
vrà durare «settant'anni » (Dn 9,2) e dall'angelo
riceve la rivelazione che tale cifra va interpretata
come «settanta settimane di anni•• necessarie
«per mettere fine all'empietà>>. Questo tempo sarà
scandito da <<quattro regni••, l'uno più terribile del
43
precedente, fmché l'ultima settimana culminerà
con la venuta di un re iniquo e una grande tribo
lazione per Israele. Ma proprio allora Dio porrà
fme alla punizione e redimerà Israele, instauran
do la sovranità del popolo eletto e con essa il tem
po escatologico. Dunque per Daniele il processo
degenerativo non comprende l'intera storia, ma è
limitato alla sua parte finale (a partire dall'esilio
babilonese), ed è voluto e diretto da Dio che ne
scandisce i tempi («le settanta settimane>>) e le
tappe ( <<Ì quattro regni>>) secondo la propria vo
lontà e per motivi chiaramente enunciati e mi
nacciati nel momento stesso in cui Israele si sot
tomise al patto.
Rispetto al giudaismo enochico, Daniele resti
tuisce l'immagine di una creazione che non si è
ribellata al suo Creatore, ma soprattutto riaffer
ma il potere assoluto di un Dio che non è co
stretto ad affannarsi per riguadagnare il control
lo dell'universo, essendo in ultima analisi impos
sibilitato a farlo se non al prezzo di distruggere
la sua creatura. Daniele restituisce la centralità
del patto e di Israele come del popolo eletto, mo
strando come l'intera storia umana è in funzione
di Israele e dipende dal rapporto esclusivo tra
Dio e il suo popolo.
La soluzione proposta da Daniele, per quanto
coerente e non priva di efficacia, si apre tuttavia
a nuovi e molteplici interrogativi. L'Israele infe
dele è condannato da Dio a vivere sotto il dominio
dei gentili in un crescendo di male e sofferenza
44
che non risparmia alcuno, anche coloro che sono
rimasti fedeli al patto, e anche le legittime istitu
zioni di Israele, in primo luogo il Tempio.
Il genio di Daniele è nell'aver introdotto a que
sto riguardo, e con una chiarezza senza preceden
ti, una distinzione fondamentale tra retribuzione
collettiva e retribuzione individuale. Di fronte al
la sofferenza e alla prova i giusti individui devo
no perseverare nell'obbedienza alla Legge anche
a costo della loro vita; il patto continua infatti a
essere il criterio con il quale l'individuo è giudi
cato anche in questo tempo di punizione colletti
va. La retribuzione che la maledizione divina non
rende più praticabile entro i confmi della storia è
rimandata alla fine dei tempi, allorché i giusti sa
ranno risorti e resi uguali alla stelle del cielo,
mentre l'oblio coprirà con la sua ombra i peccato
ri (Dn 12,2-3).
La prospettiva offerta al giusto in questo tem
po di punizione è così quella di una eroica resi
stenza passiva al male. Daniele è un sostenitore
convinto, ma disincantato, della rivolta macca
baica. Per Daniele non esiste speranza per Israe
le se non nell'eschaton: la fme della punizione col
lettiva è la fine della storia. La promessa della re
tribuzione post-mortem tuttavia fa sì che la rovi
na generale non annulli, anzi esalti, la responsa
bilità della risposta umana alla chiamata di ob
bedienza in questo mondo.
45
3. I l Secondo libro
dei Maccabei
e il problema del martirio
Daniele è un testo che ebbe un grandissimo
impatto nel pensiero medio-giudaico e fu capace
di influenzare forme anche diversissime tra loro
di giudaismo. Ma chi ne è l'erede più diretto? Non
certo la tradizione enochica, che pure sfrutterà
l'immagine del figlio dell'uomo di Dn 7,13-14. Non
certo gli epigoni della tradizione sadocita, autori
del Baruc deuterocanonico, che nel loro tentativo
di restaurazione passeranno sotto silenzio gli ele
menti più innovativi di Daniele. Non certo l'ideo
logia maccabaica, che contrapporrà alla genera
zione malvagia che li ha preceduti la propria fe
dele e vittoriosa generazione, e nel libro di Giu
ditta prenderà a modello l'ideale di un Israele in
vincibile del post-esilio. Gli eredi più diretti di Da
niele vanno ricercati in un'area critica nei con
fronti del giudaismo maccabaico, ma altrettanto
lontana dal radicalismo delle correnti esseniche.
La tradizione inaugurata da Daniele ha una
prima eco in un testo come 2 Maccabei, il cui au
tore può anch'egli essere definito come un soste
nitore convinto ma disincantato della rivolta
maccabaica. Laddove l Maccabei celebra i fasti
della dinastia asmonea fino a Giovanni !reano,
nel Secondo libro dei Maccabei Giuda è il solo a
essere esaltato in quanto capo degli Hasidim
46
(2Mac 8,5): il protagonista della rivolta è il popo
lo e la sua fedeltà eroica alla Torah.
Con Daniele, 2 Maccabei condivide anche il
giudizio positivo sul Secondo Tempio, anche se il
sacerdozio ereditario sadocita appartiene ormai a
un passato non più attuale e idealizzato quando
«la città santa godeva completamente pace e le
leggi erano osservate perfettamente per la pietà
del sommo sacerdote Onia e la sua avversione al
male» (2Mac 3,1).
Come Daniele, 2 Maccabei respinge l'idea di
una origine superumana del male. All'origine di
ogni sofferenza subita è il peccato di Israele: «Non
è cosa che resta impunita il comportarsi empia
mente contro le leggi divine•• (2Mac 4,17). Al cen
tro di 2 Maccabei, e con ancora più chiarezza che
in Daniele, vi è il problema della sofferenza del
giusto, che si spinge fino alla prova suprema del
martirio. La risposta è la stessa: la distinzione tra
retribuzione collettiva e retribuzione individuale.
L'idea della risurrezione consente anzitutto di
mantenere vivo il timore del castigo divino anche
laddove Dio appare aver già messo in opera ed
esaurite le sue minacce di punizione in questo
mondo. È l a coscienza del giudizio divino dopo la
morte, che spinge il vecchio Eleazaro a rifiutare
la possibilità di sfuggire con un sotterfugio al
martirio: «Se ora mi sottraessi al castigo degli uo
mini, non potrei sfuggire né da vivo né da morto
alle mani dell'Onnipotente•• (2Mac 6,26).
47
L'idea della risurrezione permette quindi di
dare senso alla rinuncia individuale a ogni bene
dizione promessa dal patto in questo mondo, nel
la speranza di una ricompensa superiore nel
mondo a venire. Sette fratelli con la loro madre
eroicamente affrontano il martirio confidando
che «il re del mondo, dopo che saremo morti per le
sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna��
(2Mac 7,9; cf. 7,23: <<il creatore del mondo. . . vi re
stituirà di nuovo lo spirito e la vita»). Per il per
secutore si apre invece un baratro di morte e di
struzione più terribile di ogni apparente ed effi
mero successo in questo mondo: «Per te invece la
risurrezione non sarà per la vita» (2Mac 7, 14).
Persino il suicidio è giustificato, nella speran
za della risurrezione, come atto estremo di fronte
alla prospettiva del martirio. Quando le guardie
del re vengono ad arrestarlo, il giusto Razis si
procura la morte con le proprie mani «invocando
il Signore della vita e dello spirito perché di nuo
vo glieli restituisse» (2Mac 14,37-46).
All'idea della risurrezione si riconnette infine
anche la possibilità per l'individuo di intercessio
ne post-mortem. L'idea di Giuda Maccabeo di of
frire un sacrificio espiatorio per i caduti in batta
glia è esplicitamente esaltata dall'autore come
«una iniziativa buona e nobile, suggerita dal pen
siero della risurrezione�� (2Mac 12,38-45).
Attraverso questi esempi, 2 Maccabei mostra
che la fedeltà individuale al patto mantiene tutta
la sua validità anche quando l'individuo sia coin-
48
volto nella punizione divina verso una generazio
ne infedele. Anzi, secondo 2 Maccabei, come l'in
giustizia dei molti ha conseguenze tragiche sui
singoli, così la giustizia dei singoli ha effetti be
nefici ed espiatori sui molti. Il martire accetta di
buon grado di condividere la punizione collettiva,
riconoscendo la giustizia dell'operato divino, e al
tempo stesso contribuisce con il proprio sacrificio
al ristabilimento di migliori relazioni tra Dio e il
suo popolo. La preghiera di uno dei sette fratelli
martiri, mentre riconosce che «per i nostri pecca
ti noi soffriamo••, esprime la speranza che «con me
e con i miei fratelli possa arrestarsi l'ira dell'On
nipotente, giustamente attirata su tutta la nostra
stirpe» (2Mac 7,32 .38).
Rispetto a Daniele, tuttavia, 2 Maccabei atte
nua la drammaticità della crisi maccabaica: non
è l'inizio della fine dei tempi, ma solo una paren
tesi, «un breve tempo», nella storia delle relazio
ni tra Dio e il suo popolo. «Se per nostro castigo e
correzione il Signore vivente si adira per breve
tempo con noi, presto si volgerà di nuovo verso i
suoi servi» (2Mac 7,33; cf. 5,17). Alle «sventure e
all'abbandono» fa seguito «la riconciliazione del
grande Sovrano» (2Mac 5,20).
Il testo fondamentale è 2Mac 6, 12-17, che an
che nella sua forma letteraria si presenta come
una parentesi meditativa a uso del lettore, volta
a chiarire il senso della narrazione: <<lo prego co
loro che avranno in mano questo libro di non tur
barsi per le disgrazie . . . » (2Mac 6,12). La punizio-
49
ne è correzione: <<i castighi vengono non per la di
struzione, ma per la correzione del nostro popolo»
(2Mac 6,12). Anzi, il fatto che gli ebrei siano pu
niti immediatamente per le loro colpe è <<segno di
grande benevolenza», mentre le altre nazioni so
no punite «al colmo dei loro peccati» (2Mac 6,13-
14). Malgrado l'orrore della persecuzione e la du
rezza della prova, la teologia che l'autore mutua
da Daniele gli dà la possibilità di offrire un mes
saggio di consolazione e speranza. << [Dio] non ci
toglie mai la sua misericordia, ma, correggendoci
con le sventure, non abbandona il suo popolo>>
(2Mac 6, 16).
4. I Salmi di Salomone
e l'affermarsi
del messianismo
escatologico
Al periodo immediatamente seguente alla con
quista romana appartiene un altro testo, i Salmi
di Salomone, che con forza proseguono nella linea
aperta da Daniele. Il testo è decisamente anti
asmoneo («Con gloria hanno fondato per sé una
monarchia a causa della loro alterigia, hanno de
vastato il trono di Davide con tracotante cambia
mento» PsSal 17,6), ma non per questo necessa
riamente critico nei confronti delle istituzioni del
sacerdozio e del Tempio. Come in Daniele (e in
50
netto contrasto con le contemporanee tendenze
esseniche), il peccato è contro la Legge e contro il
Tempio (cf. PsSal 8,11-12).
Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un
documento che nel sottolineare come il creato (e
gli angeli) sia sotto il controllo di Dio, si schiera
decisamente sul versante anti-enochico: «Grande
è il nostro Dio . . . Le luci del cielo . . . non si svieran
no. Nel timore di Dio è la loro via, ogni giorno,
..
51
leanza che Dio ha stabilito con Israele «non smet
terà in eterno» (PsSal 9,9). Ma è la stessa prote
zione offerta a legittimare <<la frusta della disci
plina divina» (PsSal 7,9), qualora il popolo si di
mostri infedele. <<Tu sei il Dio della giustizia che
giudica Israele castigandolo» (PsSal 8,26), ripe
terà il salmista, non mancando mai di sottolinea
re come ogni tribolazione patita rappresenti la
giusta punizione per i peccati commessi. <<Non ci
fu alcun peccato che non commisero più dei paga
nh• (PsSal 8,13).
Di fronte a ogni crisi nei rapporti tra Dio e
Israele, il giusto individuo è colui che accetta la
punizione come correzione e non aggiunge pecca
to a peccato. Il giusto è colui che si mantiene fe
dele alla Legge (PsSal 14,2) e con spirito fermo
affronta il momento delle tribolazioni. ••Quando il
giusto resiste in tutte queste situazioni, riceve
misericordia dal Signore•• (PsSal 16,15).
L'uomo è peccatore, talora <<per errore•• (PsSal
3,6-8), spesso perché <<ha troppo•• (PsSal 5, 16), ma
il giusto riconosce le proprie colpe, fa espiazione e
riceve perdono da Dio (PsSal 9,6-7). Vi è una be
nedizione anche nel ricevere la punizione, perché
essa ha per fine la correzione, non la morte del
giusto, ed è dettata dall'amore, non dall'ira. Dio
« ammonisce il giusto come un figlio prediletto••
(PsSal 3,9; cf. 18,4). Laddove nell'ideologia sado
cita la sofferenza, l'infelicità e la povertà del giu
sto rimangono scandalo e contraddizione, i Salmi
di Salomone ribaltano tale logica e proclamano
52
((beato l'uomo, di cui il Signore si ricorda rimpro
verandolo•• (PsSal 10,1).
Nonostante ogni sofferenza i giusti sanno in
fatti che essi «vivranno per la misericordia del lo
ro Dio•• (PsSal 15,13), che la risurrezione e la vita
eterna sono la ricompensa divina per i giusti nel
mondo a venire (PsSal 3, 12). L'annientamento è
invece il destino dei peccatori, ((la loro eredità è
morte, tenebra e distruzione» (PsSal 14,9; cf. 3,11;
15,10).
Rispetto a Daniele e a 2 Maccabei, vi è nei Sal
mi di Salomone un elemento sostanziale di no
vità che è dato dallo sviluppo delle speranze mes
sianiche relative alla manifestazione del ((Figlio
di Davide.» Ciò segnala un ulteriore spostarsi
delle attese di redenzione collettiva da questo
mondo al mondo a venire. È comunque interes
sante notare che anche tale elemento di novità
non turbi, anzi consolidi, i principi di libertà di
scelta e di responsabilità individuale. Laddove l'i
deologia enochica attribuirà al proprio Messia, il
((Figlio dell'Uomo», un ruolo centrale di giudice e
salvatore facendone il contraltare celeste agli an
geli ribelli, i Salmi di Salomone non danno al Re
Messia alcun carattere soprannaturale di media
tore celeste e alcuna funzione nel giudizio che
possa oscurare o sminuire in alcun modo la cen
tralità della Legge e del patto e l'unicità del rap
porto tra Dio e l'individuo. Così come la punizio
ne di Israele in questo mondo non impedisce al
giusto di essere riconosciuto tale nel mondo a ve-
53
nire, così dipende ancora interamente e esclusi
vamente dall'individuo il meritarsi la partecipa
zione alla redenzione di Israele nel mondo a ve
nire sotto la guida del Figlio di Davide.
5. Lo Pseudo-Filone
e l'eternità del patto
Purtroppo la documentazione esistente non
fornisce apparentemente alcun testo che possa
essere ricollegato a questa forma di giudaismo
per il secolo successivo. Per trovare un altro testo
che prosegua sulla stessa linea ideologica occorre
fare un gran salto in avanti e arrivare allo Pseu
do-Filone nel periodo immediatamente seguente
alla disfatta del 70.
La reazione dello Pseudo-Filone alla disillu
sione delle attese messianiche, di cui si era nutri
ta la rivolta giudaica, sembra consistere prima
riamente in un'attenuazione dell'idea degenerati
va della storia, che tanta parte aveva avuta in
Daniele e ancora nei Salmi di Salomone. Il docu
mento evita così ogni riferimento diretto al Mes
sia per concentrarsi piuttosto sull'epoca dei Giu
dici come il prototipo eterno delle relazioni tra
Dio e il suo popolo, prima che con Davide venga il
regno messianico. Come l'epoca dei Giudici, «que
sto mondo>> è perennemente contrassegnato da
grandi vittorie e da grandi sconfitte, da eroica fe
deltà e da vergognose infedeltà. Comunque mes-
54
so alla prova, il patto resta la regola eterna cui
Dio e Israele sono indissolubilmente legati. «Ac
cadrà prima che questa età avrà termine o che il
mondo sprofondi nell'abisso senza fondo, o che il
cuore dell'abisso tocchi le stelle, piuttosto che la
progenie dei figli di Israele abbia fine. . . Perché
Dio non persisterà nella sua ira né dimenticherà
il suo popolo per sempre, né disperderà il popolo
di Israele invano sulla terra, né renderà vano il
patto che egli stabilì con i nostri padri» (LAB 9,3-
4; cf. 18,10-11). Lo Pseudo-Filone disinnesca cosi
il principale problema della riflessione di Danie
le: la necessità dell'eschaton per la salvezza di
Israele. La storia non è un precipitare verso la fi
ne in un crescendo di male.
Certamente questo non salva Israele dalla pu
nizione, anche dalla punizione più dura da sop
portare. Dio nella sua giustizia non fa preferenze
di persone, né teme le parole di scherno dei paga
ni. «Perché se anche i gentili dicono: Dio è venuto
meno, perché non ha liberato il suo popolo . . . cio
nonostante essi dovranno riconoscere che Dio non
fa preferenza di persona, ma vi ha puniti perché
avete peccato con orgoglio>> (LAB 20,4).
Ma il Dio di giustizia è anche un Dio di mise
ricordia che non abbandona il suo popolo. Lo
Pseudo-Filone lo ripete con convinzione incrolla
bile: «Io so che Dio non ci abbandonerà per sem
pre, né odierà il suo popolo per tutte le genera
zioni . . . Anche se i nostri peccati sono numerosi,
55
ciononostante la sua misericordia non verrà me
no» (LAB 49,3)
Se dunque c'è da aspettarsi - e la storia lo di
mostra - che Israele sia spesso e talora anche
gravemente infedele, l'idea stessa che Dio possa
venire meno al suo impegno e trasferirlo su un al
tro popolo è bollata come priva di senso. Su que
sto punto la divergenza con le contemporanee po
sizioni cristiane è netta. Se le parole di Gesù, che
«il padrone . . . affiderà ad altri la vigna>> (Le 20,9-
19), potevano ora configurarsi concretamente co
me la profezia di un «nuovo Israele>>, lo Pseudo
Filone non esita a sfidare Dio, richiamandone gli
impegni assunti. Dio non può abbandonare la vi
gna, se non al prezzo di contraddire se stesso. ((Se
tu non avrai pietà della tua vigna, o Dio, tutte le
cose saranno state fatte invano, e non avrai chi
glorifichi il tuo Nome. Perché se anche tu pian
tassi un'altra vigna, questa non potrà aver fidu
cia in te, perché tu hai distrutto la precedente>>
(LAB 12,9-10).
Riaffermati così i criteri e le condizioni che le
gano Dio a Israele, lo Pseudo-Filone può ora riba
dire come la salvezza individuale dipenda esclu
sivamente dalla responsabilità del singolo. A que
sto proposito è possibile notare alcuni interessan
ti sviluppi rispetto alla tradizione precedente.
In primo luogo, lo Pseudo-Filone recide con
forza ogni residua connessione tra retribuzione
collettiva e retribuzione individuale. Il Dio geloso
dell'Esodo che ((punisce la colpa dei padri nei figli
56
fino alla terza e alla quarta generazione•• ora pre
cisa che le sue parole si riferiscono solo «a quanti
camminino sulle orme dei loro padri>> (LAB 1 1,6).
Lo Pseudo-Filone riconosce la difficoltà del
mantenersi giusti e la debolezza umana: «Chi è
l'uomo che non pecca contro di te?•• (LAB 19,9).
Nel sottolineare tuttavia come la Legge garanti
sca anche lo spazio per la penitenza e il perdono
delle colpe, lo Pseudo-Filone è altrettanto deciso
nel rigettare alcuna mediazione o intercessione
che in qualsiasi misura deresponsabilizzi l'indivi
duo. In netto contrasto con quanto Giuda Macca
beo aveva compiuto secondo 2 Maccabei, Deborah
respinge l'invito a lei rivolto di intercedere per i
peccatori defunti: ••Rivolgete il vostro cuore al Si
gnore vostro Dio durante il tempo della vostra vi
ta, perché dopo la morte non è possibile pentirsi
per ciò che si è fatto durante la vita... Quando un
uomo è ancora vivo può pregare per se stesso e
per i propri figli, ma dopo la sua morte non può
pregare né è memore di alcuno•• (LAB 33,2.5).
Lo Pseudo-Filone accentua quindi la finalità
retributiva della dottrina di un'esistenza ultra
terrena. Vita eterna con Dio (LAB 19, 12) e an
nientamento ancora distinguono i giusti dagli in
giusti alla fine dei tempi, ma un primo giudizio
già attende gli individui al momento della morte,
sicché le anime dei giusti riposino ' in pace (LAB
23,13; 28,10; 51,5), mentre l'attesa dei reprobi è
in un fuoco eterno e inestinguibile (LAB 23,6;
38,4; 63,4). La presenza di questo periodo inter-
57
medio di punizione rende ancora più efficace e
concreta la minaccia del castigo divino e dà a Dio
maggiore flessibilità nel trattare con i peccatori
in questo mondo, senza dover per forza dar prova
del suo potere. Nel caso di Gideone, ad esempio, il
suo peccato richiederebbe l'intervento divino, ma
poiché il condottiero ha distrutto il Tempio di
Baal la sua disgrazia e morte prematura sareb
bero facilmente interpretate come «un atto di
vendetta da parte di Baah> . Dio può tranquilla
mente dilazionare la punizione e permettere a
Gideone di invecchiare in pace, tanto «quando
sarà morto, potrò allora punirlo e per sempre••
(LAB 36,4).
58
l'origine del male. Laddove 4 Esdra è ancora lega
to alla visione enochico-essenica di un uomo vitti
ma innocente del peccato originale (cf. 4Esd 3,20-
22), 2 Baruc nega ogni effetto causale della tra
sgressione di Adamo sulle generazioni successive.
L'individuo resta sovrano nel bene e nel male. L'i
dea del peccato originale è esplicitamente negata:
Adamo fu un cattivo esempio per gli angeli che al
lora (ma ora non più) «avevano ancora libertà»
(2Bar 56,10-16) e tale continua a essere per le ge
nerazioni future. Ma ciò che Adamo fece non può
costituire un alibi per l'uomo peccatore. «Giusta
mente periscono coloro che non hanno amato la
tua Legge, e il tormento del giudizio riceve coloro
che non si sono sottomessi al tuo dominio. Se in
fatti Adamo prima di me ha peccato e ha fatto ve
nire la morte su tutto quel che al suo tempo non
(era), pure coloro che furono generati da lui, ognu
no di loro ha predisposto per la sua anima il tor
mento futuro e, ancora, ognuno di loro ha scelto
per sé le glorie future. . . Non è dunque Adamo la
causa, se non per sé solo. Noi tutti, ognuno (di noi)
è divenuto Adamo a se stesso» (2Bar 54,14-19).
Per 4 Esdra poi, come già per il Libro dei So
gni, la storia è un ininterrotto processo degenera
tivo, un'idea che Daniele aveva parzialmente mo
strato di condividere in una rigida scansione tri
partita, che vedeva succedersi alla trasgressione
la punizione divina e quindi la salvezza escatolo
gica. 2 Baruc riprende il motivo dei quattro regni
di Daniele, seguiti dall'era messianica (2Bar
59
39,2-8), ma la sua preoccupazione principale è nel
negare ogni univoca visione degenerativa. La sto
ria di Israele è una serie ininterrotta di fedeltà e
infedeltà, di punizioni (anche durissime) e di be
nedizioni, senza che un aspetto prevalga sull'al
tro, se non alla fine, nel mondo a venire. 2 Baruc
vede un alternarsi di <<acque bianche e nere••
(2Bar 53-86) e afferma come principio generale
che «in quel che esiste ora o che è passato o che
viene, in tutto ciò né il male è pienamente male
né, ancora, il bene pienamente bene•• (2Bar 83 ,9).
Certo, ciò non impedisce il castigo (<<Chi può
beneficare può anche tormentare••, 2Bar 64,10).
Trasgressione e punizione sono anzi esperienze
inevitabili, ripetute, ma in nessun caso significa
no la <<fine» dell'elezione, ne costituiscono anzi la
norma, attraverso la quale Dio esercita il proprio
giudizio sul cosmo e su Israele. <<11 giudizio di Dio
infatti non fa preferenze di persona. Per questo
prima non ha risparmiato i suoi figli, ma li ha tor
mentati come suoi nemici, perché avevano pecca
to. Allora dunque sono stati castigati, per essere
perdonati» (2Bar 13,8-10). Cosi in 2 Baruc sono
gli angeli di Dio ad aver attuato la distruzione di
Gerusalemme, <<perché gli avversari non si vanti
no e dicano: Noi abbiamo abbattuto il muro di
Sion e abbiamo incendiato il luogo del Dio poten
te!» (2Bar 7,1).
Resta certo il compianto per quanto è succes
so, ma ciò corrisponde a una logica chiara. Non ci
sono ombre in quanto avvenuto, né rivelazioni re-
60
condite da attendersi, né misteri sigillati in una
letteratura esoterica che Dio abbia affidato a un
mediatore, così come Esdra ripete in linea con la
tradizione essenica (cf. 4Esd 12,37; 14,44-47). Al
contrario, in 2 Baruc Dio rimprovera il profeta
per i suoi dubbi: ••Non hai giudicato bene dei ma
li che capitano a coloro che peccano e per avere
detto: I giusti sono stati rapiti e gli empi hanno
prosperato; e per aver detto: nessuno ha cono
sciuto il tuo giudizio. . . L'uomo non conoscerebbe il
mio giudizio, se non avesse ricevuto la Legge e se
non l'avessi istruito nella comprensione. Ora
però, poiché sapendo, ha trasgredito, per questo
anche, sapendo, sarà tormentato» (2Bar 15,1-6).
Lo sgomento che ora attanaglia il popolo è solo
mancanza di memoria: «Rammentate che un tem
po Mosè . . . ha detto: Se trasgredirete la Legge sa
rete dispersi e se la osserverete sarete custoditi . . .
(Queste cose) Mosè (le) diceva prima che v i capi
tassero, ed ecco, sono capitate: infatti avete ab
bandonato la Legge•• (2Bar 84,2-5).
La distruzione di Gerusalemme ha tuttavia
accentuato l'esperienza di un coinvolgimento pe
sante e diretto dei giusti in una catastrofe collet
tiva. È un tema, questo, sul quale il documento
torna spesso. «l vostri fratelli hanno trasgredito i
comandamenti dell'Altissimo ed egli ha fatto ve
nire su di voi e su di loro la vendetta... Non sape
te che per voi che avete peccato è stato distrutto
quello che non aveva peccato, e per coloro che era
no stati scellerati è stato consegnato agli avver-
61
sari (il luogo santo), che non aveva mancato?»
(2Bar 77,4-10).
Di nuovo la risposta è data dalla distinzione
tra retribuzione collettiva e retribuzione indivi
duale. Di fronte alla catastrofe collettiva, anche
alla più grave, i giusti devono reagire obbedendo
alla Legge. «Se infatti pazienterete e resterete nel
timore di lui [Dio] e non dimenticherete la sua
Legge, i tempi saranno mutati per voi in cose buo
ne e vedrete la consolazione di Sion» (2Bar 44, 7).
Dopo la morte, i giusti sanno che troveranno
pace mentre il destino dei peccatori sarà nel fuo
co (2Bar 44, 15). E alla fine dei tempi, «la terra re
stituirà i morti» (2Bar 50,2) e i giusti vivranno co
me gli angeli (2Bar 51, 10).
Non v'è dnnque ragione alcnna di turbamento
da parte dei giusti: «l giusti vanno via da questa
dimora senza timore, perché hanno presso di te,
custodita in deposito, la potenza delle loro opere.
Per questo essi abbandonano senza timore questo
mondo e, fiduciosi, attendono con gioia di ricevere
il mondo che hai promesso loro» (2Bar 14,12-13).
Anche nelle tribolazioni v'è ragione di gioire. «Ral
legratevi per la sofferenza che ora patite!» (2Bar
52,6). Nell'arco di tre secoli la logica sadocita è
stata così totalmente rovesciata perché essa po
tesse sussistere nei suoi termini essenziali. L'au
tore riconosce apertamente che senza l'introduzio
ne dell'idea della risurrezione e del mondo a veni
re, la vita non avrebbe senso e l'intero sistema
ideologico costruito attorno all'idea del patto crol-
62
lerebbe: «Se infatti vi fosse per tutti solo la vita di
qui, nulla sarebbe più amaro di ciò>> (2Bar 21,13).
Nel suo insieme dunque la teodicea di 2 Baruc
sviluppa le idee che abbiamo visto centrali anche
nello Pseudo-Filone: Dio non può disimpegnarsi
dall'impegno preso con Israele, il patto non può
cessare la sua validità, se non a condizione di va
nificare l'intero operato di Dio in un ritorno al
caos primordiale. «Se infatti farai perire la tua
città e consegnerai la tua terra ai nostri nemici,
come il nome di Israele sarà ancora ricordato, o
come parleremo delle tue glorie, o a chi si spie
gherà quel che è nella tua Legge? O forse tornerà
il cosmo alla sua natura e il mondo riandrà al si
lenzio di prima?» (2Bar 3,5-7).
Rispetto allo Pseudo-Filone si nota in 2 Baruc
un ulteriore progresso nell'affermazione della
centralità e dell'unicità della Legge, come se la di
struzione di Gerusalemme avesse l'effetto di ri
condurre il patto ai suoi termini essenziali, im
mutabili ed eterni: Dio, il popolo, gli individui, la
Legge, questo mondo e il mondo a venire.
Con lo Pseudo-Filone, 2 Baruc conferma anzi
tutto che non esiste alcuna possibilità di inteces
sione per i peccatori dopo la morte. «Lì non vi sarà
più luogo per la penitenza né confine per i tempi,
né spazio per i cambiamenti. . . né suppliche per le
colpe . . . né invocazioni di padri . . . né aiuto di giusti>>
(2Bar 85,12). Ma laddove lo Pseudo-Filone nella
scelta stessa del periodo dei Giudici aveva enfa
tizzato la necessità per Israele di guide fedeli e di
63
mediatori in questo mondo, anche questo elemen
to scompare ora in 2 Baruc. Il contrasto è ancora
più profondo qualora lo si legga sullo sfondo del
grave disorientamento che la disfatta militare do
veva aver creato e che lo stesso 2 Baruc non sot
tace. <<Sono periti i pastori di Israele e si sono
spente le lampade che illuminavano e le fonti, da
dove bevevano hanno trattenuto il loro corso. Nai
siamo stati abbandonati nella tenebra e nel fitto
della foresta e nella sete del deserto>> (2Bar 77, 13-
14). Ma laddove 4 Esdra si aggrappa alla soprav
vivenza di un mediatore (<<Di tutti i profeti ci sei
rimasto solo tu, come un grappolo dalla vendem
mia, come una lucerna in un luogo oscuro e come
un porto di salvezza per una nave che si trova nel
la tempesta», 4Esd 12,42), la risposta di 2 Baruc
mira a un rapporto più essenziale tra Dio e l'uo
mo: le lampade possono venir meno, ma la luce
della Legge e la fedeltà di Dio garantiscono di per
se stesse la continuità del patto. <<Pastori e lampa
de e fonti procedevano dalla Legge e se noi andia
mo, pure la Legge sta. Se dunque guarderete alla
Legge e veglierete nella sapienza non mancherà
la lampada e il pastore non verrà meno e la fonte
non seccherà» (2Bar 77, 15-16).
La caduta, uno dopo l'altro, di ogni elemento di
mediazione si rivela paradossalmente funzionale
alle finalità di una corrente di pensiero che fin da
Daniele ha teso a fare della Torah la principale
mediazione e ora può proclamarne l'esclusività,
trovando nella sconfitta le ragioni del proprio
64
trionfo ideologico. ((Nei tempi precedenti e nelle
generazioni di prima i nostri padri avevano (co
me) aiuti giusti e profeti e santi... Ora però i giu
sti si sono radunati e i profeti si sono addormen
tati e anche noi siamo usciti dalla nostra terra e
Sion ci è stata tolta e non abbiamo alcunché ora,
se non il Potente e la sua Legge. . . Una è la Legge
(data) dall'Unico; uno è il mondo e per quel che
v'è in esso, per tutto, vi è una fine. Allora (Dio)
farà vivere quelli che troverà e sarà loro propizio
e, insieme, farà perire coloro che saranno mac
chiati di peccati» (2Bar 85, 1-3. 14-15).
65
butivo (vale a dire, la Torah, l'Eden e la Gehenna)
siano preesistenti alla creazione e quindi rappre
sentino la regola nei rapporti tra Dio e l'uomo sin
dall'origine: «duemila anni prima che il mondo
fosse creato, (Dio) creò la Legge . . . il giardino del
l'Eden per i giusti e la Gehenna per gli ingiusti»
(tgN Gen 3,24).
Così il conflitto tra Abele e Caino potrà essere
presentato nella rilettura targumica come un
conflitto teologico basato sulla credenza della ri
surrezione e della retribuzione nel mondo a veni
re quali principi basilari della rivelazione divina.
«TI mondo fu creato per amore ed è governato se
condo il frutto delle opere buone . . . C'è un giudice
e un altro mondo; e c'è ricompensa per i giusti e
retribuzione per gli ingiusti nel mondo a venire»
(tgN Gen 4,8). Che la retribuzione individuale av
viene nel mondo a venire, sarà un concetto così
radicato che quando Abramo si vedrà ricompen
sato da Dio con una strabiliante vittoria militare
nella campagna dei quattro re (tgN Gen 14), Dio
stesso dovrà rincuorarlo: Abramo teme di aver
perso il diritto alla ricompensa futura tanto è
eclatante il suo successo in questo mondo. Dai
tempi del giudaismo sadocita, che faceva del suc
cesso personale un segno della giustizia indivi
duale, molta strada si è fatta. Adesso il giusto in
dividuo sa che lo aspetta una vita di lotta tra be
ne e male e che è bene non aspettarsi troppo da
questo mondo, che è il luogo della responsabilità
e dell'obbedienza. Al tempo stesso però l'indivi-
66
duo sa che qualunque prova lo attenda in questo
mondo e qualunque sia il peccato di Israele (e
quindi la probabilità di essere coinvolto nella cor
rezione divina), la possibilità di salvezza indivi
duale non viene mai meno e dipende esclusiva
mente dal suo rapporto con la Torah.
Su queste basi il giudaismo rabbinico co
struirà la sua fortuna, ma non prima che le idee
che abbiamo visto caratterizzare questa catena
sistemica di documenti si saldino allo sforzo del
la Mishnah di dare unità e centralità alle tradi
zioni orali e normative di Israele. Ciò sarà reso
possibile nella metà del III sec. d.C. dalla stesura
del trattato �bot attraverso il concetto della du
plice Torah (m �bot 1,1). Allora (e solo allora) il
giudaismo rabbinico potrà dire di aver concluso il
suo periodo formativo e sarà pronto alla grande
fioritura letteraria dei secoli a seguire.
Il detto di Rabbi Aqiba sintetizza con straordi
naria efficacia quattro secoli di elaborazione teo
logica che legano in un filo ininterrotto Daniele a
�bot. «Tutto è previsto, ma è concessa la libertà
d'agire. Il mondo viene giudicato con bontà e cia
scuno in base alla somma delle sue opere)) (m
�bot 3 , 15). Nel detto ritroviamo in primo luogo
quell'equilibrio tra onnipotenza divina e libertà
dell'uomo, che salvaguardia al tempo stesso l'au
torità divina contro ogni ipotesi di origine so
prannaturale o angelica del male, e la responsa
bilità umana contro ogni ipotesi tesa a limitare la
capacità dell'individuo di compiere il bene. In se-
67
condo luogo il detto ribadisce quella distinzione
fondamentale che abbiamo visto caratteristica fin
da Daniele tra retribuzione del mondo (che sarà
giudicato con bontà e quindi redento alla fme dei
tempi) e retribuzione individuale (basata sulla
quantità delle azioni).
Su tutto impera il dono di salvezza della Torah.
La Legge è lo strumento «che servì alla creazione
del mondo» (m �bot 3,1). La Legge soccorre la de
bolezza umana sicché «la penitenza e le opere buo
ne sono come uno scudo contro la punizione» (m
�bot 4, 18). Soprattutto la Legge è dovere religio
so primario per l'individuo e garanzia di ricom
pensa futura: «Non dipende da te portare a termi
ne l'opera, ma non puoi esimerti dall'eseguirla . Il
. .
68
ta di indifferenza teologica: <<Non è in nostro pote
re spiegare né la prosperità dei malvagi né la sof
ferenza dei giusti» (m �bot 4,13).
Il giogo della Legge è ora descritto senza mez
zi termini come il mezzo più sicuro per sfuggire a
una storia senza speranza. «Chi accetta il giogo
della Legge si libera dal giogo dello stato e dal
giogo del mondo. Ma chi si sottrae al giogo della
Legge, viene assoggettato al giogo dello stato e
del mondo•• (m �bot 3 ,5). Il contrasto tra questo
mondo e il mondo a venire non potrebbe essere
più acuto: «un'ora di felicità nel mondo a venire è
più bella di tutta la vita in questo mondo» (m
�bot 4,17).
Quello che veramente conta agli occhi dell'au
tore di �bot è ciò che l'individuo compie in rap
porto alla Legge e in prospettiva del giudizio fi
nale di Dio. Su questo obiettivo l'individuo è chia
mato a concentrarsi: «l nati sono destinati alla
morte, i morti alla risurrezione, i risuscitati devo
no essere giudicati, affinché essi sappiano, faccia
no sapere e si sappia che egli è Dio, egli che tutto
ha formato, tutto ha creato, che tutto conosce, tut
to giudica, ed è allo stesso tempo giudice, testi
mone e accusatore» (m �bot 4,22; cf. 3,1).
La successiva tradizione rabbinica fonderà su
questi principi essenziali una sofisticata costru
zione ideologica destinata a conquistare un'ege
monia indiscussa all'interno del popolo ebraico e
a legare a esso le proprie fortune e i propri suc
cessi per molti secoli a venire.
69
CONCLUSIONE
1. Le origini parallele
di cristianesimo
e giudaismo rabbinico
L'origine di una tradizione proto-rabbinica,
come di un movimento riformatore dall'interno
del mondo pluralistico del Secondo Tempio, ricor
da da vicino quella del suo «fratello•• cristiano. I
secoli tra la rivolta maccabaica e la guerra giu
daica non furono né il periodo finale di un giu
daismo già monoliticamente costituitosi prima di
Gesù («tardo giudaismo») né esclusivamente il
punto di partenza di un inevitabile processo evo
lutivo che avrebbe condotto all'affermazione del
giudaismo rabbinico («primo o nascente giudai
smo••). Quei secoli furono la complessa epoca di
transizione di molti giudaismi in competizione
(«medio giudaismo••), nella quale sia il cristiane
simo che il giudaismo rabbinico conobbero la loro
<<origine•• dalle comuni «radici>• nel pensiero giu
daico post-esilico.
71
Fino a quando il Tempio rimase come terreno
comune tra i vari gruppi ebraici, queste differen
ze teologiche continuarono a essere parte del di
battito all'interno dell'ebraismo del I secolo, in un
crogiolo di idee e movimenti ognuno dei quali
aveva la sua identità e probabilmente anche il
suo modo di vita separato e distinto dagli altri.
I primi cristiani a Gerusalemme continuarono
«ogni giorno>> a rendere culto a Dio nel Tempio (At
2,46), fianco a fianco con gli esponenti e seguaci
di quegli altri gruppi con i quali apertamente e
talora aspramente ogni giorno polemizzavano.
Persino Paolo, che molti si accaniscono a conside
rare il maggior responsabile dello scisma ebraico
cristiano, fu arrestato nel Tempio dove si era re
cato per l'offerta di purificazione (At 2 1,26-30).
Fino all'anno 70, dunque, il movimento cristiano,
persino nelle sue espressioni più radicali, fu par
te integrante del pluralismo giudaico dell'epoca e,
come confermano i riferimenti simpatetici di Fla
vio Giuseppe (Ant XVIII 63-64; XX 197-203), tale
fu considerato dagli altri ebrei, anche da coloro
che non ne erano parte o che addirittura guarda
vano con sospetto al suo diffondersi oltre i confi
ni etnici di Israele e si impegnarono con ogni
mezzo a ostacolame l'affermazione.
Quando tuttavia il Tempio fu distrutto dai ro
mani nel 70, e ancor più alla metà del II secolo
quando dopo la rivolta di Bar Kokheba divenne
a tutti chiaro che esso non sarebbe stato rico
struito, quel fragile equilibrio di coesistenza tra
72
gruppi diversi, che aveva caratterizzato il perio
do del Secondo Tempio, fu spazzato via per sem
pre. Gli unici due gruppi che seppero sopravvi
vere con successo alla catastrofe (e che anzi dal
la crisi sembrarono trarre vantaggio) furono i fa
risei e i seguaci di Gesù. Si trattava in entrambi
i casi di gruppi giovani e dinamici, fortemente
radicati nella secolare tradizione religiosa di
Israele (della cui linfa vitale non avrebbero mai
cessato di nutrirsi), e insieme capaci di adattar
si con grande duttilità ai cambiamenti della sto
ria. Da loro, dalle loro scelte, sono nati i due di
stinti gruppi religiosi che oggi chiamiamo ebrai
smo e cristianesimo.
Da un punto di vista di fede, la ragione della
loro sopravvivenza non può che essere attribuita
alla volontà di Dio. Da un punto di vista pura
mente storico, possiamo solo costatare come que
sti due movimenti furono più di ogni altro capaci
di dare una risposta adeguata ai problemi della
loro epoca. Nel momento in cui alimentavano la
speranza escatologica della fine dei tempi, farisei
e cristiani erano tuttavia in grado di dare ai loro
aderenti un senso alla loro esistenza e di offrire
loro un possibile itinerario di salvezza. Dal punto
di vista farisaico questo mondo può essere catti
vo, può essere terribile, perché tale lo ha reso l'in
fedeltà umana; ma fin dall'inizio Dio ha provve
duto a porre un argine alla diffusione del male at
traverso il dono della Torah, che è fonte di sal
vezza non soltanto per l'ebreo, ma anche, con mo-
73
dalità diverse, per tutte le genti. Per i cristiani
questo mondo è in preda al male, al peccato, alla
tentazione di satana; ma con la venuta di Gesù,
Dio ha cominciato un processo per invertire la
tendenza, quindi c'è un seme di bene già adesso,
prima della fme dei tempi, assieme alla certezza
del perdono per il peccatore che si affidi alla mi
sericordia divina e accetti il Messia come proprio
salvatore.
I farisei si opponevano strenuamente all'idea
che il male avesse un'origine soprannaturale.
L'uomo è libero e il male esiste come frutto della
trasgressione umana e della punizione divina. Vi
è il problema antropologico dell'inclinazione, del
fascino sinistro che il male sembra esercitare sul
l'uomo, ma il male non esiste come forza cosmica,
di cui potenze superumane si servono per tentare
di ridurre l'uomo in loro potere. Dio ha dato al
l'uomo la possibilità di conoscere il bene e il male
e lo strumento divino per combattere il male, cioè
la Torah di Mosè.
Coerentemente il Messia della tradizione fa
risaica è celebrato come redentore di Israele e
dell'umanità, ma non per questo è il salvatore in
dividuale. Non a caso a essere usata era l'espres
sione Figlio di Davide. Il Messia non è pre-esi
stente, è un essere umano come lo fu Davide, il
quale, a un certo punto della sua vita, fu scelto
da Dio, unto da Dio, come Messia. Come Davide
fu il Messia per eccellenza di questo mondo, così
il Figlio di Davide sarà il leader del mondo a ve-
74
nire. Il Figlio di Davide è sotto la Legge; Dio solo
è il giudice e il dispensatore della salvezza se
condo l'alleanza sancita con la Legge di Mosè.
Solo per chi creda che il male ha un'origine su
perumana, allora ha senso l'idea cristiana di un
Messia celeste, il Figlio dell'Uomo, salvatore e li
beratore dal male. Altrimenti tale idea si pone in
contraddizione con quanto Dio ha già fatto, du
plicando incomprensibilmente il dono di salvezza
della Torah quale strumento di salvezza che Dio
ha dato all'uomo libero e responsabile, perché
sappia con esso volgere le proprie azioni al bene
secondo la volontà divina.
La perdita del Tempio come casa comune dei
diversi gruppi giudaici, ovviamente, cambiò i ter
mini delle relazioni e della polemica tra farisei e
cristiani. A questo punto non si trattava più sem
plicemente di definire il ruolo di ciascun movi
mento all'interno della religione giudaica. Il pro
blema che ora si poneva è di chi sarebbe stato il
nuovo rappresentante della religione ebraica. Se
nei vangeli scritti dopo il 70 il dissidio tra cristia
nesimo e fariseismo è così preminente, è esatta
mente perché essi riflettono lo scontro tra due
movimenti riformatori, ciascuno dei quali com
batté una battaglia decisiva per acquistare la lea
dership all'interno del popolo ebraico. Mentre pri
ma del 70 era possibile al tempo stesso essere cri
stiano ed ebreo, fariseo ed ebreo, perché in fondo
chiunque partecipava al culto del Tempio e crede
va nel Dio di Israele venerato nel Tempio era
75
ebreo, dopo il 70 la definizione stessa di ebreo
cambia, perché nel fariseismo l'ebreo è chi obbe
disce alla Torah, mentre nella tradizione cristia
na si sviluppa un'altra definizione, che è quella
dell'obbedienza al Messia. Non è possibile essere
al tempo stesso cristiani e farisei. Non è possibile
essere al tempo stesso parte del cristianesimo e
parte del giudaismo rabbinico.
Lo scontro finale per l'egemonia vide parados
salmente entrambi i gruppi uscirne insieme vit
toriosi e perdenti. I farisei trionfarono all'interno
del popolo ebraico, ma i cristiani trovarono ben
presto un'inaspettata e lusinghiera rivincita tra i
non-ebrei. Entrambi i gruppi furono perdenti nel
non aver saputo evitare i veleni di uno scisma che
per secoli avrebbe separato i "figli di Abramo» in
due campi contrapposti e che avrebbe avuto delle
conseguenze devastanti sul piano umano, religio
so e culturale.
Tra le vittime più illustri del dissidio rabbini
co-cristiano va annoverata paradossalmente pro
prio quella tradizione enochico-essenica che tan
ta parte aveva avuto nelle origini del cristianesi
mo. I primi cristiani venerarono testi quali lEnoc
e Giubilei come parte della loro tradizione scrit
turistica, ma poi gradualmente persero interesse
in essi. Tanto più il rabbinismo si identificava con
l'ebraismo tout court, tanto più i cristiani erano
spinti a presentarsi come il compimento del rab
binismo e non come gli eredi di un movimento
dissidente. Questo processo avrà il suo culmine
76
nella riforma protestante, che porrà il canone
rabbinico a fondamento del canone cristiano del
l'Antico Testamento. Non a caso Enoc e Giubilei
rimarranno a tutt'oggi canonici in una Chiesa cri
stiana come quella etiopica, che ebbe un proprio
sviluppo autonomo dalle altre Chiese ed ebbe
contatto solo con una forma non-rabbinica di
ebraismo (i falasha). Altrove un comune interes
se spingeva ebrei e cristiani a un revisioniamo
storico che produsse il mito di un cristianesimo
che (trionfalmente o infedelmente a seconda del
punto di vista) si separò da un ebraismo (fedel
mente o cocciutamente a seconda del punto di vi
sta) sempre uguale a se stesso.
2. Un futuro
di riconciliazione
La separazione tra il ramo cristiano e quello
farisaico avvenne purtroppo in un clima di scon
tro e recriminazioni che avrebbe avvelenato per
secoli i loro rapporti. La tolleranza religiosa e il
rispetto del diverso sono idee moderne, e non si
può dire che siano troppo popolari nemmeno al
giorno d'oggi. Allora la polemica fu durissima,
fondata su un sostanziale rifiuto di capire le ra
gioni dell'altro e sul dileggio dell'avversario.
Dal punto di vista cristiano, quegli ebrei che
non accettavano la rivelazione cristiana erano de
gli illusi e degli ipocriti, che nascondevano la loro
77
natura malvagia dietro al formalismo delle buone
opere (e non è escluso che alcuni di loro lo fossero
realmente). Dal punto di vista del giudaismo rab
binico, quegli ebrei che non accettavano la centra
lità della Torah erano degli illusi e degli opportu
nisti, che nascondevano dietro alla misericordia di
Dio la loro incapacità di fare il bene (e non è esclu
so che alcuni di loro lo fossero realmente).
Ma il linguaggio della polemica e dello scon
tro, che pervade le fonti antiche, non deve farci
perdere di vista la serietà delle rispettive posizio
ni e la buona fede di entrambi. Nel leggere quel
le pagine amare si dimentica spesso che la pole
mica - per quanto aspra fu pur sempre fra for
-
78
smo - sin dalle origini di questa religione mono
teistica - vennero a delinearsi diverse linee in
terpretative circa l'origine del male: l'una supe
rumana, l'altra umana; l'una in aperta opposizio
ne a Dio, l'altra conforme al piano divino. Da que
ste diverse premesse scaturl la necessità di di
verse ipotesi di salvezza. Cristianesimo e rabbi
nismo sono semplicemente due modi diversi di ri
spondere alle stesse domande.
E se è indubbio che il rabbinismo svolse una
funzione essenziale nel preservare - assieme ad
antichissime tradizioni religiose - l'identità etni
ca e culturale del popolo ebraico, non va dimenti
cato che senza il cristianesimo non conoscerem
mo gran parte delle antiche tradizioni religiose
giudaiche (i testi del giudaismo enochico e di
quello ellenistico ci sono pervenuti solo attraver
so la tradizione cristiana). Non solo i cristiani
dunque devono studiare il rabbinismo per capire
meglio le loro radici, ma è vero anche l'opposto,
ossia che anche gli ebrei devono studiare il cri
stianesimo per capire meglio le proprie radici. È
importante sottolinE;are che il cristianesimo non è
il giudaismo più il Cristo, né il rabbinismo una
forma mancata di cristianesimo. Cristianesimo e
giudaismo rabbinico sono due sviluppi autonomi
e paralleli del giudaismo antico.
Ancora più essenziale (ma forse ancora più
difficile) è che cristiani ed ebrei imparino a rico
noscersi gli uni gli altri non soltanto per quello
che erano, ma anche per quello che sono diventa-
79
ti. Finché ebrei e cristiani si cercheranno come
fossili viventi nei quali intravedere tracce di un
passato comune e lontano, nessun dialogo sarà
veramente possibile. Molte, troppe cose sono suc
cesse in 2000 anni; nessuno dei due fratelli è più
lo stesso di un tempo. Una riconciliazione tra
ebrei e cristiani di oggi non può essere altro che
una amicizia ritrovata nella diversità e nel rico
noscimento reciproco delle rispettive identità. Ciò
passa anzitutto attraverso un onesto e pieno rico
noscimento delle colpe passate, come via di un
perdono dei torti subiti e di liberazione da ogni
residuo senso di colpa e da ogni ombra di sospet
to reciproco. Il c ammino di riconciliazione sarà
compiuto quando cristiani ed ebrei avranno svi
luppato quello che potremmo definire un sano or
goglio di appartenenza alla stessa famiglia, senza
indebite ingerenze, invidie, o sensi di superiorità.
Ciò che il nostro fratello ha conseguito e consegue
non appartiene alla nostra storia: guai se l'altro
fratello se ne impicciasse troppo, o pretendesse di
appropriarsene. Eppure tutto ciò che il nostro fra
tello fa ci riguarda, perché appartiene alla storia
della nostra famiglia. Tempo verrà che cristiani
ed ebrei, come buoni fratelli, impareranno a par
lare l'un dell'altro con orgoglio e ammirazione re
ciproci; e con un affetto discreto che non diventa
mai intrusività, sapranno come partecipare l'uno
delle gioie e dei dolori dell'altro.
La vicenda di ebrei e cristiani davvero ricorda
quella dei due figli di Rebecca, Giacobbe e Esaù,
BO
come con molto acume e sensibilità ha sottolinea
to lo studioso ebreo-americano Alan F. Segai, un
amico e un collega troppo prematuramente scom
parso. I due fratelli gemelli - così simili e così di
versi: l'uno peloso, l'altro liscio di pelle; l'uno così
forte, l'altro fin troppo furbo - si combatterono fin
nel ventre materno per condurre una vita nello
scontro, nella paura o nell'indifferenza recipro
che. Ma poi l'impossibile accadde: dopo anni di se
parazione e pur tra mille sospetti e ripensamenti,
le loro strade si incontrarono di nuovo, e allora
«corsisi incontro si abbracciarono, si baciarono e
piansero» (Gen 33,4). E quando il padre !sacco
morì, c'erano entrambi a seppellirlo e a venerame
la memoria (Gen 35,29), onde - riconciliati alfme
con il passato - proseguire ciascuno il proprio
cammino nella propria distinta identità di uomi
ni maturi. Anche gli ebrei e i cristiani - così simi
li e così diversi - si sono disputati per secoli la pri
mogenitura (la patente di <<Vero Israele••) in una
contesa senza fme. Ma era davvero cosi essenzia
le stabilire chi è Giacobbe e chi Esaù, chi è più for
te e chi è più furbo, chi ha tutti i diritti e chi li ha
persi; o non è più importante riconoscerai fratelli
e coeredi di diritto della stessa tradizione?
81
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE
(in lingua italiana)
83
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84
EBREI E GENTILI
NELLA CHIESA
DELLE ORIGINI
Piero Stefani
PREMESSA
87
Chi è ebreo, chi è cristiano?
Al giorno d'oggi nello Stato d'Israele vige una
definizione ufficiale, stando alla quale è ebreo co
lui che nasce da madre ebrea e non si è converti
to ad altra religione o colui che è divenuto ebreo
attraverso una conversione garantita dalle auto
rità riconosciute. Questa formulazione, in virtù
della quale si legittima la possibilità (tutt'altro
che teorica) dell'esistenza di un ebreo ateo, ma si
respinge quella di un ebreo cristiano, non corri
sponde in modo pieno alla Legge tradizionale
ebraica (halakhà). Quest'ultima, infatti, non fa
derivare dalla conversione ad altra religione la
perdita della propria ebraicità. Se una persona
nata ebrea diventa cristiana o (con tutt'altre riso
nanze storiche, culturali e psicologiche) buddhi
sta, è considerata incoerente o persino apostata,
tuttavia non cessa di essere ritenuta ebrea. Anzi,
avviene di frequente che lei stessa continui, sog
gettivamente, a considerarsi tale. Inoltre, attual
mente, vi sono molti tipi di ebraismi. I due grup
pi maggiori sono chiamati, di solito, ortodossi e
riformati. Ebbene questi ultimi, prevalenti negli
Stati Uniti, attuano conversioni all'ebraismo ret
te da criteri molto meno rigidi di quelli che vigo
no in campo ortodosso. Tra i riformati un peso ri
levante è riservato alla coscienza individuale. La
differenza in questione non può essere ricondotta
all'ambito di un tranquillo pluralismo intraebrai
co. Il punto è più delicato: gli ortodossi (che fanno
88
istituzionalmente parte delle strutture dello Sta
to d'Israele) non riconoscono, per lo più, le con
versioni attuate dai riformati. Ne consegue che,
anche in questo caso, alcune persone sono reputa
te ebree da una determinata comunità ebraica e
giudicate goj (vale a dire non ebree) da altre.
È noto che le legislazioni nazista e fascista
hanno , brutalmente, determinato dall'esterno, in
virtù di definizioni autonome, gli appartenenti a
una supposta razza ebraica. Tuttavia anche in
base a una molteplicità di norme interne si può
giungere a esiti stando ai quali sono le leggi (tra
loro non omogenee) a definire chi è ebreo. Per non
parlare delle svariatissime componenti soggetti
ve, in base alle quali un individuo si considera in
prima persona ebreo.
La mobilità delle definizioni avviene persino
quando, da molti secoli, si è consolidato, in massi
ma parte a motivo di una storia profondamente
conflittuale, un confine ben individuabile tra il si
stema religioso ebraico e il credo condiviso dalle
Chiese cristiane storiche. I grandi, antichi concili
di Nicea, Costantinopoli e Calcedonia hanno for
mulato i dogmi della fede cristiana prescindendo,
in sostanza, dal dato teologico dell'elezione di
Israele (mai enunciata dal Credo). Da allora in
poi, sul piano della formulazione dei contenuti
dottrinali, l'incompatibilità tra essere ebrei ed es
sere cristiani dovrebbe risultare evidente. Eppu
re, vi sono stati fedeli che hanno dichiarato di vi
vere una doppia appartenenza. Per limitarsi a un
89
esempio recente, basti pensare al compianto car
dinale di Parigi Lustiger, il quale ha sempre af
fermato di ritenersi ebreo. Per lui il giovanile pas
saggio al cattolicesimo non ha cancellato il senso
di un'appartenenza. Né bisogna scordare l'odier
na esistenza di un variegato arcipelago di cosid
detti «ebrei messianici», 1 gruppi ebraici che rico
noscono Gesù come Messia d'Israele, ma negano
validità alla sistemazione dogmatica trinitaria
propria della «grande Chiesa••. Dall'altra parte le
denominazioni cristiane sono molte centinaia e
non è facile stabilire le demarcazioni tra chi sta
dentro e chi si colloca fuori. Anche in questo caso
vi sono gruppi che si ritengono cristiani (non di
rado i soli veri cristiani), ma non sono considera
ti tali (o pienamente tali) da altri (un esempio po
trebbe essere rappresentato dai Testimoni di
Geova). Pure nel XXI secolo non è, quindi, sempre
agevole stabilire chi va considerato ebreo, chi cri
stiano, chi, a un tempo, ebreo e cristiano.
Fra duemila anni , per uno storico delle reli
gioni potrebbe non essere facile stabilire, con net
tezza, chi nel Novecento fosse o non fosse ebreo.
Per esempio, ci si può chiedere come inquadrerà
90
la figura di Edith Stein. Egli scoprirà che si trattò
di una donna nata ebrea, in seguito convertita al
cattolicesimo e divenuta suora carmelitana, con
siderata ebrea dalla legislazione razziale nazista
e per questo uccisa ad Auschwitz. Tuttavia ap
prenderà, nell'ordine, che, prima di morire, ella
offerse, soggettivamente, la propria vita per il
«suo popolo» (quello ebraico), che fu canonizzata
come martire dalla Chiesa cattolica e che que
st'atto suscitò ampie proteste da parte di molti
ebrei, che la ritennero assassinata in quanto
ebrea (in base a una definizione conforme alla le
gislazione razziale nazista, ma non all'attuale
Legge israeliana) e non in quanto testimone del
la fede in Gesù Cristo. Il futuro storico come do
vrà considerare Edith? Ebrea? Cattolica? Ebreo
cattolica? Cattolico-ebrea? E tutto ciò avverrà po
tendo far riferimento sia a una documentazione
copiosa, sia alla presenza di sistemi religiosi for
malizzati da molti secoli.
Se, abbandonando ipotesi futuribili, ci mettia
mo a guardare vicende risalenti a duemila anni
fa, il discorso diviene ancora più arduo. Nel I se
colo la situazione era molto fluida: si era allo «sta
to nascente>> e i sistemi religiosi cristiano e rabbi
nico non si erano ancora consolidati. Inoltre la no
stra documentazione al riguardo è, per molti
aspetti, lacunosa; né siamo a conoscenza di tutti i
parametri autodefinitori allora impiegati. Si ag
giunga che i documenti in nostro possesso risalgo
no, non di rado, a epoche successive. Né sappiamo
91
stabilire il peso di quanto è andato perduto. Que
st'ultima ipotesi è diventata sempre più plausibi
le da quando alcune scoperte del XX secolo (cf. i
manoscritti di Qumran o la biblioteca copta di
Nag Hammadi nell'Alto Egitto) hanno ampiamen
te ridefinito il panorama delle fonti in nostro pos
sesso. Ritrovamenti inattesi hanno fornito nuovi e
significativi contorni a un quadro in precedenza
dato per noto. Tuttavia va ribadita un'ovvietà: co
nosciamo quello che abbiamo, non quanto ci man
ca. Nessuno, a priori, può stabilire quali altre sor
prese possono eventualmente riservare le sabbie e
le caverne del Vicino Oriente. Dal punto di vista
storico, la cautela è perciò d'obbligo. Ciò non si
gnifica che, rispetto al nostro tema, sia impossibi
le far riferimento a definizioni ben stabilite. È il
caso, per esempio, di quanto scritto, verso la fine
del I secolo d.C., da Giuseppe Flavio. Egli nel con
testo di una parafrasi del Libro di Ester (cf. Est
3,8), presenta gli ebrei in questi termini: «Essi co
stituiscono un popolo - o piuttosto una "nazione"
- che non si mescola con alcun altro, e che si di
stingue da tutti per la sua Legge>>.2 Questi para
metri paiono, però, essere validi più in linea di
principio che di fatto. In quel tempo, in realtà, le
demarcazioni erano assai meno rigide.
92
Paolo di Tarso
ebreo o cristiano?
Tentiamo di fornire una prima sgrossatura del
problema legato all'identità ebraica nel I secolo,
attraverso alcuni cenni alla figura di Paolo di Tar
so. Nell'omiletica (e persino in alcuni studi biblici)
è ancora comune ascoltare che Saulo iniziò la pro
pria carriera come persecutore dei cristiani, ma
poi, sulla via di Damasco, ebbe un incontro irripe
tibile che lo trasformò nel più fervente propagato
re del cristianesimo. In quel fatidico viaggio egli,
perciò, avrebbe deposto un'identità, quella ebrai
ca, per assumerne una nuova, quella cristiana. In
realtà, stando al testo del libro degli Atti, le cose
non sono andate proprio così. Saulo si mosse ver
so la Siria con lettere di autorizzazione per le si
nagoghe firmate dal sommo sacerdote, al fine di
condurre in catene a Gerusalemme «uomini e don
ne)) della ••via)) (At 9, 1-2), vale a dire, per impri
gionare alcuni credenti in Gesù Cristo. A tutti do
vrebbe risultare evidente che qui ci si trova in un
contesto intragiudaico: vi è forse qualche altro am
bito in cui ha senso parlare di sommo sacerdote e
di sinagoghe? D'altra parte, quale competenza le
autorità giudaiche avrebbero mai avuto su un
gruppo «cristiano••, se quest'ultimo non fosse uni
versalmente considerato costituito da ebrei? Del
resto, a parti rovesciate, le stesse procedure trova
no, per esempio, riscontro nel passo in cui Paolo,
con una certa enfasi, afferma di aver ricevuto dai
93
giudei, lui cittadino romano, per cinque volte la fu
stigazione dei trentanove colpi (2Cor 1 1 ,24).
È ovvio che i credenti di Damasco erano e si
consideravano ebrei. Se venivano perseguitati, lo
erano in quanto rientravano ancora nella giuri
sdizione giudaica. Gli Atti degli Apostoli, dunque,
presentano Saulo non come un giudeo che perse
guitava i cristiani, ma come un ebreo avverso a
una nuova «via» fatta propria da altri ebrei. I no
stri contemporanei che, maldisposti ad ammette
re gli errori della Chiesa, ricordano, a mo' di com
pensazione, che gli ebrei furono i primi a perse
guitare i cristiani, non colgono nel segno. Se si vo
lesse paragonare l'intento connesso al viaggio di
Paolo a Damasco con realtà successive, si dovreb
be evocare non l'avversione cristiana nei confron
ti degli ebrei, bensì la persecuzione degli eretici a
opera delle autorità ecclesiastiche. L'uccisione di
Giacomo, fratello di Gesù, per decisione del som
mo sacerdote Anano,3 potrebbe, in un certo senso,
essere confrontata con la condanna a morte di Sa
vonarola o di Giordano Bruno.
È frequente qualificare Paolo, secondo le sue
stesse parole, come «apostolo delle Genti (o dei
gentili)>> (Rm 1 1 , 13). Il modo consueto di intende
re la frase è il seguente: Paolo predica ai pagani
perché diventino cristiani. L'affermazione si regge
94
sull'equivalenza tra il termine <<pagano» e la paro
la <<gentile>> (scelta lessicale adottata, di norma,
anche dall'attuale traduzione CE!). La condizione
di coloro a cui si rivolse l'apostolo è considerata,
dunque, religiosamente erronea: quanto li qualifi
ca come gentili è la loro idolatria, non la loro non
appartenenza al popolo ebraico. Per questo motivo
li si considera appunto pagani, facendo in tal ma
niera ricorso a un termine coniato per qualificare
coloro che, nella tarda antichità, non erano anco
ra diventati cristiani e continuavano a prestare
culto agli dèi. Nella consueta maniera di intende
re Paolo come apostolo dei gentili opera perciò la
precomprensione stando alla quale le Genti sono,
in definitiva, dei non cristiani. Del resto, una lun
ga consuetudine, fatta propria persino dal Vatica
no Il, qualifica l'azione missionaria come rivolta
appunto come missio ad Gentes. Se così fosse, pro
spettare la presenza delle Genti nella Chiesa di
verrebbe un vero e proprio ossimoro, come se si di
cesse che vi sono dei pagano-cristiani (espressio
ne, peraltro, a volte effettivamente usata da chi
non ne coglie l'intima contraddizione).
In realtà per Paolo - come per tutti gli scritti
del Nuovo Testamento - un gentile è semplice
mente un non ebreo. Di fatto la sua condizione as
sai spesso coincide con il suo essere anche idola
tra; non si tratta però di una clausola necessaria.
Per esempio, tanto nell'orizzonte biblico quanto
nel successivo contesto giudaico, si conoscono non
ebrei che, pur restando tali, agiscono con giusti-
95
zia e sono anche convinti in cuor loro che il Si
gnore d'Israele è l'unico vero Dio (cf. per es. 2Re
5). Venendo al contesto neotestamentario, non è
affatto contraddittorio parlare di un gentile cre
dente in Gesù Cristo e nel Dio d'Israele. Resta in
vece impossibile essere giudicati gentili a pre
scindere da un riferimento al popolo ebraico.
Appartenere alle Genti è qualifica relativa.
Per gli scritti neotestamentari le Genti rimango
no sempre e comunque i non ebrei (non i non cri
stiani). Si dirà che anche l'essere ritenuti idolatri
o pagani è una valutazione relativa: nessuno si
giudica in tal modo ai propri occhi. Gli idoli, inte
si nel senso deteriore del termine, sono ritenuti
tali solo da chi ha fede nel Dio unico e vero. Non
a caso, in modo del tutto simmetrico, i primi cri
stiani che ritenevano inesistenti gli dèi, furono
bollati come atei dai seguaci di culti politeistici.
Ciò è senz'altro vero; tuttavia va ribadito che,
mentre è contraddittorio essere nel contempo ve
neratore degli idoli e adoratore del Signore d'I
sraele, non lo è essere gentile e credere nel Dio
unico e vero o aver fede in Gesù Cristo.
Ebrei, proseliti
e timorati di Dio
L'essere giudeo o gentile assume un aspetto
molto diverso se viene letto in modo cultural-reli
gioso, oppure se è inteso in maniera teologica. Per
96
tutti e due gli approcci resta vero che si frainten
de totalmente il mondo e il messaggio del Nuovo
Testamento se ci si appoggia a una articolazione
duale, allora inesistente, stando alla quale o si è
ebrei o si è cristiani. Sarebbe già un notevole pas
so in avanti comprendere che il discorso andreb
be dipanato quanto meno in modo quadruplice.
L'ottica neotestamentaria guarda il mondo, infat
ti, servendosi di un prisma che conosce ebrei cre
denti in Gesù Cristo e un numero assai più nu
meroso di ebrei che non hanno fede in lui; un ma
nipolo di gentili venuti alla fede in Cristo e una
gran massa di gentili che continuano a seguire i
loro antichi culti. Tuttavia questa quadripartizio
ne, sostanzialmente valida sul piano teologico ed
ecclesiologico, risulta sommaria e inadeguata su
quello della ricostruzione storica. In quel tempo,
le linee di confine, qui indicate come nette, furo
no, in realtà, assai mobili. Dal punto di vista sto
rico bisogna quindi rinunciare alla pretesa di po
ter stabilire in maniera chiara tanto chi era ebreo
, e chi non lo era, quanto chi aveva fede in Gesù
Cristo e chi non l'aveva. Per questo motivo le due
qualificazioni simmetriche di giudeo-cristiani e di
etnico-cristiani sono per definizione tarde e del
tutto ignote al Nuovo Testamento.4
97
Vi sono molte ragioni per ritenere che nell'anti
chità, fino a epoca relativamente tarda, i giudei
fossero percepiti dall'esterno come un gruppo etni
co paragonabile ad altre entità, contraddistinte da
un loro Dio, da un loro culto e da una loro Legge e
non come dei fedeli di una «religione••. Con tutto
ciò, va anche detto che non solo c'erano molti tipi
di giudaismo, non di rado poco propensi a ricono
scerei reciprocamente, ma esisteva anche tragojim
ed ebrei un'area intermedia difficile da classificare
in termini puramente duali: basti pensare ai sa
maritani, un gruppo ben noto ai lettori del Nuovo
Testamento. Si tratta di una popolazione che ha
trovato (e trova) il baricentro del proprio sistema
religioso in quattro punti di riferimento principali:
una particolare versione della Torah scritta (Pen
tateuco), il monte Garizim (come luogo di culto al
ternativo al Tempio di Gerusalemme - cf. Gv 4, 19),
l'importanza attribuita alla figura di Mosè e la
permanente centralità assegnata al sacerdozio.
Una simile esemplificazione è sufficiente per sta
bilire che, per quanto fossero disprezzati dai giu
dei, i samaritani non potevano, sotto alcun aspet
to, essere considerati alla stregua dei gentili. In
termini contemporanei, i samaritani andrebbero
perciò considerati una minoranza etnico-religiosa.
98
Nel I secolo d.C. vi erano anche persone defi
nite per lo più in base sia alle scelte individuali
sia a una parziale modifica del loro statuto origi
nario. Si pensi in proposito a termini come prose
liti e timorati di Dio. Con la prima parola ci si ri
ferisce ai gentili che hanno scelto volontariamen
te di imboccare la via che li condurrà a far parte
integrante del popolo ebraico. Più sfumato il di
scorso riguardo ai cosiddetti «timorati di Dio» (cf.
At 10,2.22.35; 13, 16.26) o «credenti in Dio» (cf. At
13,43.50; 16,14; 17,4.17; 18,7). Con queste espres
sioni ci si riferisce a quei gentili che riconoscono
il Signore d'Israele come l'unico vero Dio e che
giungono anche a frequentare le sinagoghe, sen
za però compiere alcun passo concreto che li ren
da, a tutti gli effetti, membri della casa d'Israele.
Naturalmente su questo discorso incidono anche
le coordinate geografiche: non stupisce apprende
re che si tratta di fenomeni molto più diffusi nel
la diaspora di quanto non lo fossero in terra d'I
sraele. Lo statuto dei proseliti e dei simpatizzan
ti fu comunque variabile in funzione dei luoghi e
delle epoche; in ogni caso esso, ovviamente, di
pendeva anche dalle norme che determinavano
l'appartenenza ebraica.6
99
Il caso della circoncisione di Timoteo, raccon
tatoci dal libro degli Atti, è un esempio significa
tivo al fine di soppesare il confine stabilito, alme
no fino al 70, dalle autorità religiose giudaiche
per distinguere il popolo ebraico dagli altri. Si
legge negli Atti degli Apostoli: <<Paolo si recò a
Derbe e a Listra. C'era qui un discepolo chiamato
Timoteo, figlio di una donna giudea credente e di
padre greco ( . . . ) Paolo volle che partisse con lui, lo
prese e lo fece circoncidere per riguardo ai giudei
che si trovavano in quella regione; tutti infatti sa
pevano che era di padre greco>> (At 16,1-3). Il pas
so mette in campo molti fattori e pone vari inter
rogativi. Esso attesta la presenza, di fatto, di ma
trimoni misti, solleva la questione se la discen
denza ebraica fosse matrilineare o patrilineare,
indica l'esistenza di una donna giudea credente e
l'opportunità che suo figlio, anch'egli credente,
fosse circonciso per riguardo a un gruppo di giu
dei, con ogni probabilità, credenti, i quali non ri
tenevano la fede in Gesù Cristo un elemento di
rottura con la propria appartenenza ebraica.
La definizione rabbinica dell'identità giudaica
fu l'ultima in ordine di tempo a essere formulata
nell'antichità, prima di divenire classica. In ogni
caso essa non è necessariamente rappresentativa
di quelle che l'hanno preceduta. Secondo la defi
nizione rabbinica, come si è visto, è considerato
ebreo chiunque sia nato da madre ebrea. Inizia
così ad applicarsi la norma della matrilinearità.
È indubbio che le regole relative all'identità giu-
100
daica si sono evolute nel corso del I secolo, segna
tamente in funzione degli eventi storici seguiti al
la distruzione del Tempio di Gerusalemme (tra i
quali va ricordata l'introduzione del Fiscus iudai
cus, cui avrebbero dovuto sottomettersi tutti i
giudei a partire dall'anno 70). Inoltre pare fuori
discussione che, all'interno del giudaismo, siano
coesistite più norme: «le une e le altre potevano
entrare in gioco a seconda del luogo in cui vive
vano le comunità giudaiche. In generale, nel I se
colo si può a buon diritto ritenere che la patrili
nearità si sia imposta in Palestina e la matrili
nearità nella diaspora>> .6
Secondo studi recenti nel giudaismo bisogne
rebbe distinguere tra gruppi incentrati su un'al
leanza di Abramo e quelli che si richiamerebbero
a un'alleanza di Mosè. Entrambi avrebbero con
diviso il ruolo affidato al Tempio e alla Torah, ma
non intendendoli nello stesso modo. Essi diverge
rebbero sulla maniera di interpretare i «fonda
menti comuni>> del giudaismo. Paolo di Tarso,
ebreo della diaspora che accetta il Tempio e la To
rah scritta, sembra ricollegarsi all'alleanza di
Abramo e, pur accettando la circoncisione, tende
a relativizzarla: ••vi è un punto che pare in effetti
101
sempre più evidente: c'è stato un giudaismo che si
rifaceva all'alleanza di Mosè diffus o tra i giudei
della Palestina, ma c'è stato anche un giudaismo
che si rifaceva all'alleanza di Abramo diffuso tra
i giudei della diaspora>> .7
La condizione dei timorati di Dio del I secolo
d.C. sembra privilegiare l'alleanza di Abramo; es
sa potrebbe però verosimilmente rifarsi allo sta
tuto di <<straniero-residente>> fgher] nell'antico
Israele. Il fenomeno è attestato in modo sparso
nella letteratura rabbinica del II-III secolo d.C.,
soprattutto in riferimento ai precetti noachici.
Con quest'ultima espressione ci si riferisce a set
te comandamenti che, secondo la visione rabbini
ca, sono vincolanti anche per i gentili. Essi trova
no il loro fondamento biblico nel patto stabilito da
Dio con ogni essere vivente posto alla fme del di
luvio (cf. Gen 8, 18-9,7). Nella loro elencazione
classica proibiscono l'idolatria, le unioni sessuali
illecite, l'omicidio, la bestemmia, il furto e il ci
barsi di un membro preso da un animale vivo (si
tratta di una norma legata alla proibizione di ci
barsi di sangue); a questi sei divieti si aggiunge il
precetto positivo che impone alla Genti di costi
tuire un diritto civile e penale. 8
7 lui, 38.
8 Thlmud babilonese, Sanhe NAMOZEGH, Israele e l'uma
drin 56b. Per un'ampia di nità, Marietti, Genova 1990,
scussione sul tema cf. E. BE- 218-240.
1 02
Per conformarsi alla più tarda terminologia
rabbinica, si può ricordare che nel diritto talmu
dico si hanno due specie di gherim (proseliti): il
gher toshav o gher ha-sha'ar («proselito della por
ta») e il gher zedeq («proselito della giustizia» o
proselito in senso stretto). Del gher toshav si dan
no varie definizioni. Secondo Rabbi Meir si trat
tava di un gentile che aveva dichiarato alla pre
senza di tre Maestri della Torah di non adorare
gli idoli. Secondo Rabbi Jehudà era un non ebreo
che si era obbligato a osservare i sette precetti di
Noè. Verso il II secolo d.C. i rabbi considerarono
in genere gher toshav ogni «cittadino del mondo»
che si comportasse in modo onesto, mentre il gher
zedeq era una persona che aveva deciso di aver
parte effettiva del popolo d'Israele osservandone
le leggi.
103
CAPITOLO l
I MOLTI VOLTI
DEL GIUDAISMO
DEL I SECOLO
1 05
lo a.C. al II secolo d.C., sia stato <<il convivere di
una pluralità di gruppi, movimenti e tradizioni di
pensiero, in un rapporto dialettico talora anche
aspramente polemico, ma non separato••.1 In que
sto contesto, a un numero crescente di studiosi
pare ovvio concludere che il movimento nato at
torno alla figura di Gesù, ebreo della Galilea, pos
sa essere considerato, dal punto di vista storico
culturale, una corrente giudaica di orientamento
apocalittico. All'interno dell'ebraismo di quel
tempo c'è dunque posto anche per i nazorei (noz
rim), termine con cui nel giudaismo dei primi se
coli vennero, in genere, chiamati una parte dei se
guaci di Gesù residenti in Giudea e in Palestina.
Le operazioni che individuano la presenza di
un marcato pluralismo interno al mondo ebraico,
apparirebbero concettualmente troppo ireniche
se scivolassero nell'implicito presupposto che una
simile molteplicità di correnti fosse espressione
più di un riconoscimento reciproco che di un duro
scontro su chi dovesse essere qualificato come
<<vero figlio di Israele». Un simile contenzioso,
tutt'altro che ignoto agli scritti neotestamentari,
trova ampia rispondenza nell'intero ebraismo di
quell'epoca, nel cui ambito si stava, in più luoghi,
discutendo quali fossero le maniere per discerne-
1 06
re l'autentica appartenenza alla stirpe di Abra
mo. Per quanto la fonte, dal punto di vista stono
grafico, vada assunta con cautela, il fatto che il
Vangelo di Matteo alluda a simili dibattiti in re
lazione a un confronto polemico tra Giovanni
Battista, i farisei e i sadducei (cf. Mt 3,9) costitui
sce una spia significativa della natura effettiva
mente intragiudaica del contenzioso. L'ambienta
zione narrativa scelta da Matteo lascia infatti
trapelare che questi temi sono anteriori (o indi
pendenti) all'entrata in scena di Gesù e degli apo
stoli. Faceva, per esempio, parte dell'autocoscien
za del gruppo di Qumran considerarsi l'unica
espressione autentica dell'intero ebraismo.
Secondo autorevoli interpreti, la confraterni
ta qumranica va ritenuta una vera e propria set
ta, vale a dire una comunità che reputa se stes
sa l'unico, vero Israele, mentre considera aposta
ti tutti gli altri ebrei. Di contro, un partito giu
daico, a differenza di una setta, pur essendo do
tato di convinzioni e prassi specifiche, non so
stiene di essere tutto Israele, cosicché i suoi
membri costituiscono un gruppo entro il «giudai
smo comune», piuttosto che un'alternativa a es
so. 2 Adeguandoci a questa terminologia, ci si può
chiedere se i primi seguaci di Gesù Cristo consi-
101
derassero se stessi in termini di setta o di parti
to o di altro ancora.
Per quanto sia indubbio che i più antichi cre
denti in Cristo fossero e si considerassero ebrei,
resta evidente che per loro l'evento decisivo fu co
stituito dal riconoscimento che Gesù era il Messia
d'Israele. Per una consolidata linea di tendenza,
questa affermazione produce una conclusione ben
definita: ••se Gesù è il Messia inviato da Dio al
suo popolo Israele, e se una parte del popolo lo ri
conosce e un'altra no, allora quelli che lo ricono
scono sono il ''vero" Israele, gli altri invece non lo
sono o comunque non lo sono più>>.3 Uorizzonte in
cui è formulata questa affermazione non corri
sponde però alla dinamica attestata dagli scritti
del Nuovo Testamento. Infatti se è certo che i
membri delle prime comunità di credenti in Gesù
Cristo - a iniziare dalla cosiddetta Chiesa madre
di Gerusalemme - furono e si considerarono
ebrei, è altrettanto sicuro che una caratteristica
precocissima della predicazione evangelica fu di
rivolgere il buon annuncio anche ai gentili. Vale a
dire, almeno nella sua componente principale, il
movimento legato all'annuncio di Gesù Cristo
morto e risorto non si presenta come l'unico grup
po costitutivo del vero Israele, proprio perché nel
1 08
suo interno comprende sia ebrei sia gentili. Esso
perciò accetta una distinzione tra Israele e Genti
che lo precede e che è quindi indipendente dall'a
derire o meno alla fede in Gesù. Affermare ciò
non significa sostenere che tutti i seguaci di Gesù
si impegnassero a portare l'annuncio ai non
ebrei. Né va trascurato il dato che le modalità di
questa missione, nella quale si distinsero i cre
denti in Cristo provenienti dal giudeo-ellenismo,
furono motivo di aspri dibattiti. Rimane comun
que indiscutibile che quanto distinse molte Chie
se nascenti (le comunità avevano dimensione lo
cale) da tutti gli altri movimenti ebraici coevi fu
il fatto che, in virtù dell'accoglimento di un even
to messianico, si erano costituite comunità for
mate sia da ebrei sia da non ebrei; non solo, gli
uni e gli altri potevano ugualmente rivendicare,
sia pure per vie parzialmente diverse, la rispetti
va appartenenza alla discendenza di Abramo.
Per comprendere la portata attribuita alla
presenza di comunità cristiane «miste••, bisogna
abbandonare tanto l'idea che il loro sorgere costi
tuisse la prima manifestazione dell'«universali
smo cristiano)), quanto la supposizione che questo
rivolgersi ai non ebrei rappresentasse una preco
ce manifestazione di «ellenizzazione>> del cristia
nesimo. Lo schema concettuale entro cui va inte
so l'annuncio alle Genti rimane infatti quello del
la speranza messianica ebraica.
Pur essendo vero che nel I secolo d.C. le conce
zioni di Messia erano assai varie, rimane indub-
1 09
bio che di questa figura si possa parlare soltanto
in riferimento alla tradizione ebraica. La catego
ria messianica sussiste unicamente a partire da
quello sfondo. All'interno del popolo ebraico, a ini
ziare dal II secolo a.C. , l'aspettativa messianica
non fu unitaria, anzi si concretizzò nelle forme
più svariate, ritrovando l'elemento comune solo
nell'attesa della salvezza finalmente offerta da
Dio a Israele.4 In particolare, vi fu un orienta
mento che, con termini moderni, potremmo quali
ficare storico-utopico, il quale pensava il Messia
sotto la categoria del «figlio di Davide» e un altro,
maggiormente orientato in senso escatologico
apocalittico, che lo immaginava - secondo una
proposta presente soprattutto nei libri che vanno
sotto il nome di Enoch5 - sulla scorta di una n
lettura della figura collettiva del Figlio dell'uomo
presente nel libro di Daniele (7,9-14). Va da sé che
nei vangeli canonici vi sono tracce corpose di en
trambe le linee.
A qualunque orientamento si aderisse, era co
mune ritenere che l'avvento dell'età messianica
avrebbe comportato una modifica radicale dei
1 10
rapporti tra Israele e le Genti. Anche su questo
terreno gli orientamenti, però, erano articolati in
modi marcatamente diversi, se non contrapposti.
Infatti, fin dall'epoca biblica, ci si trova di fronte
a un arco esteso da un estremo, in cui si afferma
un vero e proprio annientamento dei popoli stra
nieri, a quello opposto, in cui, in forza di alcuni
passi profetici, si parla di una pacifica riconcilia
zione universale dei popoli attorno a Sion (cf. ad
es. Is 2, 1-5; Mi 4, 1-3 ; Zc 14,16-2 1) o, addirittura,
di una benedizione divina estesa ai gojim, senza
neppure prospettar loro la necessità di salire a
Gerusalemme (cf. Is 19,25-31). In ogni caso non
esiste nessuna concezione messianica ebraica la
cui realizzazione non coinvolga, in una maniera o
in un'altra, i non ebrei.
Nel modo di considerare il messianismo pre
sente in Israele nel I secolo della nostra era si so
no a lungo fronteggiati due pregiudizi simmetri
ci: da un lato, si affermava che gli ebrei avrebbe
ro avuto una concezione puramente politica del
Messia (il cui compito si sarebbe limitato ad an
nientare trionfalmente il giogo romano), mentre,
dall'altro, si sosteneva che la predicazione di Ge
sù, approfondendo alcune affermazioni presenti
nei profeti, avrebbe annunciato una via del tutto
interiore, dichiarando che «il regno di Dio è den
tro di voi>>. La ricerca storica non nutre però dub
bi sull'inadeguatezza tanto dell'una quanto del
l'altra opzione: nessuno allora, a cominciare da
Gesù, le avrebbe comprese. Parlare di pura inte-
111
riorità è anacronistico, così come lo è appellarsi a
una dimensione semplicemente politica. Anche i
movimenti che miravano a un riscatto dal potere
romano, non lo pensavano in maniera solo mon
dana, appunto perché lo giudicavano in termini
messianici, ipotizzando la presenza di un inter
vento o, almeno, di un'investitura divini.
Il ruolo affidato alla polarità ebrei-gentili al
l'interno dell'orizzonte messianico si giustifica
proprio in un contesto in cui la redenzione non ha
luogo né nella pura interiorità - in cui tutte le
identità storico-religiose vengono meno - né in
una dimensione semplicemente politica, in cui
non è recepibile il «presupposto monoteistico••
operante nella corrente più profonda del messia
nismo ebraico, stando al quale, proprio perché
Dio è uno, dal Signore dipende tanto l'esistenza
di Israele quanto quella dei gojim. Tale certezza
comporta, a sua volta, che un tratto costitutivo
della redenzione sia rappresentato dall'universa
le riconoscimento del Signore d'Israele.
Un aspetto basilare dell'annuncio evangelico
rivolto alle Genti sta nell'affermare che è giunto
il tempo in cui può aver luogo questo definitivo
disvelamento. Esso si compie attraverso la fede
nata dalla predicazione di Gesù Cristo morto e ri
sorto. Nella parola del vangelo resta indubitabile
la convinzione che il Dio fatto conoscere alle Gen
ti attraverso Gesù Cristo sia il Signore d'Israele.
Il popolo ebraico rimane un riferimento necessa
rio, perché senza di esso è impossibile parlare di
1 12
Gesù nato da donna e nato sotto la Legge (Gal
4,4), discendente della stirpe di Davide (cf. Rm
1,3). Da ciò consegue la semplice e netta asser
zione dell'impossibilità di predicare Gesù Cristo
ai gentili senza proclamare loro tanto la presenza
di un'alleanza tra Dio e il popolo ebraico, quanto
il valore normativa delle Scritture d'Israele. Tale
convincimento dipende dalla necessità di ricono
scere che gli ebrei hanno ricevuto, conservato e
trasmesso parole, eventi e istituzioni a cui è indi
spensabile riferirsi per aver fede nel Dio unico ri
velato ai gojim attraverso Gesù Cristo.
Alle affermazioni appena compiute si può con
trapporre l'osservazione che il riconoscimento del
Dio di Israele, da parte di membri di altri popoli,
non implica di per sé l'ingresso in un tempo mes
sianico: a confermarlo basterebbe l'esistenza del
proselitismo ebraico (cf. Mt 23,15) e la comparsa
dei «timorati di Dio•• . Tuttavia va ricordato che in
ambito ebraico il passaggio del convertito dalla
sua iniziale condizione gentilica a «Una nuova vi
ta» veniva presentato in termini di «diserzione•• e
di ingresso in una situazione del tutto diversa.
Secondo il pensatore giudeo-ellenistico Filone di
Alessandria, il convertito ••ha ripudiato le false
opinioni e abbracciato la verità nella sua inte
grità», perciò è diventato uguale agli ebrei per na
scita. Essi ••per amore della virtù e della religio
ne» hanno lasciato ••il loro paese, la loro famiglia
e i loro amici» per diventare ebrei a tutti gli ef
fetti. ••L'antica nobiltà di sangue» è perciò chia-
1 13
mata a <<Onorarli con speciale amicizia e grande
benevolenza».6
Nel mondo della diaspora giudeo-ellenistica le
opzioni fondamentali sono in sostanza due: acco
starsi alla comunità d'Israele senza esserne pie
namente partecipi ( <<timorati di Dio») o aggregar
si a essa, rompendo totalmente con la propria ori
gine gentilica. A partire da questo riferimento, è
facile cogliere la differenza radicale che esiste con
il contesto proprio dell'annuncio evangelico. Pur
senza voler negare l'influsso storico e culturale
esercitato dall'ebraismo ellenistico-diasporico, re
sta indiscutibile che la predicazione del vangelo,
almeno nel modo in cui la pensa e la attua Paolo,
afferma che in Gesù Cristo ci può essere piena co
munione tra i credenti provenienti da Israele e
dalle Genti, mantenendo nel contempo il senso e
la memoria delle rispettive origini. In altre paro
le, il popolo di Israele rimane eletto (cioè distinto
dagli altri), tuttavia attraverso la fede in Gesù
Cristo anche i gentili possono partecipare piena
mente all'eredità di Abramo (cf. Gal 3,29).
La diuturna lotta condotta da Paolo contro i
giudaizzanti - secondo i quali i gentili per crede
re in Cristo dovevano prima farsi circoncidere
(cioè diventare ebrei) - non attesta affatto l'esi-
6 FILONE n'ALESSANDRIA, De
Specialibus Legibus, I, 51-52.
1 14
stenza di un generico universalismo. La polemica
paolina esprime piuttosto la convinzione stando
alla quale si dà una forma di piena unità tra i cre
denti in Cristo, pur mantenendo il senso asse
gnato alle rispettive provenienze. Attraverso la
fede in Gesù Cristo, è quindi dato di partecipare
in modo pieno alla discendenza di Abramo senza
farsi proselito. Affermazione paradossale, che può
sussistere solo in un contesto in cui l'essere uno
in Cristo è colto entro un bagliore escatologico. Si
tratta perciò di una condizione che può trovare
una corrispondenza solo parziale nella vita con
creta delle comunità cristiane, in cui la posizione
distinta e particolare degli ebrei credenti intro
duceva all'interno delle varie Chiese il senso del
la differenza.
Per tutti gli scritti neotestamentari la comu
nità dei credenti in Gesù Cristo è costituita dai
«chiamati>> provenienti da Israele e dalle Genti,
non già da popoli fattisi cristiani. In altre parole,
nella Chiesa non entrano le nazioni, bensì le per
sone (o le famiglie) venute alla fede. La categoria
di discriminazione connessa a Gesù, presentato
come segno di divisione, passa perciò attraverso
nuclei già costituiti: popoli, città, famiglie (cf. ad
es. Mt 10,34-36: «Sono venuto [ . ) a separare il fi
. .
1 15
(formate dai «chiamati>> e non dai «popoli») sia le
difficoltà fattuali legate alla convivenza quotidia
na di membri provenienti da ambiti molto diver
si (cf. per esempio i problemi legati alla condivi
sione della mensa o ai matrimoni misti).
Per parecchio tempo si è creduto che la predi
cazione evangelica compiuta da Paolo significas
se la semplice abolizione della Legge (componen
te costitutiva della particolarità ebraica) a favore
di una pura fede che non conosce distinzione al
cuna tra ebrei e gentili. Anche per questo motivo
l'apostolo è stato ritenuto «inventore del cristia
nesimo» e iniziatore dell'antigiudaismo cristiano,
in cui la «spiritualità>> della fede si contrappone
alla <<carnalità» della Legge. Tuttavia, in anni re
centi, ci si sta rendendo sempre più conto che
una simile posizione costituisce un vero e proprio
travisamento della visione paolina. Nessun altro
autore neotestamentario coglie, infatti, con al
trettanta acutezza di Paolo il ruolo determinante
passato, presente e futuro svolto nella «storia
della salvezza» dalla distinzione ebrei-gentili.
Nessuno al pari di lui fornisce motivi per affer
mare che l'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele
non è mai stata revocata. Va comunque ribadito
che in lui questo convincimento procede di pari
passo con la proclamazione della centralità as
sunta dalla fede in Cristo, sia per gli ebrei sia per
i non ebrei.
Nella Prima lettera ai Corinti si afferma che i
fedeli, anche se gentili, devono restare nella con-
1 16
dizione in cui sono stati chiamati. Sulle prime
una simile mancanza di cambiamento potrebbe
sembrare meno radicale della «diserzione» pro
spettata al proselito da Filone. È invece vero il
contrario: l'affermazione costituisce un'espressio
ne piena dell'essere entrati, attraverso la fede in
Gesù Cristo, in un messianico tempo della fme.
Ognuno deve restare nella .situazione in cui è sta
to chiamato alla fede, proprio perché sta passan
do la figura di questo mondo (cf. 1Cor 7,31): «Cia
scuno continui a vivere secondo la condizione che
gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha
chiamato; così dispongo in tutte le Chiese. Qual
cuno è stato chiamato quando era circonciso? Non
lo nasconda! È stato chiamato quando non era
circonciso? Non si faccia circoncidere ! La circonci
sione non conta nulla, e la non circoncisone non
conta nulla; conta invece l'osservanza dei coman
damenti di Dio. Ciascuno rimanga nella condizio
ne in cui è stato chiamato>> (1Cor 7,17-20). Paolo
in questo passo non nega che per un ebreo cir
concidere il proprio figlio significhi compiere un
precetto divino (Gen 17,10; Fil 3,5). Tuttavia
quanto egli vuole affermare è altro: è giunto il
tempo in cui si può adempiere pienamente il co
mandamento di Dio, tanto da circoncisi quanto da
incirconcisi. Per questo il gentile credente non de
ve farsi circoncidere. L'atto di relativizzare la cir
concisione trova corrispondenza anche sul fronte
opposto dell'incirconcisione. Il principio secondo
cui ognuno deve restare nella condizione di quan-
1 17
do fu chiamato è sufficiente per dimostrare che
per Paolo non ci può essere alcuna autodefinizio
ne puramente gentilica della comunità dei cre
denti. Proprio questa opzione sarebbe stata inve
ce affermata in epoca successiva, allorché la fede
in Cristo sarebbe stata ritenuta incompatibile
con la pratica della circoncisione ebraica, cioè
quando si diffuse il convincimento che il battesi
mo sostituisse e inverasse la circoncisione.7
1 18
CAPITOLO 2
LA LETTERA
AI GALATI
119
ai modi in cui sono impiegati, nell'ordine, termini
decisivi e frequenti come: «noi», «VOÌ>>, «iO>> (o ver
bi coniugati alla prima persona singolare), «loro>>
(o termini equivalenti). Assumendo questo qua
dro interpretativo, ci si renderà conto che attorno
a questi usi linguistici si aggregano temi dotati di
grande rilevanza per la comprensione complessi
va del messaggio paolina.
120
tenderai come riferita a Dio, più che a Gesù Cri
sto. Da questa prima serie di affermazioni non si
evince in modo diretto alcuna informazione in re
lazione all'appartenenza ebraica o gentilica dei
protagonisti; tuttavia dal contesto si compren
derà presto che la comunità di Galazia è costitui
ta da gentili; i missionari concorrenti, che si ri
volgono a essa per guidarla, appartengono invece
tutti al mondo ebraico. In generale, si può soste
nere che dall'insieme degli scritti del Nuovo Te
stamento sappiamo dell'esistenza di ebrei che te
stimoniano Cristo ad altri ebrei e lo annunciano
ai gentili, mentre non è mai stato documentato
alcun credente dalle Genti che predicasse il van
gelo a un figlio d'Israele. È fin inutile sottolinea
re l'importanza determinante riservata a questa
distinzione.
121
Dio e la sconvolgessi, superando nel giudaismo
la maggior parte dei miei coetanei della mia stir
pe (ghénei), essendo più che zelante nel sostene
re la tradizione dei padri. Ma quando colui che
mi segregò fin dal seno di mia madre e mi
chiamò con la sua grazia, si compiacque di rive
lare a me suo Figlio, perché compissi il buon an
nuncio di lui in mezzo alle Genti (tofs éthnesin),
subito, senza consultare carne e sangue e senza
andare a Gerusalemme, da coloro che erano apo
stoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritor
nai a Damasco (Gal 1 , 1 1- 17).
1 22
gione del suo precedente attaccamento a quanto
Paolo definisce «giudaismo••, che egli fa, in prati
ca, coincidere con la tradizione dei padri. La gra
zia e la chiamata di Dio, palesatesi nella rivela
zione del Figlio, lo costituiscono evangelizzatore
dei gentili: di questo compito deve rendere conto
solo a Dio, nessun'altra autorità ha diritto di in
tervenire. Da queste righe risulta con assoluta
evidenza sia il «teocentrismo» del discorso, sia il
fatto che Dio, Signore di tutti, chiama un figlio di
Israele per essere annunciatore alle Genti. Tutta
via, come sarà reso più chiaro fra poco, sarebbe
un errore confondere la presa di distanza di Pao
lo dal giudaismo con il suo rinnegare la propria
condizione di giudeo.
123
fratello del Signore (apostolo non appartenente
alla cerchia dei Dodici); quanto preme rilevare è
il fatto che Paolo non era noto di persona alle
Chiese costituite da giudei di Terra d'Israele, le
quali si identificavano con il gruppo ebraico in
precedenza perseguitato da Paolo. Nel complesso
il passo ribadisce la provenienza giudaica di colo
ro che avrebbero potuto avanzare riserve - ma in
realtà non l'hanno fatto - nei confronti della pre
dicazione rivolta da Paolo ai g entili .
1 24
aveva agito in Pietro per l'apostolato della cir
concisione aveva agito anche in me tra le Genti
- e riconoscendo la grazia a me conferita, Gia
como, Cefa e Giovanni, ritenute le colonne, die
dero a me e a Barnaba la loro destra in segno di
comunione, perché noi andassimo verso le Gen
ti ed essi verso la circoncisione. Soltanto dove
vamo ricordarci dei poveri: ciò che mi sono pro
prio preoccupato di fare (Gal 2,1- 10).
125
sce in modo implicito un criterio molto netto per
distinguere, «teologicamente••, un ebreo da un
gentile: un ebreo è un circonciso, mentre un gen
tile non lo è. La pregnanza del franco linguaggio
fisico qui adottato («prepuzio>>) non deve trarre
in inganno: la circoncisione ebraica è il modo
normativa per essere inseriti nell'alleanza di
Abramo (cf. Gen 17,9-10). Questa convinzione è
decisamente fatta propria da Paolo, per lui non è
affatto indifferente essere o non essere circonci
si. Se fosse così non sarebbe pensabile alcuna di
stinzione tra la sua missione e quella di Cefa. Se
le cose stessero diversamente, anche nella Chie
sa primitiva ci sarebbero stati perciò solo cri
stiani e non già credenti provenienti da Israele
(ex circumcisione) e dalle Genti (ex gentibus). Il
punto qualificante del vangelo di Paolo sta nel
fatto che i gentili possono addivenire alla fede
senza essere circoncisi. Proprio a tale scopo nel
passo è citato l'esempio di Tito che, pur essendo
greco, non fu obbligato a circoncidersi. Per quan
to per qualcuno la conclusione possa essere
spiazzante, è bene ricordare che la linea seguita
da Paolo è l'unica in grado di mantenere all'in
terno della comunità dei credenti la distinzione
tra ebrei e gentili. Infatti se, come volevano i
«falsi fratelli••, tutti i credenti in Cristo avessero
dovuto farsi preventivamente circoncidere, il
«cristianesimo delle origini>> sarebbe stato neon
dotto a un movimento proselitistico ebraico. In
tal caso, per avere fede nel Messia d'Israele si
126
sarebbe dovuto già far parte dell'alleanza di
Abramo attraverso la circoncisione. La scelta op
posta, che sarà propria di tutti i secoli del regi
me di cristianità, sarebbe stata invece di identi
ficare la Chiesa con le Genti venute alla fede
(Ecclesia gentium). Ciò comportò consegnare la
circoncisione o all'ambito della «carnalità» ebrai
ca o a quello di essere considerata una semplice
prefigurazione del battesimo.
Paolo chiude il terzo capitolo della Lettera ai
Galati con le celebri parole: <<Tutti voi siete figli di
Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti sie
te stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di
Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più
schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poi
ché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appar
tenete a Cristo allora siete discendenza di Abra
mo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,26-29). Ci
sono pochi dubbi che quel <<Voi>> sia riferito in pri
ma istanza a credenti della Galazia provenienti
dalle Genti e divenuti, attraverso la fede, eredi di
Abramo. Il brano infatti non dice che non esisto
no più giudei e greci; essi continuano a esserci
esattamente come ci sono ancora uomini e donne,
schiavi e liberi. La grande novità sta nel fatto che
in Cristo, qualunque sia l'origine, ebraica o genti
lica del credente, si può, senza mutare la condi
zione di partenza, diventare, tramite la fede, ere
di della promessa.
Il brano tratto dal secondo capitolo si chiude
con il ricordo della colletta richiesta a favore dei
127
poveri di Gerusalemme. Il tema ha vaste riso
nanze nell'epistolario paolino (cf. 1Cor 16,1; 2Cor
8-9). Il luogo in cui la sua motivazione è stata
espressa con maggior intensità sono tre versetti
della Lettera ai Romani. In essi la peculiarità del
discorso sulla colletta sta nella ragione che se ne
offre: «Per il momento vado a Gerusalemme, a
rendere servizio ai santi di quella comunità; la
Macedonia e l'Acaia infatti hanno voluto realiz
zare una forma di comunione con i poveri tra i
santi che sono in Gerusalemme. L'hanno voluto
perché sono a essi debitori: infatti avendo le Gen
ti partecipato ai loro beni spirituali, sono in debi
to di rendere loro un servizio sacro nelle loro ne
cessità materiali» (Rm 15,25-27 - trad. CE!). Il
testo latino della Vulgata suona in modo molto
più prossimo all'originale greco: <<Nam si spiri
tualium eorum partecipes facti sunt gentiles, de
bet et in carnalibus ministrare illis». Per motiva
re il perché della colletta che sta portando alla
Chiesa formata da ebrei che è in Gerusalemme,
Paolo afferma che le Genti sono debitrici nei loro
confronti; infatti essendo entrati in comunione
con loro negli «spirituali» sono in debito di pre
stare loro un sacro servizio nei «carnali•• (opheilé
tai eisin auton ei gàr tots pneumatikots auton
ekoinonesan ta ethn€, opheilousin kai en tois
sarkikois leitourghesai autofs ). In questi versetti
è assente ogni contrapposizione tra «Spirito•• e
«carne••, non per nulla, in riferimento a quest'ul-
1 28
tima parola, si impiega addirittura un verbo che
contiene l'idea di prestare un sacro servizio.2
Secondo Paolo, le Genti possono essere in co
munione con gli ••spirituali» di Israele, mentre è a
loro precluso di aver parte ai ••carnali». In altri
termini, i credenti provenienti dalle Genti sono
chiamati a onorare la componente ••carnale•• d'I
sraele, proprio perché di essa non possono essere
partecipi. Per comprendere cosa sono i ••carnali»,
occorre prendere le mosse da quanto Paolo di
chiara a proposito dei propri ••fratelli», apparte
nenti al suo stesso «genus» «secondo la carne
(katà sarka, Rm 9,3; cf. Rm 1,3; 4, 1; 8,5.12 . 13)». I
doni che Paolo prospetta al presente (nessuno di
essi è caduto) non sono riconducibili in tutto e per
tutto alla ••carne», comportano infatti la chiama
ta di Dio (cf. Rm 1 1 ,29); eppure essi presuppon
gono, pur sempre, l'esistenza della «carne», ossia
la realtà storico-genealogica del popolo ebraico:
••essi sono Israeliti e hanno l'adozione a figli, la
gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le pro
messe; a loro appartengono i patriarchi e da loro
proviene il Messia3 secondo la carne (katà sarka)»
1 29
(Rm 9,5). Prestare servizio sacro da parte delle
Genti nei confronti di chi partecipa di queste
realtà, significa essere consapevoli di non poteme
essere titolari in prima persona. Anche in riferi
mento alla colletta, la distinzione Israele-Genti
svolge, perciò, un ruolo decisivo.
Torniamo alla Lettera ai Galati e al suo spo
stamento di asse che ci conduce da Gerusalemme
ad Antiochia.
1 30
dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo
della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto an
che noi in Gesù Cristo per essere giustificati
dalla fede in Cristo e non dalle opere della Leg
ge; poiché dalle opere della Legge non verrà mai
giustificata nessuna carne.
Se pertanto noi che cerchiamo di essere giustifi
cati in Cristo siamo trovati peccatori come gli al
tri forse che Cristo è ministro del peccato? Non
sia mai! Infatti se io riedifico quello che un tem
po ho distrutto, mi denuncio come trasgressore.
In realtà mediante la Legge io sono morto alla
Legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso
con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha
dato se stesso per me. Non abolisco dunque la
grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene
dalla Legge, Cristo è morto senza ragione (Gal
2 , 1 1-21).
131
sione fornitaci da Paolo). Né tutti i particolari so
no chiari. Alcuni problemi trovano, però, corri
spondenza anche altrove. Per esempio tanto i
vangeli sinottici quanto il libro degli Atti affron
tano il tema dei precetti alimentari (cf. Mc 7, 17-
23; At 10,9-16). Nonostante questi riferimenti, è
però presumibile che, in proposito, non tutte le
Chiese primitive potessero appoggiarsi su una
parola dirimente di Gesù. In ogni caso qui Paolo,
a differenza di altri contesti (cf. lCor 7,10), non la
cita. È comunque sicuro che nel caso in questione
si rifrange la tensione tra una vita in Cristo che,
essendo posta al di là di ogni identità, non cono
sce né giudeo né greco («non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me») e distinzioni legate a re
gole alimentari specifiche stabilite dalla Legge
ebraica. In queste circostanze, quando la comu
nità si riuniva assieme, le vie da intraprendere
potevano essere solo tre: o i gentili mangiavano
come i giudei, o gli ebrei si conformavano agli usi
gentilici, oppure ognuno mangiava a modo suo.
Le prime due soluzioni intaccavano il ruolo della
Torah, la terza attenuava il senso della comunio
ne tra i credenti. Di quest'ultima alternativa ab
biamo traccia evidente in un passo della Lettera
ai Romani. In esso si intuisce l'esistenza di un
chiaro disagio legato a una separazione nella
mensa. Paolo, in relazione a questi differenti usi
alimentari (con ogni probabilità collegati al rifiu
to da parte degli ebrei romani credenti di consu
mare carni - cf. Dn 1,8-16) fa appello a una visio-
132
ne alta, ma nello stesso tempo provvisoria nei
suoi riflessi pratici: «Colui che mangia non di
sprezzi chi non mangia, ma colui che non mangia
non giudichi chi mangia: Dio infatti lo ha accolto
( . . . ) chi mangia, mangia per il Signore; infatti,
rende grazie a Dio; e chi non mangia, non mangia
per il Signore e rende grazie a Dio» (Rm 14,3-6).
In Galati il discorso è invece molto più netto.
Per un gentile conformarsi agli usi alimentari
della Torah significa giudaizzare. Il termine giu
daizzante si riferisce infatti non agli ebrei, ma ai
figli delle Genti che credono di dover far propri i
precetti distintivi di Israele. Di contro, da parte
ebraica, conformarsi alla prassi alimentare genti
lica avrebbe comportato violare i precetti della
Torah. Nella sua drastica replica a Pietro, Paolo
impiega un forte ((noi>> giudaico. Entrambi gli
apostoli sono accomunati dalla qualifica di giudei
(per natura) contrapposta a quella propria dei
gentili peccatori. In Paolo non vi è alcuna incer
tezza sul carattere santo della comunità d'Israele
e sulla componente di peccato connessa al mondo
gentilico. Le osservazioni su fede e opere da lui
proposte non sono mai generiche. Al contrario,
egli ha sempre presenti i precetti della Torah. A
loro riguardo Paolo compie un ragionamento a
fortiori riassumibile nei seguenti termini: se an
che noi giudei per natura (vale a dire per nascita)
abbiamo trovato la salvezza in Gesù Cristo e non
nei precetti della Legge, tanto più ciò vale per i
gentili non soggetti ai comandamenti specifici
1 33
della Torah. Se l'apostolo avesse imposto l'osser
vanza delle mitswot (<<precetti») ai gentili, egli
davvero avrebbe riedificato quanto aveva prima
distrutto.
Tutta la diatriba tra Paolo e Pietro ha senso
solo a partire dal fatto che entrambi sono ebrei
credenti in Cristo. Se l'appartenenza giudaica
fosse semplicemente caduta - vale a dire, se gli
apostoli fossero divenuti dei cristiani - il ragio
namento paolino non avrebbe ragion d'essere.
Non vi è alcun dubbio che nella Chiesa delle ori
gini si aprì un forte contenzioso su che cosa gli
ebrei credenti avrebbero dovuto o non dovuto im
porre ai gentili venuti alla fede (cf. At 15). Tutta
via proprio questo acceso dibattito presuppone
sia che la distinzione tra <<giudei e greci>> conti
nuasse a sussistere, sia (e non sembri un para
dosso) che essa potesse essere trascesa nella fede
solo in quanto restava presente. Non è perciò af
fatto contraddittorio che Paolo, rivolgendosi a
Pietro, potesse affermare «noi giudei per natura e
non gentili peccatori>>, mentre indirizzandosi ai
Galati esclamasse che in Cristo non c'è né giudeo,
né greco. Proprio questa asimmetria giustifica
l'apparente contraddizione secondo cui Paolo da
un lato vieta ai gentili credenti di giudaizzare e
dall'altro, per ricorrere a un neologismo, invita i
suoi fratelli ebrei a <<gentilizzare>>,
1 34
L'assemblea
di Gerusalemme
Un classico luogo dello studio critico del Nuo
vo Testamento sta nel confrontare tra loro alcune
affermazioni della Lettera ai Galati (commentate
qui sopra) e l'assemblea di Gerusalemme descrit
ta nel capitolo quindicesimo degli Atti degli Apo
stoli. Cercare di armonizzare i due testi è opera
zione ardua, o meglio inutile. Essi vanno assunti
come due modi diversi, uno paolino e l'altro luca
no, di rispondere a un problema analogo. En
trambi respingono l'ipotesi che i gentili venuti al
la fede debbano preventivamente sottoporsi alla
circoncisione, senza che ciò comporti la caduta di
ogni distinzione tra ebrei e greci. Nel riferirei al
l'assemblea di Gerusalemme il nostro intento
principale è, in sostanza, semplicemente quello di
spiegare un versetto, apparentemente marginale,
presente nel capitolo quindicesimo degli Atti. Per
giungere a questo scopo si dovrà però accennare
al contesto dell'intero capitolo, dedicato al cosid
detto «Concilio apostolico••. La visione degli Atti è
chiaramente spiegabile solo all'interno della con
cezione teologica proposta da Luca. Le interpre
tazioni proposte vanno perciò giudicate in riferi
mento alla versione lucana e non a quanto è dav
vero accaduto.
La struttura generale degli Atti degli Apostoli
è complementare a quella del terzo Vangelo. In
quest'ultimo la vita pubblica di Gesù è organiz-
135
zata lungo un unico itinerario, che dalla Galilea
conduce verso Gerusalemme; gli Atti invece si
aprono a Gerusalemme e si chiudono a Roma. Il
Vangelo di Luca presenta un andamento centri
peto, mentre gli Atti si muovono in modo preva
lentemente centrifugo. La limitazione è d'obbligo,
in quanto in tutta la prima parte degli Atti vi so
no periodici e significativi ritorni verso Gerusa
lemme. Il più importante tra essi è descritto al
capitolo quindici.
Uandamento centrifugo è anticipato fin dall'i
nizio, allorché Gesù, rivolgendosi ai discepoli su
bito prima dell'ascensione, annuncia loro la di
scesa dello Spirito e il comando di essergli testi
moni «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Sa
maria e fino agli estremi confini della terra» (At
1,8). I capitoli successivi si incaricano di descri
vere quanto è stato previsto e comandato. Lungo
questo stesso itinerario si assiste al passaggio
dell'annuncio dell'evangelo dagli ebrei ai gentili.
Gli Atti si sforzano di presentarlo come un mo
mento che ha luogo sotto la tutela di Pietro (si ve
da l'episodio di Cornelio, At 10,1-11. 18); tuttavia
lasciano intuire che i fatti non si svolsero in una
maniera cosi lineare. Non a caso, attribuiscono ad
alcuni credenti ebrei ellenistici l'autonoma inizia
tiva di predicare ad Antiochia la buona novella
del Signore Gesù anche ai greci (At 1 1,20). Ci si
preoccupa però immediatamente di indicare co
me l'avvenimento fosse conosciuto e approvato
dalle autorità di Gerusalemme; tuttavia poco do-
1 36
po si afferma che in quella città sono ugualmente
sorti, al riguardo, problemi di non lieve spessore
(At 15, 1-4).
Ad Antiochia, dove per la prima volta i disce
poli vennero chiamati cristiani (At 1 1 ,26), «alcuni
venuti dalla Giudea insegnavano ai fratelli que
sta dottrina: "Se non vi fate circoncidere secondo
l'uso di Mosè non potete essere salvi", (At 15,1). I
termini specifici della questione sono soggetti a
varie incertezze, quelli generali sono però chiari.
Il problema cruciale potrebbe essere riassunto in
questa domanda: i gentili possono credere in Ge
sù Cristo rimanendo tali o per farlo debbono, pre
ventivamente, farsi ebrei? La questione scoppia
ta ad Antiochia viene portata da Paolo e Barnaba
alla «Chiesa madre» di Gerusalemme, comunità
costituita solo da ebrei. Qui apostoli e anziani
danno luogo alla cosiddetta assemblea (o concilio
- cf. At 15,6). La riunione fu imperniata su tre
momenti fondamentali: il discorso di Pietro, quel
lo di Giacomo fratello del Signore e la redazione
del «decreto apostolico>>, Pietro, alludendo implici
tamente all'episodio di Cornelio, afferma che l'an
nuncio alle Genti è stato sancito dalla discesa su
di loro dello Spirito, senza che fosse richiesta qua
lunque altra precondizione: per ebrei e non ebrei
quanto importa è la fede.
Il discorso di Giacomo è più articolato. Al suo
centro si trova l'interpretazione di un passo del
profeta Amos (9, 1 1-12). Entrando nei particolari,
il brano presenta non poche difficoltà. A molti
137
studiosi è apparso, per esempio, poco credibile
che Giacomo, capo dei giudei credenti di Gerusa
lemme, citasse la Scrittura secondo la versione
greca dei LXX e lo facesse proprio in un punto in
cui questa traduzione sembrerebbe affermare
l'opposto di quanto contenuto nell'ebraico (cf. At
15,16-18; Am 9,11- 12). Il rilievo non è trascurabi
le, tuttavia esso non appare determinante, specie
se ci si concentra sulla visione lucana dell'episo
dio, senza dare la stura a fuorvianti preoccupa
zioni relative all'autenticità storico-fattuale del
l'avvenimento. Il discorso di Giacomo inizia ri
vendicando l'elezione d'Israele, atto che comporta
la costituzione da parte di Dio di un popolo parti
colare: «Fin da principio Dio ha voluto scegliere
tra le Genti un popolo per consacrarlo al suo no
me>> (At 15, 14). Proprio in virtù di questa consta
tazione, Giacomo afferma di non dover gravare
con osservanze tipicamente giudaiche i gentili
che si convertono a Dio, «ma solo si ordini loro di
astenersi dalle sozzure degli idoli, dalle unioni il
legittime, dagli animali soffocati e dal sangue.
Mosè infatti, fm dai tempi antichi, ha chi lo pre
dica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato
nelle sinagoghe>> (At 15,20-21).
Quanto è decisivo comprendere nel discorso di
Giacomo è la verità semplice, quanto trascurata,
stando alla quale le Genti non debbono circonci
dersi proprio a causa del mantenimento e non già
della soppressione dell'elezione d'Israele. Uaste
nersi dalla circoncisione non significa il definitivo
138
tramonto dell'antica economia; quell'atto sempli
cemente indica che, anche rispetto all'annuncio
evangelico, i gentili restano tali e lo stesso vale
per gli ebrei. In particolare, l'ultima affermazione
in cui si parla di Mosè (termine da intendersi co
me sinonimo di Torah scritta o Pentateuco) letto
ogni sabato nelle sinagoghe - frase che alla mag
gior parte degli interpreti appare oscura e quindi
trascurabile - va intesa esattamente in questo
modo: la testimonianza data da Israele, legata al
suo essere popolo particolare che vive tra gli altri
popoli, c'è già. Proprio questa presenza esonera
tutti gli altri dal vano tentativo di diventare a
propria volta parte del popolo d'Israele: «Mosè
viene letto ogni sabato nelle sinagoghe». La diffu
sione del popolo ebraico «in ogni città>> e la sua fe
deltà al patto scandito dalla proclamazione della
Torah ogni sabato (giorno in se stesso segno di al
leanza perenne - cf. Es 3 1 , 16) legittima perciò i
gentili a rimanere tali. La liturgia sabbatica, che
è specifica e peculiare del popolo d'Israele, lungi
dal porre inciampi alla venuta delle Genti alla fe
de, ne rappresenta addirittura un presupposto.
In sostanza si può azzardare la conclusione se
condo la quale i gentili possono credere in Gesù
Cristo senza diventare ebrei, ma non senza che
esistano gli ebrei: «Mosè infatti, fin dai tempi an
tichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene
letto ogni sabato nelle sinagoghe>> (At 15,20-21).
Resta il discorso sulle quattro norme che vie
tano di consumare la carne sacrificata agli idoli,
139
le unioni irregolari e il cibarsi del sangue e degli
animali soffocati. Esse, lungi dall'essere proposte
dal solo Giacomo, sarebbero state recepite all'in
terno del <<decreto apostolico» e inviate alle Chie
se di origine gentilica presenti in Antiochia, in Si
ria e in Cilicia (At 15,23-28). Se si volessero con
frontare le clausole del decreto con quanto si ri
cava dall'epistolario paolino, si andrebbe di nuo
vo incontro a difficoltà insormontabili. Meglio se
guire un'altra pista. Quanto davvero importa è
comprendere che questi precetti, come si deduce
chiaramente dal discorso di Giacomo e dall'inizio
dello stesso «decreto apostolico», sono rivolti ai
gentili proprio perché tali e non già per far di lo
ro dei mezzi ebrei. Né si tratta di un compromes
so volto a gratificare i giudaizzanti con qualche
concessione. Al contrario, quelle norme sono pro
spettate alle Genti perché ritenute valide specifi
catamente per loro.
A questo punto torna opportuno il riferimento
alla proibizione di cibarsi di sangue contenuta
nel patto noachico (Gen 9,4-5). Pur evitando di
entrare in argomenti specifici, appare indubbio
che il <<decreto apostolico>> avesse intenzione di
prescrivere ai gentili precetti universali e forse lo
facesse tenendo in qualche modo presente proprio
l'alleanza con Noè. Anche senza ipotizzare indi
mostrabili influssi reciproci, appare indiscutibile
che in questo decreto si respira un'aria simile a
quella presente nella successiva formulazione
rabbinica, relativa ai precetti noachici: ci si preoc-
140
cupa di prescrivere ai gentili qualcosa di loro spe
cifica pertinenza proprio perché essi non sono
ebrei. Per essere gradite al Dio unico Signore d'I
sraele, le Genti non hanno bisogno di giudaizza
re. Per la maggior parte del giudaismo rabbinico
il gentile che osserva i sette precetti di Noè è, agli
occhi di Dio, pari all'ebreo che mette in pratica
tutta la Torah.4 Perché questa affinità sia possi
bile, occorre però tener ben saldo il rovescio della
medaglia: il «decreto apostolico» non chiede agli
ebrei chiamati alla fede di mutar nulla nella loro
osservanza dei precetti al fine di credere in Gesù
Cristo. Appunto in questa luce va recepita l'affer
mazione di Giacomo relativa all'elezione d'Israe
le e al fatto che Mosè viene letto ogni sabato nel
le sinagoghe.
Al di là di ogni riferimento a norme particola
ri, l'insegnamento del ••concilio•• di Gerusalemme
resta di straordinaria rilevanza nella misura in
cui sostiene che ognuno può venire alla fede in
Gesù Cristo, conservando la propria identità, sia
essa ebraica o gentilica.
141
CAPITOLO 3
IL «SÌ» E IL «NO»
EBRAICO A GESÙ
143
a) <<Non sono stato inviato
che alle pecore perdute
della casa d'Israele»
Il decimo capitolo di Matteo contiene quanto si
è soliti classificare come il «discorso missionario>> ,
Esso, più precisamente, si presenta sotto la forma
di quanto potrebbe dirsi «la missione a Israele>>;
infatti i Dodici sono ammoniti a «non prendere la
via delle Genti>> e a <<non entrare in una città di
samaritani>>, invece si chiede loro di <<rivolgersi
piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele>>
(Mt 10,6). Nel lessico profetico, il comando di non
imparare la via dei gentili può essere compreso in
modo comportamentale (Ger 10,2); di contro, nel
vangelo è da intendersi alla lettera come un man
dato volto ad annunciare la prossimità del regno
dei cieli soltanto nell'ambito del popolo ebraico.
La conferma di ciò si ha nell'episodio dell'incontro
di Gesù con la donna Cananea (in Marco chiama
ta, con più precisione, siro-fenicia: Mc 8,26) in cui
il Maestro risponde ai discepoli, che lo pregavano
di guarire la figlia indemoniata della straniera,
dicendo loro di non essere ••stato inviato che alle
pecore perdute della casa d'Israele>> (Mt 15,24).
L'ambito dell'attività pubblica di Gesù e dei
Dodici da lui inviati è circoscritto alla terra d'I
sraele. Anzi, è pressoché certo che la stessa va
lenza simbolica della chiamata dei Dodici mani
festi nel presente e proietti nell'immediato avve
nire il nesso tra regno e popolo ebraico: <<In verità
144
vi dico, voi che mi avete seguito, nel rinnova
mento di tutte le cose (palinghenesia), quando il
Figlio dell'uomo sederà sul trono della sua glo
ria, sederete anche voi su dodici troni per giudi
care le tribù d'Israele>> (Mt 19,28). La promessa
di Gesù ai Dodici è di aver parte nel suo regno
nella veste di assistenti di governo (biblicamen
te, il verbo giudicare ha anche il senso di gover
nare). Il riferimento piuttosto insolito ai «dodici
troni» è segno della ricostruzione e rigenerazione
messianiche di Israele nella sua pienezza (dieci
tribù scomparvero a causa della remota invasio
ne assira del regno del nord; cf. 2Re 17,1-23).
Nella recente ricerca storica si è più volte consi
derato un fatto certo: che Gesù condividesse la
visione del mondo spesso definita «escatologia
giudaica della restaurazione>> , L'ipotesi sarebbe
comprovata da alcuni fatti chiave: il collegamen
to tra l'inizio della predicazione di Gesù e Gio
vanni Battista, la chiamata dei Dodici, l'attesa di
un nuovo Tempio (o almeno il rinnovamento di
quello già esistente) e la collocazione escatologi
ca dell'opere degli apostoli.1
Anche prescindendo da questa prospettiva
storiografica, ci sono pochi dubbi che l'intento di
Matteo fosse di presentare la missione di Gesù e
145
dei Dodici come una realtà interna a Israele. Pro
prio a questo proposito vale la pena di chiedersi
perché l'annuncio del regno, rivolto alla casa d'I
sraele, sia espresso con immagini di inermi insi
diati dai violenti e di persecuzioni incombenti:
«Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi
[ . ] Guardatevi dagli uomini, perché vi consegne
..
146
<<Vignaioli omicidi>•, che prima uccidono i servi lo
ro inviati e poi si comportano allo stesso modo con
il figlio, colmando in tal modo la misura, cosicché
la vigna sarà affidata ad altri, che consegneranno
i frutti a tempo debito: «Perciò vi dico: vi sarà tol
to il regno di Dio e sarà dato a un altro popolo che
lo farà fruttificare•• (Mt 2 1,33-46). Trattandosi
però sempre della stessa vigna, sembrerebbe
d'obbligo concludere che il nuovo popolo - la
Chiesa delle Genti - subentri all'antico presen
tandosi in tal modo come il nuovo e vero Israele. 3
In questa luce, un classico testo della «teologia
biblica•• novecentesca, Il vero Israele di Wolfgang
Trilling, interpreta la parabola dei vignaioli omi
cidi affermando che in essa si stabilisce un rap
porto intrinseco tra il regno di Dio e lo statuto del
popolo di Dio. Perciò il fatto che a Israele, per la
sua infedeltà, viene sottratto il regno di Dio, si
gnifica che la condizione di popolo di Dio è passa
ta ad altri. Inoltre il comando di ammaestrare
tutte le genti, posto a suggello del mandato mis
sionario di Gesù risorto (Mt 28, 18-20), farebbe ri
ferimento a tutta l'umanità, senza porre distin-
147
zioni tra Israele e Genti; infatti tale discorso si
colloca nell'orizzonte dell'universalità salvifica
già promessa nell'Antico Testamento.4
Le tesi appena esposte erano in passato pre
valenti e ancor oggi sono largamente diffuse. Al
riguardo quel che interessa sta soprattutto nell'e
videnziare quanto stringenti fossero i risvolti «SO
stitutivi» (la «teologia della sostituzione» è ap
punto quella che qualifica la Chiesa come «nuovo
Israele») insiti nel demarcare tanto nettamente il
passaggio dalla predicazione pre-pasquale a quel
la post-pasquale. Ovviamente non si vogliono ne
gare gli insostituibili contributi della critica bi
blica che sottolineano la rilevanza e la profondità
del lavoro teologico e redazionale compiuto dall'e
vangelista. Tuttavia va tenuto ben saldo il fatto
che i processi redazionali operano tanto nella
chiusa universalistica del Vangelo di Matteo
quanto nel discorso missionario rivolto ai Dodici.
In altri termini, non si può in alcun modo con
trapporre un presunto fatto storico (il Gesù pre
paquale) a una figura teologica tutta concentrata
nel modo di presentare la missione post-pasqua
le. Ribadire la grande differenza tra Gesù storico
e Cristo della fede non porta lontano. I vangeli in-
148
fatti ripercorrono la vita e la predicazione di Ge
sù, essendo consapevoli dell'avvenuta risurrezio
ne e della missione alle Genti . Ci si può quindi
chiedere, con fondamento, se la memoria della
predicazione del regno rivolta da Gesù e dai Do
dici alle pecore perdute della casa d'Israele non
sia stata mantenuta viva, appunto in virtù del
fatto che Matteo (come qualche decennio prima
riteneva anche Paolo cf. Gal 2,6-10) credeva che
l'annuncio a Israele avesse piena cittadinanza
pure in ambito post-pasquale. Da una risposta
positiva a questa domanda deriverebbe, tra l'al
tro, la conclusione che molte delle componenti po
lemiche, nei confronti per esempio di scribi e fari
sei, di cui è ricco il primo Vangelo (cf. per esempio
Mt 23, 1-36), siano da intendersi, secondo un mo
dello presente nei profeti biblici, come rimproveri
provenienti dal seno stesso d'Israele. 5
Vista nell'ottica della Chiesa successiva defi
nitasi nuovo Israele, la missione nei confronti de
gli ebrei parla irrimed.iabilmente il linguaggio di
una conversione a un'altra religione. Ciò non cor
risponde a una lettura fedele degli scritti neote
stamentari. Sul piano sia esegetico sia teologico,
149
il semplice fatto di leggere e interpretare questi
documenti, abbandonando la coppia antitetica,
allora inesistente, di ebrei e cristiani, sarebbe fo
riero di conseguenze di larga portata. Molte pre
comprensioni cadrebbero, se si applicasse l'irrefu
tabile constatazione che i credenti in Gesù Cristo
erano sia ebrei sia non ebrei. La memoria della
predicazione interna al popolo ebraico è dotata,
infatti, di un valore permanente, fatto che nulla
toglie all'esistenza di sviluppi drammatici all'in
terno della vita di Gesù. In defmitiva, perché ces
si ogni traccia di teologia della sostituzione, oc
corre attribuire un valore permanente in senso
qualitativo tanto all'adesione di fede di ebrei a
Gesù, quanto alla testimonianza e all'annuncio
dell'evangelo compiuti da ebrei credenti nei con
fronti di altri ebrei.
La perennità dell'annuncio rivolto verso Israe
le dipende in maniera determinante dal fatto di
individuare chi è nelle condizioni di poterlo com
piere. Ciò trova riscontro nella funzione di de
marcazione nei confronti dell'allora sorgente giu
daismo rabbinico che, a detta di qualche interpre
te, il primo evangelista attribuì al proprio scritto:
«Matteo è il testimone di un grande sforzo, nella
definizione dei rapporti tra Chiesa messianica ed
ebraismo rabbinico, nel I secolo. Questo è ancor
oggi un nostro problema teologico centrale. E
Matteo è importante non solo per quello che dice,
ma anche per quello che tace. Perché, non dicen
do, lascia aperto il testo ad altri sviluppi, ancora
150
possibili» .6 Occorre perciò rendersi sempre plU
conto che in Matteo (come in tutti gli altri scritti
neotestamentari) la Chiesa non si presenta come
«nuovo Israele••, appunto perché, nella sua compo
nente ex circumcisione, considera la missione nei
confronti del popolo ebraico come costitutiva del
la propria vocazione. Ciò però comporta, sull'altro
versante, che una Ecclesia ex gentibus (e ancor di
più una Ecclesia gentium) non è autorizzata a
compiere nessun annuncio - e, a fortiori, alcuna
azione proselitistica7 - nei confronti del popolo
ebraico. La Chiesa oggi non è, dunque, più abili
tata a compiere l'annuncio nei termini proposti
da Matteo;8 essa deve trovare altre vie per indi
rizzare la propria testimonianza verso il popolo
ebraico da cui trae origine.
b) Romani 9- 1 1
Nella riflessione teologica contemporanea, ha
assunto di nuovo un certo peso la considerazione
151
in base alla quale il «nO» a Cristo, pronunciato da
gran parte del popolo ebraico, sia una componen
te costitutiva della Chiesa. Si tratta di una ripre
sa, non sempre sviluppata in modo convincente,
di un tema presente soprattutto in Paolo. Specie
nella Lettera ai Romani, egli si interroga infatti
sul perché la maggior parte degli ebrei non abbia
aderito alla fede in Gesù Cristo. Per comprendere
questo grande testo, occorre far tesoro di un pa
radosso: un individuo si rivolge a una piccola co
munità e mentre fa ciò il suo sguardo abbraccia il
mondo intero. I destinatari erano di sicuro molto
pochi, se confrontati con l'enorme popolazione
dell'urbe imperiale; li accomunava la fede in Cri
sto, ma non l'origine. Vi erano degli ebrei e vi era
no sicuramente anche dei gentili, che, prima di
accogliere l'evangelo, si erano già accostati all'e
braismo entrando a far parte della categoria nota
come «timorati di Dio». Difficile sapere se ci fos
sero altre provenienze, impossibile conoscere chi
per primo abbia fatto giungere il «buon annuncio>>
a Roma. Rispetto a questa mancanza di informa
zione, la capitale dell'impero è accomunata a Da
masco, Antiochia e Alessandria. Di certo non si
trattò di uno dei Dodici e tanto meno di Paolo, che
dichiara apertamente di rivolgersi a una comu
nità da lui non fondata.
Il contenitore è piccolo, anzi minuscolo. Il mit
tente è un singolo che ha davanti a sé un mani
polo di nomi propri (cf. Rm 16,1-15). In termini
attuali, verrebbe qualificato come un movimento
152
allo stato nascente. Eppure il discorso condotto
da Paolo è immenso: in questa lettera sono messe
all'ordine del giorno tutte le relazioni tra Dio, la
creazione e la storia. In Romani si parla delle ori
gini, di un mondo diviso tra ebrei e gentili, del
peccato che tutti accomuna, della redenzione del
l'umanità e del cosmo, della Legge, degli imper
scrutabili pensieri di Dio rispetto a Israele, del
potere civile e della sua legittimità e si finisce sa
lutando Prisca, Aquila, Epèneto, Maria, Andròni
co e Giunia . . . La difficoltà di elaborare una teolo
gia a partire da quelle pagine non può prescinde
re da questa originaria sproporzione.
Resta incontrovertibile che, nel corso della sto
ria cristiana, alcune svolte capitali sono state sol
lecitate da una rilettura di Romani. Basti pensa
re alla Riforma. Ma forse il riferimento per noi
ancora più evocativo è costituito dal commento di
Karl Barth elaborato a seguito del trauma costi
tuito dalla Prima guerra mondiale. Dopo la Se
conda (il cui centro non fu più costituito dalla
<<guerra civile europea» avvenuta tra nazioni cri
stiane), l'attenzione, a valle del baratro della
Shoah, si è diretta, da un lato, alla relazione tra
cristiani ed ebrei e, dall'altro, agli abissi costituiti
dalla degenerazione totalitaria degli stati. In ogni
caso, da allora, il destino dell'«Europa cristiana» è
strettamente legato, in una maniera o in un'altra,
al modo in cui si valuta la presenza ebraica. La
percezione eli ciò, però, non fu immediata. Per dir
la con Nietzsche, fulmine e tuono hanno bisogno
1 53
di tempo. È, infatti, solo a partire dagli anni Ses
santa-Settanta che la Shoah ha cominciato a es
sere percepita sempre più come uno spartiacque
capace di stabilire un prima e un dopo. 9
Dal punto di vista della riflessione teologica, il
processo ha trovato il proprio culmine negli ulti
mi tre decenni del XX sec. In larga misura, nel
mondo cattolico, esso ha, quindi, coinciso con il
pontificato di Giovanni Paolo II e, in particolare,
con la preparazione e lo svolgimento del grande
giubileo del 2000. Dopo 1'1 1 settembre 2001 an
che in quest'ambito sembra che sia intervenuto
un mutamento. Esso ha condotto a prospettare
una crescente identificazione della tradizione
<<giudaico-cristiana)) (detta appunto in questo mo
do) con l'occidente. Entro quest'ultimo scenario,
appare dunque illanguidirsi il momento topico
(per non ricorrere alla troppo impegnativa quali
fica di kairòs) nel quale si era chiamati a riflette
re sul nodo Chiesa-Israele a partire, prevalente
mente, dall'evento della Shoah. Nel XXI secolo il
discorso potrà, infatti, riaprirsi soltanto nella mi
sura in cui, nel contesto del dialogo tra fedi e cul
ture, si sarà in grado di recuperare una effettiva
«alterità ebraica)). Ciò non potrà avvenire senza
compiere un franco e libero confronto con una
1 54
condizione ebraica onnai, di fatto, massicciamen
te coagulatasi attorno allo Stato d'Israele.
Nel cruciale passaggio di fine milleruùo, Roma
ni 9-11, vale a dire la massima riflessione biblica
relativa al rapporto Chiesa-Israele, sembrava po
ter assurgere a un ruolo paragonabile a quello af
fidato alla lettera nel suo complesso, nel caso del
la svolta barthiana. In quegli anni però non è sta
to scritto alcun volume capace di presentarsi come
simbolo complessivo di un passaggio teologico
epocale. Nella sua ricezione ed elaborazione teolo
gica ed ecclesiologica, Romani 9-11 resta un pa
radigma incompiuto. Una delle ragioni di questo
mancato conseguimento sta nel fatto che, negli ul
timi decenni, il rapporto con gli ebrei è stato de
clinato soprattutto a partire dall'egemonia attri
buita alla presenza di un et1ws universale, espres
so in modo riassuntivo dai ••dieci comandamenti>>.
Il legame specifico tra cristiani ed ebrei è stato
quindi evocato principalmente per additare l'uni
versalità di una proposta etica comune. Tuttavia
questa impostazione non riesce a esorcizzare fino
in fondo il problema teologico della «salvezza>> e
degli influssi storici a esso connessi.
Sulla base di Romani 9-1 1 è possibile costrui
re una riflessione teologica capace di affrontare
la complessità del rapporto tra Chiesa e Israele?
Alla fine del XX secolo si era orientati a rispon
dere con un sì. Quei capitoli furono, perciò, letti
privilegiando il radicamento del messaggio cri
stiano nell'eredità ebraica. La prospettiva fu an-
155
che presentata come un modo per stabilire l'unità
dei due Testamenti (Giovanni Paolo II, Joseph
Ratzinger) e, quindi, come una maniera per pren
dere le distanze dalla teologia della sostituzione.
Tuttavia questa impostazione è obbligata a porre
tra parentesi un dato decisivo: Paolo scrisse la
sua riflessione sull'azione di Dio nei confronti del
popolo d'Israele a partire non già dal suo essere
un «cristiano», bensì dal suo essere un ebreo cre
dente in Cristo. Non si tratta di una pura contin
genza storica; al contrario, questo fatto costitui
sce il perno su cui ruota l'intero discorso. Dal
punto di vista della riflessione teologica ed eccle
siologica, il ruolo svolto dal duplice ••noi>> di cui
Paolo si dichiara partecipe è assolutamente im
prescindibile. L'·•apostolo delle Genti>> prende
parte a un duplice <<noi». Da un lato infatti affer
ma di essere pienamente e stabilmente partecipe
al <<noi>> che caratterizza Israele <<secondo la car
ne>> con tutti i doni che gli sono peculiari (Rm 9,1-
4), dall'altro dichiara di avere parte, nella fede, a
un <<noi>> di natura tutta diversa dalla precedente,
si tratta cioè di un ••noi» costituito dai chiamati
dai giudei e dalle Genti (Rm 9,24).10 In Cristo, co
me si è visto, non c'è né giudeo, né greco (Gal
3,28), pur continuando a esistere nella loro asim-
10
Per l'esattezza in greco
manca l'articolo determina
tivo.
156
metria giudei e greci. Vattualità psicologica del
«noi diviso» di Paolo è fuori discussione (e non po
chi, anche in sede filosofica se ne sono accorti),
tuttavia va ribadito che essa è del tutto specula
re alla sua «inattualità�· teologica.
Come avvenne al tempo di Lutero, anche oggi
un'ermeneutica del testo (non necessariamente
solo una sua esegesi storica) evidenzia una di
stanza tra il modo di articolare il discorso della
fede all'epoca in cui avviene l'interpretazione e il
punto di partenza con cui ci si confronta. I capi
toli 9-1 1 della Lettera ai Romani misurano, in
fatti, una distanza dall'origine non colmata dalla
tradizione. Quelle pagine vanno perciò lette an
che sotto la categoria dell'infedeltà della Chiesa a
se stessa. Proprio in virtù dell'affermazione, oggi
universalmente ribadita, secondo cui l'alleanza
con Israele non è mai stata revocata (Rm 11,29),
ogni ermeneutica fedele al messaggio di Romani
9-11 si colloca, per forza di cose, nella distanza
posta tra il soggetto interpretante, vale a dire un
gentile credente, e il soggetto scrivente: un ebreo
credente in Cristo. Non sono quindi consentiti fa
cili recuperi. Tuttavia, proprio a causa della sua
consapevole inadeguatezza, l'interprete si viene a
trovare in una condizione paradossalmente affi
ne a quella dell'••apostolo delle Genti>�. Paolo, nel
l'atto di scrivere a un manipolo di credenti sper
duti nella <<grande citt�, si misurava con il tema
sommo dei rapporti iniziali, salvifici ed escatolo
gici di Dio con il mondo; dal canto suo, oggi, ogni
1 57
lettore dei capitoli 9-1 1 della Lettera ai Romani
è chiamato a confrontarsi con il bimillenario e
ampiamente infedele rapporto intercorso tra
Chiesa e Israele: si tratta di un tema dotato, nel
la fede, di un valore salvifico ed escatologico sen
za uguali. Pur privi di risorse, si è costretti a pen
sare in grande.
Non è indifferente sostenere, come avveniva
con regolarità in passato, che il no ebraico pro
nunciato nei confronti della fede in Gesù Cristo
costituisce la prova lampante dell'infedeltà ebrai
ca o, all'opposto, dichiarare - sulla scorta della ri
flessione di alcuni teologi contemporanei - che
questa dinamica esige una profonda gratitudine
da parte dei cristiani, fattisi consapevoli che solo
a causa del suo non accoglimento da parte degli
ebrei l'annuncio è giunto ai gentili, scongiurando
così l'ipotesi che la Chiesa rimanesse una setta
apocalittica giudaica. Tuttavia appare altrettanto
evidente che entrambe le visioni, per quanto an
titetiche, condividono un presupposto di fondo: la
natura intrinsecamente gentilica della Chiesa.
Simili riflessioni si basano su spunti effettiva
mente presenti nell'epistolario paolino. Tuttavia
esse sono assunte in modo troppo selettivo quan
do si individua nel <<nO» d'Israele a Cristo il pre
supposto della natura gentilica della Chiesa. La
questione non si pone, però, in questi termini, né
dal punto di vista storico, né nell'ambito dello
stesso ragionamento paolino, volto a presentare
la positività del <<nO» pronunciato dalla maggior
158
parte dei figli d'Israele a Cristo. Per Paolo a fon
damento delle Chiese si trova innanzitutto il «SÌ»
ebraico a Gesù Cristo testimoniato in primis dal
l'apostolo stesso. Solo partendo da questa pro
spettiva, si può comprendere la perennità della
testimonianza affidata da Dio anche al popolo d'I
sraele che non ha fede in Gesù (cf. Rm 1 1 , 11-12).
È tutt'altro che marginale constatare che la
Lettera ai Romani, prima di descrivere il ruolo
decisivo riservato, per la riconciliazione delle
Genti, al «no» ebraico a Gesù, parli di un <<resto>>
di Israele credente (Rm 1 1, 15). Il termine «resto>>
(in ebraico shear o sherit) svolge un ruolo impor
tante nella letteratura profetica. Esso indica in
nanzitutto la presenza di una punizione a motivo
della quale un popolo è ridotto a un piccolo resi
duo. Questa sorte è stata riservata anche al po
polo ebraico; tuttavia, proprio perché non è stato
annientato per intero dalle potenze nemiche,
quell'avanzo può diventare segno della volontà
divina di non eliminare completamente Israele;
in tal modo il resto diviene indice di perdono. Tut
tavia Paolo, ricorrendo a questo termine, non ha
in mente tanto questi riferimenti, quanto il brano
biblico in cui il profeta Elia afferma che lui solo è
rimasto fedele, mentre tutto il popolo ha abban
donato il Signore (cf. 1Re 19,9-18). Come risposta
il profeta riceve l'assicurazione che resteranno in
Israele settemila uomini, tutti quelli che non
hanno piegato le ginocchia davanti a Ba'al, la di
vinità straniera (lRe 19, 18; Rm 11,4). Vi è perciò
159
un manipolo di fedeli che rappresenta il nucleo
germinale del futuro popolo di Dio. In questo ca
so il riferimento al <<resto» serve a compiere una
discriminazione interna a Israele.
Paolo si sente come Elia: testimone fedele del
la volontà del Signore. In lui il tema del <<resto>>
indica il punto di vista fedele, dal quale poter giu
dicare la totalità del suo popolo. Esso comporta
quindi una divisione all'interno di Israele e non
già una sostituzione di un popolo con un altro.
Tuttavia, le preoccupazioni di Dio, e in subordina
di Paolo, non si restringono al «resto», al contra
rio esse riguardano tutto il popolo, vale a dire toc
cano anche la parte maggioritaria che non ha ac
colto l'evangelo. In Romani ogni propensione set
taria è definitivamente archiviata.
Tenendo conto di ciò, si comprende perché
Paolo inizi la sua massima riflessione sul «miste
ro» di Israele (Rm 9-11) affermando solennemen
te di dire la verità in Cristo e di non mentire in
quanto la sua coscienza gliene dà sicura testimo
nianza nello Spirito Santo (Rm 9,1). In altre pa
role, introducendo un discorso nel quale si sareb
be giunti ad assegnare un ruolo salvifico al «DO»
ebraico a Gesù - e a prospettare una funzione
permanente riservata al popolo d'Israele nel suo
insieme -, Paolo fa appello a quanto è più proprio
della fede neotestamentaria: essere in Cristo e
avere le primizie dello Spirito (cf. Rm 8,23). Il
passo dei Romani è fondamentale perché indica
con chiarezza che al credente in Cristo non è af-
160
fatto richiesto di sminuire la radicalità della pro
pria fede per continuare ad attribuire al popolo
d'Israele un ruolo decisivo nella «storia della sal
vezza>> . La dichiarazione di Paolo secondo cui agli
israeliti spetta l'ccadozione a figli - hyiothesta»
(Rm 9,4) - nel lessico paolino parola di uso raro e
alto, cf Rm 8, 15.23; Gal 4,5; Ef 1,5 - non compor
ta alcuna attenuazione della sua fede in Cristo.
La drammatica apertura del nono capitolo del
la Lettera ai Romani è legata a due polarità, che
sarebbero apparse incompatibili per la mentalità
affermatasi in seguito. È invece essenziale com
prendere che in Paolo esse sono complementari.
Da un lato vi è un senso molto elevato della gra
vità del rifiuto di Gesù, compiuto dalla massima
parte del popolo ebraico (evento giudicato tanto
serio da indurre Paolo a ipotizzare, per sanarlo, la
perdita stessa della propria vita - cf. Rm 9,3),
mentre dall'altro, come si è detto, si proclamano,
con verbi tutti al presente, le perenni prerogative
del popolo di Israele (Rm 9, 1-4).
Sia in passato sia nel nostro tempo, questo
dramma suona, per forza di cose, estraneo a un
ebreo che non crede in Gesù Cristo, visto che per
lui quel rifiuto non è collegato ad alcuna colpa. Se
si ritiene indice di ostilità individuare una man
canza, là dove molti dei soggetti interessati non
ne scorgono traccia, è perciò inevitabile conclude
re che in Paolo alberghi un rigoglioso atteggia
mento antigiudaico. Tuttavia proprio questi pas
si, assieme ad altri, stanno a testimoniare che
161
non c'è nulla di più estraneo al pensiero di Paolo
della volontà di sostituire un nuovo popolo, quel
lo dei gentili credenti in Cristo, al vecchio popolo
d'Israele.
Paolo rispetto ai gentili condivideva, come si è
già avuto modo di vedere, due posizioni comuni
all'ebraismo del suo tempo: innanzitutto, essi so
no naturaliter peccatori (cf. Gal 2 , 15; Rm 1, 18-32;
lTs 4,5) e in secondo luogo «alla fine» molti di lo
ro si rivolgeranno al Dio d'Israele. Paolo, durante
la sua attività di apostolo delle Genti, in prepa
razione della venuta della <<fine», conserva un'evi
dente fiducia nella capacità dei gentili di conver
tirsi e di essere salvi. L'acquisizione della signo
ria da parte di Gesù Cristo, conseguita attraver
so la risurrezione, ha inaugurato i tempi ultimi
ed è a partire da questa prospettiva, manifesta
tasi nell'incorporazione in Cristo (Gal 3 ,28), che
si giudica ogni cosa. Di fronte alle Genti, un pila
stro permanente della predicazione paolina sta
nella necessità di legare la «particolarità•• di Ge
sù (<<da essi [i figli di Israele] proviene il Messia
secondo la carne» - Rm 9,5) con quella di Abramo,
di cui Cristo è discendenza (Gal 3, 16). Il Dio che
ha stretto il patto con i padri è infatti lo stesso
che, attraverso lo Spirito di santificazione, ha ri
suscitato Gesù (Rm 1,4) ed è solo per questo che
Paolo, rivolgendosi ai credenti ex gentibus, può di
chiarare loro che, se appartengono a Cristo, allo
ra sono discendenza di Abramo, eredi secondo la
promessa (Gal 3,29). La partecipazione alla <<sto-
1 62
ria della salvezza>> da parte dei figli d'Israele
comporta effettivamente che il loro rifiuto del
vangelo svolga un compito di riconciliazione uni
versale (Rm 1 1 , 15).
L'undicesimo capitolo della Lettera ai Romani
è caratterizzato dalla duplice immagine della ra
dice («è la radice che porta te» - Rm 1 1 , 18) e del
l'innesto (i rami dell'olivo selvatico - i gentili cre
denti - sono stati innestati sul tronco del buon
olivo da dove sono stati amputati i rami che han
no rifiutato la fede in Cristo) . Un grave, quanto
diffuso fraintendimento di quest'immagine consi
ste nell'intenderla come se i rami innestati rap
presentassero i cristiani e la radice indicasse gli
ebrei o addirittura che Israele costituisse il fon
damento di una Chiesa formata tutta da gentili.
La radice allude invece alla fede di Abramo a cui,
attraverso Cristo, sono stati resi partecipi anche i
gentili credenti (Gal 3,29). Tuttavia, Paolo è an
che assertore di un indefettibile nesso che lega
Abramo al popolo ebraico, anch'esso simboleggia
to dai rami: «Se santa è la radice, lo saranno an
che i rami>> (Rm 1 1 , 16). Tutto l'articolato discorso
su rami mozzati e reinnestati ha senso solo se gli
ebrei sono considerati anch'essi fronde e non già
radice. Si tratta però di rami - ed è importante ri
badirlo - che, a differenza di quanto avviene per
i gentili, appartengono per «natura>> al buon olivo.
L'insolita scelta di simboleggiare Israele at
traverso l'immagine dell'olivo invece di ricorrere
a quella, assai più consueta, della vite (cf. Is 5,1-
1 63
9) non sembra giustificarsi in base a troppo esi
gui riscontri biblici (cf. Os 14,6; Ger 1 1,16). Vi è
chi ha proposto di giudicarla un rovesciamento
della comune simbologia della letteratura classi
ca, secondo cui il pingue, fruttuoso olivo rappre
senta l'emblema di Atene e della sua altissima
cultura. Il discorso di Paolo sembra procedere
grosso modo così: voi esponenti del mondo classi
co vi ritenete un buon olivo, in realtà non siete al
tro che un olivastro e la vostra riconciliazione può
avvenire solo per mezzo di Cristo e di Israele (cf.
Rm 5,10; Rm 1 1 , 15). Paolo, opponendosi all'antie
braismo presente nel mondo grecoromano, si
schiera a favore dei suoi fratelli nella carne (Rm
9,3) non solo all'interno della Chiesa, ma anche
rispetto all'Israele non credente in Cristo: «Quan
to al vangelo, essi sono nemici per vostro vantag
gio, ma quanto all'elezione sono amati (agapétoi)
a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di
Dio sono senza pentimento» (Rm 1 1,28-29).
L'apostolo delle Genti, nel suo procedere, attri
buisce un ruolo insostituibile anche all'Israele
<<secondo la carne». Se la radice rappresenta la fe
de di Abramo, non ci dovrebbe essere in realtà al
cun elemento «carnale» che comporti un ruolo de
cisivo; eppure la Lettera ai Romani riserva un
compito particolarissimo anche all'«olivo mozza
to>>. Paolo non assegna alcuna superiorità ••etni
ca>> al popolo ebraico: gli accredita solo una prio
rità nel cammino della redenzione. La radice del
la Chiesa è innanzitutto la fede di Abramo. Paolo
1 64
però afferma ugualmente l'esistenza di legami
tra la comunità dei credenti in Cristo e la totalità
del popolo discendente da Abramo ••secondo la
carne•• (Rm 9, 1-4). La «tortuosità•• dei capitoli
9-11 della Lettera ai Romani deriva dal fatto che,
pur non essendoci in Cristo né giudeo, né greco
(Gal 3,28), al popolo ebraico in quanto tale conti
nui a spettare un ruolo insostituibile. Neli'e
spressione «tutto Israele sarà salvato•• (Rm 1 1 ,26)
non si afferma alcuna esplicita conversione stori
ca della «massa•• degli ebrei a Cristo. Inoltre in
essa si fa ricorso a un ••passivo divino•• (tipica for
ma biblica che esprime l'azione di Dio ricorrendo
a un passivo privo di complemento di agente). Il
popolo d'Israele è amato a causa dei padri, quin
di tutto Israele sarà salvato; la divina misericor
dia infatti si estende su tutti: «Dio ( ... ) ha rac
chiuso tutti nella disobbedienza per usare miseri
cordia a tutti>• (Rm 1 1,32).
Paolo non sostiene affatto che Israele è salva
to esclusivamente a causa dei padri, mentre le
Genti lo sono solo a motivo di Gesù (che, in tal
modo, si presenterebbe come Messia unicamente
dei gentili). Per lui il ruolo assegnato alla croce di
Cristo resta per tutti fondamentale e insostitui
bile: «Mentre i giudei chiedono segni e i greci cer
cano la sapienza, noi invece annunciamo Cristo
crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i
pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia giu
dei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza
di Dio•• ( 1Cor 1,22-24). Ciò non è però incompati-
1 65
bile con il fatto che Paolo presupponga, in modo
fermissimo, il permanere dell'elezione di Israele.
La constatazione che alcuni passi paolini affida
no una funzione paradossale al «nO» ebraico a Ge
sù Cristo è un'esemplificazione del ruolo specifico
da lui attribuito ai figli di Abramo «secondo la
carne». L'affermazione ha due facce: da un lato co
stituisce la prima e più chiara attestazione del
l'impossibilità per il gentile credente in Cristo di
prescindere dal «SÌ>> e dal «nO» pronunciato dagli
ebrei nei confronti di Gesù, mentre, dall'altro, so
stiene che neppure il popolo d'Israele può rite
nersi estraneo a questa dinamica di accettazione
e di rifiuto.
1 66
CAPITOLO 4
LA RICONCILIAZIONE
IN CRISTO
167
ropaolino (cioè non attribuibile direttamente a
Paolo) - non asserisce affatto la costituzione di
un unico popolo nuovo formato da ebrei e gentili.
Ciò non avviene precisamente perché il ruolo at
tribuito alla memoria delle rispettive origini
(Chiesa dalle Genti e Chiesa dalla circoncisione)
ribadisce la posizione particolare tuttora asse
gnata al popolo d'Israele.
Dando un peso prioritario al «SÌ>> d'Israele a
Gesù Cristo (questo è il senso evidente della stes
sa esistenza di una Ecclesia ex circumcisione) si
comprende quanto sia fondamentale che le comu
nità dei credenti in Cristo siano composte da co
loro che vengono alla fede provenendo tanto dai
giudei quanto dai greci. Questa semplice affer
mazione sta a significare che le Chiese trovano e
non già costituiscono la coppia Israele-Genti ed è
proprio in virtù di tale riconoscimento che si
giunge ad affermare la permanenza dell'elezione
d'Israele. Questa distinzione, infatti, si è formata
a motivo non già dell'annuncio dell'evangelo, ben
sì a causa della precedente rivelazione diretta al
popolo ebraico. Tutto ciò sta, a sua volta, a indi
care una specie di originaria e ineliminabile di
pendenza delle Chiese da quanto le precede (que
sto è appunto il senso pieno da attribuire alla
provenienza indicata da quell'ex), da cui deriva la
radicale impossibilità da parte delle comunità dei
credenti di annullare la polarità Israele-Genti nel
momento stesso in cui proclamano il mistero del
l'unità avvenuta in Cristo del giudeo e del greco.
1 68
Il brano della Lettera agli Efesini citato dai
Sussidi è assai complesso, né si intende qui farne
un'esegesi rigorosa.3 Occorre però riferirsi breve
mente a esso, in quanto il passo diviene prova
convincente che anche negli strati meno antichi
del Nuovo Testamento non vi è alcuna indicazio
ne dell'esistenza di un popolo nuovo che subentra
a quello di Israele. In base a una traduzione let
terale, i versetti in questione suonano così:
1 69
tuto il muro divisorio del recinto, l'inimicizia,
nella sua carne la Legge dei precetti che sono
statuti ha annullato, allo scopo di far in se stes
so, di due, un unico uomo nuovo, fondando pace,
e di riconciliare a Dio l'uno e l'altro in un sol cor
po mediante la croce, egli che in se stesso ha uc
ciso l'inimicizia. Ed egli venne e annunziò pace a
voi lontani e pace ai vicini, giacché mediante lui
abbiamo entrambi in un unico Spirito accesso al
Padre (Ef 2, 11-18).
1 70
segno di discriminazione («egli è la nostra pace»),
in quanto i credenti circoncisi e quelli contraddi
stinti dal prepuzio costituiscono un unico «uomo
nuovo••. La Lettera agli Efesini non sostiene af
fatto l'avvento di un popolo nuovo (la Chiesa) che
prende il posto dell'antico (Israele secondo la car
ne). Lo scopo della riconciliazione non è di costi
tuire il «popolo nuovo•• dei credenti in Cristo, il
quale diverrebbe (come è effettivamente successo
quando lo si è inteso in tal modo) motivo di ere
zione di muri ostili nei confronti del «vecchio po
polo" o, più in generale, verso tutti coloro che non
si affrettano a entrarvi.
Alla scomparsa del «voi» corrisponde, in Cri
sto, il silenzio del «noi>• : «Ed egli venne ad annun
ciare pace a voi lontani e pace ai vicini•• (Ef 2,17).
La mancanza, nella seconda parte del versetto,
di quel <•noi» (che tutto, comprese considerazioni
stilistiche, sembrerebbe presupporre) non può es
sere casuale; indica infatti la presenza di un <<es
sere uno in Cristo" in cui non vi è più posto per
una contrapposizione tra <<noi>• e <<voi". Di contro
la creazione di un «nuovo popolo•• comporterebbe
proprio l'inevitabile formazione di un nuovo «noi>•.
Perché non avvenga tale sostituzione, occorre che
la Chiesa sia costituita da «giudei» e da <<greci>•.
Partendo da questo asse, le comunità dei credenti
in Gesù Cristo possono rifiutarsi di diventare
creatrici di nuove identità che si affiancano o si
contrappongono ad altre. Di contro quando, nel
corso della storia cristiana, si formò, di fatto e di
111
diritto, una Ecclesia gentium, sarebbe diventato
inevitabile che essa osteggiasse tutti coloro che ne
restavano fuori, fossero ebrei o pagani.
1 72
"oleastri", diventano anch'essi popolo di Dio ("Ec
clesia ex gentibus"), perché credendo a Gesù Mes
sia e Salvatore, per la sua mediazione sono inne
stati nel "buon olivo" di Israele. Tale concezione
dell'unica Chiesa, dell'unico popolo di Dio, con ri
ferimento a Cristo e Israele, pare andare più in
profondità rispetto alla concezione delle due chie
se-comunità giustapposte nell'icona di S. Sabi
na».5 Quest'ultimo riferimento si chiarisce tenen
do conto che nella chiesa romana di S. Sabina vi è
un mosaico in cui due matrone rappresentano ri
spettivamente l'una l'Ecclesia ex circumcisione,
l'altra l'Ecclesia ex gentibus. Dopo aver esposto l'i
conografia, Martini l'aveva commentata con que
ste parole: «Se è così, che cosa dobbiamo pensare
del popolo ebraico attuale, accanto alla Chiesa?».6
L'insieme dei riferimenti proposto dal cardinale
induce a supporre che egli non abbia pienamente
percepito la diversità radicale presente nel modo
di concepirsi comunità da parte del popolo ebrai
co da un lato e, dall'altro, della Chiesa.
In realtà l'immagine delle due matrone è fon
damentale nella misura in cui essa attesta una
specifica autocoscienza ecclesiale volta ad affer-
173
mare l'opera di Cristo che, all'interno del mistero
della Chiesa, dei due ha fatto un unico uomo nuo
vo. Essa non indica una frattura, al contrario af.
ferma una comunione. La preoccupazione di dar
spazio all'elezione del popolo d'Israele al di fuori
della Chiesa è assolutamente giusta, ma essa non
è affatto incompatibile con la duplice presenza di
una Ecclesia ex circumcisione e di una Ecclesia ex
gentibus. Anzi, proprio questo tratto fa sì che la
Chiesa si pensi come una comunità tanto diversa
da Israele, eppur a esso collegata, da non essere
in alcun modo nelle condizioni di sostituirlo.
L'iconografia di S. Sabina non è isolata. Essa,
per esempio, è presente anche nel mosaico absi
dale della chiesa romana di Santa Pudenziana
( IV-V secolo). Lì, su uno sfondo costituito dalla
Gerusalemme celeste, dai quattro viventi dell'A
pocalisse (cf. Ap 4,6) e da una grandiosa croce
gemmata, è rappresentato un Cristo benedicente
circondato da angeli, accanto al quale compaiono
due donne. Come sappiamo, esse rappresentano
rispettivamente l'Ecclesia ex circumcisione e l'Ec
clesia ex gentibus. Dopo la svolta costantiniana, il
senso dell'immagine era sempre meno avvertito
dalle comunità cristiane di quell'epoca: restava
però la consapevolezza di un'origine da celebrare
pure all'interno di una rappresentazione iconica
della signoria del Cristo glorioso.
Come spesso avviene, le immagini conservano
una tendenza ripetitiva, che dura anche quando
il loro significato impallidisce. Ciò vale anche per
1 74
l'iconografia delle due donne: le figure vennero n
proposte, ma il loro senso diventò, a poco a poco,
altro. Alcuni studi ipotizzano una progressiva
evoluzione della simbologia attribuita alle due fi
gure femminili: col tempo esse cessarono di rap
presentare la duplice provenienza dei credenti
per diventare rispettivamente simbolo della
Chiesa e della Sinagoga.7 Quest'ultima scelta fu
indirizzata a ribadire l'ormai consolidata manie
ra di pensare al popolo d'Israele in modo omoge
neo alla Chiesa, la quale, venendo dopo di esso, è
destinata a sostituirlo. Per parecchio tempo en
trambe le figure furono, in genere, rappresentate
con pari dignità. Tuttavia, a partire dal medioevo,
divenne tipica la raffigurazione di due donne dal
le caratteristiche contrapposte: una regale e l'al
tra umiliata, una con corona e scettro e occhi
aperti e l'altra con la corona caduta, lo scettro
spezzato e la benda sugli occhi. La prima rappre
sentava la Chiesa, la seconda la Sinagoga. Non è
azzardato ipotizzare che questa iconografia anti
giudaica, e la teologia della sostituzione che la
regge, non si sarebbero mai sviluppate se fosse ri
masta viva nel corpo della comunità dei credenti
l'originaria esistenza di una Ecclesia ex circumci
sione accanto a una Ecclesia ex gentibus. Secondo
175
il messaggio più autentico del Nuovo Testamento,
la fede in Gesù Cristo morto e risorto, lungi dal
negarla, addirittura presuppone l'esistenza del
permanere dell'alleanza tra Dio e Israele. Una
comprensione piena dell'iconografia delle antiche
chiese romane di S. Pudenziana e S. Sabina di
viene sia antidoto efficace alla tentazione della
Chiesa di pensarsi come nuovo Israele, sia me
moria della propria origine e della vocazione per
manente del popolo ebraico.
176
INDICE
LA NASCITA PARALLELA
DEL CRISTIANESIMO
E DEL GIUDAISMO RABBINICO
(GABRIELE BOCCACCINI)
INTRODUZIONE . . . . . ........ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11
CAPITOLO l
CRISTIANESIMO TRA NOVITÀ
E CONSERVAZIONE ............. ................. . . )) 17
l. Gesù ebreo: ma che tipo di ebreo? . . .... ..
» 17
2 . Essenismo, enochismo
e origini cristiane ............... ........... . . . . . . . . » 20
3. Il Messia Figlio dell'Uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 27
4. I l Messia cristiano
e il perdono dei peccati ........................ . » 32
CAPITOLO 2
GIUDAISMO RABBINICO
TRA NOVITÀ E CONSERVAZIONE . . . . . . . . )) 39
l. L'origine sinaitica come mito fondante
del giudaismo rabbinico . . . . . . . . . . . ........... . .
)) 39
177
2. Daniele e l'emergere di una tradizione
proto-rabbinica . . . . . . . . . . . . . . ......... . . . . . . . . . . . . . . . )) 41
3. Il Secondo libro dei Maccabei
e il problema del martirio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 46
4. I Salmi di Salomone e l'affermarsi
del messianismo escatologico . . . ...... . . . . . . )) 50
5. Lo Pseudo-Filone e l'eternità del patto )) 54
6. Il Secondo libro di Baruc
e l'esclusività della Torah . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 58
7. Targum Neofiti, �bot e le origini
del giudaismo rabbinico ............. . . . . . . . . . . . )) 65
CONCLUSIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 71
l . Le origini parallele di cristianesimo e
giudaismo rabbinico . . . . .......................... )) 71
2. Un futuro di riconciliazione . . . . . . . . . . . . . . . . . » 77
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
(in lingua italiana) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ...... )) 83
EBREI E GENTILI
NELLA CHIESA DElLE ORIGINI
(PIERO STEFANI)
CAPITOLO l
I MOLTI VOLTI DEL GIUDAISMO
DEL I SECOLO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
178
CAPITOLO 2
LA LETTERA AI GALATI . . . . . ... . . . . ........ . . . .. ,. 119
L'assemblea di Gerusalemme ..... . . . . ... . . . . .... ,, 135
CAPITOLO 3
IL «S Ì•• E IL «NO•• EBRAICO A GESÙ ..... ,, 143
a) «Non sono stato inviato che alle pecore
perdute della casa d'Israele•• .. .. ...... . . . . . .. ,, 144
b) Romani 9-11 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ,, 151
CAPITOLO 4
LA RICONCILIAZIONE IN CRISTO . . . . . . . ,, 167
Ecclesia ex circumcisione
et Ecclesia ex gentibus . .. .. . . . . . . . . . . . . . . .... .. . . . .
... ,. 172
179